Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2019
L’ACCOGLIENZA
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
"Un certo antirazzismo è molto pericoloso".
Il giudice modello del processo su Auschwitz fu un fanatico nazista.
I Nazisti italiani.
Governo automunito estero.
L’ossitocina, ormone «empatico» che ci rende socievoli (ma anche razzisti).
Italiani. Odiatori, forse, buoni di sicuro.
Dagli al Rom.
Le discriminazioni contro gli italiani.
Antisemita chi?
Afroitaliani.
Il razzismo c’è, ma contro Salvini.
Razza carogna: gli odiatori seriali.
Gli italiani sono i più maleducati del pianeta?
Cori razzisti.
Il Sud scomparso. Dire che i napoletani son tutti ladri non è reato!
Le radici meridionali della lingua italiana.
Toga nord vs Toga Sud.
Razzisti con i soldi degli altri.
Quei razzisti come Vittorio Feltri.
Il razzismo? Dipende dalla scarsa intelligenza.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come i….
Le frontiere salvano i popoli e le civiltà.
Anche i Turisti: a casa loro.
Viaggiate informati.
Il mondo diviso da 70 muri.
I Territori che si comprano.
Africa, chi sono i nuovi padroni del Continente Nero.
Le due Curve da stadio.
Una scarica elettrica per renderci pro accoglienza.
Jerry Masslo, 30 anni fa la morte del primo bracciante d’Italia.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
Stalin e l’ebraismo: il grande eccidio.
Così vennero sterminati gli italiani di Mogadiscio.
Foibe la coscienza sporca di chi vuol far dimenticare.
Un Cristo di filo spinato per ricordare anche i rom vittime dei campi nazisti.
Nazionalisti ad Auschwitz: "Cerimonia non inclusiva, ricordare anche i polacchi".
Certo, ricordiamo pure la Shoah. Ma gli altri eccidi?
Il Ruanda di Adama Dieng e Carla Del Ponte: così partì il genocidio.
Il genocidio armeno.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
Che cosa s’intende per migranti irregolari, richiedenti asilo o rifugiati.
Samos. Le Colpe dei buonisti UE sulla Migrazione dei profughi di guerra. Frontiere colabrodo e campi indegni.
I Falsi Rifugiati.
Immigrazione o sostituzione?
Il Partito degli immigrati.
Contro lo Ius Culturae e lo Ius Soli.
Il Vademecum per espatriare illegalmente.
Immigrati: la parola alle Forze dell’Ordine.
Porte aperte giudiziarie. Cassa-cittadinanza e omo-cittadinanza.
Il Papa e l’invasione dei migranti.
L’immigrazione e lo schiavismo. L’ipocrisia di chiesa e sinistra.
"Sbarchi? Un nuovo schiavismo". Quelle voci in dissenso nella Chiesa del Cardinale Robert Sarah.
Fra i migranti le prostitute schiave.
Gli anti italiani dimenticano quando gli odiati siamo noi.
Aiutiamoli a casa di qualcun altro.
Il regno degli immigrati.
Perché a migrare in Italia non sono i più poveri.
Come arrivano i migranti in Italia.
Immigrazione e le rotte di lusso.
Gli sbarchi fantasma.
Varchi aperti. Vucjak, la Lampedusa terrestre.
Gli illeciti del Sistema dell’accoglienza.
La cultura della Solidarietà.
Il business dell’accoglienza.
Migranti morti in mare, ecco chi è a pagare per i funerali.
Irreperibili. Prima migranti, poi fantasmi. Dove finisce chi arriva in Italia?
Immigrazione e (dis)integrazione.
Migranti, ecco l'ultimo trucco per farsi mantenere i figli dall'Italia.
Pensioni Inps. Prendi i soldi e scappa.
Stranieri a scuola, sono quasi il 10 %.
Lo scuolabus dell’integrazione.
L’invasione indotta e programmata dalle organizzazioni sovranazionali.
Immigrazione. Salvini e l’accanimento giudiziario.
“Amaro” Mimmo Lucano.
Cattivi Maestri (foraggiati).
Africa: a sinistra si marcia contro il razzismo, a destra si cercano soluzioni.
Porti chiusi.
Salvataggio criminale.
Le querele dell’accoglienza.
Quelli che…“Porti aperti”.
Quelli che…porte girevoli.
Disagio ideologico.
Quelli che …I partigiani delle ONG.
Quelli che…contro Lampedusa.
Quelli che…Porte Chiuse.
Marla, la anti-Greta che denuncia le violenze degli immigrati.
Le colpe in Algeria.
Le colpe in Libia.
Le colpe in Siria.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· "Un certo antirazzismo è molto pericoloso".
"Un certo antirazzismo è molto pericoloso". Lo scrittore francese: «Non vuole difendere la diversità ma cancellarla dal mondo». Lorenza Formicola, Domenica 06/10/2019, su Il Giornale. Nel 2010, aver teorizzato il grand remplacement, la sostituzione di un popolo attraverso l'immmigrazione di massa, costò a Renaud Camus la condanna per islamofobia. Che ricorda, ci dice, con lo stesso stupore che poteva cogliere «un aristocratico al cospetto dei tribunali del Terrore del 1793». Nato a Chamalières nel 1946, Camus è stato allievo di Barthes, che gli scrisse la prefazione di Tricks libro che lo rese il santino delle belles lettres parigine. Oggi invitarlo a una manifestazione, e in certi ambienti addirittura nominarlo, è considerata «violazione di pubblico decoro». Il motivo? Va del tutto controcorrente rispetto allo spirito dell'epoca, il politicamente corretto. Nonostante le sue tesi siano saccheggiate a destra come a sinistra (estrema), Camus è escluso dal novero degli intellettuali «perbene» che lo considerano un demone nero. Discutiamo con lui della grande sostituzione etno-culturale occidentale a causa della quale molte zone sono ormai a beneficio di popolazioni allogene, principalmente di origini arabe e africane.
La sostituzione del popolo francese e di tutta l'Europa prima che del multiculturalismo è figlia dell'immigrazione?
«Immigrazione è un termine anacronistico rispetto ai nostri giorni. Ed è lemma utilizzato dai bugiardi, dai collaborazionisti. Oggi siamo vittime di invasione, colonizzazione, precipitazione etnica».
Ma per tanti non può essere biasimata, specie al cospetto della violenza diffusa.
«Violenza, delinquenza grande e piccola, ciò che chiamo nocence, sono tutti mezzi di conquista. È assurdo sostenere che non ci sia colonizzazione e conquista perché non esiste, ufficialmente, esercito conquistatore. L'esercito conquistatore sono quanti rendono impossibile la vita agli indigeni».
La «grande sostituzione» è lo scenario inevitabile o solo il più credibile?
«La grande sostituzione è semplicemente il nome di un crimine contro l'umanità in corso mentre parliamo: la distruzione degli europei, dell'Europa e della sua civiltà».
Che cosa ha scatenato la morte per inedia dell'Europa?
«Tutto inizia con la piccola sostituzione, che ha sostituito la cultura europea con una subcultura, divenendo condizione della grande sostituzione: la scuola e il suo insegnamento dell'oblio; il mondo dell'intrattenimento dalla televisione allo sport che concorre a un massiccio rincretinimento , e infine le droghe, la cui distribuzione è nelle mani dell'occupante».
Perché gli immigrati sono l'arma dei nuovi comunisti?
«Gli immigrati sono l'arma della sostituzione globale, una miscela di ultra-liberalismo finanziario e post-industriale, del taylorismo e fordismo (le componenti essenziali), del totalitarismo dei campi di concentramento, eredità di nazismo e comunismo sovietico, sì, e infine l'antirazzismo genocida».
Un po' quello che sostiene Richard Millet circa l'ideologia antirazzista, costretta ad inventarsi il razzismo per giustificare il terrore permanente che esercita su tutti, a cominciare dagli scrittori.
«Il razzismo ha rovinato l'Europa, ma l'antirazzismo l'ha resa una baraccopoli impazzita e iperviolenta. E la novità è che oggi l'antirazzismo è molto più pericoloso del razzismo. Una volta era la protezione legittima di razze particolarmente a rischio: oggi ha cambiato totalmente direzione, e indica la volontà genocida di farle sparire tutte. Di fonderle in Materiale Umano Indifferenziato (MHI), conforme ai voti alle industrie umane, che richiedono un uomo intercambiabile. Il razzismo dovrebbe cambiare significato e designare l'amore per le razze, il desiderio della loro felice conservazione per tutti. Quanti si oppongono al remplacement sono i veri ecologisti: gli unici a lottare davvero per la biodiversità umana e culturale».
Siamo nel mezzo di un «crimine contro l'umanità» e nessuno sta facendo nulla per contrastarlo?
«La gente è drogata, inebetita, paralizzata dall'eterna propaganda e da sensi di colpa. Mai nella storia gli strumenti di controllo della mente sono stati così raffinati e pervasivi. Allo sterminio degli ebrei, l'Europa ha scelto di rispondere con la distruzione degli stessi europei e della loro civiltà. Meno assassinii, ma tutto molto più organizzato. Iniziando dalla piccola sostituzione culturale in modo che nessuno si rendesse conto di niente , per arrivare alla grande sostituzione, etnica e politica. Basta guardare la linea della Merkel: per espiare la Shoah causa un olocausto al suo Paese, destinando il suo popolo alla sparizione. L'Europa non smetterà mai di pagare il crimine commesso contro gli ebrei. Eppure nella sua follia accoglie i musulmani, che ovunque fanno scappare gli ebrei».
Nella lotta per la sopravvivenza della civiltà europea, immagina una convergenza tra Israele e l'Europa?
«Assolutamente sì. Israele è il modello di tutte le affiliazioni, il loro fondamento epistemologico e morale. È anche un modello di resistenza e coraggio, intelligenza e determinazione, in un mondo ostile che vuole la sua fine. Israele è l'abisso (nell'accezione araldica e letteraria) del mondo e della civiltà occidentale».
L'islam sta diventando una religione globale capace di soppiantare il cristianesimo con la jihad?
«Il cristianesimo sta abbandonando l'Europa. Esclusi i monumenti, ha a malapena le caratteristiche di una religione vivente. Così, poco spirituale e teologica, è solo un insieme di valori, che si confà a un sindacato più che a un credo. Specie se questo deve affrontare un'altra religione, giovane, dinamica, in espansione. Adorata dai suoi fedeli perché promette loro anche il dominio del mondo».
· Il giudice modello del processo su Auschwitz fu un fanatico nazista.
Il giudice modello del processo su Auschwitz fu un fanatico nazista: smascherato dagli studi di un biografo. La notizia è di un ricercatore che, innamorato della figura di questo famosissimo giudice, voleva fargli un monumento ricostruendo la sua biografia. E invece ne ha riscoperto un lato oscuro che getta per sempre un’ombra sulla sua storia, scrive Tonia Mastrobuoni il 31 marzo 2019 su La Repubblica. Quando lesse la sentenza, dopo venti lunghissimi mesi di testimonianze strazianti, Hans Hofmeyer era visibilmente commosso. “Alcuni di noi non saranno più capaci di guardare negli occhi allegri e felici di un bambino senza che gli vengano in mente gli occhi interroganti, fiduciosi e pieni di angoscia dei bambini che finirono ad Auschwitz”. Il giudice del primo e più importante processo contro i criminali nazisti che si celebrò in Germania negli anni ‘60, l’“Auschwitzprozess” di Francoforte, morto nel 1992, è entrato nei libri di storia come un esempio di modestia, rigore ed equilibrio. Nei venti mesi di udienze Hofmeyer non si concesse mai alla stampa, tenne lontane le telecamere, governò l’aula con tono asciutto e severo. Lo Zeit lo incoronò, alla fine del maxi-processo, un “fanatico dell’oggettività”, la Welt lo definì un “modello di buonsenso”. Ma la sua biografia rimasta per sessant’anni immacolata rischia di essere stravolta da alcuni documenti scoperti di recente. Fino al 1945 Hofmeyer era stato un fervente nazista, un giudice-boia. Nell’anno e mezzo del primo processo di Auschwitz, i venti nazisti accusati di crimini indicibili videro sfilare sul banco dei testimoni circa 360 sopravvissuti del campo di sterminio polacco. Molti erano tornati per la prima volta nel Paese che li aveva perseguitati e torturati, solo per ricordare davanti al giudice le atrocità vissute. Ma alla fine delle sconfinate prove portate dal leggendario procuratore Fritz Bauer - l’uomo che scovò Adolph Eichmann - soltanto sei imputati vennero condannati all’ergastolo, undici se la cavarono con pene fino ai 14 anni. Tre furono assolti per mancanza di prove. Anche se il verdetto fu giudicato da alcuni troppo clemente, Hans Hofmeyer è considerato ad oggi un gigante. Ma forse non è un caso, tutto quel rigore, quel noto tentativo di non fare un processo troppo politico che caratterizzarono la sua gestione. Un giovane ricercatore volenteroso di aggiungere dettagli a una biografia già monumentale, Matias Ristic, si è messo a scavare negli archivi dell’Assia e ha scoperto ombre inquietanti. I documenti venuti alla luce e raccontati oggi dalla Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung dimostrano che Hofmeyer era un fanatico nazista che costrinse miriadi di donne alla sterilizzazione forzata. E Ristic ha scavato finora soltanto nei documenti che arrivano al 1939. Poi Hofmeyer fu promosso. I documenti non raccontano la storia di un giudice giusto, ma di un carnefice spietato. Nel dodicennio della dittatura di Hitler, l’igiene della razza applicata a disabili, malati psichiatrici, epilettici, ciechi e sordi fece finire tra 300 e 400mila esseri umani sotto i ferri dei macellai del regime; furono 5.000 le morti per complicazioni da sterilizzazione. Nei testi che riguardano Hofmeyer c’è il caso di una bambina di un villaggio costretta alla sterilizzazione perché si era ammalata di meningite. Che non è ereditaria, com’è noto. Ma il giudice sentenziò, lapidario, che la bambina era “completamente stupida”, che “aveva fallito su tutta la linea” a scuola. E la fece sterilizzare. Altri processi riguardano bambini con problemi di socializzazione o con turbe psichiche. Hofmeyer, convinto sostenitore dell’eugenetica, della purezza della razza ariana, insistette persino con gli epilettici. Che il giudice del primo processo di Auschwitz avesse esercitato anche durante il Terzo Reich era noto. Anzi, quando furono scelti i giudici, il primo fu scartato perché aveva avuto dei parenti perseguitati dai nazisti e si temeva non potesse essere imparziale. Hofmeyer fu scelto proprio perché aveva lavorato durante il nazismo ma senza che fossero emerse ombre particolari. E uno degli avvocati dei sopravvissuti che testimoniarono all’Auschwitzprozess, Henry Ormond, definì poi “esemplare” il suo lavoro. Politicamente, quei processi furono la prima, vera occasione per la giovane e democratica Bundesrepublik di dimostrare al resto del mondo che aveva intenzione di fare chiarezza sull’Olocausto. Hofmeyer stesso si rivolse agli imputati ricordando che “anche nella più feroce delle dittature non si possono dimenticare gli obblighi morali verso altri esseri umani”. Quelli che il giudice-boia stesso si era dimenticato per decenni.
· I Nazisti italiani.
Anna Bottinelli, un’italiana alla guida dei «Monuments men»: i cacciatori delle opere trafugate dai nazisti. Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 da Corriere.it. Un’italiana di 32 anni — Anna Bottinelli — va alla guida della «Monuments Men foundation for the Prevention of Art», istituzione mondiale con l’obiettivo di ricercare e restituire ai Paesi proprietari le opere trafugate durante la guerra e far conoscere al mondo vite e imprese dei «Monuments men». Ovvero coloro che — soldati, uomini di Stato, prelati, partigiani — tra il 1939 e il 1945 si adoperarono, con coraggio e a rischio della vita, per difendere l’arte depredata dai nazisti. Storie come quella ricordata nel celebre film diretto e interpretato da George Clooney, appunto «Monuments men». Tra i nomi italiani, spiccano quelli di papa Montini (all’epoca monsignore) e gli storici dell’arte e dirigenti dei Beni culturali tra Roberto Siviero, Pasquale Rotondi e un giovanissimo Carlo Giulio Argan, poi sindaco di Roma. Riuscirono a salvare gran parte del patrimonio artistico italiano — il più vasto al mondo, tra pubblico, privato e della Chiesa — ideando piano in bilico tra spy stories e romanzi di guerra.
Bottinelli — che guiderà l’istituzione con sede a Dallas, negli Usa — ha un curriculum lungo così e una poderosa preparazione accademica. Fiorentina, laurea alla John Cabot University di Roma e poi al Courtauld Institute of Art di Londra. Nel 2014 (scrive il Messaggero nell’edizione odierna) è entrata nella Fondazione dei Monuments Men» diventandone, nel giro di tre anni, direttore della ricerca. E da pochi giorni anche presidente. Suo marito è Robert M. Edsel, autore del saggio storico da cui è tratta la sceneggiatura del film di Clooney ed ex presidente della Fondazione. Con Edsel ha preso parte alla restituzione di molte opere d’arte riconsegnate all’Europa. Senza contare la realizzazione di saggi e documentari. «Sono molto entusiasta dell’opportunità di guidare la Monuments Men Foundation nel futuro», ha affermato Bottinelli. «Non vedo l’ora di approfondire le relazioni della Fondazione con le principali organizzazioni nel settore dei beni culturali sia negli Usa e sia all’estero — ha detto Bottinelli dopo l’ufficializzazione della nomina —. Siamo particolarmente entusiasti delle nostre relazioni di lunga data con l’Archivio Nazionale Usa e i carabinieri del Nucleo tutela del patrimonio culturale. C’è molto ancora da fare e il 2020 sarà un anno di intenso lavoro».
Blitz contro estremisti di destra, 19 indagati in tutta Italia. Enrico Ferro per “la Repubblica” il 29 novembre 2019. Smalto nero come la pece, cuore dello stesso colore. Antonella Pavin, 48 anni, moglie, madre, impiegata in uno studio contabile e, allo stesso tempo, sergente di Hitler, fiera nazista, ritenuta tra i fondatori del Partito nazionalsocialista italiano dei lavoratori, nonché reclutatrice di altri odiatori negazionisti come lei. Vive in una casa sperduta nella campagna di Curtarolo, a nord di Padova. Il marito è autotrasportatore, il suocero la osserva con l' aria sorpresa di chi pensa "che briccona".
«Sono una fan di Hitler, e allora? Penso che gli ebrei siano la rovina del mondo, è un reato?».
Sostenerlo è una follia.
«Sono le mie idee. Questo è un processo alle idee».
Davvero lei recluta nazifascisti disposti a impugnare le armi?
«Assolutamente no. È una montatura, scaricano su di me».
Le accuse si basano sulle prove raccolte dalla polizia. I suoi post sono ancora online.
«Quelle sono le mie idee e non le rinnego. Uno non può avere un' idea politica? Tutti i giorni c' è gente che loda Salvini o Che Guevara».
Invocare lo sterminio, negare i lager, inneggiare a Hitler, è altro.
«I sionisti comandano il mondo, guidano le banche, decidono sulle politiche dell' immigrazione. Sono la rovina dell' umanità. L' Olocausto è una fandonia».
Ha mai ascoltato Liliana Segre?
«Lasciamo perdere Liliana Segre, ne avrei da dire. Ad Auschwitz c' erano piscina, teatro, cinema. Non è andata come la raccontano».
Suo marito la pensa come lei?
«No, lui vota Salvini».
Lei cosa vota?
«Io non voto. CasaPound mi fa schifo, Forza Nuova l' ho abbandonata. Ci sono stata due anni ma non ne voglio più sapere. Però non dico perché».
È vero che nascondeva le bandiere dietro agli armadi, che in famiglia non sapevano nulla?
«I libri erano lì (indica un mobile), le bandiere le ho ordinate via internet scegliendo il disegno, le magliette con la croce celtica le indossavo anche a casa. Mio marito sa tutto».
Si è arrabbiato?
«Beh, sì, la Digos ci è piombata in casa alle 5 del mattino. Hanno perquisito tutto, anche il mio ufficio».
Aveva molti contatti con Rizzi?
«Ci scrivevamo, ci siamo sentite al telefono ma niente di particolare. Nessun incontro, i rapporti erano solo via chat. E il partito è durato da febbraio 2017 a novembre 2018».
L' accusano di essere sovversiva.
«Io non ho ucciso nessuno, non ho lanciato bombe. Mi stanno trattando come se fossi Riina ma fare male è un' altra cosa. Vabbè, avrò scritto qualcosa di forte. Che sarà mai».
Salvo Palazzolo per repubblica.it il 29 novembre 2019. L’inchiesta sul nuovo "Partito nazionalsocialista italiano dei lavoratori", che ieri ha portato a 19 perquisizioni, stava per saltare. Una talpa avvisò “miss Hitler”, Francesca Rizzi, una delle principali indagate: “Un mio amico poliziotto di Torino mi ha detto che sono attenzionata dagli sbirri – sussurrò la donna ad Antonella Pavin, l'ideologa del gruppo – dobbiamo essere prudenti, bisogna far sparire le foto dal profilo Facebook Manu Manu o addirittura oscurare il sito”. Le indagini della Digos di Enna, coordinate dal Servizio antiterrorismo della polizia, hanno identificato la talpa in un assistente capo che era in servizio all’ufficio di gabinetto della questura Torino, si tratta di L.N., 54 anni, che è stato indagato per rivelazione di notizie riservate e accesso abusivo a un sistema informativo. Per gli investigatori, coordinati dalla procura di Caltanissetta, è stata una corsa contro il tempo: dopo la soffiata, avvenuta nel novembre dell’anno scorso, gli indagati si erano fatti più prudenti nelle loro relazioni interne ed esterne. Adesso, i poliziotti stanno esaminando il materiale sequestrato in tutta Italia, soprattutto telefonini, tablet e computer: c’è da ricostruire tutta la rete del nuovo partito nazista. Uno degli indagati è stato arrestato, si tratta di Maurizio Aschieri, 57 anni, di Monza: nella sua abitazione sono stati trovati un fucile a pompa e munizioni da guerra. All’esame della polizia ci sono anche altri fucili sequestrati nelle abitazioni degli indagati: ufficialmente, sono armi per il Softair, ma potrebbero aver subito delle modifiche.
La genesi dell’indagine. L’ultima rete neonazista è emersa quasi per caso: i poliziotti della Digos di Enna stavano indagando sui colpi di pistola sparati l’anno scorso contro le finestre del centro migranti “Don Bosco 2000” di Pietraperzia, sono arrivati a un giovane della provincia che insultava i gestori della struttura. Il primo indagato di questa storia è lui, si chiama Carlo Lo Monaco, ha 30 anni, è un ragazzo borderline che attualmente è in cella per aver assassinato il padre Armando. I suoi contatti hanno portato alla rete neonazista. Le prime intercettazioni hanno confermato la pericolosità del gruppo. Il loro motto era: "Invisibili, silenziosi e letali". Dicevano: "Bisogna formarsi militarmente, avere maggior sicurezza uno dell'altro, essere veramente di supporto operativo o anche solamente politico alla bisogna, avere dalla nostra l'effetto sorpresa, avere la conoscenza del territorio, quindi colpire e ritirarsi sui monti". La prima azione doveva essere una molotov contro una sede dell'associazione nazionale partigiani di Roma o Milano.
Salvo Palazzolo per repubblica.it il 29 novembre 2019. Avevano già scelto il motto: «Invisibili, silenziosi e letali». E la prima azione: una bottiglia incendiaria contro una sede dell' Associazione nazionale partigiani d' Italia, a Milano o a Roma. Con tanto di depistaggio: volevano reclutare un marocchino per il raid. Era tutto pronto per il nuovo "Partito nazionalsocialista italiano dei lavoratori", movimento d' ispirazione apertamente filonazista, xenofoba ed antisemita. Ideologhe due donne, che diffondevano il verbo dell' estrema destra via social: Antonella Pavin, 48 anni, originaria di Monza, residente a Curtarolo (Padova), e Francesca Rizzi, 36enne genovese che vive a Pozzo D' Adda (Milano). L' addestramento dei nuovi adepti era affidato a un ex boss della 'ndrangheta, Pasquale Nucera, 64 anni, che è stato anche collaboratore di giustizia e referente di Forza Nuova per il ponente ligure, dove risiede da anni. Lui aveva proposto l' attentato all' Anpi: «Potremmo lanciare una molotov». Sono in totale 19 le persone indagate a piede libero dalla procura di Caltanissetta e dalla Digos di Enna per i reati di costituzione, partecipazione ad associazione eversiva ed istigazione a delinquere.
Il reclutamento online. Nel giro di pochi mesi, era nata una vera propria rete attraverso Messenger di Facebook e una chat privata di WhatsApp chiamata "Militia", dove venivano addestrati i nuovi aderenti al partito. Ieri mattina sono scattate perquisizioni in tutta Italia, coordinate dal Servizio per il contrasto dell' estremismo e del terrorismo interno della polizia di Stato (un' articolazione della Direzione centrale della polizia di prevenzione). Operazione "Ombre nere" è stata ribattezzata. «Gli indagati avevano un elevato grado di fanatismo violento - spiega Eugenio Spina, il direttore dell' antiterrorismo - un fanatismo intriso di xenofobia e nostalgie filonaziste». A casa di un indagato, residente in Lombardia, è stato trovato un fucile a pompa: per lui è scattato l' arresto. In altre abitazioni sono stati sequestrati fucili per il softair, balestre, coltelli, cazzottiere, e tanto materiale inneggiante al fascismo e al nazismo. È saltato fuori anche il programma del Movimento nazionalsocialista dei lavoratori, che già aveva fatto la sua comparsa nel 2002 e si è presentato diverse volte ad alcune elezioni amministrative. Nei verbali di sequestro della Digos si dà atto soprattutto di alcuni volantini dai toni pesanti, con svastiche e insulti ai parlamentari Emanuele Fiano e Laura Boldrini. Tutto il materiale andrà all' attenzione del sostituto procuratore di Caltanissetta Pasquale Pacifico, che coordina l' inchiesta.
La talpa nella polizia. La rete puntava ad accreditarsi a livello internazionale. Erano stati avviati contatti con "Aryan Withe Machine - C 18" (C sta per combattenti, 1 e 8 indicano la prima e l' ottava lettera dell' alfabeto, le iniziali di Adolf Hitler), gruppo che è espressione del circuito neonazista inglese "Blood & honour". Sono emersi contatti anche con il partito d' estrema destra lusitano "Nova Ordem social". Negli ultimi tempi, però, il gruppo dirigente del partito neonazista aveva iniziato ad essere più prudente: «Un amico poliziotto di Torino mi ha detto che sono attenzionata dagli sbirri - aveva sussurrato al telefono Francesca Rizizi ad Antonella Pavin - bisogna essere prudenti e fare sparire le foto da Facebook ». Per gli investigatori è stata una corsa conto il tempo, per evitare che l' indagine venisse bruciata. E, adesso, anche il poliziotto (un assistente capo) è indagato, per rivelazione di notizie riservate e accesso abusivo a un sistema informatico.
L' attentato ai migranti. Di amici ne avevano tante le ideologhe del nuovo partito dell' estrema destra. La rete è emersa quasi per caso: i poliziotti della Digos di Enna stavano indagando sui colpi di pistola sparati l' anno scorso contro le finestre del centro migranti "Don Bosco 2000" di Pietraperzia, sono arrivati a un giovane della provincia che insultava i gestori. Il primo indagato di questa storia è lui, si chiama Carlo Lo Monaco, ha 30 anni, è un ragazzo borderline attualmente in carcere per aver assassinato il padre Armando. I suoi contatti hanno portato alla rete neonazista.
Neonazisti, dalla «sergente» alla «miss»: le donne al centro del gruppo degli estremisti. Salvo Toscano per corriere.it il 28 novembre 2019. C’era anche una Miss Hitler nel gruppo che voleva costituire un movimento d’ispirazione apertamente filonazista, xenofoba ed antisemita in Italia. Il nascituro «Partito Nazionalsocialista Italiano dei Lavoratori» aveva all’interno le sue donne, affascinate da idee filonaziste e antisemite. E almeno una in una posizione apicale. È uno degli aspetti che emerge dall’inchiesta «Ombre Nere» coordinata dalla Procura distrettuale di Caltanissetta che ha portato oggi a 19 perquisizioni in tutta Italia. Ai vertici degli estremisti di destra finiti nell’indagine, secondo gli inquirenti c’è anche una donna. Si tratta di un’impiegata di 48 anni che abita a Curtarolo. Una madre di famiglia, con marito e figli, votata al nazifascismo. La donna, incensurata, faceva parte del direttivo nazionale dell’autonominato «Partito Nazionalsocialista Italiano dei lavoratori». Si faceva chiamare ‘Sergente maggiore di Hitler’ e aveva il compito di reclutamento e diffusione di ideologie xenofobe. La Digos di Padova, che ha collaborato con quella di Enna, oggi ha proceduto a una perquisizione nei suoi confronti. In casa sua gli investigatori hanno trovato materiale per la propaganda, striscioni con svastiche e altri loghi antisemiti, bandiere naziste. La donna, che come gli altri del gruppo avrebbe usato un social network russo per chattare senza essere tracciata, aveva partecipato a manifestazioni di estrema destra in Veneto. I suoi familiari non sarebbero stati a conoscenza della sua attività politica e della sua passione per il Fuhrer.
La miss. E oltre alla «Sergente Maggiore» c’era anche una «Miss Hitler» nel gruppo. Si tratta di una ventiseienne residente a Pozzo d’Adda, in provincia di Milano. Secondo gli investigatori milanesi, delegati dalla Procura di Caltanissetta, la ragazza l’estate scorsa, ad agosto, avrebbe preso parte come oratrice a un convegno di estremisti di destra a Lisbona. L’obiettivo di quel vertice era quello di creare un’alleanza transnazionale tra i movimenti d’ispirazione nazionalsocialista di Portogallo, Italia Francia e Spagna. La giovane lombarda avrebbe anche partecipato a un concorso on line, sul social network russo ‘VK’, vincendo il titolo di ‘Miss Hitler 2019’. E c’è anche un’altra donna nel gruppo. Infatti l’attenzione degli investigatori è toccata anche a una coppie residente a Vicenza, originaria della Sicilia, 42 anni lui, 40 la moglie. E infine c’è una donna di Caldiero, nel Veronese. Nella sua abitazione è stato recuperato il documento programmatico del gruppo, oltre a scritti, materiale informatico, cimeli riferiti al nazionalsocialismo, bandiere con la croce uncinata e decine di libri legati al periodo nazista.
Neonazisti volevano fondare un partito, con tanto di "Miss Hitler". Le Iene il 28 novembre 2019. Digos di Enna e Servizio Antiterrorismo Interno hanno perquisito 19 persone, che volevano creare un partito di ispirazione nazista: una donna il capo. Tra i fermati, che dicevano di avere armi a disposizione, anche un esponente della ’ndrangheta legato a Forza Nuova. Organizzavano anche "Miss Hitler". Nina Palmieri aveva incontrato il “prof nazista” di una scuola superiore in Veneto, che voleva “gassare” Liliana Segre che ora è stato sospeso. Avevano già anche scelto il nome del loro nuovo movimento politico: "Partito Nazionalsocialista Italiano dei Lavoratori". Un nome che evoca il passato macabro del Nazismo, al quale si ispiravano pienamente. Digos di Enna e Servizio Antiterrorismo Interno hanno condotto 19 perquisizioni in tutta Italia, verso altrettanti estremisti di destra, a quanto pare guidati da una donna veneta di 55 anni. Tra i coinvolti, anche uno ’ndranghetista calabrese, ex legionario, esponente del partito Forza Nuova in Liguria. I seguaci di Hitler, stando ad alcune intercettazioni degli inquirenti, avevano anche disponibilità di armi ed esplosivi, e facevano campagna di reclutamento sui social. E sempre sui social il gruppo faceva reclame a un concorso molto discutibile: quello di "Miss Hitler", che sarebbe stato vinto da una 26enne che non aveva problemi a farsi ritrarre con il suo tatuaggio inneggiante al Nazismo. Noi de Le Iene, con Nina Palmieri, avevamo “beccato” un altro simpatizzante delle teorie di estrema destra, un professore veneto delle scuole superiori (come potete vedere nel servizio che vi riproponiamo qui sopra). Sebastiano Sartori, questo il suo nome, diceva di apprezzare i campi di concentramento in Libia e i “termovalorizzatori” verso i quali avrebbe voluto indirizzare la senatrice a vita ebrea Liliana Segre. Contro “Herr Doktor”, come Sartori si fa chiamare (usando lo pseudonimo del numero due di Hitler, il ministro della Propaganda Goebbels), si è mossa sia la Procura che l’allora ministro dell’istruzione Bussetti, che aveva manifestato l’intenzione di avviare un’ispezione nei suoi confronti. Nina Palmieri ci ha raccontato di questo professore un po’ sui generis, che paragona il governo a chi ha gasato i rom nella seconda guerra mondiale e che è molto “critico” nei confronti del presidente della Repubblica Mattarella e della Costituzione: “Un libro di merda buono per pulircisi il culo”. Quando la Iena lo ha incontrato lui è fuggito davanti alle nostre telecamere, rifiutandosi di rispondere e di difendere quelle sue idee che invece sui social tanto propugna. E dopo il nostro servizio, come vi abbiamo raccontato in questo articolo, il prof nazista è stato sospeso dall’insegnamento: potrà tornare a insegnare, speriamo non le sue teorie, a partire da febbraio.
Annalisa Cangemi per fanpage.it il 7 dicembre 2019. "Serve gente come Borghezio e Bannon", questa la proposta di una delle attiviste del partito neonazista, fatta mentre conversava al telefono con ‘miss Hitler', Francesca Rizzi, la responsabile per il Nord del gruppo. Le idee e le dichiarazioni dell'ex europarlamentare leghista e dell'ex capo stratega del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e fondatore dell'organizzazione internazionale "The Movement", che promuove il nazionalismo economico e il populismo di destra. avevano fatto breccia nel cuore degli attivisti di estrema destra. Nel novembre dell’anno scorso, come ha ricostruito Salvo Palazzolo su ‘la Repubblica', proprio mentre si affermava il movimento di Steve Bannon, i neonazisti puntavano ad allargare il movimento, cercando nuove alleanze, che avessero soprattutto il comune denominatore dell'odio verso gli ebrei. Contemporaneamente se la prendevano con lo scrittore Roberto Saviano: "Ha la protezione degli ebrei", diceva l’esponente del partito in quella telefonata con Francesca Rizzi. "Miss Hitler" aveva il sogno di organizzare un partito: la Digos la seguiva da tempo, anche per via dei suoi post sui social network. "Questi subumani devono sparire dalla faccia della terra. Con i forni ci vorrebbe troppo tempo" scriveva sul suo account attaccando Liliana Segre e Laura Boldrini. Le intercettazioni della Digos di Enna e del servizio Antiterrorismo interno hanno messo in luce i piani degli esponenti del ‘Partito nazionalsocialista italiano dei lavoratori'. Attorno a ‘miss Hitler' gravitava infatti una galassia di singoli e gruppi che volevano organizzare azioni eclatanti. Come il presidente di un fantomatico movimento ‘La rinascita dell’Italia', operativo in provincia di Roma, che chiedeva a Francesca Rizzi due persone per fare un raid notturno in Prefettura o in Comune o nella sede di Equitalia: "Così le facciamo saltare in aria, e non facciamo danni a nessuno". "Miss Hitler" era in contatto anche con un uomo residente in provincia di Cuneo che si vantava di avere combattuto in Africa come mercenario, dove "sparava alla gente e tagliava le teste". "Dobbiamo creare un nostro esercito", ripeteva Antonella Pavin, la contabile di Curtarolo (Padova) che era l'ideologa del nuovo partito: "Bisogna creare un nostro esercito perché purtroppo l’esercito e le forze dell’ordine sono, per tre quarti, fedeli allo Stato e non si ribelleranno mai". Ma le donne del partito neonazista puntavano soprattutto sul presidente del movimento ‘La rinascita d’Italia': "Ci porterebbe a fare una valanga di tesserati". Dalle intercettazioni è emersa anche una spaccatura nel gruppo, a proposito dell'atteggiamento da tenere nei confronti dell'Islam. La Rizzi voleva seguire alla lettera il pensiero di Hitler: "Ha affermato che era meglio se a vincere fosse stato l’Islam anziché il cristianesimo". Un’altra esponente del partito ribatteva: "Gli islamici sono comandati dagli ebrei". Ma per la Rizzi "L’Isis è una creatura ebraica, e gli islamici non c’entrano nulla con l’Isis", e aggiungeva che "I musulmani che aderiscono all’Isis sono pagati dagli ebrei".
Monica Serra per “la Stampa”. il 29 novembre 2019. Ce l' ha con tutti. Anche Matteo Salvini, nei suoi post farneticanti, diventa una "m sionista". Dietro ogni male del mondo per lei ci sono gli ebrei, contro i quali può arrivare a invocare la "castrazione di massa". Non si è fermata neppure ieri mattina, quando gli agenti della Digos milanese sono andati a notificarle l' avviso di garanzia. Se l' è presa pure con loro, colpevoli di difendere "i bastardi", di mettere a tacere le voci contrarie, di negare la verità. La ventiseienne Francesca Rizzi ha parlato, inveito, non ha smesso per un istante, nell' appartamento in cui vive a Pozzo D' Adda, nel Milanese. Per la sua comunità, quella del social network russo VK, crocevia di estremisti, ripetutamente bannati da Facebook, Fra-Fra-Fra-Fra è solo "Miss Hitler 2019". Il titolo se l' è guadagnato partecipando a un contest internazionale, anche grazie ai numerosi tatuaggi ispirati alla simbologia nazista che mette in bella mostra nelle foto. A partire dall' enorme aquila e dalla croce uncinata impressa al centro delle sue spalle. Vive di piccoli espedienti e sembrerebbe avere un pessimo rapporto anche coi suoi familiari. Gli investigatori che l' hanno tenuta per un anno e mezzo sotto osservazione hanno accertato che, a dispetto di una vita sociale di fatto inesistente, la ventiseienne dai lunghi capelli biondi sempre raccolti in una coda alta, è super attiva sui social. Le sue invettive non hanno risparmiato neppure la senatrice Liliana Segre. Anche alla "Conferenza Nazionalista" del 10 agosto scorso a Lisbona, si è distinta come relatrice per la sua accesa retorica antisemita. Intercettata dagli investigatori, ha pronunciato frasi di una violenza difficile da immaginare. A casa sua gli agenti hanno sequestrato manuali contro l' ebraismo e sono numerosi i suoi post sui social segnalati anche dall' Osservatorio antisemitismo.
P.F. per ''Il Messaggero'' il 29 novembre 2019. «Possiamo avere a disposizione armi e esplosivi, sforneremo soldati pronti a tutto. Presto costituiremo il Partito Nazionalsocialista Italiano dei Lavoratori». Il nuovo aspirante fuhrer in salsa italiana ha il volto di una donna: di giovani ragazze o di quello di una madre di 45 anni che si definiva sergente di Hitler. Donne che con i loro suoi seguaci erano pronte ad irrompere in tutta Italia sulla scena dell'estremismo di destra con un proprio soggetto politico mentre sui social si arruolavano nuove leve: ad addestrarli c'era un ex pentito della ndrangheta. Si avvicina molto ad un romanzo di fantapolitica la vicenda del gruppo di 19 estremisti indagati in tutta Italia, per costituzione e partecipazione ad associazione eversiva ed istigazione a delinquere. A rivelare il sottobosco filonazista, con un insolito vertice al femminile, sono state le indagini della Digos di Enna e del Servizio Antiterrorismo Interno che hanno portato a perquisizioni in tutta Italia. Il movimento, farcito di retorica antisemita e xenofoba, affascinava gli estremisti neri da Nord a Sud, dalla Sicilia al Veneto. E tra loro c'erano diverse donne: dalla 26enne che avrebbe partecipato e vinto il titolo di Miss Hitler', all'impiegata di un'azienda, una mamma 45enne originaria di Curtarolo (Padova) che evidentemente conduceva una doppia vita. Nessuno avrebbe mai pensato che Antonella Pavin, incensurata, fosse talmente appassionata di Hitler da essere una dei leader del partito, taed essere soprannominata la sergente di Hitler. Sulla sua pagina Facebook la donna scriveva: «Il nazionalsocialismo trionferà in tutta Europa. Hitler è immortale». Poi sul social network russo VKontakt la 48enne si scatenava. «La gente mi critica perché sono nazista. Lo sarò fino alla morte perché quando morirò sarò contenta di aver ripulito il mondo. Sempre Heil Hitler e rogo per gli infami». La donna ha anche confermato di essere «una fan sfegatata di Hitler» e anche le sue idee («è tutto inventato dagli ebrei. Nei campi di concentramento c'erano cinema e piscine»). Le adepte del fuhrer spesso vestivano in modo da poter rendere visibili i simboli del loro fanatismo, con svastiche, marchi delle SS e croci celtiche. «Io sposerei un ebreo solo per torturarlo giorno dopo giorno», diceva una di loro. Tutti erano in contatto attraverso una chat chiusa denominata «Militia» e finalizzata all'addestramento dei militanti. In particolare, questo ruolo era affidato ad un pregiudicato calabrese, ex «legionario» ed esponente di spicco della ndrangheta, con un passato da collaboratore di giustizia e già referente di Forza Nuova per il ponente ligure. «Sono in grado di acquistare armi con un prezzo vantaggioso», diceva lo ndranghetista, alludendo con altri all'intenzione di «sfornare soldati pronti a tutto» mentre sui social si reclutavano nuovi adepti. Cercavano legami anche con gruppi neonazi all'estero.
Ottavio Cappellani per ''la Sicilia'' l'1 dicembre 2019. Questa rubrica è in missione per conto di Dio. Così, quando abbiamo saputo dei nazisti di Enna, appena abbiamo finito di rotolarci a terra dalle risate, la mente è corsa subito ai nazisti dell'Illinois del film "Blues Brother", e noi li odiamo i nazisti di Enna. La trama dell'operazione "Ombre Nere" sembra proprio quella di un film di nazisploitation, un sottogenere cinematografico che metteva insieme spogliarelliste cattive, e ambientazione di guerra, e che ha sfornato film culto come "Ilsa, la belva delle SS" o "La bestia in calore". Non ci credete? Facciamo un riassunto che è già un soggetto per la prossima trasposizione cinematografica. L'inchiesta nasce da un fattaccio di sangue a Pietraperzia, un tizio nazista, appartenente al partito nazionalsocialista dei lavoratori, il cui motto è "invisibili, silenziosi e letali" spara dei silenziosissimi colpi di pistola contro il centro migranti "Don Bosco 2000". Attualmente il tizio è in cella per avere ammazzato, non troppo invisibilmente, il padre. Si scopre che il letale siciliano ha fra i suoi contatti "Miss Hitler", una finta bionda con un'aquila e una svastica tatuate sulla schiena, eletta, appunto, Miss Hitler in un concorso svoltosi sul social russoVk. L'operazione della Digos sta per saltare, "Miss Hitler" avverte "Il sergente maggiore di Hitler", una impiegata cinquantacinquenne di Curtarolo, che "un mio amico poliziotto di Torino dice che siamo sotto osservazione. Dobbiamo cancellare l'account Manu Manu", evidentemente l'account Manu Manu era il centro di questa cospirazione e non un account di una massaggiatrice, Manuela, specializzata nell'happy end. L'addestratore delle milizie che dovevano, non so, invadere Petralia Sottana, era un ariano appartenente alla ndrangheta, poi pentito e collaboratore di giustizia, che tentava di vendere al gruppo un kalashnikov per 140 euro, ma nessuno se lo voleva comprare. e quindi il ferocissimo e impavido addestratore proponeva "lanciamo una bottiglia incendiaria contro un centro migranti", "bellissimo, lo fai tu?", "no, facciamolo fare a un marocchino". Tratto da una storia vera.
Salvo Palazzolo per "la Repubblica" il 2 dicembre 2019. L'ultima rete neonazista scoperta dalla polizia era parte di un progetto ambizioso e soprattutto segreto, finanziato da un esponente politico rimasto nell'ombra: "Vuole la riunificazione di tutte le destre, da Nord a Sud", diceva uno degli indagati intercettato dalla Digos di Enna, un genovese di 58 anni, che si sentiva spesso con Francesca Rizzi, la vincitrice del concorso "Miss Hitler", l'ideologa del "Partito nazionalsocialista italiano dei lavoratori" finita al centro di un'indagine della procura di Caltanissetta per i reati di costituzione di un'associazione sovversiva ed istigazione a delinquere. Il genovese era l'uomo di collegamento, il tramite che intratteneva i contatti con una misteriosa cabina di regia animata da quel politico, probabilmente del Sud, così sembra emergere dalle intercettazioni. Adesso, è materia d'indagine per il servizio antiterrorismo della polizia.
"Mi hanno comprato". "Due anni fa avevo rifiutato - spiegava al telefono il genovese a Miss Hitler, era il gennaio dell'anno scorso - ma a marzo dovrò andare in meridione, mi hanno ripescato. Non ti dico che mi hanno convinto, ma mi hanno comprato". Parlava a mezze frasi, non faceva nomi. La missione che volevano affidargli era però abbastanza chiara: "In meridione - diceva - c'era un grosso partito con un esponente di spicco che venne anche inquisito, mi notò su Facebook: mi contattarono e mi dissero, "vieni giù perché vorremmo che tu facessi un'unione fra Nord e Sud, noi non la possiamo fare perché siamo politicamente esposti, tu invece sei una persona invisibile e va tutto bene"". Chi era il misterioso ispiratore della grande riunificazione della galassia nera? L'uomo intercettato offre un indizio: "Questo signore adesso è in Argentina, ma tornerà indietro. E mi vuole a tutti i costi". L'esponente del partito neonazista era stato invitato ad una "riunione in un castello, dove ci sono i sovvenzionatori dei partiti. Sarò ospite lì". In quella conversazione registrata, c'è anche un altro indizio per chi indaga: all'incontro nel castello era atteso "uno degli ultimi soldati ancora in vita della Repubblica sociale". Un vero rompicapo.
Botte, logistica e webmaster. Il genovese è risultato uno degli organizzatori più attivi del partito neonazista. A Francesca Rizzi comunicava di avere reclutato un esponente di Forza Nuova per la "logistica": un tipo dai modi alquanto sbrigativi, "uno che va a menare, fa parte di squadre di sfondamento e roba varia". Miss Hitler puntava invece sulla disponibilità del webmaster di un partito presente all'interno della Regione Liguria, non è ancora chiaro quale: "Per raggiungere le persone, per dare supporto logistico, senza alcuna iscrizione al partito, così mi ha assicurato". I neonazisti volevano fare il salto di qualità: "Non possiamo continuare a vederci nei bar se dobbiamo andare in grande", arringava Francesca Rizzi. Il webmaster aveva chiesto solo un favore in cambio: il servizio d'ordine dei neonazisti alle manifestazioni del suo partito.
L'ex pentito 'ndranghetista. Le perquisizioni sono proseguite anche ieri, in un'abitazione nel Sud est della Francia, che è nella disponibilità dell'ex 'ndranghetista ed ex collaboratore di giustizia Pasquale Nucera, anche lui fra i diciannove indagati: due giorni fa, nella sua casa in Liguria, erano stati trovati un fucile calibro 9 flobert, due moschetti e diversi coltelli. Nucera è stato denunciato per detenzione illegale di armi. Si continua a indagare sulla sua rete di relazioni: in Liguria, dove vive ormai da anni, è stato uno degli animatori di Forza Nuova. E chi era il suo contatto con il "Partito nazionalsocialista italiano dei lavoratori"? Il genovese che doveva occuparsi di riunificare tutte le destre. "Da Nord a Sud". Adesso, i principali indagati di questa storia sono rinchiusi in casa. Ieri pomeriggio, Francesca Rizzi ha persino chiamato i carabinieri per allontanare alcuni cronisti che si erano presentati a Pozzo D'Adda, nel Milanese. Ma questa volta neanche una parola. Lei che ogni giorno era in cerca di proseliti sui social: "Il mio Dio è Hitler".
Siena, il professore nazista che elogia Hitler su Twitter. Il rettore non interviene: "Opinioni personali". Polemica sui social per i post antisemiti e filonazisti del docente di filosofia del diritto dell'ateneo sense Emanuele Castrucci. La Repubblica il 02 dicembre 2019. Un professore universitario fa apologia del nazismo su Twitter e il rettore sminuisce e non prende provvedimenti: succede a Siena, il professore si chiama Emanuele Castrucci, il rettore Francesco Frati. Succede che il docente di Filosofia del diritto e filosofia politica pubblica una serie di post antisemiti e a favore di Adolf Hitler sul suo profilo Twitter. In uno degli ultimi c'è una foto del dittatore nazista con il suo pastore tedesco Blondi e la scritta: "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo". E quando si è scatenata la bufera sul suo account non ha trovato di meglio che rispondere: "I gentili contestatori del mio tweet non hanno compreso una cosa fondamentale: che Hitler, anche se non era certamente un santo, in quel momento difendeva l'intera civiltà europea". Il 20 novembre, invece, aveva postato una frase di Corneliu Zelea Codreanu, il fascista rumeno fondatore della Guardia di ferro. Una frase antisemita che non ha bisogno di commenti: "Non c'è nulla che i giudei temano più dell'unità di un popolo". Ma sono solo alcune delle espressioni di esaltazione del nazismo e di antisemitismo del professore. Alla fine gli utenti di twitter si sono rivolti al rettore dell'università di Siena chiedendo spiegazioni e la risposta del rettore è sconcertante: "Il prof. Castrucci scrive a titolo personale e se ne assume la responsabilità. L'università di Siena, come dimostrato in molteplici occasioni, è dichiaratamente antifascista e rifugge qualsiasi forma di revisionismo storico nei confronti del nazismo".
“Liliana Segre? In un inceneritore”, sospeso il prof dei post pieni di odio. Le Iene il 23 novembre 2019. Ha scritto post su Facebook ricolmi di odio contro la Costituzione, il presidente della Repubblica e Liliana Segre, la senatrice a vita sopravvissuta alla Shoah. Dopo il servizio di Nina Palmieri, il prof razzista di Venezia non potrà insegnare per 6 mesi. “Liliana Segre sta bene in un simpatico termovalorizzatore”. Scriveva così qualche tempo fa contro la senatrice a vita Sebastiano Sartori, il prof di Venezia famoso per i suoi post razzisti e xenofobi su Facebook. Oggi è sospeso dal suo incarico per 6 mesi. Di queste sue esternazioni a mezzo social e di cosa ne pensavano i suoi studenti, se ne era occupata Nina Palmieri nel servizio che vi riproponiamo qui sopra. “Campi di concentramento in Libia? A me piacciono”, scriveva nei suoi post. Ce l’aveva con la Costituzione: “Un libro di merda buono per pulircisi il culo”. E con il presidente della Repubblica: “Togliete le duracel a Mattarella, è durato troppo”. Sono solo alcune perle del prof Sartori. Per molti anni è stato esponente di spicco di movimenti di estrema destra. “Nazionalsocialismo: lo hai aspettato una vita, ma non sarà l’originale. Ci accontentiamo”, scriveva sempre su Facebook. I genitori dei suoi alunni stanchi delle sue esternazioni hanno scritto alla Procura: “Siamo preoccupati che lui sia quotidianamente in contatto con i nostri figli. Inneggia al razzismo, alla guerra, all’intolleranza, al fascismo”. Nel 2013 era finito sotto processo proprio per le sue esternazioni. Come possono convivere le due anime del filonazista e dell’educatore insieme? Nina Palmieri è andata a farsi un giro nella scuola di Venezia dove lui insegna. “È un fascistone da gara”, dice un ragazzo. “Non mi sarei mai aspettato che un professore venga fuori con questi discorsi. Un nazista fa un po’ ribrezzo”, aggiunge un altro. Così abbiamo provato a metterci sulle sue tracce. Per giorni non si è visto finché è arrivato un indizio. “Ogni mattina va con la barca a fare spesa”, ci dicono. Così muniti di barca lo aspettiamo tra i canali di Venezia per chiedergli del suo pensiero. Ma, appena ci vede, scappa. Dopo il nostro servizio si è messo in aspettativa: la scuola ha preso le distanze e anche la Procura ha aperto un fascicolo. Il prof è stato sospeso dall’insegnamento per 6 mesi, potrà tornare in cattedra solo da febbraio. Intanto il suo account Facebook è stato cancellato e pure i suoi post razzisti. Uno stile però che non è solo di Sartori, tanto che il governo sta pensando di istituire una commissione contro l’odio. Tra i nomi nella rosa dei candidati per la presidenza ci sarebbe quello di Liliana Segre, bersaglio non solo del prof di Venezia ma di tanti altri negli ultimi mesi. "Se a quasi 90 anni finisci bersagliata da insulti e sotto scorta, credo sia normale chiedersi 'ma chi me l'ha fatto fare'. Ma non mi arrendo facilmente", dice al Corriere della Sera, la senatrice a vita sopravvissuta alla Shoah. Racconta di trovarsi alla sua età a condurre un'esistenza che non avrebbe mai immaginato. Ma si dice pronta, se dovesse arrivarle la proposta, a presiedere la Commissione parlamentare contro l'odio.
Dagospia il 28 novembre 2019. Da “la Zanzara - Radio24”. Ecco quello che è successo nella puntata della Zanzara su Radio 24 di mercoledì 27 novembre. Come si fa a dire che lo Ziklon B serviva per disinfestare le baracche?: "Se tu vuoi credere alle bufale, sei libero di farlo. Come le stragi di Saddam, le armi di sterminio di massa di Saddam. C’è una logica che è quella della verità storica". Ma sono cose accertate: "Ma accertate da chi?". Gli stessi nazisti hanno detto ciò che hanno fatto: "Ma che vada a dare via il culo, Parenzo". Ma lei ha detto che il genocidio del popolo ebraico non c’è stato e che le persone morte per tifo: "Sì. Ho detto che ad un certo punto c’erano delle gravissime epidemie di tifo. Ma avete visto com’erano trattati in Unione Sovietica? Avete visto le foto dei nostri soldati prigionieri in Iugoslavia?".
Lei nega che ci sia stato l’Olocausto, come cazzo si fa: "C’è una logica nella storia, nella critica, perché ad un certo punto non è stata costituita una commissione internazionale? Io dico che storicamente non c’è nessuna prova…Sono in compagnia dell'Abbè Pierre, di Garaudy". "Ti denuncio e se ti incrocio per strada ti sputo in faccia, maledetto", esplode Parenzo.
Bellazzi: "Vieni, vieni. Denuncia dove vuoi. Di Parenzo non me ne frega un cazzo. Parenzo, sei un cretino".
Cruciani: "Come si fa a dire che l’Olocausto non è esistito, perché?: "Perché non c’è la prova storica". Confermi di essere fascista, anzi fascistissimo?: "Certo". Ti piace pure Hitler, quel signore con i baffetti?: "Mi piace ad un certo punto l’ordine, la disciplina, l’organizzazione che c’era in Germania. Mi piace che la Germania ad un certo punto abbia difeso l’Europa. Se volete fare la storia di Topolino, fate la storia di Topolino". Hitler era un criminale: "Un criminale? Nemmeno Stalin era un criminale, i capi di stato non possono essere dei criminali. Tu non puoi pensare che 80 milioni di tedeschi si siano sacrificati ad un certo punto per un criminale". Hitler ha fatto qualcosa di buono?: "Il patto Ribbentrop-Molotov, per esempio. Ha difeso l’Europa".
Parenzo: "Dovrebbero rinchiuderti dentro un ospedale". Bellazzi: "Come Ezra Pound, ecco la vostra libertà di pensiero. Chi la pensa in modo diverso, va rinchiuso in ospedale. Bravi, complimenti. Perché c’è la dittatura del pensiero unico". Parenzo: "Se ti incrocio, ti sputo in faccia...".
Bellazzi: "Vuoi che ci diamo appuntamento, Parenzo? Io non ho problemi. Avanti, Parenzo". Parenzo: "Che tu sia maledetto per quello che dici". Bellazzi: " Si, si, si…". Come cazzo fai a dire che le leggi razziali sono meravigliose?: "Se fossero state quel crimine infame che state urlando voi, mi puoi spiegare perché anche chi le ha scritte lo avete fatto ministro di Grazia e Giustizia nel primo governo Badoglio? Mi volete spiegare perché Togliatti lo ha nominato suo capo di gabinetto? Mi volete spiegare perché lo avete fatto presidente della Corte Costituzionale? Allora vi farete una domanda storica o no? Parenzo, racconti bugie". "Mio nonno è stato cacciato dall'ordine degli avvocati perchè ebreo", dice Parenzo: " Nessuno è stato cacciato dall’albo. Veniva iscritto in un albo speciale dove era vietato assistere la pubblica amministrazione".
Parenzo: "Mio nonno non poteva più lavorare, imbecille".
Bellazzi: "Parenzo, racconti bugie. Scappi, Parenzo, di fronte alla verità"
· Governo automunito estero.
Governo automunito estero. Riccardo Ferrazza per Il Sole 24ore. Il pezzo più pregiato sembra essere la Jaguar Xj6 di Giuseppe Conte, tenuta gelosamente in garage e sulla quale nessun fotografo è riuscito finora a sorprendere il premier “avvocato del popolo”. Anno 1996, prezzo sul mercato intorno ai 10mila euro. Per il resto, tolto il tocco vintage del presidente del Consiglio, il parco-auto dei ministri che si può ricostruire dalle dichiarazioni patrimoniali 2018 (riferite quindi all’anno precedente) è composto soprattutto da auto di piccola cilindrata. E tutte straniere. Una sola eccezione la Lancia Y di Enzo Moavero Milanesi (titolare degli Esteri). Si va infatti dalla Smart ForFour di Giulia Bongiorno alla Ford Kuga (quella del leghista Gian Marco Centinaio, Politiche agricole) passando per l’ Opel Agila di Barbara Lezzi (M5S, ministero per il Sud, acquistata lo scorso anno). Scelgono auto tedesche Giulia Grillo (un’Audi 1 del 2011), Sergio Costa (Mercedes Classe A) e il Gurdasigilli Alfonso Bonafede (Mercedes Classe B). L’elenco è più breve dei 18 titolari del governo. Non tutti, infatti, nella casella riservata ai beni mobili hanno dichiarato di possedere un’automobile. Se il vicepremier e due volte ministro (Lavoro e Sviluppo economico) Luigi Di Maio ha una Rover Mini Cooper (anno di immatricolazione 1993), l’altro vicepremier e titolare dell’Interno Matteo Salvini non ha auto di proprietà (per gli spostamenti da ministro usa una Volkswagen Passat). Lo stesso vale per il responsabile dell’Economia Giovanni Tria e per quello della Famiglia il leghista Lorenzo Fontana (Famiglia). Nell’elenco non compaiono mai auto italiane. L’unica Fiat è la 600 del 2001 posseduta da Paolo Savona: l’economista cagliaritano, però, non fa più parte del Governo dallo scorso 8 marzo, quando si è dimesso da ministro per le Politiche europee per assume l’incarico di presidente Consob. A riportare un parziale tocco di italianità, almeno indirettamente, è stato Danilo Toninelli. L’esponente del Movimento 5 Stelle, responsabile per le Infrastrutture, ha una Volkswagen Golf VI immatricolata nel 2011 (alimentazione a Gpl). Di recente, però, è finito al centro di polemiche perché in un’intervista a Tg2 Motori, dopo aver fatto l’elogio dell’elettrico, ha raccontato che la moglie ha acquistato un’auto usata (a km zero). Era una Jeep Compass. Gruppo Fiat.
· L’ossitocina, ormone «empatico» che ci rende socievoli (ma anche razzisti).
L’ossitocina, ormone «empatico» che ci rende socievoli (ma anche razzisti). Pubblicato lunedì, 14 ottobre 2019 su Corriere.it da Danilo di Diodoro. Influenza il comportamento verso gli altri in senso positivo, tanto che si studia il modo di usarla nei disturbi che compromettono la capacità di relazione. I rapporti con gli altri, le comunicazioni interpersonali, le dinamiche di gruppo sono solo alcune delle funzioni governate da una straordinaria molecola che regola il nostro modo di gestire le relazioni sociali, e che facilita funzioni fondamentali per la specie, come il parto e l’allattamento. È l’ossitocina, prodotta dall’ipotalamo, nelle zone profonde del cervello, per essere poi immagazzinata nella parte posteriore dell’ipofisi. Da lì, questo neuropeptide composto da nove aminoacidi si distribuisce a tutto l’organismo per via nervosa o con la circolazione del sangue, influenzando la capacità di stringere legami sociali e comportarsi in modo altruistico. Queste sue straordinarie proprietà la candidano quindi anche a potenziale farmaco per il trattamento di disturbi psichici in cui c’è un deficit di capacità relazionale. Una recente ricerca definisce meglio anche il suo ruolo nello sviluppo di empatia verso i propri simili. Lo studio è stato coordinato da Francesco Papaleo e realizzato da un team di ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia, in collaborazione con i gruppi di Bice Chini dell’Istituto di Neuroscienze del Consiglio Nazionale delle Ricerche, e Valery Grinevich dell’Università di Heidelberg in Germania. I risultati dimostrano il ruolo dell’ossitocina nell’abilità di riconoscere la presenza di stati d’animo alterati nei propri simili. Realizzato sui topi, lo studio è stato pubblicato sulla rivista Current Biology. Nel corso degli esperimenti, i topi sono stati sottoposti a test di intelligenza sociale, comunemente usati sugli esseri umani. Attraverso questi test i ricercatori hanno verificato che, grazie all’azione dell’ossitocina, i topi mostrano specifiche reazioni se esposti ad altri topi che si trovano in uno stato emotivo alterato. Sono anche state mappate le aree del cervello dove si trovano i i neuroni capaci di interagire con l’ossitocina (ossitocinergici). Manipolando con specifiche tecniche l’attività di questi neuroni è stato poi possibile «spegnerli», operazione che ha reso i topi incapaci di provare empatia verso gli altri topi che stavano provando paura o sollievo, dimostrando quindi che dietro questa abilità c’è proprio l’ossitocina. Ricostruito anche il percorso che dai neuroni ossitocinergici dell’ipotalamo raggiunge la regione centrale dell’amigdala, struttura fondamentale nel percorso neurologico che media la paura, la fiducia e il riconoscimento sociale. L’ossitocina gioca anche un ruolo centrale nella regolazione degli stati ansiosi, nei quali è coinvolta proprio l’amigdala. Un eccesso di attivazione di questa piccola struttura cerebrale durante i contatti sociali aumenta l’ansia e potrebbe spingere verso l’isolamento. L’ossitocina facilita inoltre la capacità di intuire le intenzioni degli altri, aiutando a superare eventuali preconcetti sulle loro possibili cattive intenzioni, predisponendo quindi verso la socialità e la fiducia. L’individuazione dei percorsi delle strutture nervose che sottostanno all’azione dell’ossitocina è un fondamentale punto di partenza per la messa a punto di futuri farmaci per patologie collegate alla cognizione sociale, come autismo, schizofrenia e certi stati d’ansia. «Decifrare le basi molecolari della cognizione e del riconoscimento sociali è importante per lo sviluppo di nuovi protocolli diagnostici e terapeutici» dice Olga Lopatina della Krasnoyarsk State Medical University russa, coordinatrice di un articolo pubblicato sulla rivista Neuropeptides. «I trattamenti disponibili per il disfunzionamento sociale, come gli inibitori della ricaptazione della serotonina e le benzodiazepine sono inefficaci nei deficit di socialità» aggiunge Damien Gulliver della School of medical sciences dell’University of Sydney, autore con alcuni collaboratori di un articolo sulla rivista Trends in Pharmacological Studies. «Quindi sarebbe urgente avere a disposizione nuovi approcci per il trattamento dei deficit di socialità di molti disturbi psichiatrici. Si tratta di un bisogno molto sentito. Il sistema dell’ossitocina è un potenziale agente terapeutico per il controllo di questi sintomi». Al momento però gli studi clinici effettuati sull’uomo non permettono ancora di pensare a un diretto utilizzo dell’ossitocina come farmaco, anche perché una volta somministrata è poco stabile nell’organismo e inoltre non ne arriva abbastanza nelle zone del cervello dove dovrebbe agire. Si ricorre per questo alla sua somministrazione come spray nasale, via che sembra garantire una buona disponibilità là dove serve. Inoltre non sono ancora del tutto chiari gli effetti collaterali dell’ossitocina una volta somministrata come farmaco, senza contare che gli studi fin qui realizzati ancora non hanno consentito di individuare con precisione le dosi da utilizzare. L’ossitocina ha poi un aspetto ambiguo. Una ricerca pubblicata sulla rivista Science da parte di psicologi guidati da Carsten de Dreu dell’Università di Amsterdam, suggerisce che la sua capacità di stimolare comportamenti protettivi verso parenti e amici, potrebbe renderla strumento di intolleranza, inducendo atteggiamenti avversi nei confronti di chi non appartiene alla cerchia stretta delle conoscenze. Gli psicologi olandesi hanno realizzato tre diversi esperimenti su volontari: i primi due per verificare se l’ossitocina stimoli affetto tra i componenti di un gruppo e avversità verso gli estranei; un terzo per chiarire se i suoi effetti sono evidenti solo in persone che hanno già una personalità di tipo cooperativo. Alla fine è emerso che in effetti l’ossitocina, responsabile di atteggiamenti di cooperazione e salvaguardia e nei confronti del proprio gruppo di riferimento, genera atteggiamenti difensivi, pur se non apertamente ostili, nei confronti di chi è estraneo al gruppo ed è potenzialmente competitivo nei suoi confronti. Un risultato che conferma il ruolo primitivo dell’ossitocina quale neurormone quasi tribale, utile per funzioni importanti per lo sviluppo del gruppo, come la socialità il parto, l’allattamento e la protezione della prole, ma poco propenso a favorire la mescolanza tra gruppi e culture diverse.
· Italiani. Odiatori, forse, buoni di sicuro.
I boat people salvati dall’Italia: «Che gioia riabbracciarvi». Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. «L’incontro tra noi vietnamiti e gli ex marinai italiani? È stata un’emozione fortissima, intensa. Ho potuto conoscere e ringraziare chi mi ha salvato, ritrovando chi condivise quell’odissea con me. Anche se ero troppo piccola per ricordare, nella mia mente conservo tante immagini: un pezzo della mia vita che ho finalmente riordinato». Nguyen Luu Nha Uyen, 42 anni, soprannominata «Mimì» — «vezzeggiativo datomi da mio nonno che aveva combattuto per la Francia nella guerra d’Indocina» — sposata, praticante avvocato nel Veronese, si riferisce al pranzo di festa che sabato si è tenuto in una parrocchia a Minerbio, alle porte di Bologna. Commozione, lambrusco e birra, involtini primavera fritti e dolci di soia e cocco. Cento persone circa giunte da Veneto, Marche, Lazio, Puglia e altre regioni. Una novantina di vietnamiti con il passaporto italiano. Tra loro molte donne, tutte con indosso l’«Áo dài», lo sgargiante abito viet con cui hanno offerto medaglie ricordo — sorreggendo cartelli con scritto «grazie Italia» — agli invitati d’onore, una decina di ex militari della Marina. Oggi quasi tutti pensionati sulla sessantina. E che nel 1979 erano meccanici, radaristi e fucilieri. Molti di leva — tipo Angelo Spinosa, Tonino Condino e Pasquale Loprete — e un paio di carriera, tra cui l’ex palombaro del Comsubin Armando Luongo imbarcati sulla portaelicotteri «Vittorio Veneto» (all’epoca l’ammiraglia della nostra flotta), l’incrociatore «Andrea Doria» e la nave cisterna «Stromboli». Tre navi che dal 5 luglio di quell’anno percorsero 15.015 miglia (27.807 chilometri) salpando da La Spezia per raggiungere il mar Cinese meridionale, il giro di boa di una missione di salvataggio, con ritorno a Venezia il 21 agosto, il cui successo lasciò sbalordito tutto il mondo, inorgogliendo l’Italia. «Tutto nacque da una decisione improvvisa di Sandro Pertini, allora presidente della Repubblica, sconvolto e angosciato — è il ricordo nitido di Marcello De Donno, 78 anni, allora comandante in seconda della Vittorio Veneto e poi capo di Stato Maggiore della Marina dal 2001 al 2004 — dalle immagini dei boat people in navigazione disperata nel mar Cinese. Profughi senza possibilità di sopravvivenza». Parliamo dei sudvietnamiti cacciati dal regime comunista di Hanoi al termine del conflitto fratricida che insanguinò il Vietnam dal 1966 al 1975. Finita la guerra, gran parte del Sud venne trasformato in un immenso gulag dove chi aveva perso era destinato, nel migliore dei casi, alla «rieducazione». A partire dal 1978 «chi poteva, cercava di scappare pagando in lingotti d’oro le autorità del Nord che lucravano su queste fughe» racconta ancora «Mimì» Nha Uyen, figlia del maggiore industriale del settore ittico di Saigon. Come migliaia di altri sudvietnamiti, i suoi familiari e lei — che aveva due anni — riuscirono a imbarcarsi su una delle affollatissime «carrette del mare» dirette verso la costa malese. Da dove però i profughi venivano ricacciati in mare, dopo lo stupro delle donne e ormai derubati di tutto. «Possibilità di sopravvivenza pari a zero senza acqua né viveri e in balia di tempeste e attacchi dei pirati» rammenta De Donno. L’incontro con le tre navi italiane inviate da Pertini «con un gesto dimostrativo all’insegna della speranza, fu una specie di miracolo per quelle 907 persone soccorse e condotte in Italia dove quasi tutte sono poi rimaste». Nessuno tra i marinai che ha partecipato all’incontro bolognese aveva più rivisto i profughi viet. Il pranzo si è prolungato sino a notte fonda. «Avevamo tante cose da raccontarci» sorride «Mimì».
QUANDO LA MARINA MILITARE ITALIANA FECE QUALCOSA DI INCREDIBILE. Nicolò Zuliani per Termometro Politico il 4 settembre 2019. PREMESSA IMPORTANTE: questa è Storia, non opinioni. Ho raccontato e raccolto testimonianze di fatti accaduti quarant’anni fa di cui oggi ricorre l’anniversario. Chiunque desideri fare parallelismi o “interpretarlo” lo fa di sua iniziativa, non mia.
30 aprile 1975. Saigon cade, e assieme a lei tutto il Vietnam del sud. I comunisti si scatenano in un vortice di vendette verso militari e civili, instaurando un regime totalitario. Al loro arrivo un milione di persone viene prelevato per essere “rieducato”; sono sacerdoti, bonzi, religiosi, politici regionali, intellettuali, artisti, scrittori, studenti. A ogni angolo di strada spuntano “tribunali del popolo” in cui gli accusati non hanno diritto alla difesa, e a cui seguono esecuzioni sommarie. A migliaia vengono tolte case, beni, proprietà e vengono gettati nelle paludi, dette “Nuove Zone Economiche”, dove avrebbero dovuto creare fattorie e coltivazioni dal nulla. In realtà, li mandano a morire di fame. L’intero Vietnam del sud diventa un grande gulag, dove accadono orrori simili a quelli della Kolyma di Stalin.
Nel 1979, la popolazione cerca di scappare. Non possono farlo via terra, perché i paesi confinanti li respingono; l’unica opzione per intere famiglie consiste nel prendere barconi improvvisati e gettarsi in mare, lontano dai fucili e dai tribunali del popolo. Le immagini di questi disperati fanno il giro del mondo e dividono l’opinione pubblica mondiale, ancora divisa per ideologie pre-muro di Berlino. Il comunismo non può essere contestato né fare errori, sono “menzogne raccontate dai media che ingigantiscono la faccenda per strumentalizzarla”. Mentre l’occidente blatera, i rifugiati sui barconi scoprono di non poter sbarcare da nessuna parte. Vengono ribattezzati “boat people”, disperati con a disposizione due cucchiai d’acqua e due di riso secco al giorno che raccolgono l’acqua piovana coi teli di plastica e sono in balia di tempeste e crudeltà. Il governo della Malesia li rimorchia a terra per spennarli di tutti i loro averi, poi li rimette sulle barche dicendogli che stanno arrivando degli aiuti e li rimorchia in alto mare, dove taglia le funi e li abbandona a morire. A volte le tempeste tropicali li affondano, altre volte pescatori armati saltano a bordo e uccidono e stuprano finché sono stanchi, poi li abbandonano lì. A bordo c’è così tanta puzza da far svenire, e la fame è tale che ci sono episodi di cannibalismo. Navi occidentali si affiancano e gettano qualcosa da mangiare per fotografarli, poi se ne vanno.
Intanto, l’Italia è un mondo diverso. Sono anni difficilissimi tra inflazione alle stelle, bombe e attentati, ma il neonato benessere è ancora troppo recente per far dimenticare agli italiani il loro passato di povertà, ruralità ed emigrazione. Quando le immagini dei boat people vengono rese pubbliche da Tiziano Terzani il 15 giugno 1979, invece di aggiungersi al dibattito globale di opinionisti e intellettuali impegnati a decidere se salvare dei profughi di un regime comunista sia un messaggio capitalista o no, Pertini capisce che ogni minuto conta, chiama Andreotti e dà ordine di recuperarli e portarli in Italia. Andreotti è presidente del Consiglio, ma è stato prima ministro della difesa. Quella che riceve è una richiesta folle, perché l’Italia non ha mai fatto missioni simili né per obiettivo né per distanza. Ora però il ministro della difesa è Ruffini, e dice che in teoria è fattibile. Insieme scelgono come braccio destro Giuseppe Zaberletti, uno che aveva già dimostrato un’estrema capacità organizzativa in situazioni di crisi, e si mettono a studiare il da farsi. Non sanno quanti sono, né in che zona precisa; sono fotografie sfocate in mezzo al nulla.
Se il primo problema è il dove, subito dopo vengono tempo e lingua. Il mondo del 1979 non parla inglese, figurarsi il vietnamita. Anche gli interpreti scarseggiano e non c’è tempo di trovarli, però c’è la Chiesa. Andreotti domanda al Vaticano se ha a immediata disposizione preti vietnamiti e gli arrivano padre Domenico Vu-Van-Thien e padre Filippo Tran-Van-Hoai. Per un terzo interprete, i Carabinieri piombano all’università di Trieste, scorrono i registri e reclutano sul posto uno studente, Domenico Nguyen-Hun-Phuoc. A quel punto, Ruffini può alzare il telefono.
Tolone, Francia 27 giugno 1979. L’incrociatore Vittorio Veneto dell’ottavo gruppo navale è alla fonda a Tolone, in Francia, dopo aver finito la stagione. L’equipaggio di 500 uomini non vede l’ora di sbarcare per abbracciare le proprie famiglie, quando nelle mani del comandante Franco Mariotti arriva un cablogramma urgentissimo dall’ammiraglio di Divisione Sergio Agostinelli, a bordo dell’Andrea Doria. Ordina di tenere a bordo solo il personale addetto alle armi, poi di riadattare l’assetto della nave e salpare alla volta di La Spezia per riunirsi all’Andrea Doria per una missione di recupero. Quando capiscono di cosa si tratta, gli equipaggi si esaltano. Mariotti lascia a terra 350 uomini, che invece chiedono di restare a bordo per aiutare. Predispone 300 posti letto per donne e bambini su letti a castello nell’hangar a poppa, e 120 posti per gli uomini a prua. L’alloggio sottufficiali diventa un’estensione dell’infermeria, e sotto il ponte di volo viene adibita la zona d’aria. Servono almeno dieci bagni in più, ma ce la fa. Impiega cinque giorni a cambiare l’assetto, e solo al quarto giorno, prima di partire, ordina agli uomini di scendere a salutare le famiglie. Arrivano a La Spezia il 4 luglio, dove vengono caricati e istruiti medici, infermieri, interpreti, medicinali e vestiti. Il giorno dopo salpano alle 10 diretti verso il sud di Creta, dove si riuniscono con la nave logistica Stromboli, comandata dall’ammiraglio Sergio Agostinelli; in totale ci sono 450 posti letto sulla Vittorio Veneto, 270 sulla Doria e 112 sulla Stromboli. È un viaggio orrendo, nella stagione peggiore. Oltre al caldo mostruoso del mar Rosso, i monsoni dell’oceano Indiano portano il vento a forza 7. Onde lunghe e gigantesche che mettono a dura prova i 73,000 cavalli vapore degli incrociatori. Dopo 10 giorni di navigazione ininterrotta, il 18 luglio ormeggiano a Singapore e caricano le provviste supplementari, così da dare il tempo all’intelligence di fare “ricognizione informativa” e di improntare un piano. In quattro giorni parlano con l’ambasciatore della Malesia, con l’addetto della marina militare inglese, i portavoce di World Vision International e definiscono le zone da pattugliare. Le direttrici di fuga sono cinque: due verso Thailandia e Hong Kong, di scarso interesse perché passano per acque territoriali. Le altre tre sono di preminente interesse, cioè dall’estremo sud del Vietnam verso la Thailandia (costa occidentale del golfo del Siam), verso Malesia e isole Anambas dell’Indonesia. Le ultime due sono le più probabili perché sono vicine alla piattaforma petrolifera della Esso, che per chi mastica poco il mare è l’unico polo di attrazione. Diventa la zona operazioni. Ma devono fare 12,000 chilometri senza scalo.
La navigazione più lunga mai fatta dalla Marina militare italiana. Alle 10 del 25 luglio salpano alla volta del mar cinese meridionale e golfo del Siam. Durante la notte, va e viene un eco radar. Il giorno dopo il mare è a forza 4 (esempio), e il ponte viene spazzato da raffiche di vento e acqua. Alle 8.15, con un coraggio notevole, l’Agusta Bell 212 si alza in volo per investigare le coordinate e localizza la prima barca alla deriva. È un catorcio di 25 metri carico fino all’inverosimile che sta colando a picco davanti alla piattaforma della Esso. L’Andrea Doria dà l’avanti tutta e arriva a prenderli alle 9.20, carica su un gommone interprete, medici, scorta e glielo manda incontro in mezzo alla burrasca che monta, raccomandandosi di rispettare norme di prevenzione e contagio. Il gommone si affianca e gli interpreti recitano un testo che hanno imparato a memoria. «Le navi vicine a voi sono della Marina Militare Italiana e sono venute per aiutarvi. Se volete potete imbarcarvi sulle navi italiane come rifugiati politici ed essere trasportati in Italia. Attenzione, le navi ci porteranno in Italia, ma non possono portarvi in altre nazioni e non possono rimorchiare le vostre barche. Se non volete imbarcarvi sulle navi italiane potete ricevere subito cibo, acqua e assistenza medica. Dite cosa volete e di cosa avete bisogno». Un’onda allontana il gommone, e una donna vietnamita, convinta che gli italiani li stiano abbandonando come tutti, gli lancia il proprio figlio a bordo. I marinai erano italiani del 1979, un mondo in cui non esistevano i social e queste scene non erano già state raccontate. A quella vista, impazziscono. Tutte le procedure per evitare contagi vengono infrante, e dallo scafo tirano fuori 66 uomini, 39 donne e 23 bambini. Teodoro Porcelli, all’epoca marinaio di vent’anni, è sul barcarizzo di dritta quando riconsegna il figlio alla madre. Lei per tutta risposta gli accarezza i capelli e si mette a piangere, poi portano insieme il bambino dal dottore. Sono i primi di tanti altri che arriveranno nei giorni successivi. A bordo degli incrociatori, gli uomini sgobbano come animali. Infermerie, lavanderie, forni e cucine lavorano senza sosta, coi panettieri che danno il turno e i cuochi che devono allestire 1000 pasti al giorno, di cui una doppia razione per i macchinisti che sono ridotti a pelle e ossa per a far andare le quattro caldaie Ansaldo-Foster Wheeler contro le onde, il tutto con temperature tropicali e navi tutt’altro che adatte. Medici e marinai devono stare attenti a 125 bambini che una volta nutriti corrono dovunque, ma ovviamente prediligono il ponte di volo. Il 31 luglio a bordo dell’Andrea Doria nasce un bambino che la madre battezza col nome di Andrea. Marsicano lo avvolge con un vestitino di seta che doveva regalare a sua figlia. I vietnamiti più in salute vogliono essere d’aiuto e fare qualcosa, così vengono messi a fare i lavori del mozzo secondo il vecchio e famosissimo proverbio della Marina. Il 1 agosto a bordo delle navi non c’è più spazio fisico; hanno navigato per 2640 miglia, esplorato 250,000 kmq di oceano e salvato 907 anime. L’ammiraglio dà ordine di tornare a casa, e il 21 agosto 1979 i tre incrociatori entrano in bacino San Marco. Ad accoglierli c’è un oceano di gente, oltre a chi ha pianificato l’operazione fin dall’inizio: Andreotti, Ruffini, Zamberletti e Cossiga, che in seguito alla crisi di governo ha sostituito Andreotti. A bordo ci sono malattie anche tropicali e uomini malmessi, così a qualcuno viene in mente che Venezia, riguardo a importazioni di merci e uomini, qualcosina ne sa. Così, proprio come faceva la Serenissima novecento anni prima, i vietnamiti vengono messi in quarantena nel Lazzaretto vecchio e in quello nuovo. Quelli che non ci stanno vengono spediti in Friuli. Sono entrati così in simbiosi con l’equipaggio che a parte pianti, abbracci, baci e giuramenti, alcuni si rifiutano di scendere dalla nave chiedendo se possono arruolarsi. Alla fine ci sarà uno scambio di dichiarazioni tra vietnamiti ed equipaggio: «Ammiraglio, comandante, ufficiali, sottufficiali e marinai; grazie per averci salvati! Grazie a tutti coloro che con spirito cristiano si sono sacrificati per noi notte e giorno. Voi italiani avete un cuore molto buono; nessuno ci ha mai trattato così bene. Eravamo morti e per la vostra bontà siamo tornati a vivere. Questa mattina quando dal ponte di volo guardavamo le coste italiane una dolce brezza ci ha accarezzato il viso in segno di saluto e riempito di gioia il nostro cuore. Siete diversi dagli altri popoli; per voi esiste un prossimo che soffre e per questa causa vi siete sacrificati. Grazie.»
L’ammiraglio risponde da paraculo da italiano: «Noi siamo dei militari; ci è stata affidata una missione e abbiamo cercato di eseguirla nel modo migliore. Siamo felici d’aver salvato voi e così tanti bambini e di portarvi nel nostro paese. L’Italia è una bella terra anche se gli italiani, a volte, hanno uno spirito irrequieto. Marco Polo andò con pochi uomini alla scoperta dell’Asia; voi venite in tanti nel nostro piccolo mondo. Sappiate conservare la libertà che avete ricevuto.»
Vengono creati campi d’accoglienza a Chioggia, Cesenatico e Asolo. Il popolo italiano si mobilita in massa; vengono raccolti 26.500.000 di lire tramite raccolta di abiti usati e altrettanto arriva tramite donazioni private. Arrivano offerte di lavoro e di abitazione, una famiglia si offre di costruire una casa alle famiglie, una ditta si offre di arredarla. Una scolaresca raccoglie i soldi per comprare un motorino e una macchina da cucire, i dipendenti della Banca Antoniana si tassano lo stipendio fino all’agosto del 1980, versando ogni mese i loro risparmi nel conto corrente della Caritas. I commercianti padovani inviano generi alimentari, molti ospitano i rifugiati nelle loro case ad Arsego, San Giorgio delle Pertiche, Fratte e Zugliano. Ruffini, ricordando la storia, dirà che “potevo considerarmi soddisfatto della mia intera esperienza politica per il solo fatto di aver potuto contribuire alla salvezza di quei fratelli asiatici”. I vietnamiti si integrano alla perfezione, diventano italiani o disperdendosi per l’Italia arrivando oggi alla terza generazione. Parecchi marinai prenderanno la medaglia di bronzo. Quarant’anni dopo, i marinai e i profughi hanno aperto un gruppo Facebook per ritrovarsi. State attenti ad aprirlo se avete la lacrima facile. “A tutti i marinai della “Stromboli”, noi vietnamiti vi siamo molto riconoscenti. Se non ci foste venuti in aiuto, noi ora non saremmo probabilmente vivi. Vi pensiamo spesso, ora che siamo qui al sicuro e ricordiamo quanto buoni e gentili siete stati con noi. Il vostro ricordo rimarrà sempre nel nostro cuore e anche se non ci vediamo più, noi vi penseremo che con affetto, riconoscenza e nostalgia. Grazie ancora!”
Odiatori, forse, buoni di sicuro, scrive Stefano Filippi, Mercoledì 17/04/2019, su Il Giornale. Marco Peronio dirige la cooperativa sociale Il Mosaico attiva tra Udine e Gorizia, una zona che fu invasa da migranti che arrivavano in Italia non con i barconi ma via terra, attraverso la Turchia, i Balcani e il confine con la Slovenia. «Dormivano nel letto del fiume Isonzo, in mezzo alla città racconta -. Nel centro di Udine le tendopoli rimasero per mesi». L'emergenza non suscitò grandi clamori. Ma la gente del posto era furibonda. «Un giorno venne il ministro dell'Interno, Angelino Alfano scuote la testa Peronio -. Invece di dire che si sarebbe dato da fare per aiutare residenti e immigrati, se la prese con i friulani poco accoglienti. Fu un assist colossale alla Lega». Si può dire che quello fosse un popolo di odiatori o di razzisti? Peronio risponde con un esempio: «La mia coop fu molto coinvolta nella gestione dell'emergenza. Un giorno lanciammo un appello per raccogliere coperte. Ne ricevemmo migliaia: al mattino la gente protestava in piazza e la sera veniva ad aiutarci. Erano persone cattive? No, erano esasperate dall'immobilismo delle istituzioni». Odiatori o donatori? Razzisti o solidali? Possono convivere queste due anime nelle stesse persone? Sembrerebbe di no, guardando ai romani che nei giorni scorsi hanno protestato violentemente contro i rom a Torre Maura giungendo a calpestare il pane destinato al centro di accoglienza. Gli episodi di intolleranza sarebbero in aumento. L'ultimo rapporto Censis parla di quello italiano come «un popolo incattivito e rancoroso», dove la quota di persone ostili verso gli immigrati supera dell'11 per cento la media europea. Eppure, altri dati contraddicono questa descrizione dell'Italia. Sono i numeri delle donazioni, per esempio, in forte crescita. Secondo l'Italy giving report, elaborato da MyDonor e Associazione italiana fundraising per il mensile Vita, negli ultimi tre anni gli italiani sono stati sempre più generosi verso onlus, associazioni di promozione sociale, enti di ricerca scientifica o medica. Nel 2015 sono stati donati 4,59 miliardi di euro, saliti a 5,1 miliardi nel 2016 (+11 per cento) e a 5,36 miliardi nel 2017: l'aumento è del 5,4 per cento rispetto ai 12 mesi precedenti e del 17% su due anni prima. La ricerca segnala che crescono sia la somma totale sia il numero di donatori: sempre più italiani aprono il portafogli per iniziative benefiche.
8 MILIONI DI GENEROSI. Secondo l'Istituto italiano della donazione sono 8,3 milioni i connazionali che sostengono almeno un progetto non profit con una o più elargizioni in denaro: se limitiamo questo numero sulla popolazione con più di 14 anni, ha donato soldi 1 italiano su 5. Una crescita nel numero di donatori è segnalata anche dalla ricerca Italiani solidali della Doxa (ottobre 2018) e dall'indagine campionaria Sinottica di Gfk, che registra un allargamento della platea dei donatori per la prima volta dopo la gara di solidarietà seguita allo tsunami di fine 2004. La domanda resta: italiani odiatori o donatori? Come spiegare questa contraddizione? «Il paradosso sussiste per chi adotta la narrazione del mondo progressista-illuminista, per cui in Italia sarebbero in aumento odio, razzismo, fascismo e così via», risponde il sociologo Luca Ricolfi, che insegna Analisi dei dati all'università di Torino ed è presidente della Fondazione David Hume. «Ma se non si aderisce a questa narrazione, che al momento non è suffragata da alcuna prova scientifica, non c'è alcun paradosso aggiunge Ricolfi -. Nelle società moderne i bisogni di autorealizzazione e di autostima sono strettamente intrecciati, per cui non vi è nulla di strano nel fatto che il bisogno di realizzare sé stessi (che è una modalità della deriva individualistica) si accompagni a un aumento dei comportamenti solidaristici: la solidarietà, il volontariato, le donazioni di ogni tipo sono potenti strumenti di accrescimento dell'autostima e del prestigio sociale». L'attenzione agli altri come occasione di realizzazione personale. Gli studi sulle donazioni rilevano un aumento dei soldi raccolti su Facebook, i cui principali beneficiari sono l'Associazione contro le leucemie, Save the children, Emergency, l'Associazione sclerosi multipla e l'Ente nazionale protezione animali. È una generosità non più mediata dal passaparola e dal rapporto personale, ma sollecitata dalle reti sociali. La disintermediazione si nota anche nel crollo delle donazioni tramite sms: dai telefonini erano stati raccolti 46 milioni di euro nel 2016, anno dei terremoti nel Centro Italia, precipitati a 18,5 milioni nel 2017.
IMPRESE DI CUORE. Sicuramente s'è allentata la pressione mediatica, ma gran parte del crollo è dovuto alla delusione per il cattivo uso di quei fondi. Alla gente che ne ha bisogno ne arriva una parte ridottissima. È in crescita anche la somma erogata dalle aziende. Qui il dato più interessante è che le donazioni delle aziende medio grandi, pari a 240,73 milioni di euro, hanno superato quelle delle fondazioni corporate (214,25 milioni di euro), che pure hanno nel Dna lo spirito solidaristico. La responsabilità sociale e ambientale tocca l'84 per cento delle imprese; una su 3 è impegnata in progetti di filantropia internazionale e sono sempre più numerose le società che inseriscono queste attività nella strategia aziendale, senza farle dipendere dai risultati economici. L'indagine Gkf segnala un fenomeno interessante. Cresce la raccolta di fondi per cause nazionali, a scapito di quelle internazionali e a sostegno di emergenze umanitarie. Si può parlare di un «sovranismo della bontà», oppure è un segno della volontà di occuparsi di quello che un tempo si chiamava «il prossimo tuo»? Ricolfi sgombra il campo da un equivoco: «La parola sovranismo è essenzialmente un costrutto dei media, dotato di scarsissimo potere interpretativo. La stragrande maggioranza degli elettori non ha un'idea precisa del significato del termine, e si muove a un livello molto più terra terra». A un cittadino normale, spiega Ricolfi, non si sente dire che «dobbiamo difendere l'italianità» o «recuperare sovranità rispetto all'Europa»: «Queste sono cose che dicono i politici, e pappagallescamente ripetono, approvando o disapprovando, i giornali e le tv». La gente pensa cose più semplici. «Ad esempio, che ci sono troppi luoghi in mano alla malavita, che non ha senso che chi ruba, spaccia, aggredisce non vada in carcere o ci stia pochissimo, che è inammissibile che si entri in Italia senza chiedere il permesso, che non è giusto che in certe scuole e in certi ospedali non ci sia spazio per gli italiani.
NATIVI E IMMIGRATI. Soprattutto, la gente pensa che non sia giusto che i poveri siano abbandonati se sono italiani, mentre se hanno lo status di richiedenti asilo usufruiscono automaticamente di attenzioni e risorse». Per il sociologo, «quello cui stiamo assistendo più che una proliferazione dell'odio - è un curioso ritorno di cultura civica, di cui le donazioni sono un tipico ingrediente. Il mondo progressista non è in grado di vedere il fenomeno perché si è abituato a pensare che gli unici cittadini degni di questo nome siano i cittadini del mondo, per cui nativi e immigrati hanno sostanzialmente i medesimi diritti, mentre fino a ieri pensava quel che ancora pensa la stragrande maggioranza delle persone, e cioè che uno Stato ha dei doveri innanzitutto verso i suoi cittadini». In questa chiave, l'antinomia tra odiatori e donatori esprime il malessere di chi non si sente ascoltato, ma piuttosto rimproverato dalle classi intellettuali, da quella che Ricolfi definisce «la sbornia cosmopolita che negli ultimi vent'anni ha contagiato la cultura progressista, ma anche le grandi organizzazioni sovranazionali, per loro natura propense ad assumere atteggiamenti illuministici». Quello cui stiamo assistendo è soprattutto «un rafforzamento della solidarietà interna»: «La gente non odia neri e migranti, ma detesta i politici che ne hanno assunto la rappresentanza, dimenticando che sono stati eletti per proteggere i cittadini che li hanno votati, non per dare risposte alle aspirazioni dei cittadini di altri Stati. Il risveglio dello spirito civico, ossia delle reti di solidarietà fra cittadini che si riconoscono nella medesima comunità, è anche una risposta a quello che viene percepito come un tradimento delle élite: il cosmopolitismo è il contrario dello spirito di comunità».
· Dagli al Rom.
Insulti e sputi ai bambini rom usciti dal cinema. Succede a Napoli. L’assessora all’immigrazione denuncia il clima d’odio creato deliberatamente, scrive il 13 Aprile 2019 su Il Dubbio. Prima li hanno circondati e insultati. Poi sono passati ai fatti aggredendoli con spinte, calci, sputi. E’ accaduto ieri sera a Napoli. Gli aggressori erano quattro ragazzini, gli aggrediti invece erano sette bambini appena usciti dal cinema. La loro colpa? Quella di essere di etnia rom. Insieme a loro c’erano anche due donne, due operatrici che hanno immediatamente denunciato l’aggressione. L’assessore comunale all’ immigrazione, Laura Marmorale, accusa: “C’è chi sta creando artatamente un clima di odio, violenza e discriminazione”. I ragazzini hanno inseguito il gruppo per alcune decine di metri, minacciando di usare dei coltelli: quando le operatrici sociali e i nomadi hanno trovato rifugio in un bar, si sono dileguati. “Un gesto di una gravità inaudita che va immediatamente condannato e stigmatizzato. Faremo di tutto per rintracciare e denunciare questi ragazzini, per togliere loro le armi, verbali e materiali, per metterli davanti ai bambini che volevano ferire e umiliare per mostrare loro cosa sono davvero: bambini, persone”, conclude Marmorale. “Insisteremo – sottolinea l’assessore Marmorale – nella volontà di colmare la grande povertà educativa di questi ragazzi supportando e potenziando il lavoro prezioso di scuole ed educative territoriali . Non resteremo muti davanti a simili scene, denunceremo e reagiremo sempre. Napoli non sarà mai rappresentata da chi seleziona le persone per ‘sottrazione’. Nessuna forma di razzismo resterà impunita. A nessun bambino, a nessuna mamma deve essere negato il diritto di poter passeggiare per strada, di poter andare al cinema, di poter vivere. Ai 7 bimbi, alle mamme, alle 2 operatrici sociali della coop Dedalus esprimo tutto il mio sostegno e solidarietà, aspettandoli a Palazzo San Giacomo quanto prima. Ai proprietari di un bar di Piazza Dante che non si sono omologati e rassegnati alla paura e hanno accolto, protetto e confortato, dico grazie. Siete voi l’anima della nostra città”.
Viene liberata perché è incinta: "madame furto" deruba un'invalida. Condannata a 25 anni di carcere, la rom riesce a farla franca perché incinta. Torna subito a rubare e se la prende con un'anziana in sedia a rotelle. Sergio Rame, Martedì 18/06/2019, su Il Giornale. Era stata accompagnata dai carabinieri nel carcere di Rebibbia, il 30 maggio scorso, per scontare la pena definitiva di 25 anni di reclusione. Ma dal momento che è incinta (per l'undicesima volta), la ormai celeberrima "madame furto" è riuscita a ottenere il beneficio del "differimento pena", cioè a scontare la condanna dopo il parto. Approfittando della sua libertà, Vasvija Husic, 33enne bosniaca e borseggiatrice seriale, è tornata subito al "lavoro" in compagnia di tre complici e, come riporta l'agenzia Adnkronos, è stata nuovamente arrestata dai carabinieri dopo aver derubato una disabile in sedia a rotelle. Vasvija Husic è già stata arrestata più di quaranta volte. Eppure, in carcere, non ci è mai andata. Il motivo lo ha spiegato lei stessa a fine maggio mentre usciva dal tribunale di Roma dopo il processo per direttissima. "In galera - aveva detto - non ci vado, sono incinta...". A 33 anni la rom di origine bosniache ha imparato molto bene come aggirare la legge italiana e così, dopo aver partorito dieci figli, ha "usato" l'undicesima gravidanza per stare alla larga dalla galera e rimandare la condanna a dopo il parto. I giudici sono sempre stati molto accomodanti con lei. Anche, durante l'ultimo processo, sono state tenute in conto "le condizioni e la tenera età dei figli", alcuni dei quali hanno meno di tre anni. E così, sapendo di farla sempre franca, anche oggi è tornata a fare quello che le riesce meglio: derubare i passanti. Questa mattina i miliari, che erano in servizio indossando abiti civili, hanno riconosciuto la Husic mentre si aggirava in compagnia di tre "colleghe", di 36, 22 e 14 anni, all'interno della metropolitana alla fermata Flaminio. Ad un certo punto il quartetto ha preso di mira una turista peruviana di 86 anni, disabile in sedia a rotelle, e dopo averla accerchiata le hanno rubato il borsello con il denaro, approfittando della calca. Fortunatamente i carabinieri sono intervenuti immediatamente bloccando le quattro donne e recuperando l'intera refurtiva. Dopo l'arresto "madame furto" e le altre due maggiorenni sono state sottoposte al rito direttissimo nel corso del quale il giudice ha convalidato l'arresto e ne ha disposto l'accompagnamento presso il carcere di Rebibbia femminile. Per la 14enne si sono, invece, aperte le porte del centro prima accoglienza di via Virginia Agnelli.
In carcere anche se incinte: le ladre rom non la scampano. La lotta del ministro dell'Interno contro le ladre rom: "Nonostante la scusa della gravidanza, mandate in carcere. Ai loro numerosi figli penseranno i rispettivi mariti". Giorgia Baroncini, Sabato 22/06/2019, su Il Giornale. Ladre rom ancora in azione alla stazione di Termini. Due donne pregiudicate hanno derubato un turista americano in arrivo nella Capitale per un bottino di oltre 4mila euro. Ma questa volta, la gravidanza non potrà salvare le due. Lo ha annunciato il ministro dell'Interno con un post sul suo profilo Facebook. "Gli agenti le hanno identificate, arrestate e, nonostante la scusa della gravidanza, mandate in carcere", ha spiegato Matteo Salvini. Così il vicempremier leghista fa riferimento alla vicenda di "madame furto", la ladra rom arrestata più di quaranta volte, ma che in prigione non è mai stata. Perché? "Sono incinta", aveva spiegato la 33enne rom di origine bosniache. Un figlio dietro l'altro (quest'ultima è la sua undicesima gravidanza) e la giustizia italiana non riesce a rinchiuderla dietro alla sbarre. E Salvini non ci ha visto più: "Questa maledetta ladra in carcere per trent'anni, messa in condizione di non avere più figli, e i suoi poveri bimbi dati in adozione a famiglie perbene. Punto", aveva cinguettato il ministro, creando non poche polemiche. Ora, dopo l'ennesimo caso di furto, arriva un nuovo messaggio del leghista contro i rom. "Hanno derubato un turista americano. Ai loro numerosi figli penseranno i rispettivi mariti. Tolleranza zero per questa gente".
La circolare del giudice Greco: "Rilasciate le ladre rom incinta". La Procura di Milano sotto accusa per una circolare firmata dal procuratore capo Francesco Greco, che di fatto lascia in libertà le ladre-madri. Pina Francone, Lunedì 24/06/2019 su Il Giornale. Per snellire le procedure e non intasare il Tribunale, dal Palazzo di Giustizia di Milano è partita una circolare, datata 12 dicembre 2016 e firmata dal procuratore capo Francesco Greco (e dalla coordinatrice dell'Ufficio esecuzione Chiara De Iorio) che invita a rilasciare le ladre in gravidanza. L'ordinanza sarebbe stata invitata a questura e comando provinciale dei carabinieri per velocizzare quelle procedure che avrebbero comunque un esito scontato, visto quanto prevede l'articolo 146 del codice penale, ovvero il differimento dell'esecuzione per donne in gravidanza o con figli di età inferiore a un anno. Tutto ciò si trasforma in un assist con la "a" maiuscola per le borseggiatrici rom – da "Madame furto" in giù, per intenderci –, che sfruttano appieno tale direttiva del giudice capo meneghino. Come scritto da ilgiornale, le ladre di etnia rom utilizzano la gravidanza come lasciapassare per non finire dietro le sbarre e molte di loro arrivano a Milano in trasferta, da Roma, per delinquere. L'ultimo caso, come registrato da IlGiorno, su un Frecciarossa partito da Roma e diretto, per l'appunto, a Milano: a bordo del treno veloce, sabato mattina, due donne nomadi sono state fermate dagli agenti della Polfer, dopo aver scippato un passeggero proprio lungo il viaggio sui binari; altre tre, invece, sono state denunciate per interruzione di pubblico servizio perché durante la fuga sono finite sui binari, rischiando di essere investite da un treno Italo: solo la prontezza di riflessi del macchinista ha sventato la tragedia.
L'allarme della Polfer: rom incinte da Roma in trasferta per rubare. Gruppi di nomadi in gravidanza arrivano a Milano: qui è più facile evitare l'arresto. Paola Fucilieri, Lunedì 24/06/2019, su Il Giornale. Uno degli ultimi episodi che hanno fatto discutere, risale solo a domenica scorsa. Due donne - entrambe nomadi, entrambe croate e incinte - avevano attirato l'attenzione dei condomini di una palazzina in corso Sempione. Che, intorno alle 13, dopo averle notate aggirarsi per le scale dello stabile, avevano preso d'assalto il centralino della questura. Le telefonate arrivate in via Fatebenefratelli avevano tutte lo stesso tenore: «Ci sono delle zingare nel palazzo» spiegavano allarmati i residenti. Al loro arrivo i poliziotti delle «Volanti» le hanno bloccate e avrebbero voluto arrestarle per tentato furto, tuttavia l'avanzato stato di gravidanza delle donne lo ha impedito. E pensare che la più giovane, una 31enne, aveva un cumulo di pena pendente - sempre per furti in casa e in alcuni casi anche per scippo - di ben 22 anni complessivi. Di storie a Milano sono pieni i «mattinali» delle forze dell'ordine. Al punto che l'assessore alla Sicurezza della Regione, Riccardo De Corato, ne ha fatto da tempo una sua battaglia personale. Così non coglie di sorpresa la segnalazione della Polfer all'agenzia di stampa Adnkronos sulla migrazione di donne rom incinte e/o con figli piccoli da Roma a Milano, dove sarebbe più facile evitare l'arresto. La Procura ambrosiana infatti a dicembre 2016 ha emanato una circolare che stabilisce di non procedere alla formalizzazione dell'arresto se le persone fermate sono incinte o hanno figli in tenera età. Ed è per questo che il fenomeno di queste «trasfertiste del furto» viene monitorato con attenzione. Basti pensare che ad aprile, durante il Salone del Mobile, tra le 17 rom (tutte senza documenti) controllate dalla Polmetro dopo una lunga lista di borseggi, addirittura 13 erano incinte. A febbraio una 36enne di origine bosniaca, appartenente a una notissima famiglia rom della malavita romana, con una quarantina di denunce alle spalle e un cumulo di pena di nove anni per furto, venne bloccata da tre donne mentre rubava alla stazione ferroviaria «Garibaldi». La nomade aveva addosso alcuni effetti personali della derubata, e venne arrestata. Quando la ladra spiegò di sentirsi male venne accompagnata per accertamenti alla clinica Mangiagalli, da dove venne subito dimessa quando si scoprì che già da qualche mese aspettava un figlio. Ci fu così un accordo con il pubblico ministero di turno per portare la borseggiatrice di fronte al giudice per le «direttissime» solo quattro mesi dopo, cioè in questi giorni, quando la bosniaca è stata finalmente sottoposta a giudizio. In questo non indifferente lasso di tempo la borseggiatrice non è mai andata in carcere proprio perché incinta. Ora non ci andrà perché madre di un neonato. Intanto sabato mattina in stazione Centrale si è sfiorata la tragedia. Da un «Frecciarossa» in sosta sono scese velocissime cinque donne che, subito dopo aver borseggiato un viaggiatore, hanno cercato di svignarsela attraversando i binari. Solo una brusca frenata del macchinista di un treno «Italo» in arrivo in stazione ha evitato che fossero investite. La Polfer ha denunciato a piede libero due di queste rom per furto e altre tre per interruzione di pubblico servizio. Ma è chiaro che poteva finire molto peggio.
Rom violenti e fuori controllo: a Firenze sono loro i padroni. I rom fanno da padron nei parcheggi e qui ci vivono abusivamente. Un nomade ha perso il controllo del suo camper e per poco non finiva in tragedia. Costanza Tosi, Martedì 18/06/2019, su Il Giornale. Rom violenti e fuori controllo. A Firenze come nel resto d’Italia, dove non mancano baraccopoli abusive e parcheggi comunali trasformati in veri e propri campi rom. Parcheggi inviolabili, come quello dell’Isolotto di Firenze dove vivono a bordo di roulotte e camper decine di sinti. Un incubo per i residenti che da tempo denunciano. Inutilmente. Ieri sera l’ennesima tragedia sfiorata quando un rom, che vive accampato lì con la sua famiglia, forse in stato di ebrezza, ha perso il controllo del suo camper e, a tutta velocità, è andato a sbattare contro le auto parcheggiate, distruggendole. Dopo l’urto è fuggito con il camper distrutto. A bordo del mezzo anche un bambino visibilmente impaurito. “Ha iniziato ad andare volutamente a zig-zag nel piazzale investendo tutte le auto in sosta. Per la forte velocità ha urtato e ribaltato pure una macchina. Abbiamo sentito un grande boato, sembrava fuori di testa - ci dice Davide, testimone oculare -. È ripartito non si sa come, con il camper tutto distrutto. Abbiamo provato a dirgli di fermarsi ma è fuggito, abbiamo rischiato di essere investiti. La situazione era surreale, sembrava di essere sul set di un film hollywoodiano. Il camper non si fermava. È un miracolo se non ci sono stati feriti. All’interno della macchina che ha investito per prima c’era un papà con una bambina, erano scesi un secondo prima del violente impatto. Ha distrutto tutto, forse ha litigato con la moglie.” Questa non è la prima volta che le famiglie rom, che occupano abusivamente il parcheggio, creano problemi ai residenti. Solo qualche settimana fa gli abitanti avevano denunciato alla polizia locale l’occupazione dei parcheggi. I rom si sono impossessati della zona e hanno trasformato un’aiuola in una discarica. “Non si può vivere così – ci dice la signora Adele – da quando ci sono loro in giro abbiamo paura di essere derubati. Si vede, vanno in giro tutto il giorno. Come fanno a vivere? Come fanno ad andare avanti? Mi chiedo come mai il comune non accia nulla per mandarli via, non è normale che si accampino qui, in un parcheggio.”
Quando si sgomberano gli zingari la legge vale doppio e nessuno li difende, scrive il 21 Novembre 2018 Dijana Pavlovic, Attrice, attivista per i diritti umani, su Il Fatto Quotidiano. La sindaca di Roma ha provveduto con un piccolo esercito di 1000 uomini a “espugnare” dopo 20 anni otto villette abusive della famiglia rom dei Casamonica, con il governo in forze – presidente del Consiglio e ministro degli Interni – a celebrare la “giornata storica” mentre qualche giornalista “colto” definiva “stile rom” dell’abitare lo sfarzo pacchiano di quelle abitazioni. Il sindaco di Gallarate, cittadina in provincia di Varese, ha deciso lo sgombero di una piccola comunità sinta – circa 100 adulti e bambini – per “manufatti abusivi” su terreno comunale sul quale queste famiglie di cittadini italiani residenti a Gallarate da sempre vivono da 11 anni. Sembrano due notizie coerenti con la linea del rigore della legge e certamente a Roma come a Gallarate non saranno più tollerati abusi e son certa che si procederà ad abbattere tutte le costruzioni abusive degli ultimi decenni. Invece queste due notizie di coerente hanno solo il fatto che riguardano degli “zingari”. E le differenze ci sono. La prima è che se l’abusivo è uno “zingaro” il rispetto della legge vale doppio, perché nessuno dirà una parola in sua difesa, i sindaci otterranno più consenso dai cittadini perbene, mentre la stessa legge non si applica agli altri cittadini italiani, quelli “normali”, o se ci si prova viene giù il mondo e casomai si fanno, come avviene ancora oggi, apposite leggi perché l’abusivismo rimanga impunito. Ma c’è un’altra differenza per me più importante. La legge va rispettata e applicata, ma la Legge impone divieti e anche tutele. La differenza tra le famiglie Casamonica e i sinti di Gallarate è che i secondi non hanno costruito ville abusive, ma vivono in container, in roulotte disposte intorno alla piccola chiesa della loro comunità evangelica, su un terreno loro assegnato dalle precedenti amministrazioni e, seppur poveri, vivono in modo onesto e mandano i figli nelle scuole locali come tutti gli altri abitanti di Gallarate. Questo lo sa il sindaco di Gallarate, come sa che quelle famiglie su quel terreno assegnatogli da un precedente sindaco hanno costruito, perché nessuno interveniva, manufatti abusivi che sono in prevalenza servizi igienici di cui quel terreno era privo; sa che quella comunità non dà fastidio a nessuno, collocata com’è ai margini della città, e sa, infine, che lo sgombero distrugge la vita di quelle famiglie, perché gli adulti perderanno tutto, non solo le cose materiali, ma le relazioni che da anni hanno instaurato per le loro attività e i loro figli, nati e cresciuti a Gallarate, perderanno quello che oggi è l’unico vero elemento di inclusione che possono avere: la scuola e con essa la speranza di un futuro migliore. In questi ultimi mesi ho ascoltato parole che non dicevano più che gli uomini sono uguali, non solo di fronte alla legge e ai diritti e ai doveri, ma anche rispetto a quella fratellanza che ci rende tutti umani. Ho sentito che ci sono quelli che “inquinano l’identità”, che le tutele sociali non saranno per tutti, per esempio non per i rom. Soprattutto ho visto le violenze, verbali e fisiche, piccole e grandi: da chi caccia il nero dall’autobus a chi spara alla schiena a un bimba rom di pochi mesi, una violenza quotidiana di chi si sente protetto dal clima che è calato sul Paese: gli immigrati sono invasori che ci rubano il lavoro, anche se muoiono a migliaia nel nostro mare, i musulmani sono potenziali terroristi e comunque inquinano la nostra “civiltà”, non parliamo poi degli “zingari” che italiani o no sono comunque da sgomberare. E in questo clima anche una vecchia signora si sente autorizzata a prendere a sberle un nero sull’autobus e un “normale” cittadino a dire che a quella bimba non con un piombino ma con un proiettile vero bisognava sparare. Allora va bene combattere l’abusivismo (da chiunque praticato), ma deve andare altrettanto bene combattere un clima di intolleranza che rende il vicino nostro nemico solo perché diverso, perché c’è una legge superiore che è il bene della nostra convivenza. Il sindaco di Gallarate può dimostrare che il rigore della legge non deve distruggere la vita dei suoi concittadini ma deve aiutarli a essere parte di quella comunità alla quale appartengono da sempre e della quale vogliono continuare a far parte. Quel piccolo campo non è abusivo, i suoi abitanti chiedono solo di sanare quello che va sanato. Se il sindaco applicherà la legge con riguardo al bene di questi suoi concittadini sospendendo lo smantellamento del campo e trovando le soluzioni opportune e del tutto possibili, forse perderà un po’ del consenso di coloro che vivono di intolleranza, ma certo guadagnerà qualche altro consenso, compreso quello di sapere di fare una cosa buona e giusta.
De Andrè e gli "zingari", scrive Antonio Salvati a giugno 2018 su Notizieitalianenews. Forse sarà accaduto anche a voi - in questi giorni in cui si reclamano la realizzazione di censimenti vari – di evocare De André. In particolar modo, di alcune sue canzoni contenute nel suo ultimo album del 1996Anime salve. E’ nota la profonda tensione morale che caratterizza l’intera produzione di De André, accompagnata da una predilezione per i cosiddetti “ultimi”, ossia coloro che per condizione o scelta deliberata subiscono gli effetti del potere o di una cultura alla quale non si conformano e ne vengono spesso schiacciati. “…sono state giornate furibonde, senza atti d'amore … solo passaggi e passaggi, passaggi di tempo…”,cantavano De André e Fossati in Anime salve. Giustamente qualcuno ha affermato che questa canzone accarezza l'anima, ogni volta che viene riascoltata. Tanti hanno sottolineato l’espressione artistica di Faberportatrice di valori forti e nobili. Per questo sempre attuale e moderna, proprio perché fuori dagli schemi, critica nei confronti della società di appartenenza e vicina agli umili e agli emarginati. Proprio in queste giornate furibonde ho riascoltato la canzone Khorakhané, che, in questi ultimi anni di crescente razzismo e di caccia al rom (e all' "altro" in generale) assume un valore speciale. I "Khorakhané" (alla lettera: "Amanti del Corano") sono una tribù rom proveniente soprattutto dal Kosovo. Una canzone tristemente reale, che toglie il fiato, che racconta del popolo Rom e delle sue vicissitudini con una notevole abilità compositiva. E poi la melodia sembra trasmettere una compassione amorevole verso gli zingari, come l'ultima strofa, cantata da Dori Ghezzi, che è una poesia in lingua romanès. Mi sono ricordato che in rete è presente il discorso di apertura di Fabrizio de André al concerto del 1998 al teatro Brancaccio di Roma in cui presenta le canzoni contenute in Anime salve. Si sofferma sugli zingari dicendo: "(...) è il caso del popolo Rom, quello che noi volgarmente chiamiamo “Zingari” prendendo a prestito il termine da Erodoto, che li chiamava “Zinganoi” - diceva che era un popolo che veniva dal sud-est asiatico, dall'India, che parlavano una strana lingua - che poi si è scoperto essere il Sanscrito - e che facevano un mestiere (se mestiere lo si può considerare): quello del mago e dell'indovino. E’ quindi un popolo che gira il mondo da più di 2000 anni, afflitto o affetto - io non so come meglio dire, ma forse semplicemente affetto - da quella che gli psicologi chiamano “dromomania”, cioè la mania dello spostamento continuo, del viaggiare, del non fermarsi mai in un posto. E’ un popolo, secondo me, che meriterebbe - per il fatto, appunto, che gira il mondo da più di 2000 anni senza armi - meriterebbe il premio per la pace in quanto popolo. Purtroppo i nostri storici - e non soltanto i nostri - preferiscono considerare i popoli non soltanto in quanto tali ma in quanto organizzati in nazioni, se non addirittura in stati, e si sa che i Rom - non possedendo territori - non possono considerarsi né una nazione né uno stato. Mi si dirà che gli zingari rubano; è vero, hanno rubato anche in casa mia. Si accontentano, però, dell'oro e delle palanche; l'argento non lo toccano perché secondo loro porta male, lascia il nero - quindi vi accorgete subito se siete stati derubati da degli zingari. D'altra parte si difendono come possono; si sa bene che l'industria ha fatto chiudere diversi mercati artigianali. Buona parte dei Rom erano e sono ancora artigiani, lavoratori di metalli (in special modo del rame), addestratori di cavalli e giostrai - tutti mestieri che, purtroppo, sono caduti in disuso. Gli zingari rubano, è vero, però io non ho mai sentito dire - non l'ho mai visto scritto da nessuna parte - che gli zingari abbiano rubato tramite banca. Questo è un dato di fatto”. Forse in queste giornate furibonde, per sedare il clima può aiutare riascoltare De André per imparare ad abbassare la voce e sviluppare molto di più l’ascolto e la nostra argomentazione. Lo penso anche da insegnante: ascoltare De André, con quella sua voce mai esagerata, in silenzio e riflettendo. E perché no, apprezzando l’arte.
Da "clandestini" a "zingaro" le parole vietate per sentenza. Il politically correct detta legge anche sul vocabolario. Persino dare del "boy scout" può diventare un insulto, scrive Domenico Ferrara, Sabato 25/02/2017, su Il Giornale. Prima o poi arriverà il giorno in cui, prima di aprir bocca, consulteremo le sentenze della magistratura per sapere quale termine utilizzare. La dittatura linguistica delle toghe ha rifatto la sua comparsa due giorni fa, quando ha condannato la Lega Nord per aver usato il termine clandestini, ritenuto «denigratorio» e «discriminatorio». Il buonismo d'antan detta legge e la magistratura esegue, influenzata dai cambiamenti della società. Dare del negro a un dipendente di colore è un reato che non conosce giustificazioni. Lo stesso vale per le parole africano, marocchino ed extracomunitario. Guai a usare la parola zingaro. Nel febbraio 2015, un «temerario» autore di un testo di diritto penale è stato condannato per condotta discriminatoria e il libro è stato ritirato dal mercato. Motivo? Per spiegare il reato di acquisto di cose di sospetta provenienza ha equiparato quel termine al mendicante o a un noto pregiudicato. Vietato dare del terrorista a un ex terrorista: si configura «un'illecita lesione del diritto alla riservatezza». Sul fronte delle attitudini sessuali, le parole frocio, finocchio, culattone, ricchione, lesbica sono passibili di ingiuria, mentre omosessuale non è un'offesa: per la Cassazione, «nel presente contesto storico è da escludere che il termine omosessuale abbia conservato un significato intrinsecamente offensivo». Rompicaz... è stato considerato oltraggioso, mentre rompipalle no. Ci sono state valutazioni differenti per l'ormai sdoganato vaffa: è ritenuto di uso comune, però se accompagnato dal dito medio diventa censurabile e se viene rivolto al dirimpettaio pure. Nell'ambito lavorativo, dire «sei una mezza manica» fa scattare l'illecito, specie se proferito dal capo ai propri dipendenti. Cretino, stupido e imbecille sono condannabili solo se detti al proprio datore di lavoro o a un pubblico ufficiale. Occhio ad apostrofare i colleghi con la parola leccaculo. «Mi hai rotto i c...»? Tranquilli, questa espressione è entrata a far parte del linguaggio comune e quindi è salva. Augurare a qualcuno di morire di un male incurabile è condannabile mentre l'espressione «ti faccio vedere i sorci verdi» no. Ma le storture sono così tante che un avvocato cassazionista siciliano, Giuseppe D'Alessandro, le ha messe in fila e ha pubblicato il Dizionario giuridico degli insulti (A&B editore): 1.203 termini dalla A alla Z. Qualche esempio di parole condannate? Acida; accattone; agnellino (attribuito a un sindaco che non ha avuto coraggio); ancella giuliva e festante; antipatico; assetato di potere; azzeccagarbugli; Befana; babbuino; boy scout (se rivolto a un sindaco è diffamazione); calcolatore; Cicciobello (sinonimo di moccioso); complessato; fattucchiere; gallina; mela marcia; mediocre; pagliaccio; paraculo; pidocchio; rompiscatole; sfacciato; zappatore; Zio Paperone (fa riferimento all'avarizia). Naturalmente, spiega Vito Tartamella, psicolinguista e autore della prefazione, tutto «dipende dal tono che usate, dalle argomentazioni che adducete, dalla sensibilità del giudice». Attenzione anche alle locuzioni. Dire che un magistrato si accanisce su un inquisito è reato così come dare del primo della classe a qualcuno o usare l'aggettivo «lewinskiana» in riferimento a una donna o sostenere che qualcuno al posto del cervello ha un diesel fumoso. Insomma, come diceva Confucio: «Per una parola un uomo viene spesso giudicato saggio e per una parola viene spesso giudicato stupido». E può essere anche condannato.
La libertà di dire “zingaro”. Matteo Salvini è stato bandito per un giorno da Facebook per aver chiamato così i rom. Noi stavolta, da liberali, siamo dalla sua parte: negare la possibilità di pronunciare quel termine significa sottomettersi alla dittatura del politicamente corretto, scrive Gianluca Veneziani su lintraprendente.it ad aprile 2015. «Prendi questa mano zingara, dimmi pure che destino avrò», cantava Iva Zanicchi nel 1968, con un brano che addirittura vinse il Festival di Sanremo. Oggi, forse, la Zanicchi non solo non potrebbe vincere e cantare quella canzone, ma non potrebbe neppure pronunciare quell’espressione: zingara. Ieri infatti il segretario della Lega Matteo Salvini è stato per un giorno bandito da Facebook per aver osato utilizzare in un post – sommo reato! – la parola «zingaro». Siamo chiari: da sempre il nostro giornale è critico verso lo stile linguistico utilizzato da Salvini. e verso alcuni suoi eccessi beceri che puntano alla pancia del Paese, se non addirittura più in basso. E altrettanto è critico verso la linea politica del segretario leghista, che su quel linguaggio si fonda, per costruire una battaglia estremista, da “noi contro tutti”. Detto questo, siamo qui a difendere la sua sacrosanta libertà di espressione e il suo diritto a utilizzare una parola non offensiva, che figura nel dizionario Zanichelli (dove il termine «zingari» è indicato come «popolazioni nomadi di origine indiana, chiamate anche “rom”, che nella loro lingua significa “uomo”», senza alcuna connotazione spregiativa) ed è presente perfino in documenti ufficiali, come gli atti di studi prodotti dal ministero dell’Interno. Per non parlare poi del ricorso a questo vocabolo nel lessico comune e dello spettacolo, del cinema e della tv: oltre a Iva Zanicchi, basti pensare al successo di Nicola Di Bari, Il cuore è uno zingaro, alle “zingarate” (ossia, goliardate) del film Amici miei, o al personaggio televisivo della Zingara, che un quindicennio andava in onda in prima serata sulla Rai, minacciando i concorrenti con il pericolo della Luna Nera. Che dovremmo fare, applicare la censura retroattiva anche nei loro confronti, perdendo un intero patrimonio di note, pellicole e programmi tv? Se è per questo, dovremmo mettere alla gogna anche Joe Formaggio, nome a metà tra un personaggio dei fumetti e un boss italo-americano, e sindaco del Comune di Albettone, in provincia di Vicenza, che ha avuto l’idea di distribuire dei cartelli segnaletici in tutto il paese, con tanto di scritta «divieto di sosta ai nomadi». A prescindere dalla bontà o meno della sua iniziativa (il cui scopo è combattere l’accattonaggio), dovrà essere bandito anche lui dalla comunità ed espulso dal municipio, per aver osato ricorrere alla parola “nomadi”? Non è da escludere. Il rifiuto di utilizzare certe parole rientra infatti in quella dittatura del politicamente e boldrinianamente corretto, che impedisce di adottare certe espressioni, considerandole particolarmente lesive della sensibilità altrui. Parole come «vucumprà», «negro», «clandestino», ma anche «madre» e «padre» sono state ormai messe al bando, perché potrebbero urtare la suscettibilità di accattoni, immigrati e coppie omosessuali. Allora meglio ricorrere alla metafora, al giro di parole, al sinonimo buonista e ipocrita; meglio addirittura declinare al femminile certe espressioni, come «ministra» o «presidentessa», ché sennò qualche donna potrebbe risentirsi… Noi, a dispetto di queste melassa, invochiamo piuttosto la piena facoltà di dire e ripetere «zingaro» un milione di volte. E chissenefrega se i paladini della libertà di espressione che poi si trasformano in censori quando fa comodo a loro, potrebbero indignarsi. Oggi – almeno oggi – noi siamo con Salvini. Poi domani potremo tornare a criticarlo. Ché il nostro cuore, inquieto e vagabondo, è fatto così: è uno zingaro.
Papa Francesco inchiodato da Filippo Facci: rom, la prova della sua più grande ipocrisia. Libero Quotidiano il 10 Maggio 2019. Nonostante qualche artificio mediatico, la questione dei rom non è divisiva: nessuno, di destra o di sinistra, vuole averli come vicini di appartamento, e nessuno, di destra o di sinistra, vuole abitare vicino a un loro campo. I rom sono praticamente radioattivi, e l' unica divisione doverosa è tra chi manifesta intolleranza violando la legge (l' idiota che ha gridato «ti stupro» al passaggio di una donna è stato denunciato, anche se ha deluso la sua non-appartenenza fisiologica a Casapound) e chi manifesta la propria intolleranza e basta: le difese dei rom, per il resto, sono prese da chi non ci vive vicino e da chi non fa che ripetere, in qualche dibattito, dignitose enunciazioni di principio che valgono per qualsiasi minoranza, ma che per i rom - che siano italiani poco importa - scricchiolano spesso sui casi specifici.
Anche i nervi dei politici paiono sensibilizzati a causa della campagna elettorale: prima c' era stata la sortita della sindaca Virginia Raggi che, senza preavviso, aveva visitato la coppia bosniaca con 12 figli che sono asserragliati nell' appartamento di via Satta: e aveva detto parole di buon senso ma avevano trovato orecchie soltanto in chi abita fuori fuoco.
PRIMA I ROMANI. Vista in tv o da lontano, in effetti, la scena era impressionante: cittadini dall' aria mansueta tramutati in belve, donne a urlare che i nuovi inquilini «nun magneranno, nun berranno, nun devono uscì» sino al più celebre «ti stupro, troia». Allucinante. Ma anche politicamente imbarazzante: al punto che Luigi Di Maio - raccontano tutte le cronache - si era adontato non poco e, contro la Raggi, aveva fatto il Salvini: prima si aiutano i romani e gli italiani, poi tutti gli altri - aveva detto. Anche perché la «terza via» sui rom predicata dalla sindaca (né ruspe né campi nomadi) nelle ultime settimane si è scontrata con la radioattività di cui sopra: a inizio aprile la Raggi ha dovuto fare retromarcia su Torre Maura (e sparpagliare una settantina di rom in altri centri di accoglienza) e poi, a Casal Bruciato, altra retromarcia con una famiglia costretta a rinunciare all' appartamento a cui aveva diritto. A complicare le cose, una sorta di scissione ideologica con una parte di grillini a sostenere la Raggi con enunciazioni ineccepibili come quelle del presidente della Camera Roberto Fico, che tuttavia tanto assomigliavano a quelle pronunciate nelle stesse ore dall' opposizione piddina. Tutto bene, tutto giusto, ma politicamente un disastro che lasciava una tipica sensazione di «pasticcio» grillino che non li abbandona ovunque appaiano. Ad aggravarlo, nel pomeriggio di ieri, una smentita di Di Maio a cui non crede nessuno: «Mi si attribuiscono che sono irritato e arrabbiato con Virginia Raggi: nulla di tutto questo. Quando si minaccia di stupro una donna o si costringe un bambino a stare chiuso in casa, solo perché hanno ottenuto un alloggio per legge, è giusto dare la massima solidarietà». Le posizioni grilline cambiano secondo l' ora del giorno: sarà chiaramente colpa dei giornalisti.
CITTADINI O FASCISTI. Ma la dimostrazione che Di Maio non ha capito nulla (niente di nuovo) appartiene alla frase successiva: «Massima solidarietà a una donna minacciata da Casapound o da fascisti», perché quelli che protestano io divido in due categorie: ci sono i cittadini arrabbiati ed è una cosa, poi ci sono i presidi di neofascisti e di Casapound che soffiano sul fuoco». Contraddizione finale, spettacolare: «Non si deve alimentare questo dibattito tra fascismo e antifascismo». Già. E neanche paragonare la stragrande totalità dei «cittadini arrabbiati» coi quattro gatti di Casapound, soprattutto se - come nel caso dell' idiota che ha urlato «ti stupro» - non appartengono neppure a Casapound. Ma chissà, forse è colpa del Papa. Non del problema dei rom, ma dell' addolcimento di Di Maio. Dalla mattinata di ieri, infatti, nella sala Regia del palazzo apostolico vaticano c' erano il pontefice e un sacco di operatori pastorali che pregavano insieme a 500 rom e sinti. Matteo Salvini, intanto, sin dal giorno prima, poteva pattinare sul liscio e condannare ogni violenza per qualsiasi ragione la si eserciti, e poi certo, dire che in ogni caso, nelle periferie romane, manca cura e attenzione. A completare la catastrofe grillina, stando ad aggiornamenti da verificare, la notizia che la famiglia bosniaca assegnataria in via Satta avrebbe deciso di andarsene: questo dopo tre giorni blindati nell' appartamento presidiato dalla polizia. Resta da capire - torniamo a bomba al problema - in quale destinazione potrà andare meglio: non in un altro appartamento, in teoria, e tantomeno in un campo rom che nessuno vuole più. Perché nessuno vuole i rom da nessuna parte, insomma, e nessun gioco delle tre carte pare più funzionare: a meno di credere che un repentino morbo fascista stia colpendo chiunque si ritrovi un rom per vicino di casa. Tra questi non ci risulta ci sia il Papa, che ieri sera - riportavano tutte le agenzie - ha incontrato la famiglia bosniaca. Un incontro veloce: neanche questa era una soluzione abitativa.
Roma, barricate contro i rom. Dai pm accuse di odio razziale. I cittadini in rivolta contro i nomadi. Il Campidoglio fa marcia indietro. La procura indaga. Salvini: "No alle violenze", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 03/04/2019, su Il Giornale. L'accusa è di danneggiamento e minacce. Sono questi i reati contestati dalla procura di Roma dopo le proteste dei cittadini esplose a Torre Muria contro l'arrivo dei rom nel quartiere. Una rivolta che potrebbe costare caro ai residenti, visto che piazzale Clodio intende procedere con la contestazione dei reati con l'aggiunta (pure) dell'aggravante dell'odio razziale. Questa mattina non è ancora tornata la calma sulla periferie Est della Capitale. I nomadi sono stati spostati nella mattinata di ieri dall'insediamento di via Toraldo al centro di accoglienza di via Codirossoni. Quando i residenti del quartiere lo hanno scoperto, è scattato il passa parola. Circa 200 persone sono scese in piazza, spalleggiate da CasaPound. I cittadini hanno alzato le barricate, incendiato alcuni cassonetti e una roulotte, calpestato i panini destinati ai rom. "I nomadi rubano", urlavano. "Ve ne dovete andare". In nottata il Campidoglio ha fatto retromarcia: le settanta persone motivo della rivolta verranno trasferite in altri centri della Capitale, sempre che anche in quelle zone non si sollevino movimenti di protesta. Intanto la procura ha aperto un fascicolo. Secondo quanto ricostruito da chi indaga, una trentina di persone, supportate da militanti di Casapound, ha messo a ferro e fuoco l'area per impedire il trasferimento, con cassonetti ribaltati e dati alle fiamme e urla contro i rom. I pm attendono l'informativa delle forze dell'ordine, poi procederanno per i reati di danneggiamento e minacce. "Non possiamo cedere all'odio razziale, non possiamo cedere contro chi continua a fomentare questo clima e continua a parlare alla pancia delle persone - attacca la Raggi - e mi riferisco prevalentemente a CasaPound e Forza Nuova". Stamattina alcuni dei rom all'interno della struttura si sono affacciati alla finestra. "Abbiamo paura a uscire", hanno ammesso. Oltre la vetrata del centro di accoglienza ci sono ancora i residenti che non vogliono nomadi nel loro quartiere. "Ve ne dovete andare, non vi vogliamo", hanno urlato in direzione dei rom. La polizia è schierata per evitare contatti tra le parti e impedire che la situazione degeneri ulteriormente. "No a ogni forma di violenza, no allo scaricare sulle periferie ogni genere di problemi - commenta Salvini - Ribadisco il mio obiettivo per cui sto lavorando da mesi: zero campi rom entro la fine del mio mandato da ministro. Chi si integra è benvenuto, chi preferisce rubare verrà mandato altrove".
"I rom rubano, abbiamo paura". E calpestano il pane dei nomadi. Ira dei residenti di Torre Maura per l'arrivo dei rom in un centro di accoglienza. Gettati in terra e calpestati i panini destinati ai nomadi, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 03/04/2019, su Il Giornale. Le proteste, i cassonetti incendiati, le grida. E ancora la strada occupata dal pomeriggio fino a sera. Poi la "vittoria". I 70 rom assegnati dal Comune al quartiere di Torre Maura saranno ricollocati altrove. L'ira dei cittadini ha costretto il VI municipio e il Campidoglio a fare retromarcia. I nomadi non saranno accolti nel centro di via dei Codirossoni. Tra sette giorni finiranno in altre zone della città. La protesta dei cittadini, ieri, ha fatto rapidamente il giro di tutti i quotidiani nazionali. Non solo le auto incendiate e i cassonetti dati alle fiamme. Ma anche il cibo, indirizzato ai nomadi, rivoltato in strada e calpestato dai residenti inferociti. Nei video (guarda) si vede il momento in cui una donna rovescia una cassa di panini e li getta sull'asfalto. "Le pagate le bollette? Le pagate le bollette?", urla indirizzata ai rom. "Avete rotto il c...". Le barricate dei residenti sono durate fino a tarda sera. "Non dobbiamo abbassare la guardia", dicevano. "Il centro di accoglienza non lo vogliamo". In piazza anche Forza Nuova, CasaPound e altre formazioni destra accorse in aiuto dei cittadini del quartiere alla periferia Est della Capitale. "Quei bastardi devono bruciare". E ancora: "I rom rubano, ho paura che mi entrino in casa". "Da oggi la Sala operativa sociale del Campidoglio inizierà a svuotare il centro - spiega a Repubblica il presidente del M5S del VI municipio di Roma, Roberto Romanella - certo si parla tanto di integrazione e da qualche parte si sarebbe dovuto iniziare - ammonisce - in questo caso siamo proprio caduti dal pero, non eravamo stati informati di nulla". Un "grave difetto di comunicazione" da parte del Comune che ha scatenato l'ira dei residenti. Che dopo ore di mobilitazione sono stati accontentati.
Roma, ira dei cittadini contro i rom: esplode la protesta. Rom, la soluzione del M5S: "Dargli la cittadinanza e le case popolari". Ospite del talk show "Agorà", su Rai 3, il sottosegretario agli Esteri ed esponente del Movimento 5 Stelle, Manlio Di Stefano, ha dichiarato che il problema dei nomadi si può risolvere soltanto "dando loro alloggi e cittadinanza", scrive Gianni Carotenuto, Mercoledì 03/04/2019 su Il Giornale. La questione nomadi è tornata all'ordine del giorno dopo le clamorose proteste nel quartiere romano di Torre Maura dovute alla sistemazione - poi scongiurata - di una settantina di persone di etnia rom nel centro di accoglienza della delegazione. Proteste che hanno indotto il Comune di Roma a fare un passo indietro. Dopo un vertice-fiume in Municipio durato tutta la notte, è stato deciso che i 70 nomadi saranno ricollocati in altre strutture della città. Promessa che tranquillizza fino a un certo punto gli abitanti di Torre Maura e le sigle di destra, pronte - se servirà - a scendere di nuovo in piazza. Un bel problema per il sindaco della Capitale, Virginia Raggi, e per tutto il Movimento 5 Stelle. In cui emerge l'ennesima spaccatura su un tema storicamente divisivo come quello relativo alla gestione dei gruppi di nomadi nelle grandi città. Infatti, per tanti grillini che chiedono il pugno di ferro contro i rom per i problemi di illegalità che portano con loro, ce n'è altrettanti che invece preferiscono il dialogo. Come il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano. Durante un dibattito nel corso dell'ultima puntata del talk show "Agorà", su Rai 3, Di Stefano ha parlato della necessità di adoperare un approccio inclusivo con rom e sinti: "La gestione dei nomadi va fatta a livello nazionale con politiche coraggiose, vale a dire con l'assegnazione di alloggi popolari e cittadinanza. Sono le uniche soluzioni che si possono fare", ha detto il sottosegretario confrontandosi con l'ex ministro Lorenzin.
Lerner: "Calpestare il pane destinato ai rom? Un gesto sacrilego". Dopo le proteste a Torre Maura (Roma) per il trasferimento - poi scongiurato - di 70 rom nel centro di accoglienza del quartiere, con il pane destinato agli ospiti buttato per terra e calpestato, Lerner ha commentato: "Un gesto sacrilego", scrive Gianni Carotenuto, Mercoledì 03/04/2019, su Il giornale. La vicenda dei 70 rom trasferiti nella struttura di accoglienza di Torre Maura (Roma) che ha portato alle proteste degli abitanti e al frettoloso passo indietro dell'amministrazione comunale guidata da Virginia Raggi, non ha lasciato indifferente chi, come Gad Lerner, si batte per i diritti dei nomadi e più in generale dei migranti. A scatenare la reazione del giornalista è stato il gesto di una residente, colpevole di avere buttato a terra e calpestato il pane destinato ai nuovi ospiti della struttura al grido di "Le pagate le bollette? Le pagate le bollette? Avete rotto il c...". Lerner ha scritto su Twitter: "Chi ha calpestato il pane ieri notte a #TorreMaura, per giunta gridando "#zingari dovete morire di fame", ha compiuto un gesto sacrilego che tormenta le coscienze di tutti noi". Martedì pomeriggio i residenti di Torre Maura, uniti nel comitato di quartiere, si erano radunati fuori dal centro di accoglienza non appena avevano saputo dell'imminente trasferimento tra le loro case di alcune decine di persone di etnia rom. "Una decisione calata dall'alto senza considerare le reali necessità degli abitanti del quartiere. Lottiamo da sempre per i diritti di tutti, soprattutto dei più fragili, ma l'ennesima decisione calata dall'alto la percepiamo come una ulteriore presa in giro nei confronti degli abitanti di un quartiere dove i problemi sono già tanti", aveva commentato la portavoce del comitato di quartiere, Maria Vittoria Molinari. Non è la prima volta che Gad Lerner prende posizione sulle tematiche relative a immigrazione e diritti delle minoranze. Il 28 marzo l'ex esponente di Lotta Continua aveva criticato l'ipotesi di revoca della cittadinanza italiana a Ousseynou Sy, l'autista del pullman di Milano che non aveva provocato una strage grazie all'eroismo di alcuni bambini ("La nostra Costituzione lo vieta in modo esplicito"). E proprio l'attentato sul bus, secondo lo stesso Lerner, sarebbe stato il risultato del "clima di odio contro i migranti".
Myrta Merlino strepitosa, zittisce le follie dei sinistri: "Se arrivassero 70 rom davanti a casa mia...", scrive il 3 Aprile 2019 Libero Quotidiano. "Voglio essere sincera". Esordisce così Myrta Merlino nell'editoriale all'Aria che tira ispirato ai fatti di Torre Maura. "Non so come reagirei se nel palazzo di fronte a casa mia arrivassero 70 rom. Anche se casa mia non è in una periferia degradata, anche se ho un buon lavoro e non ho un’oncia dei problemi che hanno gli abitanti di questa periferia romana". Così la giornalista introduce il tema della puntata. "Forse sono vittima anche io del pregiudizio contro i rom", ammette con estrema franchezza la conduttrice di La7, "ma dalla vicenda di Torre Maura gli unici che ci guadagnano sono i piromani della politica. Quelli bravi solo ad appiccare incendi e che non hanno mai trovato una soluzione. Gli altri, tutti gli altri, sono solo vittime".
“VOI LI VORRESTE I ROM SOTTO CASA VOSTRA?”. Da Panorama il 5 aprile 2019. La protesta degli abitanti di Torre Maura, a Roma, contro il possibile nuovo insediamento di Rom nel loro quartiere ha scatenato polemiche. Per alcuni si tratta di razzismo e fascismo, per altri di una protesta legittima e condivisibile. Il nostro articolo di commento si limitava a lanciare una semplice domanda, quella che alla fine si dovrebbe fare ogni volta che si tocca questa tematica che sembra non trovare risposta da decenni: "MA voi vorreste i Rom sotto casa vostra?". Una domanda semplice, per alcuni retorica e banale, cui basta un si o un no come risposta. Abbiamo poi condiviso l'articolo e la sua domanda, sui social. Ebbene. I numeri parlano chiaro: 50 mila persone raggiunte, centinaia i commenti, le condivisioni, i dibattiti tra chi ha risposto, le interazioni. E il conteggio continua ad andare avanti. Questo significa principalmente che l'argomento è di sicuro interesse tra i lettori. Da notare poi che molte sono le donne ad intervenire, anche in maniera dura. Il risultato? La maggioranza di chi ha risposto e commentato ha detto "no". Ma non manca chi invece ha detto "si". Questa una parte delle risposte ricevute alla nostra pagina facebook:
Anna Rita - Portateli ai Parioli,in piazza san Pietro, alla barcaccia o piazza Navona o a casa di Gad Lerner e falsi buonisti invece che continuare a massacrare la periferia!
Davide - Dove abita mia mamma zona tranquilla della Toscana c’è stato per due anni un campo rom macchine abbandonate furti nelle case biciclette che sparivano biancheria stesa che spariva è tutto fatalità da quando erano lì poi per magia tutto questo è sparito quando li hanno spostati. Magia.
Marina - Ma che caxxo ci dobbiamo pure giustificare??? Non li vogliono??? Ben gli sta vivono rubando per cultura.... elemosinano, mandano i ragazzini a saccheggiare invece che a scuola!!!! Smontano le auto.... adesso fanno le vittime, che due palle!
Angelo - Un centro di accoglienza subito ai parioli, per gli zingari e per i richiedenti asilo.
Luca - Io di sicuro sotto casa mia non vorrei dei fascisti.
Bruna - La domanda è ovviamente, palesemente retorica. E' ovvio che NESSUNO vuole gli zingari, si, perché sono ZINGARI, sotto casa sua. La domanda, ma soprattutto le risposte sarebbero state più interessanti, fosse stata formulata così :<CHI VUOLE UN BELL'ACCAMPAMENTO DI ROM-ZINGARI SOTTO CASA SUA??? FATE REGOLARE DOMANDA AL COMUNE">
Egidio - Ma neanche per sogno....I Rom sono quello che sono, e nn li cambierà mai nessuno....Fuori dall'Italia !!! Via che tornino al loro Paese di origine..
Giovanni - Piazza del vaticano….Francesco approverebbe...
Massimo - ..io ho abitato per 20 anni a ple delle muse pieno Parioli..ed abbiamo avuto i rom a monte antenne poi spostati sul greto del Tevere..ci hanno rubato tutto e ammazzato gli animali come cani e gatti..altro che razzismo.
Ciro - Gente che vive solo di espedienti, non è integrabile con la comunità civile...
Manuela - Nel condomino che è a 100mt da casa mia avevano dato un ppartamento a dei rom Non si è. Mai saputo in quanti fossero in quella casa .....facevano casino notte e giorno...oltre ad essere abituati a buttare secchiate per lavare il terrazxo .app.era al 7 piano....Dopo 4 anni li hanno mandati via. I condomini .Non ne potevano più. .....Se non li provi non ti rendi conto di come vivono.
Catia - Sono ben pochi quelli che rispettano le regole ....Ho avuto a che fare più di una volta con loro....sarò razzista ma non mi interessa.
Luigi - No. Perché? Perché come in quel vecchio film di Scola sono: brutti sporchi e cattivi. questo è un dato di fatto.Questo non è razzismo è la realtà, sono gente ignobile che non cambierà mai e parlare di integrazione è un assurdità. Bisognerebbe togliergli i figli e tempo un paio di generazioni si estinguerebbero ma, questa cosa va contro tutti i principi di democrazia e di giustizia, però forse sarebbe la soluzione.
Patrizia - Anziché fare domande che incitano solo a comportamenti violenti e razzisti perché questo giornale non pensa a proposte umane?
Marta - con quelli come voi di panorama sicuramente l'integrazione è impossibile. in altri paesi europei invece esiste già da un pezzo.
Salvatore - Ma avete mai visto un Politico portaseli a casa loro.
Stefano - Vicino da me ci sono ma è meglio non averli e non è razzismo sia ben chiaro ma non lavorano non pagano nulla e la società non può sempre permettersi di mantenerli.
Graziella - Sinceramente è molto difficile difendere i rom, loro si' che non rispettano le regole! Dovrebbe essere dato loro un permesso TEMPORANEO di soggiorno, all'interno di un'area di sosta per le loro roulotte...non dovrebbe essere permesso l'affidamento di un appartamento, visto che sono nomadi.
Antonella - Ma perché non vanno n loro paese tanto o fanno i zingari qui o li, ma perché tutti in Italia a delinquere.
Barbara - Ladri da sempre e sempre lo saranno. Infatti con tutti i soldi che hanno rubato si sono dati allo strozzinaggio. E sono diventati potenti. Troppo potenti. Ma nel nostro paese del cavolo tutto ciò che è sbagliato diventa fattibile.
Ferdinando - da quando ero bambino nel 1950 l’io visti sempre così adesso ne o 82 e sono ancora così ma di più ma ci sarà un motivo ,mia nonna mi diceva che sono come le zecche che siccome ci sono i bonaccioni e vivono così allora non capivo il proverbio.
Andrea - Ma che cavolo siete diventati, la rivista ufficiale dei razzisti come lo "Der Sturmer" nazista?
Publio - No, anche perché a detta dei carabinieri i due furti che ho subito a casa mia sono opera loro.
Mario - E' un dato di fatto che chi grida al "razzismo" non sono sfiorati da alcun problema di coesistenza. Se ne sentono fin troppe di problematiche causate da queste persone.
Daniela - ho vissuto qualche anno con dei vicini italianissimi : due alcolizzati cronici e un tossicodipendente mai diventato veramente ex (finalmente , per lui stesso,tornato in comunità di recupero) quel che abbiamo passato, non avete idea. Ripeto: ITALIANI.
Vittorio - Bel servizio. Breve ed incisivo. E una domanda poco retorica posta a tutti, radical chic e intello' per primi. Aspettiamo le loro risposte.
Mariella - Tutto quello che fai per loro e ' inutile .gli tandi la mano e già pensano come tagliartela ..mi dispiace ma è così. Mia sorella fu accerchiata da bambini zingari a Firenze e le rubarono il portafogli .rimase senza un soldo ed ebbe una crisi di ansia terribile . Questo esclude logicamente i Romeni che lavorano onestamente e con dignità.
Sabina - E quindi imbecilli subumani di Panorama? Voglio sapere la seconda parte del discorso, dopo il pistolotto sul buonista etc . E quindi ? Nessuno li vuole . E?
Giorgio - Beh, la lega si è rubata 49 milioni, ben più di quanto possa rubare un rom in tutta la sua vita, a quelli, però, leccate il culo. Cialtroni.
Martino - Portateli a casa della Boldrini, del papa e di tutti i falsi buonisti cattocomunisti.
Anna - Io non li vorrei sono dei ladri di appartamenti non mi sentirei più sicura in casa mia e non me ne frega che mi chiamano razzista chi è buono se li mette sotto casa propria.
Fanno fuggire migranti minori. Ma la coop incassava 2,7 milioni. Tra gli arresti anche il presidente e il responsabile del Consorzio di Solidarietà sociale Virtus Italia di Villa Spada, scrive Stefano Damiano, Mercoledì 03/04/2019, su Il Giornale. Registravano i minori, se ne assicuravano la retta giornaliera e poi li aiutavano a fuggire. Dopo un'indagine durata circa tre anni da parte del reparto Sicurezza Pubblica Emergenziale del Corpo di Polizia locale di Roma Capitalia, sono stai emessi, stamani, 22 misure cautelari riguardo a quanto accadeva nel Centro di Primissima Accoglienza per minori non accompagnati situata in via Maria Annibale di Francia. Le indagini sono scattate quando gli agenti della Polizia Locale hanno "pizzicato" diversi ragazzini registrati presso la Virtus Italia Onlus Cooperativa Sociale che compievano furti fra i passeggeri degli autobus; sono iniziati, così, i controlli nel 2016, che hanno portato al rinvio a giudizio del legale rappresentante della Cooperativa Sociale, che aveva la gestione del servizio per conto del comune di Roma, spesso attraverso le procedure di affidamento diretto. Nel 2017 le nuove indagini da cui sono stati accertati gli illeciti che hanno spinto il Gip del Tribunale Ordinario di Roma, Francesco Patrone, a emettere le misure cautelari. La Onlus aveva un contratto col Comune da 2 milioni 700mila euro, con una retta per i minori non accompagnati che registrava da almeno 87 euro. Dalle indagini della Procura e della Polizia locale sono emerse le modalità con si gestivano i minori per il periodo tra il 2017 e il 2018: prima venivano registrati così da assicurarsi la retta giornaliera , poi si aiutavano a scappare “inducendo” i ragazzi (la gran parte dei quali di etnia rom che in molti casi non più grandi di dieci anni) alla fuga. I responsabili del centro -denunciavano nei verbali, però, che i minorenni si erano allontanati volontariamente dalla struttura. Coinvolti la quasi totalità degli operatori del centro del centro che poteva ospitare sino a 30 giovani; stamattina all'alba sono scattate le misure cautelari con 16 arresti e 6 obblighi di firma. Si sono aperte le porte del carcere per E.S. (rappresentante legale), C.C. (responsabile della struttura) e V.M. (vice responsabile); dovranno rispondere di abbandono di minori, falso e frode in pubbliche forniture.
Incitamento all’odio, scrive il 3 aprile 2019 Augusto Bassi su Il Giornale. Fredda cronaca della mia briosa matinée. Mi sveglio alle otto dopo aver sognato Capezzone. Afferro una brioscia confezionata di modesta pasticceria, barcollo fino al computer e la intingo nella bufagina di Gramellini: «Un video del Corriere mostra quei gentiluomini dei talebani mentre prendono a cinghiate alcune donne in burqa, colpevoli di aver ascoltato musica (A scanso di equivoci, non si trattava di un cd di Al Bano). Sullo sfondo del supplizio si intravede una scolaresca: forse era l’ora di educazione civica. Vabbè, è l’Afghanistan, in Europa un simile fanatismo sarebbe impensabile… A Koszalin, in Polonia, un gruppo di sacerdoti cattolici ha dato pubblicamente alle fiamme i libri di Harry Potter, ritenuti contrari alle Scritture (Devo essermi perso il passo della Bibbia in cui Mosè scomunica il professor Piton). Al rogo è finito anche l’ombrellino di Hello Kitty, gatto animato giapponese, le cui colpe, sicuramente gravissime, restano avvolte in un mistero che si presta a qualsiasi congettura. Vabbè, è la Polonia, da noi un simile fanatismo sarebbe impensabile… In Umbria, Marcello Bazzurri (con la a), allenatore della Casa del Diavolo, che — lo preciso a beneficio dei sacerdoti polacchi — non ha nulla a che vedere con Serpeverde e Grifondoro, ha bocciato l’arbitra della partita, dichiarando che le donne, nel calcio, o fanno le pulizie o stanno in cucina. Se fosse per lui, il prato del futuro stadio di San Siro avrebbe l’angolo cottura. Vabbè, è l’Italia, in Afghanistan un simile fanatismo sarebbe impensabile». Vabbé, è un gazzettino di lercia divulgazione anti-italiana, sul Corriere della Sera un simile demenziale fanatismo sarebbe impensabile. Poi mi informo sui Social e trovo un Enrico Mentana profondamente imbarazzato per il post del primo marzo, in cui pontificava ad minchiam con la foga primigenia della stupidità ideologica: «Parte il tam tam dell’informazione più odiosa. Senza nessun elemento si scrive che Stefano Leo è stato sgozzato come una capra da un immigrato di colore. E altre nefandezze per avvelenare il clima. Ma non è così». Per chiedere venia decide di rilanciare sulla questione “satira scimmiesca” da pompe funebri. Riprende il direttore, parlando della Taffo & Co: «È uno dei fenomeni di questi anni: forse le pubblicità più singolari, caustiche e irridenti di sempre, col fine (o il pretesto?) di lanciare il meno allegro dei prodotti». Al che commento come da blog: «L’umorismo negroide che manda in estasi gli antirazzisti». Di lì a poco mi giunge la replica di regime, che allego in calce: «Il tuo commento viola i nostri Standard della community in materia di incitamento all’odio». Una notifica che per forma e contenuto è un esplicito incitamento all’odio. Intossicato, decido di spurgarmi leggendo un balsamico editoriale di Repubblica, firmato Roberto Perotti: «Accanto ai razzisti, in Italia ci sono tanti intolleranti per impreparazione, per disorientamento o sorpresa. E molti appartengono alle classi meno abbienti. La sinistra dovrebbe fare i conti anche con questo fenomeno». E sono solo le 10.
Torre Maura, in scena il Social Fascismo Show. Casapound e Forza Nuova si dividono la piazza con due format ormai consolidati. Rigorosamente in diretta streaming. Sfruttando il degrado della periferia romana come fosse un set. Che viene "smascherato" dall'intervento di un ragazzo di 15 anni, scrive Andrea Palladino il 4 aprile 2019 su L'Espresso. E’ un tragico format. Una sorta di Fascismo show, dove la disperazione delle borgate romane è lo sfondo, il pubblico, la claque. Casapound si è presentata a Torre Maura poco dopo la rivolta davanti allo Sprar che aveva accolto una settantina di Rom, in gran parte donne e bambini. Nessuna bandiera, ma tanti telefonini, tutti collegati con la piattaforma delle dirette video di Facebook, la vera piazza per i fascisti di via Napoleone III. Mauro Antonini, responsabile della regione Lazio per l’organizzazione, originario di Casal Bertone, è andato giù duro con le parole il giorno dopo la scena terrificante del pane calpestato dalla folla: “Accusa di istigazione all’odio razziale? Per me sarebbe una medaglia”. «Saremo indagati per odio razziale? Per me è una medaglia!». «I Rom si vogliono integrare? Che partissero dall'agricoluta, mandiamoli nei campi sterminati della regione, mandiamoli nel nulla...» Così Mauro Antonini, responsabile della regione Lazio per l’organizzazione, originario di Casal Bertone, è andato ad arringare la piazza a Torre Maura, dove nelle scorse ore si è scatenata una violenta protesta contro il trasferimento di un centinaio di persone in una struttura di accoglienza del Comune. Slogan duri, faccia tirata. Stop. Finisce lo streaming, gestito dai militanti. Si guarda intorno, sussurra all’orecchio dei suoi uomini, prepara il prossimo collegamento. E in fondo quello che ha davanti è per l’organizzazione un vero set, in grado di garantire decine di migliaia di visualizzazioni, un fiume di commenti con la classica manina alzata e gli immancabili insulti contro Rom e stranieri. Giuseppe – il cognome non lo dice – è l’apripista. In prima fila la sera delle barricate e del pane distrutto. Viene da un altro quartiere, “ma a Torre Maura in passato ci sono venuto a lavorare”, assicura. Si mette al centro dei capannelli di ragazzini, è un fiume di parole: “I loro figli non sono come i miei”. Si riferisce a quei bambini Rom chiusi nell’assedio. Poi prende il cellulare, con la cover coperta dalla stemma di Casapound. Si mette a fianco con un altro militante e via con la lunga diretta. Il secondo giorno della protesta gli abitanti di Torre Maura erano alla fine una ventina, numero che cresce di poco nel pomeriggio. Tanti giovanissimi: “Quello è amico di mio padre”, spiega un’adolescente alla sua amica, indicando Giuseppe, il militante di Casapound. Una quattordicenne apre una videochiamata con l’amica commessa in un negozio, “dai, ora ti faccio un’intervista”. Poco dopo la piccola folla si raduna attorno ad una delle tante dirette televisive del pomeriggio: “Ora ci fermiamo per cinque minuti di pubblicità”, spiega l’inviato. Tutti capiscono quei tempi televisivi, tenendosi pronti per il collegamento successivo. E’ il fascismo sui social, però, a dettare i ritmi della piazza. E ogni organizzazione ha il suo format. Alle sette di sera, come annunciato, a Torre Maura arriva un piccolo gruppo di Forza nuova. Megafono in spalla, rimangono in disparte lontano dal set di Casapound. All’improvviso appaiono di fianco al blindato del reparto mobile della Polizia, lungo la ringhiera dello Sprar dove le donne e i bambini Rom attendono di essere trasferiti: “Fino a quando non riusciremo a buttare fuori tutte queste m… non ce ne andremo da qua, perché questa non è casa loro, è casa nostra. Questa è Torre Angela!”. Peccato, quartiere sbagliato, siamo a Torre Maura. In strada, verso il tramonto, si vedo i volti delle curve, qualcuno con la scritta “Irriducibili”. La tensione la senti salire. Esplode una bomba carta, i cronisti corrono a vedere e, subito, appare un gruppetto minaccioso: “Giornalisti terroristi!”. Altri metodi, ma lo show alla fine è lo stesso. Casapound ha annunciato una manifestazione per sabato prossimo. Fino a quando ci sarà anche un solo Rom nello Sprar quella è una piazza da non lasciare: “Mo’ se dovemo organizza’ - spiega uno dei militanti – dobbiamo creare una presenza qui”. La tartaruga con le frecce da queste parti fino a due giorni fa era inesistente. Un anziano del posto, arrivato nella borgata quando stavano nascendo le prime case popolari, oggi porta il caffè ai camerati arrivati per il presidio: “No, non li conoscevo prima, non li avevo mai visti qui”, assicura. A Torre Maura – come in tantissime periferie romane – la politica è sparita da tempo. Ad iniziare dalla sinistra, completamente assente in una giornata difficile come questa. Cresce però quel fascismo diffuso, pronto ad alimentarsi tra i giovanissimi attraverso social e streaming. Non c’è ragazzino davanti allo Sprar senza uno smartphone, usato per seguire in tempo reale le dirette. I bambini spiano dalle grate le finestre del centro d’accoglienza, chissà come saranno questi Rom. Cosa rimarrà alla fine? “Li vedi? Sono qui solo per una passerella”, spiega un cinquantenne, titolare di una piccola ditta di edilizia. Abita a cinquanta metri dallo Sprar, è sceso anche lui in piazza per protestare. Ma soprattutto ci tiene a far capire quel disagio che c’è dietro, che vuole far sentire la propria voce, almeno oggi. Ma dopo ore di Casapound show si mette in disparte per far capire la sua distanza dal movimento di Iannone. Una voce che rimane isolata, fino a quando un ragazzino di quindici anni interrompe una diretta di Mauro Antonini: “No, non siamo tutti d’accordo, io sono di Torre Maura e non sono d’accordo”. Per poi aggiungere: “Lei sta facendo leva sulla rabbia della gente del quartiere mio per i suoi interessi e per i suoi voti”. Per un attimo il Re è nudo.
Antonello Piroso per “Virgin Radio” il 4 aprile 2019. Oggi vorrei occuparmi della periferia romana, del quartiere di Torre Maura, con la rivolta dei residenti spontanea o spintanea, sobillata, incentivata, cavalcata, provocata dalle forze politiche che occhieggiano con simpatia al fascismo, Forza nuova e CasaPound. Ne voglio parlare cercando però di non tagliare per i campi, a colpi di slogan, in un senso o in un altro. Perchè è facile dire e liquidare tutto come razzismo o xenofobia, o dall'altra parte minimizzare, comprendere e sbraitare al "prima gli italiani". Usciamo insomma dal luogocomunismo, e proviamo a ragionare senza facili suggestioni. Prima di tutto fatemi dire che le immagini del pane calpestato, per non darlo ai rom, nomadi, zingari chiamateli come vi pare (70, se non ho capito male, di cui 33 bambini, con tre donne incinte), quelle immagini dicevo gridano vendetta al cospetto di Dio. Se proprio li vuoi far morire di fame, o peggio "bruciati vivi", come pure qualcuno avrebbe auspicato, il pane non glielo dai, glielo sequestri, non lo butti per terra e ci cammini sopra, perchè solo all'idea mi si torcono le budella. E' motivo urticante vedere anche la retromarcia del Comune di Roma dopo la protesta o la rivolta che dir si voglia, perchè potevi pensarci prima, cara sindaca Virginia Raggi, se poi non volevi minare il principio di autorità, dare l'impressione che le tue decisioni siano soggette agli umori della piazza, in perfetto stile -e lo dico consapevole del paradosso, ma così ci intendiamo- confuso e ponziopilatesco, per la serie "Volete voi libero Barabba?". Vorrei comunque provare ad alzare di una tacca il livello del ragionamento, e parlare delle nostre periferie, non solo quelle di Roma. Non serve essere uno studioso di sociologia urbana, per osservare che nelle nostre città, metropoli o comuni medi o piccoli, in centro viva meno gente che nelle periferie, vuoi perchè gli immobili sono più cari, da comprare o da prendere in affitto, e poi perchè ci sono uffici, banche, esercizi pubblici, e via elencando le più diverse attività. Più ci si allontana dal centro, e più la popolazione residente aumenta. Allora la domanda è: che cosa è stato fatto negli ultimi 25 anni, quelli della seconda e terza repubblica, dalla politica, intesa trasversalmente, e da tutti noi, perchè non è che ci possiamo sempre chiamare fuori demandando ad altri le responsabilità, per evitare il disagio e il degrado delle periferie? Li bolliamo come quartieri dormitorio, li chiamiamo case popolari o casermoni, con i giardinetti dove non crescono erba o fiori, ma spaccio e tossicodipendenza, ma cosa è stato fatto, ripeto, perchè quegli spazi non assomigliassero a non luoghi, a vere e proprie fogne sociali? Poi io lo so che davanti al tentativo di ragionare, c'è sempre il fenomeno che arriva e ti dice a muso duro: "Se ti piacciono tanto i migranti, i rom, gli zingari, perchè non te ne pigli uno a casa?", o come hanno urlato alcuni dei residenti di Torre Maura: "Invece di pensare agli zingari, pensate ai nostri terremotati", quindi ecco che io dovrei pensare, parafrasando, "prima agli italiani". Ma io ci penso già: e lo sapete come? Pagando le tasse, fino all'ultimo centesimo, al 50 per cento dei miei redditi. Ecco come penso ai miei connazionali e al bene pubblico, io la mia parte la faccio già, anche se poi, certo, si potrebbe fare sempre di più e meglio. Contribuisco con il 50 per cento dei miei redditi a finanziare quello che lo Stato dovrebbe fare per il bene di tutti i miei concittadini. Se poi lo Stato, i partiti, tutti i governi che si sono succeduti negli anni non sono stati capaci di usarli bene, di destinarli a quell'impiego, e di pensare a tutti, anche ai terremotati, anzi: prima a loro, certo, ovvio, però poi vorrei vedere quanti di quelli che dicono a me: "Se ti piace il negro, prenditene uno a casa", oppure minacciano, "non ti hanno ancora spezzato le gambe?", che integra l'istigazione a delinquere, o inveiscono: "Stronzo, zecca comunista, pensa ai terremotati", sarebbero loro disposti a prendersi in casa un terremotato, per dimostrare la loro concreta solidarietà, e quanti di loro sono contribuenti altrettanto onesti e non invece furbetti del quartierino? Ma torniamo ai nostri governanti, tutti, di destra, di centro e di sinistra, e a cosa hanno fatto per prevenire o lenire il disagio delle periferie, dei ghetti che stanno laggiù, allo sprofondo, in un altrove su cui preferiamo chiudere gli occhi, si arrangiassero un po' loro. Con lo Stato che non c'è più o non c'è mai stato, scusate il pessimo gioco di parole, che le ha abbandonate a se stesse, se n'è dimenticato, fa finta di non sapere che esistano. Cosa ha fatto la politica per le case comunali fatiscenti dove ci piove dentro? Dove vivono persone che sicuramente hanno più difficoltà delle altre a -perdonerete il ricorso a un'immagine stanca e stucchevole, ma questa è la realtà- a sbarcare il lunario, ad arrivare a fine mese. Con il risultato che sono sacche crescenti di disperazione, che degenerano in esasperazione, con il povero che bullizza quello ancora più povero, il penultimo che se la prende con l'ultimo, l'emarginato che se la prende con il diverso da sè, per colore della pelle, per religione, per gusto sessuale, perchè quando c'è la crisi e c'è la paura del futuro, basta individuare un capro espiatorio purchessia per sfogare la propria frustrazione. E sto parlando di tutti i governi degli ultimi 25 anni: quelli di centrodestra di Silvio Berlusconi, con dentro la Lega, che adesso finge di essere arrivata a palazzo Chigi per la prima volta nel 2018; e ovviamente parlo anche dei governi di centrosinistra di Romano Prodi, con il partito democratico, i democratici di sinistra, la margherita e tutto il porcoddinci del caravanserraglio dei cespugli e dei cespuglietti. Non hanno fatto nulla, così la rabbia cresce a dismisura e poi esplode, tanto più se a fianco di quei quartieri dimenticati da Dio e dagli uomini arriva il campo nomadi, con quei signori che girano in Mercedes sfoggiando orologi d'oro, risultando nullatenenti e con i figli magari che accedono ai quei servizi comunali che vengono finanziati e sostenuti dai contribuenti onesti, campi dove prospera anche l'illegalità, con persone che banalmente si allacciano all'energia elettrica in modo abusivo, ed è questo per cui a certa gente va il sangue alla testa: non è odio razziale, troppo facile, è l'impotenza davanti a quella che viene vissuta come una profonda ingiustizia, una sperequazione punitiva, perchè vedi l'impunità o il senso di impunità, e l'illegalità esibita. E poi è chiaro che la destra razzista e xenofoba ci va a nozze con questo stato di cose, affonda il coltello nel burro. Succede da sempre, in tutte le democrazie quando vanno in malora alla deriva, arrivano gli uomini forti che hanno la ricetta per tutti i mali, che dall'estrema destra come dall'estrema sinistra, offre alle persone impaurite e incattivite un bersaglio: il nemico del popolo nella Russia sovietica, l'ebreo nella Germania nazista, coltivando così il senso di rivalsa che non passa attraverso un miglioramento delle tue condizioni, no, molto più facile puntare a far stare come te o peggio di te chi sta meglio di te, basta questo, colpire il bersaglio che ti viene additato, e vai con la decrescita felice. Invece aprite oggi i giornali e trovate Giorgetti, il sottosegretario leghista a palazzo Chigi, che personalmente mi piace e stimo, che parla o avrebbe parlato dei dossier che i grillini avrebbero su tutti, avversari e propri iscritti, e troverete il sottosegretario Stefano Buffagni, pentastellato, che dice, a proposito del ministro Tria che ha lamentato una campagna di dossier-spazzatura contro di lui, Buffagni dice: "la nostra intelligence non fa di queste cose". La nostra intelligence?!? Ma chi siete, cosa siete, la Cia, la Spectre? Ecco di cosa si preoccupano le forze di governo, e fatemi concludere con la sindaca Raggi, cinquestelle, che ha parlato della necessità di arginare l'aggressività, imbevuta di odio razziale, di Forza Nuova e di CasaPound. Segnalo sommessamente alla sindaca, nel caso le sia sfuggito, che i cinquestelle sono al governo con la Lega, e che se c'è una forza politica che gode delle simpatie e dell'appoggio in molte realtà di Forza Nuova e di CasaPound, quella forza politica è proprio la Lega, con l'impressione che quella simpatia e quel sostegno siano ricambiati. Vorrei ricordare che quando a Roma si è trattato di sgomberare lo stabile occupato da CasaPound, il ministero dell'Economia con una nota anche del Tesoro ha fatto un comunicato per dire che svolta l'istruttoria e tutti gli adempimenti necessari per rientrare in possesso dello stabile occupato da CasaPound, la palla è stata passata al Prefetto che ha deciso che tale sgombero non sia una priorità. Strano, perchè io a Roma ho visto altri stabili occupati che sono stati sgomberati anche con un certo dispiego di uomini e mezzi, e con una discreta veemenza. Benissimo. Sgomberiamoli tutti. Ma che siano tutti ma proprio tutti. Ma come mai proprio quello di CasaPound invece proprio no? A proposito: ho un vuoto di memoria, un'amnesia... da chi dipende il prefetto, da quale ministero? Come dite? Quello dell'Interno? E chi è il ministro dell'Interno...? Ah, ecco. Estote parati, voi che ascoltate siete la resistenza. Buona giornata a tutti dal Cavaliere Nero".
Alessandra Camilletti e Lorenzo De Cicco per il Messaggero il 4 aprile 2019. «E mica sono solo i Rom. È tutto, è che siamo abbandonati», dice Giuseppina Pisanò, 72 anni, ex custode della clinica di via dei Codirossoni a Torre Maura, diventata, da 48 ore, centro d'accoglienza per i nomadi e prima ancora, per quattro anni, casa di profughi e richiedenti asilo. «Sono le bollette dell'affitto, che sono appena aumentate mentre nelle case popolari cade tutto a pezzi», dice mentre sventola i cedolini del Campidoglio per il suo appartamento: «Vede, a febbraio erano 62 euro, ora, ad aprile, sono diventati 83. E io ho la pensione sociale...». Sono gli alberi, venuti giù da tre anni e che nessuno raccoglie dal ciglio delle strade. «La gente viene con la motosega per farsi la legna. Altrimenti non li tocca nessuno, mai visto un operaio», si sfoga Guido, ex guardia giurata, «ho preso pure le pallottole». Anche lui è avvelenato per il rincaro dei costi negli alloggi comunali. «Ad aprile le spese accessorie, si chiamano così, sono schizzate a 69 euro, fino a marzo ne pagavo 41. E in camera da pranzo la parete sta venendo giù, quelli del Comune sono venuti, hanno fatto le foto, poi basta, tanti saluti». «Non mi vergogno di dire che la Raggi l'ho votata. Lo rifarei? Per carità, una delusione, tutto fumo negli occhi. Un disastro», confida, come tanti da queste parti, Antonio Del Giudice, 69 anni, ex responsabile di una ditta di pulizie. A Torre Maura, nel VI Municipio, distretto da 250mila abitanti, come Verona, i 5 stelle nel 2016 veleggiavano intorno all'80%. E ora fanno i conti con la delusione che davanti all'arrivo massiccio dei rom si è trasformata in rabbia feroce. Troppo facile parlare solo di Casapound e dell'ultradestra che soffia sui malumori. «Non siamo razzisti, a quelli che c'erano prima, i profughi, portavo la colazione, tutti i giorni. Erano rispettosi, non come questi», racconta Fedora, per nulla stanca, nonostante i suoi 75 anni e le ore passate di picchetto davanti al centro d'accoglienza. «Non ho niente da fare, posso star qui tutto il giorno, finché questi non se ne vanno». E dicono lo stesso i disoccupati e i ragazzi che non studiano e aspettano un lavoro. «Le buche? Guarda le radici degli alberi, guarda che hanno fatto...», sbuffa Olimpia e indica gli ammassi di asfalto informe e subito dopo gli sprofondi, il bitume sgretolato come farina sporca. «Non riusciamo a parcheggiare, tanto sono alti». Non sono solo i rom, è anche l'autobus che non passa mai. È il 556 che da queste parti non si vedrà più, come si legge in un volantino che passa di mano in mano. «Per 450 famiglie la linea non farà più sei fermate. E come ci vanno a scuola i ragazzini? Come ci andiamo a lavoro?». È l'immondizia che trabocca dai cassonetti stracolmi. Infilata perfino nelle carcasse delle auto abbandonate. Vicino alle roulotte e ai camper dove vive chi una casa non ce l'ha più (quattro caravan parcheggiati solo davanti al mercato rionale, quasi tutte le serrande abbassate, per la crisi). «Ci vengono dagli altri quartieri, a scaricare la monnezza. Perché lì fanno il porta a porta e non hanno più i bidoni. Ma i netturbini non passano e allora la portano tutta qui. Come una discarica», spiega Tonino R., invalido «al cento per cento, ho pure la 104». Giuseppe De Marchi, carpentiere, si accalora per i furti. «Mi hanno portato via pure i passeggini dei nipoti, i passeggini, capisce? racconta E proprio qui accanto c'è un campo rom». Ci sono i giardini pubblici che potrebbero essere dei gioielli, ridotti invece a giungle impraticabili. «Dobbiamo far tutto da soli racconta ancora Giuseppina Chi taglia l'erba? Chi pulisce? Sono caduti sei alberi sull'area giochi per bambini, nessuno li ha portati via. Per un po' se n'è occupato un signore, abitava qui vicino, poi si è stancato e se n'è andato. Anche i ragazzi, i profughi, davamo loro 5 euro e tagliavano l'erba, ora non lo fa nessuno». E la guerra contro i rom diventa l'unico scalpo che si può ottenere subito, perché sugli altri fronti sembrano esserci solo battaglie perse.
«IL RAZZISMO NON C' ENTRA NULLA LOTTIAMO SOLO PER SOPRAVVIVERE». Camilla Mozzetti per il Messaggero il 4 aprile 2019. «Badi bene, non è una questione di razzismo ma di sopravvivenza e lo scriva a caratteri cubitali: siamo solo stanchi». Stringe i pugni e alza il tono della voce quasi volesse liberarsi da quelle parole che le opprimono il respiro. Gabriella «romana de Roma, nata al Quadraro» è appena uscita dall' appartamento popolare che da dieci anni condivide con la madre 80enne a due passi dal centro Sprar di via dei Codirossoni dove sono stati ospitati una settantina di nomadi. È lei la pasionaria di Torre Maura che la notte di martedì scorso ha preso parte al tavolo convocato dal Campidoglio, con il capo di gabinetto della sindaca Raggi, Stefano Castiglione, in VI Municipio per gestire l' emergenza della rivolta nata dal basso contro l' arrivo dei rom. Si parla di odio sociale ma è solo una guerra tra poveri. «È stata la goccia dice la donna che ha fatto traboccare il vaso».
Gabriella, perché? Ci spieghi il motivo.
«Noi viviamo in case popolari che cascano a pezzi. Se scendiamo nelle cantine non si sa quello che si trova, con l' acqua che scende dai soffitti e le ringhiere divelte. Nessuno si occupa di noi come accade con queste persone. Trovi gente che urina in mezzo alla strada, questi molestano i ragazzini, ti entrano dentro casa».
Ha mai subito un furto o un borseggio da parte dei nomadi?
«La figlia di una mia amica è rimasta coinvolta in un tentato furto ma a prescindere da questo non è gente che vuole integrarsi. Dicono di volerlo fare ma prendono in giro tutti, hanno una cultura diversa dalla nostra. Erano meglio i ragazzi di colore che c' erano prima».
Infatti proprio in quel palazzo per diversi anni ci sono stati degli extracomunitari.
«E infatti si erano integrati senza problemi, aiutavano le persone, gli anziani come mia madre a cui le offrirono una mano per scendere dall' autobus. Nel mio palazzo hanno dato un appartamento di due stanze a una famiglia nomade. In 12 tra cui 8 bambini piccoli che vivono in due camere, contravvenendo tutti i principi di igiene e sicurezza è normale? Ed è normale per lei che ci siano famiglie di italiani con figli piccoli che vivono nelle cantine?».
Quando li avete visti la prima volta?
«Io ho saputo che arrivavano ieri pomeriggio (martedì ndr) ma già la notte precedente c' era stato movimento e così non si fa. Vogliamo integrarli? Per carità di Dio, iniziassero a lavorare e a pagare le tasse ma prima, gli italiani. Per queste persone i soldi ci sono invece per noi, per mettere a posto le case dove viviamo, non c' è mai nulla.
Abbiamo dovuto protestare per farci tagliare due alberi pericolanti e per farci fare una strada che c' è via Walter Tobagi che non si sa come sta: aspetteranno il morto per metterla in sicurezza. Ci hanno alzato gli affitti e pure paghiamo tutti anche se qualche giorno c' è chi non riesce a portare il pane a casa».
Vi accusano di essere razzisti e la Procura di Roma ha aperto un fascicolo per danneggiamento e minacce aggravate dall' odio razziale. Che risponde?
«Che è ora di finirla. Non è razzismo questo è spirito di sopravvivenza perché non ce la facciamo più. Se eravamo razzisti avremmo provato a mandar via anche i ragazzi di colore che c' erano prima. Non è mai accaduto. Siamo razzisti con chi è zozzo e molesta i ragazzini».
A guidare la protesta è CasaPound?
«Ma dove? Qua c' è la gente del quartiere. Non mi importa chi ci sostiene, ben venga se si combatte insieme per qualcosa».
Il Comune ha promesso di allontanarli ma voi restate in strada.Perché?
«Non andrà via nessuno fino a quando non saranno andati via tutti i rom. L' amministrazione ha detto che concluderà le operazioni entro sette giorni, questo è stato l' accordo.
Viviamo nel degrado e nell' abbandono: le cose devono cambiare».
PiazzaPulita, Corrado Formigli sconvolto da Simone: "I rom non sono come noi", ovazione in studio, scrive il 12 Aprile 2019 Libero Quotidiano. "Alcuni rom sono italiani, ma uguali a noi non è il termine più giusto". Simone, ospite di Corrado Formigli a Piazzapulita, su La7, con molta semplicità, dice quello che con ogni probabilità la maggioranza degli italiani pensa, e infatti in studio c'è una ovazione. "I rom hanno un'altra tipologia di vita rispetto al nostro", continua Simone, "o almeno la maggior parte di loro. Di certo non possono vivere in una palazzina con persone anziane o invalide, che devono stare con la paura che gli entrino dentro casa". E ancora: "Noi non siamo come loro, non insegniamo certe cose ai nostri figli". Ma Formigli prende subito le distanze, sia dal suo ospite che dal pubblico che lo ha applaudito. "C'è stato un applauso in questo studio e questa cosa mi fa paura. Non do la colpa a Simone ma mi domando: cosa sta succedendo in questo Paese? Quanto è pericoloso alimentare questo tipo di pensiero? Mi dissocio da questo applauso perché non si può certificare che due esseri umani non siano uguali", conclude sconvolto.
FORMIGLI, SCENDI A PATTI CON LA REALTÀ. Da La Stampa l'11 maggio 2019. ''Io lo sento il clima dentro questo studio. Ogni volta che parliamo di rom succedono cose diverse, quindi evidentemente c’è una sensibilità diversa su questo tema, anche adesso con questo applauso fragoroso''. A Piazza Pulita, in onda su La7, Corrado Formigli è intervenuto durante il suo programma dopo un applauso del pubblico alle parole del giornalista Francesco Borgonovo, che, commentando i fatti di Casal Bruciato insieme alla mediatrice culturale Dijiana Pavlovic, aveva detto: ''Tutti dovrebbero lavorare, pagare un affitto, mandare i figli a scuola. Cosa fanno di lavoro? I mercatini?''. Dopo un lungo applauso del pubblico, Formigli ha spiegato: ''Ogni persona deve essere valutata per la propria storia, non per una supposta colpa collettiva. Le colpe collettive in passato hanno prodotto mostruosità''.
“SE FACESSERO UN SONDAGGIO, GLI ITALIANI SAREBBERO D’ACCORDO SULLO STERMINIO DEI ROM”. Da Libero Quotidiano il 16 aprile 2019. "È possibile integrare i rom in Italia?". Questo il tema del dibattito durante Quarta Repubblica, il talk show di Nicola Porro su Rete 4. Tra i favorevoli: il vignettista Vauro Senesi e il giornalista Piero Sansonetti. Il rappresentanza degli scettici, invece, c’è il giornalista di Libero Filippo Facci, Annalisa Chirico e Daniele Capezzone. “I rom non si possono integrare, come concetto è un ossimoro", dice Facci, "nel momento in cui un rom si integra o, per usare un termine ‘caro’ agli ebrei, si cerca di assimilarlo, non è più un rom in senso assoluto”. Secondo il giornalista di Libero “la cultura rom prevede un percorso da cacciatori-raccoglitori, direbbe un antropologo. Per cui praticamente vivono itineranti, non interessa loro integrarsi in nessuna maniera. Vivono in un mondo completamente a parte che però non può più avere futuro". L'analisi di Facci prosegue: "E, nei fatti è una separatezza razziale, è l’unico caso in cui uso questo termine che non dovrebbe esistere visto che non esistono le razze. Quello rom è l’unico popolo, oltre a quello ebraico, che i nazisti hanno cercato di distruggere attraverso l’Olocausto. Se facessero un sondaggio probabilmente in Italia credo che equamente destra e sinistra sarebbero d’accordo e mediamente indifferenti, mi rendo conto di quello che dico, persino sullo sterminio completo della popolazione rom. Tutti pensano e sanno che il rom ruba, delinque, non manda i bambini a scuola, fa parte di piccole mafie, non esiste alcuna cultura rom”. Vauro: "Tu non sei razzista sei cretino". Questa la risposta pacata del vignettista di Marco Travaglio.
“NON VOLERE I ROM È LEGITTIMA DIFESA”. Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 4 aprile 2019. I romani sono insorti contro i rom. Non li vogliono sotto le proprie case perché hanno il timore di essere derubati. Difficile dargli torto, anche se deploriamo le loro reazioni violente. Però quale altra forma avrebbero a disposizione per protestare? Andare lancia in resta sugli zingari non è elegante, ma tenerseli tra i piedi è ancor meno piacevole. Infatti nessuno ha mai capito come essi campino visto che non lavorano, forse non trovano un posto e forse non lo cercano nemmeno. Preferiscono probabilmente vivere di espedienti, e non è un mistero che si distinguano da sempre per una specialità in cui sono maestri: il furto con destrezza, "arte" che imparano fin da bambini, dato che il minore colto in flagranza di reato non subisce conseguenze di tipo giudiziario. Non è lecito dire che tutti gli zigani siano malfattori incalliti, tuttavia non si può neppure affermare che essi siano affidabili sotto il profilo della buona condotta. Cosicché i romani per la presenza di varie tribù davanti alle loro abitazioni è normale siano fuori di testa. Temono di essere depredati da gente che non brilla per correttezza. Hanno ragione, ripeto. Ci sembra strano che i nomadi siano autorizzati a occupare il suolo pubblico. Sarebbe meglio che continuassero a risiedere nei campi assegnatigli dal Comune onde evitare una contaminazione dalla quale vi è il rischio scaturiscano frizioni sociali complicate da gestire in modo pacifico. In sostanza i cittadini della capitale che respingono i rom dai propri quartieri, sapendo le abitudini disoneste di costoro, esercitano il diritto alla legittima difesa. Stare gomito a gomito con chi è dedito alle grassazioni non è rassicurante. Non è il caso di parlare di razzismo, qui si tratta di evitare l' assalto di furfanti vocazionali e professionali. Al sindaco Raggi l' arduo compito di escogitare una soluzione.
Vittorio Feltri e i rom, la verità scomoda: "Se lo zingaro è ladro, meglio...". Perché il razzismo non c'entra, scrive il 14 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Va bene, la polemica è il sale della tv e anche il veleno della medesima. Il lettore sa che un ragazzino si è presentato a Piazza pulita, programma de La7, e discettando dei rom ha detto che costoro sono diversi da noi nei comportamenti. Nello studio sono scoppiati applausi che hanno infastidito il conduttore, noto progressista allievo del dilagante Santoro. Le scuole di pensiero in Italia sono due. Una, minoritaria, sostiene che gli zingari sono persone rispettabili benché vivano in modo strano, nei campi a loro destinati. L' altra, maggioritaria, non tollera che i nomadi si mischino alla gente comune e compie azioni poco civili per allontanarla dalle proprie case. Il problema è mal posto. Una grande quantità di rom negli anni si è integrata e mescolata in modo indolore nel consorzio nazionale, assumendone stili di vita, costumi e abitudini. Ciò significa che vari zingari di origine non sono diversi dai compatrioti, contro i quali non si registra alcun fenomeno di razzismo. Ovvio, chi partecipa alle attività sociali non viene discriminato e neppure riconosciuto come alieno. Ma attenzione. Circa 30 mila nomadi se ne sono guardati dal farsi assimilare nel nostro contesto e continuano a campare in tende e roulotte e roba simile, rifugiandosi in pieno stile clochard in zone periferiche. E questo non sarebbe niente, se non fosse che costoro non lavorano e, per mettere insieme il pranzo con la cena, non fanno altro che rubare. Addestrano le donne (incinte) e i bambini a compiere furti nella certezza che, quand' anche fossero colti in flagranza di reato, la farebbero franca in ossequio alle leggi in vigore. Va da sé che i ladri non godono di buona fama e che i cittadini cerchino di starne alla larga. Non è questione di razzismo, bensì di prudenza. Se sotto casa tua si addensa un gruppo di furfanti conclamati non stai sereno, sai che prima o poi ne sarai vittima. E ciò ti allarma e ti fa girare le scatole. Vuoi allontanare il pericolo non tanto perché gli zingari siano brutti e spesso sporchi, ma perché costituiscono una minaccia per te e la tua famiglia. Dopo di che il fatto che essi non mandino i figli a scuola e dispongano di automobili di lusso accresce il sospetto che siano bande inaffidabili. Difficile sostenere il contrario. Chi lo fa o è cieco o cretino o entrambe le cose. Vittorio Feltri
Torre Maura, il razzismo ed una domanda sui Rom. A Roma polemiche e barricate di un quartiere contro un insediamento Rom, e subito parte l'accusa: "Razzisti". Ma chi li vorrebbe davvero sotto casa propria? Scrive Panorama il 4 aprile 2019. "Ma lei li vorrebbe i Rom sotto casa sua?". Più o meno tutte le persone del quartiere romano di Torre Maura scese in piazza ieri per cercare di bloccare l'arrivo di 70 rom in un nuovo insediamento nel quartiere hanno posto questa domanda ai giornalisti che si sono precipitati a raccontare e documentare la loro protesta. Una protesta rabbiosa, con momenti assurdi (non si calpesta mai il pane, soprattutto se destinato anche a 30 bambini) ma identica a quelle che, di fatto, convive da sempre ed in ogni angolo d'Italia quando si parla di Rom. Perché che sia via Triboniano a Milano, o Torre Maura a Roma o qualsiasi altro campo rom la situazione è identica: la gente protesta. La gente, non tutta ma di certo la stragrande maggioranza, non li vuole.
Allora ci sono due strade. La prima è l'attacco: "Razzisti", "clima d'odio". Alcuni giornali, alcuni politici, e tante persone sui social hanno scritto e commentato così la protesta di quella gente. Commenti partiti da comode redazioni, o uffici, o case dove di Rom, nei paraggi, non ce ne sono. Persone che poi, ad esempio quando transitano in Stazione Centrale a Milano, alla vista di una "zingara" (la gente li chiama così) stringe la borsa al petto o cambia strada.
La seconda strada è cercare di capire. Capire perché ci spaventano. Magari ascoltare, senza pregiudizi, le parole di chi protesta. Negare che i Rom portino con loro un problema di sicurezza è falso (ci sono decine di statistiche e relazioni). Negare che l'integrazione sia molto ma molto complessa, se non impossibile, è falso.
Un solo episodio: 15 e più anni fa il Comune di Milano decise di sistemare il campo di via Triboniano. Venne distrutta una baraccopoli abusiva, creata alle spalle di una struttura esistente, vennero assegnate casette con acqua, corrente, gas. Vennero anche offerti tanti posti di lavoro quanti erano gli adulti. E garantite scuole ai bambini. Morale: a lavorare andarono in due (su una quarantina); a scuola, dopo un mese, non ci andò più alcun bambino. Erano in giro a chiedere l'elemosina. Quindi, lasciate alle spalle la tifoseria, fermatevi e rispondete alla domanda che arriva da Torre Maura: "Ma lei li vorrebbe i Rom sotto casa sua?"
I MIGRANTI STIANO TRANQUILLI, ORA SE LA PRENDONO CON GLI ZINGARI! Maria Rosa Tomasello per “la Stampa” l'8 aprile 2019. Davanti al palazzo di via Cipriano Facchinetti 90, a Casal Bruciato, prima periferia est di Roma, i residenti che da domenica protestano contro l' assegnazione di un alloggio popolare a una famiglia rom, replicano con una domanda alle domande dei giornalisti: «Tu sul tuo pianerottolo ce li vorresti?». Loro sono «gli zingari»: quelli «che rubano», quelli «che sfruttano i loro bambini» e girano con «macchine da sessantamila euro». Quelli che «sarebbe meglio spostare fuori dal raccordo anulare». Quelli che «se sono nomadi, devono nomadare». «Non siamo razzisti, ma gli zingari non ce li vogliamo - dice la signora Claudia, che nel 1974 occupò a San Basilio - A mio nipote, che ha 11 anni, per togliergli un euro gli hanno puntato un coltello alla gola. Se fossero immigrati sì, anche neri sì. Purché sia gente onesta». Non è sufficiente ricordare, come ripete la sindaca di Roma Virginia Raggi, che la famiglia destinataria dell' appartamento ne abbia diritto, sulla base di regolare graduatoria. Qui, dove gli occupanti abusivi sono consuetudine, i rom sono indesiderabili. Come a Torre Maura, è Casapound a guidare la contestazione. Megafono in pugno, Giuseppe Di Silvestre arringa poche decine di persone: «Non ci sono i soldi per la sanità, le persone anziane sono costrette a frugare nell' immondizia, e poi si fa un bando per l' accoglienza da 986mila euro. I cittadini sono incazzati perché la politica pensa ai salotti e loro non hanno servizi. Non ci fermeremo finché non avranno dato una casa a Noemi. Prima gli italiani». Anzi: «prima i romani». Antonietta, 85 anni, si avvicina e urla: «Siete dei fascistoni, mi fate schifo». «Non si tratta di essere razzisti, siamo stati anche noi un popolo di migranti - dichiara Giuseppe Amendola - ma devono trovarsi casa e lavoro. A noi all' estero nessuno ha dato niente». L' altra protagonista di questa storia di sobborghi in rivolta ha 20 anni e si chiama Noemi Fasciano. Ieri mattina, con in braccio il suo bimbo di sei mesi ha occupato la casa da cui i nomadi era stati cacciati, ma l' occupazione è durata dieci minuti, fino all' arrivo della polizia, quando la ragazza ha preferito desistere. Ma ora fiancheggiata dal padre Enzo e dalla nonna Vincenza annuncia che resterà qui finché non avrà una casa, a costo di dormire dentro la tenda montata sul prato da Casapound. L' appartamento della contesa si trova al quarto piano di uno stabile di sette. Da ieri è ufficialmente libero: «Hanno creato un clima di odio e terrore al punto che per garantire l' incolumità e la vita di questi sei bambini gli uffici sono stati costretti a assegnare alla famiglia un altro appartamento - dice Raggi - Ma Casapound non ci fa paura, Roma resta una città aperta e dei diritti». Il vice premier Luigi DiMaio lancia un avvertimento: «La legge vale per tutti. Superiamo i campi rom, subito. E sgomberiamo CasaPound, così come chiunque occupi in modo illegittimo un' abitazione o uno stabile già assegnato a chi ne ha realmente bisogno». È tardo pomeriggio quando arriva Stefano Fassina, deputato e consigliere comunale di Leu che parla a lungo con Noemi. Un piccolo gruppo di persone che sta in disparte tira un sospiro di sollievo: «Stiamo facendo un piccolo presidio antirazzista, ma qui dovrebbe esserci la sinistra, a spiegare, a parlare» osserva Giulia. Fassina cerca di calmare gli animi e scuote la testa: «E' guerra tra chi ne ha più bisogno. Ci sono dodicimila persone in lista d' attesa, il problema non sono i rom ma che le case popolari sono poche».
Protesta anti-rom a Casal Bruciato: "Raggi assegni l'alloggio agli italiani". Nuove proteste a Casal Bruciato, il quartiere che si è ribellato all'assegnazione di un alloggio popolare ad una famiglia rom e che ora chiede venga dato agli italiani, scrive Elena Barlozzari, Martedì 09/04/2019, su Il Giornale. Tra i palazzoni grigi di Casal Bruciato sventolano i tricolori. Li hanno portati i residenti per rivendicare un’appartenenza ed un diritto: quello alla casa. Mentre Noemi, la giovane mamma che ha occupato l’alloggio popolare di via Facchinetti, assegnato dal Comune di Roma ad una famiglia rom, si prepara a trascorrere la sua prima notte in tenda. A casa di sua nonna, appena 30 metri quadri da dividere in otto, non vuole tornare. Dice che lo fa per il suo figlio che ha sei mesi ed è nato in una città che non concede riscatto. “I diritti qui te li devi conquistare, ed io non mollo”, ci aveva confidato a denti stretti questa mattina. Lei e la sua famiglia adesso posso contare su cento mamme e sul sostegno di un intero quartiere. Tutto è cominciato il giorno prima, con l’assegnazione di uno degli alloggi dell’immobile ad una famiglia rom. Tanto è bastato per trasformare il quartiere in una nuova Torre Maura. “Quando gli inquilini si sono accorti dell’arrivo dei rom – spiega Stefania – si sono spaventati ed hanno reagito”. Una reazione spontanea, di pancia, che si è tradotta in una barricata di cassonetti ed ha avuto l’effetto desiderato: i nomadi hanno rinunciato all’appartamento. Nel giro di qualche ora al loro posto è subentrata Noemi che, per poco, ha potuto assaporare il sogno di una casa tutta sua. Ha desistito quando sono arrivate le forze dell’ordine: “Temevo che potessero togliermi il bambino”, dice. La sua nuova sistemazione è una tenda verde, montata nel giardino condominiale di via Facchinetti. “L’alloggio lo devono dare a lei, non ai rom”, dicono in coro gli inquilini, determinati a rimanere al suo fianco finché non otterranno quello che chiedono. “Se non vogliono che scoppino nuove rivolte – avverte Fabrizio Montanini, coordinatore dei comitati di zona – diano una casa a Noemi”. L’assessorato al Patrimonio di Roma Capitale, però, ha già fatto sapere che “le assegnazioni delle case di Edilizia residenziale pubblica vengono effettuate esclusivamente e scrupolosamente in base alla disponibilità degli immobili e all’ordine delle graduatorie, escludendo qualsiasi discriminazione, possa essere essa di etnia, credo o religione”. Una spiegazione che non convince gli abitanti di Casal Bruciato. “Noi italiani – dice Maria – non abbiamo diritto a nulla, siamo stanchi di vivere da invisibili, a casa di nonni e genitori con mille figli”. Le fa eco una donna sulla settantina: “Mio figlio dorme dentro ad una macchina, come un barbone, a lui la casa popolare non gliela danno, ci sentiamo discriminati”. “Voglio essere libera di entrare ed uscire senza paura, senza dovermi guardare le spalle”, spiega Anna Rosa che vive nell’appartamento di fronte a quello assegnato ai rom. “La Raggi li portasse in Campidoglio i nomadi, noi qui non li vogliamo perché c’è già abbastanza degrado”, aggiunge un’altra inquilina suggerendoci di andare a vedere cosa succede in via Tommaso Smith. “Lì c’è un insediamento rom che non viene mai controllato, i nomadi sono allo sbando, bruciano, rubano, rovesciano la spazzatura a terra, siamo stanchi”. A spalleggiare i residenti, anche questa volta c’è CasaPound. Ma guai a bollare la protesta come “razzista” o “fascista” perché Paolo, strillando, vi risponderà: “Non siamo razzisti, in questo condominio ha vissuto per sei mesi una famiglia siriana e non è volata una mosca, qui c’è gente di destra e di sinistra”. Dal canto suo, Davide Di Stefano, dirigente nazionale delle tartarughe frecciate, sposa in pieno le ragioni della piazza. “Se si ritrovassero dieci rom sul pianerottolo – ragiona – penso che protesterebbero pure ai Parioli dove, ovviamente, non viene mai portato nessuno. Il problema è sempre e solo scaricato su quartieri popolari come Casal Bruciato o periferie come Torre Maura”.
Il passato turbolento del rom amico del Papa: arrestato per cocaina. Non solo 27 auto fantasma, nel curriculum di Omerovic pure i figli non mandati a scuola. Domenico Ferrara e Elena Barlozzari, Domenica 30/06/2019, su Il Giornale. «Non abbiamo precedenti penali». Nei giorni turbolenti dell'assegnazione della casa popolare a Casal Bruciato, Imer Omerovic ci teneva a precisarlo per zittire chi adombrava sospetti sul suo conto e lo accusava di essere privilegiato perché rom. Presa per buona la sua versione e squalificate le preoccupazioni dei residenti, Omerovic è diventato una specie di totem della legalità. In tanti ci hanno messo la faccia per difenderlo. Eppure, sembra proprio che il nomade non abbia un passato così limpido. E che neppure sua moglie, Senada, sia al di sopra d'ogni sospetto. Da quanto risulta al Giornale, infatti, entrambi i genitori sono stati segnalati per inosservanza degli obblighi scolastici. In pratica non mandavano alcuni dei 12 figli a scuola. Il «curriculum» di Omerovic però non finisce qui. A suo carico risultano anche denunce per abbandono di minori e per inosservanza dell'obbligo di assistenza familiare. Dal canto suo, il capo famiglia, sentito ancora una volta dal Giornale, ripete sempre la stessa versione: «Da quando sono Italia non ho mai avuto guai con la legge». E i bimbi? «Li mando tutti a scuola». In realtà non sembra proprio uno stinco di padre né di santo, nonostante il Papa lo abbia ricevuto insieme a parte della sua famiglia nella Basilica di San Giovanni in Laterano per schierarsi dalla sua parte davanti agli attacchi xenofobi e razzisti della borgata che voleva cacciarlo. Ma le ombre sul passato di Omerovic sono ancora più cupe. Risulta infatti anche un arresto in flagranza di reato perché trovato in possesso di cocaina. Insomma, è abbastanza evidente che il bosniaco non sia una persona che è stata lontana da contesti di illegalità. Senza considerare, come già scritto su queste pagine, che Imer Omerovic risulta intestatario di 27 vetture, alcune di lusso, e che l'ipotesi che svolga l'attività di prestanome è tra le più accreditate. Due di queste sono arrivate dopo l'assegnazione della casa popolare: una Fiat Stylo 1.9 Jtd e una Bmw serie 5 530 d. Inoltre, lui sostiene di svolgere l'attività di compravendita di auto su internet, peccato che lo faccia con una ditta individuale fantasma con sede sociale in via Pontina 601 a Roma, lì dove sorgeva il campo nomadi di Tor de' Cenci, sgomberato nel 2012, e che non abbia mai presentato un bilancio in camera di commercio. Segno evidente di probabili attività in nero. Eppure, nonostante tutto questo, anche il sindaco di Roma Virginia Raggi si è precipitata a dargli manforte e a spiegare che quella casa spettava loro di diritto e che i sospetti adombrati dai residenti erano solo calunnie. Nessuno qui mette in dubbio la necessità e l'urgenza di dare un tetto a una famiglia con un così alto numero di minori affinché questi non crescano nel degrado e possano sperare in una vita migliore di quella dei propri genitori, ma ora qualche chiarimento andrà pur dato. E non solo a chi protestava. Come ha ammesso la presidente del municipio IV di Roma, la grillina Roberta Della Casa, le norme sono poco stringenti e per avere un alloggio popolare servono solo l'Isee e la certificazione dello stato di famiglia. Ma oltre alle regole, il punto è un altro: è davvero possibile che nessuna istituzione a nessun livello si sia accorta delle anomalie sulla vita lavorativa e familiare di Imer Omerovic? Quanta fretta dei politici di scendere in campo quando scegliere i casi da far diventare un esempio è un atto che richiede cautela e attenzione ai dettagli per non scivolare su facili bucce di banana.
I sinti sono rimasti solo in sette. Ma la fondazione di Soros scende in piazza. Lo sgombero del campo nomadi a Gallarate. Solo sette sinti ancora a spasso per la città. Ma Open Society scende in piazza per protestare, scrive Roberto Vivaldelli, Domenica 07/04/2019, su Il Giornale. La Open Society Foundations di Soros scende in campo a difesa dei sinti di Gallarate. Lo scorso dicembre, infatti, il sindaco Andrea Cassani aveva ordinato lo sgombero forzato (con tanto di ruspe) di 22 famiglie sinti dal loro campo di Gallarate di via Lazzaretto. Da lì è nata la protesta dei sinti, che successivamente hanno occupato un’altra area in via Aleardi. Come riporta La Prealpina, il sindaco ha ribadito che sono solamente sette su novanta i sinti "ancora in giro per la città dopo quattro mesi", sottolineando che "il problema è stato risolto dopo quarant’anni". Oggi però in piazza scendono proprio i sinti, supportati dall’Open Society Foundations di George Soros e da Amnesty International. “Nel 2007 - si legge nella notta diffusa nei giorni scorsi da Amnesty - gli abitanti del campo avevano vinto un ricorso al Tar che confermava il loro diritto di soggiorno in quell’area, determinando che venisse attrezzato e convalidandone la residenza”. E ancora: "Dopo lo sgombero e scaduto al 31 gennaio il periodo di ospitalità, come disposto dal comune, in un hotel di Somma Lombardo, le 22 famiglie avevano trovato sistemazione in via Aleardi, territorio di proprietà della Curia, che avevano già occupato negli anni ’70". Il 25 marzo, però, prosegue Amnesty, “sono state allontanate anche da qui e sono adesso costrette a spostarsi da un parcheggio all’altro di Gallarate. Solo 5 famiglie, infatti, hanno ottenuto un alloggio popolare in via emergenziale che dovranno lasciare entro il 30 settembre". L’avvocato Pietro Romano sottolinea "come la vicenda sia lesiva della stabilità e dignità di queste famiglie che vivono e lavorano a Gallarate”. Alle denunce di Amnesty si è accodata la rete filantropica finanziata dal magnate George Soros, che in Italia destina importanti risorse "nella lotta alle discriminazioni nei confronti di gruppi minoritari, compresa la popolazione Rom". Oggi a Gallarate si terrà, infatti, l'incontro con Zeljco Jovanovic, direttore del Rio (Roma Initiative office-Open Society Foundations) e Dijana Pavlovic, attrice e attivista per i diritti umani per i diritti del popolo Rom e Sinti. L’incontro, riporta Malpensa24, si svolgerà alle 17 nella sede della Cooperativa Cuac di via Checchi 21 a Gallarate. “Il Romano Dives - si legge nella nota che presenta l’evento - è il giorno dell’autodeterminazione, dell’orgoglio e dell’unità di un popolo che solo in Europa conta più di 12 milioni di persone. Una comunità con valori, cultura e tradizioni proprie, costretta da secoli a lottare contro odio e pregiudizi”. Per i promotori dell'evento odierno, il clima di intolleranza è paragonabile a quello di Torre Maura, la periferia romana dove, pochi giorni fa, “una folla istigata dai peggiori sentimenti razzisti e da gruppi neofascisti ha dato vita a inaudite intimidazioni e violenze contro 70 persone (33 bambini, 22 donne e 15 uomini) “colpevoli” solo di essere Rom”. "Minacce, attentati, insulti razzisti si moltiplicano dai grandi ai piccoli centri del nostro Paese, - afferma la nota - alimentando un clima di crescente intolleranza che avvelena la nostra società. Si alzano muri e si chiudono cancelli: purtroppo anche a Gallarate”. Qualche settimana fa il sindaco Andrea Cassani aveva fatto chiarezza con un video pubblicato sui social sul “dato definitivo dei costi sostenuti da addebitare agli abusivi”. Secondo il primo cittadino, il costo dello sgombero si aggira “attorno ai 75mila euro”, mostrando in un video le spese, pari a 91 mila euro, che verranno invece addebitate ai sinti “i quali non sono proprio nullatenenti” in quanto hanno “case, terreni e autoveicoli intestati a loro”. "In un mondo normale - ha scritto Cassani in un post, pochi giorni fa - i cittadini non hanno solo diritti ma anche doveri e si rispetta la proprietà privata. In un mondo normale gente che ha vissuto sulle spalle degli altri cittadini per anni, non avrebbe il coraggio di chiedere ancora". Inoltre, sottolinea il primo cittadino di Gallarate, "in un mondo normale chi dice di lavorare dovrebbe avere una dichiarazione dei redditi".
L’ALTRA FACCIA DELLO “ZINGARO”. Antonio Padellaro per Il Fatto Quotidiano il 7 aprile 2019. Un uomo di etnia rom insultato dai residenti a Torre Maura A Dijana Pavlovic, che aveva gli occhi pieni di lacrime, ho chiesto: che cosa fate, che cosa fanno le comunità rom e sinti per spiegare, per dimostrare, per raccontarsi. Per dire no, non siamo tutti ladri e criminali con le Ferrari parcheggiate davanti alle roulotte, tutti abituati a vivere tra i rifiuti, tutti a poltrire a carico dei contribuenti e delle donne e dei bambini costretti a mendicare, a borseggiare? Alla brutalità che vi ingiuria, che vi disprezza, che non vi può vedere, che vi vorrebbe morti perché non replicate elencando gli artisti, gli intellettuali, gli atleti, i medici, gli avvocati, i professionisti, i giovani attivi negli studi che danno dignità e orgoglio all' etnia rom e a quella sinti? Perché, eternamente sulla difensiva, non citate quasi mai i "50mila rom integrati che sono cittadini italiani, vivono in case e lavorano onestamente" (Santino Spinelli, rom, musicista, compositore, poeta, docente alle università di Trieste, di Chieti e di Teramo, oltre che al Politecnico di Torino)? A Dijana (attrice affermata, laurea all' Università di Belgrado, volto televisivo, da anni impegnata a promuovere la cultura della sua gente) anni fa Furio Colombo offrì uno spazio settimanale sull' Unità di cui ero condirettore. Me lo ha ricordato lei ancora scossa per le immagini di violenza belluina di Torre Maura appena trasmesse da "Piazza Pulita". Proteste che, a parte l' uso fascista che ne fanno i picchiatori di CasaPound e Forza Nuova, vanno anch' esse comprese nel contesto di assoluto degrado e abbandono nel quale, stipati in un megaquartiere ghetto (come tanti, a Roma, intitolati a qualche torre) vivono (o sopravvivono) duecentomila esseri umani. Perché noi osservatori, giustamente colpiti dalla reazione di padri e madri di famiglia che si scagliano contro altri padri, altre madri e altri figli chiamandoli "zingari", dovremmo domandarci, prima di tutto, se coloro che scappano sui furgoni celesti della polizia non siano il detonatore di una esasperazione diventata insopportabile. Certo che lo sono, e non lo si potrà mai comprendere appieno se si abita, come chi scrive, in zone protette del centro storico o comunque lontane da campi e centri d' accoglienza. Perché il non aver saputo governare la questione nomade, e averla anzi lasciata marcire ha prodotto in Italia (non così in Germania o in Francia) un doppio cortocircuito sociale e politico. Da una parte il vittimismo ("non siamo animali") di una comunità che non vuole fare i conti con il disagio che i propri membri (non tutti, però molti sì) infliggono al resto della collettività con il loro stile di vita. Perché se chi abita vicino alle roulotte mette le inferriate alle finestre o se quando una zingarella sale sul bus l' istinto è di proteggere il portafoglio questo, per dirla con il sociologo Luca Ricolfi, non è pregiudizio ma, purtroppo, esperienza. In tutto ciò la (non) risposta politica al problema rom o è quella della destra che li caccia e li schifa o è quella della sinistra che li commisera e s' indigna, tenendoli a debita distanza. Per rialzare la testa queste comunità dovrebbero prima avviare un forte e sincero percorso di autocoscienza, affidandosi ai più giovani e alla domanda: cos' è che non va in noi (prima di chiedere cos'è che non va negli altri). La Giornata Mondiale dei rom e dei sinti dell' 8 e del 9 aprile sembra l' occasione propizia.
La sinistra finge di non vedere quei rom nel suk dell'illegalità. Tutte le domeniche al mercatino delle pulci di viale Puglie a Milano abusivi e immigrati la fanno da padroni, scrive Benedetta Maffioli, Lunedì 08/04/2019, su Il Giornale. Anche questa domenica il via vai di gente è iniziato già di prima mattina. Con sacchetti, buste di plastica e carellini della spesa una lunga carovana di persone da piazzale Cuoco procede in fila sul grande vialone, direzione: il mercatino delle pulci di viale Puglie. Viste dall’alto le bancarelle potrebbero sembrare un normalissimo mercato dell'usato, da visitare il weekend per cogliere qualche occasione speciale. Ma solo una volta all’interno, immergendosi tra tra stand e persone, ci si rende conto che di speciale c'è ben poco, se non una manica di venditori abusivi, che rivendono merce probabilmente rubata a prezzi stracciati, in condizioni di sporcizia e illegalità. Si può trovare di tutto: abiti, scarpe, elettrodomestici come forni e frigoriferi, sanitari, oggettistica di ogni tipo, vecchi telefonini, giocattoli, attrezzi da lavoro. Ma dove accade il peggio è proprio nella striscia di terra che fa da cerniera fra l'Hobbypark, il mercato legale dello scambio e del baratto e l'ex mercatino di San Donato. Un via strettissima, piena di gente che con la pioggia si riempie anche di fango. Alcuni con le valigie, altri con dei teli stesi per terra, altri ancora con buste di plastica. E' qui che tutte le domeniche si popola il supermercato dell'illegalità: profumi di marca, confezioni di tonno in scatola, salami, forme di parmigiano, shampo, medicine, prodotti di bellezza, tutto dai 3 ai 10 euro. "La situazione è così da diversi anni - racconta Silvia Sardone, consigliere del Comune di Milano - da sempre chiediamo che venga chiuso, ma il Comune lo ha fatto solo per due settimane, durante la campagna elettorale. Subito dopo ha riaperto magicamente". Tra grida e richiami di venditori ambulanti, ci sono romeni, africani, arabi. Di italiani, invece, se ne vedono pochi, sia tra i rivenditori (anche ufficiali) che tra tra la clientela. Un suk gestito da un gruppo di rom che già dalla mattina presto occupa la zona con camper e macchine. E a pochi metri infatti si intravede il campo di roulotte dove solitamente vivono. "Io non riesco a credere che qui possa entrare qualcuno dell’amministrazione comunale o della polizia locale e non capire chiaramente che si tratti di merce rubata”, dichiara Silvia Sardone. In questa striscia di terra di nessuno c'è poi il reparto delle bici usate, gestito dagli africani. Se ne trovano di diversi modelli, tutte imbrattate di fango e i prezzi sono tra i 50 e gli 80 euro. Poi in mezzo a tutta questa sporcizia c'è anche una bancarella di frutta e verdura. Ortaggi a massimo 3 euro al chilo, ma dall’aspetto poco rassicurante e senza alcun rispetto delle più banali norme igienico sanitarie. Ma è quando tutto finisce e i rivenditori smontano baracca e burattini, che si manifesta lo spettacolo indecente di ciò che è andato in scena fino a poco prima: un'area ricoperta di immondizia, sporcizia e qualsivoglia genere di rifiuto, un'autentica discarica a cielo aperto. Una situazione di degrado che da anni imbarazza i residenti che vorrebbero la definitiva chiusura di questa fiera dell’illegalità.
Troupe Rai aggredita da nomadi. Salvini: "Sgombero", Biffoni replica: ci renda i militari. Paura al cimitero di Paperino. Coinvolte anche alcune anziane che erano sul posto, scrive il 4 aprile 2019 La Nazione. Momenti di tensione questa mattina al cimitero della frazione di Paperino, a Prato, dove una troupe della Rai è stata aggredita da un gruppo di nomadi che alloggia nelle vicinanze. Lo denunciano la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, l’Associazione Stampa Toscana, L’Usigrai, il CdR e la redazione della Tgr Rai di Firenze che "condannano con la massima forza e decisione l’aggressione fisica ai danni della collega Giulia Baldi e della collaboratrice Daniela Pecar (operatrice in appalto) avvenuta questa mattina al cimitero di Paperino". Le due stavano realizzando un servizio giornalistico sul sequestro di una discarica abusiva, quando si sono avvicinati alcuni nomadi del vicino campo. I nomadi hanno minacciato le giornaliste, poi le hanno aggredite e percosse, cercando di impossessarsi delle attrezzature. Un simile trattamento è toccato ad alcune anziane signore che si trovavano sul posto. "Inutile dire che si tratta di un atto gravissimo sul quale devono indagare le Forze dell’ordine. A Giulia e Daniela - si legge nella nota - il massimo sostegno della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, dell’Associazione Stampa Toscana e di tutti i colleghi sgomenti per l’ennesima aggressione ai giornalisti". E ovviamente a Giulia e Daniela anche la solidarietà della nostra redazione. Del caso ha parlato anche il ministro dell'Interno Matteo Salvini: "Mi impegno ad essere presto a Prato per fare lo sgombero e mettere ordine", dice Salvini a margine dei lavori del G7 Interno a Parigi. A stretto giro di posta arriva la replica del sindaco Biffoni: "L’operazione di mercoledì, per la quale ringrazio la Procura di Prato, Municipale, Provinciale, Carabinieri, Forestale e Arpat, segue anni di interventi sui terreni di proprietà di italiani, residenti proprio a Paperino, e affittati a vari soggetti. 60mila metri quadrati perquisiti, già precedentemente sequestrati e per i quali da sindaco avevo già emesso tre ordinanze di bonifica a cui il proprietario non ha mai ottemperato. Il ministro Salvini sappia quindi che a Paperino non c’è alcun campo da sgomberare, che sull’area abbiamo già fatto tutti gli interventi necessari grazie al grande lavoro di Procura e forze dell’ordine. Se Salvini vuole interessarsi di Prato lo faccia da ministro, restituendoci, per esempio, i militari che ci sono stati tolti ed estendendo le forze dell’ordine come promette da tempo”. "Massima solidarietà alla troupe del Tgr Rai della Toscana: l'aggressione di stamane è una cosa che non deve accadere. Spero che le forze dell'ordine arrestino i delinquenti", dice il sindaco Matteo Biffoni. "Lì non c'è un campo nomadi - specifica il sindaco - ma insediamenti su cui siamo intervenuti più volte. L'operazione che si è svolta ieri è stata fatta grazie ai droni della polizia municipale che hanno passato il materiale alla procura".
LE REAZIONI - Solidarietà da parte del presidente della Regione Toscana , Enrico Rossi, sia alla troupe Rai che ai residenti della zona coinvolti nell'aggressione. Per il governatore "il lavoro giornalistico va sempre e comunque tutelato. Troppe volte gli operatori dell'informazione sono sottoposti a pressioni indebite che minano alla base una delle funzioni fondamentali della democrazia". Da viale Mazzini, sede della Rai, arriva una nota: "La Rai condanna l'aggressione subita da Giulia Baldi e Daniela Pecar, minacciate e poi malmenate solo per aver svolto il proprio mestiere - quello di giornalista - ed esprime loro solidarietà e vicinanza. L'azienda considera l'aggressione subita nei pressi dei cimitero di Paperino, a Prato, dalle due inviate della Tgr Toscana, che stavano girando un servizio su una discarica abusiva, un atto gravissimo, inaccettabile e intollerabile". "Desidero esprimere la mia più sentita solidarietà alla giornalista della Rai Giulia Baldi e all'operatrice Daniela Pecar, aggredite stamani da alcuni nomadi mentre stavano realizzando un servizio su una discarica abusiva a Paperino. Evidentemente la presenza della troupe della Rai dava fastidio a qualcuno, probabilmente proprio chi ha 'in gestione"' la discarica. Purtroppo anche a Prato esistono ancora sacche di illegalità diffusa che non possono più essere tollerate". Lo afferma in una nota il candidato sindaco di Prato Daniele Spada. Aldo Milone, candidato sindaco di "Prato libera e sicura", commenta: "L'episodio pone ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, il problema della sicurezza in città e del controllo del territorio. Non è ammissibile che un gruppo di nomadi si comporti aggredendo dei giornalisti senza subire punizioni esemplari. Spero che chi è preposto a tale compito prenda i dovuti provvedimenti. A questo punto è anche opportuno sgomberare tutti quegli accampamenti abusivi e dare segnali forti di una presenza non solo dello Stato ma anche dell'amministrazione comunale. Per fare lo sgombero non aspetterei la visita del Ministro dell'Interno Salvini, si dia una mossa il sindaco Biffoni. Cerchi soprattutto di far capire a chi crede di agire impunemente che in questa città tutto ciò non è consentito e prevarrà sempre il rispetto delle leggi". "Un senso di rabbia è la prima sensazione che ho avuto alla notizia che una troupe di Rai 3 Toscana è stata aggredita mentre era al lavoro per documentare il sequestro di una discarica abusiva nel pratese. Una aggressione violenta a chi era lì per raccontare, dare visibilità ad una tante aggressioni violente al nostro territorio. La rabbia è accresciuta dal fatto che le aggredite sono due donne, Giulia e Daniela, minacciate e percosse da uomini di etnia rom di un vicino campo che si sono sentiti in diritto di farlo, ma cosa rompono, avranno pensato, queste due donne, ora glielo facciamo vedere noi. Mi auguro che gli autori del gesto siano perseguiti e condannati, a Giulia e Daniela la solidarietà mia personale e di tutta la Cgil Toscana, solidarietà estesa a tutta la redazione e agli operatori diretti e in appalto di Rai 3 Toscana", dice Dalida Angelini, segretaria generale Cgil Toscana. "Solidarietà massima alle due giornaliste per questa aggressione inaccettabile, vergognosa e meschina: i responsabili siano individuati e paghino per quello che hanno fatto", dice Dario Nardella, sindaco di Firenze. "La legalità è un valore centrale e irrinunciabile - continua - e non possiamo ammettere nelle nostre città zone franche dove degli individui, a prescindere dalla loro etnia, possano aggredire indisturbati delle donne mentre fanno il loro lavoro". "Solidarietà, assolutamente, alla troupe dei giornalisti che è stata aggredita: è un altro esempio di come le nostre città devono cambiare" dice Susanna Ceccardi, commissaria della Lega della Toscana. "Un fatto gravissimo, da condannare non solo in quanto violenza ma anche perché avvenuto ai danni di due giornaliste che stavano svolgendo il loro lavoro di informazione e di servizio pubblico. A Giulia Baldi e Daniela Pecar la nostra vicinanza e solidarietà. Auspichiamo che i colpevoli siano individuati e puniti, così come ci auguriamo che tali episodi non abbiano a ripetersi e che i giornalisti possano continuare a svolgere serenamente il loro lavoro. A coloro che twittano a fasi alterne, a secondo dell’etnia e del colore dei protagonisti delle vicende, rivolgiamo un sereno invito a non speculare per fini elettorali, fomentando ancora odio e divisioni. Noi siamo per la legalità sempre e dovunque, così come l’amministrazione comunale di Prato che proprio nei luoghi dove è avvenuta l’aggressione era intervenuta il giorno prima attraverso l’impegno della polizia municipale". Cosi Ilaria Bugetti e Nicola Ciolini, consiglieri regionali Pd. Il gruppo consiliare del Movimento 5 Stelle in Regione Toscana esprime "la massima vicinanza e il pieno sostegno alla troupe Rai aggredita, adesso attendiamo che gli organi di polizia preposti prendano tutte le iniziative necessarie al fine di punire gli aggressori e ristabilire la piena legalità nell’area".
I SINTI - L'associazione "Sinti Prato" si è espressa sulla vicenda. In una nota firmata da Ernesto Grandini, dell'Associazione Sinti Italiani Prato), si legge che l'associazione "condanna ogni forma di violenza fisica e verbale, ribadisce il diritto di cronaca delle giornaliste e intende dichiarare la propria vicinanza alle due professioniste. Precisiamo, tuttavia che, a differenza di quanto viene riportato, a Paperino non c'è alcun 'campo nomadi' e che qualsiasi forma di accampamento è legata a proprietà privata di singole persone, rom o non rom, che naturalmente risponderanno dei propri atti singolarmente. A Prato vivono circa 200 persone appartenenti alla nostra comunità che abitano i quattro campi istituzionalmente riconosciuti, nessuno di questi si trova a Paperino e non vogliamo che si creino facili equiparazioni o diventare, come spesso accade, un capro espiatorio, strumentalizzati a fini elettorali o politici. Le persone che si sono rese responsabili singolarmente dell'aggressione ne risponderanno personalmente secondo la legge. Desideriamo inoltre uscire da questa spirale di odio e di tensione che sta crescendo ogni giorno, dai fatti di Roma fino ad oggi a Paperino, per questo motivo saremmo grati alle due giornaliste aggredite o ai loro colleghi se accettassero un nostro invito per conoscersi personalmente, per smontare questa spirale d'odio che sta rendendo le città italiane dei luoghi inospitali per tutti".
Quarta Repubblica, per l'inviata di Mediaset Chiara Carbone nel campo rom finisce in disgrazia, scrive il 13 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Era andata nel campo nomadi romano del La Barbuta per intervistare i capi clan sull'assegnazione delle case popolari ai rom dopo le proteste di Casal Bruciato e Torre Maura ma Chiara Carbone, inviata di Quarta Repubblica di Nicola Porro in onda il lunedì sera su Rete 4 è stata aggredita e minacciata con un coltello da uno dei residenti dell'accampamento abusivo che l'ha rapinata della borsa. La polizia, allertata immediatamente, ha fermato il rapinatore e recuperato il bottino. Decine di volanti intanto erano arrivate sul posto. In manette con l'accusa di rapina aggravata è finito Cristofer Udorovick di 22 anni.
Torre Maura, la rabbia dei residenti: «Tutto cade a pezzi, non passano neanche i tram». Pubblicato mercoledì, 03 aprile 2019 da Corriere.it. Si fa presto a dire razzisti. I nonni di Torre Maura lo spiegano chiaro che, per resistere quaggiù, ci vuole un fisico bestiale. Guido, tutt’ossa e nervi, sfotte chi si complimenta per i suoi 75 anni portati da maratoneta: «Certi me fanno: “Ammazza ahò, stai in forma!”. “E grazie ar cavolo” risponno, io cammino». Già, qua si cammina tanto. Non si capirebbe ciò che è successo nelle ultime 48 ore in questo profondo ghetto della periferia sud-est romana — meno che mai la rabbia e gli slogan feroci, i falò e i saluti fascisti e le mazze da baseball contro una settantina di rom (di cui 33 bambini e 22 donne) assediati in una palazzina di via Codirossoni dalle mura celesti e scrostate — senza partire da qui e da prima: dalle marce faticose dei vecchi residenti su strade sgarrupate e male illuminate, con autobus come fontanelle nel deserto, alberi caduti sulle giostre dei bambini, supermercati a due chilometri, negozi spariti. Pochi ragazzi e quasi tutti disoccupati, due bar dello spaccio, tre centri d’accoglienza per migranti in un diametro di 800 metri. Non si comprende il rancore senza guardare in faccia la disperazione. L’ultimo salumiere si chiamava Sandro e ha chiuso due giorni fa, le serrande abbassate delle botteghe d’una volta sono voragini nel tessuto urbano e nell’ipotesi di restare umani. «Via dei Colombi è una landa sperduta, non ci passa più nessuno da quando ci hanno tolto il tramvetto», sospira Sergio Becattini, che di anni ben portati ne ha 79 e sta nel comitato inquilini di queste case popolari costruite nel 1977 in una borgata dai toponimi assurdamente ornitologici abbandonata via via da ogni politico e da ogni istituzione al degrado, al buio, alla paura: 620 le famiglie, duemila e passa i residenti che per fare la spesa devono «attraversare la Casilina», non proprio dietro l’angolo, e che ogni notte pregano perché le crepe lunghe tre metri nei loro androni reggano ancora un po’, perché l’umido che inzuppa i muri non diventi alluvione. Il centro di Roma da qui è un’astrazione lontana 40 minuti di moto, un tempo imprecisato in macchina, l’incertezza della metro comunque da raggiungere (la linea 556 che portava i vecchietti a fare le analisi a Tor Tre Teste sta per essere soppressa). È un’idea affollata di politici che si contraddicono e alle sette della sera pagano pegno. Perché quando due pulmini della Sala operativa sociale del Comune vanno a prendersi tra applausi, calci e ululati le prime due famiglie rom per trasferirle chissà dove, appare chiaro che la protesta ha vinto davvero, che bruciare le macchine e i cassonetti a Roma è l’unico modo per farsi sentire, meglio se a telecamere dei tg accese e a portata di video. Qui i Cinque Stelle avevano preso il 77 per cento. Stasera Virginia Raggi avrebbe problemi a mostrarsi: le intestano la pessima idea di avere trasferito più o meno in segreto i rom nella palazzina dove un tempo stavano i migranti («nun semo razzisti, i “negri” c’annavano bene», ti dicono nei capannelli, rimodulando la classifica dell’intolleranza à la carte), le rinfacciano di avere proclamato «non cederemo all’odio razziale fomentato da CasaPound e Forza Nuova» e la sbeffeggiano per avere poi fatto marcia indietro a tutta birra. Ma anche Salvini perde un po’ del suo fascino quaggiù (lo chiamano «Mister Maglietta») mentre continua a parlare come fosse il capo dell’opposizione e non il responsabile di un ordine pubblico che martedì sera ha mostrato, eccome, la corda. Si fa presto a diventare impopolari per il popolo. Il Pd, svanito da un pezzo, manda ora sul posto due consiglieri cortesi, preparati ma un po’ impalpabili, che appaiono lontani dalla gente come la più vicina sezione (a Tor Bella Monaca, cinque chilometri). La sinistra antagonista ha provato a raggrupparsi per una controprotesta ma un giro di telefonate non è servito: la causa dei rom ha molto meno appeal di quella dei migranti. Alla fine sul campo restano i «fascisti del terzo millennio», sponsor politici di manipoli di ragazzotti borchiati che, sotto le finestre dei rom, strillano «’a ’nfami, ‘a ladroni» ogni volta che vedono un paio d’occhi spaventati spuntare dietro i vetri. È ciò che rischia di rimanere del nostro discorso pubblico se nessuno metterà mano alla bomba sociale delle periferie. Gli scontri di Tor Sapienza di quattro anni fa non hanno insegnato nulla. Le ricette della Commissione d’inchiesta (un miliardo di investimenti l’anno per dieci anni e un’agenzia nazionale che li coordini) sono rimaste inascoltate da questo esecutivo che, paradossalmente, proprio nelle periferie ha la sua constituency. I resti della notte dei fuochi punteggiano di nero fumo la strada del disastro, di cui la palazzina celeste è quasi una metafora: era un centro di riabilitazione chiuso ai tempi della Polverini; è diventato uno Sprar per migranti e infine un campo di battaglia. Una volontaria della cooperativa, che lavora con i rom sin da quando stavano nella loro prima sede a Torre Angela, giura che «sono brave persone». La zittiscono al grido consueto di «portateli a casa tua» e lei per soprammercato perde pure l’autobus, evento che qui vale una dannazione biblica. Assieme alla macchina di un volontario ha preso fuoco il camper di una famiglia rom del tutto eccentrica rispetto a questa narrazione. Bruna, la mamma, non ammette luoghi comuni: «Dicono che il camper l’abbiamo rubato? Io pago pure l’assicurazione!», ed esibisce un faldone con dieci anni di tagliandi verdi e relative ricevute. Alla gonna le si aggrappa il figliolo, Maciste. Perché Maciste? «Perché il papà si chiama Hercules». Hercules si fa avanti, è un pragmatico. Dice che «devono essere pazzi al Comune per mandare qui tutti assieme tanti rom, con la fama che abbiamo!». Non scherza: il 28 marzo gli hanno dato una casa popolare qui dietro, in via delle Cincie. Così adesso si sente almeno penultimo: e, degli ultimi, comincia ad averne un po’ le tasche piene.
Luca Ricolfi per Il Messaggero il 4 aprile 2019. Riassumiamo i fatti. L’altro ieri i residenti di Torre Maura (quartiere di Roma) hanno dato vita a una rivolta, con vari episodi di violenza e di intimidazione, quando si sono accorti che il Comune stava trasferendo 77 rom in un centro che, fino a poco prima, aveva ospitato alcune decine di migranti. Gli abitanti di Torre Maura, recentemente “liberati” della presenza dei migranti, non ci hanno visto più quando se li sono visti sostituire con i rom. L’operazione rientra nella cosiddetta “terza via” di Virginia Raggi: trovare un compromesso fra il buonismo “senza sé e senza ma” della sinistra e il cattivismo, anch’esso senza se e senza ma, della Lega e del suo leader Salvini. L’idea è (o meglio era) di sgomberare i campi rom, assicurando percorsi di reinserimento individuale (formazione, lavoro, alloggio, ritorno in Romania), ampiamente finanziati dalla mano pubblica. Una strategia già tentata senza grande successo l’estate scorsa con il campo rom di Prima Porta (Camping River). Oggi, forse scottata da quell’esperienza, la sindaca la riformula in modo un po’ più filosofeggiante: “Su migranti e campi rom sto portando avanti la ‘terza via’: inflessibili con i delinquenti, accoglienti con le persone fragili. Semplificare i temi complessi è sbagliato”. Giustissimo, ma più facile a dirsi che a farsi. Perché portare in blocco 70 rom in un quartiere degradato, che ha già enormi problemi, dallo stato penoso degli alloggi comunali ai roghi dei cassonetti, che cos’è se non un modo semplicistico di affrontare il problema? (e infatti l’Amministrazione comunale ha già fatto macchina indietro: i 70 rom, in massima parte donne e bambini, saranno portati tutti via entro una settimana). Semplicistico, soprattutto, è prendersela con l’ira popolare senza comprenderne le ragioni. Ragioni che non giustificano in alcun modo gli atti violenti e le manifestazioni di odio (su cui già indaga la Procura) ma che hanno una loro macroscopica consistenza. Proviamo a riassumerle, una ad una.
Prima ragione. La gente non capisce perché si continui a parlare di periferie degradate, della necessità di riqualificarle, dell’urgenza di un ritorno della politica nei quartieri, e poi non riesce né a tener pulite le strade (che è il minimo sindacale per un’amministrazione), né a garantire la sicurezza (che è il minimo sindacale per uno Stato), e come se questa assenza non fosse già abbastanza colpevole scarica su un territorio già stremato i problemi di specifici gruppi sociali (migranti e rom), peraltro noti per un tasso di criminalità superiore alla media.
Seconda ragione. La gente non capisce perché un cittadino italiano ordinario, per vivere, debba sbattersi in cerca di un lavoro e di una casa, mentre alcuni gruppi sociali “speciali” paiono godere di una sorta di diritto a reddito e alloggio. E ancor meno capiscono che altre minoranze sventurate, questa volta costituite da cittadini italiani, non godano di altrettanti diritti e attenzioni (“andate via, fate venire i terremotati che stanno sotto la neve!” è una delle frasi che si sono ascoltate durante le proteste a Torre Maura).
Terza ragione. La gente non capisce la “terza via” perché sa perfettamente come andrà a finire: il lato buonista premierà le persone fragili (o presunte tali), il lato cattivista resterà lettera morta. Perché è facilissimo spendere soldi dei contribuenti o dell’Europa per gestire l’accoglienza, è praticamente impossibile arginare i comportamenti illegali (le periferie non sono sufficientemente presidiate dalle forze dell’ordine, intere porzioni del territorio sono in mano alla criminalità, chi infrange le leggi può tranquillamente essere arrestato e liberato decine di volte).
La realtà, temo, è che la Terza via, attuata con tanta improvvisazione (pare che dell’operazione di trasferimento a Torre Maura non fosse stato informato neppure il presidente grillino del VI Municipio, di cui Torre Maura fa parte), non possa che rafforzare la reazione cui pretende di porre un freno. Certo, se si pensa che le reazioni rabbiose al trasferimento dei rom siano dovute alla rozzezza del volgo romano, o all’estrema destra che soffia sul fuoco, aizzando i peggiori istinti popolari, allora non c’è niente da fare: fascismo e razzismo avanzano tenendosi per mano, e tocca ai sinceri democratici resuscitare antifascismo e antirazzismo, i due grandi anticorpi alla disumanizzazione trionfante.
C’è però anche un altro modo di mettere le cose. A giudicare dai resoconti della protesta, dalle frasi e dagli slogan che si sono sentiti, il sentimento centrale che pare animare la protesta non è l’odio ma, forse più semplicemente e umanamente, un forte, fortissimo, disperato senso di ingiustizia. Chi fatica a sbarcare il lunario in un quartiere degradato, non riesce a capire perché i migranti non siano inviati in altri quartieri delle città (già: perché?), soprattutto in quelli del politicamente corretto i cui abitanti manifestano orgogliosamente in favore dell’accoglienza. Ma soprattutto non capisce un’altra cosa: perché, nella distribuzione delle risorse pubbliche, la maggior parte dei cittadini siano lasciati soli, a giocare la loro difficilissima battaglia individuale per la sopravvivenza, mentre ad alcuni gruppi e minoranze (rom e migranti innanzitutto) è accordata una speciale precedenza e attenzione, il tutto senza che alcun merito, o fragilità estrema, giustifichi una tale differenza di trattamento.
Simone Canettieri e Lorenzo De Cicco per Il Messaggero il 4 aprile 2019. In pubblico, da parte di Matteo Salvini, c'è una stoccata netta nei confronti della sindaca e la conferma della linea dura contro i nomadi che delinquono: «È sbagliato spostare dalla sera alla mattina decine di persone da palazzo a palazzo, quartiere a quartiere, di periferia in periferia. Le cose vanno fatte alla luce del sole, in maniera trasparente. Se ci sono rom che si vogliono integrare sono i benvenuti: quelli che pensano al furto non meritano niente». In privato, invece, c'è una telefonata «cordiale» e dai toni più confidenziali che istituzionali. Obiettivo, capire come «affrontare la rivolta». A metà giornata la sindaca Virginia Raggi riesce a mettersi in contatto con Salvini. Il ministro dell'Interno si fa spiegare per filo e per segno chi sono i residenti che protestano, perché lo fanno, chi c'è dietro ai disordini. Per la grillina è l'occasione di uno sfogo, che esce lentamente durante la conversazione, mentre gli illustra il quadro della situazione che si è sviluppata nelle ultime ore. «Un'escalation di violenza e intolleranza», la definisce il Campidoglio. Da parte di Salvini c'è un atteggiamento belligerante a metà. Davanti alle telecamere il titolare del Viminale esprime sì una serie di perplessità sul modus operandi utilizzato dal Comune, ma preferisce non affondare più di tanto il colpo durante la telefonata. La cautela del «Capitano» si può spiegare in diverse modi. Gli preme non aprire un altro fronte con il M5S, visto il clima di guerra totale che si respira in parlamento. Una precauzione che si incastra in uno scenario molto più complicato. D'altronde Lega e M5S sull'inclusione di migranti e rom e, più in generale, sull'approccio a queste tematiche, sono diametralmente all'opposto. Nella catena di telefonate la prima a essere interpellata dal ministero dell'Interno è il prefetto della Capitale, Paola Basilone. Tocca a lei fare il punto a Salvini che vuole essere informato su una protesta che, da martedì sera, ha preso una piega pericolosa, con le auto incendiate, i tafferugli, i cassonetti scagliati in strada, a fare da argine alle forze dell'ordine. La rappresentante del governo chiama poi in Campidoglio, parla a lungo, per tutta la giornata, col delegato alla Sicurezza della sindaca, Marco Cardilli, l'unico rappresentante dell'amministrazione stellata a recarsi a Torre Maura, accolto dai fischi dei residenti. E così riparte il giro inverso, fino al contatto tra «Matteo» e «Virginia». I vertici M5S blindano la sindaca. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede le esprime «massimo sostegno» davanti a questi focolai di violenza e queste aggressioni di matrice estremista. Se si scava in profondità, in molti sono costretti anche tra i big pentastellati a barcamenarsi. Spiega Mattia Fantinati, sottosegretario alla Pubblica amministrazione: «La guerra fra poveri c'è perché la sinistra non poteva integrare altri soggetti fragili e ha scavato un gap ancora più grande fra ricchi e poveri. Oggi questa bomba sociale viene strumentalizzata dai neofascisti». Paola Taverna, vicepresidente del Senato in quota M5S, che nel VI Municipio di Roma ha anche una base elettorale forte, dice di «condividere l'esasperazione di chi, pur avendo sempre mostrato spirito di accoglienza, ritiene ingiusto sovraccaricare ulteriormente una piccola comunità». E se la prende con l'Ufficio Rom del Campidoglio, finito ora anche nel mirino di Raggi, con la rimozione della responsabile, Michela Micheli, e un'indagine interna. «La gestione degli uffici è stata inqualificabile», è convinta Raggi. La sindaca condivide con Salvini l'obiettivo finale, quello cioè di arrivare allo smantellamento progressivo dei campi rom. Ma la strategia per arrivarci è diversa. Raggi non crede nella ruspa amata dal leader del Carroccio. Nell'ultimo anno ha parlato spesso - lo ha fatto anche l'altro ieri, appena scoppiata la protesta, in tv - della «terza via» del M5S, a metà, dicono in Campidoglio, tra il «buonismo di certa sinistra» e la linea dura del Viminale. Insomma, «inflessibili con i delinquenti, accoglienti con le persone fragili, come i bambini». Facile dirsi, molto complicato da mettere in pratica. Il piano Rom varato dal Campidoglio ormai quasi due anni fa, numeri alla mano, arranca. Per ora è stato smantellato solo il Camping River, con l'appoggio del Ministero dell'Interno, per mettere fine a una situazione di abbandono che aveva prodotto un'«emergenza sanitaria», come scrisse Raggi nell'ordinanza di chiusura. I rimpatri volontari in Romania non decollano, anzi: fino a oggi sono tornate nel paese d'origine appena 6 famiglie. Una goccia nel mare. Anche il bonus affitto, cioè l'assegno del Comune, fino a 800 euro al mese, per permettere ai nomadi di prendere casa lontano dalle baracche, finora, è stato un fiasco.
Torre Maura, Stasolla: «Raggi come Alemanno, crea solo nuovi campi». Nuova protesta tra i residenti, scrive Simona Musco il 5 Aprile 2019 su Il Dubbio. Ancora tensioni durante il trasferimento dei cittadini rom ancora a Torre Maura. Stasolla: «il piano rom del sindaco è un fallimento totale». E lei: «scelta amministrativa sbagliata e non condivisa, sto già prendendo provvedimenti». Il secondo giorno di tensioni a Torre Maura porta con sé ancora una volta il profumo del pane. Quello calpestato, prima, per impedire a 77 rom di sfamarsi, dopo la decisione del Comune di collocarli nella struttura di via Codirossoni. E quello scippato ai volontari che ne hanno portato due buste piene in dono, come gesto di solidarietà dopo gli insulti razzisti di mercoledì. «Siamo venuti a portare il pane ai rom – hanno detto i due volontari – Roma non è razzista». Il clima, però, è rimasto teso. Per i cittadini che hanno presidiato la zona in segno di protesta, sfidando il maltempo di ieri, quello dei due volontari è stata una provocazione. E giù, ancora una volta, con gli insulti. «Portatele ai terremotati le pagnotte – hanno replicato – anche loro hanno fame». Il pane, almeno, non è stato calpestato, ma distribuito tra i presenti, evitando accuratamente che anche solo una briciola finisse ai rom. Che ieri, dalle finestre, urlavano la loro frustrazione, chiedendo di essere “liberati”. «Siamo prigionieri d’Italia – hanno gridato – dobbiamo andare via da qui. Siamo in ostaggio». Nel pomeriggio di ieri sono ricominciati i trasferimenti, a suggellare la vittoria dei manifestanti sul Comune. Dopo un primo trasferimento di 18 persone, nella struttura erano rimaste 57 persone, per le quali il Comune «ha prospettato la soluzione dello smembramento delle famiglie», ha spiegato al Dubbio Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 Luglio. «Questo vuol dire che la soluzione loro proposta sarebbe ospitalità temporanea di madri e minori in casa famiglia, mentre padri e figli maggiorenni in strada». Virginia Raggi, intanto, ha preso le distanze da Casa Pound, inneggiando al coraggio di Simone, il 15enne che ha sfidato i cori razzisti mostrando il volto vero di Torre Maura. Il giovane ha accusato i manifestanti di Casa Pound e Forza Nuova di «far leva sulla rabbia del quartiere, il quartiere mio, per fare i propri interessi e prendere voti. Nessuno deve essere lasciato indietro: né italiani, né rom né africani». E Raggi ha potato il video sul suo profilo Facebook, inneggiando al giovane. «Ecco i veri cittadini di Torre Maura – ha scritto – Grazie Simone. I giovani sono il nostro futuro. A Roma non c’è spazio per gli estremismi di Casapound e Forza Nuova». Ma le accuse di Stasolla contro il sindaco sono pesanti e richiamano analogie con il passato. «A Torre Maura il Comune di Roma aveva scelto di praticare il modello dei “centri di raccolta rom”, quello inventato da Alemanno e smantellato da “Mafia Capitale” – ha dichiarato – Con una mano (e soldi europei) chiudere i campi (o almeno tentare di farlo), con l’altra aprire costosissimi campi di nuova generazione ( con fondi comunali) denominati “centri di raccolta rom”. Ha fallito. Perché è un sistema che viola i diritti umani, è costoso ( più di 2.000 euro mensili a famiglia), la popolazione non lo accetta». Per il presidente della 21 Luglio, il caso di Torre Maura non sarebbe che la punta di un iceberg. Non è chiaro, al momento, dove le persone trasferite siano state collocate. Ma la strategia messa in atto dal Comune, ha spiegato Stasolla, è «un fallimento su tutti i fronti». I campi, sottolinea, «dovevano essere aboliti, mentre quello in questione si configura a tutti gli effetti come un campo in muratura. C’è una responsabilità politica molto grossa – ha aggiunto – che viene poi cavalcata da queste frange di estrema destra». Ma non sono i cittadini di Torre Maura ad essere razzisti, ha sottolineato Stasolla. Durante la protesta, tre cassonetti sono stati usati come barricate e poi dati alle fiamme, mentre è stata bloccata la consegna dei pasti all’interno della struttura. E in tarda serata è stata bruciata un’auto in uso alla cooperativa che gestisce il centro d’accoglienza. La Procura sta ora indagando seguendo la pista dell’odio razziale, ma quei manifestanti, ha spiegato Stasolla, «hanno utilizzato la presenza delle telecamere e il tema caldo dei rom per darsi visibilità. Chi protesta non è Torre Maura – ha aggiunto – la cittadinanza non è razzista, visto che qui il tasso di residenti stranieri è molto alto, così come quello delle famiglie rom che da decenni vivono, in una convivenza pacifica, in case private o in alloggi dell’edilizia residenziale pubblica. Si è trattato di una strumentalizzazione da parte di quegli avvoltoi che si nutrono di visibilità, razzismo e di xenofobia». Ogni sgombero non è altro che uno spostamento di un gruppo umano da una parte all’altra della città, ha evidenziato ancora il presidente della 21 Luglio. Uno «specchietto per le allodole, che dà la percezione di sicurezza ma che in realtà non risolve il problema, lo aggrava». Gli sgomberi creano, infatti, soltanto più precarietà: «chi stava in una abitazione precaria di legno, con finestre e porte, una volta sgomberato finisce in un’abitazione ancora più precaria e i bambini non andranno più a scuola». Il sindaco Raggi ha provato a smarcarsi dalle polemiche, circoscrivendo le responsabilità degli scontri ai «militanti di Casa Pound e Forza Nuova», che ha definito «bestie». «Non ci sto alla narrazione di una città e un quartiere razzisti, sto dalla parte dei cittadini – ha affermato – C’è stata una scelta amministrativa sbagliata e non condivisa, per la quale sto già prendendo provvedimenti disciplinari. La destra ha voluto i campi rom, noi abbiamo già iniziato a chiuderli. Stiamo procedendo con il bisturi per separare chi ha diritto e voglia di integrarsi nella comunità, da chi invece non ha né diritto né voglia e quindi da noi non riceverà nessun aiuto». Il vicepremier Luigi Di Maio ha parlato di «tensioni sociali», che però «non giustifico la violenza, non giustifico chi calpesta il pane». Ma il parlamentare dem Emanuele Fiano ha gettato benzina sul fuoco: «ma esattamente, chiedo a chi di dovere ad ogni livello, quali altre manifestazioni di odio e discriminazione come quella di Torre Maura devono organizzare Casa Pound e Forza Nuova per essere considerate fuori della legalità costituzionale antifascista?».
IL SENSO DI FLORIS PER LE NOTIZIE. Massimo Falcioni per Tvblog il 4 aprile 2019. L’ospite giusto al momento giusto. Non c’è trasmissione che non avrebbe sognato di intervistare Virginia Raggi proprio mentre a Torre Maura scoppiava la protesta del quartiere contro l’arrivo di 70 rom nel centro d’accoglienza della zona. Un privilegio di cui ha potuto godere Di Martedì, che però non ha minimamente sfiorato l'accaduto per un semplice e banale motivo: il confronto col sindaco di Roma era registrato. Trasmesso tra le 22.55 e le 23.12 circa, il faccia a faccia tra Floris e la Raggi ha toccato diverse vicende, senza che nessuna si avvicinasse alla strettissima attualità. Ecco allora le domande sul rapporto con Salvini, sul caso De Vito, sulle fermate delle metro chiuse, sulla questione rifiuti e sul predecessore Marino. Eppure già alle 20 le agenzie pubblicavano i primi aggiornamenti da Torre Maura, dove i contestatori avevano incendiato i cassonetti e buttato a terra e calpestato i panini destinati ai nuovi ospiti. Alle 20.56, quindi ancora prima che il talk cominciasse (da segnalare anche il buco preso Otto e mezzo, in onda in quegli istanti), il quotidiano Il Tempo parlava apertamente di “rivolta” nella periferia est della Capitale. Non solo: alle 21.45 ci pensava nientemeno che l’Ansa a fornire ulteriori dettagli. Nemmeno la parentesi informativa di mezzanotte curata da Laura Gobetti ha salvato il programma dalla figuraccia, amplificata dalla scritta ‘diretta’ piazzata sopra al logo di rete che ormai ha assunto un significato quasi beffardo.
Parità di trattamento per i ROM, scrive il 4 aprile 2019 Antonio Angelini su Il Giornale. Davvero pensano che Torre Maura sia un caso isolato? Davvero pensano che sia razzismo? Non sarà che se gente normale arriva a tirare pietre, odiare in questa maniera è perchè si è raggiunto il limite della sopportazione? Quel che accade a Torre Maura non sarà un caso isolato credo, ma accadrà in qualunque altra periferia romana o di altra grande città. Ma anche i quartieri alti non sono così lontani dai campi ROM. Sulla tangenziale altezza Salria esiste un grande campo ROM, dal quale si alzano fumi e escono ed entrano persone con i carrelletti in continuazione. Carrelletti usati per trasportare le cose trovare nella immondizia, per trasportare il rame e altro. Il grande livore (chiamiamolo così) delle classi basse contro i ROM è la sensazione che a ” quelli tutto sia permesso”. Mentre i figli dei cittadini italiani vengono vaccinati per legge pena espiulsione da scuola, quelli dei ROM non sono non vengono certo obbligati a vaccinarsi ma nemmeno ad andare a scuola. Non vengono rispettare nemmeno le basilari norme igieniche nè di altro tipo dentro quei campi. Le auto avranno assicurazione? chissà. Ed avranno pagato il bollo? E le bollette elettriche le pagano oppure gliele paga il contribuente? E se un cittadino non ROM accendesse un falò con i copertoni delle auto in mezzo alla strada verrebbe fermato e denunciato? Ecco quel che dà fastidio: La disparità di trattamento, l’ impressione che ci sia una copertura politica per queste persone che essendo nomadi si dovrebbero spostare in continuazione ma invece non si spostano per nulla. E nel frattempo non rispettano le leggi dello Stato. I governi e le amministrazioni comunali diano dimostrazione di trattare i ROM come gli altri e vedrete che o se ne andranno oppure saranno integrati. E non ci saranno più reazioni come a Torre Maura. La amministrazione RAggi dia l’ esempio che per il momento non ha dato. Anzi spesso la Raggi ha dato impressione opposta. Perchè non inviare i vigili a controllare che tutto sia in ordine dentro i campi ROM? se tutto fosse a posto allora i romani sarebbero tranquillizzati. Oppure mandare controlli viene considerata come una provocazione? Il cittadino comune considera una provocazione essere fermato per controllo di patente, assicurazione , documenti etc? Parità di trattamento , questa a mio modo di vedere l’ unica soluzione.
Marino Niola per “la Repubblica” il 4 aprile 2019. Calpestare il pane significa calpestare l' umanità. Ed è proprio quel che è accaduto martedì nel quartiere romano di Torre Maura dove una folla inferocita ha distrutto i panini destinati ai rom, ospiti indesiderati nel centro di accoglienza del Comune. Se è vero che ogni protesta legittima è possibile, questo gesto è intollerabile. Addirittura sacrilego. Perché fa scempio di quello che dagli albori della civiltà occidentale, ai cui valori si richiamano molti dei manifestanti, è il simbolo stesso dell' umano. Alimento ordinario dell' uomo civilizzato lo definiscono i dizionari. Come dire che chi oltraggia il pane si chiama automaticamente fuori dal consorzio civile. Non solo perché mal tollera che quegli "zingari", temuti ed esecrati, sostino su quello che considera un territorio di sua esclusiva proprietà dimenticando che uno spazio pubblico è di tutti e non solo degli abitanti del quartiere. Ma soprattutto perché i trecento giustizieri, a quelle donne, a quegli uomini, a quei bambini non hanno riconosciuto lo statuto di persone. Li hanno trattati come residui ingombranti da smaltire con le buone o le cattive. Li hanno ridotti a nuda vita, verso cui ogni opera di misericordia è sospesa. È per questo che qualcuno ha urlato «devono morire di fame». Lo stesso messaggio gridato senza parole da coloro che hanno schiacciato rabbiosamente le fette di pane. Mettendosi sotto i piedi l' archetipo stesso del nutrimento, il cibo per antonomasia. Nell' Odissea gli uomini vengono chiamati artofagoi, vale a dire "i mangiatori di pane", per sottolineare come l' impasto di acqua e farina rappresenti la frontiera dell' umanità. Per i greci e i romani, dai quali discendono i nostri valori, il disprezzo del pane era un atto barbarico, degno di bruti come Polifemo. Il pane era sacro, nel vero senso della parola. Perché era un dono delle dee madri, come Demetra e Cerere. E in tutto il Mediterraneo si celebravano riti in onore delle divinità del grano. Che morivano e risorgevano a primavera. Proprio come Cristo, nato a Betlemme, che in ebraico significa la città del pane ed era nota per l' eccellenza dei fornai. Questi simboli vengono fatti propri dal cristianesimo che li rende più espliciti e fa del pane la materia prima dell' eucaristia. Perché il dio che si fa uomo per togliere i peccati dal mondo offre all' umanità il dono-perdono del suo corpo transustanziato in pane. Come recitano le parole di un' Enciclica di papa Francesco, il Signore "arriva a farsi mangiare dalla sua creatura". E non è per caso che la preghiera dei cristiani si rivolga al dio padre come a un capofamiglia, per chiedere il pane quotidiano per tutti. Proprio come facevano i lavoratori quando, più laicamente, trasformavano il binomio pane e lavoro nell' algoritmo del diritto alla vita e alla dignità. Insomma per noi europei la civiltà è fatta da sempre della stessa sostanza di cui è fatto il pane. Al punto che fino alle soglie della modernità chi commetteva delitti efferati veniva interdetto il consumo del pane e non di altri cibi. Un modo per dire che la società li considerava alla stregua di belve che non avevano nulla di umano. Ecco perché chi a Torre Maura ha calpestato il pane di trentatré bambini e delle loro famiglie, insieme all' umanità degli altri ha distrutto anche la propria. E dovrebbe guardarsi dentro per cercare le cause di quel grumo oscuro di paura e rancore che gli chiude la mente e il cuore.
Pd, Mario Lavia insulta i cittadini di Torre Maura: "Quanto siete brutti, orrendi", scrive il 5 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Ecco a voi la sinistra. Il peggio della sinistra: snob, radical-chic, classista, razzista, colpita da un gigantesco complesso di superiorità. L'ultima vergogna è firmata da Marco Lavia. Chi è costui? Presto detto, vicedirettore di Democratica, l'organo di informazione ufficiale del Pd. Bene, il signor Lavia ha deciso di commentare su Twitter quanto accaduto a Torre Maura, la rivolta dei cittadini contro lo spostamento di 70 rom nel loro quartiere a Roma. Ecco il commento: "Certo quanto sono brutti questi cittadini di Torre Maura. Sembianze orrende proprio". Non pago, a chi lo criticava per la vergogna vergata sul social, ha aggiunto: "Io dico che sono brutti, mica è un giudizio morale". Un exploit incommentabile. Sconcertante. Spiazzante. Tanto da chiedersi se il Lavia che twittava fosse un fake. No, assolutamente: è semplicemente la perfetta incarnazione del pensiero classista e razzista della peggiore sinistra.
Rom, Simone contro Casapound. Il papà del 15enne umilia il Pd: "Cosa non ha capito". Schifo sinistro, scrive il 5 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Il Pd è talmente disperato da assoldare anche Simone, il 15enne di Torre Maurache ha ribattuto colpo su colpo ad alcuni esponenti di CasaPound sul caso dei rom "sfrattati" a furor di popolo. Il video del (pacato) confronto in strada è diventato virale e a sinistra, dopo la baby-paladina del clima Greta Thunberg, ecco spuntare un nuovo idolo da sbandierare a uso elettorale. Peccato che il papà del ragazzino, intervistato dal Fatto quotidiano, disintegri con poche frasi il sogno dem di fare di lui un simbolo anti-Salvini. Non sapeva del gesto del figlio: "Ero commosso, non sono riuscito a dirgli nulla. Gli ho dato un bacio e l'ho mandato a divertirsi al Romics (la fiera dei fumetti e videogame, ndr)", spiega Walter al Fatto. Simone "non ha mai fatto politica. È un ragazzo normale. Io mi sono un po' esposto quando siamo stati licenziati da Almaviva (era un dipendente del call center, ndr), ma non l'ho mai coinvolto. Se vorrà in futuro non lo so, gli consiglierò di restare sempre coerente e guardarsi bene intorno". Di corteggiamenti politici in queste ore il 15enne ne ha già ricevuti: "Ho visto che alcuni sindacati gli hanno fatto i cartelli, tipo Simone presidente o cose del genere. Non va strumentalizzato. Bene che abbia visibilità il suo pensiero. Sono orgoglioso, è mio figlio e mi fa pensare di aver seminato bene". Lezione alla sinistra: "Forse ancora non ha capito il motivo per cui è stata scavalcata dalla destra, sorpasso difficilmente colmabile. Non può accontentarsi dell'eroe di turno. Oggi è Simone, ieri era Mimmo Lucano, l'altro ieri era il consigliere di Rocca di Papa. C'è la persona che scalda gli animi per qualche ora, ma non un vero lavoro di organizzazione".
Torre Maura, la lettera del padre di Simone: "Sì, è mio figlio". Walter, padre del quindicenne che ha sfidato CasaPound durante la rivolta del quartiere contro la decisione di portare in un centro di accoglienza della zona 70 rom: "Come un bambino tedoforo ci lascia una fiamma. Una fiamma che può illuminare una via", scrive il 07 aprile 2019 La Repubblica. "'Si è mio figlio". Comincia così la lettera aperta di Walter, il papà di Simone, il ragazzino di Torre Maura divenuto un'icona social dopo il video che riprende il suo confronto con il responsabile di CasaPound nel Lazio Mauro Antonini durante la rivolta del quartiere contro la decisione di portare in un centro di accoglienza della zona 70 rom. "Sì è mio figlio. Come ho amato dare questa risposta a chi volesse una conferma su chi fosse quel bambino di Torre Maura - scrive Walter - Sì perché a me piace chiamarlo ancora bambino, probabilmente inconsciamente è la difesa alla nostalgia che ogni genitore prova nel vedere diventare adulto un proprio figlio. Simone sta crescendo ed ha il diritto di farlo in tranquillità, senza il peso di una responsabilità che in questo momento non può avere. Ha deciso liberamente di dire quelle parole, l'ha fatto spontaneamente, non ha più rilasciato interviste e non ha mai detto frasi tipo: 'Stanno rovinando il quartiere' o 'Lo rifarei'. Il video che molti siti e televisioni hanno trasmesso è andato in onda senza previa autorizzazione dei genitori e senza la sua immagine criptata, errori che fanno parte della bolla mediatica e a cui deve essere posto un freno". "Molti giornalisti mi hanno chiesto di parlare di Torre Maura, un quartiere a me tanto caro. Da piccolo venivo a trovare mio nonno che abitava in via delle Rondini, un palazzo antico ma bellissimo. Ricordo che le sue tele tremavano al passaggio del trenino distante centinaia di metri da casa sua. Legati a Torre Maura ci sono tanti ricordi di infanzia, di feste del santo patrono, della mia famiglia in una povertà dignitosa e piena di amore. La mia sensazione da sempre è che ci sia un legame invisibile, un sentirsi parte di un qualcosa, un tacito e a volte non manifesto mutualismo. I problemi della periferia sono propri dei quartieri lontani dal centro della città, dove chi amministra essendo 'lontano' non riesce ad ascoltare le grida del dissenso di chi vive in case popolari con famiglie numerose, di chi ha fatiscenti strutture pubbliche e sanitarie. Di chi non potendo permettersi un'automobile impiega ore di viaggio su mezzi pubblici simili a carri bestiame per raggiungere il luogo di lavoro", aggiunge. "Se volete posso parlarvi della mia amica buca. La piccola voragine nella via dove abito, 'buca' è diventata una mia amica, sta lì da anni, la sfioro evitandola con la macchina - aggiunge Walter - Poi operai la ricoprono con nuovo asfalto, ma io non dispero so di rivederla da lì a pochi giorni. Stanno asfaltando parecchie strade a Torre Maura , ne cronometrò la durata". "Nella periferia - prosegue il papà di Simone - si prova l'abbandono, esiste la povertà perché c'è disoccupazione , o perché si fanno lavori flessibili e precari. Esiste il problema rifiuti, vere discariche a cielo aperto vicino i cassonetti, a cui quasi ci fai l'abitudine un po come la mia amica buca. Chiunque mi proporrà di seguirlo per protestare e gridare questo stato di cose ai veri colpevoli, io lo seguirò. I colpevoli sono chi governa non per il bene dei cittadini ma per un proprio tornaconto, chi ha permesso la speculazione edilizia e un sistema tangentizio di anni che ha provocato segni indelebili sulle nostre schiene. "Mi hanno definito di sinistra, forse dovremmo finirla di marchiare tutto e mettere al centro il pensiero. Una mia convinzione è che un solo bambino impaurito su un barcone in mezzo al mare o dietro la finestra di un centro di accoglienza giustifica la tolleranza, l'integrazione. E sia chiaro il fenomeno dell'immigrazione necessita un impegno reale di tutti, che non si deve fermare solamente al primo obbligato e necessario aiuto a queste persone. Credo sia un errore la lotta tra emarginati e poveri, e che invece sia una priorità la lotta per la casa, per il lavoro e per il diritto a una vita dignitosa. Simone come un 'bambino' tedoforo ci lascia una fiamma. Una fiamma che non distrugge, che può illuminare una via. Che queste lotte dovute siano, usando una parola detta da Simone, una 'leva' di unione di intenti. Sì Simone è mio figlio", conclude.
Simone, il 15enne che fa il leader Pd. Simone ha difeso i rom dall’assalto guidato da Casapound. È l’ultimo eroe metropolitano dei progressisti. Prima di lui la signora napoletana che disse: «tu non sei razzista, tu si strunz…». Il video del ragazzino romano che spiega che nessuno deve essere lasciato indietro è diventato virale nel giro di pochissime ore, scrive Paolo Delgado il 5 Aprile 2019 su Il Dubbio. «A me sto fatto che bisogna andà sempre contro la minoranza non me sta bene. Nessuno deve essere lasciato dietro: né italiani, né i Rom, né gli africani». Parole sante. Se però le senti pronunciare da un politico nel talk show quotidiano puoi anche combattere ma hai perso in partenza: lo sbadiglio esonda. Tutto giusto, per carità, ma esangue e stanco: una preghierina che già sai verrà ascoltata solo da chi quelle cose già le pensa da solo. Senza contare il dubbio che la passione civica sia inquinata da una dose più o meno massiccia di ipocrisia, dettata dalle esigenze della propaganda più che dall’ansia di giustizia. Ma se le stesse frasi già ascoltate un milione e passa di volte spuntano in un video rubato per strada, in bocca a un ragazzino con l’acconciatura a scodella che fa stile anche nelle famigerate ‘ aree del degrado’, uno che gesticola come un opinionista di grido non riuscirebbe neppure dopo un corso accelerato perché quel modo di muovere le mani lo impari solo dall’hip- hop, con un accento romano che non somiglia nemmeno un po’ alla sguaiataggine leziosa a cui ormai non si rinuncia neppure nei ricevimenti al Colle, be’, l’effetto cambia. Per una frazione di secondo al militante e al semplice elettore di sinistra sembra uno squarcio nella plumbea cappa che lo sovrasta a tempo pieno da chi si ricorda più quando. Succede in questi giorni con il video virale del ragazzo di Torre Maura che fronteggia il fascista di turno. E’ lo stesso respiro a pieni polmoni per cui parecchi hanno ringraziato pochi mesi fa la verace signora napoletana che sulla circumvesuviana commentava la diatriba di uno sgangherato nazista in preda a furori razziali con esaustiva sintesi: «Tu non sei razzista. Tu sì ‘ nu strunz». Definitivo. Ma ancora prima, ai tempi del travagliatissimo sbarco della “Diciotti”, quello che senza santa piattaforma Rousseau sarebbe costato caro al ministro degli Interni, c’era stato Ivano da Rocca di Papa, con quel video che solo a volerlo gli sarebbe bastato per strappare l’elezione ovunque: «Dopo essese fatti la navigata, la sosta e mo’ pure 10 ore de pullman, quando arivano qua se devono gode’ pure sta rottura de cojoni dei fascisti». Gli applausi mediatici si contarono a bizzeffe. Come diventare un mito in meno di un minuto. Cercasi leader disperatamente? Ma no. In questo, in fondo, non ci sarebbe nulla di inquietante. Una ricerca del genere non sarebbe affatto strana né tantomeno disdicevole per una parte politica che vanta da un lato milioni di elettori e dall’altro una pattuglia di dirigenti credibili per contare la quale anche una sola mano sarebbe in eccesso. Qui però l’ispirazione è altra: «Cercasi popolo disperatamente». L’anatema scagliato un centinaio di volte al giorno, sibilando spesso a sproposito l’insulto "populisti", è in realtà un’arma a doppio taglio. Addita chi riempie i forzieri del consenso titillando i bassi istinti della massa e dispensando a piene mani promesse che non si possono mantenere. Però rivela anche un cruccio, è solcato da una malcelata scia di pura invidia: verso chi col popolo riesce comunque a comunicare e dal popolo è riconosciuto almeno come possibile rappresentante. Il brivido che suscitano quei siparietti rimbalzanti da un social all’altro non è dovuto alla pregnanza delle argomentazioni né al coraggio di sfidare qualche prepotente in peraltro lisa camicia nera. A provocarlo è l’accento. E’ il romanesco greve di Ivano o la calata da quartieri spagnoli della guerriera della circumvesuviana. L’autorevolezza del giovanotto che a Torre maura sfida un fascista, peraltro rispettoso, discende dal suo essere davvero nato e cresciuto in quelle strade, in mezzo a quel disagio. Non c’è solo la giustificata brama per la massa di voti che dal popolo potrebbe arrivare. E’ qualcosa di più mesto, la nostalgia, e di più perturbante, lo smarrimento di un’area che dal legame col popolo è nata e senza quel legame stenta a trovare una ragione d’esistere. Ma è anche un barlume di speranza: finché c’è Ivano, in fondo, non tutto è perduto. Bisogna solo imparare a comunicare di nuovo con quelli come lui. Ricominciando dalle aste e dai quaderni a quadretti.
Simone, e i giovani "eroi" di oggi, come nascono, come li usano. Dopo Adam e Rami i due ragazzi della tentata strage sul pullman oggi si parla solo di Simone, il 15 enne di Torre Maura, scrive il 6 aprile 2019 Panorama. Negare che Adam e Rami siano stati degli eroi perché con le loro telefonate hanno davvero evitato che si realizzasse la strage del pullman sequestrato e dato alle fiamme con 51 persone a bordo sarebbe falso. Quello che è strano, anzi sbagliato, è stato l'utilizzo che nelle ore e nei giorni seguenti è stato fatto del loro gesto, anzi, di loro stessi. Perché negare che siano stati usati da una certa stampa e dai soliti "ben pensanti" come modelli dell'integrazione possibile (i due sono di origine straniera) contro quel cattivone di Salvini e il "clima d'odio" che si respira in Italia verso gli immigrati, è altrettanto falso. Insomma, è evidente che c'è qualcuno disperatamente alla caccia di "eroi" che però abbiano determinate caratteristiche, fisiche o politiche. E Adam e Rami sono solo due tra tanti. Oggi ad esempio è il giorno di Simone, il 15 enne di Torre Maura che, nel bel mezzo della contestazione degli abitanti del quartiere contro l'arrivo di 70 rom in un nuovo insediamento, ha sfidato uno dei contestatori con messaggi anti-razzisti: "A me non interessa chi mi ruba in casa. A me interessa se mi rubano in casa. Perché se è un rom tutti si lamentano e se invece è italiano tutti tacciono?". Il tutto sotto l'occhio vigile di una telecamera che ha ripreso la scena trasformandolo nel nuovo idolo della sinistra che già lo presenta come (lo abbiamo letto sui social) "esempio di speranza per questo paese". Ad aumentare l'aureola di santità che subito è stata posta attorno al giovanotto il fatto che queste frasi siano state dette non ad un abitante qualunque della zona (sporco razzista, anti zingari) ma contro un esponente di Casapound (fascista e razzista al tempo stesso, il massimo. Vale doppio). Eccoti quindi pronto l'eroe di turno. Sia chiaro. Simone ha tutto il diritto di avere la sua opinione e di certo ha un bel carattere per arrivare senza paura a portare le sue ragioni davanti ad un adulto. Questo è sicuramente un'ottima cosa. Per favore, però, risparmiateci e risparmiategli le ospitate da Fazio, le citazioni fatte da questo o quel politico, le interviste sui soliti giornali o nei soliti programmi di "approfondimento" in tv per le solite battaglie politiche ed elettorali. Una piccola notazione. Settimana scorsa, in occasione del primo gol con la maglia della Nazionale Italiana di calcio di Moise Kean (il talento della Juventus, nato nel 2000, italianissimo, di colore) si è cercata la stessa operazione ed in conferenza stampa invece che di parlare di pallone fioccavano domande su politica, razzismo, Salvini. Operazione fallita però per due motivi. Primo: il ragazzo, fiutato il giochino, si è subito chiamato fuori ed ha riportato tutto sull'unico binario possibile, quello sportivo. Secondo: il padre, di colore, interpellato nella speranza di trovare una sponda alla "bella storia di integrazione" si è proclamato sostenitore delle tesi di Salvini e leghista. Buona notte... Questo paese è pieno di giovani eroi, veri, sconosciuti, eroi normali. Ma solo se hai certi "ingredienti" e puoi essere utilizzato per una battaglia politica diventi un "eroe nazionale".
Se la solita sinistra riesce a spaccarsi anche sul leaderino di Torre Maura, scrive Alessandro Gnocchi, Sabato 06/04/2019, su Il Giornale. Chi è il vero leader della sinistra? In teoria Nicola Zingaretti, segretario del Partito democratico. In pratica gli eredi del comunismo guardano altrove. Come ha notato Marcello Veneziani, sono passati dal politicamente corretto al puerilmente corretto. Mahmood (26 anni) ha inaugurato la tendenza a eleggere ragazzi come testimonial spesso involontari. Il cantante italiano di origine egiziana sarebbe passato dalla dura vita nella periferia milanese alla vittoria del Festival di Sanremo. In realtà viene da una solida famiglia sarda, che non gli ha fatto mancare nulla, tanto meno i Soldi. Via Mahmood e dentro Greta (15 anni), paladina dell'ambientalismo, beccata mentre si ingozzava di cibo spazzatura poco ecologico. Via Greta dentro Ramy (13 anni). L'adolescente egiziano ha sventato la strage ordita da un senegalese (cittadino italiano). Il folle, ritenuto idoneo a guidare uno scuolabus, voleva dare fuoco al veicolo e uccidere i 51 passeggeri, tutti minorenni. Ramy, insieme al suo «aiutante» tunisino Adam (12 anni), è stato ospitato da Fabio Fazio a Chetempochefa. Uno spot a favore di ius soli e accoglienza indiscriminata. In questi giorni, il nuovo leader si chiama Simone (15 anni). Romano di nascita, si è opposto alle proteste dei residenti del quartiere di Torre Maura contro l'arrivo dei nuovi vicini di casa: una settantina di Rom. Simone ha detto di non approvare l'ostilità preventiva nei confronti delle minoranze. Giusto e sufficiente per farne un eroe antirazzista elogiato anche dall'Osservatore romano. Altri abitanti contestano le parole di Simone e dichiarano di essere esasperati ma non razzisti. I Rom arrivano in un contesto di degrado e di abbandono delle istituzioni, che si sono fatte vive in una sola occasione, questa. Visto che stiamo parlando di sinistra, non può mancare una scissione. La scrittrice Elena Stancanelli ha fatto notare sui social network l'italiano traballante di Simone. Immediato l'intervento della sinistra proletaria con accuse alla Stancanelli di essere una snob (di sinistra). Il ricorso ai minorenni per organizzare la propaganda non è una novità, è un'ottima arma di distrazione di massa dalle domande tabù: vogliamo rinunciare alle caratteristiche della nostra cultura, anche solo per motivi demografici? Bisogna o non bisogna bloccare l'immigrazione dall'Africa? C'è o non c'è un'emergenza nelle periferie delle grandi città? A questi interrogativi la sinistra replica solo in termini retorici. Preferisce illudersi che i ragazzini salveranno il mondo.
Il Duce è morto. Svegliatevi! Torre Maura e i Rom, in scena l’ignoranza, scrive il 4 aprile 2019 Michel Dessì su Il Giornale. Ignoranti, fanatici. Sono i fascisti del terzo millennio. Violenti e volgari. Uomini neri di borgata, annebbiati dalla bandiera di Forza Nuova che issano e sventolano con spocchia, senza pudore. Il peggio è andato in scena a Torre Maura, periferia romana. Cori orribili, da far accapponare la pelle contro i rom. “Bruciateli vivi…” gridavano. Carichi di bile e di veleno. Rabbiosi, peggio dei cani affamati. “Scimmia di merda, te ne devi andare, esci fuori che ti ammazzo”. Urlavano. Cavalli da soma con i paraocchi. Lo hanno ribadito in diretta TV su Rete4 a Stasera Italia. Col petto gonfio di orgoglio. “Si, lo ripetiamo anche ora… devono morire. Siamo fascisti. Fieri.” Ma quali fascisti, mi chiedo? Uomini poveri. Di umanità e cultura. Sciocchi che vivono di fantasmi e ricordi di tempi che non hanno vissuto. Li condanno e li accuso. Sì, gli punto il dito contro. Sia chiaro, non sono “pro-rom”. Affatto. Non è lo Stato o il Comune di Roma che deve dare loro assistenza. Rubano, spacciano, violentano (lo dicono i fatti) e noi li coccoliamo e li viziamo. Comprendo la rabbia dei residenti impauriti dall’arrivo degli zingari. E gli sono accanto. Io stesso, dalle colonne virtuali di questo blog attaccai il piiddino Fiano e la sua stupida proposta di legge contro i “fascisti”. “Arrestatemi, per Fiano sono fascista” titolai. L’onorevole rosé voleva ingabbiare tutti. Sì, per lui chiunque fosse in possesso di materiale da collezione che rappresentasse Benito Mussolini o l’Italia da lui fondata sarebbe ancora fascista. Da condannare. Ma come potrebbe un ninnolo del trenta far risorgere un’ideologia? Se quella esistesse, esisterebbe a prescindere. E lo abbiamo visto a Torre Maura. Io stesso a casa custodisco preziosamente un grande fascio littorio in argento regalatomi da un amico. Il portachiavi e la spilla con i simboli del ventennio. La copia autografata di “Parlo con Bruno”, il libro che il Duce dedicò all’eroico figlio morto in azione. Tutti oggetti di una collezione che non offende nessuno e non esalta nessuno. Tranne gli stupidi. Sono segni di un periodo storico che, pur controverso, ha dato molto all’Italia più di quanto non abbia dato la peggior politica degli ultimi anni. Sono simboli che non possono più spaventare, perché non sono semi di raccolti futuri. Mi spaventano di più gli esaltati. Che vanno denunciati. Arrestati.
Antonio Socci massacra i compagni di sinistra: "Viva i migranti, ma solo in periferia", scrive l'8 Aprile 2019 Antonio Socci su Libero Quotidiano. Tornano Destra e Sinistra? Lo proclama la copertina dell' Espresso: «Chi si rivede: Destra e Sinistra. Da una parte i nazionalisti, i sovranisti, i nostalgici. Dall' altra le donne, i ragazzi, gli ambientalisti». Tutto chiaro dunque. Da una parte brutti, sporchi, cattivi e ottusi. Dall' altra belli, puliti, buoni e intelligenti. Da una parte il Male, dall' altra il Bene, da una parte il torto, dall' altra la ragione. Questa è l' autorappresentazione della sinistra. Tutto chiaro, semplice e rassicurante. Permette di sentirsi i migliori, superiori ai «nemici». Solo che poi la realtà non sta nei suoi schemi: per esempio, l' Espresso dove metterebbe Berlusconi, oggi? Cosa è di sinistra e cosa è di destra è l' assillo di sempre dei compagni che devono incasellare tutto nei loro schemi manichei in bianco e nero. Ricordano il vecchio film «Maledetti vi amerò», dove il protagonista, il sessantottino Svitol, tornato in Italia alla fine degli anni Settanta, cercava di ritrovare le coordinate: «Il tè è di sinistra, come il riso integrale e la cucina macrobiotica. Il caffè invece è di destra, anche il bagno con la vasca è di destra. La doccia, invece, è di sinistra. L' erotismo è di sinistra, la pornografia è di destra. L' eterosessualità è di destra, l' omosessualità, invece, ha un profondo valore trasgressivo, quindi è di sinistra. In quanto a Nietzsche è stato rivalutato, cioè adesso è di sinistra compagni, non facciamo casino, ah! Bisaglia è di destra, Basaglia è di sinistra. Cosa vuol dire una vocale». E oggi? Su Twitter un certo Matteo Brandi ha ironicamente rappresentato così la sinistra del 2019: «Viva i Rom, ma non nel mio quartiere. Viva il libero mercato, ma non per la mia radio. Viva le culture del mondo, ma non la mia. Viva l' austerity, ma non con i miei soldi. Viva il precariato, ma non per mio figlio. Viva la democrazia, ma non contro le mie idee». Si potrebbe continuare. Viva le tasse, ma non per me. Viva la libertà di parola, ma non per chi esprime idee che io avverso. Viva il suffragio universale, ma solo se decreta la vittoria della mia parte. Viva gli altri popoli europei, ma non quando votano per la Brexit o manifestano coi gilet gialli contro Macron o scelgono i sovranisti. Viva gli Stati Uniti, ma solo se non votano Trump. Viva i migranti, ma in periferia, non nel mio luogo di vacanza o nel mio condominio. Viva l' Umanità dall' altra parte del mare. Se invece è dall' altra parte del muro - sotto forma di vicino rumoroso - è insopportabile. E poi: viva la lotta al riscaldamento globale, ma non chiedete a me di rinunciare alla macchina o ai miei consumi e al mio benessere. Viva il Tricolore, ma solo finché c' era da polemizzare con la Lega bossiana. Oggi va assolutamente sostituito con la bandiera della Ue. Viva la bandiera della pace (da appendere ai balconi), ma solo per la guerra all' Iraq, non per quella alla Serbia o alla Libia. Viva la sovranità nazionale, ma solo finché - in anni lontani - si manifestava contro la Nato e contro gli Stati Uniti. Oggi è un' espressione detestabile. Viva il Mercato, ma solo oggi, perché fino a ieri era il demonio.
L' ODIO È SOLO ALTRUI. In effetti, l' uomo di sinistra deve fare attenzione con le cose da avversare. Dimenticati gli slogan rivoluzionari di ieri, oggi si proclama contro le parole di odio, ma solo quelle degli altri. È contro l' intolleranza, ma non la sua. Contro i «privilegi», ma quelli altrui (per i propri ha una certa benevolenza). Contro l' omofobia e la discriminazione delle donne, ma facendo spallucce e fischiettando se parliamo di certi paesi islamici. Contro la Chiesa, ma non i preti progressisti che stanno con la sinistra. Contro Berlusconi, ma non ora che avversa il governo. Contro il M5S, ma solo finché è alleato della Lega. Se volesse graziosamente coalizzarsi con il Pd diventerebbe un' apprezzabile «costola della sinistra». Contro la piazza, ma solo se ha idee «populiste», in caso contrario va esaltata la magnifica manifestazione democratica. Contro il muro col Messico di Trump (che non è ancora stato innalzato), ma senza dire parola contro il muro col Messico già costruito da Bill Clinton (anche Giorgio Mario Bergoglio è contro tutti i muri eccetto le alte e invalicabili mura vaticane).
CONFUSIONE. E ancora: contro le frontiere chiuse di Salvini, ma non contro quelle di Minniti. Contro l' attacco alle pensioni (usare l' espressione «massacro sociale»), ma non quando a «riformarle» è un governo «progressista». La conclusione potremmo affidarla a Nicolás Gómez Dávila: «L' uomo di sinistra si crede generoso perché le sue mete sono confuse». Oppure - fate voi - a Oriana Fallaci: «Per tenersi a galla oggi bisogna stare a sinistra». Non solo perché conviene, ma anche perché «ti garantisce il potere» ed «è di moda. Sissignori... È un conformismo, una convenzione. Soprattutto per i banchieri e i magnati e i presunti intellettuali... Per i giornalisti e le giornaliste... Per gli stilisti... Per la Confindustria che fa lingua in bocca con la Cgil, insomma per quella che in America si chiama "the Caviar Left". La Sinistra al Caviale». Il caviale del tramonto. Antonio Socci
I dem contestati a Torre Maura: "Arroganti, ve ne dovete annà!" Dura contestazione dei residenti di Torre Maura, quartiere finito nell'occhio del ciclone dopo le proteste per l'arrivo di 70 rom, contro il Pd. Nelle stesse ore rissa tra due africani ospiti del centro d'accoglienza, scrive Francesco Curridori, Sabato 06/04/2019, su Il Giornale. Pd contestato a Torre Maura. "C'hanno pure il coraggio di presentarsi a una manifestazione, dopo che i fascisti li hanno portati loro qui", gridano alcuni residenti del quartiere romano finito nell'occhio del ciclone dopo le proteste per l'arrivo di 70 rom. "Veltroni, Rutelli, Marino, qui nessuno ha fatto niente. Le periferie fanno schifo, ve ne dovete 'anna", urla un uomo con la barba brizzolata mentre il deputato Emanuele Fiano parla al microfono nel corso della manifestazione antirazzista organizzata da Anpi, Cgil e Libera. "Ho sempre votato per voi, ma mi avete deluso", dice la 54enne Raffaella parlando davanti ai cronisti dell'HuffPost. "Quando vi abbiamo chiamato avete sempre risposto con arroganza. In questi ultimi giorni dove eravate?", chiede a Fiano e all'ex presidente del Pd, Matteo Orfini. Fabrizio Compagnone, capogruppo del Pd del VI Municipio, dissente e spiega alla donna che i dem locali erano presenti nel territorio. Nulla da fare. "E allora potevate chiamare le persone. Invece qui non abbiamo visto nessuno", ribatte Raffaella. Due giovani elettori del Pd, invece, attaccano verbalmente Orfini per la sua gestione del partito in quanto commissario del Pd capitolino: "Com'è che Marino lo abbiamo mandato a casa?", chiedono. E lui: "Perché non era capace". Ma i due giovani insistono: "E com'è che CasaPound qua non c'era e ora è arrivata?". "No, non ci sta neanche adesso", ribatte Orfini.
"Sono i miei figli, ho seminato bene. E comunque, mi dispiace, da parte del Pd c'è stata grande arroganza", chiosa Raffaella mentre davanti al centro di accoglienza di Torre Maura due africani ospiti della struttura si menano tra loro. "Se lo becco lo ammazzo" , dice uno dei due mentre cercano di dividerli dopo che sono partiti calci e pugni da una parte e dall'altra.
Le ragioni dei residenti, scrive Andrea Indini il 6 aprile 2019 su Il Giornale. La proprietà privata è inviolabile. Laddove questa finisce inizia il bene pubblico. Che, a mio avviso è altrettanto inviolabile. C’è un acronimo inglese che ben definisce questo concetto. È “nimby”. Not in my backyard, letteralmente “non nel mio cortile”, indica qualsiasi protesta da parte di membri di una comunità locale contro opere pubbliche sul proprio territorio. Proteste che verrebbero meno qualora l’amministrazione dovesse decidere di farle in un altro quartiere. Le ragioni dei residenti di Torre Maura, il quartiere che si è infiammato quando il sindaco Virginia Raggi ha deciso di piazzare una sessantina di rom nell’ex Sprar di via Codirossini (video), sono le stesse che muovono qualsiasi cittadino a scendere in piazza quando vede sorgere nel proprio quartiere nuovi campi nomadi, centri di accoglienza e persino centri islamici. “La protesta – dicono a Torre Maura – è stata spontanea, ed è montata quando è cominciata a girare la voce che stavano arrivando i rom”. I residenti si sono, infatti, trovati di fronte al fatto compiuto. “Si ricordano di noi solo quando c’è da scaricarci addosso i problemi”. Eppure sono passati tutti quanti per “fascisti e razzisti”. La protesta è montata ed è innegabile che ci siano stati degli eccessi, come quello di gettare il cibo in strada per non farlo arrivare ai nomadi (video). A volte, però, per riuscire a farsi sentire certi eccessi sono purtroppo necessari. A patto che non sfocino mai nelle violenze. Non si può, dunque, liquidare un’insofferenza reale facendo passare semplici residenti, che hanno le tasche piene di sentirsi trattati come cittadini di serie B, in picchiatori di estrema destra. “Parlare di razzismo oggi per fenomeni come questi è un abuso linguistico – ammette il sociologo Luca Ricolfi in una intervista alla Verità – si dice razzista per dire ‘spregevole e di destra’. La gente di Torre Maura – continua – è semplicemente esasperata dall’assenza delle istituzioni e indignata per la superficialità con cui esse scaricano i propri problemi sulla povera gente”. “Le palazzine dove viviamo – spiegano i residenti – sono tutte spaccate e per la manutenzione del verde ce la dobbiamo sbrigare da soli, al Comune non importa nulla di noi”. Prima che arrivassero i rom, la struttura ospitava un centro di protezione per richiedenti asilo (Sprar). Quella di Torre Maura è una delle tante periferie, romane e italiane, sulle quali vengono scaricati i problemi dell’intera città. Da una parte i campi nomadi dovrebbero essere gradualmente superati obbligando chi li abita a integrarsi col resto della comunità, comprando o affittando uno stabile e pagando le utenze, dall’altra il Comune dovrebbe impegnarsi a fare rispettare sempre la legge garantendo la sicurezza tutti gli abitanti. Le barricate dei residenti di Torre Maura non sono esplose tanto per l’arrivo dei sessanta rom quanto piuttosto le ricadute che questa decisione avrebbe avuto sul quartiere. “Ho tre figli giovani – spiega uno che lì ci abita dal 1998 – se loro rimangono non potranno più uscire di casa… oggi ci facevano il dito medio dalle finestre. È già sparita una bicicletta nel cortile sotto casa mia”. Contro la percezione di insicurezza non si può far nulla. Se non facendo costantemente sentire ai cittadini, la presenza dello Stato. “Se proteggo il portafoglio quando sale una zingara su un tram non è perché penso che tutti i rom siano ladri o che il popolo rom sia geneticamente inferiore – argomenta Ricolfi – è solo perché penso che il rischio di essere derubato stia improvvisamente schizzando verso l’altro”. Tutta statistica, insomma. Nulla a che vedere con il razzismo. È sacrosanto che un’amministrazione decida sulla destinazione e l’ubicazione delle opere pubbliche, ma deve innanzitutto valutare l’impatto che queste possono avere sulla popolazione. Se in futuro le Giunte non avranno questa accortezza e continueranno a scaricare sulle periferie tutti problemi, le rivolte che abbiamo visto a Torre Maura o in passato a Cona non saranno più episodi isolati.
Salvate l'Italia dalla tolleranza, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 04/04/2019 su Il Giornale. Di solito, quando accade un fatto di un certo rilievo, uno si fa un'opinione e sceglie da che parte stare. Cosa difficile se parliamo di quello che è avvenuto l'altra sera a Roma, quartiere periferico di Torre Maura. Lì, dove già ci sono un paio di centri di accoglienza, la sindaca Raggi ha provato a insediare pure un nuovo campo rom, innescando la rivolta di un gruppo di residenti che, guidati dagli attivisti di destra di CasaPound, hanno ingaggiato una vera battaglia con i nuovi arrivati e la polizia, arrivando pure a incendiare auto e distruggere il pane preparato per la prima cena degli zingari. La difficoltà di cui parlavamo è che nessuno dei tre attori principali ci convince: non l'incapace Raggi, non i «poveri» rom che tanto poveri non sono, non gli estremisti di CasaPound che sfidano la polizia e calpestano il pane, fatto che è sempre un insulto alla povertà. Certo, stiamo dalla parte dei residenti esasperati e tre volte vittime: della Raggi, dei rom e di CasaPound. E ci auguriamo che qualcuno si occupi seriamente dei loro problemi, non a parole, non con la forza, ma con la politica e il buon senso. Non siamo ottimisti che ciò accada perché il problema, non solo a Torre Maura, è l'eccesso di tolleranza che in tutti i campi viene invocato da opinionisti, intellettuali e politici di sinistra. La tolleranza non può essere illimitata, pena la sua autodistruzione, com'è successo l'altra sera a Roma. La tolleranza è anche una delle facce dell'indifferenza, un vezzo di chi non vive i problemi sulla sua pelle ma li affronta in modo accademico. Facile fare i tolleranti con le intolleranze dei rom se non hai un campo sotto casa. Da cittadini bisognerebbe essere prima di tutto intolleranti con gli amministratori che non sanno fare il loro lavoro, in questo caso la Raggi. Perché un buon politico non deve essere né morbido né duro, semplicemente rigoroso nel fare applicare le leggi e capace di gestire problemi complessi. La ricetta «tolleranza zero» del sindaco Giuliani riportò ordine, pace e crescita in una New York dove da anni comandavano bande criminali e sbandati di vario genere. Lui diceva: dove c'è un vetro rotto arriva il degrado. Non stupiamoci di cosa può succedere a Roma, dove rotte sono le strade e le scale mobili del centro.
· Le discriminazioni contro gli italiani.
"Ecco la legge razzista del Pd che favorisce rom e sinti". La gestione dei nomadi in Emilia Romagna. Nel 2015 la legge della giunta Bonaccini. Le proteste del centrodestra. Giuseppe De Lorenzo e Eugenia Fiore, Mercoledì 04/12/2019 su Il Giornale. In teoria la legge regionale voluta dal Pd in Emilia Romagna dovrebbe garantire ai nomadi "parità di trattamento" e assenza di "discriminazione". Nella pratica, però, il piano messo in campo da Bologna a qualcuno sembra piuttosto una "legge razziale che discrimina gli italiani" perché favorisce i sinti rispetto a tutti gli altri. "Un cittadino che non appartiene alla comunità sinta o rom non può accedere ai progetti riservati a quelle etnie - dice senza metti termini Umberto Bosco, consigliere comunale della Lega - E questo è discriminatorio". A Bologna per superare una grande (e problematica) area sosta per sinti nel quartiere Navile, zona nord della città, la giunta Pd ha pensato di trasferire 30 sinti in due microaree familiari: stesso principio (piazzole, case mobili, bagni in comune), con la "pia illusione" che possano ridurre il degrado e la ghettizzazione (leggi qui). Il costo per i cittadini è da capogiro: circa 300mila euro solo di opere pubbliche (leggi qui), che si vanno a sommare ai circa 900mila euro spesi in 9 anni per luce e acqua del campo. "A casa mia le bollette le pago io - attacca Galeazzo Bignami, deputato bolognese di FdI - Non le faccio pagare ai cittadini. Non possono sempre vivere a nostre spese". A infastidire alcuni, però, non è solo lo sperpero di denaro, ma soprattutto i "troppi favoritismi" concessi ai nomadi. Il programma comunale lo mette nero su bianco: le nuove microaree saranno utilizzabili "esclusivamente" dai "nuclei appartenenti alla comunità rom e sinta selezionati dai servizi comunali". Tradotto: se un comune residente si trovasse in difficoltà e non fosse ancora in lizza per una casa popolare, non potrebbe ottenere la piazzola dove parcheggiare una casa mobile. Il piano piddino per il superamento dei campi non prevede solo il trasferimento dei nomadi in due microaree pubbliche. C'è anche una seconda opzione, ovvero la costruzione di microaree private in terreni acquistati dagli stessi sinti. A Bologna per ora ne è stata approvata solo una. Una famiglia ha dimostrato di essere proprietaria di un appezzamento di terreno e il Comune darà l'autorizzazione a viverci. Dato non secondario, questo. La legge regionale di Bonaccini&co, infatti, garantisce ai nomadi deroghe urbanistiche non indifferenti. Il caso pratico è eloquente: la microarea privata sarà in via Benazza, in un territorio "rurale" in "ambito agricolo di rilievo paesaggistico". Il sito comunale spiega che in queste zone deve essere "esclusa la possibilità di realizzare nuovi edifici ad uso abitativo su fondi agricoli che ne siano sprovvisti". Ma i sinti ci piazzeranno casa mobile e potranno costruire pure altri due prefabbricati. "Il Pd ha permesso ai nomadi di edificare in zone dove non sarebbe possibile - dice Bosco - se lo facesse un cittadino qualunque, sarebbe condiderato un abuso edilizio". La "disciplina di favore" è stata codificata da una delibera regionale della giunta Bonaccini, oggi candidato nuovamente a governatore. La novità è importante: in passato, quando i sinti hanno creato insediamenti in terreni agricoli dove non vi era permesso, erano stati (ovviamente) invitati a demolire. Si chiamava abuso edilizio. La nuova legge, invece, stabilisce che l'individuazione delle microaree "non comporta la modifica della destinazione urbanistica delle stesse". Cosa significa? Che un territorio rurale non deve essere trasformato ufficialmente in "residenziale" per costruirci il mini-campo. Questo perché "si tratta di un uso speciale" pensato apposta per i nomadi. Una specialità che "comporta maggiore elasticità per l'Amministrazione comunale nello scegliere" dove piazzare i nuovi campi, permettendogli di "prescindere da vincoli e prescrizioni che limitino la possibilità di stabili trasformazioni del suolo a fini residenziali". Non solo: grazie alla legge Pd, le microaree non sono nemmeno soggette "alla disciplina che attiene ai vincoli che gravano sul territorio". Una manna giustificata dal fatto che (in teoria) gli insediamenti dovrebbero essere temporanei, giusto il tempo di instradare i Sinti verso altre sistemazioni. Beata innocenza. "I nomadi si stabilizzeranno - scommette Bignami - e alla fine non se ne andranno più".
Le minacce del nomade ai cronisti: "Adesso io vi conosco..." La nostra inchiesta sui campi nomadi in Emilia Romagna. Viaggio nell'area sosta di Bologna: "Italiani razzisti". Giuseppe De Lorenzo e Eugenia Fiore, Giovedì 05/12/2019 su Il Giornale. "Se sento qualcosa di brutto, io poi vi conosco…". Il dito puntato verso la telecamera non lascia molti dubbi all’interpretazione. Bologna, campo nomadi di via Erbosa. L’area sosta del capoluogo emiliano è da tempo al centro di polemiche, scontri politici, dibattito pubblico. È l’inizio di ottobre quando ci rechiamo per un sopralluogo. Stiamo indagando sulla formazione delle microaree che Regione e Comune intendono aprire per "superare" l'accampamento. Siamo lì per intervistare (anche) gli abitanti del campo. Uno di loro accetta il confronto. All’inizio è cordiale, poi scattano quelle che a tutti gli effetti ci appaiono minacce. "Può registrare anche la faccia, cosa crede. Che ho paura di lei? Te lo dico così: se sento qualcosa di brutto, io poi vi conosco…". E cosa fa? "Dopo vediamo cosa facciamo". Poi una risata. "Ci vediamo dopo, quando vedo sulla tv cosa c’è". Abbiamo ragionato a lungo se riportare quanto successo. Ma crediamo che quelle frasi debbano essere raccontate, senza polemiche eccessive, perché a noi sembrano avvertimenti minacciosi. Le immagini sono disponibili, dunque ognuno si faccia la propria idea. Va sottolineato, però, che per permettere il sopralluogo in via Erbosa sono state mobilitate almeno due volanti della polizia di Stato e una decina di agenti della Digos. Uno schieramento impensabile, direte. Vero. Un motivo però c’è: con noi erano infatti presenti anche tre esponenti locali di Fratelli d’Italia che pochi giorni prima erano stati aggrediti verbalmente per aver osato registrare una diretta Facebook di fronte al campo. Non è la prima volta, peraltro, che i politici finiscono nel mirino degli abitanti di via Erbosa. Nel 2014 Lucia Borgonzoni, attuale candidata alla carica di governatore dell’Emilia Romagna, era andata in visita istituzionale in veste di consigliera comunale. Ne aveva tutto il diritto, ma una nomade l’ha affrontata, spinta e schiaffeggiata. Tutto di fronte ad una telecamera. L’area sosta di via Erbosa, come ampiamente documentato nell’inchiesta del Giornale.it, è costata diverse migliaia di euro ai contribuenti bolognesi. "Qui si mangia, si beve e si dorme”, racconta il nomade mostrandoci gli oggetti ammassati al campo in attesa di essere rivenduti. Dove li prendete? "Dai meccanici o per le case…". Sono rubate? "No. Se c’è un solo pezzo rubato poi mi fai la denuncia, ne rispondo io". Per vivere nell’area gli abitanti dovrebbero versare una quota di contribuzione, ma in molti risultano morosi. "Io ho sempre pagato", assicura l’uomo ai nostri microfoni. E gli altri? "C’è stato un periodo che non hanno mica pagato". Secondo il nomade, l’Ue avrebbe inviato tanti soldi "per noi", ma "quelli che comandano" non hanno "mai fatto niente". Eppure le utenze le paga, da anni, il Comune di Bologna. Cioè i contribuenti. Una anomalia che anche Matteo Salvini aveva a suo tempo denunciato. “A Salvini pensa Dio per lui - continua il nomade - Non scappa mica con quello che ha fatto qui: è andato a vedere tutte le bollette, è andato cinque anni indietro per farci pagare l’acqua e la luce”. E non doveva? “No. Qui il vostro governo ha ucciso mio fratello, Bellinati Rodolfo (una delle vittime della Uno Bianca, ndr). Eravamo andati a Modena, il giudice ci ha chiamato ancora qui e ci facevano pagare 100mila lire al mese. Poi 50 euro al mese. E basta. Quando è arrivato Salvini è andato indietro di 5 anni a farci pagare luce e acqua. E non è giusto". Non importa se tutti gli italiani, normalmente, devono saldare le bollette. "Lascia stare, noi non siamo cittadini: i cittadini prendono lo stipendio da mille o duemila euro al mese. Noi mica li prendiamo quei soldi lì". A breve il campo di via Erbosa dovrebbe essere "superata": il Comune ha creato due microaree in cui trasferire i sinti in attesa che trovino una soluzione abitativa stabile. Il programma è controverso, sia per i costi (leggi qui) che per l’idea, criticata da residenti e opposizione, di aprire due accampamenti per riuscire a chiederne uno. Intanto, l'accampamento resta lì, con i sui abitanti. Nomadi con la cittadinanza del Belpaese, ma convinti che gli italiani "non smettono mai di essere razzisti".
· Antisemita chi?
Antisemita chi? In Italia si grida al razzismo, alla xenofobia, al ritorno della dittatura. Ma i veri rischi sono all'estero come dice la cronaca. Maurizio Belpietro il 24 giugno 2019 su Panorama. In questi mesi ci è toccato spesso leggere o ascoltare critiche feroci contro il nostro Paese, accusato di fascismo, xenofobia e perfino di razzismo. L’Italia sarebbe piena di nostalgici, gente che vorrebbe imporre una dittatura, a cominciare da Matteo Salvini che, secondo alcuni, addirittura seguirebbe le orme di Hitler e vorrebbe conquistare con il voto popolare il potere per poi rinchiudere in galera gli oppositori. Di più: qualcuno si è spinto ad accostare i decreti sicurezza voluti dal ministro dell’Interno alle leggi razziali del 1938. Le lezioncine di democrazia ci sono arrivate da più parti, in gran numero dalla Francia, tramite il suo presidente, ma anche per bocca di un commissario europeo diretta espressione di Parigi. Eppure, molti di coloro che lanciano l’allarme e denunciano il pericolo dovrebbero curarsi di ciò che accade a casa loro, a cominciare proprio da ciò che avviene Oltralpe. Qualche settimana fa avevamo descritto l’impressionante serie di attentati, incendi e minacce e addirittura omicidi registrati da Lione a Marsiglia, passando per la capitale francese, a danno degli ebrei. Tra il 2017 e il 2018 le aggressioni antisemite sono cresciute del 74 per cento. Nel mirino, una comunità di 450 mila persone, 40 mila delle quali in poco tempo hanno scelto di abbandonare la Francia per trasferirsi in Israele. Il caso transalpino è certo quello più allarmante tuttavia, a leggere l’inchiesta di Daniel Mosseri che pubblichiamo a pagina 26, si capisce che il fenomeno è assai più ramificato di quanto si creda. Dalla Germania alla Gran Bretagna, poi in Belgio e in Olanda, gli episodi di intolleranza nei confronti degli ebrei sono sempre più numerosi, al punto che il commissario governativo tedesco contro l’antisemitismo ha consigliato agli ebrei residenti in Germania di non uscire con la tradizionale kippah. Nel 2018, nella sola Berlino, l’istituto che tiene sotto controllo il fenomeno ha contato 1.646 atti di aggressione. Il clima è tale che c’è chi si permette di incidere una canzone in cui si parla senza problemi di Olocausto e si scherza sul corpo degli internati ad Auschwitz, paragonandolo a quello scolpito dal fitness. In Belgio, invece, c’è un bistrot sul cui ingresso è affisso un cartello che recita: «Qui possono entrare i cani, ma non i sionisti».
Eccezioni? Mica tanto, perché se questa è l’aria che tira a Liegi, in Gran Bretagna non va meglio. Anzi. Jeremy Corbin, il leader che guida i laburisti, è arrivato a paragonare Israele alla Germania nazista, rifiutando di riconoscere l’esistenza dell’antisemitismo. La situazione è tale che poco meno della metà degli ebrei britannici si sente insicura e valuta di abbandonare il Paese, mentre quasi tutti si sentono minacciati. A far paura, però, non sono i sovranisti, italiani o stranieri, come magari potrebbe pensare qualcuno. No, i populisti non sono gli autori degli insulti e delle minacce contro gli ebrei e nemmeno i responsabili degli attentati o, cosa accaduta in Francia, addirittura degli omicidi. Come racconta Daniel Mosseri nel suo lungo viaggio nel nuovo antisemitismo europeo, la maggior parte di questi attacchi sono opera di musulmani, in Germania come in Belgio o in Gran Bretagna. A Berlino e dintorni esiste una forte comunità turca ed è da lì che provengono le peggiori minacce. Del resto, secondo un sondaggio, la metà o quasi degli islamici presenti in Europa ha pregiudizi nei confronti degli ebrei. E tuttavia, per i commentatori e i politici, l’antisemitismo continua a essere un fenomeno di destra. Dunque si parla di razzismo e fascismo, guardando con sospetto ogni movimento che rivendichi il diritto di difendere i propri confini e di chiuderli a un’immigrazione incontrollata. Il nuovo nazismo, secondo gli osservatori, arriva solo da destra, ma chi lo dice non si accorge che se esiste un pericolo per l’Europa è dato dall’integralismo religioso di matrice islamica. Del resto, nel mondo non esistono dittature fasciste e, fatta eccezione per Cina, Corea e Cuba, neppure comuniste. Al contrario, esistono numerose dittature islamiche, ma si fa finta di non vederle. Proprio come con l’antisemitismo che l’Europa sta importando.
Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' l'8 dicembre 2019. Il coro unanime di solidarietà per Liliana Segre suonava stonato. L' indignazione nei confronti del prof. Emanuele Castrucci, quello pro Hitler, altrettanto. L'altro ieri, infatti, il M5S ha candidato alla presidenza della Commissione d' inchiesta sulle banche il senatore Elio Lannutti. Sì, proprio lui, il fondatore dell' Adusbef, eletto al Senato con i grillini, dopo una militanza con l' Italia dei Valori! A gennaio, Lannutti aveva dichiarato sui social che dietro il sistema bancario internazionale c' è l' intrigo dei Savi di Sion che «con Mayer Amschel Rothschild, l' abile fondatore della famosa dinastia che ancora oggi controlla il Sistema Bancario Internazionale, portò alla creazione di un manifesto: "I Protocolli dei Savi di Sion"». Come si fa a proporre alla guida della Commissione banche un personaggio che ha citato i «Protocolli dei Savi», un falso storico che a fine '800 parlava di una cospirazione ebraica per conquistare il mondo? Come si fa a non espellere dal M5S un senatore che si richiama a un' oscenità antisemita, a una menzogna diventata da oltre un secolo la matrice di tutti gli stereotipi razzisti e dei complottismi? Si fa, si fa, perché questa nomina la dice lunga sulle ideologie che permeano il movimento. E il Pd deve rinverginarsi con questi soggetti? E il coro dell' unanimità intona solo menzogne?
Concetto Vecchio per ''la Repubblica'' l'8 dicembre 2019.
Senatore Elio Lannutti, M5S, conferma di essere in campo per la presidenza della Commissione banche?
«Certo che sì. Sono il candidato del M5S, poi si vedrà come andrà. E quando qualcuno dice che mi dovrei vergognare, rispondo subito che sono altri quelli che debbono farlo, per ciò che hanno combinato con le banche...».
Lei però a gennaio fece un post per dire che dietro il sistema bancario ci sono le macchinazioni dei Savi di Sion.
«E partì subito la macchina del fango contro di me».
Era un post antisemita.
«Ma ne ho preso subito le distanze. È stato un errore. Ho sbagliato, e ho chiesto scusa».
Lei è antisemita?
«Ancora con queste domande! Si continua con un equivoco. Questa vicenda mi ha addolorato moltissimo».
Insisto: lei è antisemita?
«No! E m' indigna il fatto che mi abbiano dipinto come un nazista, un razzista...».
Il punto è che lei ha rilanciato un articolo da un sito noto per postare fake news, usando per giunta un falso storico.
«Lo sa che io vengo dal Pci? Che mio nonno era partigiano? Giorgio Amendola scrisse una lettera di presentazione per l' allora sindaco di Napoli Valenzi, quando mi trasferii in Campania per lavoro al Banco di Roma: "Questo è un compagno su cui contare"»
Ma questo adesso che c' entra?
«C' entra. Il punto è che io sono un uomo scomodo, ho sempre denunciato i potentati economici».
Lei avrebbe l' equilibrio giusto per un simile incarico?
«Perché no? Ho sempre rispettato le istituzioni, pur avendo posizioni radicali».
Anche lei pensa, come Salvini, che il Mes sia uno strumento per salvare le banche tedesche?
«Può rappresentare un pericolo per i risparmiatori italiani. Si tratta di un' istituzione che non ha nulla di democratico. Persino Patuelli, il presidente dell' Abi, ha espresso dei dubbi. Io non ne avevo già nel 2012, infatti votai contro il Trattato, in dissenso con il mio gruppo di allora, Italia dei Valori».
Perché il Mes non sarebbe democratico^?
«Trump l' uomo più potente del mondo, può subire un impeachment, il Mes è pieno di guarentigie. Tutti questi trattati sono stati fatti nel solco della dottrina totalitaria del neoliberismo, questo è il vizio d' origine».
Totalitaria?
«Sì, il dominio della Finanza sulle persone».
Lei pensa davvero di farcela?
«Me l' ha chiesto l' M5S di candidarmi, non io. Se ci sono argomenti seri contro di me sono disposto a fare anche dieci passi indietro, ma non certo dietro l' invenzione di fantasmi».
Fantasmi li chiama?
«Sì».
· Afroitaliani.
Ogni settimana sull'Espresso un termine commentato da una grande firma. Igiaba Scego il 22 agosto 2019 su L'Espresso. Sono diventata afroitaliana di recente. Fino a pochi anni fa eravamo semplicemente alieni o, peggio, invisibili. La nostra pelle nera o marroncina non pervenuta. Nessuno si era accorto che i migranti arrivati negli anni ’70 e anni ’80 avevano fatto dei figli e che quei figli riempivano le aule universitarie o erano alla ricerca di un lavoro. Poi cominciammo a essere, e fu già un progresso, generici “figli di migranti” o “seconde generazioni”. I primi neri italiani di cui i media parlarono furono i ragazzi/e che si ritrovavano in piazza Mancini a Roma per ascoltare musica rap e imitare il passo strascicato degli eroi del momento, da Tupac Shakur ai Public Enemy. Erano di origine eritrea, somala, etiope: in mezzo ai figli di migranti ce n’era anche qualcuno col papà ambasciatore, che andava lì perché solo in quella piazza piena di autobus si respirava un po’ di spirito nero. È curioso che tutto ciò avvenisse proprio a pochi metri dall’obelisco con la scritta “Mussolini Dux” al Foro italico. Come se quei ragazzi, con la loro presenza, volessero vendicarsi di quel fascismo che aveva inventato le leggi razziali e aveva fatto soffrire i loro nonni. Ma ancora non si era afroitaliani. Il termine è di uso recente, anzi recentissimo. Io l’ho sentito pronunciare solo otto anni fa. Un calco tratto da quella realtà afroamericana a cui tutti i figli di migranti di origine africana hanno guardato almeno una volta. Gli afroamericani erano il modello a cui guardare. E poi era facile definirsi “afroitaliani”: meno parole da usare, meno spiegazioni da dare. Un termine comodo che riassumeva i viaggi dei genitori e tutta la realtà diasporica che c’era dietro la propria famiglia. Ora si sente spesso parlare di afroitaliani. Lo scrittore Antonio Dikele DiStefano curerà per Netflix una serie proprio sui ragazzi afroitaliani. Ultimamente c’è anche chi dice però di non amare questa definizione. C’è chi rivendica un’italianità piena e non importa se si ha la pelle nera o a pois. La definizione di per sé non è né giusta né sbagliata. Segue semplicemente il destino di ogni etichetta. Qualcuno l’amerà. Qualcuno la detesterà. È così che va il mondo d’altronde.
· Il razzismo c’è, ma contro Salvini.
Da leggo.it il 23 novembre 2019. La scultura choc. E che crea - invevitabilmente polemica: Salvini raffigurato mentre spara con una pistola a due immigrati-zombie. Accade a Napoli, dove sabato 23 novembre si innaugura la mostra collettiva Virginem = Partena, curata da Biancamaria Santangelo, nella galleria Nabi Interior Design di via Chiatamone. Come riporta un articolo del Mattino a firma di Giovanni Chianelli, tra le varie sculture una salta agli occhi: Matteo Salvini armato di un'enorme pistola, che spara a due africani in versione zombie. Si chiama, citando proprio il leader leghista, La pacchia è finita! e l'ha creata Salvatore Scuotto, del gruppo della Scarabattola, tra le formazioni di maestri presepiali più creative e solite anche a messaggi forti, come donne nude, diavoli e femminielli nelle natività. Alla collettiva Scuotto partecipa in proprio, e infatti ha adottato un nome d'arte, Morales, per l'esordio di questa sua carriera da solista. Messaggi forti. Scuotto ammette che in alcuni casi «la mano è scappata. Mentre mettevo insieme il mio contributo l'ho guardato e ho detto: che cosa ho combinato? però, invece di fermarmi sono andato fino in fondo all'idea che avevo». Non rinnega quindi la forza contenuta in questa produzione ma ne spiega la metafora: «Quando ho iniziato a creare, Salvini era ancora ministro dell'Interno. Poi si è eliminato da solo. Ho voluto rappresentarlo come un bambinone che gioca a un videogame popolato da fantasmi, come si vede dai dettagli della pistola che è intenzionalmente spropositata. Dico che il suo messaggio politico è infantile, come una costante Play Station in cui bisogna individuare il nemico e abbatterlo». Nella mano l'ex ministro dell'Interno stringe il solito rosario: «Messo così diventa ridicolo: se l'arte riesce a farcelo sembrare tale allora sì che lo ha sconfitto». E quella scritta che campeggia, Game Over? «Identifica la conclusione del videogioco. Chissà cosa indica: la fine di Salvini o quella dei suoi nemici?». Inevitabile aspettarsi che già da oggi la sua opera creerà polemiche.
A Napoli scultura con Salvini che spara agli immigrati. L'ex ministro: "Istigazione all'odio". L'artista: "E' come un bambino che gioca a videogame contro i nemici". Ma è polemica: "Porcherie". La Repubblica il 23 novembre 2019. Matteo Salvini armato di pistola spara a due africani in versione zombie: è l'opera di Salvatore Scuotto che oggi sarà esposta a Napoli nella mostra collettiva 'Virginem=Partena' nella galleria Nabi Interior Design. Ma l'ex ministro replica con decisione: "Cosa non si fa - commenta l'ex ministro - per farsi un pò di pubblicità, che squallore. La "scultura" che mi raffigura mentre sparo agli immigrati è una vera schifezza, è istigazione all'odio e alla violenza, altro che arte. Non vedo l'ora di tornare a Napoli per ammirare i fantastici Presepi tradizionali, non queste porcherie". L'ex ministro ne parla anche in una diretta Facebook: "Non fa ridere una scultura con la mia faccia che spara a due immigrati, non mi fa ridere. E' istigazione all'odio e alla violenza. E' qualcosa di demenziale e criminale e poi trovi qualcuno che pensa davvero che Salvini sia così. Quindi spero che quella pseudo-opera venga ritirata". "Quando ho iniziato a creare, Salvini era ancora ministro dell'Interno - ha raccontato Scuoto al quotidiano Il Mattino - Ho voluto rappresentarlo come un bambinone che gioca ad un videogame popolato da fantasmi, come si vede dai dettagli della pistola che è intenzionalmente sproporzionata. Dico che il suo messaggio politico è infantile, come una costante Playstation in cui bisogna individuare il nemico e abbatterlo". Attaccato alla pistola c'è un messaggio, 'Game over'. "Identifica la conclusione del videogioco. Chissà cosa indica: la fine di Salvini o quella dei suoi nemici?", aggiunge. E poi Scuotto, che questa volta partecipa in proprio ma fa parte del gruppo della Scarabattola - formazione controcorrente di maestri presepiali che nella natività ha inserito anche donne nude e diavoli - precisa anche di non aver creato "questa parodia salviniana perché sono comunista". "Al massimo aspirerei ad essere anarchico, non credo alla sinistra, troppo tiepida - sottolinea - Non voglio esprimere alcuna appartenenza ma so in cosa non credo". Il deputato napoletano della Lega Gianluca Cantalamessa: "La scultura che vorrebbe raffigurare un Matteo Salvini violento con una pistola in mano mentre spara a dei migranti non è certo arte e definirla tale significa mortificare tutta la storia artistica di Napoli e della Campania. Penso a personaggi di rilievo, De Filippo, Totò, Viviani, Vico, il cui talento ha inorgoglito la città in tutto il mondo e di cui noi italiani andiamo fieri". E aggiunge: "Non è bastato lo show nel cuore di Napoli del matrimonio tra il neomelodico Colombo e l'ex moglie di un boss camorristico. "Ora anche presunte opere d'arte che mistificano la realtà per esaltare la cultura dell'odio. Tutto ciò - sottolinea Cantalamessa - svilisce il valore inestimabile della cultura napoletana per meri interessi di bottega di pochi, a cominciare dal peggior sindaco che Napoli abbia mai avuto. I napoletani meritano molto di più". La deputata campana della Lega Pina Castiello: "La scultura che ritrae un improbabile Matteo Salvini in versione pistolero sul punto di sparare a due migranti africani, non ha nulla a che vedere con la produzione artistica. Piuttosto essa è la plastica rappresentazione di un espediente volgare, pensato solo per bieche finalità autopromozionali. Spiace che la città di Napoli, capitale dei manufatti in terracotta che rendono famosi in tutto il mondo i presepi partenopei, debba fare i conti con le trovate di pseudo artisti che, pur di guadagnare un attimo di ribalta, non esitano a sfociare nell'istigazione all'odio e alla violenza, gettando peraltro fango su una scuola e una tradizione di grande successo. Mi auguro che la curatrice della rassegna in cui fa bella mostra questo piccolo "monumento all'odio", voglia procedere al rapido ritiro della scultura dall'esposizione. Sarebbe un gesto capace di ribadire la vocazione pacifica e tollerante della città di Napoli. Ad ogni buon conto, Matteo Salvini che, numeri alla mano, grande impegno ha profuso per Napoli e i napoletani nel corso della sua permanenza al Viminale, non mancherà di ritornare in città nel periodo natalizio. Il nostro leader è infatti desideroso di immergersi nella inimitabile magia dei presepi, quelli si di grande pregio artistico".
Sondaggio, italiani antisemiti e razzisti in calo: ecco lo Stivale che vota la Lega di Matteo Salvini. Amedeo Ardenza su Libero Quotidiano il 24 Novembre 2019. Nelle classifiche europee su crescita del Pil, occupazione, debito pubblico e test Pisa-Invalsi arriviamo sempre ultimi. Risultati ottimi li otteniamo invece per aspettativa di vita e qualità del sistema sanitario. Da ieri però c' è un' altra organizzazione che ha promosso il Belpaese: è l' Anti-Defamation League (ADL), ong ebraica con sede a New York la cui mission è combattere l' odio antisemita e ogni pregiudizio. Giovedì ADL ha diffuso il risultato della sua ultima rilevazione sull' antisemitismo condotta in 18 paesi dei cinque continenti. Il dato aggregato per macro regioni è inquietante: sentimenti antiebraici sono diffusi presso il 74% dei cittadini del Medio Oriente e dell' Africa settentrionale e il 34% di quelli dell' Europa orientale. Seguono l' Europa occidentale con il 24%, l' Asia con il 22% e le Americhe con il 19%. L' Italia fa meglio del suo gruppo di riferimento: "solo" il 18% degli italiani nutre sentimenti ostili contro la minoranza ebraica. Undici punti in meno del 29% registrato cinque anni fa e infinitamente meno del 48% dei polacchi (erano il 37% nel 2015), del 47% dei sudafricani, del 46% degli ucraini (erano il 32%) o del 42% degli ungheresi (40%). C' è da stare allegri nel sapere che quasi un italiano su cinque crede che gli ebrei controllino la finanza e siano cittadini infedeli? No, perché il pregiudizio è sintomo di ignoranza e causa di razzismo, e poi perché Svezia (4%), Canada (8%), Paesi Bassi e Danimarca (10%) fanno meglio di noi. Se non si può gioire si può però riflettere: in primo luogo, l' indagine è stata condotta fra aprile e giugno 2019. In Italia presidente del Consiglio era Giuseppe Conte I e uomo forte della coalizione Lega-M5S era Matteo Salvini. Noto in Italia e all' estero per i suoi modi assertivi e le sue affermazioni politicamente scorrette, Salvini, che lo scorso dicembre ha visitato Israele, non può dunque essere accusato di aver fatto crescere il pregiudizio antiebraico. Meno innocenti, semmai, appaiono altre sue frequentazioni sovraniste, come Marie Le Pen che ha suggerito di vietare la doppia a cittadinanza israelo-francese o il premier ungherese Viktor Orbán che si fa passare per grande amico di Israele ma poi se la prende con il finanziatore George Soros in quanto ebreo - e non è un caso che gli ungheresi accusino gli ebrei di favorire l' immigrazione clandestina.
DIFFERENZE. Interessante è anche capire perché in Svezia o in Austria l' antisemitismo risulti più basso che in Italia. Forse perché il dato per il nostro paese (e quello per Francia, Belgio, Spagna, Germania e Regno Unito) tiene di conto anche le risposte della minoranza musulmana, la cui accettazione degli stereotipi antisemiti «è nettamente superiore a quella delle popolazioni nazionali» spiega ancora ADL. Rilevante anche il pregiudizio antisemita mascherato da antisionismo: lo si vede per esempio nel dato del Sudafrica, un paese in cui è molto forte il movimento BDS per il boicottaggio di tutto ciò che è legato a Israele. Qua l' Italia - ma stiamo parlando del governo, non degli elettori - potrebbe fare meglio. Invece tre giorni fa in sede di Quarta Commissione Onu a New York anche il rappresentante italiano ha votato con il resto dei suoi colleghi europei un pacchetto di otto risoluzioni contro Israele. In due di queste la comunità internazionale condanna le violenze verificatasi sulla Haram el-Sharif, nome arabo e islamico della Spianata delle Moschee.
Chiamare il luogo sacro a tre fedi solo con uno dei suoi nomi non è un esercizio nuovo per l' Onu. Nuovo invece è l' appoggio europeo: solo la Finlandia ha suggerito di fare riferimento anche al Monte del Tempio. È curioso che lo stesso Occidente che nega l' ebraismo di Gerusalemme assegnandola in esclusiva alla fede islamica non si renda conto di negare così anche il proprio retaggio cristiano - nei Vangeli Gesù va al Tempio, non certo alla Spianata delle Moschee. E poiché l'antisemitismo è un fenomeno mutevole, occorre che i governi si guardino bene dal favorire la sua versione antisionista e anticristiana. Amedeo Ardenza
E la stampa lancia "l'allarme razzismo" in Italia. L'editoriale del direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, che analizza il comportamento di una certa stampa sulla questione razzismo e migranti, scrive Maurizio Belpietro l'1 aprile 2019. Ma gli italiani sono davvero razzisti? A dare retta ad alcuni giornali si direbbe di sì. Prendete Avvenire, il quotidiano dei vescovi (e degli italiani, visto che è finanziato con soldi pubblici). La scorsa settimana il suo direttore, Marco Tarquinio, rispondendo a una lettrice che metteva sullo stesso piano gli organizzatori delle manifestazioni antirazziste e i sostenitori della legalizzazione dell’aborto, ha bacchettato la signora. «Per respingere il veleno razzista e contrastarne gli effetti nel corpo vivo della nostra società - dove propagandisti senza coscienza e senz’anima hanno ricominciato a inocularlo - e per radicare una autentica cultura della vita bisogna saper essere uniti sull’essenziale». Per il capo del giornale cattolico, mettere insieme chi scende in piazza contro il razzismo e chi legalizza l’aborto, come ha fatto la signora che gli ha scritto, è «un’orribile caricatura della realtà». A leggere la risposta, ma anche gli articoli pubblicati dall’Avvenire, sembrerebbe dunque che il quotidiano dei vescovi sia più preoccupato della propaganda contro gli immigrati che di chi predica il diritto all’aborto come soluzione contraccettiva. Chi ama e sostiene la vita, ha scritto Tarquinio, non premedita di mettere in mano a uno straniero un foglio di via. Punto. Dunque meglio Emma Bonino di Matteo Salvini, con buona pace di quei cattolici che per anni si sono battuti per il sostegno alla vita, la difesa dei valori della famiglia, la fecondazione eterologa eccetera eccetera. Di fronte a questi temi, il razzismo viene prima. Perché se non è a favore degli immigrati, il cattolico non è un buon cattolico. Anzi, per dirla con il direttore dell’Avvenire, gli è stato inoculato il virus del razzismo. Ma c’è anche chi va oltre Tarquinio. Prendete Vanity Fair, il settimanale chic della moda. Qualche settimana fa pubblicò un lungo servizio dedicato ai minorenni transgender. Ragazzini italiani di 9 e 12 anni messi in posa e truccati per rappresentare «gli eroi moderni»che intendono cambiare sesso. Bambini vestiti con capi firmati da bambine; bambine trasformate in bambini, naturalmente con a fianco il nome dello sponsor. Ma dopo aver rappresentato la rivoluzione sessuale che ci attende, Vanity Fair si è superato, mandando in edicola un numero tutto dedicato alla «Rivoluzione antirazzista». «Essere umani» è il titolo di copertina. «Un giornale contro il razzismo». Fotografia di Serena Williams, la tennista, commenti di attori e grandi firme. Mimmo Calopresti parla dei calabresi, i migranti di una volta. Guillermo Arriaga spiega che chi accoglie gli extracomunitari si prende le famiglie migliori, segno che quelle italiane sono peggiori. Mattia Feltri aggiunge che in fondo al pregiudizio c’è il lager, immaginando forse che in qualche angolo nascosto del nostro Paese si preparino i forni crematori. Frase finale di Martin Luther King: «Dobbiamo imparare a vivere insieme come fratelli o periremo insieme come stolti». Il meglio però lo dà il direttore di Vanity Fair, Simone Marchetti, quello che definì i minorenni transex «eroi moderni». Parte da un quadro di Francesco Lojacono, Veduta di Palermo, che ritrae alberi di specie diverse, per fare un panegirico sulla coltivazione della coesistenza. Se possono stare insieme piante che arrivano dall’Asia, dal Messico e dal Medioriente, perché non possono coesistere persone che giungono da quegli stessi Paesi? «In Italia il razzismo è dilagante e proviene dall’alto, da molti rappresentanti, figure che lo legittimano e lo giustificano». Segue citazione degli ultimi episodi di cronaca nera, come la tentata strage di Luca Traini e quella riuscita, ma in Nuova Zelanda, di Brenton Tarrant, perché il razzismo (italiano?) «oltrepassa addirittura gli oceani». È ora di tornare a essere umani, «perché se si rinuncia al giudizio, dopo il pregiudizio c’è il lager». E allora Vanity Fair, tra un capo firmato, un rossetto e una lingerie d’autore, che fa? Prende posizione contro il razzismo. Così riempie le pagine con «una serie di racconti, interviste e riflessioni che vogliono coltivare la coesistenza attraverso l’incontro e oltre la paura della diversità» perché, spiega Marchetti, «in mancanza di una classe politica che illumini e che faccia sognare, invece di spaventare e deludere, forse è arrivato il momento di fare una piccola rivoluzione antirazzista partendo dal basso, dai piccoli gesti quotidiani». Già, un mascara contro il razzismo.
Il razzismo della rabbia (contro Salvini). Scritte e minacce di morte a Parma contro il leader della Lega. Ma come al solito si parlerà di altro, scrive il 22 febbraio 2019 Panorama. "Spara a Salvini e mira bene". La scritta è apparsa su di un muro a Parma a firma degli Anarchici. Niente di nuovo, niente di non già visto. Ma di certo non ci si può abituare alla rabbia ed alla stupidità. E che di rabbia e stupidità questo paese sia pieno lo dimostra quello che accade ogni giorno. Prendiamo ieri: un professore in una scuola di Foligno ha l'idea geniale di fare "un esperimento sociale" prendendo uno dei suoi studenti, un ragazzo di colore, e mettendolo in un angolo al grido di "guardate quanto è brutto". Sempre ieri diversi "tifosi" hanno augurato la morte (si, signori, la morte) alla figlia di Diego Simeone, l'allenatore dell'Atletico Madrid, colpevole di essere l'erede di un allenatore di calcio che ha sconfitto la squadra del cuore. Oggi poi non può mancare chi gioisce per il carcere a Formigoni ("insegna a fare i tuffi dalla barca anche al tuo compagni di cella"). C'è poi anche un consigliere comunale, leghista, che non trova di meglio da fare che insultare una cantante la cui colpa è di avere un'opinione sui migranti diversa dalla sua. Per noi, sia chiaro, queste bestialità sono tutte uguali e non c'è classifica tra una e l'altra. Ed è questo il punto; per molti non è così. Per molti minacciare di morte il Ministro dell'Interno, alla fine, mica è così grave come insultare un ragazzo di colore. Anzi. L'insulto razzista è "colpa" di Salvini mentre la minaccia a "Salvini" (indovina un po') è colpa sempre del leader della Lega ("razzista"). Insomma. E' un po' come dire: facciamo a turno. Una volta ho ragione io, una volta hai torto tu. In questo clima pieno di rabbia però un raggio di sole c'è. E non è una delle lezioni che questo o quell'opinionista ci regala oggi su quotidiani. Perché l'Italia non è un paese razzista. Gli episodi non si possono negare ma per una decina di stupidi ci sono milioni di italiani che hanno una testa diversa. La notizia è che la Lega ha deciso di espellere il consigliere che ha insultato via social Emma Marrone. Ecco. Alla rabbia si risponde con la decisione e la fermezza. Senza distinguo, senza classifiche. Ma sappiamo già che domani nessuno dedicherà due righe in difesa del Ministro dell'Interno. Il colpevole.
La bufala del clima d’odio, scrive il 21 febbraio 2019 Andrea Indini su Il Giornale. Ci risiamo con l’emergenza razzismo. Ci risiamo con il clima d’odio dilagante. La sinistra torna a infiammarsi contro Matteo Salvini addossandogli le colpe di qualsiasi cretino che se ne va a zonzo a scrivere sui muri parolacce e minacce contro gli extracomunitari o che si permette di insultare un bambino in classe per il colore della sua pelle. Questa gentaglia non rappresenta certo l’Italia. Sono cretini e basta. E la loro idiozia nulla ha a che fare con l’impegno del governo a contrastare l’immigrazione clandestina o ad attuare politiche che garantiscano maggiore sicurezza nel Paese. Possiamo starne certi: finché Salvini sarà al governo, la sinistra, certe correnti della Chiesa e, più in generale, tutte le sigle del buonismo rosso che gravitano in Italia strumentalizzeranno qualsiasi episodio di cronaca per dipingere gli italiani come un popolo di razzisti. Più la Lega salirà nei sondaggi, più ci parleranno di clima d’odio. Colpa di Salvini e del suo decreto Sicurezza. Colpa dello slogan leghista “Prima gli italiani”. Colpa delle politiche del governo che hanno aperto la “caccia allo straniero”. È questa la narrazione che i progressisti stanno mettendo in campo in vista delle elezioni europee. Prima dell’emergenza razzismo, la sinistra si era inventata la deriva fascista. L’estate scorsa, con l’avvento di Salvini al Viminale, sembrava quasi che fosse stata ristabilita la Repubblica Sociale. I progressisti vedevano braccia alzate, episodi di intolleranza e aggressioni dietro ad ogni angolo. Una vera e propria caccia alle streghe finita in farsa quando si era scoperto che gli aggressori di Daisy Osakue, la discobola azzurra aggredita con una sassaiola di uova all’uscita dagli allenamenti, non erano pericolosi razzisti, ma giovani dementi che non conoscevano un’idea migliore per far passare il proprio tempo libero. Tra questi c’era persino il figlio di un consigliere del Pd. E così la crociata dei buonisti, che parlavano di emergenza fascismo e razzismo, era scemata in niente. Oggi la sinistra è nuovamente scesa in campo, ancora più agguerrita di prima. Lo ha fatto cercando l’incidente a Sanremo. E ci riprova quotidianamente trasformando qualsiasi episodio di violenza razzista in un capo d’accusa contro il governo gialloverde e, in particolar modo, contro Salvini. Ma non bisogna cadere in questa trappola. Certo, è un dovere denunciare certi comportamenti perché vengano definitivamente estirpati dalla nostra società, ma non si può assolutamente legarli alla lotta all’immigrazione clandestina o alle politiche di sicurezza. Farlo significa mistificare la realtà: un manipolo di teste bacate non rappresenta la maggioranza degli italiani che, invece, chiede regole certe. Continuare a spingere l’acceleratore sull’emergenza razzismo porta soltanto ad avvelenare il clima e acuire lo scontro in un momento che, al contrario, richiede la massima tranquillità per poter ripartire.
Il Consiglio d'Europa infama i politici italiani: "Sono razzisti e odiano i rom". La risoluzione del Consiglio d'Europa attacca a testa bassa il nostro Paese: "Atteggiamenti razzisti e xenofobi". E critica le politiche su rom e migranti, scrive Sergio Rame, Giovedì 24/01/2019, su "Il Giornale". "È scandaloso e inaccettabile". I parlamentari leghisti, che siedono nella delegazione italiana al Consiglio d'Europa, sono infuriati. Nella risoluzione in discussione al Consiglio d'Europa sul monitoraggio sull'Italia è stato messo nero su bianco che il governo italiano è formato da un movimento di estrema destra, la Lega, e da uno anti sistema, i Cinque Stelle mentre il nostro Paese viene accusato di aver compiuto una serie di gravi comportamenti razzisti, xenofobi e anti umanitari. "Un decennio di grave crisi economica e la crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche e giudiziarie - si legge nelle conclusioni del rapporto sull'Italia - hanno contribuito a rafforzare la popolarità, tra l'altro, di un partito di estrema destra (la Lega) e di un partito anti sistema (il Movimeto Cinque Stelle)". Il documento pubblicato dal Consiglio d'Europa è infarcito di accuse e insulti all'Italia che non hanno precedenti. Ai politici, per esempio, dà dei criminali senza troppi giri di parole. "La criminalità organizzata - si legge, infatti - esercita una forte presa sulla politica italiana, soprattutto a livello locale". Non solo. Ai politici italiani rinfaccia di essere razzisti e xenofobi e di odiare i nomadi. Tanto che il relatore ha scritto di essere "molto preoccupato" e ha chiesto, in modo particolare, "alle autorità italiane di prestare attenzione alla situazione dei rom" perché "hanno difficoltà ad avere accesso all'alloggio, alla scuola e alla sanità". Anche il capitolo sui migranti è infarcito di accuse all'Italia e, in modo particolare, al governo che "ha promesso di attuare politiche migratorie più severe (...) mettendo in tal modo a rischio vite umane e violando le norme umanitarie fondamentali". A fronte di tutto questo il Consiglio d'Europa ha espresso "preoccupazione per le recenti iniziative volte a impedire alle navi di salvataggio di sbarcare sulle coste italiane, mettendo a repentaglio le vite dei migranti e dei rifugiati". Paolo Grimoldi, Alberto Ribolla e Manuel Vescovi hanno respinto con fermezza il documento. "Questo - replicano i leghisti - è un atto d'accusa all'Italia da parte di un organismo che non ha fatto nulla in questi anni in materia migratoria". Non solo. Per gli esponenti del Carroccio è ancora più "inaccettabile e scandaloso" il fatto che tutti gli emendamenti, presenti nella delegazione al Consiglio d'Europa per correggere o cancellare questi passaggi, siano stati respinti dal relatore. "Non lo possiamo accettare - concludono - e a questo punto ci domandiamo che senso abbia la presenza della delegazione italiana in questo organismo e che senso abbia lo stesso Consiglio d'Europa".
''IL RAZZISMO IN ITALIA C'È, MA CONTRO SALVINI''. Tommaso Labate per il ''Corriere della Sera'' il 31 marzo 2019.«Premessa. Io non sono certo il tipo di persona che non ammette quando sbaglia, che non cambia mai idea, che non sa chiedere scusa. Detto questo, da dove cominciamo?».
Iniziamo dalla fine. Se vuole scusarsi, può farlo ora.
«Non ho nulla di cui scusarmi, questa volta. E glielo dico col cuore. Sono rimasta intrappolata nella rapidità a cui in quest' epoca i social, ma lo stesso vale per la tv, ci costringono. Ha presente la schedina del totocalcio?».
Che cosa c' entra adesso?
«Per la schedina ci sono solo 1, X, 2. L' 1 però non dice tutto. Dice che una squadra ha vinto ma non dice come, quanto, se ha giocato meglio.
Io mi occupo di questioni per cui serve spiegare tutto e bene, purtroppo le cose che dovevo dire le ho sintetizzate in tv e sui social con un segno in schedina».
Il ministro Giulia Bongiorno è finita in una bufera. Su Twitter, dovendo spiegare la sua norma Codice Rosso, che obbliga un pm o un pg ad ascoltare entro tre giorni una donna che denuncia una violenza, ha scritto che quei tre giorni servono a stabilire «se si ha a che fare con un' isterica o con una donna in pericolo di vita». Quell'«isterica» ha generato tantissime polemiche. Che si sono moltiplicate quando il titolare del dicastero della Pubblica amministrazione ha rilanciato la proposta di castrazione chimica per i condannati per violenza sessuale con pena sospesa.
Iniziamo dal tweet con l'«isterica».
«Quell'"isterica" non è mio. Moltissimi detrattori della norma Codice Rosso che ho incontrato sulla mia strada, nell' insistere sulla tesi secondo cui molte delle donne che denunciano una violenza in realtà non l' hanno subita, citano sempre quella parola. "E se è un' isterica?", "Perdiamo tempo a causa di un' isterica? ", cose cosi. Per me, tutte le donne che denunciano una violenza vanno sentite entro tre giorni, poi si vede se chi denuncia dice la verità o calunnia».
Una donna che calunnia, secondo lei, è «un' isterica»?
«No, è una calunniatrice. Isterica fa parte del mio vocabolario solo come citazione altrui».
Lo riuserebbe per spiegare la legge?
«Certo che sì. Ma lo metterò tra virgolette spiegando che Codice Rosso serve per appurare in tempi rapidi se una donna che denuncia una violenza è in pericolo di vita oppure, come dicono i detrattori della norma, "un' isterica".
Vede, molto spesso questo tempo non c' è. Tantissimi anni fa, difendevo un industriale che aveva appena spiegato ai pm una serie di delicatissime operazioni finanziarie difficili da spiegare. Visto che il caso era sotto gli occhi della stampa mondiale».
Sembra il racconto del crac Cragnotti.
«lasciamo perdere, non c' entrano i nomi ma l' esempio. Esco dall' interrogatorio con un discorso preparato e dettagliato da dire alla stampa. Un giornalista del tg mi dice "ha cinque secondi, prego". Risposi: "Abbiamo chiarito tutto". Era vero. Ma io non avevo avuto il tempo di chiarire nulla».
Ci chiarisca perché vuole la castrazione chimica.
«Anche qua, il tema dell' avere il tempo di spiegare. La gente mi chiede per strada "ma tu vuoi castrare le persone?". Io non voglio castrare nessuno. Sono per la castrazione chimica come lo è la commissione anti tortura del Consiglio d' Europa. E cioè a tre condizioni: che il reo lo accetti, che ci sia il consenso informato, che il trattamento non sia irreversibile».
In tanti pensano che lei sia cambiata dopo che è finita nella Lega.
«Io sono sempre io. Ero a favore della castrazione chimica anche da presidente della Commissione Giustizia della Camera».
La sua collega Trenta s' è detta delusa da lei «come donna».
«Se mi desse il tempo per spiegare che l' abuso sessuale non è un reato minore e che la castrazione chimica non è fisicamente castrare un uomo, glielo spiegherei volentieri».
Ha negato che in Italia ci sia razzismo.
«E lo nego oggi. Per me non c' è razzismo».
Non penserà che sia Salvini la vittima di razzismo di molti suoi oppositori?
«Diciamoci la verità. Molti pensano che Salvini sia un rozzo, ignorante, un cittadino di serie B che ha usurpato il potere che ha. Non gli riconoscono le grandi doti che solo chi lo conosce dal vivo può vedere. Che è una persona saggia, che sa ponderare rischi e opportunità, che è molto rapido nel prendere decisioni.
Ecco, chi nega tutto questo un po' razzista nei confronti di Salvini sì, lo è».
Entrando nel governo gialloverde sta perdendo i tanti fan che aveva nel mondo laico e di sinistra. Pentita di aver accettato?
«Se avessi fatto un calcolo costi-benefici, al governo non sarei mai entrata. Economicamente non mi conviene e nemmeno come visibilità, visto che ne avevo tanta anche prima. Però vorrei vivere cento vite, se potessi. Avevo quella da penalista, ne ho aggiunta una seconda».
L’ITALIA E’ UNA SALVINICRAZIA. Michela Tamburrino per “la Stampa” del 13 marzo 2019. Il grido d' allarme arriva da dati in tabella dell'Agcom che rivelano una «Salvinicrazia», occupazione mediatico-televisiva del leader della Lega che sembra correre da un telegiornale all' altro, da una rete all' altra. In Rai e non solo. In esame, dal 1° al 31 gennaio, i venti soggetti che hanno fruito del maggior tempo di parola tra politici e istituzionali rilevati nei telegiornali e nei programmi. A sottolineare il dato è il segretario della Commissione di Vigilanza, il deputato Pd Michele Anzaldi. È lui che per primo grida allo scandalo al cospetto del ranking di chi parla di più. Il ministro dell'Interno e vicepremier vince con distacco la gara: al Tg1 ha avuto il 15,55% degli spazi di parola. Un trionfo al Tg2 diretto dall' amico Sangiuliano che lo porta al record del 20,54%. Scende al 10,69 % al Tg3, recupera a Rainews con il 12,56%. Il leghista conquista anche il Tg5 con il 14,27%, tallonato da Silvio Berlusconi. Sale al 15,50% nel Tg La7. I vicini di governo ottengono la stessa attenzione? No. Il presidente del Consiglio Conte si ferma a un misero 8,55% e il collega vicepremier Di Maio scende al 6,67%, a cui va sommata quella raccolta come capo del Movimento, più 1,43%, uno scorporo tra governo e partito che Agcom non ha fatto per Salvini. Al Tg1, Conte si attesta al 12,12% ma per di Maio la situazione non cambia anche se risale all' 8,59% come vicepremier più l'1,11 come capo del Movimento. Numeri a una cifra anche per il Tg3 con l'8,41 da vicepremier e l'1,48 da politico. Se invece si passa ai programmi extra Tg di rete e di testata, ecco qualche novità. Salvini con il suo 7,94% su Raiuno deve cedere il passo al pentastellato Di Battista che invece agguanta il 10,17%. Conte tallona con il suo 7,68% e Di Maio si ferma al 5,77%. Raidue segna la supremazia di Salvini grazie al suo 13,29% e finalmente ecco comparire il non ancora leader del Pd Nicola Zingaretti, medaglia d' argento con il 6,04%. Terzo posto per Gasparri, Conte e Di Maio non sono proprio in graduatoria. Su Canale 5 Salvini con 7,77% cede il passo a Sgarbi. Per riprendersi il primato su La7 a un passo dal collega Di Maio. Parafrasando il Tancredi del Gattopardo, bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com' è. Andando indietro nel tempo si scopre che all' epoca del governo Renzi le cose non erano diverse e a puntare il dito erano quelli della Lega. Era il 2014 quando l'Autorità si trovò a richiamare Rai, La7 e Sky per il troppo tempo di parola dato al premier Matteo Renzi ordinando un riequilibrio. E si pronunciò proprio all' indomani degli esposti del Nuovo Centrodestra che lamentava la sua inadeguata presenza in video. È del 2016 la scomunica ai troppi «Tg Renzi» tacciati di servilismo per il 24,4% del tempo di parola al leader del Pd e del 36% del «tempo di notizia»: in testa il Tg2 con il 26% di parola e il Tg1 con il 21,5%. Neppure Berlusconi aveva osato tanto sulle sue tv, si scrisse, perché tra il 2009 e il 2011 ottenne circa il 12% di spazio di parola. Monti durante il suo mandato non superò, ovunque, il 18% di media, Letta 15%. Renzi invece toccò vette inesplorate nel dicembre 2015 agguantando il 34%, primato rimasto imbattuto. Anche i tg Mediaset gli tributarono tanta attenzione, mentre su Sky si concesse un tempo di notizia del 38%. In quegli anni ci si giustificò col fatto che Renzi facesse audience, bucasse lo schermo e al mercato non si comanda. Ora i Gialloverdi rivendicano un cambio di passo. Ma scorrendo una vecchia ricerca dell'Osservatorio di Pavia si ricorda che i tg dell' Azienda pubblica hanno sempre detenuto il record europeo per tempo dedicato alla politica, più del doppio rispetto a inglesi, francesi, tedeschi e spagnoli. E con tutto questo tempo a disposizione è impossibile tacitare chi comanda.
Milena Gabanelli e Gian Antonio Stella per “il Corriere della Sera” del 13 marzo 2019. «Star seduti il meno possibile» e «non fidarsi dei pensieri che non sono nati all' aria aperta». Fedele ai moniti in Ecce homo di Friedrich Nietzsche, che di superuomini aveva scritto molto, Matteo Salvini va a sedersi nel suo ufficio di ministro dell'Interno meno che può. Emerge studiando a tappeto le agenzie Ansa, i comunicati stampa, la cronaca pubblicata dai giornali locali, le apparizioni tv e gli interventi radio, il sito Salvini premier, la sua pagina Facebook e i resoconti dei consigli dei ministri. Analizzando date e luoghi: sembra proprio che dal giorno del suo insediamento fino a fine febbraio 2019, sia stato presente al Viminale sì e no una decina di giorni al mese (a luglio e ottobre), calando fino a cinque in dicembre. Persino ad agosto, storicamente presidiato dal ministro dell'Interno non per una antica tradizione rituale tipo la cerimonia della consegna del Ventaglio a Montecitorio, ma perché lo Stato vuole affermare la sua presenza sul territorio anche quando gli italiani sono in ferie, l'instancabile Matteo risulta essere stato sul ponte di comando non più di cinque giorni. Quanto al Parlamento, il sito Openpolis.it, che compie un meritorio monitoraggio quotidiano sull'attività di deputati e senatori, dice che ci va ancor meno. Alla voce Salvini Matteo, le presenze alle votazioni in Aula (57 su 3286) sono ridotte all'1,73%. Produttività? In 9 mesi di governo ha promosso come primo firmatario 2 leggi (il decreto Sicurezza e la cessione unità navali alla Libia), ha risposto a 4 question time, fatto una comunicazione al Parlamento ed è intervenuto in tre commissioni. E il resto? Uno sproposito di missioni: 97,75%. In missione per conto dello Stato, come nel caso della sua corsa a Genova dopo il crollo del ponte Morandi o a Foggia per la morte di 16 braccianti agricoli stranieri in due incidenti stradali nel giro di due giorni. In missione per conto sia dello Stato sia del personale diletto, come al Festival del cinema di Venezia con l'allora First Sciura Elisa Isoardi o in occasione del viaggio del 16 luglio a Mosca dove, già che era lì per colloqui con il ministro degli Interni russo Vladimir Kolokoltsev, ne approfittò per vedersi la finale della Coppa del mondo in programma (coincidenza!) la sera prima. Il tutto senza l'invito Fifa. In missione per conto sia dello Stato sia delle battaglie di partito alla fiera internazionale delle armi in Qatar, dove postò orgoglioso una foto mentre imbraccia una mitraglietta. Proprio la scelta di apparire dappertutto, tuttavia, fa notare di più alcune assenze «di competenza», diciamo così, del ministro dell'Interno. Come a Casteldaccia quando un'intera famiglia di nove persone fu spazzata via dall' esondazione del Milicia. O nel Pollino dopo la strage di dieci escursionisti travolti da una piena. O a Novate Milanese e Quarto Oggiaro dopo gli ennesimi roghi di «capannoni tossici» in Lombardia. O ancora a Catania nei giorni roventi della nave Diciotti. Per non dire della scelta di disertare vari incontri dei ministri dell'Interno europei sui temi dell'immigrazione che gli stanno più a cuore. Tornando al carosello di viaggi, sia chiaro: quella di mischiare un impegno pubblico e uno di partito o privato è un'abitudine antica. Si pensi a Bettino Craxi che anni fa, tornando da Pechino con una foltissima delegazione fece fermare l'aereo in India per visitare il fratello ospite del santone Sai Baba. O ai voliblu che negli anni d'oro arrivarono a volare per 37 ore al giorno. Ed è un andazzo non solo nostrano. Lo ricordano dodici anni fa le polemiche in Turchia su Recep Tayyip Erdogan reo di usare la Mercedes blu di Stato per far campagna elettorale in Anatolia. Il punto è che da una parte c'è il diritto del ministro dell'Interno (più esposto ai rischi) a godere di scorta, voliblu e autoblu per viaggiare in sicurezza, dovesse pure andare a sciare, ma dall' altra c' è l'opportunità. Per questo il leader leghista dovrebbe muoversi il più sobriamente possibile. Come disse Giampaolo Pansa all' allora ministro della giustizia Oliviero Diliberto: «Sei costretto a portarti la scorta anche alle Seychelles? Vai al mare a Sabaudia». Vale per le vacanze, vale per le campagne elettorali. E Salvini da giugno 2018 è in costante campagna elettorale, come scrive lui stesso sul sito Salvinipremier.it. È bene ricordare che al ministro dell'Interno la legge affida compiti delicatissimi. Da lui dipendono polizia, vigili del fuoco e prefetti, la tutela dell'ordine pubblico, la sicurezza del Paese e il coordinamento delle forze di polizia. Ha poteri di ordinanza in materia di protezione civile, tutela dei diritti civili, cittadinanza, immigrazione, asilo, soccorso pubblico, prevenzione incendi. È l'unica autorità politica che può ordinare intercettazioni preventive, prima ancora di avere l'ok del magistrato, su questioni di terrorismo o mafia. Questo comporta assoluta tempestività nella firma delle autorizzazioni. Se il ministro non c' è è un problema. E ogni dipartimento rischia di essere una repubblica autonoma. Roberto Maroni, che fu sia ministro dell'Interno (in due legislature) sia segretario leghista, lo spiegò due giorni dopo l'ascesa dell'«amico» Matteo al Viminale: «Fare il ministro dell'Interno nel modo giusto vuol dire stare in ufficio dalle 9 del mattino alle 21 di sera». Lo ha ripetuto al Corriere martedì scorso: «Per tutte le ragioni dette io stavo fisicamente al Viminale». Lo stesso ricordano Enzo Bianco («stavo il più possibile inchiodato lì») e l'ultimo ministro Marco Minniti che, quando non era a trattare con le tribù libiche gli accordi che ridussero i flussi migratori dalla Libia, era sempre in ufficio. C'è da aggiungere che Salvini è anche vicepremier, e lo rivendica tutti i giorni. Occupandosi di tutto o quasi, dagli esteri al welfare, dal turismo al pecorino sardo, fino a sollevare la stizza di qualche collega, come Giulia Grillo sui vaccini. Occuparsi dei problemi vuol dire però approfondire, leggere i dossier, chiedere integrazioni, impadronirsi dei diversi temi. Studiare, studiare, studiare. Con tutto il rispetto, è difficile leggere atti, fare riunioni, coordinare settori delicati schizzando dal Palio di Siena alla Fiera equina a Verona, dall' Autoworld al bagno nella piscina dell'azienda agricola confiscata alla mafia, dalla donazione del sangue a Milano alla processione di Santa Rosa a Viterbo, ai tour elettorali infestati di appuntamenti. C'è poi da stupirsi se, travolto da mille impegni, il ministro dell'Interno non è mai riuscito ad andare in luoghi simbolo del degrado, dello spaccio e del dolore come il bosco di Rogoredo a Milano? Va da sé che il vero ministro dell'Interno si chiama sì Matteo, ma di cognome fa Piantedosi. Il capogabinetto che gli stessi oppositori definiscono un fuoriclasse. Un «culo di pietra» nel senso più pieno del termine. «L'ho scelto io!», rivendica Salvini.
Lettera di Maria Giovanna Maglie a Dagospia del 12 marzo 2019. Caro Dago. L'ultimo è in ordine di tempo un ragazzo che nella sua automobile brucia la foto di Salvini perché lo odia. Ieri ho trovato su Facebook un volantino di propaganda di un concerto a Cosenza che recava come elemento di attrazione l'effigie impiccata a testa in giù del ministro degli interni. Come dimenticare le ragazze dell'8 marzo che sfilano, peraltro a volto rigorosamente coperto da bende e fazzoletti, al grido, dalla rima sospetta, “ollellè ollallà Salvini In fondo al mar”. Delle invettive di Saviano o della satira cruenta di Vauro si è detto fin troppo. Ma la perfezione dell'impazzimento è rappresentata da una lettera mandata al giornale Internazionale, nella quale MS scrive: “Il mio compagno e io stiamo insieme da sei anni. È raro che parliamo di attualità ma quando capita insorgono terribili discussioni, sul tema dei migranti poi è come parlare con Salvini! Il suo pensiero è povero, pieno di luoghi comuni e disinformazione. Sono terrorizzata. Non si informa, non legge i giornali, ma pretende di giudicare! Aspettiamo un figlio e sono preoccupata all’idea di doverlo crescere con un papà becero”. La lettera è surreale, visto che basterebbe replicare che nessuno ha obbligato la signora ad accoppiarsi e convivere con simile belva umana, oppure che forse farebbe bene a riflettere su fatto che ritiene chi non la pensa come lei povero di pensiero, pieno di luoghi comuni e disinformazione, e che insomma, alla fine di qualunque ragionamento, l’unica cosa è cambiare fidanzato, e forse sarà una fortuna anche per lui. Diciamoci la verità, in mente viene anche che la lettera sia fasulla, una volta letta la puntuta e seriosa risposta del direttore del giornale. Cito: "Seminare l’odio e la discordia è, da sempre, uno dei modi per mantenere il potere e per controllare popoli e paesi. Divide et impera: politici come Matteo Salvini devono il loro successo a questa strategia. Le divisioni attraversano tutta una società, gli spazi pubblici, i luoghi di lavoro, sono spaccature che arrivano fin dentro le case, e spezzano – o rischiano di spezzare legami anche forti". "Se la spinta che avvertiamo è alla discordia, forse dovremmo rispondere cercando la concordia, ma fin dove si può arrivare per ricomporre una frattura? Lei dovrebbe accettare il suo compagno e le sue opinioni? Oppure, al contrario, cercare di fargli cambiare idea e se necessario entrare in conflitto con lui? La separazione può essere un'opzione?” Pare che la risposta non sia semplice, e che l'intero tormentone non sia ridicolo, insomma che fare un figlio con uno che su sbarchi, porti chiusi, immigrazione la pensa più o meno come Matteo Salvini, ovvero, stando a qualunque sondaggio, come la maggioranza degli italiani, un pezzo di elettore di sinistra compreso, sia una autentica iattura, e una maledizione. Naturalmente Matteo Salvini si difende benissimo da solo, anche perché sa e lo sapeva dall'inizio a che cosa gli poteva capitare di andare incontro. La scelta del popolo, la triade martellante di social territorio televisione, la normalità come elemento di comunicazione, l'omologazione al desiderio di sicurezza dell'italiano medio, lo sprezzo per lo snobismo delle élite, la divisa il panino la Nutella della gente normale e qualunque, la scorrettezza politica come alternativa del buon senso: tutti questi elementi eversivi comportano il rischio che al consenso crescente della maggioranza che si sente di nuovo compresa e rappresentata si accompagni un dissenso minoritario ma furibondo, che il tuo corpo e la tua vita siano esposti e in qualche modo offerti. E non è solo questione di Matteo Salvini, visto che le stesse ragazzotte di “Salvini in fondo al mar” a Milano si sono esibite nell’ imbrattamento della statua di Indro Montanelli accusato di essere uno stupratore, un po' come Cristoforo Colombo, abbattuto dovunque negli Stati Uniti del “metoo”, da scopritore a massacratore delle Americhe. O visto che Dio Patria e Famiglia possono tranquillamente significare “una vita di merda” una esponente del PD, ma se qualcuno che ha a cuore tanto Dio che la patria e la famiglia, l'altare e il focolare, non avendoli mai ritenuti crimini, anche se accetta di vivere in un mondo di genitore 1, unioni civili e aborto libero, le risponde e la contesta, allora si tratta di un'aggressione fascista. O ancora, che il fondatore delle Brigate Rosse può tenere una lezione a insegnanti di scuole medie inferiori e superiori sotto l'egida della Regione Puglia proprio nella data del sequestro di Aldo Moro. O che, sempre in Puglia, un gambiano, in Italia con richiesta di asilo politico, protagonista di una serie di violenze comprese aggressione a poliziotti e organizzazione di rivolta nel centro che lo ospitava, è rimandato a casa col decreto Salvini, ma viene raccolto da un giudice perché “perseguitato”. Non mi vengano a dire che è sempre stato così, che la politica genera conflitto e perfino odio, che ci sono temi e questioni che dividono così profondamente la pubblica opinione qui in Italia e nel resto del mondo, vedi Trump, che non è il caso di allarmarsi e neanche di preoccuparsi. La delegittimazione e la corsa all'insulto di Matteo Salvini e di scelte politiche che si sono rivelate popolari autorizzano e legittimano qualunque forma di reazione e risposta. Lui è il Truce, è fascista e razzista, il popolo che lo segue è composto di analfabeti funzionali, e se contro di loro si può utilmente criticare persino il suffragio universale come strumento quasi pericoloso, da restringere e censurare, contro di lui lo spettro del tirannicidio viene agitato impunemente, eccitando e solleticando spiriti deboli. Chi lo segue senza pregiudizi subisce la stessa sorte, di recente un povero di spirito mi ha equiparato a Margherita Sarfatti, musa del Duce, niente di meno. Delle groupies poi vedove di Matteo Renzi, diffuse in tutti i giornaloni, nessuno si era mai lamentato. Quando ci sono cambiamenti così radicali, reazioni irragionevoli ed irrazionali sono messe nel conto. Ma quello che sconcerta è la mancanza di intelligenza, di progettualità’ o di possibilità di successo della lagna sul fascismo incombente alternata all'aggressività contro il fascista da eliminare. Tirare fuori qualche idea alternativa, tornare a fare politica, incastrare l'avversario su argomenti serrati, ascoltare?
Il dibattito choc dei radical chic: "Si può fare figli con i leghisti?" Il dibattito lanciato dalla rivista Internazionale dopo che una lettrice si è lamentata di aspettare un figlio da un "becero" che "parla come Salvini", scrive Sergio Rame, Martedì 12/03/2019, su Il Giornale. "Si può fare un figlio con un leghista?". Il dibattito è surreale. Eppure ha trovato spazio tra le pagine di Internazionale, intervista radical chic che racconta il mondo attraverso inchieste, reportage e opinioni tratte gli articoli delle più grandi testate internazionali. A sollevarlo è stata una lettrice, mentre ad approfondirlo c ha pensato il direttore della rivista Giovanni De Mauro. "Sono una vostra lettrice e trovo i vostri articoli sempre molto illuminanti", scrive la donna che si firma solo con le iniziali: M.S. A Internazionale si rivolge per chiedere "un'illuminazione" che non è passata affatto inosservata. Tanto che Libero ha subito ripreso la notizia per sottolinearne l'assurdità del dibattito. Ma veniamo al punto centrale del "problema" posto dalla lettrice della rivista: "Il mio compagno e io stiamo insieme da sei anni. È raro che parliamo di attualità ma quando capita insorgono terribili discussioni, sul tema dei migranti poi è come parlare con Salvini! Il suo pensiero è povero, pieno di luoghi comuni e disinformazione. Sono terrorizzata. Non si informa, non legge i giornali, ma pretende di giudicare! Aspettiamo un figlio e sono preoccupata all’idea di doverlo crescere con un papà becero". Ricapitolando: la lettrice ha paura ad avere un figlio dal compagno perché questo parla e pensa come Matteo Salvini. Teme, pertanto, che il pargolo possa crescere male se tirato su da "un papà becero". La lettera non è stata cestinata. Non solo è stata pubblicata, ma il direttore di Internazionale ha pure dato corda alle "paure" della donna. "Seminare l’odio e la discordia è, da sempre, uno dei modi per mantenere il potere e per controllare popoli e paesi - scrive De Mauro - divide et impera: politici come Matteo Salvini devono il loro successo a questa strategia. Le divisioni attraversano tutta una società, gli spazi pubblici, i luoghi di lavoro, sono spaccature che arrivano fin dentro le case, e spezzano – o rischiano di spezzare – legami anche forti". Quindi, apre a tutti i lettori della rivista il dibattito spiegando che la questione posta da M.S. è "importante" e che "la risposta non è semplice". "Se la spinta che avvertiamo è alla discordia, forse dovremmo rispondere cercando la concordia - argomenta - ma fin dove si può arrivare per ricomporre una frattura? Lei dovrebbe accettare il suo compagno e le sue opinioni? Oppure, al contrario, cercare di fargli cambiare idea e se necessario entrare in conflitto con lui? La separazione può essere un'opzione?". Non ne vengono a capo. Certo è che per i progressisti l'idea di poter avere un figlio con un "becero" che "parla come Salvini" è quanto di più drammatico ci possa essere al mondo. "L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme", spiega addirittura De Mauro andando persino a scomodare Italo Calvino. Quindi il consiglio finale per non soffrire: o "accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più" oppure "cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio". Surreale, appunto. Tanto che su Facebook a Salvini non resta che commentare: "Questi stanno impazzendo".
Giuliano Sangiorgi contro Matteo Salvini: "Il mare è di tutti, ci prendono per il culo". Giuliano Sangiorgi dei Negramaro sbotta contro il governo Conte: "Siamo gente di mare", scrive Serena Granato, Martedì 12/03/2019, su Il Giornale. In un'esclusiva intervista rilasciata ai microfoni di VanityFair, il frontman dei Negramaro, Giuliano Sangiorgi, ha criticato la politica adottata dal governo gialloverde circa l'immigrazione clandestina. Dopo le esternazioni di Emma Marrone durante il concerto a Eboli, "Aprite i porti", Sangiorgi ha voluto seguire la scia della critica mossa dalla sua amica e collega contro Matteo Salvini. "A noi per il culo non ci prendono! Noi siamo gente di mare e il mare è di tutti”, ha detto il cantante salentino sul palco di Eboli. Delle esternazioni, le sue, che segnano una chiara presa di posizione. Una posizione contro il governo. Come la sua collega ed amica Emma Marrone, quindi, anche Sangiorgi è insorto contro la politica di Matteo Salvini. Solo qualche settimana fa, infatti, aveva detto sempre a VanityFair: "Non me ne importa nulla di parlare male del governo. Quello che non accetto è che un Salvini dica agli artisti cosa debbano o non debbano dire. Sarebbe come suggerire a un fornaio di fare solo il pane o al cameriere di servire a tavola e tacere". Il cantante si sente un po' il "figlio del mare". "Quando la nave Tirana (migliaia di albanesi in fuga dal proprio Paese, ndr) arrivò a Brindisi io ero piccolissimo - aveva ricordato -. Mio padre non mi fece andare a scuola, ritirò il suo stipendio e si mise a preparare centinaia di piccoli pacchetti di cibo da portare sulla banchina del porto. Dov’è finita l’Italia di mio padre? È morta con lui? Mi rifiuto di crederlo".
Vittorio Sgarbi a L'aria che tira smonta le balle sulla Lega razzista: "Perché nessuno ha una colf rom?", scrive il 6 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Una lezione di Vittorio Sgarbi su cosa sia il razzismo. Siamo a L'Aria che tira, il programma di Myrta Merlino su La7, dove si parla dello sgombero della tendopoli di San Ferdinando, molto criticato dalla sinistra e da Gennaro Migliore, presente in studio. E il critico d'arte sottolinea: "Perfino i più radicali nel riconoscere l'uguaglianza degli uomini non hanno a casa loro una colf rom. Nessuno ha una colf rom. Il nostro razzismo - spiega - è radicale rispetto a quello che ci fa paura". Quindi il discorso si fa politico: "La Lega su questo ha costruito una forza politica importante, perché non ha negato una realtà psicologia profonda", spiega. Poi opera un distinguo: "Se tu non sai dove mandare quelli che mandi via legittimamente da un luogo, è chiaro che non andranno in un posto più comodo, ma più scomodo per loro e per la società, magari più vicino alla delinquenza. Se non puoi garantire una possibilità di accoglienza sia pure pauperistica, cristiana, e li mandi liberi, è necessario che lo Stato dia un luogo a queste persone per vivere. Altrimenti ne derivano comportamenti pericolosi, e da questi ne deriva il razzismo". "Chiunque sia disadattato e non abbia casa e lavoro, non ha colpe - sottolinea Sgarbi -. L'uomo non è cattivo né buono: è indotto ad esserlo. Lo stesso Migliore e io, se ci mettessero in mezzo alla strada, diventeremmo cattivi. Tutti diventiamo cattivi. Siamo tutti buoni e cattivi", conclude.
· Razza carogna: gli odiatori seriali.
Fabio Poletti per “la Stampa” il 12 novembre 2019. Un popolo di odiatori e pure di razzisti. L' immagine non edificante del nostro Paese esce dall'aggiornamento annuale della ricerca condotta da SWG sui comportamenti degli italiani. Enzo Risso, direttore scientifico dell'istituto di ricerca triestino, tira le somme al convegno Metamorfosi organizzato da Huffpost alla fondazione Feltrinelli di Milano: «Se il 45% degli italiani è contro ogni atto di razzismo, il 55% in qualche modo, anche con molti distinguo, alla fine li giustifica. Non si può dire che il razzismo sia in crescita, ma i dati illustrano una diminuzione, un affievolimento degli anticorpi». Nel mirino degli haters c' è di tutto: gli stranieri, i musulmani, i disabili, gli ebrei e gli omosessuali. Vengono presi di mira la senatrice a vita Liliana Segre, alla quale hanno dato la scorta dopo gli insulti sul web, e Mario Balotelli, il calciatore nato a Palermo da genitori ghanesi, la coppia gay aggredita in metropolitana e gli stranieri, meglio se di pelle scura, ancora meglio se arabi e nordafricani. La tendenza alla crescita la rileva anche Vox, la piattaforma digitale che con un algoritmo da 4 anni passa ai raggi X tutti i cinguettii al cianuro che viaggiano sul web. Spiega la giornalista Silvia Brena, alla guida di Vox: «I tweet sugli stranieri sono al 32% xenofobi, quelli islamofobici sono il 15% mentre il 10% sono tweet antisemiti. I dati sono in crescita costante. Solo 4 anni fa, all' inizio della ricerca, i tweet antisemiti erano l' 1%; si sono decuplicati in 10 anni». Naturalmente va fatta la tara al mezzo social preso in esame: «L' anonimato e il senso di impunità sono un elemento che scatena gli haters. Ma il trend di crescita è evidente. L' odio contro i migranti registra un +15,1% rispetto all' anno scorso e sul totale dei tweet il 66,7% sono di odio. L' intolleranza contro gli ebrei quest' anno sale del 6,4%. Ma il 76,1% del totale dei tweet sugli ebrei sono di odio. Così come in aumento sono i cinguettii contro i musulmani, +7,4% dei tweet con un totale di 74,1% di odio di tutti i tweet che riguardano i fedeli al Corano». Significativo anche il dato elaborato da Vox sulle città dove si odia di più. In testa c'è Roma, seguita da Milano, poi Napoli, Torino e Firenze. Il dato disaggregato fornisce però utili elementi di riflessione. La maggioranza degli haters contro i migranti, secondo le rilevazioni dell' algoritmo di Vox, sono a Milano. Nello specifico gli haters contro i musulmani si scatenano soprattutto a Bologna, Torino, Milano e Venezia. Eventi internazionali come gli attentati sono la miccia che fa esplodere l' odio in rete. L' odio dilagante contro gli ebrei si fa invece sentire di più a Roma, dove più forte è la comunità ebraica. Decresce invece l' odio contro i gay, che tiene banco a Milano, Napoli, Bologna e anche a Venezia. Spiega ancora Silvia Brena di Vox: «Alla lunga i messaggi degli odiatori legittimano pure l' azione di chi odia». Se il disaggregato di quel 55% di razzisti intercettato da SWG lascia qualche speranza - solo il 3% giustifica sempre il razzismo, il 7% nella maggior parte dei casi, il 29% dice che dipende dalle situazioni e il 16% lo giustifica solo in pochi casi - per il direttore scientifico dell' istituto Enzo Risso non c' è da rallegrarsi: «Il caso Segre ha portato alla luce che c' è una minoranza che sta alzando la testa rendendosi conto che è consentito dire o fare certe cose. È un quadro che cresce nei segmenti sociali più bassi mentre trova maggiore opposizione tra i giovani».
Razza carogna, scrive Augusto Bassi il 5 marzo 2019 su Il Giornale. Gli esseri umani hanno bisogno di ipostatizzare la propria superiorità su altre entità, da ritenere meno evolute, inferiori, abiette. Il razzista sceglie il negro come inferiore, da disprezzare o compatire. Nel disprezzo o nella compassione afferma la propria supremazia. L’antirazzista fa la stessa cosa con il razzista: lo disprezza, lo compatisce, come essere immondo, indegno. Noi, forse, compatiremo o disprezzeremo gli antirazzisti, ma senza trarne gratificazione alcuna. Fra queste categorie vi è tuttavia una differenza sostanziale, almeno in Italia: i razzisti non manifestano contro i negri e noi non manifestiamo contro gli antirazzisti. Gli antirazzisti lo fanno invece contro il razzismo. Perché all’uomo debole e senza qualità non può bastare autoconvincersi della propria superiorità: deve far frotta, scendere in piazza e manifestarla, celebrarla. A Giannini, Massimo esponente dell’imbecillighènzia farisaica mainstream, di pensiero debole e assenza di qualità, interessano i numeri. Perché i numeri non sono opinioni. E di fronte a una Lorella Cuccarini – vola, con quanto fiato in gola, il buio ti innamora, qualcuno ti consola, la notte – che cercava di testimoniare con grazia di un’Italia aperta e tollerante, rispondeva con la perentorietà dell’epistemologia: «Per il bene del Paese bisogna dire no al sovranismo dilagante, all’Italia dell’autarchia, della xenofobia. Il razzismo in Italia è un problema e Salvini è il nemico. 628 episodi nel 2018, ce lo dicono i numeri. Sono 628. Sono 628. I numeri non si prestano a una lettura di opinione. Se siamo passati da 68 del 2017 a 628… qualcosa è accaduto». Naturalmente a Giannini non interessano i 136.876 stranieri, 136.876, che fra gennaio e giugno 2018 sono stati denunciati e/o arrestati, perché certi numeri sono opinioni. Diventano “percezioni”. Quindi non si premura, Giannini, di individuare un banale causa-effetto fra i crimini degli stranieri e il comprensibile, legittimo, giramento di coglioni che può generarsi in alcuni sparuti italiani. Perché sì, in effetti qualcosa è accaduto: 136.876 reati di stranieri fra gennaio e giugno hanno prodotto 628 episodi di razzismo in tutto il 2018. La testolina semolata conclude, sulla base dei numeri, che il problema è dunque il razzismo. Se uno spacciatore marocchino ubriaco avesse preso contromano la sfilata di tragiche maschere del carnevale perbenista di Milano, forse Giannini sarebbe stato punto da vaghezza, mentre per il Corriere.it il titolo più acconcio per la tragedia di Macerata è stato: «Gianluca ed Elisa morti mentre tornavano da una festa di Carnevale. Feriti i figli». Ma la manovra di questa associazione a contraffare è tanto prevedibile e vile quanto fessa: io spalanco i tentacoli al canagliume più selvatico del Terzo mondo, lo sguinzaglio per le strade del mio Paese, libero di spendersi in stupri, in saccheggi, in scorrerie… e se qualcuno prova a reagire, a puntare il dito, lo accuso di razzismo, di intolleranza, lo scomunico come cittadino civile. Un disegnino criminale, ma di una mediocrità avvilente, che può farsi forte solo con i fragili di spirito, insinuandosi nei processi cognitivi primordiali – come il timore dei tabù, il senso di colpa e la necessità di conferme – che il cervello semplice riproduce meccanicamente cercando consenso. Se io ora dessi a Giannini del miserabile, della piattola del pensiero, rischierei una querela; lui invece può permettersi di affermare il razzismo di una nazione in prima serata, senza alcun contraddittorio, senza alcuna conseguenza. Come già fecero altri come lui, prima di lui, negli stessi salotti. Dove non arriva il ricordo di quei cittadini mangiati vivi, fatti a pezzi, spazzati via. Che non rappresentano neppure numeri, per tali laidi analisti: bensì percezioni. Dove non arriverà la voce di quei due bambini, ancora in gravi condizioni, cui una bestia d’importazione, lasciata libera dalla magistratura come animaletto da cortile, ha sventrato i genitori. Questa gente, questa divulgazione, questa informazione – a qualunque sottospecie della nomenclatura zoologica appartenga – è di razza carogna.
Nuove accuse al maestro arriva l'esposto in Procura. E lui: non mi hanno capito. Emergono diversi episodi: “Non faceva andare in bagno gli alunni e ha mostrato immagini troppo violente della Shoah”. Bocci si scusa e cancella il profilo Facebook, scrive Paolo G. Brera il 23 febbraio 2019 su La Repubblica. “L’esperimento sociale” del maestro Mauro Bocci, supplente a contratto fino al prossimo giugno, non era solo insultare, additare, segregare e sbeffeggiare i due bambini nigeriani della scuola elementare di Foligno. Il tam tam dei genitori racconta altri piccoli grandi orrori — tutti da verificare — da perfetto diseducatore: «Più di una volta ha deciso di impedire ai bambini di andare in bagno, e alcuni se la sono fatta addosso. A quell’età è un’umiliazione insopportabile», racconta un genitore di una quinta. Ma c’è di peggio. In una classe, sempre una quinta, nelle ultime due settimane in cui sapeva di essere sotto esame — tanto da rivolgersi a un legale e da concordare una strategia — il maestro avrebbe effettivamente mostrato ai bambini un film sulla Shoah: ma anche quella volta, dicono i genitori, l’avrebbe combinata grossa. Forse voleva affermare quella stessa sensibilità per il tema della segregazione razziale che un po’ tardivamente aveva cominciato a fare capolino anche sulla sua pagina Facebook. Il 17 febbraio, in piena bagarre dopo la denuncia dei genitori infuriati, erano comparsi due post politically correct sul dramma degli ebrei. La sua bacheca, però, oggi non è più online: dopo aver cercato di ripulirla dei suoi vecchi post più volgari e razzisti, ieri sera l’ha chiusa. Ma torniamo al filmato mostrato ai bambini. «Invece di scegliere immagini adatte a bambini delle elementari — racconta un genitore — avrebbe scelto un film o un documentario tremendo. Non siamo riusciti a capire cosa fosse, dal racconto dei bambini, ma lui a un certo punto è uscito dalla classe e li ha lasciati lì con quelle immagini che loro non potevano capire. C’erano bambini e adulti completamente nudi, qualche maschietto ha cominciato a ridere e a toccare le bambine. Eh, guarda, le tette!”. Racconti arrivati da fonti diverse, ma tutti da verificare: l’avvocata Silvia Tomassoni, mamma di una bambina della scuola e legale della famiglia nigeriana, dice di averli sentiti anche lei ma non li ha riportati nelle sette pagine dell’esposto che ieri in tarda mattinata ha consegnato in procura. Di certo c’è che la sensibilità del maestro — che secondo il suo avvocato sentito da Umbria24 «si è sentito male a causa delle pressioni che sta subendo in queste ore per il clamore mediatico di una vicenda travisata» — non ha convinto né i genitori nigeriani dei due bambini né gli altri genitori della classe. Poco contenti, questo sì, di essersi ritrovati «in mezzo a una folla di giornalisti e di telecamere in una vicenda che si sarebbe dovuta svolgere molto più rapidamente all’interno del mondo della scuola». Ma altrettanto basiti di fronte alle giustificazioni del maestro Mauro: «Ma questo cosa dice, mamma? È matto?», ha domandato una bambina sentendo le sue interviste rilasciate giovedì, quando giurava di avere avvertito i bambini che il suo era solo “un esperimento”. Una versione che tutti i bimbi rifiutano senza appello. Un semplice «difetto di comunicazione», dice il suo legale avvertendo: «Le sue intenzioni erano diametralmente opposte alle accuse di razzismo. È il suo profilo a dirlo. È un padre di due bambini, ha anche una nipotina adottata di altra nazionalità e una certa sensibilità proprio verso i temi che riguardano la sfera umana». Ma avere una nipotina adottata, fanno notare alcuni genitori, non è affatto un attestato di sensibilità. Lui, ha spiegato il suo avvocato, voleva solo «condividere poi con i ragazzi l’indignazione che i bambini stessi hanno espresso». C’è riuscito, l’indignazione bambini e genitori l’hanno effettivamente condivisa: ma contro di lui. Il maestro Bocci, però, ha chiesto scusa. Non è stato capito, si rammarica. Ieri il difensore della famiglia nigeriana ha chiesto all’Ufficio regionale dell’istruzione una copia dei verbali delle denunce orali fatte dagli altri genitori alla dirigente scolastica: «Erano cinque versioni praticamente identiche». Ora sono anche quelle sulla scrivania del procuratore di Spoleto.
Fuori di test, scrive Luca Bottura il 28 febbraio 2019 su L'Espresso. L'astensione dei Cinque Stelle sul Global compact, cioè l'insieme di norme che avrebbe garantito un'immigrazione controllata e sicura, ha favorito la vittoria di Giorgia Meloni e di chi, come la Lega, punta proprio su una gestione ad minchiam dei migranti per mantenere il proprio consenso basato sull'invidia sociale e sul rancore tra poveri e poverissimi. A questo punto diventa davvero complesso distinguere la componente gialla del Governo da quella bruna. Per questo, a beneficio di tutti gli elettori di destra-destra affezionati a Repubblica (Ugo da Ladispoli, che saluto) ho predisposto un piccolo test di autoaiuto per vagliare da quale parte del contratto si penda. Buona compilazione.
Ti multano per parcheggio in doppia fila.
A) "E quel negro col fanalino rotto, invece?"
B) Do la colpa al mio fidanzato bulgaro.
C) Colpa dei parcheggi dei governi precedenti.
Sulla tua tavola non manca mai...
A) Gli Oro Saiwa solo con grano italiano.
B) Quello che mi dice Casalino.
C) Maaaalox!
Tuo figlio/a ama una persona dello stesso sesso, tu...
A) "Viva, ce la faccio mangiare, l'unione civile".
B) "Gli voglio bene come se fosse normale".
C) "Vorrei tanto anch'io, ma non ho il coraggio di dirglielo".
Ti commuovi sempre per...
A) Il "saldo e stralcio".
B) Il "voto e incasso".
C) Il "chiagni e fotti"
Mezzo di locomozione preferito.
A) Treno in orario
B) Tir smarmittato
C) Ciaone
Fiction preferita.
A) Tg2
B) Conte presidente del Consiglio
C) "Gli occhi del cuore"
Social network preferito
A) Instagram
B) Tinder
C) Grinder
Il tuo Pantheon...
A) Putin, Pinochet, Lorella Cuccarini.
B) Mi spiace, non parlo il tedesco.
C) Mai usato il Pantheon, preferisco l'Oreal.
Grado militare preferito.
A) Capitano
B) Caporale
C) Colonnelli
Risultati
Prevalenza di A... vabbé, ma di cosa stiamo parlando? Siete uguali da quasi cent'anni, dai.
Ritratto dell'odiatore seriale su Facebook. Insulti e minacce tra gattini, torte e Padre Pio. Sono medici, insegnati, casalinghe. Anziani eleganti, appassionati di Disney. Ma che alla tastiera si trasformano in razzisti e mostri di cinismo. Storia di un fenomeno sempre più diffuso, scrive Maurizio Di Fazio il 27 febbraio 2019 su L'Espresso. Prince Jerry aveva 25 anni, veniva dalla Nigeria, era laureato in Biochimica e continuava a studiare qui, in Italia, dove era arrivato nel 2016 dopo due anni di odissea tra il deserto, i lager libici e la roulette russa del mar Mediterraneo sul barcone. Parlava un italiano fluente, e tutti lo ricordano come allegro e buono. A lungo ha atteso che gli venisse concesso l’asilo; a dicembre, invece, gli è stato protocollato il rifiuto. Il ragazzo è stato assalito dalla disperazione, non era più lo stesso. Il suo corpo è stato trovato senza vita sui binari di una stazione, travolto da un treno. Un suicidio, molto probabilmente. La notizia è rimbalzata su Facebook. «Hai fatto più che bene» ha esultato il ventenne Danilo R., di origine calabrese, che ascolta Vasco e segue pagine dedicate a Forza Nuova e Matteo Salvini, quest’ultimo celebrato in tutte le salse. «A fatto bene, uno di meno» gli ha fatto eco, omettendo la h, la signora Fioralba M., una settantenne di Vasto dall’aspetto soave come il suo nome, la sua bacheca è una sfilata di ricette e immagini dei nipotini, mette il like a pagine come “associazione Sacro Cuore di Gesù” e in più è devota della “mistica Natuzza Evolo”, oltre che del suo idolo assoluto, il ministro dell’Interno. «Povero… treno» ha commentato Marian R, un giovane di nascita romena che lavora nei trasporti funebri. Sguardo limpido, adora talmente il nostro paese da essersi fatto tatuare il Colosseo sulla nuca. Per Roberta A. si tratta, semplicemente, di «Uno in meno». Bionda e appassionata dei film della Disney, attacca con virulenza papa Bergoglio, che ha osato definire i rifugiati “Gesù d’oggi”, e scrive «ti amo Salvini» un giorno sì e l’altro pure. Un clima di intolleranza e violenza strisciante, un’alta marea di fango scorre sui social, a cominciare da Facebook, divenuto una specie di poligono di tiro verbale. Bersaglio fisso, sempre loro: i migranti, rei di sottrarre serenità e posti di lavoro agli italiani «brava gente». La “legittima offesa” colpisce anche il Pd, il solito George Soros, l’ex ministro Cécile Kyenge, Saviano, i “sinistri”, i “professoroni” e gli “accoglioni”. Minimo comun denominatore, il cibarsi di luoghi comuni alimentati dal sottobosco di fake news e dalla galassia dei media di destra. Ecco allora «i migranti che sbarcano palestrati, col cellulare d’ultima generazione carico». Ecco lo stillicidio, il propagandistico inferno perpetuo di connazionali ridotti alla fame o a dormire per strada «mentre un richiedente asilo ha abusato di decine di bambini» e noi «rischiamo la pelle ogni volta che usciamo di casa», specie se incontriamo uomini di colore (“negri”) che se la spassano a spese dei contribuenti. Ecco il senso indotto e autoindotto di insicurezza permanente, a cui non c’è decreto che tenga. Ma chi sono queste persone che passano il tempo libero a postare contenuti e meme rancorosi e xenofobi, misogini, fascisti, radunandosi sul profilo del leader della Lega o in pagine come Rialzati Italia, Io sto con Salvini, L’Italia è degli Italiani, Movimento 9 dicembre Forconi, Dalla vostra parte? E non mancano i gruppi chiusi. Per farsi approvare la domanda di iscrizione a Prima gli italiani, L'Espresso ha dovuto rispondere esclusivamente a queste due domande: 1) «Sei contrario agli immigrati?» (risposta, «sì») 2) «Ti senti insicuro/a dove risiedi?» (Ancora un «sì»). Dopo pochi minuti la richiesta è stata accettata. È la stessa gente che affolla i comizi del vicepremier leghista nel suo tour elettorale senza fine, e che piange, va in deliquio quando il Capitano si materializza sul palco sulle musiche del Gladiatore e intona la sua filastrocca populista. Sono gli stessi che incontriamo tutti i giorni al bar, al supermercato, al cinema, nel nostro condominio. Perfetti insospettabili, individui anonimi e in apparenza pacifici che quando aprono bocca su Facebook si trasformano in mostri di cinismo e cattiveria razzista.
2019, l’anno del razzista 4.0 «Basta con l’invasione africana». D’altronde, per lui i migranti sono «scimpanzé, che si arrampicano sugli alberi». La piattaforma di Mark Zuckerberg continua a rivelarsi facilmente permeabile dai nostalgici del Ku Klux Klan. Carlo C, un azzimato signore di mezza metà con gli occhiali, e col culto della personalità di Matteo Salvini, a proposito della Sea Watch sibila: «Ma gettateli in mare». Maurizio D., un ciociaro appassionato dei Pink Floyd, non ha dubbi: «Sono menti inferiori». Samuel C, palestrato e tatuato ventenne di Cagliari, puntualizza: «Io, che non sono razzista, prima li prenderei a badilate sui denti, poi gli darei fuoco. E con le ceneri passerei il fertilizzante alle piante». Il dottor Francesco F, che sarebbe un importante dirigente medico, impegnato per giunta in campo oncologico, mostra la sua soluzione finale: «Blocco navale e cannonate quando entrano in acque nazionali». Riccardo D.M., elegante settantenne pugliese minaccia: «Questi africani proliferano come topi. Cominciamo col castrare questi bastardi e poi mandiamo a fare in culo gli ipocriti e i falsi buonisti, i vagabondi e parassiti di sinistra». Chiara F. è una 23enne della provincia di Como. Pare dolcissima, innamorata del suo ragazzo e col gattino in braccio. Però sentenzia: «Pensano solo a scopare. Ciò che distingue l'umano dall'animale è la capacità di razionalizzare: traete voi le conclusioni». Persino le quotazioni del führer stanno tornando di gran moda ultimamente. Ferdinando P., in posa con figlio e fidanzata: «Ci vorrebbe, per questi emigrati, un bell’Hitler di nuovo». E Salvatore B., un millenial napoletano che fa il pizzaiolo in Germania: «Dategli fuoco a ‘sti neri di merda». Sergio M.lancia un auspicio: «A quando il prossimo Traini?». Anche i sessisti si sono adeguati al clima, e continuano a molestare a stormi sulla sua pagina Fb Laura Boldrini, nonostante la sua battaglia culturale e legale contro gli odiatori seriali. Ai loro occhi, l’ex presidente della Camera è colpevole due volte: è una donna bella e intelligente, ed è fautrice dell’accoglienza. Simone F, un ragazzo di Como cultore della trap, posta: «Visto che vi piacciono così tanto gli immigrati, a te e Valentina Nappi, potete fare una gang bang con loro?». Un certo Alfredo D. dalla Sicilia si infiamma: «Non ho paura se mi porti in tribunale. Chiamami! Sei una latrina! Essere ignobile ignorante! Neanche appartieni alla razza umana». Lui, che è un vero campione di umanità, lascia il suo numero di telefono vero. Alle volte, l’ultrà è una donna. «Vaffanculo stronza, ti dovrebbero stuprare» è l’invettiva pronunciata dall’abruzzese Maria D.P., casalinga; all’indirizzo di un’avvocatessa di Sulmona che si era permessa di criticare il politico più osannato del momento con una frase di Ovidio («Empio è colui che non accoglie lo straniero»). Franca B., di Foggia, pubblica vignette degne della campagna di Abissinia e sfoggia, a mo’ di immagine di copertina, un cuore verde diviso a metà: in una delle due parti sbuca “il Capitano” . Da Bolzano a Canicattì, è un tripudio di pasionarie dell’uomo forte in divisa cangiante. «Salvini ti adoro», «Non mollare, noi non molliamo», «Sei bello come il sole». Impiegate, commesse, infermiere, insegnanti, professioniste. Hanno tutte nel demiurgo della chiusura dei porti il proprio eroe personale. Soraya G. è una modella ligure, e la sua passerella social è un monocolore di “frasi celebri” e foto-video salviniani. Barbara S., una bancaria del centro Italia amante dei cammini religiosi, indica la via: «Il nostro Capitano sarebbe fascista? È troppo buono, direi io. I veri discriminati siamo noi italiani. A mali estremi, estremi rimedi. Ruspa! E non solo...”.
"Ridi che tanto ti è rimasto poco". Gli insulti choc a Nadia Toffa. Come era già successo in passato, alcuni hater hanno nuovamente attaccato Nadia Toffa sul suo profilo Instagram. Ma i suoi fan l'hanno saputa ben difendere, scrive Roberta Damiata, Mercoledì 27/02/2019, su Il Giornale. I leoni da tastiera si sono messi nuovamente in moto come avevano già fatto tempo fa, colpendo Nadia Toffa, la conduttrice delle “Iene” che da tempo sta combattendo contro un cancro. E così tra i tanti positivi commenti che incitano Nadia ad andare avanti e a combattere, c’è anche chi in maniera vile le scrive: “Ridi che tanto ti è rimasto poco”. Lei non ha replicato, come invece aveva fatto in passato, ma ci hanno pensato i follower e i seguaci che la amano a dare il benservito a questa ignobile persona che per niente pentita ha anche replicato: “Questa ad agosto non ci arriva”. Una situazione davvero da condannare, nonostante ci abbiano già pensato le tante persone che la amano. La Toffa ha pubblicato nel 2018 un libro “Fiorire d’Inverno” in cui racconta tutta la sua storia, che è veramente da prendere ad esempio. Questi sono esempi di cui vergognarsi e da allontanare dalla rete. Per fortuna Nadia è una guerriera e lo sta dimostrando portando avanti la sua battaglia personale che di sicuro la vedrà vincente.
È morto Henry Winkler alias Fonzie, anzi no: le bufale del web. La notizia falsa della sua morte ha fatto il giro della Rete. Ecco gli altri attori e vip vittime di una viralità mendace, scrive Simona Santoni il 27 febbraio 2019 su Panorama. Le bufale del web non hanno risparmiato neanche quel piacione di "Fonzie": Henry Winkler, l'attore che ha interpretato Arthur Fonzarelli, personaggio iconico della sitcom anni '70 Happy Days, è stato dato per morto da alcuni siti. La notizia ha fatto il giro del web. E invece, per fortuna, il settantatreenne newyorchese è vivo e vegeto. Presto anzi lo vedremo nella seconda stagione della serie tv Barry. Anche se Winkler è famoso soprattutto come Fonzie, motociclista ribelle col pollice alzato e la classica battuta "eeeeeehi", è il personggio dell'eccentrico Gene Cousineau di Barry ad avergli dato recentemente gloria: per questa interpretazione ha vinto l'Emmy come migliore attore non protagonista. E nonostante a lui sia legata l'immagine di un uomo sicuro di sé e un po' sbruffone, Winkler ha avuto anche problemi di dislessia. Questa sua esperienza è raccontata indirettamente nella fortunata serie di libri per ragazzi che ha scritto a quattro mani (insieme alla giornalista Lin Oliver) e ha per protagonista Hank Zipzer, un ragazzino di nove anni dislessico.
Gli altri vip vittime di una morte inventata. Henry Winkler non è il solo personaggio dello spettacolo dato per morto, falsamente. Lino Banfi sarebbe morto già tante volte, secondo il web. Lui l'ha presa con comicità, ovviamente, facendo gli scongiuri e sperando che le bufale gli allunghino la vita. Recentemente è spettato anche a Roberto Benigni, che sarebbe perito in incidente stradale, così come a Checco Zalone. Probabilmente sparare a casaccio contro i comici è considerato un colpo di spirito. Di cattivo gusto. Banfi, Benigni e Zalone sono in buona compagnia: la notizia falsa di morte ha toccato pure Gigi Buffon, Luca Laurenti, sua maestà Vasco Rossi e un osso duro come Sylvester Stallone. Non ha risparmiato neanche quell'arzillo novantatreenne di Andrea Camilleri. Pure Nadia Toffa, la conduttrice de Le Iene che tanto ha emozionato il pubblico con la sua battaglia contro il tumore, è stata vittima di queste bufale erranti e disgraziate. Si parlava di cattivo gusto, appunto.
· Gli italiani sono i più maleducati del pianeta?
Non c’è più rispetto. Il caffè di Monia Lauroni l'8 agosto 2019 su alessioporcu.it. Chiunque sia in grado di governare una tastiera si sente autorizzato ad offendere chicchessia. Abbiamo messo su un circo di cafoni capace solo di insultare. Ma gli intelligenti non si offendono: ci ridono dietro. Caimano. Nano. Orango. Pitonessa. Banana. Squalo. Gobbo. Negro. Cinghialone. Mortadella. Gargamella. Rigor Montis. E, poi, quelli ancora più cattivi e volgari. I soprannomi. Gli insulti. Le offese alla persona. Ogni “luogo” è stracolmo di sconci riferimenti alle vite personali e ai problemi fisici di chiunque diventi più noto del vicino di casa. I social, poi, sono una fucina di porcherie. Ogni alfabetizzato che si riesca a collegare, anche dopo una grondante sudata, al web, si sente autorizzato ad offendere chicchessia. Una vera porcata. Ancora più immonda se si pensa che la stragrande maggioranza dei calunniatori è anche battezzato e professa un credo religioso, spesso fondato sull’Amore Universale. Una grandinata generale di palle di vetriolo, che corrode l’anima degli italiani. Soprattutto, di coloro che non passano la giornata a coniare nuove offese per parenti, amici, solidali, nemici e sconosciuti. Ne abbiamo piene le scatole di sentire offendere la gente. Ci piacerebbe che ci si confrontasse in maniera civile. Dal “mi ricorda un orango” di Calderoli, è seguita una gragnola di offese pronunciate anche dai più sobri, che ci ha veramente scioccato. Tutti giù a cercare, nel budello della fantasia, le immondizie peggiori. Suppongo che queste siano prove generali in attesa di poter insultare anche la propria madre. No, così non va. Dal mondo ci guardano con aria schifata. Poi, ci giudicano. E ci incazziamo. Culona non va bene e nemmeno Psiconano. Non va bene, no. E non è offendendo che ci facciamo strada nel cuore degli altri. Perché, a ruota, verrà il giorno in cui l’offesa arriverà anche a noi. E lì, ci faremo bruciare il pelo. Diamo un taglio a questa cafonata tutta italiana. O, meglio, tutta figlia dell’Italia di oggi. Quella che non sta piacendo a nessuno di noi. In cui ci sentiamo tutti a disagio. Riprendiamoci l’Italia civile di una volta. Quella in cui i morti si rispettavano senza guardare il colore della bandiera. Quella in cui il politico dava esempio, anche se esagerato. Quella approntata per noi dai nostri eleganti genitori. Che sapevano rispettare anche il nemico. Che sapevano scandalizzarsi. E ci davano gli scappellotti quando solo dicevamo “scemo” o, anche “cretino”. Perché erano “parolacce”. O, meglio, offese. Riprendiamoci le nostre vesti, i nostri doppiopetto e tailleur. Riprendiamoci quella “special classe di antica nobiltà” d’eletta cultura, d’eleganza e di arte. Cos’è successo agli Italiani eleganti e sobri? Dove abbiamo perso il filo? Chi ci ha cancellato dal galateo? Del piacere dell’ascolto, della finezza della conversazione, del millenario savoir faire italico, non restano che le ceneri impastate col fango dell’impudicizia odierna. Nessun ritegno, oggi. Purtroppo. Non siamo divertenti, non siamo simpatici, non siamo emancipati. Siamo solo un circo di cafoni agli occhi del mondo. Quel mondo che non si offende e ci ride alle spalle.
Gli italiani sono i più maleducati del pianeta? Franco Muzzioli su parliamone.eldy.org il 23 ottobre 2014. Non è una domanda per Matthew Parris, noto editorialista londinese, ma una affermazione che ha fatto alcuni giorni fa sul Times. E’ certo che se ti muovi in auto sulle strade italiane ti accorgi di questa cattiva educazione e delle costanti infrazioni alle regole. Le frecce direzionali sono quasi sempre un optional, i limiti di velocità difficilmente rispettati, nei parcheggi è una guerra, abbondano le contumelie e c’è sempre qualcuno “che è arrivato prima”.
Le file davanti agli sportelli non sono mai lineari, ma a grappoli, e trovi sempre chi vuol fare il furbo.
Le strade sono piene di cartacce, di cacche di cane e di cicche di sigarette.
Anche nella vita interpersonale spesso regna l’arroganza e la mala educazione, si fa fatica ad accettare “l’altro” ed i suoi pensieri, prendiamo tutto di petto come se ogni contestazione fosse una offesa personale, ne è esempio palese la dialettica politica.
Ma l’elenco potrebbe continuare per pagine e non è neanche l’età a portar consiglio, perché noi anziani uniamo spesso, alla naturale predisposizione a questa anarcoide visione della vita, la mancanza di elasticità mentale.
Quando mi reco al nord, in Svizzera od in Austria, ad esempio, e vedo la pulizia delle strade , non sento il continuo strombazzare dei clacson, vado al ristorante sento sussurri e non un assurdo parlare ad alta voce, vedo bambini educatamente seduti che mangiano, mi chiedo allora se il Times non abbia per caso ragione! Franco Muzzioli
Riporto qui l’articolo incriminato a cui fa riferimento Franco. Cosa pensano degli italiani, all’estero? Non parlano molto bene di noi. Il britannico “Times” ha effettuato, tramite il noto editorialista Matthew Parris, un’indagine sul comportamento degli italiani a Londra. Il giornalista non ha dubbi: i più cafoni del mondo sono proprio gli abitanti del “bel Paese”. I turisti italiani sono definiti dei cialtroni, capaci soltanto di correre dietro alle griffe, ai falsi miti della celebrità e imbevuti di tv-spazzatura. “Tre volte quest’anno – scrive l’editorialista nella rubrica, sotto il titolo ‘Scusatemi, ma perché gli italiani sono così maleducati?’ – mentre cercavo di scendere dal metrò sono stato ricacciato indietro da gente vestita in modo sciccoso e firmato, che spingeva per entrare prima che i passeggeri fossero scesi: e tutte le volte si è trattato di gente che parlava fitto in italiano“.Il giornalista poi aggiunge: “Come possiamo riconciliare l’Italia moderna, fatta di consumismo, televisione-spazzatura, smania per le firme e insensata adorazione delle celebrità, con l’Italia di Venezia, Da Vinci, Verdi e Medici?”. L’imbestialito Parris arriva a questa sferzante e patriottica conclusione: “Dite quello che vi pare della nostra turbolenta folla bevuta di birra ma, anche se ci mettete i tatuaggi e tutto il resto, avrebbe subito capito che tipo è Berlusconi“. Insomma accuse pesanti. Quello che posso dire che non ha molto torto perché anche io quando vado all’estero noto molti italiani che non si comportano molto bene ma è sbagliato fare di un’erba un fascio. Nonostante ciò è allarmante come, ancora una volta, l’italiano perda sempre più credibilità e fascino.
E adesso facciamoci un esame di coscienza, come ci riteniamo noi? Abbiamo consapevolezza di come siamo considerati? Che ne pensate delle affermazioni del Times? Pensate che questa eventuale mancanza di educazione sia originata da una nostra indole di popolo, dalla famiglia, dalla scuola, dall’esempio della politica? Se siamo veramente poco educati come potremmo migliorarci?
QUINDI I BAMBINI MALEDUCATI SONO TUTTI ITALIANI. Anya il 18 marzo 2019 su 50sfumaturedimamma.com. Ormai sarà la centesima volta che scrivo un post sui trattamenti riservati ai bambini in determinati posti, e per la centesima volta leggo commenti – del tutto legittimi – di persone che sostengono che i bambini di oggi siano tutti indisciplinati, maleducati al limite dell’umano, e che quindi sia normale non volerli nei locali pubblici. Oggi per esempio sulla pagina è stato raccontato anche di un bambino che faceva pipì nel vasino in mezzo al ristorante. Come forse saprete e se non lo sapete ve lo dico, io vivo in Francia dal 2009, dove sono arrivata incinta. Ho avuto una primogenita molto irrequieta e per questo ho evitato a lungo i ristoranti, per esempio, oppure voli che non fossero per tornare a casa, mentre ho dovuto piegarmi a tutta un’altra serie di cose che non potevo evitare di fare: tipo la spesa o andare negli uffici pubblici quando vivi all’estero e non hai nessuno che possa tenerti un neonato. Ha pianto? Eccome! Una volta in autobus non sapevo più cosa fare, e ovviamente le vecchine intorno a me avevano tutte la loro teoria. Genialate del tipo: allattala! Certo, in bus, la slego dall’ovetto, e mi tiro fuori una tetta, mica aspetto di scendere e evito di correre un pericolo. Me ne sono sbattuta? No per niente, ho sempre cercato di evitare il più possibile situazioni di fastidio (che poi in primis per lei, che se un neonato alle 20 dorme non vedo perché devo portarlo al ristorante), a volte purtroppo non ci sono riuscita perché i bambini non sono robot. Ora le mie figlie hanno 7 e 9 anni. Oltre ad essere nate a Parigi, hanno vissuto un anno e mezzo a Panama. Hanno visitato, in ordine sparso e per più volte: Usa, Messico, Cuba, Bahamas, Costa Rica, Repubblica Dominicana, Cile, Perù, Colombia, Argentina, Portogallo, Spagna, Inghilterra, Islanda, Russia, Bielorussia, Olanda, Belgio, Danimarca, Ungheria, Grecia, Irlanda, Germania, Polonia e non mi ricordo più, tra un mese saremo in Iran. Quindi credetemi se vi dico che a. sono capaci di stare molte ore ferme senza tablet e senza infastidire nessuno b. di bambini ne ho visti veramente tanti ma tanti tanti anche in situazioni difficili (voli lunghi, escursioni, ecc) ma MAI veramente MAI mi sono ritrovata di fronte alle situazioni che leggo ogni volta che affrontiamo l’argomento. Neppure in 7 ore di navigazione sul lago argentino in Patagonia. Bambini che corrono tra i tavoli? Che lanciano il cibo? Che ruttano? Che vanno a disturbare gli altri? Che urlano senza motivo? Devo ammettere che di famiglie italiane in viaggio, almeno dove andiamo noi, non ne incontro molte. Una volta in Grecia eravamo in un thailandese e accanto a noi c’era un tavolo di amici italiani con sei bambini. Non volava una mosca: ognuno aveva un tablet/cellulare. Ecco, io avrei preferito sentirli ridere e scherzare o vederli correre nel prato, ma forse sono strana io. Ma davvero mi chiedo: tutti questi bambini super cafoni, irrispettosi, i cui genitori se ne sbattono bellamente perché hanno da bere lo spritz, dove sono? L’estate scorsa sono uscita a cena in Italia con la mia famiglia, la mia testimone e mio fratello. Bambini in giro per i tavoli non ne ho visti, anzi: stavano tutti fuori in giardino, dove non si cenava, a correre qua e là e i genitori dei più piccoli facevano a turno per guardarli.
Non ho il minimo ricordo, in tutti questi anni di su e giù in Italia, di episodi incresciosi o che mi abbiano fatto pensare “mamma mia questi genitori che cafoni”. Probabilmente non frequento abbastanza i ristoranti e le pizzerie in Italia, al contrario giustamente di chi ci commenta. Ma ne frequento tantissimi all’estero. Quindi: i bambini e i genitori cafoni sono solo in Italia? E soprattutto: possibile che nessuno segua 50sfumaturedimamma?
Formentera si ribella agli italiani: "Maleducati". Polemiche dopo l'incendio innescato dal razzo sparato da un nostro connazionale. Roberto Pellegrino, Giovedì 18/08/2016 su Il Giornale. Più che una goccia è stato un fulmine. Una saetta di fuoco che ha incenerito il vaso in cui era mal celata la sopportazione degli abitanti di Formentera verso la massiccia invasione stagionale degli italiani. Il nostro concittadino che, martedì notte, ha avuto la pessima idea di sparare un razzo di segnalazione dal suo yacht dentro l'area naturale protetta d'Espalmador, lungo la costa, ha bruciato una preziosa fetta di macchia mediterranea e ha riacceso antichi rancori e antipatie verso gli italiani, residenti e vacanzieri. Davanti alle fiamme che divoravano l'isolotto, per colpa del 43enne Roberto P., e davanti al lavoro di due squadre di vigili del fuoco, gli isolani hanno perso la pazienza, e, qualcuno, ieri mattina, davanti al Commissariato dove l'italiano piromane era stato tradotto e poi rilasciato su cauzione, ha urlato che «el macarone», venisse consegnato alla gente di Formentera. «Macarones» e «Motorinos» sono gli epiteti con cui gli isolani delle Baleari ci chiamano. Tempo fa, comparve anche una scritta molto indicativa del livello di odio raggiunto: su un muro nel centro di Es Pujols una mano anonima aveva vergato, «Fuera los Italianos de la isla!». Un malcontento che è purtroppo presente da oltre un decennio e che in estate raggiunge la vetta tra i 12mila formenterensi. A guardare i numeri ci si rende conto anche del perché. In estate la presenza degli italiani tocca il 56 per cento del totale. La maggior parte sono turisti «low-cost»: arrivano con voli pagati meno di 50 euro, girano le discoteche, bevono molto, usano droghe, «urlano, schiamazzano e sono maleducati», per concludere con le parole esasperate dei suoi abitanti. Questo genere di turismo «mordi e fuggi», composto di giovani che spesso non dormono in hotel, non porta alcuna ricchezza all'isola, alimentando la speculazione degli alloggi senza permesso e con affitto in nero. Formentera, fino a qualche anno fa, subiva un turismo diverso: quello di ricche famiglie del Nord Europa e, soprattutto, di vip italiani e stranieri che spendevano parecchio. Ora, come succede dagli anni Novanta all'attigua Ibiza, il turismo di Formentera si è «sporcato» di questo nuovo genere di turismo, molto cafone e chiassoso, molto mal visto dai residenti, costretti a pagare tasse locali più salate per dare più risorse agli agenti di polizia che devono regolare il traffico e vigilare su migliaia di teste calde. Così come a Ibiza, dove la regola è che non ci sono regole, anche l'isola meno popolata delle Baleari paga questa contaminazione e gli esempi di cafoneria si sprecano. Poi ci sono gli italiani residenti, quelli che controllano oltre il 60 per cento delle attività turistiche. Quelli che hanno avuto molto successo economico. Sono invidiati e infastiditi dalla burocrazia locale. Alla fine degli anni Settanta affittavano motorini (da qui il nomignolo), ora sono i padroni dell'isola, pagano molte tasse, e subiscono un'ondata di odio esagerata per colpa delle intemperanze di alcuni connazionali. In tv un residente è chiaro: «Gli italiani girano ubriachi già alle otto di sera sugli scooter, coi loro aperitivi occupano e sporcano le dune di sabbia. Sono rumorosi, arroganti e maleducati. Non li vogliamo». Nel forum Internet del Diario de Ibiza, si legge di peggio: «non hanno rispetto e non capiscono lo spirito dell'isola, vanno in spiaggia tutti eleganti, poi inseguono i vip, cercano i calciatori e le veline pensano soltanto all'aperitivo più figo non sanno di trovarsi in un posto meraviglioso».
Sullo Stesso Argomento.
“Solidarietà ai croati contro l’invasione cafona del turismo italiano”: la lettera fuori dal coro di un lettore. Giornale della Vela il 18 agosto 2019. L’estate si avvia verso la sua seconda parte, quella finale, e di storie, avventure e disavventure di crocieristi in giro per il Mediterraneo ne abbiamo sentite tante. Tempo fa avevamo ricevuto una lettera di un nostro lettore a proposito della Croazia e dei croati, e di come i turisti italiani non si facciano sempre ben volere. Una lettera che a distanza di quasi un anno potrebbe essere ancora attuale. “Per tutta l’estate vi siete lamentati di quanto siano cattivi, sgarbati, forieri di soprusi, i croati. Avete riempito i gruppi social di denunce indignate e pompose, dichiarando “Mai più in Croazia, l’estate prossima non ci metto piede”. Ma speriamo mi viene da dire, speriamo che questa promessa la manteniate. Vivo le coste croate da quando sono bambino, ovvero da oltre 50 anni, e in particolare la realtà di un piccolo paese di cui non vi dirò mai il nome neanche sotto tortura, perché siamo già in tanti. Ho visto cambiare la Croazia, anno dopo anno, osservando il tentativo degli operatori di adeguarsi al turismo consumista sfrenato, di cui i diportisti e i tanto raffinati velisti non sono per nulla esenti. Sono arrivato a pensare che il turismo sia una piaga. Posti magnifici, paesi storici, nature incontaminate deturpate da questa massa di barche ambulante che cerca di ancorare dove non può, e quando il suo equipaggio scende a terra ha come obiettivo quello di fare orribili foto col cellulare e comprare la calamita da portarsi a casa. Ho visto italiani cafoni mercanteggiare oscenamente con i pescatori per un po’ di pesce, come del resto farebbero, non meno oscenamente, anzi peggio, anche con un ambulante in spiaggia per comprare un gingillo alla loro signora. Ho visto italiani lamentarsi per un conto un po’ salato in un ristorante, quando invece all’Argentario si farebbero spennare senza fiatare, perché a Capalbio e dintorni “fa chic”. Ho visto giovani rampolli ubriachi, figli di armatori, molestare le ragazze “perché in Croazia è pieno di figa”. L’essere velisti del resto non può guarire la vostra becera cafonaggine, non può guarire la vostra incapacità di fare sfaceli in un porto quando ormeggiate con un po’ di vento, non può guarire la vostra ingordigia di andare a raccogliere montagne di ricci dove magari non è consentito, o anche dove è consentito non vi rendete conto che state esagerando. Andate in barca con un charter una volta l’anno e vi atteggiate da grandi velisti, indossate i guantini da vela quando siete ancora in porto anche quando fuori c’è bonaccia. Andate in Croazia in vacanza “perché si spende ancora poco e c’è una natura incontaminata”. Non è vero, la natura l’avete contaminata con i vostri ormeggi impropri e non si paga più poco perché, in fondo, ve lo meritate, e fanno bene i croati a spennarvi: perché per esempio alle Balerari non fiatate e qui protestate? Ho visto troppe cose per non solidarizzare in maniera totale con i croati insofferenti. Cari amici italiani, la mia Croazia è un posto fantastico, e non ha fatto nulla di male per meritare il vostro volgare, finto chic, e in fondo cafone modello di turismo“. Valerio Penna
Il Turista fai da te. Il Salento e l’orda dei profughi. L’osservazione di Antonio Giangrande. La meta del turista fai da te che arriva in Salento è il mare, il sole, il vento ma è stantio a metter mano nel portafogli e nell’intelletto. C’è tanta quantità, ma poca qualità. Il turista fai da te che arriva nel Salento è come un profugo in cerca spasmodica di benessere gratuito. Crede nei luoghi comuni e nei pregiudizi, nelle false promesse e nelle rappresentazioni menzognere mediatiche. Con prenotazione diretta last minute, al netto dell’agenzia, prende un appartamento con locazione al ribasso e con pretesa di accesso al mare. Si aggrega in gruppo per pagare ancora meno. Ma a lui sembra ancora tanto. Poi si meraviglia della sguaiatezza di ciò che ha trovato. Tutto l’anno fa la spesa nei centri commerciali e pretende di trovarli a ridosso del mare. Non vuol fare qualche kilometro per andare al centro commerciale più vicino, di cui i paesi limitrofi son pieni, e si lamenta dei prezzi del negozietto stagionale sotto casa. Durante l’anno non ha mai mangiato una pizza al tavolo e quando lo fa in vacanza se ne lamenta del costo. Vero è che il furbetto salentino lo trovi sempre, ma anche in Puglia c’è la legge del mercato: cambia pizzeria per il prezzo giusto. Il turista fai da te tutto l’anno vive in palazzoni anonimi, arriva in Salento e si chiude nel tugurio che ha affittato con poco e poi si lamenta del fatto che in loco non c’è niente, nonostante sia arrivato nel Salento, dove ogni dì è festa di sagre e rappresentazioni storiche e di visite culturali, che lui non ha mai frequentato perché non si sposta da casa sua. Comunque una tintarella a piè di battigia del mare cristallino salentino è già una soddisfazione che non ha prezzo. Il turista fai da te si lamenta del fatto che sta meglio a casa sua (dove si sta peggio per cognizione di causa) e che qui non vuol più tornare, ma, nonostante il piagnisteo, ogni anno te lo ritrovi nella spiaggia libera vicino al tuo ombrellone. Si lamenta della mancanza di infrastrutture. Accuse proferite in riferimento a zone ambientali protette dove è vietato urbanizzare e di cui egli ne gode la bellezza. A casa sua ha lasciato sporcizia e disservizi, ma si lamenta della sporcizia e della mancanza di servizi stagionali sulle spiagge. Intanto, però, tra una battuta e l’altra, butta cicche di sigaretta e cartacce sulla spiaggia e viola ogni norma giuridica e morale. La raccolta differenziata dei rifiuti, poi, non sa cosa sia. Ogni discorso aperto per socializzare si chiude con l’accusa ai meridionali di sperperare i soldi pagati da lui. Lui, ignorante, brutto e cafone, che risulta essere, anche, evasore fiscale. Il turista fai da te lamentoso è come il profugo: viene in Salento e si aspetta osanna, vitto e alloggio gratis di Boldriniana fattura. Ma nel Salento accogliente, rispettoso e tollerante allora sì che trova un bel: Vaffanculo…
Quando il turista malcapitato viene a San Pietro in Bevagna, a Specchiarica o a Torre Colimena dice: “qua non c’è niente e quel poco è abbandonato e pieno di disservizi. Non ci torno più!”. Al turista deluso e disincantato gli dico: «Campomarino di Maruggio, Porto Cesareo, Gallipoli, Castro, Otranto, perché sono famosi?»
“Per il mare, per le coste, per i servizi e per le strutture ricettive” risponde lui.
«Questo perché sono paesi marinari a vocazione turistica. Ci sono pescatori ed imprenditori e gli amministratori sono la loro illuminata espressione» chiarisco io. «E Manduria perché è famosa?» Gli chiedo ancora io.
“Per il vino Primitivo!” risponde prontamente lui.
Allora gli spiego che, appunto, Manduria è un paesone agricolo a vocazione contadina e da buoni agricoltori, i manduriani, da sempre i 17 km della loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna ed edificati abusivamente, perciò da trascurare e da mungere tributariamente.
Italiani cafoni e maleducati: lo dicono 7 turisti su 10. Turisti stranieri appagati della loro vacanza nello Stivale ma si lamentano per l’insopportabile inciviltà e le cattive maniere. Libero Quotidiano 1 Luglio 2010. Urla e schiamazzi per strada, motoscafi che arrivano quasi in spiaggia, acquascooter che sfrecciano sottocosta, tv e radio ad alto volume, spintoni e ressa continua e un’incredibile ignoranza delle lingue estere. Ecco il peggio dell’Italia secondo 7 turisti stranieri su 10 che hanno scelto il Bel Paese come meta delle loro vacanze. E quindi sarebbe meglio approfondire corsi di bon ton e galateo, imparare inglese, tedesco e francese e dare una frenata ai prezzi: queste le richieste dei visitatori stranieri per ritornare in ferie in Italia. A rovinare le loro vacanze, infatti, sono l’inciviltà e la maleducazione che spesso affiorano (61%), l’impossibilità di comunicare nella loro lingua (75%), e i prezzi talvolta troppo esagerati (47%). Nonostante il 57% affermi che non si tratta del primo soggiorno in Italia e il 41% degli intervistati ammetta di scegliere lo Stivale almeno una volta ogni 3 anni. Però c'è anche chi non vuole tornare sicuramente (4%) o molto probabilmente (24%) nella località prescelta. Scelgono il sud (24%), le isole (23%) ed il centro Italia (21%) in egual misura, e sono alla ricerca di tranquillità e relax (71%), divertimento (57%) e di cibo gustoso e dei qualità (49%). A rendere speciale, invece, il loro soggiorno in Italia, che varia da una settimana (32%) ai dieci giorni (22%), sono l’amore tutto tricolore per la tradizione e la genuinità (78%), la generosità e il calore della gente (67%), l’enogastronomia (51%) e le bellezze paesaggistiche (49%). Questo è quanto emerge da uno studio promosso dalla rivista “Vie del Gusto”, diretta da Domenico Marasco e in edicola nei prossimi giorni. La ricerca è stata condotta su 1350 turisti e visitatori stranieri (maggior parte inglesi, tedeschi e statunitensi), a cui è stato chiesto un parere sulla loro vacanza in Italia e sulla località che li ospita. Alla ricerca di tranquillità, relax, divertimento e buona tavola, i turisti stranieri scelgono il Bel Paese anche più volte l’anno ma solo se ben consigliati da amici e parenti e dopo un accurato approfondimento su Internet e sulle guide turistiche. Visitato ogni anno da oltre 30milioni di turisti stranieri, il Bel Paese è sempre tra le mete preferite nel mondo: il 57% degli intervistati, infatti, dichiara di non essere in Italia per la prima volta. La durata della vacanza italiana dei turisti stranieri si aggira mediamente sulla settimana (32%) per arrivare a toccare picchi di 15 giorni (19%): la toccata e fuga del weekend è scelta dal 20%, mentre il 22% preferisce rimanere per circa 10 giorni. Se torneranno in Italia, i turisti stranieri lo faranno solamente perché spintidall’amore italiano per la tradizione e la genuinità, dal calore della gente e dalla qualità dei prodotti enogastronomici. Cosa, invece, può rovinare la vacanza italiana dei turisti stranieri? Se ben il 75% vede nell’impossibilità di dialogare e comunicare nella propria lingua un ostacolo insormontabile, sono l’inciviltà e la maleducazione dilagante (61%) e i prezzi ritenuti troppo elevati (47%) a condurli nella decisione di non visitare nuovamente la località scelta per l’estate 2010. Seguono la sporcizia e la poca cura dell’ambiente (39%) e i servizi messi a disposizione valutati assolutamente non all’altezza dei canoni odierni (36%). In secondo piano, ma comunque fondamentali per i visitatori stranieri, troviamo l’ assenza di trasporto pubblico(32%), gli orari di chiusura di musei e attrazioni (28%), la mancanza di informazioni turistiche adeguate (26%) e il caos e la confusione (17%).
GLI ITALIANI? TROPPO CAFONI IN SPIAGGIA! codacons.it il 20 Agosto 2008. GLI ITALIANI? TROPPO CAFONI IN SPIAGGIA! ECCO COME CI VEDONO GLI STRANIERI: CREDIAMO DI ESSERE I PADRONI DELLA SPIAGGIA. BASTA CON I CELLULARI ACCESI ANCHE IN RIVA AL MARE. Il Codacons ha effettuato un'inchiesta sulle spiagge italiane. Abbiamo domandato agli stranieri (donne e uomini) come considerano il comportamento degli italiani in spiaggia. E` emerso un quadro sconfortante, il cui l`italiano è apparso decisamente cafone. Il sondaggio non ha alcuna pretesa statistica, anche se numerosi sono stati gli stranieri interrogati. Il denominatore comune delle segnalazioni è che gli italiani si considerano, in pratica, i padroni della spiaggia e si comportano come se gli altri non esistessero e da noi non potessero essere disturbati in alcun modo. Peccato che non sia così! Di seguito i 10 comportamenti considerati più maleducati, in ordine di graduatoria:
1) Telefonino? Al primo posto delle lamentele degli stranieri c`è il cellulare che squilla di continuo e gli italiani che urlano al microfono facendo sapere tutti i fatti loro, anche a chi sta cercando di fare un riposino. Eppure non ci vuole molto ad escludere almeno la suoneria.
2) Rumori molesti. Per gli stranieri siamo simpatici e cordiali ma spesso parliamo anche troppo e per di più ad alta voce. Facciamo conversazione anche quando non dovremmo. Le più chiacchierone sono le donne italiane: urlano per rimproverare il figlio che non esce dall'acqua, discutono con il marito ….
3) Campo di calcio. La spiaggia non è un campo di calcio, non almeno per gli stranieri. Anche se non hanno ricevuto pallonate mentre prendevano il sole, non sono contenti dello schiamazzo che facciamo mentre giochiamo. Stesso discorso per altri giochi.
4) A tavola, si mangia. Non amano vederci banchettare con lasagne e gnocchi sulla spiaggia come se fosse un ristorante.
5) No alle invasioni. Non rispettiamo lo spazio a noi destinato. In pratica invadiamo l'ombrellone del vicino occupando il suo spazio vitale. Invadiamo i corridoi tra una fila d'ombrelloni con la sdraio, i sandali e suppellettili varie. 6) Pattumiera. Non amano vedere le cicche di sigarette o la carta del gelato sulla sabbia o peggio ancora in mare. I resti del pranzo degli italiani non sono graditi. 7) Schizzi e spruzzi. Non apprezzano gli italiani che si tuffano con dei tonfi da barile schizzandoli mentre da ore stanno cercando di adattarsi gradatamente alla temperatura dell'acqua gelata.
8) Ambulanti. Non vogliono essere disturbati da venditori ambulanti, specie se insistenti.
9) Doccia. Usiamo la doccia in spiaggia come se fosse quella di casa nostra, creando code chilometriche. La doccia al mare dovrebbe servire a sciacquarsi, non a lavarsi.
10) Sport acquatici. Siamo troppo spericolati e non rispettiamo le regole di sicurezza in materia.
· Cori razzisti.
Cori razzisti contro Kean, lite tv Giulini-Adani: "Moralista", "Sono coglioni". Il numero uno del Cagliari se l'è presa con Daniele Adani per via dei buu razzisti a Moise Kean: "State strumentalizzando tutto, non è successo niente" La risposta: "Non stiamo attaccando la squadra ma qualche coglioni." Scrive Marco Gentile, Mercoledì 03/04/2019 su Il Giornale. La Juventus ha vinto per 2-0 sul campo del Cagliari e a fine partita il Presidente Giulini ha discusso con Daniele Adani per via dei cori razzisti nei confronti di Moise Kean. Il 19enne bianconero ha segnato ed ha esultato in maniera provocatoria scatenando l'ira di parte dei tifosi sardi che hanno emesso qualche ululato nei confronti dell'attaccante della nazionale italiana. Ai microfoni di Sky Sport il numero uno del club rossoblù ha cercato di stemperare la tensione bacchettando Adani, definito moralista: "Non fate i moralisti, state strumentalizzando troppo la vicenda. Non è successo niente"
Adani a quel punto decide di rispondere a Giulini: "Non devi darmi del moralista, non sto attaccando il Cagliari ma solo alcuni coglioni. Chi fa così ai giocatori di colore dovrebbe andare fuori subito". Il numero uno del Cagliari ha poi continuato: "Kean ha sbagliato, se Bernardeschi avesse esultato nella stessa maniera avrebbe ottenuto la stessa accoglienza". Resta il fatto che Matuidi e Kean sono stati poi fischiati fino alla fine della partita dato che l'ex Psg aveva chiesto al direttore di gara di intervenire. Ora toccherà al Giudice Sportivo capire se in effetti ci saranno le condizioni per prendere provvedimenti nei confronti del club sardo.
Buu razzisti a Kean, Bonucci: «Colpa sua al 50%». Balotelli: «Leo la tua fortuna è che io non ero là». Pubblicato mercoledì, 03 aprile 2019 da Corriere.it. «Il migliore modo per rispondere al razzismo».Moise Kean sceglie la via dei social per la replica ai ‘buu’ di Cagliari postando sul suo profilo Instagram due foto: una della sua esultanza e una di Matuidi che guarda la curva cagliaritana come a chiedere di farla finita. Il post ha già raccolto 330 mila like ed è stato apprezzato trasversalmente da compagni di squadra, colleghi e tifosi. Tra gli altri, Pjanic, Cancelo, Balotelli, Benatia, Kessie, Boateng, Adjapong. E Kalidou Koulibaly, centrale di Napoli, vittima di insulti a San Siro durante la sfida con l’Inter. «Ci dà solo forza» è il suo messaggio. Ma nel popolo del web c’è qualcuno che lo bolla come “provocatore”. L’ennesima grande serata del baby bomber della Juve, quattro gol consecutivi nelle ultime quattro gare tra Nazionale e club, è stata rovinata, dunque, dai fischi e dagli ululati di una porzione, per fortuna ridotta, del pubblico sardo. Tutto è nato quando Moise ha celebrato la rete del 2-0 fermandosi a braccia aperte sotto la tribuna occupata dagli ultrà rossoblu. Un’esultanza considerata provocatoria che ha fatto riscaldare gli animi. Così sono arrivati i soliti “buu” nei confronti di Kean, ma anche di Matuidi, già vittima lo scorso anno alla Sardegna Arena (6 gennaio 2018) di insulti razzisti, tanto che ricevette le scuse del club sardo. In campo, il francese ha protestato vivacemente con l’arbitro Giacomelli, poi ha postato sui social due immagini: l’esultanza di Kean e una foto che li ritrae insieme. Con un messaggio inequivocabile: “BIANCO + NERI #NoToRacism”. Massimiliano Allegri riflette: “I giocatori non devono istigare e i tifosi non devono lasciarsi andare a atteggiamenti sbagliati. Si tratta di imbecilli che vanno cacciati dagli stadi”. Leonardo Bonucci prova a gettare acqua sul fuoco. «La colpa è al 50 e 50: Kean ha sbagliato, la curva ha sbagliato - sottolinea il difensore bianconero - . C’è stato il buu razzista ma Moise sa che quando fa gol deve pensare a esultare con la squadra e basta. E’ stato un episodio, ora guardiamo avanti». Una tesi che non è piaciuta a diversi giocatori soprattutto oltremanica. Raheem Sterling, attaccante del Manchester City spesso oggetto di insulti razzisti, su Instagram ha preso di mira proprio Bonucci sul caso Kean: «Bonucci, a colpa è 50 e 50? Tutto ciò che possiamo fare ora è ridere». Anche Paul Pogba si muove via social e si schiera a fianco di Kean e Matuidi: «Supporto ogni tipo di lotta contro il razzismo, siamo tutti uguali. Bravi italiani svegliatevi, non potete lasciare un piccolo gruppo razzista parlare per voi». Alla fine però Bonucci chiude ogni polemica con un chiarissimo post su Instagram dove si vede lui abbracciare Kean in Nazionale e con la scritta: «In ogni caso no, al razzismo». Una presa di posizione che non conforta Mario Balotelli che scrive su Instagram a Kean: Questo il suo commento apparso su un post Instagram di Kean: «Bravo! E di a Bonucci che la sua fortuna è che io non c’ero la. Al posto di difenderti che fa questo? Mah sono scioccato giuro. Tvb frate!». Tommaso Giulini, presidente del Cagliari, invece, attacca: “Non è razzismo, mi dispiace perché ho sentito troppi moralismi”. Il numero uno dei sardi, che ha avuto un battibecco sul tema a Sky con il commentatore Daniele Adani, aggiunge: «Se avesse segnato Bernardeschi sarebbe successa la stessa cosa. Fino al gol non era successo niente. Non strumentalizzate l’episodio. Kean ha sbagliato e me lo hanno detto anche i giocatori della Juve. Il Cagliari rifiuta le accuse di razzismo. Io ho sentito soprattutto dei fischi, sarebbero arrivati ugualmente a tutti gli altri giocatori. Se ci sono stati degli ululati sono da condannare».
Da gazzetta.it del 3 aprile 2019. Il caso (forse) è chiuso. L’esultanza di Kean a Cagliari e le parole di Bonucci avevano alzato un polverone che aveva finito per far discutere anche in Inghilterra. L’ultima puntata, per ripulire il campo da ogni dubbio, l’ha siglata il difensore juventino che in risposta alle polemiche ha pubblicato una storia per dire “no al razzismo, a prescindere da tutto il resto”. Nella foto un abbraccio tra lui e Kean mentre vestono l’azzurro in occasione delle ultime due sfide con la Nazionale di Mancini. Dopo essere stato preso di mira dai tifosi del Cagliari, martedì sera Kean ha segnato e poi ha allargato le braccia all’indirizzo della Curva Nord, occupata dai tifosi di casa. Il gesto ha fatto salire ulteriormente la tensione, i compagni hanno provato a smorzare e tra questi lo stesso Bonucci, che ha cercato di portare via il compagno di squadra e poi lo ha bacchettato nel dopo gara: “La colpa è al 50 e 50. Kean ha sbagliato, la curva ha sbagliato - ha dichiarato -. Kean sa che quando si fa gol deve pensare a esultare con la squadra e basta, abbracciarci tutti insieme. È stato un episodio e sa anche lui che poteva fare qualcosa di diverso”. Lo stesso difensore nella notte aveva postato su Instagram una foto legata alla partita, senza minimamente fare accenno al caso dei fischi e dei buu razzisti per Kean che continua a tenere banco. Nella foto pubblicata Bonucci aveva scritto: “Felice di aver festeggiato con un gol la 250ª presenza in Serie A con la maglia della Juve, la corsa continua”. Tantissimi tifosi, anche juventini, gli avevano però rimproverato sui social di essere stato troppo severo con il compagno di squadra e di non averlo minimamente difeso. Da qualcuno è anche partita la risposta "razzista" (come se non difendendo il compagno di squadra potesse essere lui stesso il razzista...). Dall’Inghilterra, dove a sua volta è stato protagonista di casi di razzismo, si era fatto sentire addirittura Raheem Sterling che in una storia aveva taggato Bonucci e commentato: “La colpa è 50-50? Non rimane che ridere”. Poi a metà giornata è arrivata la nuova puntata, con la storia su Instagram di Bonucci che punta a far chiudere il caso una volta per tutte. Chissà se basterà.
Calcio e razzismo, basta parole: si può bandire i violenti dagli stadi. Il caso Kean ennesima brutta figura. Dall'estate 2017 la Figc e il Viminale hanno un'intesa che permette ai club di negare l'accesso ai violenti, scrive Giovanni Capuano il 3 aprile 2019 su Panorama. C'è solo una cosa più insopportabile del vedere un ragazzo di colore inseguito da ululati a sfondo razzista in uno stadio di calcio nell'anno 2019. E' il dibattito che segue da episodi come quello di Moise Kean a Cagliari ed è sentire addetti ai lavori e protagonisti che si rimpallano responsabilità e ricette in un lungo e inutile rincorrersi, senza si arrivi mai al punto centrale della questione e cioé che nell'anno di grazia 2019 i razzisti dovrebbero essere banditi dagli stadi. Un argomentare sterile, dove in fondo ognuno sostiene che sia sempre colpa di qualcun'altro. Di chi ha provocato, di chi l'ha fatto la volta prima, di chi l'ha rilevato o si è dimenticato di farlo. Della giustizia che ha sanzionato e di quella che non è intervenuta. Mai nessuno che alzi la mano per dichiararsi pronto a cambiare le cose. Come? Semplicemente utilizzando gli strumenti che già esistono, senza evocare modelli lontani e avanzati, così avanzati dal finire per essere irraggiungibili. Dall'agosto 2017 le società hanno a disposizione il codice etico per condizionare l'ammissione all'interno dei propri impianti. E' il frutto di un protocollo d'intesa sottoscritto dall'allora Ministro dell'Interno Minniti, quello dello Sport Lotti, il Coni e la Federcalcio. Prevede in sostanza che i club si possano tutelare sospendendo o ritirando il gradimento di un singolo tifoso che abbia violato una delle prescrizioni previste dal codice. Il razzismo, ovviamente, fa parte di questo. Le società si sono dovute dotare del codice etico. Molte inseriscono le norme all'interno del regolamento d'uso dei propri stadi, altre le vincolano alla sottoscrizione degli abbonamenti o all'acquisto dei biglietti. In linea di massima tutte prevedono la possibilità di bandire i responsabili dall'impianto. Quando un presidente o un allenatore dice che "i razzisti vanno cacciati" dovrebbe concludere la frase spiegando cosa ha fatto in casa propria. Senza aspettare che sia qualcun'altro a dare l'esempio. Un passaggio obbligato per evitare lo sterile dibattito del giorno dopo, che parte sempre dalla stessa condanna e arriva sempre alla stessa conclusione: nulla. Si dirà che non si possono scaricare sulle società le responsabilità di identificare i singoli confusi in mezzo alla massa. Falso. Non è accettabile che un settore economico dal valore di oltre 3 miliardi di euro qual è il calcio di Serie A non si possa permettere di investire 300-400mila euro per ciascun impianto così da dotarsi di sistemi di telecamere di ultima generazione. Che,in realtà, già esistono in molti impianti. Il problema è proprio culturale. Invece che spellarsi le mani nell'applaudire i colleghi inglesi che inquadrano, identificano e cacciano per sempre chi fa un gesto sconveniente o lancia in campo una banana, che i nostri presidenti badino al concreto e si rimbocchino le mani. Gli strumenti normativi ci sono. Se devono essere integrati c'è sempre tempo, mentre quello che è mancato drammaticamente fino ad adesso è qualcuno che abbia avuto il coraggio di punirne uno per educarne cento.
Buu razzisti verso Kean, Thuram duro su Bonucci: "Deve vergognarsi". L'ex difensore di Parma e Juve stigmatizza il commento su quanto avvenuto a Cagliari del nazionale azzurro che poi ha corretto il tiro: "Bonucci non dice ai tifosi che hanno torto ma che se l'è cercata il compagno, qualcosa che in molti pensano: i neri si meritano ciò che capita loro. È come quando una donna viene stuprata e si parla del modo in cui era vestita" il 04 aprile 2019 su La Repubblica. Non accenna a placarsi la polemica attorno alle parole del difensore della Juventus, Leonardo Bonucci, in relazione ai 'buu' razzisti ai danni del compagno di squadra Moise Kean a Cagliari, martedì sera nel corso della gara di campionato. A stigmatizzare le affermazioni del centrale bianconero è Lilian Thuram, ex difensore di Parma e Juve dal 2001 al 2006, intervistato da 'Le Parisien'. "Bonucci dice qualcosa che in molti pensano: i neri si meritano ciò che capita loro - afferma Thuram dalle colonne del quotidiano francese -. La domanda giusta da fare a Bonucci invece sarebbe: 'cosa ha fatto Kean per meritarsi tanto disprezzo?' Bonucci non dice mai ai tifosi che hanno torto, ma a Kean che se l'è cercata. La reazione di Bonucci è violenta come quei buu. È come quando una donna viene stuprata e c'è chi parla del modo in cui era vestita. È a causa di gente così che non si fanno avanzare le cose. Bonucci non è stupido, ma ha una certa idea della società e i suoi propositi sono solo vergognosi. Bisogna essere chiari sul razzismo. Quei 'buu' rappresentano il disprezzo verso tutte le persone, compresi i bambini, che hanno il colore della pelle di Kean. A Kean e alle persone nere voglio dire di essere fieri e esigere rispetto da gente come Bonucci che vorrebbero curvassero la schiena".
Bonucci fa dietrofront: ''Condanno ogni discriminazione''. A poco sembra servire anche la precisazione fornita mercoledì dal numero 19 bianconero, che era tornato sull'argomento chiarendo il suo pensiero. "Ho parlato alla fine della partita e mi sono espresso in modo evidentemente troppo sbrigativo - il tentativo di dietrofront di Bonucci - che è stato male interpretato su un argomento per il quale non basterebbero ore e per il quale si lotta da anni. Condanno ogni forma di razzismo e discriminazione". A innescare la polemica era stata una frase del difensore della Nazionle al termine dell'incontro: "C'è stato il buu razzista dopo l'esultanza di Kean e Matuidi si è arrabbiato, ma credo che la colpa sia 50 e 50. Kean ha sbagliato e la curva ha sbagliato. Detto questo, sappiamo che noi dobbiamo essere d'esempio e guardare avanti, perché dobbiamo crescere tutti quanti, noi giocatori, come sistema calcio, anche in queste cose".
Thuram: "Fermare le gare? Solo ipocrisia nel calcio''. Thuram allora se la prende anche con istituzioni e con la Juve. "Ogni volta tutti dicono che la prossima volta la partita sarà sospesa, ma non succede mai. Constato che le istanze del calcio se ne fregano. C'è solo ipocrisia e va avanti da anni. Se fosse davvero stato un problema, la gara sarebbe stata fermata - sottolinea l'ex calciatore francese - La squadra avrebbe dovuto lasciare il campo e una soluzione si sarebbe trovata. I giocatori che non subiscono razzismo devono essere totalmente solidali con i loro compagni presi di mira. Bisogna capire che quando un giocatore subisce tale violenza, quest'ultima si ripercuote su milioni di persone. Bisogna chiarire che non si può andare avanti così, che la partita non la si gioca. Ma il calcio è un business, dunque nulla sarà fatto dalle istituzioni che non hanno mai colto l'occasione per intervenire". L'ex difensore riconosce che si tratta di un problema non solo del calcio italiano, ma molto più ampio. "Il razzismo non è limitato agli stadi o all'Italia. Sterling ha avuto lo stesso problema altrove", il riferimento ai cori razzisti contro l'attaccante inglese in Montenegro.
Cori razzisti, il padre di Kean: "Succede quando un nero va in nazionale. Capitò anche a Balotelli". Critiche a Bonucci per quanto avvenuto a Cagliari arrivano anche da Biorou Jean Kean, padre di Moise. "In Africa quando allarghi le braccia vuol dire 'che cosa ho fatto?'. E' quello che ha fatto lui. Non voleva provocare, è un ragazzo educato, gli piace ballare e scherzare con la gente - ha dichiarato ai microfoni di 'Circo Massimo' su Radio Capital - A volte nel calcio c'è razzismo. Con Balotelli hanno fatto la stessa cosa, e oggi lui è animato da uno spirito di rabbia ovunque vada. Questo non è un buon segno, così si può influenzare negativamente la carriera di un calciatore. Questo atteggiamento di razzismo nasce quando un giocatore di colore va in nazionale. Prima non lo facevano". Ma vedere Moise in azzurro, dice il papà, "è stata una gioia. Era il suo sogno. Ora in famiglia aspettiamo il Pallone d'Oro". Bonucci, dopo la partita, ha diviso le responsabilità fra il giocatore e la curva: "Ha sbagliato, ha detto una stupidaggine - attacca Jean Kean - Quello che è successo non mi è piaciuto per niente. A Moise ho detto di stare tranquillo, anche questo fa parte del percorso di un campione". Il padre dello juventino, però, è indulgente con i tifosi sardi: "Secondo me lo stadio del Cagliari non va chiuso. Dico di perdonarli".
Roberto Mancini su Moise Kean: "Dei buu non se ne può più". Ma su quell'esultanza a Cagliari..., scrive il 4 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Certo l'esultanza non è stata il massimo. Ma dei "buuu" razzisti "non se ne può più. Così Roberto Mancini si schiera in difesa del baby-gioiello bianconero, Moise Kean. "L’atteggiamento usato contro Kean è insopportabile - premette il Ct della Nazionale -. Bisogna stigmatizzare i buu razzisti, non se ne può più". Il Ct azzurro e ambasciatore Unicef, parlando degli ululati razzisti all’attaccante della nella gara contro il Cagliari, ha poi aggiunto: "Serve prendere posizione, agire anche duramente, affinché queste cose finiscano". Sull’esultanza del giocatore, Mancini ha poi aggiunto: "È un ragazzo e magari la prossima volta probabilmente non lo farà, però magari si è sentito in difficoltà".
"BONUCCI HA DETTO UNA STUPIDAGGINE”. Da Circo Massimo - Radio Capital il 4 aprile 2019. Braccia allargate, poi i fischi e i buuu. Dopo il gol contro il Cagliari nella partita di martedì, l'attaccante della Juventus Moise Kean è stato beccato dal pubblico della Sardegna Arena, anche con buu razzisti. "In Africa quando allarghi le braccia vuol dire 'che cosa ho fatto?'. È quello che ha fatto lui. Non voleva provocare, è un ragazzo educato, gli piace ballare e scherzare con la gente", dice Biorou Jean Kean, il padre dell'attaccante, a Circo Massimo, su Radio Capital, "A volte nel calcio c'è razzismo. Con Balotelli hanno fatto la stessa cosa, e oggi lui è animato da uno spirito di rabbia ovunque vada. Questo non è un buon segno, così si può influenzare negativamente la carriera di un calciatore", continua, "Questo atteggiamento di razzismo nasce quando un giocatore di colore va in nazionale. Prima non lo facevano". Ma vedere Moise in azzurro, dice Jean Kean, "è stata una gioia. Era il suo sogno. Ora in famiglia aspettiamo il Pallone d'Oro". Il capitano juventino Bonucci, dopo la partita, ha diviso le responsabilità fra il giocatore e la curva: "Ha sbagliato, ha detto una stupidaggine", attacca Jean Kean, "Non è normale che dica certe cose da capitano, dovrebbe difendere i suoi giocatori. Quello che è successo non mi è piaciuto per niente. A Moise ho detto di stare tranquillo, anche questo fa parte del percorso di un campione". Il padre dello juventino, però, è indulgente con i tifosi sardi: "Secondo me lo stadio del Cagliari non va chiuso. Dico di perdonarli". Il ventenne ha detto che se è l'uomo che è oggi lo deve a sua madre: "Questi sono problemi di famiglia, ma io e mio figlio abbiamo un buon rapporto". E quei famosi trattori promessi dalla Juventus? "Ho chiesto alla società di aiutarmi, quando mio figlio sarà grande: voglio dare una mano ai miei parenti che vivono in Costa d'Avorio, lì abbiamo duemila ettari di terreni". Kean padre, di origini ivoriane, è candidato con la Lega alle elezioni comunali di Fossano, in provincia di Cuneo. E difende la linea di Matteo Salvini: "Il mio capitano Matteo Salvini è un angelo mandato da Dio a salvare la gente di colore. La gente non ha capito niente di quello che dice Salvini: se vengono qui in Italia e gli si dà 35 euro al giorno, domani cosa sarà del loro futuro? Lui vuole difendere dal gente di colore. Da quando è diventato ministro dell'interno non ci sono più navi che affondano". E le ONG? "Sono una mafia. Lavorano per soldi, e non va bene. Le navi dovrebbero tornare indietro. Non c'è più spazio. Devono tornare a casa loro. L'Italia non è un paradiso".
“LA JUVE DEVE DUE TRATTORI A MIO PADRE? CHIEDETE A LUI. Da Un Giorno da Pecora il 3 aprile 2019. ”I buu razzisti contro mio fratello a Cagliari dopo il gol? L'unica cosa che gli ho detto è che di persone ignoranti ce ne sono ancora, non passiamo farci nulla. Lui deve pensare a quel che sta facendo e fregarsene. Moise caratterialmente è forte: più gli succedono queste cose e più si carica”. Lo dice a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Giovanni Kean, fratello del bomber juventino Moise, che oggi è stato intervistato da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. Moise è andato ad esultare sotto la curva cagliaritana, e il Presidente rossoblu ha detto che sarebbe successa la stessa anche se al posto di Moise ci fosse stato Bernardeschi. “Non penso che avrebbero ululato anche a Bernardeschi”. Suo fratello ci è rimasto male? “ No, è brutto dirlo ma su un campo da calcio siamo abituati ormai ad avere certi atteggiamenti. Non ci piangiamo addosso e troviamo la forza di reagire, come ha fatto mio fratello segnando". Qual è il soprannome che avete tra fratelli? “Io lo chiamo Momo oppure ‘nero’, e lui, ogni tanto, mi chiama ‘negraceo’”. Lei per chi fa il tifo? “Io sono juventino”. E suo fratello? “E' sempre stato milanista”, ha detto a Rai Radio1 Giovanni Kean. Moise ha un taglio di capelli molto particolare. Le piace? “Ogni tanto lo prendo per il culo, con quei dread...io lo vedrei bene coi capelli rasati, semplici”. A gennaio, in effetti, stava andando al Milan...”Così dicono”. Dove le piacerebbe giocasse in futuro, magari in club come Real Madrid e il Barcellona? “Ora come ora non ci sono squadre come la Juve, la Juve è la Juve anche se Real e Barca sono molto blasonate”. E le piacerebbe vederlo giocare con Mario Balotelli? “Certo”. Suo padre Birou ha detto che la Juve gli doveva dare due trattori. “Ogni giorno mi dico che le ho viste tutte ma c'è sempre gente che mi stupisce. Chiedete a lui...”, ha concluso Giovanni a Un Giorno da Pecora.
Caso Kean, Bonucci accetta le accuse di calciatori e giornali: «Sono stato sbrigativo, condanno il razzismo». Pubblicato giovedì, 04 aprile 2019 da Corriere.it. «Dopo 24 ore desidero chiarire il mio pensiero. Ieri sera ho parlato alla fine della partita e mi sono espresso in modo evidentemente troppo sbrigativo, che è stato male interpretato su un argomento per il quale non basterebbero ore e per il quale si lotta da anni. Condanno ogni forma di razzismo e discriminazione. Certi atteggiamenti sono sempre ingiustificabili e su questo non ci possono essere fraintendimenti». Leonardo Bonucci si scusa: poche righe per chiudere una giornata decisamente difficile. Dopo un mercoledì complicato, in cui ha ricevuto accuse da ogni latitudine - da parte di colleghi e di tifosi, dal popolo del web -, il difensore della Juventus fa marcia indietro e prova a far luce sui giudizi espressi sui buu razzisti con cui una parte (per fortuna modesta) del pubblico di Cagliari ha insultato il suo compagno di squadra Moise Kean. “La colpa è al 50 e 50 - aveva detto -: Kean ha sbagliato, la curva ha sbagliato. C’è stato il buu razzista ma Moise sa che quando fa gol deve pensare a esultare con la squadra e basta”. Parole che in molti non hanno apprezzato, innanzitutto diversi colleghi come Sterling del Manchester City (che in carriera ha subito diversi episodi di razzismo), Depay del Lione, Yayà Tourè (“Se fosse mio compagno, gliele suonerei”) e Mario Balotelli, che aveva infatti scritto a Kean un messaggio forte: “Dì a Bonucci che la sua fortuna è che io non c’ero là. Al posto di difenderti che fa questo? Mah, sono scioccato giuro”. Il ragionamento, comune a molti, è che Bonucci non avrebbe difeso a dovere il compagno di squadra. “Il razzismo non è mai 50 e 50” è stato il rimprovero più gettonato. Diverse stoccate sono arrivate anche dalla stampa straniera. Il New York Times ha ripercorso la vicenda sottolineando come Kean sia stato «criticato da un compagno di squadra, e dal suo allenatore, che lo hanno incolpato di aver provocato» i tifosi avversari. Da Oltremanica, il Guardian ha piazzato l’affondo: «Le parole di Bonucci fanno pensare che sia difficile essere ottimisti sul calcio italiano». E ha aggiunto: “In campo sono accadute scene tristi che sono state aggravate dalle parole di Bonucci. Lasciando in un angolo l’ipocrisia di questo commento da parte di un giocatore che dopo i gol invita a sciacquarsi la bocca, è stato un atto incredibilmente sconsiderato. Bonucci ha detto di non aver sentito ululati prima del gol. Pure se non ce ne fossero stati, da quando la celebrazione giustifica l’abuso razzista?». Troppo, dunque, per Bonucci, per limitarsi al «no al razzismo, indipendentemente da tutto» pubblicato nel pomeriggio di ieri, corredato da una foto che lo ritrae abbracciato a Kean mentre giocano con la maglia azzurra della Nazionale. Come primo tentativo di correggere il tiro non era evidentemente sufficiente. Così, in tarda serata, è arrivata la definitiva inversione di rotta. Il difensore sottolinea di essersi «espresso in modo evidentemente troppo sbrigativo», di essere stato «male interpretato su un argomento per il quale non basterebbero ore e per il quale si lotta da anni». Ribadendo con forza la condanna di «ogni forma di razzismo e discriminazione». L’eco mediatico della tesi di Bonucci però non si ferma. Lilian Thuram, ex difensore juventino, dalle colonne di Le Parisien, attacca: “E’ vergognoso dire che Kean se l’è cercata. Bonucci dice qualcosa che in molti pensano: i neri si meritano ciò che capita loro. La domanda giusta da fare a Bonucci invece sarebbe: cosa ha fatto Kean per meritarsi tanto disprezzo? Leonardo non dice mai ai tifosi che hanno torto, ma a Kean che se l’è cercata. È come quando una donna viene stuprata e c’è chi parla del modo in cui era vestita. È a causa di gente così che non si fanno avanzare le cose”. E rincara: “Bonucci non è stupido, ma ha una certa idea della società e i suoi propositi sono solo vergognosi. Bisogna essere chiari sul razzismo. Quei ‘buu’ rappresentano il disprezzo verso tutte le persone, compresi i bambini, che hanno il colore della pelle di Kean. A Kean e alle persone nere voglio dire di essere fieri ed esigere rispetto da gente come Bonucci che vorrebbero curvassero la schiena”. Secondo l’ex calciatore francese, una volta sentiti i buu razzisti, “la Juve avrebbe dovuto lasciare il campo e una soluzione si sarebbe trovata”; questo perché “i giocatori che non subiscono razzismo devono essere totalmente solidali con i loro compagni presi di mira”.
Odio, morti, razzismo: è la guerra del calcio. Giornata da cani a Milano prima di Inter-Napoli. Muore un tifoso, feriti e arresti, scrive Errico Novi il 28 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". In una fredda mattina di dicembre l’Italia si sveglia con un altro morto del calcio. Si chiamava Daniele Belardinelli. Aveva 39 anni, era un capo ultras del Varese e aveva “atteso”, insieme con gli amici della curva nerazzurra, i tifosi del Napoli mercoledì sera, prima che iniziasse la gara fra Inter e Napoli a San Siro. Lo ha travolto un suv, proprio mentre il gruppo di violenti dava l’assalto a una carovana di partenopei, in arrivo a bordo di auto e pulmini. È la tragedia che rende tremenda una vera e propria crisi di sistema, impazzita in mille traiettorie tutte originate dalla notte di Milano. In pochi minuti: l’assalto dei teppisti in cui muore Belardinelli, tra i leader del gruppo ultras di Varese Blood & Honour, di simpatie fasciste; poi gli ululati razzisti al difensore del Napoli Kalidou Koulibaly, splendido atleta 27 enne di colore, nato in Francia ma senegalese per famiglia e per scelta; quindi la partita che degenera anche perché all’arbitro, Mazzoleni, non viene in mente di sospenderla, e dunque la rabbia dei giocatori del Napoli, dello stesso Koulibaly che applaude il direttore di gara e viene perciò espulso, del capitano Lorenzo Insigne che urla insulti a partita finita ( e persa 1 a 0 dal suo Napoli). Fino alle polemiche di ieri, alle promesse del ministro Salvini e del presidente Figc Gravina di un calcio ripulito dai violenti, la giornata di serie A prevista per domani e confermata nonostante il tifoso deceduto e gli appelli a fermare tutto. Una partita, una notte tragica, spalanca le porte di un incubo.
IL SISTEMA CALCIO CHE PERDE LA TESTA. La reazione del sistema, sportivo e politico, è nervosa. «Non ci fermiamo, la serie A andrà in campo», annuncia appunto il presidente della Figc Gabriele Gravina. Che dichiara l’ennesima guerra ai violenti e ai razzisti. «Chiederò al prossimo consiglio federale norme più chiare che consentano di sospendere le partite in caso di cori discriminatori», assicura. E dice anche di voler sentire il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Ma proprio il leader della Lega dice di voler «lasciare al calcio l’autonomia della decisione» in caso di ululati contro i giocatori di colore. Sono ore concitate, in cui arriva intanto la decisione del giudice sportivo: due giornate a porte chiuse per l’Iter, con il divieto di accesso previsto per la sola curva Nord, quella degli ultras nerazzurri, nella terza delle prossime gare casalinghe. Ma c’è anche la paradossale squalifica di Koulibaly: due giornate, una per il fallo da ammonizione commesso sull’interista Politano e l’altro per l’applauso polemico rivolto all’arbitro Mazzoleni un istante dopo. Il forte difensore francese di origini senegalesi posta uno splendido messaggio in cui si dice fiero del colore della propria pelle e di essere «francese, senegalese, napoletano: uomo». Ma non gli vale la “grazia” in ambito sportivo. Non ce n’è neppure per il capitano dei partenopei, Lorenzo Insigne: due giornate anche per lui. Inviperito l’allenatore degli azzurri, Carlo Ancelotti: «Avevamo segnalato tre volte alla Procura federale gli ululati razzisti, la prossima volta saremo noi a uscire dal campo». E proprio la dichiarazione di Ancelotti svela la terribile fragilità del sistema. Perché anziché mettere al primo posto la battaglia contro le discriminazioni, ancora il capo della Federcalcio Gravina se n’esce con una paternale senza senso: «Il risultato sarebbe negativo per quella squadra, se non vengono rispettate le procedure previste dalle regole: capisco tutto, capisco l’esigenza di dare tutela alla dignità degli uomini e la volontà di evitare queste pagine negative del mondo del calcio, ma non dimentichiamo che esistono le regole, dobbiamo migliorarle e pretenderne l’applicazione». Insomma Gravina è, come dire, comprensivo sulla questioncella della dignità umana, ma non al punto da metterla al primo posto.
LO STADIO SVELA LA VIOLENZA DIFFUSA. E la sceneggiata del calcio non risparmia neppure il presidente degli arbitri. Nicchi. Al procuratore federale Pecoraro che dichiara di ritenere «giusta la sospensione di Inter- Napoli», il capo dell’Aia suggerisce di «fare il procuratore» perché «alla sospensione delle partite ci pensiamo noi», cioè gli arbitri, «e i responsabili dell’ordine pubblico». Che infatti mercoledì hanno consentito il becerume di San Siro, finché a Koulibaly sono saltati i nervi, con la beffa capolavoro dell’espulsione (probabilmente decisiva per la sconfitta del Napoli). Spettacolo indegno quasi quanto quello offerto dai teppisti. E qui ad essere chiamata in causa è anche la politica. Salvini dice di voler convocare al Viminale non solo i club di serie A ma anche «i capi delle tifoserie», perché non si può morire «mentre si va a una partita» e i violenti devono essere tenuti fuori. Originale e forse persino apprezzabile idea di “concertazione” applicata alla violenza negli stadi. Ma per esempio, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti è un po’ più drastico del leader e prefigura «la chiusura degli stadi in cui si verificano episodi di razzismo». Intanto il questore di Milano Cadorna sciorina il bollettino del mercoledì nero: tre arresti, nove Daspo pronti ad essere affibbiati ad altrettanti ultras dell’Inter, «una risposta durissima» che arriva grazie ai filmati. La banda di scalmanati dell’Inter si era alleata con gli ultras neofascisti del Varese, tra cui il povero Belardinelli, con 2 Daspo alle spalle, e quelli del Nizza, che cercavano «vendetta» contro i napoletani. A due chilometri da San Siro l’assalto della triplice alleanza alla carovana partenopea. Poi il Suv che arriva dall’altra corsia e travolge il 35enne tifoso arrivato da Varese. Su tutto, il contrasto in apparenza insensato fra i dati degli incidenti negli stadi, calati nei primi 3 mesi di campionato addirittura del 50%, e l’esplosione improvvisa del becerume bestiale, fuori e dentro il Meazza. Come se i rigurgiti vilenti e razzisti covati da una parte della società si liberassero in quella dimensione affrancata dalle regole che il tifo calcistico ancora rappresenta. Una rivelazione inquietante, che costringe ora calcio e politica a contromisure proprio per quell’universo rabbioso che i fatti di mercoledì paiono aver improvvisamente portato alla luce.
Cori contro i napoletani, multa di 20mila euro al Milan. La decisione del giudice sportivo per "un coro insultante di matrice territoriale", scrive l'1 febbraio 2019 La Repubblica. Il giudice sportivo della Lega di Serie A, Alessandro Zampone, in relazione alle partite valide per i quarti di finale della Coppa Italia, disputate fra martedì e ieri, ha inflitto al Milan un'ammenda di 20 mila euro per avere "i suoi sostenitori, prima dell'inizio della partita", contro il Napoli e "durante la stessa, precisamente al 9' e al 48' del secondo tempo, intonato un coro insultante di matrice territoriale". Multata anche l'Atalanta, ma di 5 mila euro, per avere "i suoi sostenitori, prima dell'inizio della partita", contro la Juventus "lanciato un fumogeno sul terreno di gioco e uno nel recinto di gioco". La sanzione "è stata attenuata per avere la società concretamente operato con le forze dell'ordine a fini preventivi e di vigilanza". (ANSA).
Cori razzisti negli stadi. Cosa prevedono le nuove norme. Quando si potrà sospendere una gara, chi decide, cosa rischia la società responsabile. Cosa prevede la normativa contro il razzismo nel calcio, scrive Giovanni Capuano l'1 febbraio 2019 su Panorama. La notte di Santo Stefano a San Siro con i buu razzisti verso Koulibaly e la successiva chiusura dello stadio per due giornate, ha convinto la Figc a riscrivere le norme sulla discriminazione nel corso delle partite. Uno snellimento delle procedure per evitare il ripetersi delle polemiche di Inter-Napoli, con l'accusa al direttore di gara di non aver avuto polso e sensibilità per sospendere la gara in presenza di un comportamento chiaramente discriminatorio. Le nuove norme entrano in vigore con la 22° giornata del campionato di Serie A. Prevedono un'accelerazione della procedura di interruzione e sospensione delle partite (attenzione alla differenziazione nell'uso dei due termini) e un chiarimento definitivo delle responsabilità tra arbitro, ispettori della Figc e responsabile dell'ordine pubblico. Cosa accade, dunque, in presenza di cori razzisti o di discriminazione territoriale (e non solo) in uno stadio italiano? Ecco una guida alle nuove norme della Figc: Ecco come è stato modificato l'articolo 62 delle norme Figc.
Quali sono definiti comportamenti discriminatori? Per comportamenti discriminatori sanzionabili si intendono striscioni, scritte, simboli, cori, grida ed ogni altra manifestazione espressiva di discriminazione per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine territoriale o etnica. Dunque non solo i cosiddetti buu razzisti, ma anche tutto ciò che viene classificato come discriminazione territoriale.
Chi ha il compito di rilevare la presenza di striscioni o cori? La responsabilità dell'individuazione di cori o striscioni discriminanti è demandata al responsabile dell'ordine pubblico designato dal Ministero dell'Interno (un funzionario della Questura) e ai collaboratori della Procura Figc presenti nello stadio. In loro assenza spetta anche al delegato della Lega Serie A.
Chi decide se e come sospendere una partita? La sospensione temporanea o definitiva di una partita (o il ritardato inizio di essa) viene ordinato dal responsabile dell'ordine pubblico all'arbitro. E' l'uomo delegato all'ordine pubblico a decidere se e come una partita può riprendere: nessun altro può sostituirsi a lui in questa funzione, in nessuno dei passaggi della procedura anti-discriminazione della Figc.
Qual è il ruolo dell'arbitro? L'arbitro viene sgravato dalla responsabilità di essere colui che rileva la presenza di comportamenti discriminatori. Ha la facoltà di segnalarli nel caso se ne accorgesse in prima persona. Su ordine del responsabile dell'ordine pubblico ordina la sospensione temporanea e la eventuale ripresa di una partita, gestendo insindacabilmente la fase sospensiva (giocatori in campo o rientro negli spogliatoi). In caso di assenza del responsabile dell'ordine pubblico, dei collaboratori della Procura Figc e del delegato della Lega assume su di sé le loro mansioni ma può (in linea teorica) anche non dare inizio alla gara in caso di completa assenza di responsabili al mantenimento dell'ordine pubblico. E' evidente che si tratti di una fattispecie quasi impossibile in uno stadio professionistico.
Cosa succede se prima della partita ci sono comportamenti discriminatori? In presenza di cori o striscioni prima dell'inizio della gara, il responsabile dell'ordine pubblico per iniziativa propria o su segnalazione dei collaboratori della Procura Figc ordina all'arbitro di non dare inizio alla gara. Il pubblico sarà informato sui motivi attraverso annunci e la partita potrà cominciare solo su ordine dello stesso responsabile.
Cosa succede se si verificano una prima volta in partita? L'arbitro dispone l'interruzione temporanea e i calciatori si radunano al centro del campo. Il pubblico viene informato su quanto sta accadendo mediante annunci ad ampia diffusione. In caso di maltempo e di sospensione prolungata l'arbitro può decidere di far rientrare le squadre negli spogliatoi. La partita potrà riprendere solo su ordine del responsabile delegato dal Ministero dell'Interno.
Cosa succede se si verificano nuovamente comportamenti discriminatori? Il responsabile dell'ordine pubblico ordina all'arbitro la sospensione e i calciatori, su indicazione del direttore di gara, si radunano al centro del campo. Il pubblico viene informato su quanto sta accadendo mediante annunci ad ampia diffusione. In caso di maltempo e di sospensione prolungata l'arbitro può decidere di far rientrare le squadre negli spogliatoi. La partita potrà riprendere esclusivamente su ordine del responsabile delegato dal Ministero dell'Interno.
Si può arrivare alla sospensione definitiva della partita? Sì. Il non inizio, l'interruzione temporanea e la sospensione di una gara non possono prolungarsi oltre i 45 minuti. Trascorso questo tempo l'arbitro dichiarerà chiusa la partita e riporterà quanto accaduto nel referto da inviare agli Organi di Giustizia Sportiva.
Cosa succede in caso di sospensione definitiva di una partita?
Le sanzioni sono quelle previste dall'articolo 17 del Codice di Giustizia Sportiva e portano alla sconfitta a tavolino della società ritenuta responsabile anche in oggettivamente di fatti o situazioni che abbiano influito sul regolare svolgimento di una gara o ne abbiano impedito la regolare effettuazione.
La responsabilità oggettiva cambia?
No. E' un caposaldo della giustizia sportiva (non solo in Italia) e non viene modificata.
Quali sono le sanzioni in caso di interruzioni o sospensioni temporanee?
Le nuove norme prevedono lo stesso tariffario delle precedenti. In presenza di scritte o di cori con caratteristica di dimensione e percezione reale del fenomeno discriminatorio, scatteranno multe, chiusure di un singolo settore, obbligo di disputare partite a porte chiuse, squalifiche del campo a giornata o a tempo determinato fino ad arrivare - in linea teorica - all'esclusione o non ammissione al campionato. Tutto invariato, dunque, con però l'estensione anche ai comportamenti razzisti e discriminatori del sistema di esimenti e attenuanti fin qui previsto solo per gli atti violenti. Se una società avrà operato immediatamente per rimuovere le scritte o far cessare i cori e, soprattutto, se gli altri sostenitori presenti avranno chiaramente manifestato la propria dissociazione dai comportamenti discriminatori, la società potrà non rispondere degli atti discriminatori. Perché questo accada devono ricorrere congiuntamente tre delle seguenti circostanze: adozione di modelli organizzativi di prevenzione, cooperazione con le forze dell'ordine per prevenire o identificare i responsabili, azione immediata per rimuovere la discriminazione, dissociazione degli altri sostenitori e - infine - che non vi sia stata insufficiente attività di prevenzione.
“VESUVIO LAVALI COL FUOCO”. Gianluca Lengua per “il Messaggero” il 3 novembre 2019. Al minuto 68' di Roma-Napoli mentre i giallorossi erano in vantaggio 2-0 è in piena fase offensiva, l'arbitro Rocchi ha sospeso la partita perché dalla Curva Sud si è alzato il becero coro: «Vesuvio lavali col fuoco», segnalato da Koulibaly e indirizzato ai tifosi partenopei. Una decisione presa dopo che lo speaker dell'Olimpico aveva avvisato il pubblico che se fossero continuati i cori a sfondo razzista l'arbitro avrebbe potuto fermare il match. In effetti il nuovo regolamento prevede che già al primo annuncio il direttore di gara può fermare il gioco, di sua iniziativa o su suggerimento del responsabile dell'ordine pubblico designato dal ministero dell'Interno, dei collaboratori della Procura federale o, in loro assenza, del delegato della Lega Serie A. Così è stato, perché le due squadre sono state chiamate a centrocampo e ci sono rimaste per circa un minuto e mezzo durante il quale capitan Dzeko ha chiesto alla Curva di sostenere esclusivamente la squadra, senza insultare gli avversari. Rocchi lo ha ringraziato stringendogli la mano e ha fatto ricominciare la partita. Tutto è filato liscio fino al termine della gara, ma quando le squadre erano ormai negli spogliatoi qualche tifoso ha ricominciato con gli stessi cori. Cosa rischia la Roma? Si va da una multa, fino alla squalifica del settore, con sospensiva, per una giornata. Da segnalare che mentre la Curva cantava il coro di discriminazione razziale il resto dello stadio fischiava per esprimere la propria disapprovazione. In conferenza stampa Fonseca racconta come ha vissuto quel momento: «Devo dire che non avevo capito cosa fosse successo. Sono contro qualsiasi discriminazione, ma succede in molte partite e in tutto il mondo. Per me è stato più importante che il nostro capitano abbia parlato con i tifosi e loro non lo hanno più fatto». Infine, per Rocchi (di Firenze) i complimenti del suo concittadino e leader di Italia Viva, Matteo Renzi: «Conosco Gianluca Rocchi da anni - è il tweet dell'ex premier -. Fin dal settore giovanile ha sempre dimostrato di essere un grandissimo arbitro. Oggi bloccando la partita all'Olimpico per i cori contro la città di Napoli ha dimostrato a tutti di essere anche una grandissima persona».
Verona-Brescia, il momento in cui gli ululati razzisti scatenano l'ira di Balotelli. Repubblica Tv il 3 novembre 2019. Si sentono chiaramente gli ululati razzisti all'indirizzo di Mario Balotelli, in questo video amatoriale registrato sugli spalti della curva occupata dai tifosi del Verona. E' questo il momento in cui l'attaccante del Brescia scaglia il pallone in curva, all'indirizzo degli utlras razzisti, determinando la sospensione del match per alcuni minuti.
Cori razzisti a Verona: Balotelli lancia la palla contro i tifosi Match sospeso per 4’. Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 su Corriere.it. Verona-Brescia è stata interrotta per quattro minuti dopo che Mario Balotelli ha scagliato il pallone in curva e ha minacciato di andarsene dal campo, a causa degli ululati indirizzatigli dalla tifoseria veronese. «Adesso basta, non gioco più» ha urlato Balotelli. L’attaccante si è poi avviato con rabbia verso gli spogliatoi, pronto a lasciare il campo. È stato fermato da compagni e avversari. L’arbitro Mariani, dopo aver parlato con Balotelli, ha chiesto che lo speaker facesse l’annuncio di possibile sospensione del match. Il match è stato fermato per quattro minuti, mentre il pubblico gridava «Mario, Mario». Si è ripreso a giocare in un clima piuttosto teso. Il verona, già in vantaggio ha raddoppiato, ma al 40’ è stato proprio Balotelli con un gran tiro da fuori ad accorciare le distanze: non è bastato per evitare la vittoria per 2-1 del Verona. Il tecnico del Verona, Ivan Juric, contesta la ricostruzione e sostiene con forza che non ci siano stati cori razzisti. «Basta con le bugie. Si sono sentiti grandi fischi e grandi sfottò, ma non c’è stato nessun coro razzista: almeno oggi non è successo». Juric, va oltre e attacca: «I razzisti mi fanno schifo, ma in Italia ormai il clima è questo. Sono il primo a condannarli, anche perché a me che sono croato gridano zingaro di m... I razzisti mi fanno schifo e sono il primo a denunciare certe cose anche se vengono dai miei tifosi». L’allenatore del Verona però dà torto a Balotelli e al suo gesto. «Non ho paura a dirlo: non facciamo un caso dove non c’è, non diciamo cazzate. Non so perché tira via il pallone, ma il problema è suo, non mio».
Balotelli, una pallonata ai razzisti. Sente insulti, si ribella e minaccia di andarsene. Ma Verona non ci sta. Davide Pisoni, Lunedì 04/11/2019 su Il Giornale. E dire che avrebbe potuto giocare proprio nel Verona. Un'ipotesi, idea, suggestione di calciomercato che aveva avvicinato Mario Balotelli ai gialloblu la scorsa estate. Ma la piazza scaligera si era subito divisa tra pro e contro l'affare. Alla fine Balo ha scelto il «suo» Brescia. E ieri al Bentegodi si è comunque scritta una brutta pagina della rivalità. È il nono minuto della ripresa, l'azione si sviluppa nei pressi della bandierina del calcio d'angolo, sotto la curva dei tifosi di casa. Mario riceve palla, ma all'improvviso la prende in mano e con un calcio violento la spedisce verso gli spalti. L'attaccante del Brescia esce dal campo minacciando di non voler più giocare. Avversari e compagni lo convincono a desistere e a continuare la partita, sospesa per quattro minuti e ripresa dopo l'annuncio dello speaker contro i cori razzisti. Balotelli sbaglia un gol facile e subito dopo il Verona raddoppia. Super Mario però ha la forza di riaprire la gara con un capolavoro, che è anche la miglior risposta agli insulti insieme al video We Africa postato sui social dove bambini di colore lo incitano, il tutto accompagnato dal messaggio: «Il razzismo è solo ignoranza...». Ma Il presidente del Verona Setti non ci sta: «Si sta ingigantendo qualcosa che non c'è. Quando si parla di un campione come lui si dà più peso a certe situazioni. Lo prenderei anche domani nella mia squadra. Gli ho chiesto scusa, in ogni caso». L'allenatore del Verona Juric si è detto sicuro di aver sentito solo «fischi e sfottò per un grande giocatore». Il collega del Brescia Corini replica: «Mario ha detto di aver sentito qualcosa». E anche gli ispettori federali, mentre spunta un video amatoriale in cui si sentono gli ululati. Probabile che il giudice sportivo disponga un supplemento d'indagine per stabilire quanti tifosi siano stati coinvolti. Ignoranti, ma anche senza memoria. C'era un modo per mandare in tilt Balotelli e l'avevano scoperto proprio a Verona cinque anni fa quando giocava nel Milan. L'aveva raccontato lo stesso Balo: «Quel giorno al Bentegodi mi mandarono in confusione quando cominciarono a fare cori in mio favore per sfottò».
Gli ultrà dell’Hellas insistono: «Balotelli mai vero italiano». Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 da Corriere.it. Partita sospesa per quattro minuti per cori razzisti. Balotelli che scaglia il pallone in curva per protestare contro gli insulti. Il giorno dopo l’ennesimo episodio becero in uno stadio che dovrebbe accogliere solo gioco e tifo sano, e mentre arriva da ogni parte solidarietà al giocatore bresciano, gli ultrà dell’Hellas non cambiano i toni e cercando di minimizzare l’accaduto, rincarano la dose. «Balotelli, che è un giocatore finito, ha deciso ieri, spinto secondo me da qualcuno e qualcosa, a fare quella pagliacciata e a lanciare il pallone in curva» ha affermato lunedì mattina il capo ultrà dell’Hellas Verona, Luca Castellini, intervistato al «Morning show» dell’emittente veneta Radio Café sui cori razzisti al centravanti del Brescia da parte della curva del Bentegodi. «L’anno prossimo - ha proseguito Castellini - Balotelli non gioca più a calcio, andrà in televisione a fare la primadonna. Appena è stato sotto la curva del Verona ha deciso di lanciare il pallone. A Verona lui si infastidisce perché gli cantiamo ”Mario Mario” e lui preferisce essere insultato, come fanno tutti quanti. Ha infamato Verona». Interpellato dai conduttori della trasmissione che gli hanno fatto ascoltare la registrazione degli ululati, Castellini ha sostenuto che «ci sarà qualcuno che lo ha fatto, dieci persone, sette», ma ha precisato che non li escluderebbe dalla curva. «Balotelli è italiano perché ha la cittadinanza italiana ma non potrà mai essere del tutto italiano» prosegue Castellini. Alla domanda se la tifoseria veronese sia razzista, Castellini ha aggiunto che «ce l’abbiamo anche noi un “negro” in squadra, che ha segnato ieri, e tutta Verona gli ha battuto le mani». Dopo la partita il Verona ha minimizzato l’episodio, sottolineando che i presunti cori razzisti non erano stati uditi. «Noi tutti oggi, al Bentegodi, non abbiamo sentito alcunché», ha affermato il presidente Maurizio Setti, «posso solo dire che i tifosi del Verona sono particolari. Hanno un modo di `sfottere´ gli avversari carico di ironia ma il razzismo qui non esiste, da tempo, almeno da quanto ci sono io alla guida del club». Resta il fatto che gli ispettori federali avrebbero sentito i cori e i buu, anche se sarebbero stati fatti da poche decine di tifosi. Martedì sul caso si esprimerà il giudice sportivo, ma è probabile che chieda alla Procura federale un supplemento d’indagine per stabilire quanti siano stati i tifosi del Verona coinvolti. Un supplemento d’indagine fu chisto anche per i casi di Vieira (il centrocampista della Sampdoria preso di mira dai tifosi della Roma) e Dalbert (il difensore della Fiorentina `beccato´ da alcuni tifosi dell’Atalanta). Balotelli in serata ha postato un video di bambini africani che fanno il tifo per lui: «Il razzismo è solo solo ignoranza, ce ne sono tanti purtroppo di ignoranti, ma noi siamo qui per dirti che siamo tutti con te, che sei un campione e ti vogliamo bene», afferma il fondatore di `We Africa to Red Earth´, Adriano Nuzzo, che da una missione ha inviato il messaggio di sostegno al giocatore del Brescia. «Balotelli uno di noi», dice uno dei bambini del video. In un altro post ha espresso gratitudine per la generale solidarietà. «Grazie a tutti i colleghi in campo e non, per la solidarietà avuta nei miei confronti e a tutti i messaggi ricevuti da voi tifosi. Grazie di cuore, avete dimostrato di essere veri uomini, non come chi nega l’evidenza». Sempre su Instagram, il giocatore, commentando un video della curva del Verona, ha aggiunto: «Chi ha fatto il verso della Scimmia si vergogni». Comportamenti razzisti condannati con decisione dai vertici del Brescia. «Alla luce di quanto accaduto alla Stadio Bentegodi di Verona, durante la partita Hellas Verona-Brescia, valida come 11a giornata di Serie A, il Brescia Calcio stigmatizza il comportamento di alcuni tifosi della squadra di casa che si sono resi protagonisti di un comportamento indegno e incivile, ai danni del giocatore Mario Balotelli». È detto in una nota diffusa dal club bresciano nella tarda serata di domenica in riferimento a quei tifosi che hanno indirizzato cori razzisti contro Mario Balotelli. «Non meno gravi, sono apparse le dichiarazioni di alti rappresentanti manageriali della società Hellas Verona, a televisioni e organi di stampa, nel tentativo di negare o minimizzare la gravità dell’accaduto - precisa la nota della società -. Quanto accaduto dalla zona interessata del campo di gioco non è stato infatti sentito solo dai giocatori del Brescia ma anche da quelli avversari e presumibilmente anche dal direttore di gara, tenuto conto delle immagini televisive che evidenziato come compagni di squadra, avversari e terna arbitrale abbiano ripetutamente cercato di convincere Balotelli a non lasciare il campo di gioco. A conferma di questo è giunta notizia che anche gli ispettori federali presenti al Bentegodi hanno sentito i cori razzisti ai danni del nostro giocatore e pare siano intenzionati a chiedere un supplemento d’indagine alla Procura federale, dopo che il giudice sportivo si sarà espresso sulla vicenda. Il Brescia Calcio esprime tutta la sua indignazione per il fatto che, ancora oggi, possano verificarsi episodi di questo genere e di tale gravità: questo pomeriggio è accaduto a un nostro giocatore ma sarebbe potuto accadere a chiunque altro, di qualsiasi squadra e la condanna sarebbe stata egualmente ferma e decisa. Il calcio è di tutti e tutti meritano lo stesso rispetto!».
Ultrà del Verona e di Hitler: la vita di Castellini tra stadio e Forza Nuova. Le tesi filonaziste esposte in tv. Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it da Claudio Del Frate e Angiola Petronio. Capo ultrà del Verona ma anche dirigente di Forza Nuova: sono queste le coordinate pubblica di Luca Castellini, 44 anni, esponente dell’ultradestra che ha dichiarato che Mario Balotelli «non sarà mai italiano». Ricevendo una piccata replica dal calciatore. Castellini incarna la saldatura, presente in molti stadi d’Italia, tra tifo oltranzista e ideologia neonazista. Anche ieri, dopo il polverone di polemiche suscitato dalle sue parole, ha pubblicato su twitter una frase che non lascia equivoci: «sarò perseguitato e odiato dai controllori ed esecutori della commissione Segre?». Cori da ultrà e slogan xenofobi e neo fascisti si mescolano nell’immaginario di Castellini: «Siamo una squadra a forma di svastica, che bello se ci allena Rudolf Hess» dice del suo Verona. E intervistato dai microfoni di «Non è l’arena» se la cava dicendo: «E’ solo una goliardata, per noi è una cosa divertente. Hitler si è macchiato di atrocità molto meno della democrazia, di Stalin, della Chiesa. Gli ebrei hanno subito un genocidio? Eppure comandano il mondo». Un video in rete lo immortala mentre dal palco di un raduno di ù proclama: «Chi ci ha regalato questa festa ha un nome e un cognome: Adolf Hitler!». Verona è una delle città italiane dopo con maggiore virulenza si stanno manifestando sentimenti dell’ultradestra: Castellini partecipò (ma non prese la parola) anche al congresso della famiglia organizzato un anno fa, proprio nella città scaligera, dai conservatori cattolici. La sua linea politica, tuttavia, non aderisce a quella della Lega o Fratelli d’Italia. proprio in occasione del voto sulla mozione Segre in Senato aveva definito «una pagliacciata» l’astensione del centrodestra. Avrebbe preferito un no esplicito. E annuncia che sarà in piazza il 9 novembre «per rispondere all’ennesimo tentativo di imbavagliare il dissenso e la libertà di espressione degli italiani, contro ogni Ministero della verità!». Oltre che su twitter (dove lamenta la chiusura della pagine vicina all’ultradestra italiana «Il primato nazionale») Castellini è attivo anche su V-kontakt, il cosiddetto «facebook russo» grazie al quale è possibile aggirare la policy antirazzista del social di Zuckerberg. Un social molto frequentato da militanti dell’ultradestra di tutta Europa. Nel suo curriculum spiccano anche un comunicato (a nome di Forza Nuova del Nord Italia) a difesa di Luca Traini, l’esponente dell’ultradestra che ferì a colpi di pistola sei immigrati a Macerata, e anche un arresto risalente al 2003: finì in manette per un raid, compiuto con altri estremisti, ai danni del fondamentalista islamico Adel Smith avvenuta in diretta durante una trasmissione tv di un’emittente veronese. Attualmente Castellini può seguire le partite del Verona solo dalla tv: è colpito infatti da un Daspo fino al 2022. Ex portavoce della Curva Sud, ruolo da cui è stato detronizzato, mantiene però il controllo di una parte della tifoseria. «Preciso che non sono a capo di nessuna curva e che qualsiasi mia dichiarazione passata presente o futura è fatta solo e soltanto come dirigente di Forza Nuova». nella vita privata è sposato, padre di due figli e ha un diploma di ragioneria. Il temperamento del personaggio non ammette mezze misure. Anche ieri, di fronte alla replica di mario balotelli non ha perso tempo e ha replicato: «Balotelli volevi godere del black pass de “il negro ha sempre ragione”, ma tu sei più stupido che negro».
Balotelli replica al capo ultrà del Verona: «Siete dei piccoli esseri ignoranti». Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 da Corriere.it. Dopo il duro attacco del capo ultrà del Verona Luca Castellini, non si fa attendere la risposta di Mario Balotelli in merito agli insulti razzisti subiti nel corso di Verona-Brescia. «Qua amici miei non c’entra più il calcio. State insinuando a situazioni sociali e storiche più grandi di voi, piccoli esseri». Questa la risposta via Instagram di Supermario alle parole di Castellini su quanto accaduto nella sfida con il Brescia. «Qua state impazzendo, svegliatevi ignoranti, siete la rovina. Però quando Mario faceva e vi garantisco farà ancora gol per l’Italia, vi stava bene, vero? Le “persone” così vanno radiate dalla società, non solo dal calcio -aggiunge nel suo post social Balo -. Basta mandar giù ora. Basta lasciar stare. Basta. Basta». Le parole di Balotelli rinfocolano la polemica che ormai prosegue da domenica sulla quale intervengono anche fonti della procura della Figc che riferiscono all’Ansa: «Erano venti a far buuh e ululati razzisti, il resto della curva veronese applaudiva invece Balotelli». Sarebbe questa la percezione avuta dagli inquirenti sportivi della contestazione discriminatoria nei confronti dell’attaccante del Brescia. E sarebbe quindi questa la comunicazione avuta dal giudice sportivo chiamato a decidere sulla vicenda.
Cori contro Balotelli, Salvini: "Un operaio Ilva vale 10 volte più di lui. Non abbiamo bisogno di fenomeni". Anche il sindaco di Verona Sboarina e l'ex ministro Fontana minimizzano: "Gogna mediatica". Le condanne arrivano da Pd, M5S, Iv, Leu. Il vicepresidente dell'Uefa: "La responsabilità è anche dei politici". Meloni: "Si devono prendere provvedimenti, se gli insulti ci sono stati". La Repubblica il 04 novembre 2019. È intervenuto anche il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti, per condannare quello che è successo ieri allo stadio Bentegodi, con i cori e le urla contro Mario Balotelli. "Verona non è quella che si vede allo stadio", ha detto. E la politica? Su un caso del genere, mentre il capo degli ultrà veronesi Luca Castellini - esponente di Forza Nuova - dichiara "Balotelli non sarà mai del tutto italiano", le reazioni arrivano quasi solo dal centrosinistra e dai Cinquestelle. Con un silenzio durato molte ore a destra. In realtà rotto dalla Lega. Ma solo per minimizzare. Il leader Matteo Salvini, anzi, sembra quasi cercare lo scontro con il calciatore (i due si erano già "beccati" in passato). "Con 20 mila posti di lavoro a rischio - dice Salvini - Balotelli è l'ultima mia preoccupazione, ma proprio l'ultima ultima ultima. Vale più un operaio dell'Ilva che 10 Balotelli. Il razzismo va condannato ma non abbiamo bisogno di fenomeni", dice rispondendo a una domanda sul caso durante una conferenza stampa in Senato. L'ex ministro leghista Lorenzo Fontana, già ieri, aveva parlato di "una vergognosa gogna mediatica contro Verona e i suoi tifosi". Posizione condivisa dal primo cittadino di Verona, Federico Sboarina e ribadita anche oggi: "Non può esistere che da un presupposto che non esiste, perché allo stadio non ci sono stati cori razzisti, venga messa alla gogna una tifoseria e una città". Mentre la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, rispondendo a una domanda sulle parole del capo ultrà Castellini, dice: "Se insulti razzisti ci sono stati, penso che si debbano sempre prendere provvedimenti perché assolutamente bisogna combattere il razzismo negli stadi". Poi però precisa: "Non ho seguito la cosa, non ero allo stadio. Ho sentito che qualcuno invece diceva che non c'erano stati questi cori ma questo non sono in grado di dirlo perchè allo stadio non c'ero". Più netti i toni da centrosinistra e Cinquestelle. Sia sui fatti dello stadio sia sulle parole di Castellini. A invocare una condanna da parte di società e sindaco è il ministro dello sport, Vincenzo Spadafora, dei 5Stelle: "Chiedo al Verona di condannare fermamente quanto avvenuto e prendere i necessari provvedimenti, anche alla luce delle dichiarazioni del suo capo ultrà". E il ministro chiede anche al sindaco "che ha negato che ieri ci siano stati cori razzisti e incolpato il giocatore Balotelli di aver avviato una gogna mediatica contro la città, di rivedere i filmati e prendere le distanze da quei cori". Il presidente del Parlamento europeo, il democratico David Sassoli, twitta: "Balotelli è del tutto italiano. Balotelli è del tutto europeo". E il presidente della Camera, Roberto Fico: "Non sarà mai del tutto italiano chi è razzista, perché non rispetta i principi base del nostro vivere insieme come comunità". Il governatore dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, chiede "squalifiche record contro il razzismo". "Credo che la società debba prendere immediati provvedimenti contro il capo della tifoseria Luca Castellini", dice presidente dei senatori Pd, Andrea Marcucci. Sulla stessa linea la nota del Movimento 5 stelle: "Le parole pronunciate contro Balotelli - si legge nella nota firmata dai senatori M5s della commissione diritti umani - , frutto di ignoranza, di scarsa conoscenza della storia e di una pericolosa visione del mondo che non va oltre i confini di casa, sono di una gravità assoluta". Il parlamentare di Leu, Nicola Fratoianni, chiede alla società di prendere provvedimenti e alla magistratura di valutare le parole del capo ultrà del Verona. La ministra di Italia Viva, Teresa Bellanova, dice: "Mario Balotelli è nato e cresciuto in Italia. Non è certo il colore della sua pelle a determinarne l'identità e il Paese di cui si sente cittadino. E d'altra parte non saprei quale identità dare a Luca Castellini, se non quella di un razzista arrogante". Sono uomini di sport esprimere giudizi duri nei confronti delle responsabilità della politica. Come l'ex ct Arrigo Sacchi che ammette il ruolo di Matteo Salvini nello sdoganare certi comportamento dei tifosi. E Michele Uva, vicepresidente Uefa che - oltre a chiedere un intervento delle società - dice: "Gli episodi derivano non solo dalla cultura all'interno degli stadi, purtroppo è una cultura che si materializza nelle strade e grande responsabilità ce l'hanno anche i nostri politici".
Dagospia il 4 novembre 2019. Da Circo Massimo - Radio Capital. "Il calcio è il riflesso della vita sociale, della storia e della civiltà di un paese. Purtroppo non scordiamoci che questo è uno dei paesi più corrotti d'Europa, in cui ci sono 4-5 mafie e in cui si cercano sempre scorciatoie per vincere. Le frange più delinquenziali, più violente, sono state ingaggiate dalla società per vincere in qualsiasi modo. Abbiamo disconosciuto tutti i valori, non solo nel calcio ma anche nella vita. Il nostro paese non è solo in crisi economica ma anche in crisi morale e culturale. È un paese che disconosce regole e valori. È un fatto culturale e non si risolve facilmente": a Circo Massimo, su Radio Capital, Arrigo Sacchi commenta così i buu razzisti a Mario Balotelli da parte della curva del Verona. "Molti ultras sono sovvenzionati dai club", ricorda l'ex ct della nazionale, "E so che sono organizzati in modo delinquenziale. Succede di tutto, con il benestare di tutti. Anche dei politici". Un politico come Salvini, che parla in un certo modo dei migranti e che in passato è stato ripreso mentre cantava cori contro i napoletani, sdogana ancora di più certi comportamenti dei tifosi? "Sì", risponde Sacchi, "Come i mass media hanno paura di perdere audience, i politici hanno paura di perdere voti. È una gara a chi è più opportunista". Sacchi ricorda che episodi del genere c'erano anche anni fa: "Si è generato questo fenomeno non solo con giocatori di colore: mi ricordo giocatori e allenatori che sono stati insolentiti per tutta la partita. A me a Verona tirarono le monetine. E nessuno ha mai detto nulla". "Mi spieghino perché le curve sono dei porti franchi", continua, "Anche molti dirigenti sono collusi. In passato si diceva di un allenatore che quando faceva i contratti voleva 200 biglietti per le curve... sono rapporti che disconoscono i meriti, come spesso, fortunatamente non sempre, succede in questo paese". Sacchi non ha dubbi su quale può essere la soluzione: "Bisogna cominciare a pulire le curve. Tanto si conoscono quali sono le persone meno affidabili, e uso un eufemismo. E gli impediscano veramente di venire allo stadio, come hanno fatto in Spagna: lì hanno risolto il problema degli ultras non facendoli più entrare".
Lucia Landoni per repubblica.it il 4 novembre 2019. Dai campi di provincia a quelli di serie A, il razzismo negli stadi non conosce differenze di categorie: sabato 2 novembre, poche ore prima che Mario Balotelli venisse insultato con cori razzisti dagli ultrà dell'Hellas Verona, un giovanissimo giocatore della squadra brianzola Aurora Desio Calcio è stato bersagliato da insulti razzisti durante la partita della categoria Pulcini 2009 contro la Sovicese. Il bambino, di appena dieci anni, è stato definito "negro di m..." dalla madre di un avversario. Dimostrando una maturità superiore a quella degli adulti, ha continuato a giocare senza batter ciglio, ma al termine del match ha raccontato l'accaduto - quelle parole erano state sentite anche da altri bambini - all'allenatore e ai genitori. La reazione, però, arriva subito: sabato prossimo i giocatori della categoria Juniores di entrambe le squadre scenderanno in campo con il volto dipinto di nero. Immediata la reazione della società, che ha deciso di rendere pubblico l'accaduto con un post pubblicato sulla pagina Facebook ufficiale: "Con questa lettera, l'Aurora Desio vuole pubblicamente denunciare questa vergogna alle autorità politiche nazionali e locali, alla Lnd Figc, ai media locali e non, affinché si faccia squadra contro questo disgustoso fenomeno" vi si legge. I vertici della società di Desio si sono rivolti anche alla dirigenza della Sovicese, chiedendo di avviare un'indagine interna per risalire all'identità della persona da cui sono partiti gli insulti: "Finché non sarà individuata e oggetto di Daspo temporaneo dai campi giovanili, ci rifiuteremo di incontrare la Sovicese in qualsiasi competizione ufficiale, anche a costo di rischiare multe e penalizzazioni" hanno scritto su Facebook. Una presa di posizione netta, che ha già portato a un primo risultato: "Sono stato contattato dalla Sovicese - spiega Alessandro Crisafulli, direttore generale del settore giovanile dell'Aurora Desio - Mi hanno comunicato che hanno avviato l'indagine e che sono disponibili a fare con noi un gesto simbolico contro il razzismo. Sabato prossimo le due squadre si incontreranno nuovamente, questa volta per il campionato della categoria Juniores, ovvero quella dei ragazzi di 17/18 anni, e tutti i calciatori scenderanno in campo con il volto dipinto di nero. Lo faranno anche altre società brianzole, che hanno saputo dell'episodio e vogliono dimostrarci così la loro vicinanza". Insulti così gravi provenienti dalle tribune fanno in questo caso doppiamente male perché rivolti a un bambino e perché l'Aurora Desio è "notevolmente impegnata sul fronte del coinvolgimento e dell'educazione dei genitori alla sportività - continua Crisafulli - Organizziamo periodicamente laboratori mirati, ci siamo dati un codice etico e del nostro staff fanno parte uno psicologo dello sport e anche un manager etico, che è l'ex arbitro di serie A Angelo Bonfrisco. Episodi del genere ci danno la spinta per continuare a lavorare e fare sempre di più contro il razzismo".
Razzismo nel calcio: le scuse da fare a Balotelli (e agli altri). Gare sospese a Roma e Verona, la difesa del presidente Setti che nega l'evidenza. E quel precedente di dieci anni fa...Giovanni Capuano il 3 novembre 2019 su Panorama. Dieci anni fa un giovanissimo Balotelli, uscendo dal Bentegodi dopo un Chievo-Inter a nervi tesi, apostrofò il pubblico veronese dicendo che faceva schifo e che tutte le volte era lo stesso spettacolo fatto di ululati e insulti. Allora il giovane Balotelli fu sgridato e multato per aver rivolto un applauso ironico alla tifoseria avversaria, tanto da doversi quasi scusare per la sua reazione. Dieci anni (e diversi episodi) più tardi la scena si è ripetuta a Verona solo che questa volta Balotelli ha preso il pallone e lo ha scagliato verso la curva dell'Hellas, minacciando di andarsene. E' stato fortunatamente trattenuto da compagni e avversari, l'arbitro Mariani ha fermato la partita e dopo l'annuncio di prassi dello speaker tutto è filato liscio. Nel fine settimana in cui la stessa cosa è accaduta anche all'Olimpico durante Roma-Napoli. L'allenatore del Verona, Juric, si è presentato furente in sala stampa per gridare che non era accaduto nulla e nessuno aveva sentito niente. Solo cori e fischi. Il presidente Setti ha rincarato la dose: "Posso solo dire che i tifosi veronesi sono particolari e hanno un modo di fare simpatico di prendere in giro la gente, ma il razzismo non esiste e se esiste noi siamo i primi che lo condanniamo". E poi avanti con una reprimenta ai giornalisti che vogliono scrivere pezzi sul tema parlando di Verona, del Verona e dei suoi tifosi "ironici". Il dibattito si è in fretta spostato sulla reazione di Balotelli che dieci anni più tardi è finito nel mirino, quasi a doversi scusare per l'ennesima balotellata della sua carriera. Poi, per fortuna, si è capito che quegli ululati li avevano sentiti anche gli ispettori federali ed è uscito un video che li provava. Che fossero di pochi e non di tanti, conta poco. Nessuno generalizza additando i veronesi come gente razzista. Ma quei pochi secondi di verso della scimmia, ben udibili a pochi metri di distanza da Balotelli, sono sufficienti per dire che le parole del post-partita sono state inaccettabili e che a Balotelli bisognerebbe chiedere scusa e non pretendere da lui di giustificarsi per una reazione umana e legittima. Non esiste l'onere della prova per le vittime del razzismo altrui. Non ci può essere sempre un distinguo, una precisazione, l'associazione di un uomo (prima ancora di un calciatore) a qualcosa fatto in passato che lo può rendere odioso e odiato. Le cose vanno definite col loro giusto nome ed è il primo passo verso la soluzione del problema. A Verona il razzismo da stadio esiste e già in passato era stato denunciato; l'ultimo caso nella gara contro il Milan. Tapparsi le orecchie e fare finta di nulla non serve a niente se non a coprirlo. Altrove hanno cominciato a combatterlo e, per quanto battaglia lunga, è l'unica strada da percorrere. Ecco perché domenica 3 novembre 2019 va segnata sul calendario come una giornata da ricordare e non da cancellare in fretta.
Dal razzismo contro Dzeko e Brozovic, agli insulti ad Astori, scrive Marco Baroneschedule il 25 febbraio 2019 su vivoperlei.calciomercato.com. Ci risiamo. Anche questa domenica calcistica ha evidenziato la bassezza della nostra società. Che la situazione sia sfuggita di mano è evidente. Dovevano venire gli ispettori dell'ONU per il problema razzismo in Italia. Da mesi se ne è persa traccia. Avranno forse sbagliato Paese? Se quanto accaduto contro Dzeko o contro Brozovic, nell'ultimo caso circola un video di un paio di persone che lo insultano, in coro, con "zingaro" come "zingaro" e non solo è stato chiamato, con chiaro intento razzista e dispregiativo, Dzeko, fosse accaduto in Premier, sarebbero intervenuti immediatamente gli steward, avrebbero accompagnato questi non signori fuori dalla stadio, la società gli avrebbe vietato l'accesso allo stadio per alcuni anni e li avrebbe denunciati nelle sedi civili, per chiedere i danni e penali. Il nuovo regolamento, macchinoso, non può controllare tutto. Ci sono situazioni che possono sfuggire e ci si domanda perchè i tifosi vicino a questi delinquenti, perchè chi compie un gesto razzista delinque, commette un reato, non reagiscono, con fermezza? Non bloccano queste persone? Non sono stati gli unici casi di razzismo ed insulti negli stadi, ve ne sono stati altri, oramai ciò è la norma in un Paese come quello italiano, disastrato. Per non parlare dello sfogatoio dei social. Per insultare i tifosi viola alcuni hanno insultatoAstori. Ciò è vergognoso. Non è calcio, questo. Lo abbiamo detto. Ma questi episodi continuano a ripetersi. Ogni domenica, ogni turno, dalla A alle categorie minori. E ci troviamo puntualmente a fare la cronaca, impotenti. Per quanto, ancora?
Il tifoso, Brozovic "zingaro" e il razzismo a due velocità del calcio italiano. L'immagine della notte del Franchi e il confronto col modello inglese. Forze dell'ordine e Fiorentina, riusciamo a bandirlo dallo stadio? Scrive Giovanni Capuano il 25 febbraio 2019 su Panorama. L'immagine è chiara e non lascia spazio ad alcun dubbio. C'è un uomo sulla quarantina, porta gli occhiali, che si alza dal suo posto e apostrofa il centrocampista croato dell'Inter Brozovic che si avvicina alla bandierina del calcio d'angolo: "Oh, sei uno zingaro...". Una cantilena che si distacca nel brusio generale. Veste blue jeans e indossa una giacca scura. Il video è rintracciabile in Rete e racconta uno dei tanti aspetti da cancellare della notte di Fiorentina-Inter che passerà alla storia per il cortocircuito dell'arbitro Abisso al Var e le polemiche per il rigore regalato alla Viola che costa due punti pesanti ai nerazzurri in chiave Champions League. Apparentemente nessuno interviene. Nessuno si scandalizza. Brozovic calcia il suo corner e il tifoso torna a sedersi come se nulla fosse. Invece no, qualcosa di grave è accaduto e quei secondi che faranno il giro del web portando l'immagine del calcio italiano in giro per il mondo non possono cadere nel vuoto come se non esistesse medicina al razzismo da stadio. Sia chiaro. Le norme attuali, anche quelle inasprite dopo il caso-Koulibaly, non consentono alcun intervento del giudice sportivo contro la Fiorentina. Si tratta di un singolo e manca completamente il presupposto della dimensione e percezione del fatto da parte del resto del pubblico, compreso quello a casa. Però quel tifoso è lì. Identificabile facilmente. Nell'era dei biglietti nominali e delle telecamere a circuito chiuso, con un minimo di attenzione non dovrebbe essere difficile associare all'immagine un nome e un cognome per poi applicare il celebrato modello inglese, quello in cui sono i club per primi a chiudere la porta in faccia ai razzisti perché non sporchino l'immagine di una società e di una città. A Londra e dintorni basta un frame in cui si riprende chi lancia una banana o mima il gesto di un aereo perché scatti l'esclusione prima ancora dell'intervento della giustizia. Qui c'è di più. Molto di più. Cosa farà la Fiorentina cui consegniamo questo video? Avrà la voglia e la forza di bandire dal proprio stadio quella persona? O si unirà al silenzio colpevole (e anche un po' complice) dei compagni di settore che hanno scelto di non intervenire? La lotta al razzismo è sacrosanta ma si deve alimentare prima di tutto di piccoli e significativi gesti. Non basta indignarsi pr i buu a Koulibaly e stangare un club per poi dimenticarsi di fare pulizia in casa propria. Ciascuno partendo da quello che può chiedere a se stesso e ai propri tifosi, anche a costo di farsi qualche nemico, prima di chiedere alle istituzioni di fare un passo in più.
Lezioni di fairplay giornalistico. Gli "zingari" del calcio e gli autogol de "Il Giornale". L'ultima sparata del team di Mario Giordano scatena un incidente diplomatico con l'ambasciata di Romania in Italia, e perfino una "guerra mediatica" su Wikipedia, scrive il 22 maggio 2009 Carlo Gubitosa. Sembrava un innocuo redazionale sportivo, ma si e' trasformato nella miccia che ha fatto esplodere una guerra mediatica. Il 21 maggio "Il Giornale" celebra la vittoria europea dello Shaktar Donetsk scrivendo che "Mircea Lucescu, 64enne zingaro romeno della panca, porta a casa la coppa Uefa". La squadra e' ucraina, Lucescu non e' zingaro, ma che c'e' di male a chiamare zingaro un romeno, anche se si tratta di un allenatore sportivo che non suona il violino e non ruba bambini? Lo spiega l'ambasciata di Romania in Italia, con una dura lettera indirizzata alla redazione di Mario Giordano, dove l'ambasciatore "esprime la sua indignazione", per la scelta di "presentare il risultato di una partita di calcio in termini razziali e con tendenze xenofobe". Ce n'e' abbastanza per farci i titoli di testa di quotidiani e TG, ma nel nostro paese "mediaticamente anormale" queste piccolezze non fanno audience: l'unica reazione rimane quella del popolo della rete, che risponde alla provocazione razzista del "Giornale" con una "guerra di parole" su Wikipedia. Nel pomeriggio dello stesso giorno, Grazie all'intervento di una mano anonima, sull'edizione inglese della piu' famosa enciclopedia di internet tutti i direttori del "Giornale" diventano "zingari", dallo "zingaro Indro Montanelli" fino allo "zingaro Mario Giordano". Questo "vandalismo" telematico lascia dietro di se' come unica firma l'indirizzo internet 79.113.247.94, che il servizio di tracciatura whatismyipaddress.com fa risalire alla citta' romena di Arad e al provider "Romania Data Systems". Non possiamo essere sicuri al 100% che il vandalismo su Wikipedia sia la diretta conseguenza del vandalismo con cui "Il Giornale" ha devastato le regole del buon giornalismo perfino nelle pagine sportive, e sinceramente c'e' da augurarsi che la concomitanza dei due eventi sia solo una coincidenza. Ma se cosi' non fosse, questo episodio dimostrerebbe chiaramente che i panni sporchi dei giornali italiani si lavano sempre meno in famiglia, e che i "media dell'odio" sono capaci di scatenare reazioni anche al di fuori dei confini della nostra "piccola nazione di provincia", con conseguenze che nessuno puo' ancora immaginare.
Cori razzisti a Balotelli: si muove la Procura di Verona. Le Iene il 6 novembre 2019. Dopo gli ululati razzisti rivolti a Super Mario durante il match contro il Verona, aperti due fascicoli di indagine per istigazione alla discriminazione razziale. Nicolò De Devitiis ha incontrato Balotelli, e lo ha convinto ad accettare le scuse di uno degli ultras veneti. Ma la sciarpa della squadra avversaria, quella, non ha proprio accettato di indossarla. “Erano pochi coglioni, ma non 2 o 3, perché li ho sentiti dal campo”. Così Mario Balotelli ha risposto al nostro Nicolò De Devitiis, che lo ha intervistato sul caso dei cori razzisti da parte di un gruppo di ultras dell’Hellas Verona. E poche ore dopo quei cori, qualcosa ha cominciato a muoversi. La Procura di Verona ha aperto due fascicoli d'indagine ipotizzando la violazione della legge Mancino sull'istigazione alla discriminazione razziale. Sotto accusa sia gli “uh uh uh”, che hanno costretto SuperMario a un gesto stizzito durante la partita contro il suo Brescia, sia le dichiarazioni del capo della curva, Luca Castellini, che in una trasmissione radiofonica aveva detto: “Mario Balotelli è italiano perché ha la cittadinanza italiana ma non potrà mai esserlo del tutto”. Gli inquirenti, che hanno messo sotto indagine Castellini, esponente di spicco di Forza Nuova, stanno ancora cercando di capire da quale gruppo di ultras siano partiti i cori razzisti. Nel frattempo per Castellini è stato disposto un Daspo, cioè il divieto di entrare alle partite del Verona, fino al 2030 e la curva incriminata è stata chiusa. Come l’avrà presa Super Mario Balotelli? Nicolò De Devitiis è andato a chiederglielo, nel servizio che potete rivedere qui sopra. “Non è bello quello che è successo, mia figlia stava guardando la partita, ma io non ho assolutamente accusato il Verona o la curva. Ho accusato pochi scemi, ho accusato quei coglioni. Di sicuro non erano 2 o 3. Sono pochi, però ci sono: così non va bene, così non ci siamo. I pochi che l'hanno fatto sono teste di cazzo”. E così De Devitiis gli propone di incontrare un tifoso del Verona, per fare pace. “Bisogna fare uscire un’altra voce, quello che è uscito finora non è sicuramente la città di Verona”, spiega l’unico tifoso che ha deciso di metterci la faccia. Mario accetta di buon grado di fare due chiacchiere con quel tifoso, che anche davanti a lui si dissocia dagli ululati dei suoi compagni di curva. Una sola cosa però non riusciamo a convincere SuperMario Balotelli a fare: mettersi la sciarpa del Verona.
ANDREA TORNAGO per repubblica.it il 6 novembre 2019. Dopo i cori razzisti contro Balotelli è stata aperta un'inchiesta per discriminazione razziale in violazione della legge Mancino. Per ora l'accusa è contro ignoti ma si stanno identificando i tifosi che hanno gridato insulti dalla curva sud. La polizia ha gia depositato una informativa in procura. Quei cori contro Mario Balotelli durante Verona-Brescia sono stati "chiaramente percepiti, oltre che dal calciatore, anche dal rappresentante della Procura federale posizionato in prossimità", ma dopo di questi "si sono levati, da parte dei tifosi assiepati nell'attigua "curva sud", cori di sostegno, seguiti da un lungo applauso". Le motivazioni del giudice sportivo sul caso Balotelli fanno proprie le indicazioni del rapporto della procura Figc, e sottolineano come la decisione di chiudere per un turno senza condizionale il settore est della curva dello stadio di Verona sia stata presa "impregiudicata ogni attività d'indagine in corso per l'individuazione dei responsabili". Il referto arbitrale e la relazione della Procura federale sulla partita, interrotta al 9' dall'arbitro per i cori di discriminazione razziale contro Balotelli, hanno indotto il giudice a infliggere al Verona la sanzione di chiusura per una giornata effettiva di gara con decorrenza immediata, di quel settore dello stadio Bentegodi. Una decisione adottata considerando, si legge nel comunicato ufficiale della Lega, che "il pur esiguo numero degli autori dei cori va rapportato al numero di occupanti quel settore". Il giudice ha ritenuto che "la sanzione possa essere applicata limitatamente al settore in primis indicato" e che "non sussistono i presupposti per l'applicazione della misura sospensiva dell'esecuzione della sanzione ai sensi dall'art 28 comma 7 CGS, vista anche la durata dell'interruzione del giuoco doverosamente disposta dal direttore di gara".
Paolo Berizzi per la Repubblica il 5 novembre 2019. In piazzale Olimpia le saracinesche del pub "The Den" sono abbassate: nell' insegna del locale campeggiano una croce celtica, quattro rune e la scala simbolo dell' Hellas. Il titolare è Andrea Croce, consigliere della 3° circoscrizione, fresco di Daspo e fratello di Michele, già presidente di Agsm, l' azienda municipalizzata di fornitura del gas. Chiuso - è lunedì pomeriggio - anche il bar Nilla, altro ritrovo ultrà davanti allo stadio Bentegodi. Un ragazzo si ferma: «State montando un cinema assurdo, Balotelli vuole fare il fenomeno ma è un mona». Passa un' ora. Il sindaco sovranista Federico Sboarina, sull' onda della levata di scudi di una destra sempre più estrema, presenta una mozione anti-Balotelli. Titolo: "Condanna politica per chi diffama la città". Il giorno dopo la Verona nera si riscopre negazionista. «Non è vero niente». «Solo una pagliacciata». «Li ha sentiti solo lui (i buuu razzisti, ndr)». «Quello là voleva farsi pubblicità ». Quello là è "el negher", "Mario- Mario", come intonavano domenica i "butei", loro, gli ultrà della "squadra fantastica fatta a forma di svastica", "allenatore è Rudolf Hess", le feste "le paga Hitler". E insomma la colpa è del "negher". «Ha spedito il pallone in curva perché marchia la città». Papalia la tocca piano. Perché il punto è che gli amministratori veronesi con l' estrema destra hanno rapporti strettissimi. Talmente ravvicinati che qui, nella città che Roberto Fiore ha già ribattezzato "Vandea d' Europa" - passata dal terrorismo eversivo di Franco Freda all' omicidio "politico" di Nicola Tommasoli attraverso Ludwig, i due ragazzi della Verona bene che massacravano preti e emarginati - è difficile distinguere. Si chiamano Andrea Bacciga, Stefano Stupilli, Yari Chiavenato, Alberto Lomastro, Alberto Zelgher. E Castellini. Sono gli uomini di collegamento tra la strada - e la curva Sud gialloblu - e il palazzo. Tutti uomini che a vario titolo ruotano intorno a Sboarina e si muovono in quell' area di fascioleghismo spinto e ultracattolicesimo antiabortista dove alligna il potere. Storie. Mentre i neofascisti Castellini e Bacciga (saluto romano alle attiviste di "Non Una di Meno", ndr) vengono ricevuti dal sindaco attraverso il fidato segretario particolare Umberto Formosa - soprannome "il picchiatore", anche lui ultrà pluridaspato - il 4 ottobre i battenti di Castel Vecchio si aprono per il convegno "Le bugie sull' immigrazione": nella locandina c' è un immigrato con in mano un machete insanguinato. Logo del Comune e fondi di Serit, la municipalizzata dei rifiuti. «A Verona i fascisti sono legittimati - attacca la deputata dem Alessia Rotta - Qui non è più un problema di stadio, ma di qualità della democrazia». In un clima da post-revisionismo, all' estrema destra della spera di andare dalla D' Urso», vomita l' impresentabile Luca Castellini. Benvenuti in una delle città d' arte più belle e visitate d' Italia. Dice l' ex procuratore capo Guido Papalia, uno che l' estremismo nero lo conosce e lo ha contrastato: «Queste frange, anche se sono una minoranza, incontrano un' indifferenza generalizzata che è più grave degli stessi atti delinquenziali. Se gli amministratori non prendono le distanze si spiana la strada al peggio. E il risultato è che questa etichetta città di Giulietta accade di tutto: l' ex ministro leghista Lorenzo Fontana e l' hitleriano Castellini a braccetto nel "Family pride"; finanziamenti al "Comitato delle Pasque veronesi", quelli delle messe in latino col rito preconciliare; campi da calcio comunali gratuiti per i neonazisti di Fortezza Europa; mozioni per riscrivere la storia della Resistenza. Tanti casi fanno cumulo. Sembrano ieri i feti di plastica distribuiti come gadget al Congresso delle famiglie. Adesso, Balotelli. «È grave e triste che Verona finisca sui media per dei facinorosi che scambiano la goliardia con il razzismo», ragiona Patrizia Bisinella, consigliere comunale d' opposizione, compagna dell' ex sindaco Flavio Tosi. Ma perché sempre qui? A settembre CasaPound ha organizzato in città il raduno nazionale perché «ci sentiamo a casa». «Sponde istituzionali - dice Federico Benini, Pd - Coi suoi provvedimenti discriminatori Sboarina ha coperto di ridicolo la città». Nel 2017 Verona ha accolto più di un milione di visitatori. Nello stesso anno gli ultrà dell' Hellas festeggiavano inneggiando al Fuhrer. A lanciare i cori, il solito Castellini. Chiede Giulia Siviero di "Non una di meno": «L' amministrazione si identifica con la squadra di calcio? Perché ci si sente così chiamati in causa come città se a ululare - dicono - sono stati solo alcuni tifosi?». La squadra "a forma di svastica", la roccaforte, i "butei". La nuova alba della Verona nera.
Da gazzetta.it il 5 novembre 2019. La novità del giorno dopo è che sui banchi del Consiglio comunale di Verona arriva una mozione affinché "il sindaco e gli uffici legali del Comune diffidino legalmente il calciatore e tutti coloro che attaccano Verona diffamandola ingiustamente". Il calciatore è Mario Balotelli anche se il sindaco Federico Sboarina (eletto nella lista civica Battiti, anima di centrodestra), durante l'intervista al terzo piano del palazzo municipale, non lo menziona: "È una tutela dell'immagine della nostra città. Perché uno deve ritenere Verona una città razzista? Si prenderà le sue responsabilità". Il primo cittadino di Verona, che domenica pomeriggio era in Curva Sud a seguire la partita come fa dalla stagione 1984-85, torna sull'accaduto: "Eravamo allibiti. L'arbitro ha ammonito Balotelli, non ha sospeso la partita. Dai filmati si sentono solo fischi, la notizia non esiste, è stata montata e costruita sul nulla, è kafkiana". Sboarina conferma poi di aver avuto occasione di vedere il video ripreso dalla Sud in cui qualche "buuu" è partito all'indirizzo di Balotelli: "I cori razzisti sono quelli fatti da un gruppo corposo di persone che decide di cantare un'unica cosa. Non ci sono stati cori razzisti qui e la semplificazione Balotelli-razzismo-Verona per me è inaccettabile. Da cosa mi devo dissociare? Nessuno ha sentito niente. Vero è che condanno ogni forma di razzismo, ma deve esserci qualcosa da condannare. Non so cosa possa aver sentito Balotelli, so che nessuno ha sentito ciò che ha sentito lui. Se non avesse calciato quella palla, nessuno avrebbe detto nulla". Sboarina, che ieri ha incontrato "Le Iene" consegnando loro un pallone da regalare a Balotelli, entra poi nel merito delle dichiarazioni di Luca Castellini, tifoso del Verona ed esponente di Forza Nuova: "Rifiuto totalmente le parole e i concetti espressi da lui. Ognuno si prende la responsabilità di ciò che dice". Ma la Sud è di estrema destra? "La Curva unisce la città al di là dell'appartenenza politica, non è una fucina di uomini politici e non esiste il timore di andarle contro". Oggi è atteso il responso del Giudice sportivo: "Nel caso decidesse per la chiusura della Curva, sarebbe un provvedimento abnorme", chiude il sindaco.
Da gazzetta.it il 6 novembre 2019. Mario Balotelli torna sull'episodio di razzismo di cui è stato vittima domenica scorsa al Bentegodi. E lo fa parlando a Le Iene, su Italia 1. "Quello che è successo non è bello ma non ho accusato il Verona, non ho accusato la Curva del Verona. Ho accusato pochi scemi che lo hanno fatto, e li ho sentiti. Ho accusato quei coglioni e basta. Di sicuro non erano due o tre, perché li ho sentiti dal campo". Balo precisa meglio il proprio pensiero: "Dico la verità, lo stadio del Verona e i tifosi del Verona mi stanno anche simpatici, con i loro sfottò. Ma se vuoi distrarre un giocatore, lo puoi fare in mille modi. Non così. Così non va bene. Così non ci siamo". Balo commenta con amarezza le esternazioni del capo ultrà del Verona Luca Castellini (considerato ufficialmente "non gradito" dal club scaligero da qui al 2030), che l'ha definito "non del tutto italiano": "Castellini deve regolare le sue parole. Non faccio politica in campo. Non è umano che uno faccia un'intervista così. Avete capito cosa ha detto? Non è questione di Mario. È pericoloso. Nessuno può permettersi di parlare così, né tu e né io. Tuo figlio torna a casa - continua Mario - e ha dato uno schiaffo ad un compagno. Lo sgridi, ma cosa lo sgridi a fare, se poi vai allo stadio e fai uh uh uh a uno di colore?". Poi ribadisce il concetto: "I pochi che lo hanno fatto sono delle teste di c.., lo sfottò a sfondo razzista non ci sta, non c'è mai stato e mai ci starà. Sono pochi scemi, ma ci sono sempre". Infine, il capitolo Nazionale. Il presidente Figc Gabriele Gravina rivorrebbe Balotelli in azzurro, in caso di ok da parte del c.t. Mancini. Mario non si sottrae alla domanda sul possibile ritorno in Nazionale, suo obiettivo da sempre: "Non dico che sono diverso dagli altri giocatori a cui hanno fatto gli stessi cori e gli stessi ululati. Ma il problema è che io sono italiano, dovrei tornare in Nazionale".
Dagospia il 6 novembre 2019. Da “Un Giorno da Pecora - Radio1”. “Gli insulti razzisti a Mario? Ci siamo incontrati dopo la partita col Verona, sicuramente era triste e nervoso, una reazione normale: a chiunque fa male esser insultato, è una cosa brutta che fa male”. Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, Raffaella Fico, showgirl ed ex di Mario Balotelli. Luca Castellini, capo ultrà dell'Hellas Verona, ha detto che Balotelli non potrà mai esser del tutto italiano. “E' un'uscita infelice. Mario è italiano a tutti gli effetti. E' un peccato che non si riesca ancora ad isolare questi facinorosi, ci sta che poi si reagisca un po' male. Sono convinta che qualcosa stia cambiando però”. Ci potrà mai esser la possibilità che lei è 'Supermario' torniate insieme? “Nella vita mai dire mai, ma ora siamo molto amici, come genitori”. Lei è in questo momento è fidanzata? “No, sono single. Ma con tanti corteggiatori...”
Scuola a Brescia si vanta: «Pochi stranieri», è polemica online. Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 da Corriere.it. «La presenza di studenti con cittadinanza non italiana è numericamente limitata». Genera la polemica la frase contenuta nel piano di presentazione del Liceo classico Arnaldo di Brescia, da sempre ritenuto punto di riferimento della cultura bresciana. Una polemica fatta scoppiare in rete da un genitore che voleva iscrivere la figlia e che ha trovato la presentazione inappropriata. Nel piano, visibile online, si dice anche che «gli alunni provengono da un contesto socio-culturale in generale medio-alto, che offre buone potenzialità di formazione culturale e ricchezza di stimoli». Nello stesso testo la dirigenza scolastica aggiunge che «la scuola gode di buona fama all’interno del contesto cittadino e da sempre è considerata una delle scuole in cui si sono formate personalità in ambito sociale, culturale, politico, economico e le iscrizione dei figli alla scuola avviene anche per una volontà dei genitori di continuare la tradizione famigliare». Anche il liceo Visconti l’anno scorso era finito nel mirino per lo stesso motivo, e la preside fu accusata di classismo e razzismo. La polemica nasceva dalla descrizione di 1.500 caratteri che il Visconti faceva di sé nella sezione «Scuola in chiaro» del sito del ministero dell’Istruzione: «Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alta borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi». E ancora: «Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile. La percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente». La preside si era difesa: «Solo dati oggettivi».
Caso Balotelli, gli ultrà del Brescia prendono le distanze da SuperMario. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 da Corriere.it. Povero Balotelli. Nemmeno i suoi tifosi lo sostengono. «Le dichiarazioni personali di uno dei leader della Curva veronese non possono giustificare la caccia alle streghe scatenata da media e istituzioni nell’ ennesimo tentativo di criminalizzare e infine giustiziare l’intero mondo Ultras. Questo non significa che certi cori siano legittimi e accettabili ma nemmeno che i tifosi gialloblù siano tutti razzisti e che la Curva del Verona sia una sorta di covo del KKK. Le tifoserie non possono essere considerate razziste ma il razzismo esiste ed è spesso utilizzato per creare un nuovo allarmismo fra l’opinione pubblica. Questo linguaggio non convenzionale è utilizzato sempre più spesso da personaggi pubblici e politici, ai quali naturalmente nessuno penserebbe mai di applicare il codice etico». È questa la forte presa di posizione di alcuni rappresentanti della Curva del Brescia in un comunicato apparso sui social dopo il caso Balotelli e il bando comminato fino al 2030 a Luca Castellini. «Siamo estremamente convinti - prosegue la nota, facendo riferimento al dito medio esposto contro i tifosi dell’Inter e alla macchina fotografica rotta al fotografo a Genova - che Balotelli sia a tutti gli effetti italiano ma l’arroganza che sembra trasparire di continuo dalla sua persona non è giustificabile. Le celebri Balotellate sono ormai storia nota e conclamata. Ciò che più conta sono lo spirito di sacrificio, la passione, il rispetto, le motivazioni e la maglia sudata, concetti che al momento parrebbero a lui sconosciuti. Ci sentiamo di condannare ogni gesto, ogni provocazione palesemente ostile e discriminatoria, però, vogliamo dare la nostra solidarietà a chi ha subito l’ennesimo provvedimento liberticida, questa volta non dalla Questura, che evidentemente non ha ritenuto così grave l’atteggiamento suddetto, ma dalla propria società».
Balotelli non convince Mancini, niente azzurro. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 su Corriere.it da Alessandro Bocci. Il commissario tecnico non si è fatto condizionare dall’appello di Gravina, che avrebbe rivoluto il bomber del Brescia. Mario Balotelli non tornerà in Nazionale. Non adesso, almeno. Oggi, nell’elenco dei convocati per le partite contro Bosnia (15 novembre) e Armenia (18 novembre), le ultime del girone di qualificazione verso Euro 2020, mancherà il nome più atteso. Balo resterà ancora fuori. Roberto Mancini non si è fatto condizionare dall’appello del suo presidente, Gabriele Gravina, che avrebbe rivoluto l’attaccante del Brescia vestito di azzurro per dare un segnale ai razzisti da stadio. Il c.t. ha deciso di andare avanti per la sua strada. Ed è giusto così. Balotelli resta il suo preferito, ma tornerà a Coverciano solo quando avrà ritrovato la condizione e i comportamenti saranno quelli giusti. Farlo rientrare nel giro a tredici mesi dall’ultima volta, solo per mandare un messaggio politico, sarebbe un grave errore. Mario la Nazionale deve meritarsela sul campo. Nessuno vuole trascurare la sua sacrosanta battaglia contro il razzismo, ma non può diventare la scorciatoia per l’Europeo. I piani sono ben distinti e tali devono rimanere. Mancini è il primo a fianco di Balotelli contro chi lo insulta. Neppure in azzurro l’ex bad boy ha trovato pace. Nove anni sono passati dalla triste notte di Klagenfurt, il 17 novembre 2010, amichevole Italia-Romania, con l’odioso coro «non ci sono neri italiani». Il tempo non ha cambiato le cose. Forse sono persino peggiorate. Ieri il gruppo 1911 del Brescia, in un comunicato social, se l’è presa con il suo centravanti: «Siamo convinti che Balotelli sia italiano, ma l’arroganza che trasmette non è giustificabile. Ciò che conta sono lo spirito di sacrificio, la passione, il rispetto e la maglia sudata, concetti che al momento parrebbero a lui sconosciuti», scrivono gli ultrà manifestando la solidarietà a quelli del Verona e perdendo una buona occasione per tacere. Mancini però deve pensare alla Nazionale. Balo non lo ha convinto: i due gol non bastano. In campo si muove poco ed è troppo nervoso. Il dito medio mostrato agli ultrà dell’Inter, scatenando la loro poco edificante reazione, non è piaciuto. Così il c.t. continuerà con l’alternanza tra Immobile e Belotti, che non lo fanno impazzire. Oggi pomeriggio l’assenza di Balotelli diventerà ufficiale. Ma nell’elenco ci potrebbe essere spazio per due gradite novità: Castrovilli, centrocampista della Fiorentina e Orsolini, esterno d’attacco del Bologna.
Rosa Scognamiglio per ilgiornale.it l'8 novembre 2019. "No, qui tu non ti siedi". Con queste parole, una signora in età avanzata avrebbe vietato ad una bimba dalla pelle scura, di circa sette anni, di prendere posto sull'autobus. Una intimazione che potrebbe avere una matrice xenofoba. O, almeno, questa sarebbe stata la percezione della consigliera comunale dem, Vittoria Oneto, che ha assistito alla sortita dell'anziana passeggera di un pullman pubblico nella città di Alessandria. L'episodio è stato raccontato con un post su Facebook, apparso sul profilo social dell'amministratrice alessandrina pressapoco alle ore 19 di ieri, 6 novembre. "Questa sera ho preso l'autobus per tornare a casa. - scrive Vittoria Oneto - Pochi posti a sedere. Io rimango in piedi. Salgono una mamma con due bambini. Lei si appoggia in uno spazio largo col passeggino e la bambina di circa 7 anni prova a sedersi in un posto vicino ad una signora di circa 60 anni che aveva appoggiato la sua borsa della spesa sul sedile. La signora guarda la bambina e le dice : NO NO TU QUI NON TI SIEDI!". A quel punto, la consigliera avrebbe preso le parti della bimba rispondendo per le rime all'anziana. "Io dico alla donna di spostare la borsa e di fare sedere la bambina ma lei insiste e mi dice in modo arrogante di farmi gli affari miei - continua il racconto - o dico alla donna di spostare la borsa e di fare sedere la bambina ma lei insiste e mi dice in modo arrogante di farmi gli affari miei". Dopo l'increscioso accadimento, Vittoria Oneto è scoppiata in lacrime: "Ho pianto. Sono scesa dall'autobus e ho pianto. Per il nervoso, per la tristezza per il senso di sconfitta che ho provato e provo. Come se questi giorni non fossero già dolorosi. È questo quello che siamo? È questo quello che vogliamo essere? Io non voglio crederci", conclude il post. Immediata la reazione del popolo social che non ha mancato di esprimere solidarietà nei confronti della piccola vittima complimentandosi con la consigliera per l'intraprendenza dell'intervento. "Non lasceremo l'Italia nelle mani di queste persone", scrive un utente; "è assurdo nel 2019", commenta un altro.
“UN ANIMALE GRASSO CHE VIVE IN ACQUA? UN NEGRO!” Da lastampa.it il 5 novembre 2019. Si è ufficialmente dimesso l’assessore leghista alla Cultura di Orzinuovi, nel Bresciano. Leonardo Binda era al centro di una bufera per la frase razzista pronunciata in un video che finito on line. Il video, pubblicato domenica sera su Instagram, ritrae il giovane consigliere comunale, studente di giurisprudenza all’università di Brescia, mentre risponde a un indovinello durante una serata con gli amici. Si vede il giovane esponente del Carroccio partecipare a un gioco in cui ogni concorrente deve riconoscere la figura che gli è stata attaccata sulla fronte. L’immagine sul foglietto di Leonardo Binda è quella di una foca. «È quell’animale... grasso che vive in acqua», gli viene detto. E Binda risponde: «È un negro». «La giovane età dell'assessore Binda o il contesto giocoso in cui la frase incriminata è stata pronunciata non possono in alcun modo giustificare il contenuto grave ed inaccettabile – ha dichiarato Gianpietro Maffoni, sindaco di Orzinuovi e senatore di Fratelli d’Italia, che stava valutando di togliere le deleghe all’esponente leghista - Apprezzo quindi il gesto di Leonardo Binda che ha deciso di rassegnare le dimissioni da assessore dimostrando di aver compreso il suo errore».
SE È NORMALE DIRE "NEGRO". Luigi Manconi per “la Repubblica” il 5 Novembre 2019. Una delle più futili sciocchezze che si sentono in giro si manifesta nella falsa ingenuità della domanda: ma perché non posso chiamare negro un negro? l segue dalla prima pagina a esercitarsi in questo classico dilemma della semantica è stato Luca Castellini, capo riconosciuto degli ultrà del Verona. Ma è stato preceduto da numerosi giornalisti e intellettuali della destra che trovano in quell' interrogativo il gusto civettuolo di una presunzione di anticonformismo (d' altra parte, viviamo in tempi in cui a dirsi fuori dal coro sono i più gregari tra i coristi). I più sofisticati, si fa per dire, tra quei giornalisti e quegli intellettuali, precisano pomposamente: «Li abbiamo sentiti, nei film americani, i negri chiamarsi l' un l' altro nigger. E poi, al gay pride, si appellano tra loro checca o finocchia». Ma, santa pazienza, come non comprendere che all' interno di una comunità, piccola o grande, quelle denominazioni esprimono reciproco affetto e confidenza condivisa, mentre - se utilizzate all' esterno - segnalano ostilità e disprezzo? D'altra parte, sono i diretti interessati a patirne l' uso malevolo e a chiederne l'interdizione. Tutte le lotte per l' emancipazione hanno avuto come preliminare posta in gioco il diritto a nominarsi, a darsi il proprio nome e a decidere come essere chiamati dagli altri. È un processo lungo, e dunque, non stupisce nemmeno che - come ancora sottolineano gli intellettuali di destra, per così dire sofisticati - nelle traduzioni dei libri americani di 70 anni fa compaia il termine negro (il racconto autobiografico Ragazzo Negro di Richard Wright e il ricorso allo stesso termine nella traduzione italiana de Il Buio oltre la Siepe). Le culture e i linguaggi cambiano e maturano e diventano, o dovrebbero diventare, più rispettosi delle minoranze e anche, sì, delle loro suscettibilità. Non c' entra nulla il politically correct : c'entra quel minimo di intelligenza e di civiltà che può agevolare la convivenza e disinnescare i conflitti tra diversi. Ma il nostro ultrà-semiologo ha altro da dire. Intanto, sulla controversa questione dello ius soli e dello ius culturae (che ovviamente qui non c' entra, perché il giocatore del Brescia è figlio adottivo di genitori italiani): «Balotelli ha la cittadinanza italiana, ma non è del tutto italiano». E poi, l'affondo: «Mi viene a prendere la "Commissione Segre", perché chiamo uno negro? Mi vengono a suonare il campanello?». Attenzione: non sentite qui l'eco fedele di gran parte dei commenti critici nei confronti dell' istituzione di quell' organismo contro l' antisemitismo e il razzismo, promosso dalla senatrice a vita Liliana Segre? Non è lo stesso ragionamento, proprio lo stesso, di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini e di molti esponenti di Forza Italia, quando denunciano la "Commissione Segre", quasi fosse un tribunale liberticida contro le idee irregolari? Gli oppositori hanno volutamente confuso le finalità di un organismo che ha funzioni di documentazione, ricerca, testimonianza e discussione su quei fenomeni con il ruolo di una commissione d'inchiesta che ha, invece, funzioni inquirenti e che dispone degli stessi poteri della magistratura ordinaria. Ma questo episodio, in apparenza poco rilevante, la dice lunga sulla questione del razzismo. Va chiarito subito, e una volta per tutte, che l' Italia non è un Paese razzista. Certo, cresce il numero dei razzisti e degli atti di razzismo, ma ciò non è in alcun modo sufficiente perché si faccia ricorso a quell'etichetta. E già quella domanda (l'Italia è un paese razzista? Macerata è una città razzista?), oltre a essere scema, è profondamente errata e contiene una qualche tonalità razzistica: perché tende ad attribuire a un'intera comunità nazionale o locale i comportamenti di un gruppo, o anche di molti gruppi, o di minoranze magari aggressive o atteggiamenti di connivenza da parte di alcuni settori di popolazione. Insomma, è il cortocircuito tra i discorsi irresponsabili di una quota consistente della classe politica e il senso comune di una collettività, sottoposta a continui stress e percorsa da angosce profonde, a costituire la vera insidia. E a rappresentare un incentivo per una tensione quotidiana che si riversa su chi è, allo stesso tempo, il più prossimo e il più diverso. Questo è ciò che accade all' interno delle fasce più deboli della società, dove, più e prima che il razzismo - e sarebbe un errore chiamarlo così - si diffonde la xenofobia: alla lettera la paura, la diffidenza, l' ostilità verso lo sconosciuto e l'ignoto. È questo che produce un' intolleranza minuta e ordinaria, fatta di soperchierie che colpiscono nella stessa misura stranieri emarginati e italiani vulnerabili (l'episodio di Chioggia è solo l' ultimo di una lunga serie). E se tutto questo non deve ancora indurci a definire razzista l' Italia, sarebbe assai pernicioso sottovalutarlo. E l'attenzione va indirizzata innanzitutto su ciò che ne rappresenta la radice culturale e di senso comune. Ascoltiamo ancora l' ultrà-semiologo Castellini: «Prendiamo in giro il giocatore pelato, quello con i capelli lunghi, il giocatore meridionale e il giocatore di colore, ma non lo facciamo con istinti politici o razzisti». Qui, non abbiamo solo l'eco, bensì una vera e propria parafrasi di quanto detto qualche settimana fa da Salvini: «Se uno odia il prossimo per il colore della pelle, per la squadra di calcio, per la religione.se uno dice crepa, è grave a prescindere, sia che lo dice a un cristiano, a un ebreo, a un buddhista, ad un valdese, a un protestante, ad un Hare Krishna, a un islamico. Non c'è l'insulto più grave, e l'insulto meno grave. Se uno aggredisce una persona, può aggredire un uomo, una donna, un bianco, un nero, un giallo, un fucsia, è un delinquente». In queste parole c'è - nitidissimo - una sorta di Manifesto della Banalizzazione della Storia. Qui tutto è uguale a tutto: l'antisemitismo e l' odio per la squadra avversaria. Non esistono le grandi tragedie storiche, e non esistono vittime e carnefici, dal momento che il tifoso ultrà di una squadra può essere, a distanza di poche settimane, e a campi invertiti, l' aggressore o l' aggredito. Il fine di una simile operazione è l' azzeramento delle responsabilità dei regimi e delle ideologie, ma anche dei despoti e dei dittatori (non troppo diversi, per l' ostilità che suscitano, da arbitri incompetenti o corrotti): e l'appiattimento dei drammi individuali e collettivi, mortificati a tenzoni e giochi di ruolo. Ma quando la storia viene ridotta a un presente indistinto, amorale e fantasmatico, è la comunità degli uomini che inizia ad andare in rovina.
Enrico Currò per “la Repubblica” il 6 novembre 2019. Il sasso scagliato da Mario Balotelli non è affondato nello stagno dell' indifferenza. C' è un passaparola tra i colleghi della serie A, di colore e non solo: sono pronti a schierarsi al suo fianco, lasciando il campo di fronte al prossimo episodio di razzismo. L' appello più folgorante è di un sedicenne: Henoc N' gbesso, attaccante delle giovanili del Milan e della Nazionale Under 17, bresciano anche lui, origini ivoriane: «La ferita di Mario me la sono sentita addosso. Io non credo che debbano uscire dal campo solo i giocatori di colore, ma tutti. Credo che soltanto così la gente allo stadio si renderebbe finalmente conto che è accaduto qualcosa di molto grave. E che non può, non deve esserci un bis». Nove anni sono passati dal triste 17 novembre 2010 a Klagenfurt, amichevole Italia-Romania, cori e striscioni contro Balotelli, «non ci sono neri italiani» e via col campionario delle annesse bestialità, causa di diciassette denunce, nel 2013, ad altrettanti ultras Italia «per diffusione di idee fondate sulla superiorità, sulla discriminazione e sull' odio razziale». Nove anni e sembra oggi, perché nulla parrebbe cambiato, anzi. Balotelli è ancora qui con lo stesso problema, lui che di razzismo parla quotidianamente negli spogliatoi del Brescia, ascoltatissimo dai compagni. Invece non è così. Una novità c' è: il suo gesto di ribellione a Verona stavolta non è passato inosservato, non poteva. Tra i giocatori di colore, e non solo, sta passando la linea forte, perché non ci sia un bis del Bentegodi: uscire appunto tutti dal campo non appena informati del prossimo insulto, del prossimo ululato, del prossimo verso della scimmia, chiunque sia la vittima. Ieri Mario ha capito subito che era successo qualcosa di nuovo: dalle reazioni dei colleghi, dalla solidarietà pubblica attraverso i social e da quella privata. Lo juventino Matuidi è stato il più duro, da Napoli Koulibaly si è associato. Prende forma l' idea di un documento stile "manifesto di Sterling": nell' aprile scorso l' attaccante del Manchester City pubblicò sul Times un articolo sul tema, subito sottoscritto da numerosi calciatori, allenatori ed ex della Premier League. Sterling chiedeva, tra l' altro, che i giocatori bersagliati dai razzisti non venissero puniti, se lasciavano il campo. Anche Balotelli ha giocato nel City e in Inghilterra ha affinato la sensibilità in materia. Nel giugno scorso a Madrid l' inglese Daniel Sturridge, oggi centravanti del Trabzonspor in Turchia e allora fresco di trionfo in Champions col Liverpool, rivelò la particolare attenzione di Balotelli alla questione. Che Mario abbia doti di divulgatore lo dimostra la foto della Nazionale ad Auschwitz nel 2012, prima dell' Europeo, in cui lo si vede spiegare a Cassano, in lacrime, le origini ebraiche dei suoi genitori adottivi. L' assurdità del razzismo è la sua certezza. Da bambino, racconta nel libro "Demoni", gli capitò di restare escluso dai coetanei, in una partitella, «perché sei nero». Durante il ritiro romano dell' Under 21, anno 2009, da una moto gli lanciarono un casco di banane, a Ponte Milvio. L' estate scorsa, quando è tornato in Italia dal Marsiglia, in piena emergenza sbarchi, non ha eluso la domanda fatidica: «Vorrei che il popolo italiano fosse un po' più umano. Gli ululati allo stadio? Ora non voglio pensarci, mi auguro che non capiti» . È capitato. Però lui non è rimasto in silenzio e ieri se n' è potuto compiacere. Aveva seminato bene. Il talentuoso Henoc N' gbesso, classe 2003, si è appena rotto un ginocchio: ha le stampelle e le idee chiarissime, da studente del liceo di scienze umane con gli occhi aperti sul mondo zoppo degli stadi italiani, che coprono di ridicolo la serie A, nel giudizio severo dell' Uefa, il governo del calcio europeo: «Quale sia stato l' incipit del verso della scimmia a Verona, dato che nessuno è una bestia, credo di saperlo: l' ignoranza. E poi il negazionismo. Nel 2018, a Cagliari, stavo festeggiando un gol e i miei compagni mi hanno fatto notare che qualcuno mi aveva urlato: "Negro di merda". Il responsabile del loro settore giovanile disse che non era successo niente: negava l' evidenza. Io non ci faccio caso, sono circondato da persone vere. E tra i miei riferimenti ci sono Luther King e Mandela, è normale che le loro storie mi tocchino di più. Come la battaglia di Balotelli».
Gianni Mura per “la Repubblica” il 26 novembre 2019. Cellino, presidente del Brescia, si aggiunge alla lista dei maldestri, o dei poco sensibili, o degli avventati, o degli ignoranti, o dei razzisti in pectore. Dire che il problema di Balotelli è che è nero e sta faticando a sbiancarsi e poi farla passare per una battuta sdrammatizzante, che intendeva sostenere il calciatore, è una discreta arrampicata di sesto grado. Però la sua battuta sdrammatizzante, che raggiunge l' effetto opposto, una verità la contiene. Il problema di Balotelli è avere la pelle nera, di essere italiano, di essere un calciatore molto seguito mediaticamente, di avere indossato la maglia della Nazionale in un Paese in cui pochi o molti, parlo solo degli stadi perché i social tracimano di schifezze, gli rinfacciano il colore della pelle e per questo lo bersagliano di cori, non lo riconoscono come italiano "vero", e nemmeno il diritto di ribellarsi (col carattere che ha, con quello che guadagna, e via divagando). Un altro presidente di Serie A, Lotito della Lazio, tempo va aveva sostenuto che il verso della scimmia nei nostri stadi si fa anche ai giocatori "con la pelle normale". Primo: non è affatto vero. Lo si intona solo per i giocatori di pelle nera, si chiama comunemente "verso della scimmia" e, nella testa dei razzisti, serve a offenderli, sperando che reagiscano, e a farli sentire animali o comunque di razza inferiore. Secondo: la pelle normale per Lotito dovrebbe essere quella bianca, ma uno che sfodera citazioni in latino ogni due per tre dovrebbe avere quel minimo di cultura sufficiente a sapere che in quasi tutta l' Africa la pelle normale è nera. Tant' è che si chiama Africa nera. A parole (escludendo quelle citate) il nostro calcio si sta battendo con grande impegno contro il razzismo, e sarebbe uno schieramento senza zona neutra: o stai di qua o stai di là. Nei fatti, il grande impegno non si vede, le punizioni esemplari nemmeno. L' argomento è molto serio, anche fuori dagli stadi, dove aumentano i casi di micro e macro-razzismo, e richiederebbe un' analisi realistica della situazione e un minor ricorso alle battute. Ma una va ricordata. "Io razzista? Sarà lui che è negro". Questa, un po' all'Altan, è di Beppe Viola, fine anni 70. Battuta che in pochissime parole ricostruisce la mentalità autoassolutoria del razzista che allarga le braccia: "Sarà mica colpa mia se lui ha la pelle nera". No, è colpa sua, facciamoglielo capire con le buone, ammesso che esistano, o con le cattive (meglio). In Europa c' è un' emergenza razzismo, ma il nostro calcio, a partire dai vertici, continua a buttare la polvere sotto il tappeto, a minimizzare, a fare battute. Se c' è in corso una battaglia, questo è il modo più sicuro per perderla.
Dago spia il 26 novembre 2019. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. La frase di Cellino sul colore della pelle di Mario Balotelli? “Ove mai fosse stata una battuta, come ho sentito dire, sarebbe stata infelice e incresciosa. Se la poteva risparmiare, è stata davvero un'uscita infelice, su questi argomenti non vanno fatte battute”. A Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Raffaella Fico, showgirl ed ex compagna di Mario Balotelli, ha commentato in questo modo le dichiarazioni del presidente del Brescia sull'attaccante, che hanno provocato un'ondata di polemiche. Secondo lei Balotelli lascerà il Brescia? “Non lo so”. Pare potrebbe andare a giocare in Turchia o a Toronto. “Speriamo che rimanga in Italia, ma sono cose professionali di Mario di cui io non so nulla”. I consigli sul sesso di Antonio Conte ai suoi giocatori? “Da donna, posso dire che dopo aver avuto un rapporto con l'uomo che amo mi sento ancora più energica, in forma, mi sento meglio”. Lo dice a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Raffaella Fico, showgirl ed ex compagna di Mario Balotelli. Per il mister dell'Inter la posizione ideale del calciatore deve essere sotto la sua partner. “Per non affaticare i muscoli...” Quindi il sesso prima delle partite non fa male. “Io da donna mi sento più energica, poi non so...” Quando era fidanzata con Mario Balotelli seguivate la “cura Conte”? “Queste sono cose intime e personali....”
Raffaella Fico e gli insulti razzisti alla figlia Pia: "All’asilo le hanno detto 'negra di m...'" Raffaella Fico, ospite di Storie Italiane, racconta che la figlia Pia è stata vittima di insulti razzisti all'asilo: "Porti le infezioni". Luana Rosato, Giovedì 07/11/2019, su Il Giornale. Domenica 3 novembre scorso, Mario Balottelli interrompeva il match Verona-Brescia per gli insulti razzisti nei suoi confronti. Anche la figlia del calciatore, però, è stata vittima di atteggiamenti simili e, come raccontato da Raffaella Fico a Storie Italiane, la piccola Pia è stata pesantemente insultata all’asilo. Ospite di Eleonora Daniele nel salotto televisivo di Rai 1, la Fico ha spiegato di aver partecipato alla partita di domenica scorsa insieme alla bambina ma, fortunatamente, si è allontanata dagli spalti alla fine del primo tempo impedendo a Pia di osservare cosa accaduto poco dopo al padre. Eppure, quanto successo durante quell’incontro di calcio, non è del tutto nuovo. Raffaella, che è stata legata a Mario Balotelli per alcuni anni, ha raccontato di essere stata lei stessa vittima di insulti razzisti ai tempi del suo fidanzamento con il calciatore. “Quando stavo con lui e facevo le serate in discoteca, mi è capitato che quando e entravo mi facevano il verso della scimmia – ha svelato la showgirl prima di soffermarsi su un triste episodio che ha coinvolto la figlia - .È capitato un episodio bruttissimo all'asilo qualche anno fa. Una bambina si è rivolta in malo modo a mia figlia: "Tu sei una negra di me..a, tu porti le infezioni, non ti posso dare la mano e prestare i miei giocattoli". Pia mi chiese cosa significava negra. Come puoi spiegare tutto ciò ad una bambina così piccola?”. “Queste cose sono così tristi nel 2019 – ha aggiunto Raffaella Fico - .Fa male, è brutto. Credo in un cambiamento e nella maturità delle persone. Altre volte, ho paura che Pia possa imbattersi ancora in queste cose”. Eppure, proprio la figlia Pia ha tentato di consolare il papà alla fine della partita tra Verona e Brescia. Nonostante non abbia avuto modo di assistere al momento in cui Balotelli ha interrotto il gioco, la bambina ha appreso dalla tv i tristi insulti razzisti rivolti al padre e gli ha mandato un messaggio per risollevargli il morale. “Noi la scena di Mario che ha tirato il pallone e ha fermato il gioco non l'abbiamo visto – ha spiegato la Fico - .La bambina ha visto un'intervista, subito dopo la partita, voleva consolarlo. Gli ha mandato un messaggio: 'Sono stupidi, non ascoltarli'”.
Da liberoquotidiano.it l'8 novembre 2019." "C'è un video in cui gruppo di tifosi fa il verso della scimmia. Ero lì con la bambina, l'ho visto dopo partita ed era scosso, nervoso e dispiaciuto. Non è la prima volta che succede, sentirsi dire determinate cose fa male", ha dichiarato Raffaella Fico a Storie Italiane. La showgirl ha commentato in diretta su Rai1 l'episodio di razzismo nei confronti del suo ex compagno Mario Balotelli avvenuto domenica scorsa durante Verona-Brescia allo stadio Bentegodi. "Mia figlia stava guardando Verona-Brescia in tv fa il triplo più male", aveva commentato a caldo l'attaccante. "Noi stavamo guardando la partita, per fortuna Pia ha visto solo il primo tempo. Meglio così, anche se ha visto l'intervista in tv del papà e ha provato a consolarlo", ha aggiunto la Fico nella puntata in onda il 7 novembre. L'ex del calciatore, con cui ha dato alla luce la piccola Pia, ha poi rivelato di essere stata vittima insieme a sua figlia di episodi razzisti: "Quando eravamo ancora insieme, sette otto anni fa, mentre facevo serate in discoteca mi accoglievano facendo il verso della scimmia perché ero la sua compagna. E' capitato un episodio bruttissimo anche a mia figlia Pia, andava all'asilo e una bambina le disse 'sei una negra di me**a, porti le infezioni, non possiamo giocare insieme e non ti posso dare la mano'. Sono cose che fanno male, ho dovuto rispondere a mia figlia che mi chiedeva cosa volesse dire negra. E' triste dover spiegare a una bambina di cinque anni che accadono ancora queste cose nel 2019. E' ignoranza", ha spiegato a Eleonora Daniele. "Anche parlarne troppo fa male, diventa un trend. Più se ne parla e peggio è, bisogna far agire le istituzioni", commenta in studio Anna Falchi a cui replica a tono la Fico: “Bisogna parlarne. Il problema va affrontato e risolto. Ogni essere umano accumula e accumula ma poi alla fine esplode”. La bionda showgirl insiste: “Balotelli, non è un esempio di calciatore e peraltro non è neanche simpatico. Io frequento gli stadi so che queste cose succedono spesso, ritengo invece gravi gli atti di bullismo nei confronti della bambina ”. La padrona di casa interviene frenando la Falchi: “Che significa che Mario Balotelli è poco simpatico? Non cerchiamo dietrologie”. La Fico sul finale aggiunge: “Tu dici che Mario non ti sta simpatico, ma questo è solo un giudizio tuo. Cosa c’entra?".
Raffaella Fico e Fabrizio Bracconeri, scontro sul razzismo nel salotto di Live! Scontro tra Raffaella Fico e Fabrizio Bracconeri a Live! Non è la d'Urso, l'attore de "La terza C" tuona: "A Zaniolo si può insultare la madre e Balotelli non si può dire che è nero?" Luana Rosato, Martedì 03/12/2019 su Il Giornale. Nella puntata del 2 dicembre scorso di Live!, Barbara d’Urso ha affrontato l’argomento sul razzismo e la discriminazione ospitando Raffaella Fico, ex compagna di Balotelli che ha rivelato che la figlia Pia è stata vittima di attacchi xenofobi, e Fabrizio Bracconeri, spesso finito nella polemica per alcune dichiarazioni sugli stranieri. “Io condanno qualsiasi forma di discriminazione, sia razziale che sociale – ha esordito la showgirl non appena la d’Urso le ha dato parola - .Poi, purtroppo, ci sono questi facinorosi che attaccano gratuitamente. Per me, il razzista non è altro che una persona ignorante”. Sostenuta dal pubblico in studio e da molti degli ospiti presenti nel salotto serale di Canale 5, la Fico ha ricevuto la solidarietà di Alessandra Mussolini. “La gente ti può attaccare per quello che dici, per quello che sei, non per quello che rappresenti: questa è la cosa grave - ha sottolineato - . Il razzismo non esiste, esiste la specie umana”. “Non riesco a capire perché una persona che chiede il rispetto delle regole venga definito razzista – ha sbottato Fabrizio Bracconeri dopo aver riascoltato alcune delle dichiarazioni che hanno fatto maggiormente discutere sugli emigrati - .Allo stadio, nel caso di Balotelli, non si può insultare un giocatore di colore, che gli si dà del razzista. Ad un giocatore della Roma, Zaniolo, ha la madre che è torturata tutte le domeniche dai tifosi delle squadre avversarie, ma nessuno dice che sono razzisti!”. “Se io dovessi fare ‘Buuu’ ad un giocatore di colore, chiedono la sospensione della partita per razzismo. Voi state male!”, ha aggiunto ancora Bracconeri lasciando molti ospiti perplessi. “Ci sono modi e modi di insultare! Il colore della pelle esula dal dare un calcio al pallone – è subito intervenuta la Fico - . Perdonami, ‘Buuu’ si può fare, ma dire ‘scimmia’ o qualcos’altro è totalmente differente. Non puoi prendere l’esempio di Zaniolo e rapportarlo a Mario o ad altri calciatori”. “Ma perché? A Zaniolo si può offendere la madre e a Balotelli non gli si può dire niente!”, ha sbottato Bracconeri, facendo presente che quando si va allo stadio si insultano sempre i giocatori avversari. “Per come giocano e non per il colore della pelle o per quello che rappresentano!”, ha sottolineato Raffaella, mentre Clemente Russo le ha fatto eco: “Purtroppo allo sport si mischia spesso tanta ignoranza”.
Da liberoquotidiano.it il 6 novembre 2019. Tiene ancora banco il caso Mario Balotelli-Hellas Verona. E sulla vicenda, al solito senza peli sulla lingua, dice ancora la sua Matteo Salvini, nel corso di un intervento a Ostia: "Per me Balotelli non è un modello - picchia duro il leader della Lega -. Trovo che gli italiani siano italiani, a prescindere dal colore della pelle". Dunque, la stoccata contro Gabriele Gravina, presidente della Federcalcio: "Il presidente Gravina faccia il suo lavoro e lasci che l'allenatore faccia il suo", commenta tranchant la possibilità che Roberto Mancini convochi in azzurro il centravanti del Brescia. "In Italia - riprende l'ex ministro - ci sono tanti giocatori migliori di Balotelli e non spetta al presidente della Figc decidere chi gioca e chi no". Infine un commento su Luca Castellini, l'ultrà del Verona a cui l'Hellas ha interdetto l'ingresso allo stadio fino al 2030: "Già non poteva andare allo stadio, siamo all'assurdo". Salvini si riferisce al fatto che il capo-ultrà era già colpito da Daspo che gli vietava l'ingresso allo stadio fino al 2022.
Da “la Zanzara - Radio 24” il 5 novembre 2019. Roberto Fiore, segretario di Forza Nuova a La Zanzara su Radio 24. Castellini. “Castellini è un nostro dirigente e lo confermo. Quello che ha detto su Balotelli che non è pienamente italiano lo condivido, ma si potrebbe dire anche dei miei figli che ho avuto da una spagnola e sono nati in Inghilterra. Anche loro non sono pienamente italiani. Castellini non ha detto nulla di sbagliato, è stata una trappola per Forza Nuova. Tutto quello che sta succedendo è frutto della polizia dle pensiero, come la commissione Segre ”. Balotelli. “Il tema del razzismo contro Balotelli è tutto inventato. In Italia non c’è odio razziale e noi non abbiamo nostri militanti condannati per razzismo in via definitiva. Castellini è confermato come dirigente di Forza Nuova. Balotelli italiano? Non del tutto, basta vedere da dove viene, non è stato adottato a zero anni ma più in là, . E’ difficile dire che Balotelli sia rimasto scandalizzato da quello che ha sentito, era uno che ha fatto l’ululato, due, tre, ma sono cose calcistiche”.
Cori contro Balotelli, la foto dell’ex ministro Fontana con il filonazista Castellini. Pubblicato martedì, 05 novembre 2019 da Corriere.it. Lorenzo Fontana, ex ministro della Famiglia, al fianco di Luca Castellini (qui l’articolo in cui si spiega chi è l’estremista di destra) , il capo di Forza nuova a Verona, fotografato mentre regge lo striscione del «Verona Family pride», corteo a sostegno del Congresso delle Famiglie che si è tenuto in città lo scorso marzo. Il primo è uno dei vertici della Lega di Matteo Salvini. Il secondo, già capo ultrà dell’Hellas Verona, oltre ad inneggiare a Hitler ha scatenato forte indignazione per aver detto che il giocatore di origini africane del Brescia «Mario Balotelli non potrà mai essere del tutto italiano». Il giocatore, domenica scorsa, proprio sul campo di Verona, aveva scagliato il pallone contro la curva gialloblù, dalla quale si erano levati «buuu» razzisti. Poi Balotelli ha risposto ai cori: «Siete la rovina».
La foto che ritrae l’ex ministro e l’estremista di destra sta facendo il giro d’Italia, e non solo, tramite i social network. Castellini, come se niente fosse, riguardo l’Hellas Verona ha dichiarato: «Siamo una squadra a forma di svastica, che bello se ci allena Rudolf Hess». L’ex ministro Fontana, invece, dopo il cori anti Balotelli, anche essendo Verona il suo principale bacino di voti, ha ridimensionato l’episodio con queste parole: «Grande Hellas! Avanti tutta! — si legge sul suo profilo Twitter —. Allo stadio mi confermano in molti di nessun coro razzista. Intanto è iniziata una vergognosa gogna mediatica contro Verona e i suoi tifosi. Andiamoci piano con le accuse e le sentenze.
Lombardi: «Mi urlavano ‘negher’ e mi davano del Balotelli». Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 da Corriere.it. «Mi sono sentito come Mario Balotelli». Eric Lombardi, capitano della Pallacanestro Biella, è amareggiato da quanto accaduto giovedì scorso, durante un turno infrasettimanale del campionato di basket di Serie A2. Insieme alla squadra giocava contro il Bergamo quando è stato insultato da alcuni tifosi di Treviglio. «Mi hanno urlato la parola “negher” e mi davano del Mario Balotelli» ha scritto su Istagram. Ma a loro “ricordo che hanno un giocatore di colore in squadra”. Il riferimento è a Ursulo D’Almeida che, a differenza del rossoblù, è nato nel Benin ed è a Treviglio dal 2017. Per la Federbasket è di formazione italiana, anche se non ha la cittadinanza e il passaporto è ancora quello del paese d’origine. Eric in realtà ha molto in comune con Balotelli. Nato a Torino, e adottato da una famiglia biellese, non ha reagito alle provocazioni di alcuni sostenitori della squadra lombarda durante il match, per poi affidare le sue parole ai social. E se nei giorni scorsi aveva preso le distanze proprio a quello che era accaduto a Mario Balotelli oggi di rivolge ai sostenitori del Bergamo: “Dispiaciuto per questo avvenimento, ringrazio i tifosi di Treviglio che non hanno utilizzato insulti razzisti e hanno pensato a sostenere la propria squadra”.
Squalificato il portiere insultato perché nero: ha lasciato il campo. Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 su Corriere.it. Ci sono degli sviluppi di giustizia sportiva e giudiziari nella vicenda del portiere dell’Agazzanese Saidou Daffe Omar, 38 anni, senegalese di origine, cittadino italiano e parmense di adozione, insultato da uno spettatore che sabato — aggrappato alla recinzione durante il derby di Eccellenza emiliana Bagnolese-Agazzanese — che per quattro volte gli ha gridato «negro di m...». Saidou (che è un tecnico federale e insegna al Centro Figc di Parma) è stato squalificato per una giornata. Più esasperato che sconfortato, il portiere, a un certo punto aveva deciso di lasciare il campo dirigendosi direttamente verso gli spogliatoi. Comportamento valso il cartellino rosso mostrato dall’arbitro. Ma subito dopo Daffe Omar è stato seguito, per solidarietà, dai suoi compagni di squadra: l’Agazzanese — che giocava fuori casa — e per la quale, per questo motivo, è stata decisa la sconfitta a tavolino, oltre a punto di penalizzazione. Per la Bagnolese è stata invece decisa la «messa in prova»: vale a dire che il giudice sportivo ha deciso che per una partita il suo stadio — il «Fratelli Campari»— resti senza pubblico. Ma la sanzione è stata sospesa: la società è sottoposta a un periodo di prova della durata di un anno». Una sorta di «diffida» che in caso di recidiva farebbe scattare la squalifica del campo. Intanto è stato identificato dai carabinieri di Bagnolo in Piano il responsabile degli insulti razzisti. Si tratta di un 45enne residente nel Modenese. Per lui sono state attivate le procedure per il Daspo. Negli spogliatoi il portiere aveva ricevuto la solidarietà anche da parte dei giocatori della Bagnolese. A Corriere.it il portiere —presidente di un’associazione di volontariato che si occupa di raccolta fondi e aiuti da destinare ai piccoli calciatori in Senegal — ha detto che sugli «spalti si respira un brutto clima e per questo non voglio che la mia compagna e i miei figli vengano a vedermi giocare. Non voglio che assistano a brutte scene».
Razzismo nel calcio, la giocatrice juventina Eni Aluko lascia l'Italia. Le Iene il 29 novembre 2019. Un altro caso di razzismo nel calcio dopo quello recente di Balotelli di cui ci siamo occupati con Nicolò De Devitiis. La giocatrice inglese della Juventus Eni Aluko lascia la Juventus femminile e l’Italia: “Orgogliosa di aver vinto tanto, ma l'Italia è un paio di decenni indietro sul tema dell'integrazione". Triste addio della calciatrice inglese Eni Aluko alla Juventus all’Italia. Dopo le molte vittorie sul campo, lascia la squadra e il nostro paese. Il motivo: razzismo e poca integrazione. “A volte Torino sembra un paio di decenni indietro sul tema integrazione”, dice. “Sono stanca di entrare nei negozi e avere la sensazione che il titolare si aspetti che io rubi qualcosa”. Con Nicolò De Devitiis vi abbiamo parlato nel servizio di qui sopra dei cori razzisti rivolti a Mario Balotelli durante il match contro il Verona. “Erano pochi coglioni, ma non 2 o 3, perché li ho sentiti dal campo”, ci ha detto SuperMario. Non solo, subito dopo sono arrivate le parole allucinanti di Luca Castellini, capo ultras veronese e noto esponente locale di Forza Nuova: “Balotelli non potrà mai essere del tutto italiano, non siamo razzisti, ce l’abbiamo anche noi un negro in squadra”. Che siano pochi o tanti i “coglioni” che insultano, a volte i giocatori decidono di abbandonare le squadre, il campo e per questo vengono pure squalificati. È stato questo il caso della scorsa settimana del portiere dell’Agazzanese Saidou Daffe Omar di origine senegalese. Dopo i vari insulti “negro di m...” durante il derby Bagnolese-Agazzanese in Eccellenza, il giocatore ha lasciato il campo. La decisione paradossale del giudice: squalifica per un turno per Omar (che era stato espulso per aver lasciato il campo accompagnato poi da tutti i compagni di squadra, così la sua Agazzanese ha perso anche l’incontro a tavolino).
Aluko lascia l’Italia: «A Torino trattata come una ladra o come Escobar». Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 su Corriere.it da Lorenzo Bettoni, Massimiliano Nerozzi, Tommaso Pellizzari. La 32enne calciatrice della Juventus nata in Nigeria e cresciuta in Inghilterra : «Mi sono stancata: la città è indietro di decenni. Ma non ho mai subito attacchi razzisti dai tifosi». Sul campo era una stella della Juventus Women, Eniola Aluko, 32 anni, nata in Nigeria e cresciuta in Inghilterra, ma per le strade di Torino, tutto cambiava: «Mi sono stancata di entrare nei negozi e avere la sensazione che il titolare si aspetti che rubi qualcosa», ha scritto sul Guardian. «Oppure, può capitarti tante volte di arrivare all’aeroporto ed essere trattata come Pablo Escobar, per via dei cani anti-droga intorno a te». Avvocato, columnist del quotidiano londinese, da sempre impegnata per la lotta al razzismo e a ogni forma di discriminazione, Aluko è appena tornata in Inghilterra, anticipando il suo addio alla squadra bianconera. Le mancavano stimoli e aveva nostalgia, aveva spiegato, ma c’era altro: il razzismo. «A volte — ha spiegato — Torino sembra un paio di decenni indietro rispetto all’apertura verso diversi tipi di persone. E mi sono stancata». È una questione di vita, non di pallone: «Non ho mai avuto attacchi razzisti dai tifosi della Juve, né in campionato. Anche se c’è un problema nel calcio italiano e in Italia». E non si fa troppo per risolverlo: «La risposta che viene data mi preoccupa: dai presidenti ai tifosi del calcio maschile, che lo vedono come parte della cultura del tifo». In città, sembra capirla bene Ousmane Diop, cestista della Reale Mutua, senegalese di 19 anni naturalizzato italiano: «C’è del vero in quello che ha detto Eniola. A volte capita di entrare in negozi o in altri posti con amici e vieni subito notato perché sei di colore». E ancora: «Hai la percezione che ti guardino in maniera diversa, perché considerano i ragazzi di colore persone che rubano o fanno cose più brutte. Non solo a Torino, ma da ogni parte d’Europa». Oltre che di razzismo, Aluko parla di offerte culturali, bocciando la Mole: «Mi piacciono eventi, musei, negozi, e la varietà che se ne trova a Torino non è come vorrei». Qualche tempo fa aveva detto il contrario Sara Gama, sua ex compagna: «I musei qui sono molto stimolanti». Ma è il riferimento al razzismo che più pesa: «Mi dispiace molto per le sue parole, Torino non è razzista — ribatte Maria Luisa Coppa, presidente dell’Ascom, l’associazione dei commercianti — e sono certa che dentro i negozi la guardavano perché è una bellissima ragazza».
Juventus, il triste addio di Eni Aluko: "Stanca di essere trattata come una ladra". L'attaccante lascia e accusa: "Contro la Fiorentina la mia ultima gara in bianconero. Orgogliosa di aver vinto tanto, ma l'Italia è un paio di decenni indietro sul tema dell'integrazione". La Repubblica il 28 novembre 2019. "Basta essere trattata come una ladra". E' un triste addio quello di Eniola Aluko, che lascia la Juventus. Lo annuncia lei stessa scrivendo una lettera al Guardian. Una sola stagione e mezzo in cui la calciatrice nigeriana naturalizzata britannica, ha conquistato il tricolore, la Coppa Italia e la Supercoppa nazionale.
"Italia anni indietro sul tema integrazione". "Questo fine settimana voglio giocare la mia ultima partita per la Juventus, portando a termine un anno e mezzo di grandi successi e tanto apprendimento - ha detto la Aluko -. Quando sono arrivata nell'estate del 2018, sono stata conquistata da un grande club e da un grande progetto. Sul campo abbiamo vinto tanto: un titolo di campionato, la coppa nazionale e la Supercoppa". Diverso il discorso fuori dal campo: "A volte Torino sembra un paio di decenni indietro sul tema integrazione. Sono stanca di entrare nei negozi e avere la sensazione che il titolare si aspetti che io rubi qualcosa", ha accusato la Aluko. "Tante volte arrivi all'aeroporto - ha detto ancora - e i cani antidroga ti fiutano come se fossi Pablo Escobar..." L'attaccante nigeriana ha precisato però "di non avere avuto episodi di razzismo dai tifosi della Juventus né tanto meno nel campionato di calcio femminile, ma il tema in Italia e nel calcio italiano c'è ed è la risposta a questo che veramente mi preoccupa, dai presidenti ai tifosi del calcio maschile che lo vedono come parte della cultura del tifo".
"Sono orgogliosa". "Ripensando ai miei successi con questa squadra, che includeva il completamento della scorsa stagione come capocannoniere, sono orgogliosa. Quando sono arrivata, non sapevo se potevo adattarmi allo stile di gioco, alla cultura, alla lingua e alla città di Torino. Sapevo che avrei giocato, ma non sapevo dove, o quanto bene. In una squadra costruita attorno a un nucleo di nove nazionali italiane, sono riuscita a integrarmi perfettamente. Non credo sia una cosa facile da fare per un attaccante internazionale. Quindi lasciare dopo soli 18 mesi non è stata una decisione facile. Mi rendo conto che la mia attenzione deve essere rivolta ai prossimi 3-5 anni della mia carriera piuttosto che ai prossimi mesi, ma riflette anche il fatto che ho trovato gli ultimi sei mesi molto difficili". "La mia ultima partita è contro la Fiorentina, seconda classificata della scorsa stagione. È un match importante nella corsa al titolo contro una diretta concorrente. Non vedo l'ora di salutare i tifosi della Juventus che mi hanno mostrato rispetto e sostegno. Domenica torno a casa", ha aggiunto l'attaccante.
"Entusiasta di cosa mi riserverà il futuro". "Tra oggi e Natale lavorerò per Amazon seguendo le partite della Premier League, della WSL e facendo altre cose eccitanti come finire il mio libro. Molte persone vedono la fine dell'anno come un momento di riflessione e quindi per fare piani e fissare obiettivi per il futuro, e sicuramente lo farò anche io. Dopo 18 mesi il capitolo si sta chiudendo, in una lunga carriera. Tornerò a casa, dove tutto è iniziato, e ancora una volta sono entusiasta di ciò che il futuro ha in serbo", ha concluso la Aluko.
Chi è la calciatrice Eni Aluko: lo zaino e “la regola del negozio” dietro il suo addio all’Italia. Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 su Corriere.it da Giampiero Timossi. È relativamente sorprendente l’addio di Eni Aluko all’Italia. Non solo perché le cronache quotidiane - al di là di quelle sportive - fanno cascare le braccia (e passare la voglia di vivere qui) anche a chi è italiano e bianco. Ma molte delle cose che ha citato nella sua rubrica sul quotidiano inglese «The Guardian», Eniola le aveva già scritte a settembre, sulla rivista online The Players’ Tribune, in occasione dell’uscita del suo libro autobiografico «They Don’t Teach This» («Questo non te lo insegnano). Per esempio la storia dello zainetto: «Un giorno a Torino sono entrata in un minimarket sotto casa. Appena ho iniziato a fare la spesa, ho sentito una donna chiedermi se potevo lasciare il mio zaino all’ingresso. Lì per lì non avevo capito e ho continuato con la spesa: un pacco di pasta, un vasetto di pesto. Notando nel frattempo che nessun cliente aveva lasciato le borse all’ingresso (...). Allora sono andata dalla donna e le ho detto: “Vedo che non ci sono altre borse all’ingresso e ci sono altre persone nel negozio. Perché mi ha chiesto di lasciare il mio zaino qui?”. Lei ha risposto: “È la regola del negozio”. Ho replicato: “No, no, no, non è la regola. Lei pensava che io volessi rubare la pasta e il pesto”. Poi le ho mostrato il logo della Juventus sul mio zaino e le ho spiegato che è la squadra in cui gioco. E solo a quel punto lei ha realizzato che non avrei rubato niente. “Oddio, mi dispiace tanto”. Ma per me non era abbastanza. Le ho detto: “Ascolti, lei non può fare una cosa del genere. Ci saranno tante altre persone che verranno qui e non saranno della Juventus, ma meritano di essere trattate come ogni altro cliente. Era mortificata. Ma ve lo garantisco: se un’altra ragazza nera entrerà in quel negozio, una cosa del genere non le succederà più». Tosta, vero? D’altra parte cos’è più difficile, se sei una ragazza nigeriana, che all’età di un anno si trasferisce a Birmingham con la famiglia? Diventare calciatrice o avvocata? Eni Aluko è una delle 11 inglesi ad aver vestito più di 100 volte la maglia della nazionale e da ragazzina voleva fare la legale. Solo che, quando lo disse a un colloquio sull’orientamento lavorativo, la donna dall’altra parte della scrivania la guardò imbarazzata e le chiese: «Perché non l’infermiera?». E quando, dall’età di 5 anni, giocava a calcio con il fratello Sone e i suoi amici, iniziò a farsi chiamare Eddie perché era l’unica ragazza e voleva a tutti i costi essere accettata. Fino al momento in cui qualcuno disse: «Ehi, lei non può giocare, è una femmina». Bene, se Eni è diventata una calciatrice professionista, ha studiato Giurisprudenza, ha lavorato in più di uno studio legale e ha una rubrica fissa di calcio sul «Guardian», lo deve ovviamente alle sue doti non comuni. Ma anche - ha raccontato nella sua autobiografia - a un libro: «Il buio oltre la siepe» di Harper Lee. Letto a scuola e poi riletto più e più volte nella vita, perché le arringhe del protagonista (l’avvocato Atticus Finch) sono ciò che le ha dato l’ispirazione e la forza per «combattere il sistema e perseguire la giustizia a tutti i costi». Anche per questo, ha da poco aderito al progetto Common Goal, la piattaforma benefica lanciata due anni fa dal giocatore spagnolo del Manchester United Juan Mata. Chi si aggrega cede l’1% del proprio salario a organizzazioni impegnate nel sociale che sceglie personalmente. A presentarla ufficialmente è stato un grande ex dei Red Devils, Eric Cantona. Ad aspettarla, tra gli altri iscritti, il capitano della Juventus Giorgio Chiellini. Perché, come ha concluso Eni nella sua personale arringa, su «The Players’ Tribune» «bisogna continuare a parlare, nei momenti in cui è importante farlo. Bisogna continuare a insistere, per educare le persone e far loro cambiare idea. Certo, non vincerai sempre. Ma a volte sì».
· Il Sud scomparso. Dire che i napoletani son tutti ladri non è reato!
ORA VI POTETE SCATENARE – DIRE CHE I NAPOLETANI SONO TUTTI LADRI NON È PIÙ REATO. Da Il Messaggero il 14 giugno 2019. Dire che “i napoletani sono tutti ladri” non è reato. Almeno stando a quanto sostiene il vice procuratore di Aosta Sara Pezzetto. La vicenda inizia nel gennaio scorso quando nel bar delle Guide di Courmayeur il proprietario si rifiuta di trasmettere la partita di calcio Milan-Napoli, dicendo al cliente che glielo aveva chiesto che «non gli piacevano i napoletani perché sono tutti ladri». Il vice procuratore onorario di Aosta Sara Pezzetto ha chiesto al giudice di pace l'archiviazione dell'indagine per diffamazione a carico del gestore del bar, aperta dopo una querela di un quarantottenne originario di Caserta e residente a Milano, a cui rimane ora la strada del giudizio civile. I fatti risalgono al 26 gennaio scorso. Il comportamento, secondo la procura guidata da Paolo Fortuna, non configura il reato di diffamazione in quanto l'offeso era presente e neppure quello di ingiuria, ormai depenalizzato. Inoltre in base a una sentenza della Cassazione, non si può neppure parlare di «odio razziale o etnico» dato che manca un «sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori». Secondo il cliente, il gestore del bar alla sua richiesta aveva dapprima risposto con «a noi i napoletani non piacciono e le partite del Napoli non le facciamo vedere». In quel momento nel locale vi erano diversi turisti stranieri che seguivano il Torneo Sei nazioni di rugby. L'avventore aveva quindi accompagnato fuori dal bar i propri figli ed era rientrato, sentendosi dire che «non gli piacevano i napoletani perché sono tutti ladri, perché quando ci sono dei napoletani nel locale fanno sempre casino e spesso rubano i soldi dalla cassa», precisando poi che «il locale è mio e nel mio locale i napoletani non li voglio».
“IL SUD È SCOMPARSO DALL'AGENDA POLITICA DI QUALSIASI PARTITO”. Ernesto Galli Della Loggia per il “Corriere della sera” il 13 giugno 2019. È doveroso ma anche troppo facile scandalizzarsi di quanto in uno studio televisivo Rai è uscito dalla bocca di due giovani «neomelodici», alias cantanti meridionali di vastissimo successo specializzati in moderne canzoni di malavita. I quali, come si sa, in perfetta coerenza con i testi delle loro canzoni, in cui si esaltano uomini e gesta della delinquenza spesso sconfinando nella vera e propria apologia di reato, se ne sono usciti con espressioni di sostanziale dileggio nei confronti di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. «Queste persone che hanno fatto queste scelte di vita sanno le conseguenze - ha sentenziato uno dei due teppisti canori -, come ci piace il dolce ci deve piacere anche l' amaro». Una volta conosciute, simili parole - a quel che pare debolmente redarguite dal conduttore della trasmissione - hanno suscitato l' abituale indignazione stentorea dell' Italia ufficiale. Con l' inevitabile corredo di rampogne alla Rai, scuse, promesse di essere più «attenti» in futuro, annuncio di eventuali sanzioni e così via seguitando con l' aria fritta di sempre. Nessuno però si è fatto la domanda più ovvia: come mai «Scarface» e «Tritolo» (questi i leggiadri soprannomi dei due «neomelodici») hanno in tutto il Mezzogiorno il successo strepitoso che hanno? E dunque che razza di società è quella dove accade una cosa simile, dove si festeggiano nozze, battesimi e santi patroni inneggiando alle rivoltellate, agli uomini d' onore e ai morti ammazzati? La risposta la conosciamo: è la società del Sud attuale. La società della disgregazione e dell' abbandono, dove lo sperpero e la malversazione aggravano l' ormai congenita inadeguatezza delle risorse. È la società delle opere pubbliche lasciate a metà, della frequenza scolastica massicciamente elusa, dell' industrializzazione troppo spesso fallita, delle amministrazioni locali in mano all' incapacità o al malaffare, dell' umiliante anabasi sanitaria al Nord, dei centri urbani sconvolti e delle periferie invivibili, del voto di scambio, del trasformismo politico come prassi. È la società dove sotto un' apparente normalità dai toni magari spensierati, com' è nel suo carattere antico, serpeggia una sconsolatezza triste, una frustrazione mortificata, un pervadente sentimento di continua inadeguatezza, fatte apposta per spegnere iniziative, per logorare energie e speranze. Sembriamo sapere così bene che cosa è il Mezzogiorno che da tempo, paradossalmente, non vogliamo però saperne più nulla. Sono anni e anni che il resto del Paese ha cessato di occuparsene. Il Sud è scomparso dall' agenda politica di qualsiasi partito così come dall' informazione. Nessuno più ha voglia di interessarsi ai suoi problemi. La sua condizione drammatica non fa più notizia se non per qualche clamoroso fatto di sangue. Sicché se un vero rimprovero va mosso alla Rai non è quello di aver dato casualmente voce alle volgarità di due sciagurati giovinastri, bensì è quello di essersi uniformata da anni all'andazzo generale lasciando che di un intero pezzo d'Italia si occupassero solo le scialbe cronache della sue sedi regionali, rivolte, come in tutta la Penisola, unicamente a illustrare virtù e benemerenze dei cacicchi locali. «Scarface» e «Tritolo» fanno notizia proprio perché rivelano ciò che non sappiamo ma che avremmo dovuto sapere: indoviniamo che attraverso le loro parole impudiche è l' intero degrado in cui nella nostra indifferenza è sprofondato un terzo del Paese che parla e c'interpella. Perché comunque e a dispetto di tutto, il Sud esiste e sta lì. E l'Italia deve decidere una volta per tutte che cosa vuole farci, perché forse non ha davvero capito che cosa significa abbandonarlo a se stesso. Il Sud sta lì con la mole della sua arretratezza ma anche con le sue sparse oasi di sviluppo talora di altissima qualità tecnologica. Con il suo mercato di consumatori non proprio indifferente per tanta industria del Nord, e con i suoi milioni di cittadini elettori che possono decidere da chi e come deve essere governato il Paese. Sta lì infine - e principalmente - con il rilievo della sua posizione geografica immersa nel Mediterraneo. Esso dunque ricorda che per l' Italia decidere che cosa fare del Mezzogiorno significa decidere per ciò stesso che cosa fare del Mediterraneo. Cioè della sua proiezione naturale in quel mare e verso i soli teatri - i Balcani, l'Africa e il Levante - prospicienti su quelle acque e dove essa può contare qualcosa. O questo ormai non vuol dire nulla dal momento che abbiamo deciso (non so chi né quando) che il nostro futuro si gioca solamente tra Berlino e Bruxelles, al massimo con un occhio a Pechino? Un'Italia senza il Sud va ineluttabilmente incontro a una drammatica perdita di rango destinata a riflettersi pesantemente anche a nord del Garigliano: come diceva Gaetano Salvemini, essa diviene solo «un Belgio più grande» (sia detto con tutto il rispetto per il Belgio). Non si tratta solo di questo però. C'è di peggio. Infatti, il resto dell' Italia può benissimo disinteressarsi del Mezzogiorno, fare come se non ci fosse: il fatto è che in ogni caso è comunque il Mezzogiorno che dimostra di non avere intenzione di disinteressarsi del resto d'Italia. Lo sta facendo da anni trapiantando nel cuore dell' Emilia-Romagna, della Lombardia, del Veneto, nel cuore dell' opulento Nord, le succursali delle sue potenti organizzazioni criminali. Allargandone sempre più il dominio, erodendo il tessuto civile e amministrativo di quelle regioni, dei suoi governi locali, in certo senso letteralmente mangiandosele. A suo modo è una sorta di vendetta per il troppo lungo oblio. Alla quale non c' è che una risposta: ricominciare a occuparsi di quella parte decisiva del nostro Paese. Con intelligenza e con passione; non con indulgenza ma con generosità: perché alla fine è di noi tutti che si tratta. Peccato caro Galli Della loggia. I Neomelodici, dei quali si ignorava l’esistenza, i meridionali li hanno conosciuti proprio sulla Rai, la tv di Stato. Inoltre far dar fiato alle trombe sempre a chi, da giornalista, non dà notizie, ma esprime opinioni razziste notizie, non è paritetico. La disaffezione dei meridionali rispetto a tutto quanto inneggi e rispecchi le istituzioni nazionali è dovuto al fatto che i meridionali, sin dal tempo dei Savoia, si son sentiti sempre come un popolo colonizzato. Se l’informazione è da sempre in mano al Nord Italia, mai si potrà avere una verità storica condivisa. Sarebbe bello parlare di Unità d’Italia e Risorgimento, Liberazione e fenomeni mafiosi. Far parlare di mafia chi la conosce bene non è conveniente per l’elìte.
Il Mezzogiorno saccheggiato (non dimenticato). Galli della Loggia e i cacicchi della notte di Rai3. Roberto Napoletano su quotidianodelsud.it Sembriamo sapere così bene che cosa è il Mezzogiorno che da tempo, paradossalmente, non vogliamo però saperne più nulla. Sono anni e anni che il resto del Paese ha cessato di occuparsene. Il Sud è scomparso dall’agenda politica di qualsiasi partito così come dall’informazione. Riproduciamo questo passaggio di un editoriale “Le verità (scomode) sul nostro Meridione” pubblicato ieri in prima pagina sul Corriere della Sera, a firma di Ernesto Galli della Loggia, che ci ha colpito per almeno due ragioni.
La prima: nel colpevole silenzio informativo segnala il problema centrale del Paese e critica in modo sacrosanto la Rai che “ha lasciato che di un intero pezzo d’Italia si occupassero solo le scialbe cronache delle sue sedi regionali”; doppio plauso a Galli della Loggia, ci permettiamo di aggiungere che l’informazione di approfondimento del tg3 con i suoi “cacicchi” della notte arriva a bandire le libere voci nazionali sul Mezzogiorno, come la nostra, financo nelle rassegne stampa. Si ignora, in tutti questi comportamenti omissivi e censori, che grazie ai telespettatori delle regioni meridionali la Rai riesce a tutelare il suo patrimonio di ascolti e che si tratta di un’azienda pubblica finanziata dai contribuenti. C’è materia per dibatterne in Parlamento nelle sedi competenti.
La seconda: non è affatto vero che il Mezzogiorno è scomparso dall’agenda politica di qualsiasi partito, qui Galli della Loggia sbaglia, perché viceversa è diventato - come questo giornale ha documentato sulla base di inchieste giornalistiche e rapporti comparativi inequivoci delle principali istituzioni contabili della Repubblica italiana - la cassa pubblica con cui foraggiare la spesa assistenziale delle Regioni ricche del Nord. Uno scippo di decine e decine di miliardi l’anno che ha tolto ingiustificatamente spesa sociale e produttiva dovute al Mezzogiorno, si va dagli asili nido all’alta velocità, per ingrassare flussi affaristici e, a volte addirittura criminali, nelle zone più opulente del Paese.
Con il trucco della spesa storica per cui il ricco diventa sempre più ricco e il povero diventa sempre più povero, sotto la regia determinante della Lega prima di Bossi poi di Salvini, ma con connivenze di tutti gli schieramenti di partito da sinistra a destra, le Regioni e i Comuni del Nord hanno saccheggiato il bilancio pubblico italiano impossessandosi con destrezza di risorse destinate agli enti locali del Sud per almeno dieci anni consecutivi. Si sono mossi con una logica miope che ha dato e continua a dare, di certo, indebito sollievo nel breve periodo alle aree più ricche, ma condanna per sempre l’intero Paese al declino perché prepara il terreno alla colonizzazione franco-tedesca del Nord e abbandona il Sud alla deriva. Una vergogna civile, prima ancora di uno scandalo.
La soddisfazione più grande, però, ci viene dal lavoro dei bravissimi Luca Bianchi e Carmelo Petraglia, pubblicato su Lavoce.info, che smaschera con la forza dei numeri della Ragioneria generale dello Stato e dei Conti pubblici territoriali (Cpt) pubblicati da questo giornale nel suo primo giorno di uscita, che non è vero che il Sud sottrae spesa pubblica al Nord ma l’esatto contrario. La spesa delle amministrazioni centrali, come abbiamo documentato più volte, è addirittura pari a poco più del 5% di quella relativa ai diritti sociali e all’istruzione scolastica primaria. La ministra, Erika Stefani, ha avuto la faccia tosta di presentarsi in Parlamento e di spacciare come totali i dati delle amministrazioni centrali, più favorevoli alle regioni meridionali, omettendo di dire che si tratta di una quota nettamente al di sotto della metà della spesa regionalizzata del settore pubblico allargato. Ha occultato, con dolo politico, lo scippo pluriaggravato che le Regioni e i Comuni del Nord fanno dal 2009, l’anno in cui si è cominciato a saccheggiare la spesa e si è fatto esplodere il debito, grazie alla copertura della legge 42 del ministro leghista Calderoli. Che permette transitoriamente di utilizzare il criterio della spesa storica, in attesa di definire i livelli essenziali di prestazione uguali per tutti i cittadini in materia di sanità, scuola, traporti. In un Paese civile un ministro che esibisce dati veri perché la Ragioneria generale dello Stato è una istituzione seria, ma omette di dire che sono pesantemente incompleti e, quindi, risultano assolutamente falsi, e lo fa per sua scelta dolosa, viene accompagnata alla porta e cessa la carriera politica. Invece, trama perché le Regioni del Nord si impossessino per sempre della cassa del Sud con l’autonomia differenziata. Se ciò avvenisse l’Italia per come siamo abituati a conoscerla non esisterebbe più. Sarà bene riprendere a parlare seriamente del Mezzogiorno e recuperare settanta anni dopo la coerenza meridionalista di De Gasperi. Sempre che il vaniloquio di Salvini e di Di Maio cessi per qualche settimana e consenta a Conte e Tria di fare quello che sanno di dovere fare per evitare la perdita della sovranità del Paese. Il Capitano e l’erede scelto da Casaleggio scendano dalle nuvole e mettano i piedi per terra. A quel punto, dovranno solo dire grazie a chi prova a sbrogliare la matassa di guai creata da loro.
Risposta a Galli della Loggia sull’articolo Corriere della Sera “Le verità (scomode) sul Sud”. Leo Procopio, segretario Italia del Meridione Catanzaro su Soveratoweb.com il 13 giugno 2019. Sul Corriere della Sera online, datato 12 giugno, appare un articolo a firma di Ernesto Galli della Loggia dal titolo “Le verità (scomode) sul Sud“. Sottotitolo: l’Italia deve decidere una volta per tutte che cosa vuole fare del Meridione, perché forse non ha davvero capito che cosa significa abbandonarlo a se stesso. Finalmente! Mi sono detto. Qualcuno s’è ricordato che la questione meridionale non è mai stata risolta e fa appello affinchè torni (nuovamente?) nell’agenda della politica. Mi son perciò immerso nella lettura nella certezza che da li a breve Galli della Loggia elencasse le ragioni per le quali fosse arrivato il momento per cui il resto d’Italia avrebbe dovuto prestare interesse al Meridione. Mi aspettavo di leggere che era arrivato il momento di riconoscere, come affermava Nicola Zitara, che prima del 1860 il Sud era uno Stato e dopo è diventato soltanto una colonia. Che il nemico del Meridione non era rappresentato dai Borbone, che anzi lo avevano fatto decollare e progredire, bensi da coloro che, in nome di un’Unità fasulla non ancora realizzata, avevano rapinato i meridionali delle loro ricchezze e delle loro terre. Mi sarei aspettato di leggere che le famiglie meridionali perbene non ne possono più di vedere i loro figli portatori sani di idee, energie, entusiasmi salire sui treni e andare via, svuotando la parte migliore del Mezzogiorno. E che le famiglie non ne possono più di pagare affitti da capogiro, di stipendiare atenei, di rimettere rimesse. Una spesa incalcolabile. Mi sarei aspettato di leggere che Il Sud ha di che disperarsi e non lo si può più lasciare abbandonato. Mi sarei aspettato di leggere qualcosa di simile per portare e dare attenzione ad un popolo da molto tempo trascurato. Invece il della Loggia esorta si a prendersi cura dell’Italia più povera ma per ragioni completamente diverse da quelle che io e probabilmente una buona parte di italiani, quanto meno meridionali, ci aspettavamo. Egli dice:” il resto d’Italia può benissimo disinteressarsi del Mezzogiorno, fare come se non ci fosse” ; il fatto, ammette, “ è che in ogni caso è comunque il Mezzogiorno che dimostra di non avere intenzioni di disinteressarsi del resto d’Italia”. E’ a conferma di ciò, scrive, che “lo sta facendo da anni trapiantando nel cuore dell’Emilia Romagna, della Lombardia, nel Veneto, nel cuore dell’opulento Nord, le succursali delle sue potenti organizzazioni criminali. Allargandone sempre più il dominio, erodendone il tessuto civile ed amministrativo di quelle regioni, dei suoi governi locali; in in un certo senso letteralmente mangiandosele”. Bisogna occuparsi del sud non per quel che è o è stato, ma solo perché altrimenti le mafie meridionali ci mangiano. Come dire: ad un povero dai da mangiare non per sfamarlo, ma per togliertelo dai piedi. Ecco, questo è il pensiero del signor Ernesto galli della Loggia. Mi piacerebbe che ogni cittadino meridionale nel gridare : VERGOGNA, VERGOGNA, VERGOGNA facesse una bella pernacchia al suo indirizzo e gli ricordasse che la civiltà dei popoli viene prima della civiltà degli individui e che nel caso di quella meridionale ebbe il nome di “ MAGNA GRAECIA” e che l’ Italia prese il nome da quella parte di Calabria che al tempo degli itali si estendeva dai golfi di Sant’Eufemia e di Squillace alla provincia di Reggio Calabria. Basta questo per ricollocare l’Ernesto nella sua giusta dimensione di, come cantava la nostra corregionale Mia Martini, piccolo uomo? Leo Procopio, segretario Italia del Meridione Catanzaro
· Le radici meridionali della lingua italiana.
La Divina Commedia è razzista, via dalla scuola. Proposta shock di "Gherush92", organizzazione di ricercatori e professionisti delle Nazioni Unite: "Contenuti islamofobici e antisemiti." Globalist 13 marzo 2012.
Stereotipi, luoghi comuni, contenuti e frasi offensive, razziste, islamofobiche e antisemite che difficilmente possono essere comprese e che raramente vengono evidenziate e spiegate nel modo corretto. E' il contenuto di alcune terzine della Divina Commedia che, secondo 'Gherush92', organizzazione di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti, razzismo, antisemitismo, islamofobia, andrebbe eliminata dai programmi scolastici o, quanto meno, letta con le dovute accortezze. ''La Divina Commedia - spiega Valentina Sereni, presidente di Gherush92 - pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposta senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all'antisemitismo e al razzismo''. Sotto la lente di ingrandimento in particolare i canti XXXIV, XXIII, XXVIII, XIV. Il canto XXXIV, spiega l'organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: ''Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell'apostolo che tradì Gesù)''; ''giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio, persona infida, traditore'' (De Mauro, Il dizionario della lingua italiana). Il significato negativo di giudeo è esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell'antisemitismo. "Studiando la Divina Commedia - sostiene Gherush92 - i giovani sono costretti, senza filtri e spiegazioni, ad apprezzare un'opera che calunnia il popolo ebraico, imparano a convalidarne il messaggio di condanna antisemita, reiterato ancora oggi nelle messe, nelle omelie, nei sermoni e nelle prediche e costato al popolo ebraico dolori e lutti''. E ancora, prosegue l'organizzazione, ''nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù; i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti''. ''Nel canto XXVIII dell'Inferno - spiega ancora Sereni - Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l'Islam come una eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli. L'offesa - aggiunge - è resa più evidente perché il corpo ''rotto'' e ''storpiato'' di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un'offesa''. Anche i sodomiti, cioè coloro che ebbero rapporti "contro natura", sono puniti nell'Inferno: I sodomiti, i peccatori più numerosi del girone, sono descritti mentre corrono sotto una pioggia di fuoco, condannati a non fermarsi. Nel Purgatorio i sodomiti riappaiono, nel canto XXVI, insieme ai lussuriosi eterosessuali. ''Non invochiamo né censure né roghi - precisa Sereni - ma vorremmo che si riconoscesse, in maniera chiara e senza ambiguità che nella Commedia vi sono contenuti razzisti, islamofobici e antisemiti. L'arte non può essere al di sopra di qualsiasi giudizio critico. L'arte è fatta di forma e di contenuto e anche ammettendo che nella Commedia esistano diversi livelli di interpretazione, simbolico, metaforico, iconografico, estetico, ciò non autorizza a rimuovere il significato testuale dell'opera, il cui contenuto denigratorio è evidente e contribuisce, oggi come ieri, a diffondere false accuse costate nei secoli milioni e milioni di morti. Persecuzioni, discriminazioni, espulsioni, roghi hanno subito da parte dei cristiani ebrei, omosessuali, mori, popoli infedeli, eretici e pagani, gli stessi che Dante colloca nei gironi dell'inferno e del purgatorio. Questo è razzismo che letture simboliche, metaforiche ed estetiche dell'opera, evidentemente, non rimuovono''. ''Oggi - conclude Sereni - il razzismo è considerato un crimine ed esistono leggi e convenzioni internazionali che tutelano la diversità culturale e preservano dalla discriminazione, dall'odio o dalla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e a queste bisogna riferirsi; quindi questi contenuti, se insegnati nelle scuole o declamati in pubblico, contravvengono a queste leggi, soprattutto se in presenza di una delle categorie discriminate. E' nostro dovere segnalare alle autorità competenti, anche giudiziarie, che la Commedia presenta contenuti offensivi e razzisti che vanno approfonditi e conosciuti. Chiediamo, quindi, di espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali o, almeno, di inserire i necessari commenti e chiarimenti''.
COSÌ LA SICILIA INFLUENZÒ LA LINGUA. Valeria Ferrante 17 marzo 2011 su La Repubblica. «La Sicilia, insieme ad altre regioni, concorse all' eliminazione dell' uso del cosmopolitico latino medioevale, creando le premesse per lo sviluppo di una "lingua letteraria". Attribuirle la nascita dell' italiano, sarebbe comunque improprio. Quello che Foscolo, Cattaneo, Manzoni avevano sognato, che l' italiano diventasse davvero la lingua comune degli italiani, è solo oggi una realtà. Prima, non esistendo un popolo che lo parlasse, l' italiano era rimasto segno di unità e identità solo peri pochi che sapevano leggere e scrivere: dunque peri letterati». Lo afferma Tullio De Mauro, patriarca dei linguisti, ragionando sull' importanza dell' italiano, come fattore determinante per la nascita dell' unificazione politica, e su come la Sicilia possa aver influito nel processo di formazione di una nostra identità nazionale e quindi alla nascita della lingua comune. «Il contributo della Sicilia è stato molteplice - continua lo studioso - Particolare rilievo ebbero le opere di Verga, Pirandello, De Roberto, Gentile, o di autori oggi dimenticati come Giovanni De Cosmi. In un contesto di corale rinnovamento si inscrisse anche l' esperienza della Scuola siciliana che ebbe un ruolo certamente significativo. Con la nascita della poesia d' amore si determinò uno spostamento dell' asse culturale che, dal nord della Francia, con i trovatori della Provenza, si sarebbe posto in Italia e nello specifico in Sicilia». Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Stefano Protonotaro, Cielo d' Alcamo, Giacomino Pugliese, Rinaldo d' Aquino - quasi tutti funzionari statali - raccoltisi nel 1230 intorno alla corte di Federico II, formarono la cosiddetta Scuola siciliana, che assunse un ruolo d' avanguardia nella formazione della prima espressione poetica italiana. «Primi in Italia furono i poeti di Sicilia - scrive Noemi Ghetti nel suo libro "L' ombra di Cavalcante e Dante" (edizioni L' Asino d' oro, 230 pagine) - a trasformare, nel passaggio alla scrittura, le parlate volgari che si pensano germinate spontaneamente dal latino, modellandole, ciascuno, secondo le esigenze della personale espressione poetica: singulari arbitrio obnoxiae, dice Dante». È dunque dalla lirica d' amore, un espediente escogitato da un uomo innamorato per farsi meglio comprendere dall' amata, ignara di latino, che si può ricondurre l' origine della nostra lingua letteraria: « Oi lassa innamorata - recitò una sera, nella stanza dorata di Federico II, Guido delle Colonne - contar vo' la mia vita, e dire ogni fiata, come l' amor m' invita». Se fu Dante il primo che, a partire dai dialetti - le lingue volgari teorizzate nel "De vulgari eloquentia"- si pose la «questione della lingua» avviando la sua ricerca di un «volgare illustre», fu proprio la nostra isola, privilegiata perché lontana e in opposizione alla Roma dei papi custode del latino dell' Impero, che divenne un centro di grande sperimentazione artistica, scientifica, e soprattutto letteraria. Citando un passo del "De vulgari eloquentia di Dante", la Ghetti prosegue: «tutto quanto gli italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano (...) tutto quanto, al tempo loro i migliori spiriti italici riuscivano a fare, veniva primamente alla luce presso la corte di sì nobili sovrani. E poiché trono del regno era la Sicilia, è avvenuto che, ogni cosa i nostri maggiori producessero in volgare, si chiami siciliana; nome che anche noi manteniamo e che i posteri non potranno mutare». A far da ponte tra la Scuola siciliana e gli stilnovisti fiorentini fu Guittone, lo stesso che Dante cita nel XXIV canto del Purgatorio: «O frate, issa vegg' io (...) il nodo che l' Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch' io odo! ». L' innovativa ricerca poetica siciliana, eredità riconducibile in parte agli arabi, oltre che ai greci, si lega all' immagine femminile, quel «dir d' amore» che il Sommo poeta nella "Vita nuova" rintraccia nell' uso letterario della «lingua del sì». Il più vibrante, carnale e anticonvenzionale tra gli intellettuali della Magna curia è certamente Cielo D' Alcamo: « Rosa fresca aulentissima ch' apari inver' la state le donne ti disiano, pulzell' e maritate », declama il poeta che «per originalità delle immagini e la freschezza della lingua in cui esprime il desiderio rimane un unicum nella poesia delle origini», come scrive la Ghetti. Ma lo studio originale e acuto sulla natura dell' amore, «meraviglioso senso» che «stringe con furore», della Scuola siciliana si esaurì, con la morte di Federico II (1250), cui seguì il rapido declino del dominio imperiale nel Sud, conteso da Angioini e Aragonesi. L' eredità dei poeti federiciani, dei quali pochissimi manoscritti ci sono giunti, fu raccolta nell' Italia centrale dai cosiddetti poeti siculo-toscani poiché i modesti poeti insulari del XIV secolo ignorarono completamente i loro illustri predecessori. Questo perché molti intellettuali toscani erano infatti vissuti alla corte di Federico II: Firenze, diventata una capitale economica in forte espansione. «La scelta del fiorentino scritto trecentesco - prosegue De Mauro - a lingua che fosse comune e specificatamente propria dell' Italia, si andò affermando già nel secolo Quattrocento nelle nascenti amministrazioni pubbliche dei diversi stati in cui il Paese era diviso e si consolidò poi trai letterati del XVI secolo quando sempre più spesso la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio cominciò a dirsi italiano e non più fiorentino o toscano. Mancarono ancora per secoli quelle condizioni di unificazione politica, economica e sociale e di sviluppo della scolarità elementare che in altri paesi europei portavano i popoli a convergere verso l' uso effettivo delle rispettive lingue nazionali». «Se quindi è vero che il volgare illustre fu tenuto a battesimo in Sicilia - aggiunge Franco Lo Piparo, ordinario di Filosofia del Linguaggio - ciò è avvenuto perché il nostro idioma ha una vicinanza più che naturale con il toscano, o con quello che sarebbe in seguito divenuto "l' italiano" di Dante, Petrarca e Boccaccio, ed ecco spiegato anche il motivo per cui fra le due regioni, nel secondo decennio del Duecento, si generò un fitto scambio culturale e letterale. Detto ciò non credo che sia il caso di andare a rivendicare un primato, se non addirittura una primogenitura. La domanda che invece dovremmo porci è forse questa: perché non vi fu un prosieguo? La Sicilia passò all' italiano in maniera del tutto silenziosa, come intellettualmente silenziosi furono i secoli successivi all' esperienza federiciana. Si è dovuto aspettare la letteratura verista perché qualcosa all' orizzonte riemergesse. Un romanzo come "I Malavoglia" non poteva per esempio non essere che opera di un siciliano. Si tratta infatti del primo romanzo in cui l' italiano non è più la lingua dell' uomo colto, ed in cui i personaggi, degli umili pescatori, non usano per dialogare neppure quella parlata tipica degli incolti, essi piuttosto usano un italo-siciliano, a metà strada tra lingua e dialetto, con cui Verga e lo stesso amico Capuana si esprimevano, e con il quale noi ci esprimiamo tutt' oggi. A mio avviso ebbe più influenza sulla formazione della lingua italiana "I Malavoglia" che non la scuola dei poeti siciliani alla corte di Federico II». Valeria Ferrante
LA LINGUA ITALIANA È NATA IN SICILIA. NEGLI SPAZI BIANCHI DELLE PERGAMENE DEI NOTAI. rai.it. In questo articolo che vi segnaliamo si parla di alcune interessanti "scoperte" che riguardano le origini della lingua italiana: il ritrovamento, in una biblioteca lombarda, di alcune poesie della scuola siciliana. Si tratta di frammenti di poesie importanti, ascrivibili tra gli altri ad autori come Giacomo da Lentini, "il Notaro" fondatore della Scuola, e addirittura a Federico II, l’imperatore-poeta che ne fu il geniale promotore, trascritte sul retro di pergamene che riportano sentenze di condanna di alcune famiglie guelfe. La trascrizione induce a ipotizzare l’esistenza di un piccolo canzoniere di liriche della Scuola siciliana, circolante in Lombardia in quegli anni. Si intacca in questo modo una consolidata ricostruzione storica che fa dei toscani, all’indomani della caduta degli Svevi e del partito ghibellino a Benevento (1266), i soli eredi della poesia siciliana. Il ritrovamento dà forza all'ipotesi che circa un secolo di poesia d'amore siciliana sia stato "nascosto" da un "sistematico lavoro di risemantizzazione in funzione spirituale e cristiana del lessico volgare delle origini" processo al quale ha preso parte anche Dante.
LA LINGUA ITALIANA È NATA IN SICILIA, TRA GLI SPAZI BIANCHI DEI NOTAI. Noemi Ghetti parcodeinebrodi.blogspot.com il 22 giugno 2013. Il ritrovamento di alcune poesie della scuola siciliana in una biblioteca lombarda da parte del ricercatore Giuseppe Mascherpa riporta in primo piano il dibattito sulle reali origini della lingua italiana. Ne è esempio la scoperta di almeno quattro testi poetici siciliani sul verso di pergamene recanti sentenze di condanna di esponenti di grandi famiglie guelfe per violazioni di norme sui tornei. A quei tempi, si sa, i notai erano spesso poeti, e riempivano in tal modo gli spazi bianchi, al fine di impedire che ci fossero aggiunte illecite a margine degli atti. Si tratta di frammenti di poesie importanti, ascrivibili tra gli altri ad autori come Giacomo da Lentini, ‘il Notaro’ fondatore della Scuola, e addirittura a Federico II, l’imperatore-poeta che ne fu il geniale promotore. Avvenuta nel cruciale ventennio 1270-1290, la trascrizione induce a ipotizzare l’esistenza di un piccolo canzoniere di liriche della Scuola siciliana, circolante in Lombardia in quegli anni. E va ad aggiungersi al recente ritrovamento di un altro manoscritto mutilo, rinvenuto da Luca Cadioli nella soffitta di una dimora nobiliare milanese, che contiene l’unica fedele traduzione dal francese del Lancelot du lac, il famigerato romanzo sugli amori di Lancillotto e Ginevra, ricordato da Francesca da Rimini nel canto VI dell’Inferno. Le trascrizioni dei siciliani sono interessanti soprattutto perché lasciano intravvedere l’originale veste linguistica delle liriche, finora perduta tranne che in un singolo caso, e sono antecedenti alla versione toscanizzata attraverso cui le conosciamo. Se ne ricostruisce, è quanto qui ci importa dedurre, il panorama di una cultura letteraria laica, diffusa nel Duecento nella penisola italiana ben al di là di quanto lo schema tradizionale lasci immaginare. Si intacca in questo modo una consolidata ricostruzione storica che fa dei toscani, all’indomani della caduta degli Svevi e del partito ghibellino a Benevento (1266), i soli eredi della poesia siciliana. E in effetti viene subito in mente che l’Italia settentrionale accolse catari e trovatori in fuga, all’indomani della feroce crociata albigese che disperse la civiltà della vicina Provenza. E che nell’Italia settentrionale persisteva una diffusa tradizione di cantari francesi d’amore e d’avventura che, ripresa felicemente nella Ferrara quattrocentesca dall’Orlando innamorato di Boiardo, fu poi riportata nel Furioso di Ariosto alla norma anche linguistica del fiorentino canonizzato nel 1524 dal cardinale Pietro Bembo. La reazione della Chiesa contro la magnifica fioritura laica del Duecento fu infatti durissima, se ancora nel febbraio del 1278 nell’Arena di Verona un immane rogo arse gli ultimi 166 catari, e nel 1285 fu assassinato il filosofo parigino Sigieri di Brabante. Scomunicato e condannato a morte, attendeva il perdono papale nella curia di Orvieto, dove si era rifugiato dopo che nel 1277 il vescovo di Parigi Tempier aveva giudicato eretiche le proposizioni dell’averroismo latino che avevano animato, col De amore di Andrea Cappellano, la poesia delle origini fino allo Stilnovismo di Guinizzelli e Cavalcanti. Il delitto certo non passò inosservato negli ambienti Stilnovisti. Così nell’ultimo decennio del Duecento venne la conversione di Dante dall’amore per la donna all’amore per Dio, che procede per tappe successive dalla Vita Nova attraverso il Convivio fino alla Commedia. Venne, nell’anno 1300 in cui si colloca il viaggio oltremondano della Commedia, l’esilio da
Firenze firmato da Dante e la precoce morte di Cavalcanti...Nel Poema sacro Federico II è condannato all’Inferno (X) nel girone degli eretici «che l’anima col corpo morta fanno», a cui è destinato il maestro e «primo amico», dotato sì di «altezza d’ingegno», ma che «ebbe a disdegno» la fede. Pier delle Vigne, poeta siciliano segretario dell’imperatore, è collocato tra i suicidi, e racconta a Dante il proprio dramma in modo involuto, perché la colpa imperdonabile dei Siciliani, agli occhi di Dante, è l’avere tentato una ricerca sull’amore passione carnale, al di fuori della religione, inventando una nuova lingua. Sordello da Goito, trovatore che aveva trovato fortuna in Provenza ed era rientrato in Italia nel 1269, di origini mantovane al pari di Virgilio, è collocato invece nel Purgatorio (VI-VIII), al pari di altri poeti del Duecento. Il pregiudizio nei confronti dei Siciliani ha dunque radici antiche, e un’analisi attenta dei testi danteschi e le soluzioni che via via si imposero nella secolare ‘questione della lingua’ dimostrano come, a dispetto dei riconoscimenti, esso abbia origine da Dante stesso. Fu il Sommo poeta a costituirsi come ‘padre’ della moderna lingua italiana, oscurando cento anni di ricerca della poesia d’amore da cui essa era nata, con un sistematico lavoro di risemantizzazione in funzione spirituale e cristiana del lessico volgare delle origini. Ancora nell’Ottocento un critico sensibile come Francesco de Sanctis dimostra una certa sordità nei confronti dei poeti della Scuola siciliana, e si è dovuto attendere fino al 2008 per avere la prima edizione critica completa e commentata in tre volumi dei Meridiani. Noemi Ghetti
Dante perde la paternità: la lingua italiana è nata in Sicilia. I poeti siciliani diffusi in Lombardia prima che in Toscana. Le poesie Giacomo da Lentini, "il Notaro" trovate in una biblioteca lombarda Noemi Ghetti globalist l'11 gennaio 2017. Il ritrovamento di alcune poesie della scuola siciliana in una biblioteca lombarda da parte del ricercatore Giuseppe Mascherpa riporta in primo piano il dibattito sulle reali origini della lingua italiana. Il tema è stato a suo tempo riproposto da Cesare Segre che ha sottolineato come proprio al «cambiamento di prospettiva» nella ricerca sia dovuto l'improvviso rivelarsi, negli ultimi tempi, di manoscritti duecenteschi in luoghi fino ad ora insospettabili. Ne è esempio la scoperta di almeno quattro testi poetici siciliani sul verso di pergamene recanti sentenze di condanna di esponenti di grandi famiglie guelfe per violazioni di norme sui tornei. A quei tempi, si sa, i notai erano spesso poeti, e riempivano in tal modo gli spazi bianchi, al fine di impedire che ci fossero aggiunte illecite a margine degli atti. Si tratta di frammenti di poesie importanti, ascrivibili tra gli altri ad autori come Giacomo da Lentini, "il Notaro" fondatore della Scuola, e addirittura a Federico II, l'imperatore-poeta che ne fu il geniale promotore. Avvenuta nel cruciale ventennio 1270-1290, la trascrizione induce a ipotizzare l'esistenza di un piccolo canzoniere di liriche della Scuola siciliana, circolante in Lombardia in quegli anni. E va ad aggiungersi al recente ritrovamento di un altro manoscritto mutilo, rinvenuto da Luca Cadioli nella soffitta di una dimora nobiliare milanese, che contiene l'unica fedele traduzione dal francese del Lancelot du lac, il famigerato romanzo sugli amori di Lancillotto e Ginevra, ricordato da Francesca da Rimini nel canto V dell'Inferno. Adesso come allora, ancora una volta per noi, «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse»: questi ritrovamenti suonano come una convalida dell'originale idea che la nostra lingua nasca agli inizi del Duecento dalla rivolta dei poeti siciliani contro il latino ecclesiastico, sviluppata nel 2011 nel saggio L'ombra di Cavalcanti e Dante (L'Asino d'oro edizioni). Le trascrizioni dei siciliani sono interessanti soprattutto perché lasciano intravvedere l'originale veste linguistica delle liriche, finora perduta tranne che in un singolo caso, e sono antecedenti alla versione toscanizzata attraverso cui le conosciamo. Se ne ricostruisce, è quanto qui ci importa dedurre, il panorama di una cultura letteraria laica, diffusa nel Duecento nella penisola italiana ben al di là di quanto lo schema tradizionale lasci immaginare. Si intacca in questo modo una consolidata ricostruzione storica che fa dei toscani, all'indomani della caduta degli Svevi e del partito ghibellino a Benevento (1266), i soli eredi della poesia siciliana. E in effetti viene subito in mente che l'Italia settentrionale accolse catari e trovatori in fuga, all'indomani della feroce crociata albigese che disperse la civiltà della vicina Provenza. E che nell'Italia settentrionale persisteva una diffusa tradizione di cantari francesi d'amore e d'avventura che, ripresa felicemente nella Ferrara quattrocentesca dall'Orlando innamorato di Boiardo, fu poi riportata nel Furioso di Ariosto alla norma anche linguistica del fiorentino canonizzato nel 1524 dal cardinale Pietro Bembo. La reazione della Chiesa contro la magnifica fioritura laica del Duecento fu infatti durissima, se ancora nel febbraio del 1278 nell'Arena di Verona un immane rogo arse gli ultimi 166 catari, e nel 1285 fu assassinato il filosofo parigino Sigieri di Brabante. Scomunicato e condannato a morte, attendeva il perdono papale nella curia di Orvieto, dove si era rifugiato dopo che nel 1277 il vescovo di Parigi Tempier aveva giudicato eretiche le proposizioni dell'averroismo latino che avevano animato, col De amore di Andrea Cappellano, la poesia delle origini fino allo Stilnovismo di Guinizzelli e Cavalcanti. Il delitto certo non passò inosservato negli ambienti Stilnovisti. Così nell'ultimo decennio del Duecento venne la conversione di Dante dall'amore per la donna all'amore per Dio, che procede per tappe successive dalla Vita Nova attraverso il Convivio fino alla Commedia. Venne, nell'anno 1300 in cui si colloca il viaggio oltremondano della Commedia, l'esilio da Firenze firmato da Dante e la precoce morte di Cavalcanti. Nel Poema sacro Federico II è condannato all'Inferno (X) nel girone degli eretici «che l'anima col corpo morta fanno», a cui è destinato il maestro e «primo amico», dotato sì di «altezza d'ingegno», ma che «ebbe a disdegno» la fede. Pier delle Vigne, poeta siciliano segretario dell'imperatore, è collocato tra i suicidi, e racconta a Dante il proprio dramma in modo involuto, perché la colpa imperdonabile dei Siciliani, agli occhi di Dante, è l'avere tentato una ricerca sull'amore passione carnale, al di fuori della religione, inventando una nuova lingua. Sordello da Goito, trovatore che aveva trovato fortuna in Provenza ed era rientrato in Italia nel 1269, di origini mantovane al pari di Virgilio, è collocato invece nel Purgatorio (VI-VIII), al pari di altri poeti del Duecento. Il pregiudizio nei confronti dei Siciliani ha dunque radici antiche, e un'analisi attenta dei testi danteschi e le soluzioni che via via si imposero nella secolare 'questione della lingua' dimostrano come, a dispetto dei riconoscimenti, esso abbia origine da Dante stesso. Fu il Sommo poeta a costituirsi come 'padre' della moderna lingua italiana, oscurando cento anni di ricerca della poesia d'amore da cui essa era nata, con un sistematico lavoro di risemantizzazione in funzione spirituale e cristiana del lessico volgare delle origini. Ancora nell'Ottocento un critico sensibile come Francesco de Sanctis dimostra una certa sordità nei confronti dei poeti della Scuola siciliana, e si è dovuto attendere fino al 2008 per avere la prima edizione critica completa e commentata in tre volumi dei Meridiani. Interessa qui segnalare a margine, nel ristretto numero degli studi 'inattuali' del secolo scorso come quelli di Bruno Nardi e Maria Corti, l'originale giudizio gramsciano dei Quaderni del carcere sul Duecento e Dante. Se è forse più conosciuto il saggio sul canto X dell'Inferno contenuto nei Quaderni (1931-32), con esplicite prese di distanza da Croce e importanti messaggi in codice destinati all'"ex amico" Togliatti, certo meno noto è l'apprezzamento di Gramsci per Guido Cavalcanti. Le sue parole, che lo erigono a «massimo esponente» della rivolta al pensiero teocratico medievale e del consapevole uso del volgare contro la romanitas e Virgilio, furono riprese quasi alla lettera da Gianfranco Contini. La Commedia è per Gramsci, che fu fine linguista, il «canto del cigno medievale», e il suo lavoro di latinizzazione del volgare segna la crisi della rinascita laica e il passaggio all'umanesimo cristiano. Leggere la Commedia «con amore» è atteggiamento da «professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta o scrittore e ne celebrano degli strani riti filologici». Apprezzarne i valori estetici, scrive a Iulca in una lettera dal carcere del 1931 mettendola in guardia da una trasmissione acritica del poema ai figli, non vuol dire condividerne il contenuto ideologico.
Scuole - Le tre scuole, siciliana, siculo-toscana, stilnovo. Skuola.net il 19/6/2019.
LA SCUOLA SICILIANA.
Nella produzione poetica siciliana si riscontra una comunanza di temi e di stili riconducibili alla presenza di un caposcuola, Iacopo da Lentini, che rielabora il modello provenzale. Con i siciliani la poesia diventa un genere nel quale il testo in versi si distacca definitivamente dalla musica. Non va dimenticato poi che l’aspetto più rivoluzionario di questa scuola consiste nella creazione e nell’adozione di un codice poetico in lingua volgare. L’attenzione dei poeti della Suola Siciliana si concentra totalmente sull’amore no, cioè perfetto, essi inoltre cercano di esaltare, tramite similitudini tratte dall’ambito naturalistico e scientifico, lo splendore dell’amata (che appare sempre meno concreta, quasi sublimata e divinizzata, anticipando quanto avverrà in Guinizelli e negli stilnovisti). Sul piano delle strutture metriche con la scuola siciliana si affermano definitivamente nella tradizione letteraria italiana tre forme principali: la canzone di argomento sublime, la canzonetta con temi narrativi e spesso dialogati e il sonetto, quasi sicuramente inventato da Iacopo da Lentini. La lingua poetica usata dai siciliani è di livello alto, curata sotto l’aspetto lessicale e ricca di artici retorici: alla base troviamo il volgare siciliano, privato di ogni residuo dialettale e fortemente influenzato dal periodare latino.
LA LIRICA SICULO-TOSCANA La cultura poetica siciliana non sopravvive alla ne del dominio svevo nell’Italia meridionale in seguito alla battaglia di Benevento. Fortunatamente, la ricca esperienza poetica elaborata alla corte di Federico non scompare ma si trasferisce al nord nell’area emiliana e toscana. A differenza dei siciliani, i poeti di questa nuova fase della lirica non possono essere identificati con il termini unitario di “scuola” per la grande diversità che li caratterizza sia sul piano della poetica sia su quello del linguaggio. Questi poeti si ispirano e al modello siciliano e a quello provenzale apportando importanti novità sul piano tematico e formale. Per quanto riguarda le scelte contenutistiche accanto al tema amoroso, ricompaiono i riferimenti cronachistici, la tematica morale e soprattutto quella politica. Innovativa è l’adozione di un volgare toscano alto. In Italia viene introdotta per la prima volta dai rimatori toscani la ballata, sconosciuta ai siciliani.
LO STILNOVO La nuova corrente poetica si sviluppa nel fertile crocevia culturale che lega le città di Bologna e Firenze. Precursore dello stilnovo è il bolognese Guido Guinizelli. In seguito lo stilnovo si sviluppò in toscana e in particolare a Firenze. È stato Gianfranco Contini ad attribuire per primo allo stilnovo il carattere di “scuola poetica”, individuandone i presupposti teorici nella congruenza di obiettivi, nell’adesione a una poetica comune e nella condivisione di un linguaggio lirico nuovo per forma e temi. Nello stilnovo abbiamo una rielaborazione e una selezione dei temi della tradizione precedente: alcuni di questi (come la devozione dell’uomo all’amata) sopravvivono; altri (come le immagini tratte dai bestiari o dal mondo marinaresco) scompaiono; altri ancora (come l’immagine della donna angelo) assumo maggiore pregnanza di significato nella concezione più spirituale e approfondita della passione amorosa, elaborata dagli stilnovisti. Il motivo della gentilezza e della nobiltà dell’animo appare intimamente unito a quello dell’amore, di conseguenza se ne deduce che tale nobiltà non è legata alla stirpe ma solo alle qualità personali. Questo concetto era già stato espresso da alcuni trovatori provenzali, nei quali, però, ci si riferiva solo al contesto sociale della corte; al contrario con lo stilnovo ci ritroviamo in ambito cittadino. Gli stilnovisti rifiutano nei propri componimenti qualsiasi altro tema che non sia quello amoroso. Protagonista assoluta della poesia stilnovista è la gura femminile, che diventa tramite fra l’uomo e la sfera divina. La donna esercita una funzione salvifica non solo sull’amante, ma anche su tutti coloro che le si avvicinano. Nello stilnovo la donna rivolge il saluto e lo sguardo, ma non colloquia più con l’amante ed, inoltre, è lodata non più per le sue virtù estetiche e mondane, ma per quelle spirituali. A livello stilistico e linguistico, nello stilnovo, troviamo una sintassi piana e lineare, la scelta di una lingua cittadina ma colta e raffinata, la rinuncia a forme plebee, un limitato uso di artifici.
L’italiano deriva dal siciliano? Pietro Cociancich su patrimonilinguistici.it. Com’è noto, sono molti i miti esistenti sulle lingue regionali del nostro Paese. Tra di essi, uno dei più diffusi è quello che l’italiano derivi dal siciliano, visto che questa lingua è la prima che ha sviluppato una tradizione poetica. Questa impostazione però è scorretta: vediamo di farci luce.
Alle origini del mito. Federico II di Svevia, sotto il cui regno e auspici fiorì la Scuola siciliana. Lo stesso imperatore scrisse alcuni componimenti in volgare siciliano.
La “scuola siciliana”. Le prime testimonianze di letteratura in volgare in territorio italiano nacquero in Sicilia sotto la dinastia sveva (metà del XIII secolo). Il grande prestigio culturale che l’imperatore Federico II di Hohenstaufen seppe dare alla propria corte diede vita a una scuola poetica “siciliana”. A questa scuola poetica appartenevano molti dei membri della cancelleria reale, come notai e giudici, ma anche lo stesso imperatore Federico II e suo figlio Enzo di Sardegna. Essi prendevano ispirazione, nei temi e nello stile, dalla poesia provenzale, che parlava soprattutto di amore cortese. Le innovazioni letterarie degli eruditi siciliani (che in realtà venivano un po’ da tutta l’Italia meridionale governata da Federico) furono molto rilevanti per la storia della letteratura occidentale: per esempio Giacomo da Lentini(circa 1200-1260) è considerato l’inventore della metrica del sonetto. Dal punto di vista linguistico, i lirici siciliani utilizzarono una forma aulica del volgare siciliano isolano (senza una precisa forma standard), arricchendolo di latinisimi e di francesismi di origine colta e utilizzati nell’ambiente cortigiano di Federico. Insomma, una versione di siciliano molto variabile a seconda dell’autore, ma caratterizzata da un linguaggio molto ricercato.
L’eredità letteraria. Manfredi, figlio illegittimo di Federico II e ultimo sovrano svevo della Sicilia. In seguito alla morte di Federico II, la monarchia sveva entrò velocemente in declino, che i suoi discendenti non riuscirono a impedire. Con la fine della stabilità garantita dall’imperatore Hohenstaufen, anche la civiltà cortese siciliana che aveva creato scomparve presto nel dimenticatoio. L’eredità poetica della scuola siciliana venne però conservata da alcuni copisti e raccolta dalla prima generazione di poeti toscani, come Guittone d’Arezzo (1230-1294); e molti dei temi e delle sperimentazioni linguistiche dei poeti siciliani vennero ripresi anche da autori successivi, come Dante Alighieri. L’Alighieri fu un grande estimatore della lirica siciliana e del volgare in cui essa si esprimeva, tanto da fargli affermare nel suo De Vulgari Eloquentia: Comincerò esercitando l’intelligenza nell’esame del siciliano: in effetti questo volgare sembra avocare a sé una fama superiore agli altri, perché tutto ciò che gli Italiani fanno in poesia si può dire in siciliano, e perché conosco molti maestri dell’isola che hanno cantato con gravità, come nelle canzoni Amor che l’aigua per lo foco lassi e Amor, che lungiamente m’hai menato.
In generale possiamo dire dunque che la poesia siciliana influenzò in modo rilevante quella in toscano. Ma come si è arrivati ad affermare che la lingua italiana ha origine dal siciliano?
Un equivoco linguistico. Questione di vocalismo tonico. Le differenze linguistiche tra siciliano e toscano sono molto rilevanti: per esempio, per quello che riguarda il vocalismo tonico, ossia l’inventario vocalico della lingua. E proprio una questione legata al vocalismo determinerà il diffondersi dell’equivoco di cui tratto in questo articolo. Vediamo la cosa più nel dettaglio. Il vocalismo tonico siciliano si distingue in modo netto da quello italiano-toscano, e in generale da quello di quasi tutte le lingue romanze. L’italiano ha un sistema di 7 vocali: a, é, è, i, ó, ò, u. Per questo viene definito eptavocalico.
Il siciliano invece ha un vocalismo basato su 5 vocali: a, è, i, ò, u. Dunque viene definito pentavocalico. Ecco qualche esempio di confronto tra parole latine, siciliane e toscane che ti aiuterà a capire meglio la questione del vocalismo.
BELLU -> bèddu (italiano bèllo)
TELA -> tila (toscano téla)
NIVE -> nivi (toscano néve)
FILU -> filu (toscano filo)
FOCU -> fòcu (toscano fòco)
VOCE -> nuci (toscano vóce)
NUCE -> nuci (toscano nóce)
LUNA -> luna (toscano luna)
Ovviamente questo sistema non è esente da variazioni locali: in ampie zone del siciliano (per esempio la città di Palermo, ma anche il territorio del Ragusano) sono presenti dittongazioni come biéddu o fuòcu. Si ritene che questo vocalismo sia stato causato da alcune innovazioni locali e forse dall’influenza della pronuncia bizantina (il greco rimase diffuso in Sicilia per molti secoli nel Medioevo), che avrebbe condizionato l’antica pronuncia di *téla, *névi, *vóci. Gli autori siciliani, benché nei fatti usassero una varietà colta sopradialettale con molti prestiti latineggianti o di origine provenzale, mantennero nella loro scrittura il carattere del volgare siciliano autentico, sistema pentavocalico incluso.
Un problema di tradizione. Allora perché a noi sono arrivate poesie siciliane che seguono il vocalismo del toscano, apparendo molto italiane e poco siciliane?
Dante Alighieri fu un grande estimatore della lirica siciliana, pur conoscendola solo in forma toscanizzata. I copisti toscani, quando trascrissero le poesie della scuola siciliana, decisero di rendere “più leggibili” (per sé stessi) i testi, e cambiarono deliberatamente il sistema vocalico siciliano in quello italiano. Gli autori toscani successivi, che non avevano avuto accesso agli originali, conobbero la lirica siciliana solo nella veste toscanizzata. Di qui si sviluppò la credenza che il siciliano avesse influenzato l’italiano. C’è anche da considerare che nell’opinione di molti autori dell’epoca il “volgare” italiano fosse una lingua unica da nord a sud, che si era frammentata per via della caduta dell’uomo ai tempi della Torre di Babele (era l’opinione espressa nel De Vulgari Eloquentia da Dante). Oggi noi sappiamo che le cose sono andate diversamente e che siciliano e italiano sono due lingue differenti. Ma ai tempi non era così. Gli intellettuali dell’epoca hanno pensato che tra siciliano e toscano non dovesse esserci una grande differenza, dato che uno poteva essere benissimo una varietà dell’altro.
Equivoci letterari e linguistici. Le trascrizioni toscaneggianti portarono anche ad alcuni imprevisti: difatti, nella versione toscana non tutte le rime siciliane combaciavano. Questo inconveniente (piuttosto regolare) venne interpretato o come una licenza poetica o come un’imperfezione stilistica (mentre invece la soluzione era più semplice: era una rima che funzionava con il vocalismo siciliano; tolto quello, anche la rima veniva meno). Da questo equivoco nacque la cosiddetta rima siciliana, cioè una rima sbagliata apposta, con cui i toscani credevano di omaggiare la lirica siciliana!
Ecco alcuni esempi di rima che in siciliano funzionano, in toscano no:
Morire/avere (in siciliano muriri/aviri)
Distrutto/sotto (in siciliano distruttu/suttu)
Croce/luce (in siciliano cruci/luci)
Esempi di "rima imperfetta alla siciliana" sono presenti, per esempio, anche nella Divina Commedia. Ecco per esempio nel Canto X dell’Inferno (vv. 69-71):
Di sùbito rizzato gridò: “Come?
dicesti ‘elli ebbe’? Non viv’elli ancora?
Non fiere li occhi suoi lo dolce lume?”
L’altro inconveniente, con molte più conseguenze a lungo termine, fu la credenza che i siciliani avessero realmente scritto le proprie poesie in quella lingua, all’apparenza così diversa da quella parlata sull’isola. Ne era convinto anche Dante che, sempre nel De Vulgari Eloquentia, afferma: Dico dunque che, se si prende il volgare siciliano secondo la parlata locale media, sulla quale dovrebbe basarsi il giudizio, questa lingua non è minimamente degna dell’onore della preferenza, perché è pronunciata con una certa lentezza, come in Tragemi d’este focora, se t’este a bolontate.
Se invece lo prendiamo dall’uso dei migliori Siciliani, come si può osservare può osservare nelle succitate canzoni, non differisce in nulla dalla lingua più degna di lode. Noi siamo a conoscenza della forma linguistica originaria delle liriche siciliane perché un componimento (uno solo!) si è salvato dalla furia toscanizzante dei copisti. Si tratta di Pir meu cori alligrari, di Stefano Protonotaro. A esso vanno aggiunti anche diversi frammenti di altre liriche del tempo.
Possiamo dire che l’italiano deriva dal siciliano o no?
La teoria del siciliano padre dell’italiano viene vista con favore da due categorie di persone:
chi ritiene che tutti i "dialetti" siano delle sorta di dépendance dell’italiano (nell’ambito del cosiddetto "italoromanzo"), e quindi non ci troviamo di fronte a lingue diverse;
chi, volendo difendere la specificità della lingua siciliana rispetto a quella italiana, eccede in zelo e insiste in una superiorità del siciliano su tutte le altre parlate.
In entrambi i casi, ci troviamo di fronte a un’interpretazione scorretta della storia linguistica dell’Italia.
Se infatti si può dire che la letteratura toscana venne influenzata da quella siciliana (la prima esperienza poetica in volgare dell’Italia medievale), è errato fare lo stesso ragionamento con la lingua.
Lingua e letteratura, infatti, sono cose diverse. Dunque, possiamo dire che la letteratura italiana nasce grazie all’influsso della poesia siciliana. La lingua italiana però non nasce in Sicilia e non deriva dal siciliano.
Facciamo un gioco. Prendiamo qualche verso di una poesia siciliana tra quelle toscanizzate, in questo caso il famoso contrasto Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo:
“Rosa fresca aulentissima, c’appari in ver la state,
le donne ti disiano, pulzell’e maritate;
tràgemi d’este fòcora, se t’este a bolontate;
per te non ajo abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia”.
Ora proviamo a fare l’operazione inversa, “sicilianizzando” il testo:
“Rosa frisca aulintissima, c’appari in ver’ la stati,
li donni ti disianu, pulzell’e maritati;
tràgimi d’esti fòcura, se t’esti a buluntati;
pir te nun aju abentu notti e dia,
pinzandu pur di vui, madonna mia”.
Forse era così che suonava nella versione originale il sonetto di Cielo D’Alcamo.
L’EDUCAZIONE CINICA DI VITTORIO FELTRI. Da I Lunatici Radio2 il 19 giugno 2019. Vittorio Feltri è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Il direttore di Libero ha parlato dei dati sulla povertà fotografati dall'Istat: "Il mio quotidiano oggi pubblica questa notizia e cioè che trenta milioni di italiani su sessanta milioni non pagano un euro di tasse. Questo è un elemento di cui bisogna tenere conto. Per quanto riguarda la povertà devo dire con molta franchezza che non mi risulta da molti anni che qualcuno muoia di inedia. Non credo che ci siano tutti questi poveri e quello che dico è suffragato dai dati. L'Italia è il Paese con i risparmi bancari più alti d'Europa, più dell'80% degli italiani abita in case di proprietà e quindi parlare di miseria diffusa pare uno scherzo della natura. L'Italia è un Paese ricco che però viene annullato dal monte di interessi che deve pagare sul debito pubblico. Ma il debito pubblico con trenta milioni che non pagano le tasse è una cosa ovvia. Questo, più che un Paese di poveri, è un Paese di ladri. Perché non pagare le tasse pare molto simile a un furto. Chi stabilisce se uno è povero o non è povero? Come si misura la povertà? Io da ragazzo non andavo mai in vacanza e non avevo niente che mi potesse rendere ricco, però non mi consideravo povero perché mangiavo tutti i giorni, stavo bene e andavo a scuola. Oggi invece se uno non ha due telefonini, un'auto di grossa cilindrata, una vacanza di due settimane e la possibilità di andare in discoteca tutte le sere viene considerato povero". Sugli esami di maturità: "Un tempo era uno scoglio notevole che bisognava superiore studiando il più possibile. Oggi invece la scuola non boccia più perché non ha il coraggio di fare selezione, non esiste meritocrazia. E se non esiste meritocrazia nella scuola poi non c'è neanche nella società. Se copiavo? Ho copiato anche alla maturità, quando stavo facendo l'esame di matematica. Andai nel pallone, c'era una ragazza che sembrava una mezza suora, l'ho minacciata di morte se non mi avesse fatto copiare, lei si è messa a ridere e mi ha fatto copiare. Però durante le scuole medie e le superiori io ho sempre fatto copiare i miei compiti di latino. Fornivo addirittura dei pezzi di carta con le parti più complesse delle traduzioni". Sull'Italia femminile ai mondiali: "Le donne sono bravissime, non solo nel gioco del calcio. Hanno piedi educati, rispettano l'arbitro, non protestano mai, quando fanno fallo chiedono scusa, sono più educate, mi piacciono più degli uomini. Ma non solo nel calcio. Anche nel giornale le donne sono più brave degli uomini. Si impegnano di più, scrivono meglio, sono capaci. Quando al mio giornale arriva questa stagione e i bambini non vanno più a scuola, io consento a tutte le mamme di portare i bambini in redazione. I bambini se stanno con le mamme non rompono le scatole, non mi sono mai pentito di avergli dato libero accesso. Avere dei bambini in redazione non disturba, tu gli metti a disposizione due o tre tavoli con qualche foglio, disegnano, le mamme stanno attente e i bambini non rompono i coglioni. C'è anche libero accesso ai cani in redazione, è una cosa normale, mi stupisco che altri non la adottino".
Su Andrea Camilleri: "Non l'ho mai conosciuto, però è chiaro che la sua capacità di applicare criteri matematici ai suoi racconti mi ha sempre sorpreso e ne sono ammirato. Mi dispiace, quando un uomo vecchio muore c'è sempre un certo dolore. Però mi consolerò pensando che Montalbano non mi romperà più i coglioni. Basta, mi ha stancato. Poi quando vedo Montalbano mi viene in mente l'altro Zingaretti, che non è il massimo della simpatia. Questa comunque è una opinione personale e scherzosa, in me Camilleri suscita ammirazione, è un grande scrittore, e bisogna ricordare che la lingua italiana è nata in Sicilia, solo dopo abbiamo adottato quella Toscana. E i siciliani parlano meglio di qualunque altro italiano. E scrivono meglio degli altri italiani".
Redazione Bergamo News 19 giugno 2019. Feltri: “Non vedere più Montalbano in tv unica consolazione se Camilleri se ne va” Dall'editoriale di mercoledì 19 giugno all'intervista in radio: il pensiero del giornalista bergamasco sullo scrittore siciliano sta creando imbarazzo e indignazione. Il dispiacere per le condizioni siche di “un grande scrittore”, le lodi per le sue “capacità affabulatorie” e, infine, il solito commento personale senza peli sulla lingua: sta creando imbarazzo e indignazione l’editoriale del direttore di Liberto Vittorio Feltri, pubblicato sull’edizione di mercoledì 19 giugno. Già dal titolo “Pur grande scrittore – Andrea Camilleri marxista impenitente” si era capito su cosa avrebbe poggiato il commento del giornalista bergamasco: “Camilleri è in punto di morte e probabilmente se ne andrà presto – inizia – Mi affretto a dire che, per quanto comunista, aveva un talento notevole di narratore che me lo rendeva simpatico”. Così, nella storia “politica” di Camilleri, Feltri inserisce anche le lodi per le sue qualità: “Alcune sue opere si inseriscono perfettamente nella tradizione letteraria siciliana, cito a capocchia Pirandello, Verga, Sciascia. D’altronde la lingue italiana si è sviluppata in Sicilia per merito di Federico II di Svevia, sebbene in seguito sia stato ufficialmente adottato l’idioma toscano o, meglio, fiorentino. Segno che gli isolani padroneggiano il lessico e non stupisce che palermitani e catanesi siano diventati scrittori importanti, fondamentali. Le capacità affabulatorie di Camilleri non sono in discussione, la struttura matematica dei suoi racconti è esemplare e ammirabile”. “L’arte non ha bandiere, e quella di Camilleri va riconosciuta per quello che è: mirabile. Non tutta, ma quasi – ha concluso – Oggi, di fronte alla probabilmente prossima ne, riconosciamo allo scrittore ogni merito tecnico e a lui ci inchiniamo. L’unica consolazione per la sua eventuale dipartita è che finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni almeno quanto suo fratello Zingaretti, segretario del Partito democratico, il peggiore del mondo”. E il direttore di Libero ha poi confermato tutto a Rai Radio2, nel programma I Lunatici: “Non ho mai conosciuto Camilleri però è chiaro che la sua capacità di applicare criteri matematici ai suoi racconti mi ha sempre sorpreso e ne sono ammirato. Mi dispiace, quando un uomo vecchio muore c’è sempre un certo dolore. Mi consolerò pensando che Montalbano non mi romperà più i coglioni. E mi fa venire in mente l’altro Zingaretti, che non è il massimo della simpatia. Questa comunque è una opinione personale e scherzosa, Camilleri mi suscita ammirazione, è un grande scrittore”.
· Toga nord vs Toga Sud.
Toga nord vs Toga Sud. DAGONEWS il 5 giugno 2019. Che succede nel pasticciaccio brutto delle toghe? Ieri si è svolta una riunione straordinaria del plenum del Csm in cui è emersa netta la spaccatura tra magistrati: toghe del Nord (Torino, Milano, Genova) contro toghe del Centro-Sud, accusate di eccessiva ''contiguità'' con la politica. Il fronte settentrionale ha detto in modo chiaro che i consiglieri del Csm coinvolti nella bufera mediatica di questi giorni dovrebbero dimettersi e non limitarsi all'auto-sospensione. La tempesta ora si dividerà su due fronti: i processi intorno all'Eni con le accuse di depistaggi e coperture, e il Pianeta Renzi. Per cui si intendono i genitori, il suo braccio destro Lotti, il caso Consip e ovviamente gli strascichi che queste inchieste hanno avuto su due snodi sistematici come l'Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza. Sempre le toghe del Nord hanno sollevato non pochi dubbi sull'operato del vero capo del Csm, il vicepresidente David Ermini (Pd), che Lotti ha incontrato più volte e che in una intercettazione è stato definito ''non collaborativo'' dal gruppetto che si riuniva a Roma. Si chiedono come mai Ermini non sia intervenuto sulle pressioni dei suoi compagni di partito Luca Lotti e Cosimo Ferri sulle nomine da far passare in Consiglio. Quelle pressioni erano più che indebite, eppure Ermini non ha fatto un fiato. Al fronte del Nord si è ormai aggiunta anche la Procura di Perugia, competente a indagare sui magistrati romani e anche questa che spinge per le dimissioni dal Csm dei membri coinvolti. Riguardo al voto per Viola (procuratore generale di Firenze) a capo della Procura di Roma, uno potrebbe accogliere con sorpresa la notizia che i consiglieri laici in quota 5 Stelle e Lega avrebbero votato compatti per il nome spinto da Palamara, che con Viola sarebbe diventato procuratore aggiunto. In realtà, ai grillini faceva comodo cambiare impostazione, visto che è stato Pignatone a far partire le indagini sulla Raggi e sullo Stadio della Roma che hanno azzoppato il Movimento romano. L'arrivo da Palermo di Lo Voi sarebbe stata una mossa in continuità con l'attuale impostazione. I leghisti al momento vivono un rapporto piuttosto delirante con la magistratura, e dunque un procuratore meno ''attivista'' sarebbe stato comunque un cambio positivo. E ora che succede? La situazione è esplosiva, Mattarella che presiede il Csm non sa come muoversi. Il terrore di tutti è che qualche magistrato inizi a parlare, per difendersi, e racconti il sistema tutto politico che innerva la giustizia italiana…
Se Nord e Sud dividono i magistrati. Paolo Colonnello 20 Giugno 2019 su La Stampa. «È un mondo che non ci appartiene, che non appartiene soprattutto ai magistrati del nord e che vive negli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana». Il colpo battuto ieri dal procuratore di Milano Francesco Greco sulle vicende del Csm, contiene una prima assoluta: la certificazione dell’esistenza di una “magistratura del Nord” da contrapporre evidentemente a una “magistratura del Sud”, più incline, come si è visto dallo sconcertante caso del “mercato delle toghe”, al tramestio dei co...
Bufera sul Csm, Greco: "Sconcertati dalle logiche romane. Non appartengono ai magistrati del Nord". Dura presa di posizione del procuratore di Milano sulle vicenda delle nomine del Consiglio superiore. "Un mondo di retrovie della burocrazia che vive nei corridoi degli alberghi". La Repubblica il 19 giugno 2019. Il procuratore di Milano Francesco Greco nel commemorare oggi a Milano Walter Mapelli, il procuratore di Bergamo morto lo scorso aprile, è intervenuto con parole molto dure sulla bufera sul Csm legata dall'inchiesta sull'ex presidente dell'Anm Luca Palamara. E lo ha fatto riferendosi proprio alla nomina di Mapelli alla procura di Bergamo dicendo che quel "mondo che vive nei corridoi degli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana e che non ci appartiene e non appartiene ai magistrati del Nord, ci ha lasciato sconcertati". Un mondo che, prosegue il procuratore di Milano, "abbiamo dovuto conoscere, apprendere nelle sue logiche di funzionamento e che ci ha lasciati sconcertati e umiliati, perchè ci chiedevamo: 'beh, in fondo noi abbiamo lavorato come tanti magistrati, riteniamo che per anzianità, per meriti, per alcuni risultati ottenuti e per le nostre potenzialità ancora inespresse possiamo fare questo tipo di domande (al Csm, ndr)' e invece poi capisci che le logiche sono altre". "Poi, per fortuna le cose sono andate bene (Greco è diventato capo della Procura di Milano e Mapelli di quella di Bergamo, ndr), però ricordo che Walter, come tanti altri magistrati, questo tipo di esperienza non la meritava. Lo dico perchè in questi giorni mi è venuto proprio da pensare a queste chiacchiere con lui". Greco, che si è commosso più volte nel suo discorso, ha concluso il suo intervento al convegno in aula magna con queste parole: "Walter vive ancora ed è un legame che non finirà mai".
Csm, il procuratore di Milano Greco: “Sconcertati dalle logiche di funzionamento della burocrazia romana”. Il procuratore capo del capoluogo lombardo ricorda l'amico Mapelli, ex procuratore di Bergamo scomparso ad aprile dopo una lunga malattia: "Abbiamo vissuto la stessa sensazione di umiliazione", ossia "aver lavorato per tutelare l'economia sana ma come se queste non fossero cose utili per ottenere un incarico direttivo". Riferimento diretto alle logiche di Palazzo dei marescialli, svelate dall'inchiesta su Luca Palamara. Il Fatto Quotidiano il 19 Giugno 2019. “Un mondo che non ci appartiene, che non appartiene soprattutto ai magistrati del Nord, e che vive negli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana“. Parola di Francesco Greco, procuratore capo di Milano che in questo modo ha ricordato Walter Mapelli, l’ex procuratore di Bergamo morto ad aprile dopo una lunga malattia. Il riferimento del capo degli inquirenti milanesi è per l’inchiesta che ha travolto il Consiglio superiore della magistratura, svelando in che modo i giudici e politici progettavano d’influire nelle influire sulle nomine dei magistrati. Ricordando l’amico e collega Mapelli, Greco ha parlato del loro rapporto, cominciato a Milano negli anni ’90 e proseguito anche nel difficile confronto con il Csm, dove “abbiamo vissuto la stessa sensazione di umiliazione”, ossia “aver lavorato per tutelare l’economia sana ma come se queste non fossero cose utili per ottenere un incarico direttivo”. Un mondo, spiega il procuratore Greco facendo riferimento a Palazzo dei Marescialli, “che abbiamo dovuto conoscere, apprendere, nelle sue logiche di funzionamento e che ci ha lasciati sconcertati e umiliati, perché dicevamo ‘beh, noi in fondo abbiamo lavorato come tanti magistrati, riteniamo che per anzianità, per meriti, per alcuni risultati ottenuti e per le nostre potenzialità ancora inespresse possiamo fare questo tipo di domande e invece poi capisci che le logiche sono altre”. Mapelli iniziò la sua carriera con un lungo tirocinio a Milano al fianco proprio di Greco, prima di coordinare importanti inchieste sulle tangenti a Monza e infine essere nominato procuratore capo a Bergamo. “Poi per fortuna le cose sono andate bene. Però ricordo che Walter come tanti altri magistrati questo tipo di esperienza non la meritavano”, ha detto sempre il procuratore capo di Milano durante un convegno al Palazzo di giustizia di via Freguglia. “Lo dico perché in questi giorni mi è venuto proprio da pensare a queste chiacchierate”, spiega Greco. Il procuratore ha ricordato Mapelli fin da quando era uditore a Milano raccontando che “già allora si capiva la sua passione per la finanza” e per i temi economici e sottolineando la “sua intelligenza capace di interconnettere saperi e culture diverse che gli hanno permesso di approcciare il lavoro” in modo completo “e di vedere oltre” e cioè “capire cosa accadeva dopo”. Sempre di Mapelli Greco ha ricordato la capacità di “organizzare” gli uffici e la sua “disponibilità e generosità”, spiegando che lo avrebbe voluto come aggiunto a Milano. Invece aveva fatto domande, respinte, per Piacenza e altre procure. “Io penso che una domanda come la sua – ha spiegato – avrebbe dovuto portare i consiglieri del Csm a stappare bottiglie di champagne. Invece non è stato facile. Ci siamo resi conto che il suo lavoro di recuperare soldi per l’erario non era un lavoro utile per ottenere un incarico direttivo”. E qui la parentesi sul metodo per l’assegnazione degli incarichi direttivi che “ci ha lasciato sconcertati, umiliati. Abbiamo capito che le logiche sono altre. Sono quelle di mondo che vive nel buio degli alberghi, nei corridoi e nelle retrovie della burocrazia romana e che non ci appartiene e non appartiene ai magistrati del Nord”.
Bufera procure: Anm contro Greco, immeritate sue parole. Procuratore aveva distinto "toghe del Nord" da "retrovie romane". Ansa il 19 giugno 2019. "Le parole del Procuratore di Milano, per come riportate dagli organi di stampa, non rendono merito alla risposta immediata e sincera delle migliaia di magistrati italiani che, anche negli uffici più gravati del meridione, amministrano la giustizia in condizioni assai critiche. In momenti gravi come quello che stiamo vivendo bisogna fare ricorso ai valori che ci uniscono". Così l'Anm replica al Procuratore Francesco Greco che ha criticato il 'modus' operandi' delle "retrovie" della "burocrazia romana" dicendo, con riferimento all'inchiesta condotta dalla Procura di Perugia che ha sconvolto il Csm, che questo modo di procedere "non appartiene ai magistrati del Nord". L'Associazione nazionale magistrati che ha appena avviato un nuovo corso con il presidente Luca Poniz, ha subito respinto la distinzione 'territoriale' tra magistrati 'buoni e 'magistrati 'cattivi' insita nelle parole di Greco. "L'onda di sdegno per i gravissimi fatti riportati in queste settimane dalla stampa - ha fatto notare l'Anm - ha travolto tutti gli uffici giudiziari italiani, dal nord al sud, provocando immediate reazioni tra i magistrati che, riuniti in assemblee spontanee e gremite, hanno dato voce alla loro incredulità ed al loro sconcerto". Insomma, il 'sindacato' delle toghe ricorda che è stata la magistratura tutta a insorgere con riunioni e mailing list di sdegno e protesta contro il tentativo di pilotare le nomine delle Procure, soprattutto quella della capitale, da parte dei consiglieri 'infedeli' del Csm che si riunivano nelle 'notti carbonare', in albergo, con i parlamentari dem Luca Lotti e Cosimo Ferri sotto la regia dell'ex presidente dell'Anm Luca Palamara.
TRAGEDIA GRECO. Luca Fazzo per “il Giornale” il 21 giugno 2019. «E h sì, perché Francesco Greco lo ha portato la cicogna...». Il commento più sarcastico arriva da Felice Lima, sostituto procuratore generale a Messina. Altri scelgo toni più cauti, più formali: ma la sostanza non cambia. L'intervento del procuratore della Repubblica di Milano mercoledì pomeriggio sullo scandalo che scuote la magistratura ha sollevato una ondata senza precedenti di critiche sulle mailing list dell' associazione magistrati. La colpa di Greco: avere attribuito il malaffare che sta venendo a galla al «mondo che vive nei corridoi degli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana, che non ci appartiene e non appartiene ai magistrati del Nord». Nord. Questa è la parola che nelle critiche assume un significato inaccettabile, interpreta come una sorta di distinzione etnica tra la magistratura «buona» del settentrione e quella del resto del Paese. Greco ha dalla sua un paio di attenuanti: era condizionato dalla commozione, perché parlava in memoria del collega (settentrionalissimo) Walter Mapelli, ingiustamente bocciato dal Csm e scomparso da poco; probabilmente era di malumore per la bacchettata che poche ore prima gli era arrivata dal Consiglio superiore della magistratura, che ha condannato i suoi criteri di scelta dei pm antimafia. Ma la virulenza delle reazioni al suo intervento racconta anche di quanto siano oggi scoperti i nervi della magistratura italiana, di come la bufera in corso faccia saltare sentimenti di colleganza e vecchi rispetti reciproci. A criticare Greco un po' più serenamente aveva provveduto, a botta calda, la giunta dell' Associazione nazionale magistrati: «le parole del procuratore di Milano non rendono giustizia alla risposta immediata e sincera delle migliaia di magistrati italiani». Troppo poco, troppo cauta per molti colleghi di Greco. E così iniziano a piovere parole pesanti come sassi. «Tocca leggerle proprio tutte - scrive Giuliano Caputo, pm a Napoli e neosegretario dell'Anm -. Io ho lavorato al Sud per anni e ho conosciuto colleghi di valore cristallino che davvero non meritano di leggere ste cose». Carmen Giuffrida, giudice distaccata a Bruxelles, usa l'arma dell' ironia: Collega Greco, veramente in mezzo ci mancavi solo tu! Uno con il classico cognome del Sud, che lavora al Nord, che è stato nominato procuratore di Milano solo per i suoi meriti, senza alcun intervento da parte delle correnti (evidentemente da un Csm composto per l' occasione solo da colleghi del Nord)... insomma ci sarebbe da piangere se non fosse che questo intervento fa un po' ridere. Ma perché mi dovete costringere a dare ragione a mamma quando mi dice: io credevo che i magistrati fossero persone intelligenti?». A difendere Greco, ben pochi: tra questi Fabio Regolo, il pm catanese che ha incriminato le navi delle Ong di Open Arms, che invita a contestualizzare il discorso. Ma per le altre toghe c' è ben poco da contestualizzare: «Credo che chi non sia pronto ad affrontare il pubblico e i media dovrebbe astenersi», scrive Milena Balsamo. «Non ci hanno insegnato che quando si parla in pubblico bisogna misurare le parole», le fa eco Nicola Saracino. Più pesante Antonio Salvati: «Da magistrato meridionale che vive e lavora al Sud chiedo che tra le imminenti proposte di riforma venga inserita la previsione di un requisito indefettibile: la capacità di verificare che il cervello, ove assemblato, sia connesso prima di parlare». E la collega Silvia di Renzo: «ci mancava questa delle toghe borboniche». Nicola Valletta: «ha offeso tantissimi colleghi con un assioma che lascia basiti». E poi, inevitabilmente, saltano fuori ferite mai del tutto ricucite: i vecchi veleni dentro la Procura di Milano al tempo dello scontro tra Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo. «Per non farti nominare bastava che mandassi uno dei miei (del Csm, ndr) a pisciare», avrebbe detto una volta Bruti a Robledo. E l' episodio viene ora rispolverato nelle mail, come a dimostrare che anche la Procura di Milano non è immune dai vizi romani. Scrive Matteo Centini, pm a Piacenza: «Greco ha detto che la non nomina di Mapelli era una ingiustizia dovuta ai modi romani dei magistrati romani: modi che a loro, magistrati del Nord ripugnano, quando non vanno tutti a pisciare». In sintesi: volano gli stracci.
“Terrone a chi?”: la rivolta dei magistrati del Sud contro il nordista Greco. Il procuratore di Milano nella “bufera social”. I pm meridionali non hanno preso bene le parole di Greco. Il giudice milanese aveva criticato i metodi romani. Giovanni M. Jacobazzi il 21 giugno 2019 su Il Dubbio. Il procuratore di Milano Francesco Greco finisce nel mirino dei magistrati del Sud. Ai togati meridionali non sono affatto piaciute le parole che Greco aveva pronunciato parlando del caso Palamara: «È un mondo che non ci appartiene, che non appartiene soprattutto ai magistrati del Nord, e che vive negli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana». Nel caso non fossero state sufficienti le parole riportare tramite il micidiale cellulare- spia dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, ecco che arrivano quelle di Francesco Greco, procuratore di Milano, a rendere ancora di più incandescente il clima nella magistratura italiana. «Abbiamo dovuto conoscere, apprendere nelle sue logiche di funzionamento e che ci ha lasciati sconcertati e umiliati, perché ci chiedevamo: “beh, in fondo noi abbiamo lavorato come tanti magistrati, riteniamo che per anzianità, per meriti, per alcuni risultati ottenuti e per le nostre potenzialità ancora inespresse possiamo fare questo tipo di domande ( al Csm, ndr)” e invece poi capisci che le logiche sono altre», ha affermato mercoledì scorso Greco, commentano le vicende che in questi giorni hanno terremotato il Consiglio superiore della magistratura. «Quel mondo che vive nei corridoi degli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana e che non ci appartiene e non appartiene ai magistrati del Nord, ci ha lasciato sconcertati», ha poi rincarato la dose il procuratore di Milano, stigmatizzando l’ormai celeberrimo dopo cena del 9 maggio scorso all’hotel Champagne di Roma, fra i deputati dem Cosimo Ferri e Luca Lotti e alcuni togati del Csm. Incontro conviviale dove si sarebbero decisi i destini dei vertici di alcuni uffici giudiziari del Paese. A partire dalla Procura di Roma. Appena le agenzie hanno riportato le dichiarazioni di Greco, si sono surriscaldati gli animi delle toghe sulla questione “etnico- geografica” da lui sollevata. Anche perché il procuratore di Milano ha un cognome che molto difficilmente riesce a nascondere le sue origini campane.
Alcuni magistrati si sono sentiti offesi. «Ci sono magistrati bravi dappertutto indipendentemente dal luogo in cui operano», afferma un magistrato in servizio a Roma. «Mi sento offeso», gli fa eco un collega di Catania. In tanti, però, si sono lasciati andare all’ironia, domandandosi se Greco «fosse stato nominato da un Csm composto solo da magistrati del settentrione» o se «pur essendo napoletano, l’aver lavorato a lungo in tribunale del Nord comporta automaticamente il superamento del “deficit” dovuto alle origini meridionali». Va ricordato che, secondo alcune statistiche, circa l’ 82% dei magistrati italiani è nato sotto il Po. Ma forse il vero senso delle parole di Greco è colto da quel magistrato che fa presente che non c’è alcuna pregiudiziale etnica- geografica, ma solo una «critica aspra alle dinamiche tipiche della Capitale», ben fotografate dal film La grande bellezza del premio Oscar Paolo Sorrentino. Come diceva, infatti, Palamara parlando con un togato del Csm nel corso delle conversazioni intercettate tramite il trojan, ricordando la fatica che aveva sopportato negli anni per presenziare agli eventi mondani in cui politici, magistrati, alti burocrati dello Stato, fra un cacio e pene e un bicchiere di vino di Frascati, discutevano dei massimi sistemi della Repubblica. Un “attovagliamento”, come direbbe Roberto D’Agostino, che è tipico della Capitale e segna la distanza con Milano. Dove il confine fra il pour- parler e la millanteria è quanto mai labile. E i colloqui incriminati che hanno costretto alle dimissioni i quattro consiglieri del Csm ne sono la dimostrazione plastica.
"È un posto civile, non Palermo": bufera sul giudice di Trento. Il presidente del Riesame all'avvocato: "Taccia perché siamo in un posto civile e non a Palermo". E il caso finisce al Csm. Chiara Sarra, Mercoledì 20/09/2017, su Il Giornale. "Avvocato, lei taccia, perché qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo". È bufera sul presidente del tribunale del Riesame di Trento, Carlo Ancona, che ha pronunciato questa frase durante un'udienza. A raccontarlo è l'avvocato Stefano Giordano, che si dice "preoccupato per l'accaduto". "È un fatto gravissimo oltre che una frase razzista", ha detto il legale (figlio del presidente del maxiprocesso di Palermo Alfonso Giordano), "Ieri mi trovavo al Tribunale di Trento per una udienza di rinvio al Tribunale del Riesame, quando è avvenuto questo fatto increscioso, Ho chiesto, e solo dopo numerosi sforzi, ho ottenuto la verbalizzazione di quanto accaduto. Purtroppo nonostante numerose richieste, non sono riuscito a ottenere dalla cancelleria del tribunale del Riesame di Trento copia del suddetto verbale". Per questo Giordano ha deciso di rivolgersi al Consiglio superiore della magistratura: "Ho già concordato con il presidente dell'Ordine di Palermo, l'avvocato Francesco Greco, di redigere insieme un esposto che sarà prontamente comunicato al Csm e alle altre autorità istituzionali competenti", ha spiegato all'agenzia Adnkronos. "È un episodio molto grave", ha aggiunto lo stesso Greco, "Se questo fatto fosse accertato manderei subito gli atti al Csm e al Procuratore generale della Cassazione. Ne parleremo domani in Consiglio. Aspetto una nota scritta dell'avvocato Giordano e poi chiederemo l'avvio di un procedimento disciplinare e il Consiglio aprirà un fascicolo".
Sestino Giacomini: "Gli davano del pazzo ma...". Perché sui magistrati aveva ragione Silvio Berlusconi". Libero Quotidiano il 19 Giugno 2019. "Se c'è un Paese occidentale negli ultimi decenni dove le sorti di questo o quel governo, di questo o quel politico, sono state determinate da vicende giudiziarie, quello è l'Italia", scrive Augusto Minzolini in un retroscena su Il Giornale. "Abbiamo fatto scuola", confida al giornalista Sestino Giacomini, consigliere del Cavaliere: "Silvio Berlusconi veniva preso per pazzo ma le accuse che muoveva si stanno dimostrando realtà. Come pure la storia dei colpi di Stato, cioè delle iniziative giudiziarie con cui è stato messo all'angolo, che in fondo somigliano a quella che nel 2008 determinò la fine del governo Prodi". Persino il piddino Umberto Del Basso De Caro dice: "Qui bisognerebbe rileggere la storia, a cominciare da quella strana coincidenza per cui tutte le inchieste che riguardarono Bettino Craxi all'epoca, passarono per le mani del gip di Milano Italo Ghitti, che consigliava Di Pietro su come doveva impostarle per mettere il povero Bettino agli arresti. Ora si è squarciato il velo. Ecco perché al di là delle resistenze di Mattarella penso che alla fine questo Csm verrà giù". Il forzista Pierantonio Zanettin affonda: "Se avessero usato un trojan 30 anni fa avremmo scoperto che i due terzi dei responsabili delle procure veniva deciso da Violante e da Magistratura democratica. E magari oggi ci renderemmo conto che il padrone della Cassazione è il segretario che decide i giudici che parteciperanno al collegio di questo o quel processo".
Paolo Mieli: toghe e politica. Una inquietante verità sulla magistratura italiana. Libero Quotidiano il 18 Giugno 2019. "Nonostante Antonio Di Pietro dopo varie avventure sia finito ai margini della vita politica, l'Ordine giudiziario di cui un tempo fece parte è divenuto via via più potente. E in grado di condizionare la vita politica del Paese". Paolo Mieli, nel suo editoriale su il Corriere della Sera, dice una verità inquietante sul legame tra magistratura e politica in Italia. "Da noi è divenuta quasi normale la delega ai magistrati del ruolo di oppositori. Cioè di coloro che possono consegnare, direttamente o indirettamente, al patibolo questo o quel ministro". Così, continua durissimo Mieli, "chi entra a Palazzo Chigi può mettere nel conto qualche sorpresina proveniente - per via diretta o indiretta, ripetiamo - dai palazzi di giustizia. Il potere della magistratura è divenuto a tal punto consistente da produrre al proprio interno competizione e conflitti in misura maggiore del passato". Parole durissime le sue. Supportate dallo scandalo che "ha testé travolto il Csm e l'Anm originato - teniamolo a mente - dalla supposta corruzione del pm romano Luca Palamara al quale si imputa di aver ricevuto quarantamila euro per «agevolare» la nomina del collega Giancarlo Longo a Procuratore di Gela (tentativo peraltro non riuscito)". Ma quello che oggi colpisce, sottolinea Mieli "è che - per una sorta di contrappasso - ad esser travolti da questo evidente abuso siano adesso dei magistrati. Cioè coloro che usualmente si erano mostrati i meno sensibili ai pericoli insiti nell'uso pubblico delle intercettazioni". E ora "accettiamo persino - al di là di qualche deplorazione di maniera - che qualche ombra si allunghi sulle anticamere del Quirinale. Restiamo invece come sospesi ad attendere gli ulteriori sviluppi di questa storia e di quelle che verranno da nuovi trojan inseriti in altri telefonini".
Augusto Minzolini: la profezia di Paolo Mieli sulle toghe? "E' solo un primo segnale, quadro peggiore". Libero Quotidiano il 19 Giugno 2019. "E' solo un primo segnale". Augusto Minzolini parla del "paragone di Paolo Mielicon il caso dell' ex presidente Lula in Brasile, portato in cella da una «combine» tra la pubblica accusa e un giudice, vicenda che ha avuto come conseguenza la vittoria della destra di Bolsonaro". Anche perché, sottolinea su il Giornale l'ex direttore del Tg1, "se c'è un Paese occidentale negli ultimi decenni dove le sorti di questo o quel governo, di questo o quel politico, sono state determinate da vicende giudiziarie, quello è l'Italia". In effetti noi "abbiamo fatto scuola", continua Minzolini. "Berlusconi veniva preso per pazzo" sostiene Sestino Giacomini, consigliere del Cav, "ma le accuse che muoveva si stanno dimostrando realtà. Come pure la storia dei colpi di Stato, cioè delle iniziative giudiziarie con cui è stato messo all' angolo, che in fondo somigliano a quella che nel 2008 determinò la fine del governo Prodi". E ora "si è squarciato il velo. Ecco perché al di là delle resistenze di Mattarella penso che alla fine questo Csm verrà giù".
· Razzisti con i soldi degli altri.
Diodato Pirone per “il Messaggero” il 16 ottobre 2019. La provincia di Bolzano, la provincia di Trento, la Regione Valle d'Aosta. E' il podio dei territori dove vivono gli italiani più fortunati: quelli ai quali sono riservate risorse pubbliche veramente notevoli. Si tratta, centesimo più centesimo meno, di 8/9.000 euro a testa contro una media di 6.500 euro circa che si registra nelle Regioni a Statuto Speciale (alle tre aree citate vanno aggiunte Friuli, Sardegna e Sicilia) e di 3.600 euro per tutti gli altri italiani. Questo è ciò che racconta la ripartizione pro-capite della spesa statale regionalizzata, ovvero quella suddivisa a livello territoriale. Le due province autonome spiccano su tutte le altre Regioni. Secondo le stime della Ragioneria generale dello Stato, su una media italiana di circa 3.600 euro a testa, gli abitanti delle due Province autonome si sono visti direttamente o indirettamente destinare 8.964 euro (Bolzano) e 7.638 euro (Trento), circa quattro volte quello che è invece arrivato a ciascun abitante della Lombardia. A quelli della Valle d'Aosta, altra Regione a statuto speciale, sono andati in media 7.475 euro a testa. Quarto posto ai cittadini del Lazio (6.133 euro) ma in questo caso - è bene chiarirlo subito - si tratta di un effetto ottico. In pratica al Lazio vengono conteggiati trasferimenti ai ministeri che poi a loro volta distribuiscono la spesa nelle varie Regioni. Fatto sta che all'ultimo posto ci sono i residenti della Lombardia (2.265 euro, circa un quarto di quanto distribuito tra gli altoatesini o ,meglio, sudtirolesi).
SPESA PUBBLICA. Alle Regioni nel 2017 sono andati in tutto circa 233 miliardi per spese correnti e investimenti su un ammontare complessivo di pagamenti di 537 miliardi (che sommati a quelli previdenziali fanno arrivare la spesa pubblica complessiva a oltre 800 miliardi). Circa 40 miliardi sono andati ai 9 milioni di abitanti delle Regioni e delle Province a Statuto Speciale ai quali vanno aggiunte le tasse trattenute a livello locale. I pagamenti complessivi sono stati erogati dallo Stato a qualsiasi titolo per spese correnti e spese in conto capitale, distinti per regione di destinazione. Si tratta di voci quali stipendi, acquisti di beni e servizi, trasferimenti ad amministrazioni ed enti pubblici, a imprese e famiglie, interessi, investimenti diretti e contributi agli investimenti. Dal conteggio sono escluse le spese per rimborsi di prestiti.
I VALORI ASSOLUTI. Guardando al dettaglio dei dati in valori assoluti, il Lazio, anche per la presenza del governo e delle molte sedi centrali delle istituzioni nazionali, è la Regione che assorbe di più (oltre 36 miliardi al netto degli interessi che in parte vengono distribuiti alle sedi periferiche dei ministeri e delle istituzioni), seguita dalla Lombardia (22,6 milioni), e dalla Sicilia (21,8 milioni) e dalla Campania (21,3 milioni). Non a caso Regioni dove il numero degli abitanti è più alto.
REGIONI A STATUTO SPECIALE. Se però si leggono i numeri del rapporto della Ragioneria ribaltando la prospettiva, considerando cioè non la spesa generale ma quella pro-capite, il panorama cambia drasticamente. La Lombardia sprofonda all'ultimo posto con appena 2.265 euro a testa, preceduta da Emilia Romagna (2.681 euro), Veneto (2.741 euro) e Piemonte (2.846 euro a testa). Tutte Regioni del Nord o del Centro-Nord. Al top ci sono invece ancora Regioni settentrionali, ma a statuto Speciale. Come detto a Bolzano la spesa per abitante arriva a 8.864 euro e a Trento a 7.638 euro.
LE PERCENTUALI. Va sottolineato che l'impatto della spesa pubblica regionalizzata sull'economia dei territori è diversa da caso a caso. In Sardegna essa rappresenta il 29,5% del Pil, a Bolzano il 24,2%, nel Lazio il 17,5%, in Emilia solo l'8,7% e in Lombardia appena il 7%.
· Quei razzisti come Vittorio Feltri.
(ANSA il 6 dicembre 2019)- Una maestra di asilo nido di Coquio Trevisago (Varese) è stata sospesa dalla professione per sei mesi dal gip con l'accusa di aver maltrattato bambini di età compresa tra pochi mesi e due anni. La donna, a quanto emerso da un'indagine dei carabinieri, urlava ed offendeva i piccoli e in alcune occasioni li avrebbe schiaffeggiati e lasciati da soli in preda a crisi di pianto. A far scattare le indagini i genitori di un bimbo che aveva avuto incubi notturni e mostrava difficoltà relazionali. Si appartava in uno stanza con il compagno fatto entrare di nascosto all'asilo nido, lasciando soli i bambini, la maestra di asilo di Cocquio Trevisago (Varese), sospesa dalla professione perché indagata per maltrattamenti su minori. Le telecamere installate dai carabinieri, su disposizione del pm di Varese, hanno filmato l'uomo mentre entrava nella struttura e si chiudeva in una stanza, nascosta ai bambini, con la donna per consumare rapporti sessuali. "Sei proprio un terrone", "guardati, fai schifo" e, ancora, "piangi che così ti passa". Queste alcune delle frasi che la maestra di asilo nido di Coquio Trevisago (Varese), sospesa dalla professione per maltrattamenti, ha rivolto ai piccoli affidati dai genitori. La maestra, secondo quanto ricostruito dai carabinieri, avrebbe maltrattato i bambini a partire dal 2017, in venti occasioni.
ALT! CI SCRIVE IL PRINCIPE FULCO RUFFO DI CALABRIA. Dagospia il 21 novembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: La satira è il sale della letteratura, alta o bassa che sia, e non sarò mai dalla parte di chi pretende censure o abiure. Tuttavia la imminente uscita nelle sale dell’ultimo film di Antonio Albanese che vuole indicare, parlando della Calabria, al ludibrio e allo sfottò le scelte politiche del sovranismo, passando per un uso distorto e 'ridicolo' del mio cognome, il protagonista si appella Cetto Buffo di Calabria, merita un commento, fermo e pacato, ma senza giri di parole. La famiglia Ruffo è sicuramente una delle più antiche dinastie europee e del Mezzogiorno d'Italia, partendo da possedimenti e titoli della terra di Calabria. Fu Federico II a insignirci del predicato “di Calabria” nel cognome, molto più prestigioso che averlo nel titolo. In qualsiasi modo la si voglia pensare, il ruolo di esponenti della mia famiglia è risultato preminente se non decisivo, in alcune epoche e momenti storicamente rilevanti. Associare per assonanza il nome della mia famiglia a un personaggio di fantasia immerso nel mondo del malaffare e della illegalità è inaccettabile. Tra l'altro è anche poco fantasioso. Il Copyright “Buffo” da me accolto anni fa con grande divertimento appartiene al geniale sito che, qui, oggi mi ospita. Dunque dal punto di vista personale non ritengo di aggiungere altro. In termini più generali sento di potere esprimere un mio convincimento profondo. Il merito di qualsiasi opera letteraria o cinematografica sulle tragiche e, a tratti disperate, condizioni della economia e della società calabrese è indiscusso, ma agli uomini e alle donne che amano tale terra non può bastare e essi difficilmente possono rimanere spettatori. Se nel film si vuole separare fisicamente la Calabria dall'Italia io sono d'accordo: separare dalla nazione la ‘Ndrangheta, l'illegalità, lo sfruttamento del paesaggio, la distruzione di ricchezza, SÍ! Sono questi i mali che bisogno allontanare, dalla Calabria come dall'Italia. Dare futuro al Paese e alla Calabria puntando sulle tradizioni come sulle innovazioni, sullo spirito imprenditoriale e la capacità di lavoro, sul turismo e la logistica, il patrimonio artistico e le bellezze del paesaggio, contrastando il dissesto idrogeologico e rivalutando l'agroalimentare che non sia solo la sagra della ‘nduja. Oggi i limiti territoriali e i confini regionali sono ampiamente senza senso in termini economici per l'avvento delle reti e delle connessioni, ma esiste comunque una radice, un luogo, un territorio che va valorizzato. La Calabria ha delle carte da giocare. Esiste un patrimonio naturalistico intatto che farebbe la fortuna di qualsiasi comunità industriosa e proba; esiste uno dei maggiori porti del mediterraneo, in grado di accogliere per primo le merci della Cina via Suez; un centro universitario di eccellenza che attira oggi come mai giovani e intelligenze sul fronte dell'innovazione e della ricerca. E poi i tanti borghi, le foreste, l'industria della pesca e della conservazione, un turismo che deve superare la ricerca della misera seconda casa e puntare ai grandi flussi mondiali. Affondare il coltello contro la malagestione pubblica, i rapporti familistici e di raccomandazione, l'impero della criminalità. La rinascita economica della Calabria passa attraverso tutto questo e non dal dileggio di una casata illustre con lo snobismo di chi per far ridere a sinistra deve inventarsi una destra buffa che non c’è!
Razzisti, anche da se stessi. Giampaolo Visetti per “la Repubblica” il 20 novembre 2019. L'acqua alta? Una settimana dopo fa il solletico. Sopra Venezia incombe già una mareggiata ben più definitiva. Un muro, non solo burocratico, per separare il mare dalla terraferma. Il centro storico e le altre isole, da Mestre e da Marghera. Così, mentre ieri riapriva la Fenice riemersa dai flutti, il teatro Goldoni è stato preso d' assalto per il primo confronto sul referendum autonomista dell' 1 dicembre. Tutto esaurito: platea più quattro piani di palchi dorati e gente a premere nelle calli attorno a Rialto. Il «sì» contro il «no». Non significa veneziani contro mestrini: dividere piuttosto, amministrativamente parlando, gli abitanti che galleggiano e sempre più spesso nuotano, da quelli che vivono con i piedi all' asciutto, piantati su costa e litorale. Alla Giudecca resiste un detto antico: «Se Venezia non avesse il ponte, il mondo sarebbe un' isola». Bene: il tempo di questa irresistibile nostalgia di Serenissima centralità, al largo e sul «continente », grazie ai drammi che ormai sconvolgono l' intero sistema veneziano, sembra essere arrivato. La novità questa volta non è il referendum, sempre consultivo: la trasversale mobilitazione popolare piuttosto, che causa esasperazione di massa, per la prima volta lo sostiene. «Non possiamo più - dice Marco Sitran, promotore delle urne e del "sì" - difendere un fallimento. A Venezia agonizzano persone, natura ed economia. Mestre è nata come dormitorio per gli operai di Marghera, è stata usata come dormitorio per gli sfollati dall' alluvione del 1966 e si è trasformata nel dormitorio dei turisti low cost. Per salvare queste due comunità moribonde, dobbiamo tentare qualcosa di nuovo: restituire ad entrambe governi autonomi, che le conoscono e che le amano». Per gli oppositori alla secessione in laguna, il divorzio ricorda invece l' irrazionalità della Brexit. La definiscono «Venexit in saor». «Problemi sempre più grandi - dice Nicola Pellicani, deputato Pd e veneziano doc - non si risolvono facendosi sempre più piccoli. La tendenza mondiale sono le megalopoli, nuovi epicentri dei territori umanizzati: separarsi barricandosi nei microcosmi, sognando principati a città-Stato, è anacronistico e anti- storico». La voglia di addio, questa sì, qui in realtà è storica. Fino al 1926 laguna e terraferma erano divise. La fusione, mentre crescevano la ciminiere di Marghera, ha la firma di Benito Mussolini. Sulle isole non l' hanno mai digerita. Tre i referendum per ritornare «autonomi», bocciati da sonori «no»: 1979, 1989 e 1994. Il quarto è andato in onda nel 2003: fallito per mancanza di quorum. «Ovvio - dice Deborah Esposti, leader di uno dei movimenti civici schierati ora con il "sì" - : a Venezia centro storico resistono 52 mila residenti, 80 mila con le isole. A Mestre e terraferma gli abitanti superano i 150 mila. A decidere il destino della laguna, nelle urne, non è chi ci vive ». Partita persa in partenza anche la quinta volta in 50 anni? No, perché ora la terra è sconvolta e la clessidra che tiene in vita l' intera città metropolitana sta per finire. Con il «sì» c' è adesso buona parte dell' intellighenzia e dall' ambientalismo lagunari. Lo scrittore Antonio Scurati ieri era sul palco del Goldoni davanti al filosofo Stefano Zecchi. Beppe Grillo, guru Cinque Stelle, fa il tifo sul blog. Mobilitati Italia nostra, ecologisti e leghisti disobbedienti che sventolano la bandiera di San Marco. Con il «no», mentre l' ex sindaco Massimo Cacciari invita all' astensione, l' establishment dei partiti: Pd e la sinistra, Forza Italia e il sindaco di centrodestra Luigi Brugnaro. In silenzio il governatore leghista Luca Zaia: già contro, tace per non irritare l' arcipelago secessionista, non rompere con Brugnaro prima delle elezioni di primavera, non smentire anni di retorica referendaria per l' autonomia del Veneto. «Siamo allo stremo - dice il sociologo Gianfranco Bettin - ma non ci salviamo sfasciando l'universo anfibio delle nostre diversità. E nemmeno frantumando Venezia pur di mandare a casa il sindaco che ha svuotato le sue municipalità. Se prevalgono separatismo e caos, tra vent'anni saremo ancora lì a litigare su confini e beni da spartire». Sul piatto, dietro il marchio-referendum, lo scandalo-Mose, le grandi navi nel bacino di San Marco, l' assalto di 30 milioni di turisti all' anno, la laguna distrutta e le acque alte da record che diventano normali. «Venezia- suk in mano ai cinesi - dice Sitran - e Marghera-ghetto in balìa di traffico e spaccio: un malato terminale non si salva mantenendo la medicina che non ha funzionato». In teatro, applausi a scena aperta: l'1 dicembre nessuno lo sa.
Da corriere.it il 19 novembre 2019. Il questore di Pordenone ha emesso un Daspo di un anno nei confronti di un allenatore di una squadra di calcio della categoria Esordienti, i ragazzini di 11 anni. Il mister, un uomo di 42 anni, aveva dato del terrone all’arbitro durate una partita a Sacile, città della provincia di Pordenone. Per un anno non avrà accesso ad alcuna manifestazione sportiva e dovrà immediatamente lasciare la guida tecnica della sua formazione. «Non è certamente edificante che chi dovrebbe avere il compito di assolvere alle funzioni di educatore, insegnando il rispetto delle regole attraverso l’attività sportiva, si trasformi, invece, in un esempio diseducativo, che non si concilia con le aspettative di giovani adolescenti che identificano nell’allenatore di calcio un modello positivo da imitare», ha detto il Questore di Pordenone, Marco Odorisio. «Le condotte accertate, oltre a essere verbalmente e materialmente violente e caratterizzate da una consapevole impronta di ‘discriminazione territoriale’ - ha proseguito Odorisio - assumono ancora più particolare di rilievo negativo, soprattutto in considerazione del fatto che sono state poste in essere alla presenza e rivolte a bambini di 11 anni». Il provvedimento è scattato dopo l’articolo di un giornale che parlava di «gravi episodi, che avevano fatto indignare e sdegnare gli stessi genitori dei giovanissimi atleti». La Digos ha accertato come «il 42enne allenatore - residente in provincia di Pordenone - durante la partita reiterasse numerose condotte verbalmente e materialmente violente indirizzate, sia verso i giovanissimi calciatori in campo, sia a quelli in panchina». Nel culmine di un’azione di gioco, parlando ai propri calciatori in panchina, l’uomo avrebbe detto: «Arbitro, sei un terrone».
Calcio, allenatore Esordienti dice terrone a arbitro, Daspo per un anno. Provvedimento esemplare del Questore di Pordenone: "Un educatore non può fare certe cose". La Repubblica il 19 novembre 2019. L'allenatore di una squadra di calcio della categoria Esordienti - ragazzini di 11 anni -, ha dato del terrone all'arbitro e il Questore di Pordenone ha emesso nei suoi confronti un Daspo di 1 anno. Per questo motivo il mister non avrà accesso ad alcuna manifestazione sportiva e dovrà immediatamente lasciare la guida tecnica della sua formazione. L'episodio è avvenuto durante una sfida tra giovani calciatori nella città di Sacile (Pordenone). Nella serata di ieri, personale della Divisione Polizia Anticrimine della Questura di Pordenone ha notificato il provvedimento di Divieto di Accesso ai luoghi ove si svolgono Manifestazioni Sportive" (il cosiddetto "Daspo"), disposto dal Questore di Pordenone Marco Odorisio nei confronti del 42enne allenatore della squadra di calcio, militante nel campionato di calcio Figc, che quel giorno era in trasferta. L'arbitro era un dirigente della formazione avversaria, accreditato a dirigere la gara dopo aver svolto uno specifico corso in Federazione. "Non è certamente edificante che chi dovrebbe avere il compito di assolvere alle funzioni di educatore, insegnando il rispetto delle regole attraverso l'attività sportiva, si trasformi, invece, in un esempio diseducativo, che non si concilia con le aspettative di giovani adolescenti che identificano nell'allenatore di calcio un modello positivo da imitare". Lo ha detto il Questore di Pordenone, Marco Odorisio. "Le condotte accertate, oltre a essere verbalmente e materialmente violente e caratterizzate da una consapevole impronta di "discriminazione territoriale" - ha proseguito il Questore Odorisio - assumono ancora più particolare di rilievo negativo, soprattutto in considerazione del fatto che sono state poste in essere alla presenza e rivolte a bambini di 11 anni". Il provvedimento scaturisce da un articolo di giornale, secondo il quale durante una partita del campionato Esordienti "si sono verificati gravi episodi, che avevano fatto indignare e sdegnare gli stessi genitori dei giovanissimi atleti", si legge in una nota della Polizia di Stato. La Digos ha accertato come "il 42enne allenatore - residente in provincia di Pordenone - durante la partita reiterasse numerose condotte verbalmente e materialmente violente indirizzate, sia verso i giovanissimi calciatori in campo, sia a quelli in panchina". Quindi, nel culmine di un'azione di gioco, rivolgendosi ai propri calciatori in panchina "esternasse una frase con discriminazione territoriale nei confronti dell'arbitro". Le parole incriminate: "Arbitro, sei un terrone".
Cosa fa il meridionale a Milano? Si lamenta. Lo sfogo del fumettista pugliese Frekt. Flavia Cappadocia il 22 ottobre 2019 su it.mashable.com. ''Molti vengono a Milano per studiare, per lavorare, per sfogare le loro velleità artistiche e cosa chiede in cambio Milano? Niente. Cosa fa invece il meridionale una volta arrivato a Milano? Si lamenta''. A dirlo è il fumettista e sceneggiatore di fumetti Frekt nell'ultimo video pubblicato sul canale YouTube ''This is Racism''. Il testo è tratto da un post su Facebbok scritto da Frekt ed è stato sviluppato poi insieme al regista Francesco Imperato e ai ragazzi di Golemhub.com (Se vi ricordate il video super virale dello scorso ''Ciao Terroni'', con Andrea Pennacchi, è stato realizzato da loro). ''Noi siamo meridionali, quando qualcuno ci viene a trovare ci facciamo in quattro. L'ospite è sacro e si deve sentire a casa. Allora perché quando venite qua a Milano la trattate così?'' Spiega Frekt nel video mentre la telecamera stringe sempre di più l'inquadratura sul suo volto. Francesco Imperato, regista del filmato, ci ha spiegato: ''Abbiamo scelto il palazzo ex Stipel a Milano, costruito negli anni Sessanta. Cercavamo un posto che fosse tipicamente milanese ma anche un simbolo dell'immigrazione, senza cadere nello stereotipo della stazione. All'epoca questo palazzo divenne il simbolo del boom economico, in più era stato utilizzato anche da un fotografo per realizzare degli scatti a Giorgio Gaber nel 1971. Anche lui era molto critico nei confronti del popolo italiano no?'' ''L'idea mi è venuta ascoltando dei ragazzi che parlavano male di Milano sul metrò - ci racconta Frekt, classe 86, nato a di Vieste - Parlavano male anche del risotto allo zafferano. Ma Milano è strana, come quelle ragazze difficili che non ti rispondono mai ai messaggi ma che una volta conquistate sono tue per sempre. I posti belli devi andarteli a cercare. Il mio posto preferito è il Cimitero Monumentale, sembra di stare in un film di Tim Burton''. ''Tutte questi stereotipi esistono davvero ma il video non è contro chi ha nostalgia di casa. Ci mancherebbe - precisa il regista - io stesso ho sofferto, vengo dal Veneto. L'impatto iniziale è molto forte. Ma il messaggio è che dobbiamo rispettare Milano come città''. ''Ho avuto moltissima gente che nei commenti al video ha scritto che si potrebbe dire la stessa cosa di alcune città del Belgio, della Germania. Il cliché è fare l'ultrà del proprio Paese, ma se continuiamo così saremo sempre "polentoni" e "terroni". Non facciamoci la guerra, dobbiamo volerci bene'', conclude il fumettista.
Da ilfattoquotidiano.it il 17 novembre 2019. “È un problema di super ego. Non posso risolverlo io, ma ci vorrebbero migliaia di psichiatri”. Con queste parole Philippe Daverio è ritornato sulla polemica contro i siciliani. Il critico nelle scorse settimane era stato protagonista di una dura polemica che era arrivata addirittura in parlamento a causa delle sue dichiarazioni contro il popolo siciliano. Oggi durante Book city Milano è tornato sull’argomento, parlando poi anche di razzismo. “L’Italia non è mai stata razzista, ma era di più. È campanilista. La politica sfrutta molto questo trend, utilizzando le forme di populismo”.
Daverio contro la Sicilia: la guerra dei borghi. Le Iene il 27 ottobre 2019. Il “borgo dei borghi” 2019, per la trasmissione tv di Raitre, è Bobbio. Il comune piacentino ha trionfato sulla siciliana Palazzolo Acreide, dopo il voto decisivo di Philippe Daverio, presidente di giuria. Peccato che Daverio, dal quale è andato il nostro Ismaele La Vardera, è cittadino onorario di Bobbio. E davanti ai nostri microfoni è andato giù pesantissimo. Bobbio, in provincia di Piacenza, è il “borgo dei borghi” del 2019. Lo ha stabilito la trasmissione di Raitre condotta da Camila Raznovich. Nulla di strano, direte voi. Peccato però che il comune in provincia di Piacenza, che ha trionfato in finale sulla siciliana Palazzolo Acreide, lo ha fatto con il voto decisivo del presidente della giuria, il critico d’arte Philippe Daverio. Perché peccato? Perché Daverio da un anno è anche cittadino onorario della stessa Bobbio. Ismaele La Vardera ci racconta l’incredibile bagarre nata dalla proclamazione di Bobbio come borgo più bello d’Italia. Il televoto del pubblico da casa, al costo di 51 centesimi per messaggio, aveva decretato la vittoria di Palazzolo Acreide contro Bobbio, per il 42% contro il 27%. Ma è bastato il voto finale di Philippe Daverio, che al comune siciliano ha dato un impietoso 0% per cento di gradimento, a ribaltare completamente la classifica. Ed è venuto giù letteralmente il mondo. E quando la Iena è andata a sentire proprio il contestatissimo presidente di giuria, lui ci ha messo il carico da 90: “Il siciliano è convinto di essere al centro del mondo, è una patologia locale che nei secoli non ci si è mai riusciti a curare. Si chiama onfalite, è l’infiammazione dell’ombelico. Per loro tutto ciò che non è Sicilia è molto lontano, è quasi intollerabile”. Daverio ha poi aggiunto di avere paura, dopo le pesantissime critiche che gli sono piombate addosso: “Mi hanno spaventato, il tono è di minaccia e fa parte della tradizione siciliana: ho paura di tornare in Sicilia. Non la amo, non mi interessano l’arancina e i cannoli, mi piace il foie gras e bevo champagne. Il cannolo non mi piace, perché ha la canna mozza…”
Daverio in guerra con la Sicilia: “Non mi piace, mi hanno minacciato”. Le Iene il 28 ottobre 2019. Il voto del presidente della giuria Philippe Daverio assegna alla piacentina Bobbio la vittoria in tv come “borgo dei borghi 2019”. Peccato che proprio lui, ex assessore leghista a Milano, sia cittadino onorario di Bobbio. E quando Ismaele La Vardera va a chiedere spiegazioni lui attacca a testa bassa: “Il siciliano è convinto di essere al centro del mondo. Ora ho paura, sono stato minacciato”. “Mi hanno spaventato, io ho paura della Sicilia”. A parlare così è il noto critico d’arte ed ex assessore leghista di Milano Philippe Daverio. Durante il concorso su Raitre3 “Il borgo dei borghi 2019” ha dato il suo voto decisivo alla piacentina Bobbio e non a Palazzolo Acreide, in Sicilia. Il voto che ha scatenato fortissime polemiche da parte della cittadina in provincia di Siracusa, che era arrivata in finale grazie al massiccio televoto del pubblico da casa (42% contro il 27% di gradimento per Bobbio). A capo della giuria tecnica c’era proprio Daverio, che a Palazzolo Acreide ha assegnato lo zero per cento. Peccato che Daverio da un anno sia cittadino onorario di Bobbio: apriti cielo! Il presidente della commissione di vigilanza della Rai, Michele Anzaldi ha dichiarato che “i danneggiati sono i comuni che si sono trovati in questo pasticcio e tutti noi che paghiamo il canone oltre ai cittadini che hanno votato da casa”. Un televoto tra l’altro non gratis, ma che costa ben 51 centesimi a messaggio. “Sarebbe bello sapere a chi vanno questi soldi” ha aggiunto Anzaldi, che ha annunciato anche un’interrogazione parlamentare. “Mi auguro si metta fine a questa brutta pratica dei televoto che poi non vengono rispettati”. “Bobbio è un bellissimo borgo, l’Italia è tutta bella. Però io dico se facciamo questa cosa, facciamola in una maniera corretta” dice a Ismaele La Vardera il sindaco di Palazzolo Acreide, Salvatore Gallo. Quando andiamo da Philippe Daverio, lui invece ci mette il carico da 90: “Il siciliano è convinto di essere al centro del mondo, è una patologia locale che nei secoli non ci si è mai riusciti a curare. Si chiama onfalite, è l’infiammazione dell’ombelico. Per loro tutto ciò che non è Sicilia è molto lontano, è quasi intollerabile”. Sulla presunta incompatibilità dice: “Essere cittadino onorario che vuol dire? Il diritto di opinione è sancito dalla nostra costituzione. Il televoto non è stato ribaltato, aveva già fatto vincere Bobbio”. E quando gli facciamo notare, numeri alla mano, che non è così, lui ripete: “Era esattamente ciò che dovevo fare. Porterò in Tribunale il sindaco di Palazzolo, perché è un’intimidazione sicula, bisogna stare attenti”. La Sicilia, Philippe Daverio, proprio non la ama: “Non amo la Sicilia, non mi interessa l’arancina e i cannoli, mi piace il foie gras e bevo champagne. Il cannolo? Non mi piace perché ha la canna mozza… E mi piace Bobbio. È un mio diritto. Mi hanno spaventato, il tono è di minaccia e fa parte della tradizione siciliana... Io ho paura di tornare in Sicilia”.
Borgo dei Borghi, ora Daverio chiede scusa alla Sicilia: ho generalizzato. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 da Corriere.it. Nuovo colpo di scena nella vicenda delle polemiche legate alla trasmissione di Rai Tre «Il Borgo dei Borghi». Ora il critico d’arte Philippe Daverio si scusa con la Sicilia: «Ho generalizzato dicendo a tanti ciò che era destinato a pochi facinorosi». È la nuova puntata di una polemica che si sussegue da giorni, nata dopo l’assegnazione del premio al borgo più bello d’Italia a Bobbio (Piacenza), a scapito di Palazzolo Acreide (Siracusa), decisa dalla giuria tecnica che ha ribaltato l’esito del televoto. Dettaglio: presidente della giuria del programma Rai era proprio Daverio, che di Bobbio è anche cittadino onorario. A sollevare la questione era stato inizialmente il parlamentare renziano di Palermo Michele Anzaldi, componente della commissione della Vigilanza Rai, che aveva fatto un’interrogazione in Parlamento: «La Rai chiarisca se dietro il concorso televisivo non ci sia un imbarazzante caso di conflitto di interessi del presidente della giuria. Se sono stati commessi errori e ci sono state connivenze, chi ha sbagliato deve pagare». Inizialmente Daverio aveva risposto alle accuse in modo netto: «Anzaldi ha detto “chi ha sbagliato deve pagare”... Ha parlato di “connivenze”, una parola che considero intimidatoria — aveva detto —. Manlio Messina, assessore al Turismo della regione Sicilia, ha persino dichiarato: “Se un vincitore ci deve essere, desideriamo che sia la nostra Palazzolo Acreide”. Beh, la Sicilia non è al centro del mondo. La Sicilia è contro Daverio. Mi occupo da sempre dell’Italia, delle bellezze del nostro Paese, da Nord a Sud, e accusarmi di essere di parte è come delegittimare la mia professione. Non ci sto, difenderò la mia onorabilità per via legali». Ma la sua difesa aveva ulteriormente irritato i siciliani. Tanto da far intervenire addirittura il governatore Nello Musumeci: «Un atteggiamento così spocchioso ci impone come governo della Regione di rivolgerci all’autorità giudiziaria. Se poi dovessero arrivare le scuse, sarò io stesso a invitare il razzista francese nella nostra Isola». E in giornata Daverio si è dunque scusato: «Sono talvolta ingenuo — scrive il critico — e come tale, dopo una lunga giornata di viaggio e di lavoro, dopo una sommatoria di insinuazioni d’interesse mio privato lanciatomi da politici siciliani per il mio voto libero nella trasmissione dei borghi e, dopo aver ricevuto minacce d’ogni genere e anche di morte a me e alla mia famiglia mi sono trovato pure inseguito da una iena della nota trasmissione, ex candidato sindaco di Palermo, che mi ha posto una serie di tranelli. Mi ha fatto ribollire il sangue e ho sbottato come lui sperava che facessi. Non tollero i ricatti, dal Nord o dal Sud. E ho reagito in un modo ironico che ha generato confusione e da parte di spiriti malversati reazioni spropositate». E così, di fronte alle parole di Daverio, è intervenuto il sindaco di Palazzolo Acreide, Salvatore Gallo, che lo ha invitato ad un confronto pubblico: «Sarà accolto come tutti, con vera gentilezza e sensibilità. Noi non abbiamo nulla contro l’intellettuale Daverio, e gli riconosciamo notevole valenza culturale. Abbiamo solo chiesto il rispetto delle regole e che la Rai ci risponda in merito al potenziale conflitto di interessi».
Da repubblica.it il 29 ottobre 2019. "Mi scuso con i siciliani, perché ho generalizzato dicendo a tanti ciò che era destinato a pochi facinorosi". Lo scrive, in una lettera aperta, il critico d'arte Philippe Daverio, dopo le aspre polemiche sollevate ieri in seguito alle sue dichiarazioni rese alle Iene in cui attaccava i siciliani dicendo, tra l'altro: "Ho paura dei siciliani". Daverio scrive anche una lunga lettera al Presidente della Regione siciliana, Nello Musumeci che ieri ha preteso le sue scuse annunciando querela. "Sono talvolta ingenuo e come tale, dopo una lunga giornata di viaggio e di lavoro, dopo una sommatoria di insinuazioni d'interesse mio privato lanciatomi da politici siciliani per il mio voto libero nella trasmissione dei borghi e dopo aver ricevuto minacce d'ogni genere e anche di morte a me e alla mia famiglia, mi sono trovato pure inseguito da una iena della nota trasmissione, ex candidato sindaco di Palermo, che mi ha posto una serie di tranelli - dice Daverio - Mi ha fatto ribollire il sangue e ho sbottato come lui sperava che facessi. Non tollero i ricatti, dal nord o dal sud. E ho reagito in un modo ironico che ha generato confusione e da parte di spiriti malversati reazioni spropositate". "Al Presidente della Regione Sicilia che ha dato una intervista contro di me nella quale esige la mia espulsione dagli schermi della RAI ho scritto la seguente lettera aperta", dice Daverio. Che pubblica una lettera di Boris Vian del 1958, inviata all'allora Presidente della Repubblica francese: "Je vois envoie une lettre que vous lirez peut-être si vous avez le temps (Boris Vian 1958 al Président de la République)". "Onorevole Presidente Musumeci, mi permetto d'assumere un tono ironico per affrontare questa versione contemporanea della Secchia Rapita che ha trasformato un gioco televisivo in una farsa tragicomica nella quale Ella non ha avuto il buongusto di evitare lo scivolone - scrive Daverio - L'appello dei neoborbonici chiede che non lavori più in Rai: non si preoccupino, è da tempo che la Rai non mi vuole e ha smesso di trasmettere i miei video nei quali tra l'altro ho spesso esaltato la Sicilia, con la trasmissione su Palermo, quella sui Normanni e quella sulla presenza araba". "Ho insegnato a lungo in Sicilia e devo riconoscere con orgoglio che molti miei laureati presso la Facoltà di architettura di Palermo conservano un buon ricordo del mio operato didattico, ricambiato dalla medesima mia simpatia - dice ancora Philippe Daverio - Ho collaborato con passione all'attività del Teatro di Montevergini e ho avuto l'incarico di organizzare la festa di Santa Rosalia, una volta con successo facendo costruire il carro gratuitamente a Jannis Kounellis (purtroppo quell'opera dall'altissimo valore economico è poi marcita all'aria aperta), una seconda volta in mezzo a mille polemiche quando la scarsità di fondi restrinse la distribuzione di incarichi". "Ho polemizzato per la cattiva manutenzione degli immobili della Facoltà nella quale insegnavo ed ho subito i biasimi d'un senato accademico che non tollerava le critiche al loro membro ormai defunto che quest'edificio aveva progettato. Ho quindi più d'una volta in Sicilia litigato con dei siciliani; sono umano e sanguigno come lo erano i miei parenti svevi ed è forse la mia quota sveva che mi ha reso possibile intendere la complessità dell'animo siciliano, nel bene sempre e nel male talvolta - prosegue ancora Daverio - Ho letto con profondo disappunto la sua intervista apparsa sul Giornale di Sicilia nella quale dice: "Mi auguro che il servizio pubblico televisivo, se esistono ancora rapporti professionali con questo personaggio, li rescinda immediatamente. Se poi dovessero arrivare le scuse, sarò io stesso a invitare il razzista francese nella nostra Isola". Non posso fare altro che prenderne atto. Alla Secchia Rapita, che Ella sicuramente ha letto vista la sua nota cultura storica, Ella ha avuto l'ispirazione di aggiungere una riedizione dei Vespri Siciliani individuandomi come una replica degli angioini cacciati nel XIII secolo". "Le debbo purtroppo comunicare che sono italiano e come tale ho servito Milano da assessore per quattro anni - dice ancora Philippe Daverio nella lettera a Musumeci - sono francese per metà e per quella normativa che mi consente d'essere francese per jus soli e italiano per jus sanguinis in quanto il mio ceppo familiare lombardo (quanti sono i siciliani che di cognome fanno Lombardo!) è iscritto nella Maricula nobilium familiarum Mediolani sin dal 1377 e che mio parente fu quel Francesco Daverio, il quale a capo del partito popolare delle Cinque Giornate riportò Garibaldi in politica". "Che i neoborbonici assieme a Lei si siano inalberati non mi sorprende quindi, anzi onora sia me che i miei antenati morti per far sorgere l'Unità di quest'Italia". "La TV non è del tutto la realtà, ne è solo uno specchio, talvolta drammatico, talvolta come in questo caso oggettivamente ludico. Credo che pure il Suo ispiratore storico l'On Almirante ("il maestro della mia generazione" Ella disse) lo avrebbe capito e mi duole dover ricordare che sono ben meno razzista di quanto non lo fosse stato l'ambito ideale al quale Ella storicamente si riferisce - prosegue Daverio - Ho oggettivamente partecipato alla realizzazione d'un capolavoro: farmi dare del razzista da un seguace di colui che fu segretario di redazione de La Difesa della Razza a partire dal 20 settembre del 1938, negli stessi giorni delle leggi razziali. Le auguro di potersi emancipare da un passato che sembra incombere inesorabilmente su di Lei e assumere una percezione aggiornata della contemporaneità". "Per il resto le suggerisco di riguardare la trasmissione e si accorgerà che anche gli altri due componenti della Giuria hanno votato a favore di Bobbio: ritenere che siano stati influenzati da me è un drammatico insulto alla loro professionale competenza e alla loro rispettabilità - dice ancora Daverio - Sono l'una olimpionica con varie medaglie d'oro, la gentile signora triestina Margherita Granbassi e il geologo Mario Tozzi, il quale ha votato pure per Rotondella in provincia Matera, dove ha lavorato per anni (sarà quindi anche lui mosso da conflitto d'interesse per via del martelletto da geologo?) e per la quale ho votato pure io (c'eravamo forse messi d'accordo con dei pizzini passati sottobanco?). La cultura del sospetto e delle insinuazioni è repellente". "In seguite alle Sue dichiarazioni la mia pagina facebook è stata inondata di minacce - dice ancora Daverio - Liliana Segre sostiene che "gli hater sono persone di cui bisogna avere pena, vanno curate". Lei riceve tuttora duecento messaggi razzisti al giorno. Sono orgoglioso d'essere in sua compagnia. Ma le minacce di morte giunte a me alla mia famiglia vanno oltre ogni limite di convivenza civile. In seguito alla Sue dichiarazioni l'assessore al Turismo della Sua onorevole Amministrazione, Manlio Messina, ha dato via ad una caricatura di class action chiedendo che non possa più io lavorare in Rai. Forse un attimo di riflessione sull'articolo della nostra Carta costituzionale potrebbe tornarvi a tutti assai d'aiuto laddove l'articolo 21 recita: ½Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure". "Non mi permetterei mai di chiederLe una traccia di sense of humour ma nondimeno spero non abbia confuso una trasmissione televisiva virtuale con la realtà che Ella deve affrontare nell'ARS e che il suo collega Ansaldi dovrebbe afferrare in Parlamento. Capisco che per un politico l'inseguire l'opinione pubblica più immediata sia sempre argomento d'insuperabile fascino ma reputo che la responsabilità etica debba andare verso pensieri più elevati - dice ancora nella lettera a Musumeci - Con le minacce che mi sono pervenute mi sarà assai difficile intraprendere qualsiasi lavoro nell'isola. So bene, onorevole Presidente, che del mio lavoro da comunicatore dei Beni Culturali ad Ella non potrà importare nulla; la Sicilia è già perfetta così come è, la sua notorietà mondiale è accertata. Le vorrei solo ricordare anche l'articolo 4 della Carta, quello che recita: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società". "Le scuse a tutti i siciliani le faccio con sommo piacere, e so che alcuni mi capiranno, almeno quelli non troppo suscettibili ai pizzicotti critici - dice ancora il critico - Ero stato inseguito da un giornalista insistente e molesto delle Iene, ovviamente pure lui siciliano e candidato sindaco a Palermo, dopo una lunga conferenza e in mezzo ad una ressa di pubblico. Le scuse da parte Sua non me le aspetto".
Lettera di Filippo Facci a Dagospia il 29 ottobre 2019. Caro D'Agostino, il caso vuole che io visiti regolarmente, da parecchi anni, «i più bei borghi d'Italia» citati nell'omonimo sito, e ho visto che la scelta del più bello (secondo una giuria composta anche da Philippe Daverio, che è cittadino onorario di Bobbio) quest'anno è caduta su Bobbio, come raccontato in una trasmissione di Raitre del 20 ottobre. Il caso vuole che proprio il giorno precedente alla diffusione della notizia, quella che Bobbio era stato scelto quale «borgo dei borghi», io fossi casualmente a Bobbio, appunto a visitarla e a mangiare. In serata avevo pure pubblicato su Facebook una mia foto che mi ritraeva sul ponte Gobbo: te la allego, per quel che conta. Non mi interessano le polemiche di altri borghi siciliani che erano in lizza per essere giudicati il borgo più bello, e ho visto peraltro che Philippe Daverio è stato oggetto di un linciaggio mediatico ridicolo e orribile. Però una cosa te la posso assicurare: in tutti questi anni ne ho visti veramente tanti, di borghi (anche al Sud: incredibili quelli della Basilicata) e Bobbio è in assoluto uno dei più brutti, non capisco neppure come sia finito nell'elenco. Ho letto che l'ottimo Philippe Daverio ha difeso la sua scelta e, di fronte alla sciocca accusa di essere «un razzista francese», ha precisato anzitutto di essere italiano. Non c'è dubbio.
Le Iene, Philippe Davero contro i siciliani: "Mi fanno paura, terroni che rosicano". Tutta colpa di Bobbio. Libero Quotidiano il 29 Ottobre 2019. "A me la Sicilia non piace, è abitata da terroni che rosicano". Questa uscita infelice Philippe Daverio a Le Iene ha scatenato un putiferio, con tanto di interrogazione parlamentare. Ma riavvolgiamo il nastro e proviamo a spiegare per bene l'intricata vicenda che ha indotto il critico d'arte a rilasciare tali dichiarazioni. Tutto parte dalla puntata conclusiva di Il Borgo dei Borghi, la trasmissione di Rai3 che offre la possibilità a venti paesini italiani di mettere in mostra le rispettive bellezze. C’è da decretare il borgo vincitore: il televoto premia Palazzolo Acreide (Sicilia) con il 41% delle preferenze, mentre Bobbio (Emilia Romagna) si ferma al 20%. La giuria diretta da Daverio cambia il risultato; nulla di male, se non fosse che dietro al ribaltone si nasconde un evidente conflitto d'interessi. Il critico d'arte è infatti cittadino onorario di Bobbio ed è quindi stato accusato di aver privato Palazzolo Acreide della vittoria finale per una questione personale. Intercettato da Le Iene, Daverio ha aggravato la situazione: "Non amo la Sicilia e neanche ci andrò più, visto come hanno preso la cosa. Sono spaventato, ho avvertito un tono di minaccia che fa parte della cultura siciliana". In realtà, il sindaco di Palazzolo Acreide ha accolto con ironia la decisione della giuria, promettendo la cittadinanza onoraria al critico d’arte. Quest’ultimo si è poi scusato, comprendendo forse di essersi spinto oltre il limite: "Mi scuso con i siciliani, perché ho generalizzato dicendo a tanti ciò che era destinato a pochi facinorosi".
Philippe Daverio, il presidente Musumeci: “Venga in Sicilia, ma si scusi”. Le Iene il 28 ottobre 2019. Il critico d’arte Philippe Daverio in tv aveva fatto vincere Bobbio, di cui è cittadino onorario, contro la siciliana Palazzolo Acreide. E quando Ismaele La Vardera è andato a chiedere spiegazioni, Daverio ha detto di non amare la Sicilia e di avere paura di tornarci. Ora gli risponde il presidente della Regione Musumeci. “Non amo la Sicilia, non mi interessa l’arancina e i cannoli, mi piace il foie gras e bevo champagne". Non la tocca piano il critico d'arte Philippe Daverio ai microfoni di Ismaele La Vardera, che lo ha cercato dopo la polemica sulla vittoria di Bobbio nel programma tv “Il borgo dei borghi 2019” per chiedergli spiegazioni (come potete rivedere nel servizio qui sopra). E ha rincarato: "Il cannolo? Non mi piace perché ha la canna mozza… Mi hanno spaventato, il tono è di minaccia e fa parte della tradizione siciliana... Io ho paura di tornare in Sicilia”. Nello Musumeci, presidente della regione Siciliana, ha affidato a Facebook la sua risposta. “Il professor Philippe Daverio ha il dovere di scusarsi con tutto il popolo siciliano, che ha offeso volutamente, con toni razzisti e con dichiarazioni calunniose. Amare la Sicilia non è un dovere, ma usarle rispetto sì. Non è tollerabile un atteggiamento così spocchioso, che ci impone come governo della Regione Siciliana di rivolgerci anche all’autorità giudiziaria. Questo disarmante pregiudizio verso la Sicilia spiega chiaramente l'epilogo del concorso sul Borgo dei Borghi, a danno di una nostra Comunità”. Musumeci, oltre a minacciare un’azione legale, si rivolge alla stessa dirigenza della Rai: “Mi auguro che il servizio pubblico televisivo, se esistono ancora rapporti professionali con questo personaggio, li rescinda immediatamente. Se poi dovessero arrivare le scuse, sarò io stesso a invitare il razzista francese nella nostra Isola: senza cannoli a canne mozze, stia tranquillo, ma con una abbondante fetta di cassata, accompagnata da un bicchierino di passito. E non è una minaccia”. Gli fa eco l'ex presidente dell'assemblea regionale siciliana Gianfranco Micciché: "Da uomo di cultura quale è, sono certo che non nutre alcun tipo di preconcetto nei confronti di noi siciliani, ma rimangono di cattivo gusto alcune sue recenti affermazioni - come si fa paragonare un cannolo ad un fucile a canne mozze? Probabilmente, un conflitto d’interesse c’è stato e a tal proposito probabilmente sarebbe stato opportuno non partecipare al voto o declinare l’invito a far parte della giuria. Professor Philippe Daverio, lei è una persona colta, intelligente e raffinata; lasci perdere i pregiudizi nei nostri confronti. Pregiudizi che fino a qualche tempo fa peraltro non nutriva. Torni in Sicilia, venga a visitare Palazzo dei Normanni, sarà mio gradito ospite. Sono certo che ne rimarrà ammaliato. Potrà anche trovare interessanti i comuni siciliani che hanno già conquistato l’appellativo di “Borgo più bello d’Italia”, come Petralia Soprana, Gangi, Sambuca di Sicilia e Montalbano Elicona". Anche Rai3 prende le distanze dalle affermazioni di Daverio, che definisce “battute e allusioni intollerabili, in contrasto con lo spirito stesso del programma al quale Daverio ha collaborato”. Nel servizio in onda la scorsa puntata vi avevamo raccontato l’incredibile vicenda del concorso tv “Il borgo dei borghi 2019”. A vincere la finale del contest, contro la siciliana Palazzolo Acreide, era stata la piacentina Bobbio, un comune che però solo un anno fa aveva nominato cittadino onorario proprio Philippe Daverio. Il televoto aveva visto in testa Palazzolo Acreide, con il 42% di preferenze contro il 27% di Bobbio, ma a ribaltare completamente l’esito della gara era stato il voto decisivo di Daverio (che a Palazzolo Acreide aveva dato lo zero per cento di gradimento). Il presidente della commissione di vigilanza della Rai, Michele Anzaldi ha dichiarato che “i danneggiati sono i comuni che si sono trovati in questo pasticcio e tutti noi che paghiamo il canone oltre ai cittadini che hanno votato da casa”. Un televoto tra l’altro non gratis, ma che costa ben 51 centesimi a messaggio. “Sarebbe bello sapere a chi vanno questi soldi” ha aggiunto Anzaldi, che ha annunciato anche un’interrogazione parlamentare. “Mi auguro si metta fine a questa brutta pratica dei televoto che poi non vengono rispettati”. Quando Ismaele La Vardera si è recato da Philippe Daverio, lui è andato giù pesantissimo: “Il siciliano è convinto di essere al centro del mondo, è una patologia locale che nei secoli non ci si è mai riusciti a curare. Si chiama onfalite, è l’infiammazione dell’ombelico. Per loro tutto ciò che non è Sicilia è molto lontano, è quasi intollerabile”.
Daverio si scusa con la Sicilia. Ma ci attacca. Le Iene il 29 ottobre 2019. Il critico d’arte Philippe Daverio, travolto dalle polemiche dopo le dichiarazioni a Le Iene sulla Sicilia e i siciliani, scrive una lettera di scuse al presidente della Regione Musumeci, che aveva annunciato querela chiedendo alla Rai di non farlo più lavorare. Ma per Daverio la colpa sarebbe nostra. "Mi scuso con i siciliani, perché ho generalizzato dicendo a tanti ciò che era destinato a pochi facinorosi". Dopo la tempesta di accuse incrociate e minacce di querela, Philippe Daverio chiede scusa, ma non perde l'occasione per puntare il dito contro di noi. Scuse nate dopo le dichiarazioni molto pesanti fatte da Daverio a Ismaele La Vardera, che lo aveva incalzato sulla vittoria di Bobbio al concorso tv “Il borgo dei borghi 2019”, dopo che Daverio (presidente di giuria ma anche cittadino onorario di Bobbio) aveva fatto vincere il comune piacentino contro la siciliana Palazzolo Acreide, ribaltando clamorosamente il televoto (come potete rivedere nel servizio qui sopra). Le scuse di Daverio, se di scuse possiamo davvero parlare, arrivano con una lunga lettera aperta rivolta al presidente della Sicilia Nello Musumeci, che come vi abbiamo raccontato aveva annunciato querela contro le gravi affermazioni del critico d’arte e che lo aveva definito “francese razzista”. Una lettera velata di ironia e di riferimenti colti, nella quale Daverio non sembra però fare alcun passo indietro. Anzi: “Onorevole Presidente Musumeci, mi permetto d’assumere un tono ironico per affrontare questa versione contemporanea della Secchia Rapita che ha trasformato un gioco televisivo in una farsa tragicomica nella quale Ella non ha avuto il buongusto di evitare lo scivolone. L’appello dei neoborbonici chiede che non lavori più in Rai: non si preoccupino, è da tempo che la Rai non mi vuole e ha smesso di trasmettere i miei video nei quali tra l’altro ho spesso esaltato la Sicilia, con la trasmissione su Palermo, quella sui Normanni e quella sulla presenza araba". "Ho insegnato a lungo in Sicilia – prosegue Daverio nella sua lettera - e devo riconoscere con orgoglio che molti miei laureati presso la Facoltà di architettura di Palermo conservano un buon ricordo del mio operato didattico, ricambiato dalla medesima mia simpatia”. E poi, sulle accuse di razzismo avanzategli da Musumeci su Facebook, aggiunge: "Credo che pure il Suo ispiratore storico l’On Almirante (“il maestro della mia generazione” Ella disse) lo avrebbe capito e mi duole dover ricordare che sono ben meno razzista di quanto non lo fosse stato l’ambito ideale al quale Ella storicamente si riferisce. Ho oggettivamente partecipato alla realizzazione d’un capolavoro: farmi dare del razzista da un seguace di colui che fu segretario di redazione de La Difesa della Razza a partire dal 20 settembre del 1938, negli stessi giorni delle leggi razziali. Le auguro di potersi emancipare da un passato che sembra incombere inesorabilmente su di Lei e assumere una percezione aggiornata della contemporaneità". E conclude così: "Le scuse a tutti i siciliani le faccio con sommo piacere, e so che alcuni mi capiranno, almeno quelli non troppo suscettibili ai pizzicotti critici. Ero stato inseguito da un giornalista insistente e molesto delle Iene, ovviamente pure lui siciliano e candidato sindaco a Palermo, dopo una lunga conferenza e in mezzo ad una ressa di pubblico. Le scuse da parte Sua non me le aspetto". Philippe Daverio accusa poi direttamente il nostro Ismaele La Vardera, dal cui incontro erano scaturite le polemiche. "Sono talvolta ingenuo e come tale, dopo una lunga giornata di viaggio e di lavoro, dopo una sommatoria di insinuazioni d’interesse mio privato lanciatomi da politici siciliani per il mio voto libero nella trasmissione dei borghi e dopo aver ricevuto minacce d’ogni genere e anche di morte a me e alla mia famiglia, mi sono trovato pure inseguito da una iena della nota trasmissione, ex candidato sindaco di Palermo, che mi ha posto una serie di tranelli. Mi ha fatto ribollire il sangue e ho sbottato come lui sperava che facessi. Non tollero i ricatti, dal nord o dal sud. E ho reagito in un modo ironico che ha generato confusione e da parte di spiriti malversati reazioni spropositate". Ci tocca però farle notare, signor Daverio, che ha fatto davvero tutto da solo. Noi ci siamo limitati a chiederle se non ci fosse una incompatibilità tra il suo ruolo di giurato e quello di cittadino onorario del comune in gara, soprattutto dopo la vittoria della sua amata Bobbio. E inoltre, ma tanto lei questo lo sa bene, non abbiamo neanche inserito nel servizio tutte le sue dichiarazioni, perché in realtà contro la Sicilia ci è andato giù ancora più pesante. Accettiamo comunque le sue scuse, a nome anche dei siciliani. E dei cannoli, che ha ingiustamente offeso. E per fare questo la invitiamo a guardare l’immagine che le manda il nostro Ismaele La Vardera
In mostra le foto di Lombroso:, polemica a Torino: «È razzista», «No, scatti di pregio storico». Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Corriere.it. «…Con un metodo molto lontano da quello che noi definiamo scientifico Lombroso metteva insieme immagini, frammenti di varia natura e provenienza» spiega Nicoletta Lombardi, docente in Accademia Albertina, introducendo a giornalisti, addetti ai lavori e curiosi la mostra «I 1000 volti di Lombroso» al Museo del Cinema di Torino, aperta da oggi al 6 gennaio. Lombardi ribadisce con un eufemismo («metodo molto lontano») una verità storica: lo studioso veronese basava tanta sua ricerca sull’errore biologico, secondo cui rubi, uccidi o sei pazzo perché è nella tua natura. Ma verba volant. «In effetti - interviene Domenico Mangone, ex assessore comunale che lega il suo nome anche ad una mozione in Sala Rossa nel 2013 per decretare la chiusura del Museo Lombroso dell’Università di Torino — al di là della presentazione a voce dei curatori, nelle sale della mostra mi pare non emerga scritto con evidenza, come meriterebbe, che quelle fotografie avallavano studi inaccettabili. Lontane nel tempo? Sì, ma tanti bambini che da domani (oggi, ndr) visiteranno il Museo, e magari qualche genitore sprovveduto, potrebbero non godere di tutte le nozioni utili a capire davvero cosa gli si vuol comunicare. Sono immagini di pregio storico però non di mille anni fa, appena di un secolo fa o poco più. Quindi materiale ancora sensibile». E aggiunge: «Il sistema culturale torinese non ha nulla da dire al riguardo? Sarebbe quantomeno strano, nell’epoca del politicamente corretto». L’esposizione raccoglie per la prima volta 305 delle 7000 fotografie di internati, briganti meridionali, criminali comuni, prostitute, anche pederasti, immortalati tra Otto e primo Novecento; reperti conservati nell’archivio del Museo di antropologia criminale «Cesare Lombroso». Ad accogliere i visitatori è una gigantografia con due teschi: «Fotografie composite galtoniane di crani di delinquenti» accompagnata da una didascalia che recita: gli scatti «riflettono i molteplici interessi di Lombroso e la diffusione mondiale dei suoi scritti» ma anche «i rapporti tra scienza e cultura popolare lungo l’arco di quasi un secolo». La dicitura non convince Domenico Iannantuoni del comitato No Lombroso. «Se questa è un’avvertenza sugli abbagli propagandati da Lombroso mi pare un po’ poco, anzi nulla» avverte. Certo, al Comitato un progetto siffatto non potrebbe mai piacere: è nemico giurato, anche per via giudiziaria, dell’istituzione universitaria torinese. «Però — riprende — in questo caso la mia posizione diciamo di parte non c’entra nulla. È oggettivo che la mostra verta su quei materiali rinnegati dalla scienza. Eppure sembra prescindere da Lombroso, dividendo dato storico e artefice. Non si può! Dirò di più: uno dei volti esposti potrebbe essere quello di un mio bisnonno...e chi sa che non ci sia visto che la mia famiglia è originaria del foggiano. Non avrei piacere che venisse mostrato così, e nella Mole poi, luogo simbolo di Torino». Ma la finalità storico-divulgativa non basta? «No. E rilancio: per porre in vetrina facce di criminali cubani occorrerebbe secondo me una liberatoria dell’ambasciata di quel paese». Respinge ogni accusa Cristina Cilli, che con Nicoletta Leonardi, Silvano Montaldo e Nadia Pugliese cura l’evento: «Il valore della mostra è fotografico, archivistico e storico, ogni altra lettura è fuorviante». E Donata Pesenti Campagnoni, curatore capo Museo del Cinema, precisa: «Il giudizio su Lombroso l’ha dato la storia. Il sito a lui dedicato è uno dei più importanti musei scientifici italiani. Al Comitato No Lombroso segnalo che sono stati esposti i materiali originali senza esaltare acriticamente la ricerca lombrosiana. Al contrario, si dichiarano esplicitamente i contenuti razzistici». È quel «esplicitamente» che secondo il Comitato fa acqua: «La matrice razzista viene indicata solo in minimi passaggi di alcune didascalie. Al visitatore che non conosce Lombroso, cosa sicuramente possibile, non viene comunicata con la giusta evidenza la bocciatura senz’appello delle sue tesi». In verità sotto l’ultima vetrina si legge: «Per quanto il nesso tra criminologia e razzismo sia implicitamente presente nelle sue teorie...». «Bontà loro» conclude il capo dei no-lombrosiani.
Andrea Pasqualetto per corriere.it l'11 ottobre 2019. Se ti chiami Karim, hai un padre marocchino e sogni una carriera militare, c’è il rischio che qualcosa vada storto. Anche se alle spalle hai la disciplina scolastica della Nunziatella, hai passato indenne l’accademia di Modena ma soprattutto sei un ufficiale con il cuore battente bandiera italiana. Lo sa bene il maggiore degli alpini Karim Akalay Bensellam, trentaseienne di origini marocchine che oggi si troverà davanti ai giudici del Tribunale militare di Verona dove è in corso un processo per razzismo nei suoi confronti. Sul banco degli imputati un sergente in servizio a Belluno, accusato di avere a lungo diffamato Bensellam «alla presenza di numerosi militari», scrive il giudice Antonio Bonafiglia nel rinviarlo a giudizio. Le frasi contestate girano un po’ tutte intorno allo stesso concetto: «Sto marocchino di m...». Con sfumature varie: «Non è degno di stare nell’esercito italiano», «ha rubato un posto in Accademia a un italiano», «pezzo di m... sto meschino», e avanti così, per circa tre anni.
I testimoni. Fra i due, naturalmente, non correva buon sangue. C’erano state delle zuffe e pure Bensellam era finito sotto processo con l’accusa di aver aggredito il sergente, vicenda chiusa con un proscioglimento per «particolare tenuità del fatto». Ed è stato proprio da quella sentenza che è scaturita l’indagine per razzismo. «Perché è lì che il mio cliente ha scoperto tutto, il sergente gli parlava alle spalle e pubblicamente», spiega l’avvocato Massimiliano Strampelli, suo difensore. «Io non posso dire nulla, c’è un processo in corso», taglia corto invece il maggiore. Per lui parlano comunque le carte processuali. «Io ho sempre cercato di non coinvolgere il reparto in una vicenda che avrebbe infangato l’onore del Reggimento e del comando — scrive nella denuncia presentata alla Procura militare di Verona —. Ma tutte queste remore sono venute meno quando ho appreso del comportamento razzista e oltraggioso». Fra le testimonianze, quella di un’alpina, Elena Andreola: «Durante l’alzabandiera era consuetudine sentire il sergente dire “sto marocchino di m...”». La sua ex collega, Sara Barcaro, ha ricordato che succedeva «quasi ogni giorno, il sergente non si curava del fatto che molti ascoltavano». Mentre un altra penna nera, Pasquale Genito, ha precisato «che usava un tono di voce tale da non essere sentito dal capitano che passava ignaro». Da parte sua, il sergente nega tutto. «Il mio cliente si dichiara estraneo ai fatti, oggi parleranno i nostri testimoni», avverte il suo avvocato, Antonio Vele.
Il fratello carabiniere. Al di là della vicenda giudiziaria, che oggi segnerà una tappa importante in vista della sentenza, rimane la storia singolare di Bensellam, l’unico ufficiale delle truppe alpine di origini maghrebine. Un lavoro, una passione, come racconta il suo legale. Papà Mohammed lo avrebbe voluto medico, nonno Mario no: alpino. Contadino e penna nera, il nonno fu decisivo anche per le scelte del fratello di Karim, Nizar, maresciallo dei carabinieri al comando di una stazione in provincia di Arezzo. La carriera di Bensellam, sposato, padre di una bambina, è quella classica degli ufficiali. Uscito dalla scuola d’addestramento di Torino dopo l’accademia militare, è stato destinato a Belluno. Tenente a due stelle, poi capitano al comando di 120 uomini, oggi maggiore ad Aosta. Problemi? «Karim dice che l’esercito è fatto di individui e c’è sempre l’ignorante che fa la battutina — aggiunge l’avvocato Strampelli —. Lui la definisce “brina di pregiudizio”, ma pensa non si possa parlare di razzismo nell’esercito, semmai di razzismo inconsapevole».
Un nome da giustificare. Varie missioni all’estero, soprattutto in Afghanistan dove veniva utilizzato come uomo di contatto con la popolazione locale, conoscendo lui usi e costumi della cultura musulmana. «Una cosa gli sta un po’ qui. Quando deve sentirsi quasi in dovere di esibire la patente di italianità, dire cioè che è cattolico, che gli piace la carbonara e che non disdegna un bicchiere di vino, anche se si chiama Karim». Una vita a giustificare il suo nome.
BIMBO IMMIGRATO SI AVVICINA A FIGLIA, GLI DÀ UN CALCIO. Alessandro Sgherri per l'ANSA il 7 settembre 2019. Ha visto una neonata in carrozzina e con l'innocenza dei suoi tre anni si è avvicinato, forse per salutarla. Ma quella vicinanza non è andata giù al padre ed alla madre dalla carnagione chiara della piccola (e non un bambino come si era appreso in un primo momento). Troppo scura la pelle dell'altro rispetto alla propria per consentire anche solo un minimo contatto. E così, per allontanare l' "intruso", la coppia ha aggredito il piccolo e l'uomo ha pensato bene di colpirlo con un calcio all'addome, infischiandosene della tenerissima età. Quindi si sono allontanati velocemente, tra gli insulti di chi ha assistito alla scena e, secondo qualcuno, dopo avere ricevuto anche un sonoro ceffone per il gesto. É accaduto a Cosenza, dove la polizia, in brevissimo tempo, ha individuato e denunciato per lesioni personali aggravate la coppia responsabile del gesto, T.D., di 22 anni, e M.V., di 24. Il fatto - avvenuto martedì scorso ma di cui si è appreso solo oggi - è stato ricostruito da una passante che ha assistito alla scena ed ha subito avvertito il 118 e la polizia. "Ho visto quel bimbo fare un salto di due metri e accasciarsi a terra. Non potevo credere a quello che stava succedendo. Il mio primo pensiero è stato soccorrerlo" è stato il drammatico racconto della giovane testimone. Quest'ultima ha anche lanciato un appello alla madre del bambino colpito perché le faccia sapere le condizioni del figlio e dicendosi pronta ad aiutarla. Il bambino è stato soccorso da alcuni passanti e portato nel pronto soccorso dell'ospedale per le cure del caso. Fortunatamente non ha riportato ferite gravi - è stato giudicato guaribile in 5 giorni - fisiche, ma quelle morali, anche se ancora piccolo, probabilmente se le trascinerà per molto tempo. Il bambino era andato dal medico insieme alla mamma ed ai fratellini di 8 e 10 anni. Lo studio si trova in via Macallè, una traversa del centralissimo corso Mazzini. L'attesa dal dottore, però, si è protratta, e la donna ha deciso di concedere un gelato ai figli. Ha dato loro i soldi ed i tre bambini sono usciti insieme per recarsi in gelateria. Su corso Mazzini l'incontro. Il più piccolo dei fratelli ha visto la carrozzina e si è avvicinato. Un gesto innocente, ma che gli è costato il calcio all'addome da parte dell'adulto. Il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto ha parlato di un episodio "raccapricciante" che provoca "indignazione e sconcerto", sottolineando come Cosenza sia "storicamente città di inclusione e accoglienza. Qualsiasi sia il motivo, se di natura razzista o di cieca follia - ha detto il sindaco - certamente si tratta di un gesto gravissimo che non può trovare alcuna giustificazione, né deve essere sottaciuto". Sulle tracce del responsabile dell'aggressione si sono subito posti gli agenti della sezione volanti della Questura di Cosenza alla quale la madre del piccolo ha formalizzato la denuncia. Gli investigatori hanno sentito la testimone e hanno acquisito le immagini delle tante telecamere di sicurezza presenti nella zona. E' bastato poco, poi, ai poliziotti ad individuare ed identificare la coppia protagonista dell'aggressione ed a denunciarla.
"Il mio Rayem non ha dormito per due giorni. Mi chiedeva sempre: che ho fatto di male?". Parla il padre del bambino immigrato di tre anni preso a calci a Cosenza perché si era avvicinato alla culla di una neonata per vedere dentro: "Lavoro qui da vent'anni, una cosa del genere non era mai successa. Ma la città mi è stata vicina". Alessia Candito il 07 settembre 2019 su La Repubblica. "Per due giorni non è riuscito a dormire. Era terrorizzato, piangeva continuamente. Mi chiedeva "cosa ho fatto di sbagliato, papà?" ed io non sapevo cosa rispondergli". Dal 1995 in Italia, Bouazza Toubi ancora non riesce a capacitarsi dell'assurda aggressione subita dal figlio, Rayem, a soli tre anni preso a calci in una delle vie centrali di Cosenza.
Adesso come sta il piccolo?
"Ha ancora dolore, ma quello passerà insieme a lividi e contusioni. Anche oggi i medici lo hanno visitato e hanno detto che non c'è nulla di preoccupante, per fortuna. Psicologicamente però, ci preoccupa. Non riesce a capire cosa sia successo e piange disperato. Anche il fratello e la sorella sono inquieti, arrabbiati".
E lei?
"Non riesco a capacitarmi. Quando mio figlio Housama mi ha chiamato per raccontarmi cosa fosse successo non riuscivo a crederci. In oltre vent'anni in Italia, non mi è mai successa una cosa del genere. Lavoro qui a Cosenza da vent'anni, la mia famiglia è qui, i miei figli crescono qui non ho mai avuto problemi".
Ha mai pensato di andare via in questi giorni?
"Per giorni mi sono disperato, ma la città mi è stata vicina. C'è stata anche tanta gente coraggiosa, come la ragazza che ha denunciato tutto su Facebook. In tanti mi hanno espresso solidarietà. La polizia è stata rapida e ha trovato subito l'aggressore. Adesso che è stato fermato sono più tranquillo".
C'è qualcosa che gli vorrebbe dire?
No. Semplicemente vorrei capire come ha fatto, proprio lui che ha una figlia, che la stava portando in giro in passeggino, a prendersela con un piccolino di tre anni. È incomprensibile l'aggressione immotivata di un adulto. Ma quella di un bambino è intollerabile".
“TROPPI BAMBINI STRANIERI”. Da Il Messaggero il 19 settembre 2019. Troppi stranieri all’asilo, poca integrazione: e anche i genitori di origini straniere, quando si sentono un po’ italiani e preferiscono che lo siano anche i loro figlioletti, protestano e li portano altrove. Accade a Bologna, scrive il Corriere della Sera, che racconta la storia del 34enne Mohamed (nome di fantasia), papà di origini marocchine, in Italia da quando aveva 4 anni. Il giovane, cittadino italiano come la moglie 32enne (nata in Italia), voleva iscrivere suo figlio alla materna, ma ha deciso di portarlo via da quella classe in cui i bambini erano quasi tutti stranieri. «C’è un grave problema di integrazione - ha detto al Corriere - non voglio passare per razzista dato che sono marocchino, ma il Comune deve sapere che non si fa integrazione mettendo nelle classi più di venti bambini stranieri». Al momento dell’iscrizione i genitori del bimbo avevano indicato quattro scuole: nelle prime tre, che avrebbero preferito, non c’era posto, così loro figlio è finito nella quarta, una materna in zona Massarenti. La classe aveva un solo bimbo italiano: «Le maestre facevano fatica a pronunciare i nomi dei bimbi», racconta Mohamed, che ha poi chiamato all’ufficio scuola per protestare, ma gli è stato risposto che in realtà i bimbi italiani erano otto. «Tutti come il mio, cioè con cittadinanza italiana ma figli di immigrati, e molti di loro non parlano ancora l’italiano», insiste il papà. Ora il 34enne è convinto: porterà via il bimbo dalla scuola pubblica e cercherà una scuola privata. Ma c’è un altro problema: «Sono quasi tutte cattoliche e noi siamo musulmani. E anche in questo caso l’integrazione sembra un’impresa impossibile». «Non voglio passare per razzista perché sarebbe folle viste le mie origini, ma qualcuno deve rendersi conto del problema in Comune».
Da Corriere.it il 24 settembre 2019. Scartata a un colloquio da cameriera perché nera. A nemmeno un anno dal caso della veneziana Judith Romanello è successo ancora, stavolta a Fonni (provincia di Nuoro). La protagonista è una donna senegalese residente nel capoluogo barbaricino, Khady Ndior, sposata da tre anni con un impiegato comunale.
Il colloquio. A delineare per primo quanto accaduto è stato proprio il marito, con un rabbioso post su Facebook: «Contattata da una amica per un lavoro da cameriera in un matrimonio - ha scritto sabato - [Khady] si è presentata insieme ad altre 49 ragazze dal colore “neutro”». Ma, una volta a colloquio, «la professionalità della donna selezionatrice, molta attenta ai particolari, ha fatto in modo che percepisse la pericolosità del “diverso” ritenendo che la cosa avrebbe potuto turbare la sensibilità degli invitati». Contattata da Videolina, l’aspirante cameriera non ha nascosto il proprio disappunto: «Mi hanno detto - testuali parole - che non avrebbero mai accettato una donna di colore perché potrebbe disturbare la serenità degli ospiti. È un dolore e un dispiacere molto grande. Non mi era mai successo e spero non ricapiti più».
Il (non) precedente. Per il momento non è giunta alcuna replica da parte del ristorante finito sotto accusa. Appena nel luglio 2018, sempre nel Nuorese si era registrato un episodio di segno opposto. Il proprietario di un locale di Cala Gonone aveva infatti cacciato dalla sua struttura quattro ragazzi che non volevano essere serviti da un cameriere di origini senegalesi (come Khady). «È il nostro più bravo di sempre, noi non facciamo queste distinzioni», aveva dichiarato.
Attacchi razzisti alla Miss: "Non sei una bellezza italiana". Nel mirino degli haters Sevmi Tharuka Fernando. La 20enne, figlia di immigrati da 30 anni in Italia, è nata a Padova. Messaggi di sostegno dall'ex Miss, Denny Mendez. Giorgia Baroncini, Mercoledì 04/09/2019 su Il Giornale. "Tu non rappresenti i canoni di bellezza italiana, non meriti di partecipare a Miss Italia". Così recita uno dei messaggi indirizzati a Sevmi Tharuka Fernando, finalista del Concorso. La 20enne, nata a Padova e residente a Villanova di Camposampiero, ha origini cingalesi: la sua famiglia è infatti originaria dello Sri Lanka. Il padre della giovane si è trasferito in Italia circa 30 anni fa ed è stato poi raggiunto dalla moglie. In molti però credono che la bella Svemi non sia italiana. E così l'hanno attaccata sul web. "Purtroppo ci sono ancora tanti pregiudizi, tanta gente non accetta che io sia italiana solo perché ho la pelle scura. Fossi stata figlia di genitori tedeschi e fossi nata in Italia, sono convinta che questa discriminazione non sarebbe mai nata", ha spiegato la Miss come riporta il Corriere. "È successo varie volte da quando ho vinto la prima fascia alle selezioni locali - ha continuato la giovane -. Sono persone che mi scrivono in privato per non esporsi ma la questione non cambia. Partecipo al concorso anche per abbattere queste discriminazioni e continuo per la mia strada. Se qualcuno mi critica significa che sono stata notata tra le tante. Ignoro questi attacchi, perché credo che chi è così tarato non cambierà mai idea. Me ne infischio e vado avanti". I genitori sostengono la loro bellissima figlia e messaggi di incoraggiamento sono arrivati anche da Miss Italia 1996, Denny Mendez. Anche lei, al tempo, era stata oggetto di accese polemiche. "Auguri! In bocca al lupo", ha scritto la Mendez (prima vincitrice di colore nella storia del Concorso) su Instagram incoraggiando la collega. "Miss Italia da sempre coglie e integra l'evoluzione sociale del Paese. C'è un modello di integrazione che cresce, che si evolve e che non possiamo ignorare", ha dichiarato la patron del concorso, Patrizia Mirigliani, spegnendo le polemiche.
Alessandra Gozzini per la Gazzetta dello Sport il 23 settembre 2019. È successo, o risuccesso, subito dopo la mezz' ora del primo tempo: Dalbert, difensore brasiliano della Fiorentina, segnala all' arbitro di aver ascoltato degli insulti razzisti a lui indirizzati. Dalbert è nella sua zona, la fascia sinistra, lontano da dove sono posizionati la maggior parte di microfoni e telecamere, che infatti non percepiscono le offese. Orsato invece sente: seguiva l' azione ed era poco distante dalle parte di tribuna da cui sono arrivati gli insulti. Al 29' la partita si ferma, l'arbitro avverte il responsabile dell' ordine pubblico (tramite il quarto uomo) di voler procedere con il primo avvertimento allo stadio. Dopo due minuti il Tardini ascolta la voce dello speaker che ribadisce il divieto di scandire cori razzisti o di matrice territoriale. In un labiale pescato dalle tv Orsato spiega: «Alla prossima la partita finisce». Le norme introdotte a gennaio permettono infatti al direttore di gara di fermare la partita, non necessariamente su segnalazione del responsabile dell' ordine pubblico o dei collaboratori della procura federale. Prima che il gioco riprenda c' è tempo per i fischi con cui i tifosi accolgono il richiamo alle regole. Al 32' si riparte. Nessun insulto è più stato udito: a dire il vero, era stato così anche prima. I «buu» a Dalbert sono arrivati da pochi tifosi seduti dalla parte opposta alle panchine, nessuno in altre zone ha percepito le offese. Erano una minoranza, piccola, ma il fenomeno va combattuto nel complesso: il razzismo da stadio è una manifestazione odiosa. Qui è avvenuto in una sola occasione, in generale è successo così tante volte da dover richiedere l' istituzione di nuove norme da parte della Federazione. Per le stesse norme vale ciò che ha sentito Orsato anche per ipotizzare eventuali sanzioni all' Atalanta. Ciò che ha ascoltato finirà nel referto che consegnerà al giudice sportivo, che poi dovrà decidere come procedere: non è escluso che chieda ulteriori accertamenti prima di valutare se comminare una sanzione alla società. Pochi o tanti per Gianni Infantino, presidente Fifa, la situazione non cambia: «In Italia la situazione del razzismo non è migliorata e questo è grave - avverte a 90° minuto -. Bisogna combatterlo con l' educazione, condannando, parlandone. Vanno identificati i responsabili e buttati fuori dagli stadi. E' inaccettabile, bisogna invece esser pesanti e combattere il razzismo, senza abbassare mai la guardia, con pene esemplari. Faccio i miei complimenti a Orsato: non è mai facile prendere certi decisioni mentre si sta giocando». Gli allenatori non ridimensionano i fatti ma raccontano quanto arrivato al loro orecchio. «Mai sentito alcun coro, se poi qualche imbecille ha detto qualcosa da quella parte non lo so, ma sai quanti insulti individuali anche molto gravi, si sentono negli stadi. Compresi quelli che arrivano dalla tribuna di Firenze. Bisogna stare attenti, condannare le forme di razzismo ma senza mettersi a contare se c' è qualche persona che insulta perché così la situazione ci si ritorce contro, condanna per i cori ma questa è esagerazione». Montella ha una versione molto simile: «Non ho sentito niente, offendono anche me perché sono di Napoli ma io ringrazio di ricordarmelo».
Razzismo, il coraggio di Orsato in mezzo a troppi silenzi. Insulti a Dalbert, fermata Atalanta-Fiorentina. Lo stadio contro la decisione dell'arbitro e l'allarme della Fifa. Giovanni Capuano il 23 settembre 2019 su Panorama. La sospensione decisa dall'arbitro Orsato durante la partita tra Atalanta e Fiorentina, in attesa che lo speaker ricordasse ai presenti che in uno stadio non si può insultare un giocatore per il colore della sua pelle, è una notizia perché rappresenta la prima applicazione delle norme varate dalla Figc nei mesi scorsi per combattere il razzismo da stadio. Dunque bisogna ringraziare il direttore di gara che ha fatto valere il suo carattere e l'esperienza di centinaia di gare per affermare un principio e cioé che se le regole ci sono vanno rispettate. Sembra strano, ma Orsato rappresenta una mosca bianca in un oceano di non udenti che fin qui hanno preferito voltare le spalle al problema, negarlo o minimizzarlo. Bravo lui, mentre tutto quello che è successo prima e dopo il minuto 29 al Tardini di Parma andrebbe dimenticato. Non solo gli insulti, pochi e uditi dal calciatore e da pochi altri in realtà ma evidentemente presenti se l'arbitro ha deciso di fermare tutto per qualche minuto, ma soprattutto la reazione del resto dello stadio e degli uomini di calcio. Hanno fatto male i fischi (tanti e compatti) della gente presente al Tardini quando lo speaker ha ricordato che il razzismo non deve trovare posto in uno stadio e hanno fatto male le parole dette nel post partita dai due allenatori. Montella ha ironizzato, spiegando che a lui danno del napoletano ma che non se ne sente offeso; ci mancherebbe, ma sfugge che tocca a Dalbert (in questo caso) stabilire la linea di confine da non superare. Gasperini, allenatore dell'Atalanta, è andato oltre: "Mai sentito alcun coro, poi se qualche imbecille ha detto qualcosa da quella parte non lo so ma sai quanti insulti individuali, anche molto gravi, si sentono negli stadi. Compresi quelli che arrivano dalla tribuna di Firenze. Bisogna stare attenti, condannare le forme di razzismo ma senza mettersi a contare se c'è qualche persona che insulta perchè così la situazione ci si ritorce contro. Condanna per i cori, ma questa è esagerazione". Ha detto proprio così. Esagerazione. Quasi una sorta di modica quantità di razzismo che si dovrebbe accettare in nome di chissà quale bene supremo. Per fortuna negli stessi minuti ci ha pensato il presidente della Fifa a spiegare a tutti come la pensa il resto del mondo a proposito di razzismo e dell'Italia: "La situazione non è migliorata e questo è grave". Grave. Come i cori e come le parole dei minimizzatori del giorno dopo.
Razzismo, Superga e Raciti: la domenica horror del calcio italiano. I cori razzisti di Bergamo contro Dalbert, il tifoso doriano che mima con le braccia l'aereo di Superga, lo striscione a Palermo in difesa dell'assassino dell'ispettore Raciti: il calcio italiano di nuovo ostaggio degli imbecilli. Roberto Bordi, lunedì 23/09/2019, su Il Giornale. "In Italia la situazione del razzismo non è migliorata e questo è grave". Sono le parole di condanna di Gianni Infantino per quanto successo domenica pomeriggio allo stadio di Bergamo durante Atalanta-Fiorentina, con alcuni tifosi bergamaschi ad urlare "buu" razzisti contro il viola Dalbert. La partita è stata sospesa per tre minuti, durante i quali lo speaker ha invitato lo stadio a smetterla con i cori discriminatori, ottenendo in cambio fischi e insulti. Alla fine il match è ripreso, ma la figuraccia rimane. Resa ancora più brutta dal commento nel post partita del tecnico della Dea, Gian Piero Gasperini: "I cori razzisti a Dalbert? Nessuno li ha sentiti". Nessuno tranne l'arbitro Orsato, che in applicazione alle norme ha interrotto la gara. I fatti di Bergamo arrivano una settimana dopo quelli del Bentegodi, quando nel corso di Verona-Milan i supporter gialloblù insultarono a ripetizione i rossoneri Kessie e Donnarumma per le loro origini: africane il primo, campane il secondo. Ma in quest'ennesima domenica da dimenticare per il calcio italiano, le campane dell'indignazione suonano anche in altri due stadi. E per motivi diversi. Come scrive Toronews.net, durante Sampdoria-Torino un tifoso doriano è stato pizzicato dalle telecamere mentre, girato verso il settore ospiti, mimava con le braccia un aereo. Quello di Superga, dove il 4 maggio 1949 si spense il Grande Torino. Doverosa precisazione: qui gli ultras non c'entrano. Perché il tifoso doriano responsabile del gesto irrisorio e idiota si trovava in gradinata nord, la "seconda" curva blucerchiata occupata da "cani sciolti", ovvero supporter non facenti parte della tifoseria organizzata. Gli ultras, invece, c'entrano eccome a Palermo. Domenica, fuori dallo stadio "Barbera", subito dopo la partita con il Marina di Ragusa è apparso uno striscione con la scritta "Gli ultras non dimenticano: Speziale libero". Per chi non lo ricordasse, Antonino Speziale è colui che, ancora minorenne, il 2 febbraio 2007 fu coinvolto nell'omicidio dell'ispettore capo della polizia Filippo Raciti. Speziale, condannato a 8 anni di carcere per omicidio preterintenzionale, dovrebbe tornare libero nel 2021. Come ricorda anche Repubblica, a marzo il Tribunale di sorveglianza di Palermo ne ha respinto la richiesta di affidamento ai servizi sociali, giudicando inammissibile la detenzione domiciliare. L'omaggio dei tifosi rosanero all'assassino di un poliziotto non ha bisogno di commenti. Razzismo, stupidità, solidarietà a un assassino. Tre facce della stessa medaglia.
Ultrà, lettera choc a Lukaku «Così vai contro noi tifosi». Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Corriere.it. In poco più di una settimana ce n’è già abbastanza. Come se gli ultimi dodici mesi vissuti pericolosamente dalla Curva Nord non abbiano insegnato nulla. Anche se è difficile che un morto (Dede Belardinelli), un assalto militare ai tifosi del Napoli, lo stadio squalificato per i «buu» razzisti al calciatore Koulibaly, non abbiano insegnato niente. Sulla sponda nerazzurra del Naviglio sono bastate due giornate di campionato per scatenare nuove polemiche. Non che quella rossonera stia meglio, per carità. Visto che c’è ancora in ballo il caso del ferimento di Enzino Anghinelli che coinvolge nomi legati alla curva Sud. Ma il nuovo inizio degli ultrà della Nord, che proprio nel 2019 festeggia i suoi 50 anni, non poteva cominciare in modo peggiore. Prima la coreografia-funebre nel giorno di Inter-Lecce, (esordio di Serie A) per il capo degli ultrà laziali Diabolik, Fabrizio Piscitelli, ucciso a Roma in un misterioso agguato. Poi lo striscione apparso sotto casa di Mauro Icardi a San Siro con minacce neppure troppo velate. Opera della Nord o meno (il vessillo non è firmato) è comunque parso come un tentativo di alzare la tensione sulla trattativa infinita tra l’ex capitano ora al Psg e la società, e pure gli ultrà. Infine, il giorno dopo la vittoria sul Cagliari e lo sfogo del neo acquisto Romelu Lukaku per i «buu» razzisti l’intervento via social dell’organo ufficiale della Curva Nord con un’imbarazzante (se non altro per l’intricato e irrisolto ragionamento) difesa dei tifosi «avversari» del Cagliari autori degli insulti razzisti al numero 9 interista. Accuse, che, con un post su Instagram, era stato lo stesso Lukaku a rilanciare chiedendo l’intervento delle federazioni contro il razzismo. Tanto da incassare il sostegno del ct della nazionale Roberto Mancini. Un’uscita, l’ennesima, che ha fatto sbottare buona parte del tifo nerazzurro stufo di saluti romani e teste rasate, di estremisti di destra che confondono lo stadio con altri palcoscenici. A cominciare dal direttore del tg di La7, Enrico Mentana: «Come ogni tifoso interista che ama i valori dello sport mi vergogno di condividere la mia passione con loro», ha scritto commentando il comunicato della Nord. Ma cosa hanno scritto i tifosi a Lukaku? In sostanza che i «buu» razzisti di Cagliari erano il segnale della paura dei tifosi per la classe dell’attaccante belga, tentativi per innervosirlo, e che in Italia il problema xenofobo non esiste. Anzi, di farci l’abitudine a quei «buu» perché così funziona: «Ti preghiamo di vivere questo atteggiamento come una forma di rispetto per il fatto che temono i gol che potresti fargli non perché sono razzisti. — hanno scritto gli ultrà —. Quando dichiari che il razzismo è un problema che va combattuto in Italia, non fai altro che incentivare la repressione di tutti i tifosi». Una teoria stravagante per una curva già squalificata per gli insulti razzisti a Koulibaly. Così da più parti — con in testa l’associazione anti-omofobia «I sentinelli di Milano» — i tifosi «non ultrà» chiedono l’intervento di Steven Zhang e della società, dopo la campagna anti-buu dello scorso finale di stagione. «Il razzismo non è un gioco — spiega il comico Enrico Bertolino —. Avrei apprezzato di più dalla Nord una lettera dedicata a Giacinto Facchetti, visto che oggi è il 13esimo anniversario della morte». Proprio il figlio dello storico Cipe, Gianfelice Facchetti, oggi apprezzato attore teatrale, non nasconde il suo sconforto: «Purtroppo sono cose già viste e sentite dalla Curva. Se si vuole far innervosire gli avversari si fischia, non si fanno ululati. Bisogna fare in modo che negli stadi regni la civiltà. A teatro se recito con un attore di colore nessuno fa ululati. Allo stadio, chi lo fa, se non è razzista, è un grande maleducato e un grande ignorante, anche se ululare contro una persone di colore come si fa a non chiamarlo razzismo».
L’opinionista di Telelombardia: «Per fermare Lukaku ci vogliono le banane». Licenziato in diretta. Frase razzista di Luciano Passirani e dopo poco l’intervento del direttore Ravezzani. Corriere Tv il 16 settembre 2019. Una frase razzista all’indirizzo del giocatore dell’Inter Lukaku da parte dell’opinionista di Top Calcio 24 Luciano Passirani che, parlando dell’attaccante belga ha detto: «Per fermarlo gli devi lanciare 10 banane da mangiare». Dopo qualche ora il licenziamento in diretta tv da parte del direttore di rete Fabio Ravezzani: «Una immagine indegna evocata da un anziano opinionista che, malgrado le scuse, non verrà più invitato nelle nostre trasmissioni».
La battuta su Lukaku, Ravezzani: «Passirani non è razzista, ma non può più stare da noi». Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. «Luciano Passirani ha avuto 30 secondi di confusione. Si è subito scusato, ma ormai la frittata era fatta». Fabio Ravezzani, direttore di TeleLombardia, spiega quanto successo a Top Calcio 24, la rete all news in onda sul digitale terrestre. «Confermo la decisione. Presa a malincuore, ma Passirani non farà più parte delle nostre trasmissioni. Sui social, inoltre, mostrano solo quella frase. Non quella dopo, quando chiede scusa», ha continuato il giornalista. Poi: «Ci tengo a precisare. Un conto è una persona razzista, un altro è uno che fa una battuta senza rendersene conto. Perché lo conosco da anni, Passirani non è una persona razzista». «La nostra trasmissione - prosegue Ravezzani - da anni lotta contro il razzismo. Nel 2005, infatti, prendemmo una presa di posizione importante sui fatti di Zoro in Messina-Inter e all’uscita dalla trasmissione avevo subito un agguato. Mi aspettavano quattro persone con un passamontagna e uno di loro mi aveva lanciato anche un sasso contro il parabrezza dell’auto. C’era stata anche un’inchiesta». Uno dei commentatori presenti in studio, il dirigente sportivo Luciano Passirani ha elogiato l’attaccante dell’Inter, Romelu Lukaku, per la sua potenza fisica e le qualità. Fino alla frase incriminata, allo scivolone: «Questo è uno che nell’uno contro uno ti uccide o hai da mangiare dieci banane e gliele dai…». Da qui la decisione di Ravezzani.
La frase razzista su Lukaku e l’opinionista licenziato: «Scusate, non sono così». Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 sa Corriere.it da Tommaso Pellizzari. Luciano Passirani dice in tv che «Lukaku nell’uno contro uno ti uccide. O hai 10 banane e gliele dai da mangiare, oppure…». Silurato. Da quale dei tanti controsensi vogliamo partire, per raccontare altre 24 ore di calcio e razzismo che verrebbe voglia solo di liquidare in silenzio, allargando le braccia sconfortati? (Ma non si può, perché continuano a succedere — da troppo tempo — troppe cose così incredibili da non permetterci il lusso di un’annoiata stanchezza). Proviamo così: cinque del pomeriggio di domenica, a Telelombardia si discute di Inter-Udinese 1-0 della sera prima. Romelu Lukaku non ha giocato particolarmente bene e infatti è stato sostituito al 65’. Eppure Luciano Passirani, 80 anni, ex dirigente di club tra cui le giovanili dell’Atalanta, sente il bisogno di lanciarsi in un elogio del centravanti belga. E per spiegare quanto è forte fisicamente dice che «Lukaku nell’uno contro uno ti uccide, se gli vai contro cadi per terra. O hai 10 banane e gliele dai da mangiare, oppure…». È la sua penultima frase da opinionista della tv locale. L’ultima sono le scuse per averla pronunciata, ma ovviamente non bastano. Poco dopo, il direttore di Telelombardia Fabio Ravezzani si presenta in video per annunciare la fine delle apparizioni televisive di Passirani. Aggiungendo più tardi (in un’intervista a Salvatore Riggio) una distinzione necessaria, ma non sufficiente a fargli cambiare decisione: «Un conto è una persona razzista, un altro è uno che fa una battuta senza rendersene conto. Perché lo conosco da anni, Passirani non è una persona razzista». La frase è al tempo stesso vera e falsa, naturalmente. E arriviamo ai controsensi. Il primo lo rivela lo stesso Passirani, al telefono: «Da dirigente ho lavorato con decine di giocatori di colore senza avere mai nessun problema. Ma soprattutto da 17 anni ho una compagna marocchina. Mio figlio ha sposato una donna africana ed è padre (quindi io sono nonno) di due bambine nere». E infatti le scuse sono sincere: «Mi rendo conto di avere sbagliato, mi meraviglio di me stesso». Tanto che, con gli occhi di oggi, è indefinibile il sentimento che si prova nel leggere quello che Passirani scriveva nel suo profilo Facebook (ovviamente poi chiuso) su come dev’essere una discussione di calcio «alla nostra maniera: nostrana ma chiaramente elegante». Laddove «nostrana» è evidentemente la parola-chiave. Perché rende come meglio non si potrebbe l’idea del radicamento in Italia non tanto delle idee, quanto degli atteggiamenti razzisti: un radicamento così profondo da non essere percepito. Proprio come successe all’allora presidente della Federcalcio quando parlò di «Opti Pobà che prima mangiava le banane e adesso è venuto qua a giocare a calcio». L’Italia è un Paese così pieno di contesti in cui una frase del genere passerebbe inosservata (per non dire bene accolta) da rendere possibile che qualcuno la dica in diretta tv. Per poi spiegare, come ha fatto Passirani a telecamere spente, che avrebbe voluto dire «Lukaku non lo ferma nemmeno la polizia», ma che gli sembrava una battuta offensiva. Stiamo parlando, per capirci, di un signore che quando dice «ho fatto una cavolata» aggiunge subito «chiedo scusa per il termine». Cosa che è tranquillizzante solo in apparenza, perché in realtà potrebbe essere la conferma ultima della profondità del nostro razzismo inconsapevole. Altrimenti è complicato spiegare la retromarcia del Verona, dopo i «buuu» razzisti contro il milanista Franck Kessié, due settimane dopo quelli di Cagliari contro Lukaku. Un primo tweet del club gialloblù, ieri, diceva: «Non scadiamo in luoghi comuni ed etichette ormai scucite. Rispetto per Verona e i veronesi». Poi la precisazione: «Non si è trattato di una presa di posizione finalizzata a sottovalutare comportamenti discriminatori». Il fatto è, scrive il Verona, «che non sono stati da noi percepiti presunti cori nei confronti del calciatore Kessié». Il famoso razzismo non percepito: neanche dalle orecchie.
"Io e mio figlio, tifosi del Milan allo stadio di Verona. Non ci tornerò più". La dura testimonianza del clima intimidatorio della serata (con precedente). La pubblichiamo perché non resti lettera morta. Giovanni Capuano il 16 settembre 2019 su Panorama. "Mi creda? Ho girato il mondo e visto partite di ogni genere, anche confronti accesi come Chelsea-Liverpool o i derby brasiliani. Ma niente di quello che mi è successo allo stadio di Verona". Si sfoga così, dopo aver mandato una lunga mail che è la testimonianza diretta di una normale (!?!) serata di un tifoso milanista, con figlio al seguito, finito al Bentegodi per Verona-Milan. La pubblichiamo con il consenso dell'autore, firmata come lui ha chiesto che fosse. Un gesto forte di testimonianza. Della sfida tra Verona e Milan si parlerà anche per gli ululati rivolti a Kessié e per gli insulti a Donnarumma, segnalato da diversi presenti e negati dal club con un comunicato via Twitter che ha suscitato più di una critica. Sarà il Giudice sportivo a stabilire cosa è accaduto. La lettera racconta, però, una serata vissuta lontano dalle curve e dagli ultras. In un settore 'nobile', che dovrebbe essere maggiormente al riparo da certe logiche. Dovrebbe.
“Avevo già scritto tre anni fa in occasione di Verona Milan per un episodio assurdo accaduto a mio figlio che allora aveva 9 anni. Da quel giorno mi ero ripromesso di non andare più in quello stadio per la qualità delle persone che lo frequentano. Purtroppo passa il tempo e anche le cose più brutte si dimenticano e dato che un mio carissimo amico che lavora nell’ambiente del calcio mi ha offerto due biglietti ci sono di nuovo ricascato. Poltrone ovest, buonissimo posto. Memore dell’altra volta niente sciarpe o magliette del Milan. Ci sediamo sotto ad un gruppo di signori tutti oltre la sessantina. Appena arrivati questi iniziano ad insultare tutti i milanisti: bastardi, figli di puttana, perfino “terroni”. La cosa che più mi sorprende è il modo arrogante e pieno di rabbia che usano. All’arrivo sembravano dei signorotti anche mezzi sfigati, passatemi il termine, che si godono la partita di calcio. In branco si sono trasformati. Inizia la partita e gli insulti si fanno sempre più pesanti. Espulso Stepinski, un milanista esulta pacatamente, mai lo avesse fatto, partono con minacce: “Tanto passi di qui quando esci, ti spacchiamo le gambe, etc…”. Mio figlio prende paura e mi chiede di andare via. Eravamo appena a 25 minuti dall’inizio. Decido di rimanere perché altrimenti hanno vinto loro. Da quel momento io poi non mi godo più la partita e penso a proteggere mio figlio da tutta quella violenza verbale e fisica che aumenta sempre di più. L’episodio più grottesco accade quando annullano il secondo goal al Milan: un povero vecchio (solo così si può definire) scende nel corridoio davanti alla balaustra e va verso un gruppo di presunti Milanisti tirando pugni a tutti quelli in prima fila. Questi, sorpresi, non hanno nemmeno il tempo di reagire e lui si rifugia nel suo branco che intanto minaccia da lontano. Intendiamoci questi sono dei poveretti, ma credetemi che non è un episodio isolato in quello stadio e soprattutto non ha nulla a che fare con i cosiddetti ultras. Si tratta di persone comuni che diventano bestie in branco. Non deve e non può accadere. Scusatemi ma questo non è lo sport di cui siamo innamorati io e mio figlio. Queste persone vanno allontanate dallo stadio. Dimenticavo: ovviamente niente stewart nel settore!!!! Io ho visto partite ovunque nel mondo. Mai visto uno spettacolo penoso del genere". Distinti saluti Marco Bergozza
Tifo, i cori razzisti al pub dei tifosi del Verona: "Niente negri, lalalalalala-la…niente negri". Un'abitudine che riporta la tifoseria scaligera al 3 novembre scorso quando il giudice sportivo chiuse il settore "poltrone-est" e diede il Daspo al capo ultrà Luca Castellini. Paolo Berizzi il 13 dicembre 2019 su La Repubblica. Il coro parte sulle note di “In the Navy”, celebre brano dei Village People, anno 1978. I tifosi dell’Hellas Verona ci vanno sopra e intonano: “Niente negri… lalalalalala-la… niente negri”. Sventolio di bandiere gialloblu, braccia alzate, boccali di birra. Il locale è gremito e gli ultrà festeggiano così. Nel video, che pubblichiamo su Repubblica.it, i supporter veronesi anti-Balotelli della Curva Sud ripropongono un loro classico: la gazzarra razzista contro il “negro”. Un'abitudine che riporta la tifoseria scaligera indietro nel tempo: in ultimo, certo, all’episodio dei “buuuu” gridati all’indirizzo di Balo durante la partita Verona-Brescia del 3 novembre scorso (i cori razzisti hanno portato alla chiusura del settore “poltrone-est” su decisione del giudice sportivo e al Daspo fino al 2030 per il capo ultrà Luca Castellini). Ma, in primis, 23 anni fa, ad un’altra triste vicenda. Correva l’anno 1996 quando allo stadio Bentegodi, derby con il Chievo, in curva apparve un fantoccio con la faccia dipinta di nero e un cappio al collo: rappresentava il difensore olandese Maickel Ferrier, appena acquistato dall’Hellas, ma sgradito agli ultrà per il colore della pelle. “El negro i ve là regalà. Dasighe el stadio da netar!” (“il nero ve lo hanno regalato, dategli lo stadio da pulire”), recitava uno striscione appeso sulla balconata degli spalti; su un altro lenzuolo c’era scritto “negro go away”. Dietro il manichino, ragazzi incappucciati in bianco, stile Ku Klux Klan. Erano gli anni delle Brigate Gialloblu, gruppo egemone della tifoseria dell’Hellas poi sciolto in seguito a inchieste della magistratura per discriminazione e odio razziale. Da sempre politicamente di estrema destra, gli ultrà veronesi si sono ripetuti negli anni, tra svastiche, croci celtiche, saluti romani e cori razzisti. Nel 2017, durante la festa della curva Sud, fu proprio Luca Castellini, anche coordinatore di Forza Nuova per il Nord Italia, già plurinquisito e pluridaspato, croce celtica al collo, a pronunciare queste parole dal palco: "Chi ha permesso questa festa, chi ha pagato tutto, chi ha fatto da garante ha un nome: Adolf Hitler". Grida di giubilo da parte della folla, e subito partì il coro: "Siamo una squadra fantastica, fatta a forma di svastica...che bello è… allena Rudolf Hess". Due anni dopo – siamo a giugno 2019 - l'Hellas torna in serie A e i tifosi festeggiano riversandosi in strada e intonando di nuovo il coro che inneggia al nazismo e al braccio destro di Hitler. Insieme alle tifoserie di Lazio, Inter e Varese – ma oggi anche a quelle di Roma e Juventus, e altre ancora - la curva del Verona è storicamente vicinissima all'ultradestra: Veneto Fronte Skinhead, Forza Nuova, CasaPound, Fortezza Europa. Sono i partiti e le formazioni che trovano una cassa di risonanza nell'ala più dura e turbolenta dello stadio Bentegodi. Sigle che a Verona – come raccontato da questo giornale - sono da anni coccolate dalla politica e da alcune istituzioni locali.
Maria Lombardi per ilmessaggero.it" il 12 dicembre 2019. «Questa negra se ne andrà alle 17. Mi dicevano così in cucina. Scommettevano soldi che sarei rimasta solo quattro ore». Hanno perso tutti. Victoire Gouloubi in quella cucina stellata ci è rimasta mesi e mesi, a "rubare" i segreti del maestro Claudio Sadler e a conquistare piatto dopo piatto la sua fiducia. «Lì ho capito cosa è la squadra, se non ti accettano sei fuori. Sono molto riconoscente allo chef Sadler per tutto quello che mi ha insegnato e il sostegno che mi ha dato. Lui mi ha sempre detto: non mi interessa se sei nera o se sei donna, conta solo che sei sveglia e pedali. Anche grazie a lui non ho mollato, non potevo farlo , mi era costato così tanto quel traguardo», ricorda la chef trentottenne italiana di origine congolese che in tv racconta persone e storie con le ricette. «A 21 anni ho lasciato il mio paese dove avevo visto uccidere mio fratello e decapitare tante persone. Ho visto una donna incinta a cui hanno aperto la pancia, mi sono nutrita di larve, pesavo solo 20 chili. Ho visto l'orrore e la guerra, ho vissuto sotto i bombardamenti. Ho visto una bambina di 5 anni stuprata da 12 uomini. E anche io sono stata stuprata più volte, la prima a cinque anni. Capita ancora che mi sveglio con gli attacchi di panico, mi sento sporca macchiata, mi chiedo perché è capitato a me. E quando sento dire negra di merda torna nel tuo paese io mi chiedo cosa sa del mio paese chi parla. Che ne sa cosa ho lasciato e perché sono fuggita. I miei genitori avevano dato via tutto per mandare me e mio fratello a studiare in Italia. Non potevo mollare». Solo ricordi adesso, ma fa male ancora parlarne e Victoire cambia voce. Lei non ha mollato quella e altre cucine, la passione per i sapori e gli accostamenti creativi l'ha portata lontano. Adesso, ogni martedì su "Gambero rosso", canale 412 di Sky, conduce per 10 settimane un programma: “Il Tocco di Victoire”, un format originale in onda in prima serata. In ogni puntata Victoire - che oggi è sposata, ha un figlio di 12 anni e vive a Milano - si lascia ispirare dalla storia e dalla personalità di un ospite per creare due ricette originali, la scelta di ogni ingrediente ha un preciso significato. La prima è stata Federica Gasbarro, la Greta Thunberg italiana, giovane coordinatrice e portavoce di Fridays for future Roma. «Per lei ho ideato un dolce a base di cioccolato perché le piante di cioccolato con l'aumento della temperatura rischiano l'estinzione, e un piatto di baccalà. Per Massimo Vallati, fondatore del calcio sociale del Corviale, ho pensato alle animelle, che un tempo venivano scartate e adesso gli chef trasformano in piatti prelibati». Tra gli altri ospiti, Claudia De Lillo, scrittrice e giornalista, Tommy Kuti, rapper di origine nigeriana impegnato nella lotta al razzismo, Imma Carpinello fondatrice del progetto "Le Lazzarelle", una cooperativa di detenute nel carcere di Pozzuoli che produce caffè, Lorenzo Leonetti, un cuoco romano che tiene corsi gratuiti di cucina per ragazzi delle periferie più disagiate. «L'idea del programma mi è venuta un anno fa, in ospedale. Ero ricoverata, avevo subito un intervento. Sapevo che non sarei potuta rientrare presto in cucina e così ho pensato a qualcos'altro». La scoperta della cucina da piccola, «eravamo una grande famiglia, noi donne facevamo i turni per cucinare. E quando da bambina venivo derisa perché ero troppo magra mi rifugiavo in cucina». In Italia Victoire era venuta con l'idea di proseguire gli studi in Giurisprudenza, poi ha scelto un'altra strada: la scuola alberghiera a Feltre (in provincia di Belluno) e i corsi di alta cucina a Milano. I primi lavori, durissimi. «Tornavo la sera sempre molto tardi, più volte sono stata aggredita per strada. Ho subito stupri in Congo e anche in Italia. Tanto è una nera, con chi vuoi che vada a lamentarsi: il pensiero era questo. Ma ero sopravvissuta a ben altro, dopo che vedi la morte in faccia come l'ho vista io nel mio paese niente può farti più paura». In cucina Victoire raccoglie i primi successi, diventa la chef di un prestigioso hotel di Cortina d’Ampezzo e in Piemonte, seconda classificata a un talent show, Top chef Italia, tanti premi, le lezioni, un progetto audiovisivo sul web dal titolo “make taste and change” e adesso l'avventura in tv. «É stato tutto molto difficile, ma devo dire grazie a quell'Italia che mi ha permesso di essere arrivata fin qui». Qualche mese fa Victoire ha perso una bambina, si è sentita male in cucina. «Avrei dovuto fermarmi ma non potevo. Una chef che resta incinta o pensa di mettere su famiglia diventa una mela marcia, un pomodoro secco da buttare. Se aspetti un bambino ti buttano fuori dalla squadra, diventi una difficoltà. Chi ambisce a diventare una chef quotata deve rinunciare a una parte della sua vita. Questa è una violenza, non minore di quella di uno stupro».
La beneficenza selettiva dell'assessore lombardo: giocattoli in dono ma solo ai bambini italiani. De Corato di Fratelli d’Italia parteciperà domani a Milano all’iniziativa dell’organizzazione di destra Gioventù nazionale, la condanna dell’Anpi. Zita Dazzi su la Repubblica il 13 dicembre 2019. Giocattoli per Natale ma solo ai bambini italiani. Ci saranno l’ex vicesindaco di Milano e assessore regionale alla sicurezza Riccardo De Corato e il presidente della Commissione sicurezza del Municipio 4 Franco Rocca domani dalle ore 15 alle 17 davanti all’Esselunga di via Cena, a Milano, assieme ai militanti dell'organizzazione di destra Gioventù nazionale, a fare una colletta di doni natalizi che saranno destinati solo a famiglie italiane. L'annuncio lo dà lo stesso De Corato, citando il comunicato che lancia l'iniziativa di solidarietà selettiva dai giovani legati al partito Fratelli d'Italia: "In Italia, sono 1,8 milioni le famiglie in difficoltà, 5 milioni le persone in ristrettezze assolute e 1,3 milioni i bambini che vivono in condizioni di povertà. Dati drammatici ai quali la Gioventù nazionale cerca di rispondere organizzando "Io dono": una raccolta di giocattoli e beni di prima necessità per le famiglie italiane in difficoltà economica". Il primo a protestare è Roberto Cenati, presidente dell'Anpi di Milano, che censura la scelta di De Corato e Rocca: "Riteniamo molto grave il fatto che persone che siedono in organi istituzionali aderiscano a un'iniziativa rivolta ai soli cittadini italiani, un gesto che opera una discriminazione e che non rispetta i valori di solidarietà sanciti dall'articolo 2 della Costituzione italiana". Il consigliere Rocca due anni fa si era fatto notare postando sui social un fotomontaggio con una sua immagine accostata a quella di una pastorella che faceva il saluto romano e mandava gli auguri di Natale a Laura Boldrini e a Emanuele Fiano. Anche in quel caso l'Anpi lo aveva censurato e Rocca si era difeso parlando di "can can mediatico".
«Battute razziste», turista milanese cacciato da un B&B di Palermo. Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. Allusioni e battute su una ragazza di colore, nata in Italia ma ghanese di origine, che lavora in un bed and breakfast di Palermo, ma anche altre battute sulla «superiorità» degli italiani rispetto ai migranti e alla fine, la proprietaria del B&B ha deciso di cacciare il turista milanese e di allontanarlo. È accaduto a Palermo, dove il milanese 70enne era ospite. «Caro ospite ignorante — ha spiegato la proprietaria del B&B sulla sua pagina Facebook —, nascere a Palermo per noi è sufficiente per essere italiani e se per te i siciliani non lo sono, stattene serenamente a casa tua». «Se pensi che il «vero italiano» sia un essere superiore, noi tutti siamo più italiani di te — ha scritto ancora —. Felice di averti, con il sorriso, sbattuto la porta in faccia perché qui è casa mia e non diamo il benvenuto a chi non lo merita. W il mondo a colori».
Annalisa Tardino, l'europarlamentare denuncia: "Non mi vogliono a scuola perché leghista". Libero Quotidiano il 20 Settembre 2019. Il caso, che sta facendo parecchio discutere, arriva da Licata, provincia di Agrigento. La protagonista è l'eurodeputata della Lega, Annalisa Tardino, la quale ha riferito alla AdnKronos di essere stata discriminata in una scuola soltanto perché leghista. Aveva infatti ricevuto un invito da parte del dirigente del liceo Linares per l'inaugurazione dell'anno scolastico, ma l'evento è stato poi "sgonfiato". L'invito, la Tardino, lo riceva lo scorso luglio, appuntamento poi rinviato al 21 settembre, in concomitanza con l'inaugurazione dell'anno scolastico, per impegni della stessa invitata. Peccato che nel frattempo l'evento sia stato ridotto, secondo la leghista in seguito a "pressioni" ricevute da parte della dirigente. L'eurodeputata del Carroccio, dunque, racconta la telefonata con la preside dell'istituto: "Io accolgo l’invito ma a luglio ero ancora all’inizio del mio mandato e così le chiedo se possiamo rimandare direttamente a settembre, alla riapertura della scuola. A quel punto lei mi propone di partecipare all'inaugurazione dell’anno scolastico. Io accetto con piacere. Siccome in quel periodo c’era in Sicilia il senatore Mario Pittoni (della Lega ndr), che è Presidente della Commissione Cultura e, ho pensato di coinvolgerlo e non certo perché esponente leghista ma perché presiede di una importante Commissione al Senato. Lui riesce a liberarsi per il 21 settembre e accetta l’invito". Dunque la Tardino precisa: "Non ho neppure invitato l’onorevole Alessandro Pagano per non trasformare l’evento in un incontro leghista. Mai avrei pensato che sarei stata al centro di questa assurda polemica". E ancora, l'esponente del Carroccio punta il dito: "La verità è che non mi volevano perché sono leghista. Lo ammetto, io mi sento offesa. Non mi aspettavo questo trattamento dal liceo che ho frequentato. Ecco perché alla fine ho preferito, a malincuore, disdire l'invito". Sulla vicenda è stata presentata una interrogazione parlamentare al ministro dell'Istruzione, in cui viene sollecitata "una ispezione al Liceo Linares" per verificare "se gli studenti subiscono qualche forma di condizionamento politico dai docenti o se, peggio, vengano discriminati per il proprio orientamento politico". Dal liceo di Licata arriva comunque la smentita della dirigente Rosetta Greco, secondo cui il Linares "include e non discrimina né cittadini aperti al confronto né rappresentanti istituzionali appartenenti alle forze politiche".
Migranti, Alex Britti: «Come italiano ero un cittadino di serie C, nessuno dovrebbe essere guardato così». Pubblicato giovedì, 22 agosto 2019 da Corriere.it. «Nessun uomo dovrebbe mai essere guardato così». Gli occhi di cui parla Alex Britti sono quelli di chi «si sente diverso» o «un cittadino di serie C». Alex Britti racconta che è successo anche a lui, da italiano. Lo fa dal palco di Anagni, dove si è esibito, e nei giorni della polemica su Open Arms. Britti racconta:«Oggi li chiamano migranti, ma sono persone che si spostano per cercare una vita migliore. Io da ragazzo non arrivavo a fine mese, ma neanche alla metà del mese, se suonavi il blues era complicato guadagnare. Quindi sono andato nel Nord Europa, suonavo tanto e c’erano tante persone che mi volevano bene ma c’era una cosa che percepivo, che da italiano per loro eri “spaghetti, mafia e pizza” ed eri un cittadino di serie C. Ti guardavano in modo strano quando scoprivano che eri italiano. Non voglio entrare in nessun dibattito politico - precisa il cantautore - ma avendo vissuto quella cosa mi fa molto strano oggi vedere certe immagini». Parole che subito sono rimbalzate in Rete, quelle di Britti, che raccontano di come anche un italiano oggi famoso si sia sentito «di serie C». Di come sia successo non solo nell’Europa del Nord, ma persino in Italia. «Anche quando sono tornato qui, e sono andato a Milano, da romano, continuavo ad essere guardato così, in quello stesso modo. E quello che voglio dire oggi è che nessun essere umano dovrebbe mai essere guardato con quegli occhi»
Scampia terra di ladri nel post di Beppe Grillo. La municipalità: "Chieda scusa ai cittadini". Il presidente Apostolos Paipais: "Non mostra nessun rispetto per chi quella terra cerca di migliorarla quotidianamente". La Repubblica il 27 agosto 2019. "Beppe Grillo, sul suo Blog, abusa di Scampia per la propria propaganda politica, la descrive come terra di ladri e non mostra nessun rispetto per chi quella terra la vive e prova quotidianamente a migliorarla. Per Grillo tutto è evidentemente uno scherzo, una provocazione, uno show. Questo dimostra quanto sia lontano oramai dal popolo il fondatore del movimento 5stelle, ad oggi forza di governo". Lo dice Apostolos Paipais, presidente della Municipalità di Scampia a Napoli. Paipais si riferisce a un post del blog di Grillo intitolato "Ho incontrato Dio" e in particolare alla seguente frase scritta dal fondatore del Movimento Cinque stelle: "Lei si era messo sul suo palco trapiantato in una piazza a sbraitare di ladri ed economia, di un parlamento con più ladri che a Scampia! Non esistono ladri, non esiste economia, non esiste la democrazia e non c’è nessun Ovest. Esiste soltanto un unico, intrecciato, multivariato dominio dell’avidità…" "Ricordo al Fondatore del movimento - conclude Paipais - che il governo attuale ha "cancellato" la commissione periferie istituita nelle precedenti legislature avente lo scopo di monitorare le condizioni delle aree urbane. Invito Beppe Grillo a lasciare per un attimo i giochi di palazzo e a recarsi nei luoghi nei quali le eccellenze emergono al cospetto di una politica nazionale latente In qualità di Presidente della Municipalità 8 di Scampia e in nome di tutti i cittadini del territorio, chiedo ufficialmente le sue scuse".
«Sono razzista, non affitto ai meridionali»: la telefonata postata sui social. Pubblicato venerdì, 13 settembre 2019 su Corriere.it da Francesco Sanfilippo. Robecchetto con Induno, la vittima dell’invettiva è una ragazza pugliese, Deborah Prencipe, 28 anni. L’audio registrato postato su Facebook ha fatto il giro dei social. «Per me i meridionali sono meridionali anche nel 4000, non nel 2000, i meridionali, i neri e i rom sono tutti uguali, sono una razzista al cento per cento»: è quanto si è sentita rispondere una 28enne pugliese, Deborah Prencipe, cui è stata rifiutata una casa in affitto a Robecchetto con Induno, in provincia di Milano. La giovane ha deciso di denunciare, pubblicando sui social gli audio ricevuti dalla proprietaria di casa che, di fronte alla possibilità di diffonderli, le ha risposto: «Mi raccomando, scriva e pubblichi che sono salviniana, sto con Matteo, con il capitano». La vicenda è stata raccontata dalla ragazza su Facebook: «Succede questo. Decido di trasferirmi nel paese della mia fidanzata in provincia di Milano. Cerco una casa in affitto, la trovo e me ne innamoro. Mi metto d’accordo con la proprietaria di casa, una ragazza, di far partire il contratto ad ottobre. Quindici giorni prima dell’inizio del contratto la ragazza mi manda un messaggio dicendomi che l’inizio del contratto slitta di un mese trovando scuse poco credibili. In un secondo momento ricevo un altro messaggio da parte della ragazza che mi dice che la casa in affitto non può più darmela perché preferisce venderla. Le rispondo dicendole che non trovo corretto cambiare le carte in tavola all’ultimo minuto e che i patti erano altri. In tutto ciò interviene la madre della ragazza che mi contatta. Il motivo per cui non mi viene data la casa in affitto è perché sono nata a Foggia. C O S A, direte voi. Esattamente. Sono nata a Foggia e la signora... ritiene che in casa sua i meridionali non devono entrare». Al suo post, Debora allega gli audio della padrona di casa, concludendo «Benvenuti nell’Italia di oggi dove, a quanto pare, c’è da tirare fuori i cartelli con scritto «Non si affitta ai meridionali» perché, evidentemente, non sono ancora passati di moda». Il messaggio postato da Deborah è lo stesso della sua fidanzata, Laura, che la 28enne ringrazia «per aver trovato le parole giuste per raccontare la mia storia. Io al momento non ne sono in grado». Negli audio pubblicati si sente distintamente la signora dire cose come :«Per me i meridionali sono sempre meridionali, anche nel 4000, non solo nel 2000. I meridionali, i neri i rom son tutti uguali. Guardi io son proprio una razzista al 100%», «ciò che importa è quello che c’è scritto sulla carta di identità, non è una Svizzera, è una meridionale, è diverso». Dopo aver ricevuto moltissime messaggi di solidarietà, Deborah ha pubblicato un messaggio per ringraziare: «Ci tengo ad aggiornarvi un po’ su come sta procedendo la questione per cui in tantissimi qui e su Instagram mi state scrivendo e state condividendo. Grazie a voi, la storia è arrivata a tanti giornalisti con cui siamo in contatto e condividerò tutti gli articoli che usciranno! Ovviamente, mi sto muovendo anche legalmente! Continuiamo a condividerlo: più viaggia, più (spero) c’è speranza che non capiti ad altri! Grazie di cuore».
Milano, "non si affitta ai meridionali". L'audio WhatsApp: "Sono razzista e salviniana". Repubblica Tv 13 settembre 2019. "Non ti affitto casa perché sei meridionale". E' quanto si è sentita dire una ragazza di Foggia dalla proprietaria di un appartamento di Malvaglio, frazione di Robecchetto con Induno in provincia di Milano. La giovane si chiama Deborah Prencipe e ha denunciato l'accaduto sui social. "Decido di trasferirmi nel paese della mia fidanzata in provincia di Milano - scrive su Instagram e Facebook -. Cerco una casa in affitto, mi metto d'accordo con la proprietaria, una ragazza, di far partire il contratto ad ottobre. Quindici giorni prima dell'inizio del contratto mi manda un messaggio dicendo che slitta di un mese trovando scuse poco credibili. In un secondo momento ricevo un altro messaggio che mi dice che la casa in affitto non può più darmela perché preferisce venderla. In tutto ciò interviene la madre della proprietaria che mi contatta. Il motivo per cui non mi viene data la casa in affitto è perché sono nata a Foggia". Deborah ha conservato la registrazione audio inviata dalla signora, che si definisce "salviniana razzista".
Casa negata a una ragazza di Foggia: "Scriva pure che sono leghista sfegatata". Repubblica Tv 13 settembre 2019. Quando Deborah, la ragazza di Foggia cui è stato negata la casa in affitto in provincia di Milano perchè meridionale, spiega alla madre della proprietaria che denuncerà pubblicamente l’accaduto, la donna non nasconde le sue simpatie politiche: “Scriva anche sotto al post che la signora è una salviniana, è del Capitano – si sente in un secondo audio pubblicato – Scriva che la signora, da quando c’era ancora il Bossi che ha cominciato le prime volte, era in prima linea. Lo scriva in grande, ecco le leghiste cosa fanno. Lo dica pure che sono una leghista sfegatata, perché Salvini sin dall’inizio ce l’aveva con tutti i meridionali”. "Sono razzista, sono di Salvini, non ti affitto casa perché sei meridionale".
L'odissea di una ragazza di Foggia in provincia di Milano che ha denunciato tutto sui social: "La madre della proprietaria mi contatta e mi dice che il motivo per cui non mi viene data la casa in affitto è perché sono nata a Foggia". La ragazza ha registrato le conversazioni. Natale Cassano il 13 settembre 2019 su La Repubblica. Non si affitta casa ai meridionali. È quello che si sarebbe sentita rispondere una ragazza foggiana dalla proprietaria di un appartamento di Malvaglio, frazione di Robecchetto con Induno in provincia di Milano. per cui stava per firmare il contratto di locazione. A raccontare la vicenda - simile a quella avvenuta nel 2008 nel capoluogo lombardo ai danni di un 27enne barese - è Deborah Prencipe, attraverso un post su Facebook. Deborah aveva iniziato la ricerca di una casa nel paese in cui vive la fidanzata Laura, così da starle più vicina. Una volta trovato l’appartamento, è amore a prima vista e subito si preparano i documenti per avviare il trasferimento già da ottobre. Quindici giorni prima dell’inizio del contratto, però, la situazione si complica: “La ragazza mi manda un messaggio dicendomi che l’inizio del contratto slitta di un mese trovando scuse poco credibili – scrive nel post di denuncia - In un secondo momento ricevo un altro messaggio da parte della ragazza che mi dice che la casa in affitto non può più darmela perché preferisce venderla. Le rispondo dicendole che non trovo corretto cambiare le carte in tavola all’ultimo minuto e che i patti erano altri”. Nello scambio di battute, come spiega Deborah, si inserisce anche la madre della ragazza con cui aveva inizialmente concordato l’affitto. “Il motivo per cui non mi viene data la casa in affitto è perché sono nata a Foggia – scrive - Cosa?, direte voi. Esattamente. Sono nata a Foggia e la signora ritiene che in casa sua i meridionali non devono entrare”. A riprova della sua tesi, pubblica anche gli audio che le avrebbe inviato la donna su WhatsApp. Parole forti, che non ci si aspetterebbe di ascoltare nel 2019: “Per me i meridionali sono meridionali anche nel 4000, non solo nel 2000, ragione per cui ho frenato un pochettino. Per me i meridionali, i neri e i rom sono lo stesso, io sono una razzista al 100 per cento. Quello che pensa lei proprio non mi interessa niente”. “Non è una svizzera, è una meridionale – aggiunge – è scritto nella carta d’identità, non è un segreto di Stato. Lo sono venuta a sapere tardi. Se l’avessi saputo prima avrei frenato mia figlia”. E quando Deborah le spiega che denuncerà pubblicamente l’accaduto, la donna non nasconde le sue simpatie politiche: “Scriva anche sotto al post che la signora è una salviniana, è del Capitano – si sente in un secondo audio pubblicato – Scriva che la signora, da quando c’era ancora il Bossi che ha cominciato le prime volte, era in prima linea. Lo scriva in grande, ecco le leghiste cosa fanno. Lo dica pure che sono una leghista sfegatata, perché Salvini sin dall’inizio ce l’aveva con tutti i meridionali”. Le denunce social di Deborah e della compagna sono diventate presto virali, raggiungendo in totale oltre 4mila condivisioni sui social e centinaia di commenti di solidarietà degli utenti. L’ultimo aggiornamento è arrivato in mattinata: dopo aver ringraziato gli internauti per il sostegno ricevuto, l’autrice del post ha ricordato che sta agendo per vie legali nei confronti della proprietaria dell’appartamento. “Continuiamo a condividerlo: più viaggia, più (spero) c’è speranza che non capiti ad altri!” si conclude il suo appello. Laura, la compagna di Deborah, racconta di non aver ancora fatto denuncia: "Ma lunedì ci muoveremo per vie legali, non per un ritorno economico ma perché siamo certe che ci sia il reato di discriminazione". Anche se il contratto non era ancora stato firmato "c'era un accordo verbale tra le parti e abbiamo le mail che lo provano. Per fortuna, dal punto di vista dei danni personali, la mia compagna non è costretta a vivere per strada, ma quando ha ricevuto dalla proprietaria quei messaggi è scoppiata a piangere. Abbiamo sempre lottato contro le discriminazioni e per fortuna non ne avevamo mai subite, ora Deborah è piena di rabbia e sgomento per queste motivazioni inaccettabili. Per questo siamo intenzionate ad andare avanti". Da quando Laura e Deborah hanno pubblicato sui social la loro storia, "siamo sommerse di messaggi e richieste di contatto, sappiamo che oltre alla solidarietà potrebbe arrivare altro, ma oggi - conclude Laura - o chini la testa e vivi bene o ti esponi e prendi tutto quello che viene". A chi le ha scritto, Deborah ha rivolto un invito, dove spiega perché abbia scelto di rendere pubblico quanto successo: "Continuiamo a condividerlo: più viaggia, più (spero) c'è speranza che non capiti ad altri".
Salvini: «La signora che non affitta ai meridionali? È una cretina». Pubblicato sabato, 14 settembre 2019 da Corriere.it. «La signora è una cretina. Non ho il piacere di conoscerla ed è lontanissima dal mio pensiero». Lo ha detto il leader della Lega ed ex ministro degli Interni Matteo Salvini a margine della riunione dei 500 amministratori locali leghisti a Milano, commentando la decisione di una signora milanese che non vuole affittare l’appartamento a meridionali. Il caso è venuto fuori da una denuncia sui social da parte di una ragazza originaria di Foggia, Deborah, che ha pubblicato l’audio di una conversazione con la proprietaria dell’appartamento. «Decido di trasferirmi nel paese della mia fidanzata in provincia di Milano», racconta la ragazza su Facebook, in un post diventato virale. «Cerco una casa in affitto - continua -, la trovo e me ne innamoro. Mi metto d’accordo con la proprietaria di casa, una ragazza, di far partire il contratto ad ottobre. Quindici giorni prima dell’inizio del contratto la ragazza mi manda un messaggio dicendomi che l’inizio del contratto slitta di un mese trovando scuse poco credibili. In un secondo momento ricevo un altro messaggio da parte della ragazza che mi dice che la casa in affitto non può più darmela perché preferisce venderla. Le rispondo dicendole che non trovo corretto cambiare le carte in tavola all’ultimo minuto e che i patti erano altri. In tutto ciò interviene la madre della ragazza che mi contatta. Il motivo per cui non mi viene data la casa in affitto è perché sono nata a Foggia». Nell’audio, la donna afferma che «i meridionali sono meridionali anche nel 4000, non nel 2000. Ragione per cui - dichiara - ho frenato. Per me, meridionali, neri o rom sono tutti uguali: sono una razzista al 100%». «Non mi interessa se è qui da quando è piccola - continua la proprietaria dell’appartamento -, ma cosa c’è scritto sulla carta d’identità. Da lombarda ci tengo al 100%. Sono razzista e per me va benissimo, forse sono venuta a saperlo troppo tardi. Quello che dice lei non me ne frega niente». «Scriva sotto il post - aggiunge infine la donna - che la signora è una salviniana, una leghista come Matteo. Il suo capitano è Salvini, lo scriva pure».
SE QUESTO E’ IL NORD. Da Qui Brescia il 18 settembre 2019. Sembra esserci un clima contraddistinto dal razzismo nei diversi episodi che stanno accadendo in Italia. E su tutti, diventato un caso nazionale, quello di una proprietaria milanese che non ha voluto affittare il proprio appartamento a una donna di Foggia perché meridionale. E una situazione simile, stavolta contro gli stranieri, si è presentata anche in provincia di Brescia come ne dà notizia il Giornale di Brescia. Sul portale online di annunci immobiliari Dimorama.it, infatti, è stato pubblicato relativo al nostro territorio un annuncio di vendita di una villetta a tre piani e tra le aste giudiziarie in via Isidoro Capitanio, nella frazione di Roncaglie a Concesio, in Valtrompia. In particolare, si sottolineava la posizione tranquilla e anche l’ottimo vicinato visto che nei dintorni non abitano vicini stranieri. Un messaggio e un dettaglio chiaramente di stampo razzista che ieri, lunedì 16 settembre, è stato poi prontamente rimosso. E ora di quell’annuncio, come dovrebbe essere, restano solo i dettagli dell’edificio e della zona residenziale.
«Sei terrona e mafiosa», segretaria siciliana di una scuola di Forlì insultata dai vicini. Pubblicato domenica, 15 settembre 2019 da Corriere.it. La segretaria di una scuola media di Forlì di origini siciliane ha denunciato di essere stata insultata per le sue origini e picchiata da una coppia di vicini di casa in seguito ad una lite sul posto auto condominiale. L’episodio risale al 26 agosto scorso quando Ilde Cascio, 53enne di Terrasini, in provincia di Palermo, ma da tempo trasferita in Emilia Romagna con il figlio, scrive su Facebook: «Oggi ho subito la più grande umiliazione della mia vita. Un vicino mi ha aggredita e picchiata, dentro il parcheggio dello stabile in cui abito. Mi ha detto che dato che sono in affitto non ho diritto a parcheggiare. Mi ha dato della terrona, della mafiosa e mi ha urlato di tornare a casa mia sputandomi in faccia e minacciandomi. Ho chiamato la Polizia e sono andata in ospedale per il referto. Spalla lussata e tendine del piede schiacciato, 5 giorni di prognosi. Non basteranno per dimenticare». La donna ha preparato coi propri legali una denuncia nella quale racconta di aver avuto una lite con la proprietaria dell’appartamento nel condominio dove ha affittato una casa. La donna l’avrebbe ingiuriata dicendole: «Non hai capito che non puoi mettere la macchina qui? Noi siamo proprietari e ne possiamo mettere anche due. Morta di fame e terrona puzzolente». Subito dopo sarebbe intervenuto il marito della donna che l’ha spinta, le ha pestato il piede e le ha sputato addosso. Una volta rientrata dall’ospedale l’uomo l’avrebbe minacciata di morte: «Denunciami e ti ammazzo, lo giuro».
La lite per il parcheggio e le accuse razziste: "Zitta, terrona mafiosa". E' successo a Forlì a una donna originaria di Terrasini che ha denunciato i vicini: "Mi hanno aggredita e minacciata: ora ho paura e vivo barricata in casa". Francesco Cortese e Eleonora Lombardo il 15 settembre 2019 su La Repubblica. Aggredita da una coppia di vicini mentre stava rientrando a casa. È accaduto ad una donna di Terrasini, Ilde Cascio, 53 anni, che da quattro anni vive e lavora a Forlì. " Terrona puzzolente, tornatene da dove sei venuta" avrebbero urlato i coinquilini mentre la signora, impiegata amministrativa in una scuola media della città, stava varcando la soglia di casa. Il tutto, secondo il racconto della donna siciliana, sarebbe scaturito da una discussione per il parcheggio dell’automobile all’interno dello spazio comune in uso ai condomini dello stabile in cui vivono entrambi i nuclei familiari. «Come ogni giorno stavo rientrando a casa dopo aver trascorso tutta la giornata a scuola — racconta la signora Cascio — Una volta parcheggiata la mia auto, ho sentito la vicina che urlava invocando il mio nome. "Sei entrata correndo e qui ci potevano essere i bambini o i miei cani" gridava. Ma io ho fatto finta di nulla e ho continuato a camminare tentando di raggiungere le scale » . La discussione però sarebbe continuata con gli insulti insistenti della vicina. "Non hai capito che tu non hai diritto al parcheggio perché sei in affitto? Morta di fame e terrona puzzolente. Noi siamo proprietari e ne possiamo mettere anche due di macchine" si legge nella denuncia- querela preparata dai legali della donna siciliana che, nei prossimi giorni, sarà depositata in procura. A quel punto sarebbe intervenuto anche il marito della vicina che avrebbe portato avanti, secondo quanto denunciato ancora dalla signora di Terrasini, una vera e propria aggressione fisica. «Mi ha pestato il piede, mi ha spintonato e mi ha sputato in faccia. Poi mi hanno urlato: " sei una mafiosa terrona. Qui non vi vogliamo, siamo tutti stanchi di te ». Adesso Ilde Cascio, vive segregata in casa per paura che le possa accadere nuovamente qualcosa e vorrebbe cambiare condominio. Purtroppo, però, nessun altro vuole più affittarle un appartamento. « Trovare un’altra abitazione è un’impresa — denuncia la cinquantatreenne — Il proprietario di un appartamento addirittura ha risposto alla mia richiesta dicendomi che a Forlì preferiscono tenere le case chiuse piuttosto che affittarle a noi meridionali. Sono rimasta basita. Al giorno d’oggi non si può avere a che fare ancora con episodi di razzismo. C’è un reale problema di arretratezza culturale».
«Io aggredita perché terrona, non c’è stata alcuna lite»: il racconto della segretaria siciliana. Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. «Nessuna lite: loro mi aspettavano proprio per insultarmi»: è infuriata Ilde Cascio, la collaboratrice scolastica che ha denunciato, prima attraverso Facebook e poi dai carabinieri, l’aggressione di una famiglia di Forlì nel condominio del palazzo dove vive. «Mi hanno attaccato in quanto meridionale: e purtroppo devo dirlo non è la prima volta, da quando abito qui, quattro anni, che mi accade. Ma quando è troppo è troppo». La signora Ilde, 53 anni, divorziata, due figli di 32 e 29 laureati, si è trasferita in Emilia Romagna dopo aver perso il lavoro. Per lei, siciliana, è stata dura lasciare terra e affetti, ma non ha avuto dubbi: «Dopo anni nella formazione professionale, sono rimasta, insieme ad altre 8 mila persone, a casa. Per colpa di un truffatore che stornava i fondi europei sul suo conto. Ero disperata, così quando un amico ha saputo delle opportunità per gli Ata, i collaboratori scolastici, al Nord, me le ha segnalate. Sono partita. Per ora sono ancora collaboratrice, ma dall’anno prossimo spero di entrare in amministrazione». La signora Ilde si è sempre data da fare, ma ha notato dall’inizio un atteggiamento di diffidenza nei suoi confronti: «Mi dispiace dirlo, ma molti ci considerano ancora terroni. Nonostante ci diamo da fare più degli altri. Quando dovevano montare gli scaffali nella nuova biblioteca, e le pareti erano piene di muffa, mi sono messa io a pulirle con la candeggina, senza che nessuno me lo chiedesse. Quando la lavatrice della scuola si è bloccata, ho ripulito il filtro e l’ho fatta ripartire, evitando il costo dell’idraulico. Ma questo sembra che non basti. Una volta che stavo male, avevo un virus gastrointestinale e sono andata qualche volta in più in bagno, mi hanno seguita per controllarmi. E anche ora che sono tornata al lavoro, dopo venti giorni, l’ufficio del personale ha telefonato a una collega per appurare che fossi al mio posto. Come se potessi assentarmi così, senza avvisare. Follia pura». Una diffidenza, quella che Ilde ha avvertito su di sé, che il 26 agosto si è trasformata in rabbia cieca. «Sono stata aggredita dai condomini solo perché erano infastiditi dal fatto che il mio posto per l’auto era proprio accanto ai fili dove loro stendono le lenzuola. Quel 26 agosto tornavo a casa dopo il lavoro, stanca, accaldata, e l’unico desiderio che avevo era concedermi una doccia e riposarmi sul divano. Invece mi hanno aspettata: la donna più anziana, la figlia, il marito, e mi hanno insultata, aggredita. Senza un motivo, offendendomi, dandomi della mafiosa, della terrona, dicendomi che puzzavo, insultandomi con parole che non si possono pubblicare. Sono stata così male nei giorni successivi che sono dovuta andare da uno psichiatra, avevo paura che tutti potessero aggredirmi in strada. Il momento peggiore è stato quando, andando a prendere mia figlia in stazione, ho visto uscire una fiumana di gente dal treno, sembravano tutti diretti verso di me, e ho temuto che potessero tutti picchiarmi». Per Ilde da quel 26 agosto la vita si è trasformata in un inferno: «Ma non posso mollare, nella vita mi sono sempre rimboccata le maniche e non mi fermerò neanche stavolta. Però la denuncia l’ho fatta, non posso lasciare che un atteggiamento del genere rimanga impunito. Sono italiana, l’unità è stata proclamata molti anni fa, e io sono libera di andare in qualsiasi regione senza sentirmi discriminata».
Juve-Napoli vietata ai campani, è bufera: «Discriminazione territoriale». Pubblicato giovedì, 08 agosto 2019 da Corriere.it. Juventus-Napoli si giocherà solo sabato 31 agosto allo Stadium e già divampano le polemiche. All’origine del polverone la modalità di vendita dei biglietti per il match: i tagliandi saranno infatti vietati dal club bianconero ai tifosi azzurri residenti o nati in Campania. Una restrizione che fanno sapere dalla questura di Torino «non è stata mai concordata con la società sportiva e né s’intende condividerla». Immediata la replica della Juventus: «Le restrizioni di vendita dei biglietti per la partita del 31 agosto, pubblicate sul sito della società nella mattinata di mercoledì 7 agosto, sono state comunicate, tramite posta elettronica certificata, agli uffici competenti in data 4 agosto alle ore 16». Sul web, nel frattempo, una pioggia di commenti. «Questo annuncio è un gravissimo precedente di razzismo pratico applicato», commenta Gad Lerner su Twitter. «Ma almeno sanno il loro allenatore dove è nato?», scrive una tifosa sui social, e ancora altri si chiedono ironicamente se Maurizio Sarri potrà sedersi in panchina. La reazione del Comune di Napoli è affidata alla delegata all’Autonomia della Città, Flavia Sorrentino: «La notizia da parte della società calcistica juventina di vietare la vendita dei tagliandi per la partita Juve - Napoli, in programma sabato 31 agosto, a chi è nato in Campania ha tutta l’aria di essere una scelta di discriminazione territoriale e sociale. È molto grave che una società sportiva selezioni il pubblico pagante sulla scorta di un fattore arbitrario legato al luogo di nascita». «Il comunicato diramato dalla Questura di Torino in cui si afferma che la scelta non è stata né concordata né condivisa è un ulteriore elemento che fa riflettere sulle motivazioni che sono alla base di tale decisione. Essere nati a Napoli, essere cittadini campani non è un marchio di disonore né un elemento per cui prendere provvedimenti restrittivi. A meno che non si voglia sdoganare definitivamente o dare liceità ad un messaggio razzista che ha l’intento di colpire i meridionali che vivono e lavorano a Torino». «Con la decisione di vietare la vendita a chi è nato in Campania dei biglietti per la sfida Juventus-Napoli del 31 agosto si arriva alla vergogna, allo schifo e alla tristezza più totale. Il calcio è un gioco, è di tutti e voi lo state distruggendo». Queste le parole con cui Salvatore Esposito, l’attore partenopeo diventato famoso con il personaggio di Genny Savastano in Gomorra commenta su Facebook la decisione della Juventus sul divieto della vendita dei tagliandi.
Emanuele Gamba e Domenico Marchese per la Repubblica l'8 agosto 2019. Se il toscano Maurizio Sarri non fosse incidentalmente l'allenatore in carica dei campioni d'Italia, un biglietto per Juventus-Napoli del 31 agosto non potrebbe comprarselo: la vendita, come si legge sul sito ufficiale del club bianconero, è vietata, come da prassi, ai residenti in Campania ma anche, con un provvedimento decisamente insolito, a chi in Campania è solamente nato. Tipo Sarri, appunto, venuto al mondo a Bagnoli nel corso di una breve parentesi in trasferta nella vita, per il resto interamente toscana, di suo padre. Ma anche tipo molti juventini torinesi emigrati al nord chissà quanti decenni fa. I biglietti saranno in libera vendita da domattina, ammesso che ne avanzino dopo la fase riservata a chi ha diritto di prelazione, in genere sufficiente per l'esaurimento delle scorte. Quel divieto per atto di nascita potrebbe dunque rimanere puramente teorico, eppure c'è. La Juve ha spiegato che è stata una misura concordata con Questura e Osservatorio: una sorta di prevenzione in attesa che l'Osservatorio stesso dirami le proprie disposizioni (dovrebbe farlo dopo Ferragosto) per una gara da sempre considerata a rischio. La Questura in mattina ha fatto sapere di "non aver mai concordato tale decisione con la società sportiva né intende condividerla" ma la Juve ha diffuso una nuova nota precisando che le "restrizioni sono state comunicate, tramite Posta Elettronica Certificata, agli uffici competenti in data 4 agosto alle ore 16" e che "le modalità di vendita dei tagliandi potrebbero subire variazioni, anche sostanziali, solamente a seguito delle determinazioni dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, che non si è ancora riunito". La limitazione ai residenti quasi certamente resterà, come sempre negli ultimi anni (anche a parti invertite), così come il più delle volte è rimasto chiuso il settore ospiti, mentre questo insolito vincolo di natalità sembra destinato a cadere. Tanto a quel punto i tagliandi saranno già andati esauriti, garantendo alla Juve il primo maxi incasso della stagione: i prezzi vanno infatti dai 67 euro delle curve ai 225 per la tribuna est.
Stadium vietato ai napoletani, Esposito, attore di Gomorra: "Schifo, vergogna, tristezza". Il caso è scoppiato, la reazione del Comune di Napoli è affidata alla delegata all'Autonomia della Città, Flavia Sorrentino. "La notizia da parte della società calcistica juventina di vietare la vendita dei tagliandi per la partita Juve - Napoli, in programma sabato 31 agosto, a chi è nato in Campania ha tutta l'aria di essere una scelta di discriminazione territoriale e sociale. È molto grave che una società sportiva selezioni il pubblico pagante sulla scorta di un fattore arbitrario legato al luogo di nascita. Il comunicato diramato dalla Questura di Torino in cui si afferma che la scelta non è stata nè concordata nè condivisa è un ulteriore elemento che fa riflettere sulle motivazioni che sono alla base di tale decisione. Essere nati a Napoli, essere cittadini campani non è un marchio di disonore né un elemento per cui prendere provvedimenti restrittivi. A meno che non si voglia sdoganare definitivamente o dare liceità ad un messaggio razzista che ha l'intento di colpire i meridionali che vivono e lavorano a Torino".
Juventus-Napoli, il no ai nati in Campania diventa un caso: ''Razzismo applicato''. Il prefetto di Torino: "Mi auguro che sia stata una svista e che non abbia conseguenze sull'ordine pubblico. Spero che i vertici del club bianconero riconoscano l'errore". Jacopo Ricca il 9 agosto 2019. Un coro di no contro la decisione della Juve di vietare ai nati in Campania la vendita libera dei biglietti del match contro il Napoli del 31 agosto. Un coro più forte di quelli che, di solito, partono dalla curva dell'Allianz Stadium - proprio contro i napoletani - e sono tacciati di discriminazione territoriale. Ad alzare la voce contro la scelta, inedita, ci sono prima di tutto la politica e le istituzioni: "Un provvedimento che ha tutta l'aria di essere una scelta di discriminazione territoriale e sociale. È molto grave che una società sportiva selezioni il pubblico pagante sulla scorta di un fattore arbitrario legato al luogo di nascita" tuona la delegata all'Autonomia della Città di Napoli, Flavia Sorrentino. La Juve insiste di aver informato le autorità e pubblica l'email inviata il 4 agosto in Questura, ma proprio il questore di Torino, Giuseppe De Matteis, è durissimo: "Si tratta di una misura dubbia e discriminatoria che potrebbe avere anche un valore razzista e che non avremmo mai potuto avallare". Il prefetto di Torino, Claudio Palomba, che a Napoli è nato, un po' come l'allenatore bianconero Maurizio Sarri, allo Stadium non potrebbe entrare: "Mi auguro che sia stata una svista e che non abbia conseguenze sull'ordine pubblico. Spero che i vertici della Juve riconoscano l'errore". Posizioni ufficiali sulla scelta né la questura, né la prefettura ne avevano espresse perché sia il Gos, il gruppo operativo per la sicurezza, che l'Osservatorio sulle Manifestazioni sportive che dovranno pronunciarsi sulle misure di sicurezza per la partita non si sono ancora riuniti. Proprio per questo la società guidata da Andrea Agnelli avrebbe preso la decisione, poi finita al centro delle polemiche, con intellettuali come Gad Lerner che parlano di "gravissimo precedente di razzismo pratico applicato" e l'attore Salvatore Esposito (il Genny Savastano di Gomorra) che esprime "schifo, vergogna e tristezza". La società bianconera si difende spiegando che non è un provvedimento contro i tifosi, di Napoli o Juve poco importa, nati in Campania, ma una scelta cautelativa. A rimetterci però saranno sopratutto le migliaia di persone residenti in Piemonte, e di provata fede juventina, che per il solo fatto di esser nate in Campania non potranno comprare il biglietto: "Se hanno la tessera del tifoso potranno farlo comunque" precisano dalla Juve. La situazione è stata resa più complicata dalla riunione dell'Osservatorio prevista troppo a ridosso del match: "Se avessero deciso delle restrizioni poi sarebbe stato difficile ritirare i biglietti già venduti". Il questore De Matteis però insiste: "Noi non parliamo con la società per email o telefonate, ma negli organi preposti che sono il gruppo operativo per la sicurezza e l'Osservatorio per le manifestazioni sportive che su quella partita non si sono ancora espresse e comunque non avrebbero mai avallato un provvedimento di quel tipo". La società partenopea tace sul caso, ma la politica campana è tutta contro: "Un precedente gravissimo", secondo il 5Stelle in Regione, Gennaro Saiello, mentre il Verde Francesco Emilio Borrelli annuncia che saranno chiesti chiarimenti al ministero dell'Interno.
«Non mandateci più corrieri di colore o simili»: la mail dell’azienda ai fornitori. Pubblicato giovedì, 04 luglio 2019 da Corriere.it. «Chiediamo tassativamente, pena interruzione di rapporto di fornitura con la vs Società, che non vengano più effettuate consegne utilizzando trasportatori di colore e/o pakistani, indiani o simili»: è il testo della mail inviata da un’azienda del Bresciano, la Chino Color Srl di Lumezzane, il 21 giugno scorso, a tutti i suoi fornitori, tra cui la DTM Deterchimica di Torbole Casaglia, in provincia di Brescia che ha reso pubblico il testo della mail che si chiudeva così: «Gli unici di nazionalità estera che saranno accettati saranno quelli dei paesi dell’est, gli altri non saranno fatti entrare nella nostra azienda né tantomeno saranno scaricati». La Chino Color è un’azienda di Lumezzane che si occupa di lavorazione di metalli. Contattata al telefono dal Corriere della Sera la segreteria, molto imbarazzata, ha cercato di evitare risposte riagganciando più volte il telefono. Dopo una certa insistenza e diverse telefonate ha rivelato: «Abbiamo avuto disposizioni dal dirigente di non aggiungere altro a quanto è stato già pubblicato. Mi dispiace ma la devo salutare». E giù il telefono. Attualmente le linee sono fuori posto. Su Youtube compare un video aziendale in cui si vede tra gli operai una persona di colore.
Da La Repubblica il 12 luglio 2019. Il direttore di un'azienda dell'indotto di Pomigliano scrive "Napoletani da bruciare" e si giustifica dicendo che era un modo di "spronare" i dipendenti. E le frasi a sfondo razzista non sono comparse, come spesso purtroppo capita, su un social, ma sul display dedicato alle comunicazioni istituzionali in fabbrica. Secondo quanto riporta Il Mattino di Napoli, sul display informativo della Tiberina, una ditta che produce componenti per auto dell'indotto Fiat, è comparsa la scritta: "Bisogna bruciare tutto: Napoli, tutti i napoletani e i loro rifiuti anche perché i napoletani sono un rifiuto". Sotto, a onor del vero, c'era scritto "io non ci sto", in lettere maiuscole e "bisogna reagire". E proprio di una provocazione per suscitare sdegno e reazione ha parlato al quotidiano napoletano il direttore messo all'indice, Dario Liccardo originario di Napoli ma residente a Latina, che ha ammesso di aver preso la frase dai social e di averla visualizzata sul display informativo per spronare i dipendenti a essere più ordinati, puliti ed efficienti. Una strategia motivazionale inaccettabile per i sindacati, che hanno chiesto il licenziamento del dirigente e hanno fermato la catena di montaggio per una notte. Il tutto è successo dieci giorni fa, ma si è saputo in questi giorni, dopo che la foto con il display ha cominciato a circolare in rete. Secondo quanto riporta il quotidiano napoletano, il direttore ha respinto le accuse di razzismo, sostenendo con forza che la sua iniziativa è stata causata da "vari episodi" di distrazione sul lavoro e degrado, con sale ricreative lasciate sporche. La Fiom però pretende scuse ben più sentite e denuncia che l'azione del direttore denota soltanto incapacità. La Tiberina è molto attiva sui social, con gruppi di lavoratori che pubblicizzano le attività e i successi della fabbrica. Tuttavia la discutibile iniziativa motivazionale del direttore ha fornito al sindacato l'occasione per ricordare che nella fabbrica non c'è l'aria condizionata e che la frase razzista è apparsa proprio dopo lo sciopero dei lavoratori di un'ora, per protestare contro la difficile situazione ambientale.
Dagospia il 26 luglio 2019. LETTERA: Ciao Dago, ho letto delle parole razziste forse pronunciate da non si sa quale addetto alle pulizie sul treno. Di solito sul Frecciabianca in corsa non girano addetti alle pulizie, al massimo quelli del servizio tecnico, gli addetti alle pulizie salgono e scendono quando i treni sono in stazione, guarda che combinazione proprio stavolta erano in giro.
Ps: Ma quel Lorenzo Tosa che avrebbe sentito le parole razziste è un fuoriuscito grillino che alle europee si è candidato con +europa? Candida Elegia
IL POST DI LORENZO TOSA SU FACEBOOK: Frecciabianca, all’altezza di Campiglia, una tranquilla serata di luglio. Delle urla forti e indistinte irrompono nel tuo vagone. È difficile capire a chi appartengono e a chi sono rivolte. Poi alzi lo sguardo, metti a fuoco e vedi un uomo sulla quarantina portata male, occhiali dalla montatura spessa e indosso la pettorina del servizio di pulizia. Man mano che si avvicina, anche la voce si fa più nitida. Ora capisci cosa dice: “Negra di m... Tornatene al tuo paese”. “Devi levarti da qui, schifosa, lascia il posto a chi paga il biglietto.” Di fronte a lui - ora la vedi bene - c’è una ragazza di 23 anni del Mali. Una splendida ragazza, in evidente stato di choc. Prova a difendersi, gli urla con una strana mescolanza di accenti, tra italiano, francese e toscano stretto: “Razzista!” “Fascista!” E l’uomo - se così volete chiamarlo - l’uomo esplode: “Ma quale fascista. Zitta, negra, che c’avete tre strade e le abbiamo costruite noi nel ‘39”. Già. Lui che “fascista” non è. A quel punto è impossibile far finta di niente, anche perché nessuno si è mosso di un millimetro: ognuno seduto sulle proprie poltroncine con un Ipad in mano, un paio di cuffie nelle orecchie e uno sguardo di compiaciuta indifferenza, come se quella cosa, in fondo, non li riguardasse. E che, tutto sommato, finalmente c’è qualcuno che dice le cose come stanno e difende “gli italiani onesti e perbene.” Ti alzi in piedi e corri verso l’uomo, che nel frattempo ha alzato persino la voce ed è a un centimetro dalla ragazza. Pensi che possa addirittura metterle le mani addosso, allora ti metti in mezzo, lo allontani, lo guardi negli occhi. E dentro vedi qualcosa che non avresti mai immaginato. Vedi il vuoto. Non c’è nulla in quello sguardo, solo rabbia cieca, senza un senso né una direzione, caricata da chissà quante migliaia di voci sentite, commenti letti, discorsi fatti, dichiarazioni ascoltate sui social o in tv ed esplose di colpo in un pomeriggio di mezza estate. C’è il vuoto in quegli occhi. E fa paura.
“E lei che cosa vuole?” chiede.
“Voglio, anzi pretendo, che non si permetta mai più di rivolgersi così a questa ragazza - rispondi - Lei ha una divisa, rappresenta il treno, le ferrovie italiane, questo paese. Si vergogni e chieda scusa.”
“Lei mi ha dato del fascista” dice indicando la ragazza.
“E ha fatto bene - rispondi - È esattamente quello che sta dimostrando di essere.”
E, in quel momento succede un’altra cosa che non avevi previsto. Accade che abbassa lo sguardo, di colpo sembra aver cambiato atteggiamento.
“Ok, tutto a posto - dice - Non è successo nulla.”
“Nulla è a posto. Mi hai dato della negra di m...” interviene lei alle tue spalle.
“E tu stai zitta, non vedi che sto parlando con lui!” Il tono ora è di nuovo alto, e “lui”. “Lui” - nel suo delirio - significa italiano. Connazionale. Uno dei nostri. Ecco quello che tu sei per lui.
E, mentre li fissi entrambi, per qualche secondo, non riesci a non sentirti umanamente, moralmente, mentalmente, con ogni muscolo o nervo del tuo corpo, infinitamente più vicino a lei che a lui. In quel momento, su quel vagone in corsa da qualche parte per la campagna toscana, per la prima volta forse nella tua vita ti senti straniero in Italia. Se lui è l’italiano e lei la straniera, allora sei straniero anche tu. E mai, prima d’ora, è stato così disperatamente chiaro. L’uomo a quel punto si placa, ma è tardi. Il controllore è stato richiamato dalle urla e ha allertato il capotreno. Pretendi che non finisca lì. E sei fortunato, perché il capotreno è un uomo perbene. Ha lo sguardo di chi ne ha viste tante, troppe, ma non è tipo disposto a tollerare. Lo obbliga a scusarsi. A suo nome e a nome del treno. In un mondo normale non finirebbe qui, ma basta uno sguardo tra te e il capotreno per capire che è meglio per lei se tutto quanto resta lì. Con tante scuse e nessun rapporto o segnalazione. Perché è probabile che, tra i due, una volta che si va a scavare, sia lei quella che ha più da perdere. Non è giusto, ma è meglio così. Lei ti ringrazia, ti abbraccia, ti dice che non sa come sdebitarsi, e che, anche volendo, non saprebbe come fare. Ed è strano, perché sei tu che in quel momento vorresti scusarti con lei per quello che ha subìto, per quella violenza inaudita, per il silenzio complice di decine di persone, di italiani, che hanno assistito alla scena senza muovere un muscolo. Vorresti chiederle scusa per essere ospite di un paese che la tratta come una criminale perché è donna e perché è nera. Vorresti chiederle scusa, come italiano, e dirle che questa non è l’Italia, anche se non ne sei più così convinto. Ti accorgi che è da un’ora che la conosci, ma non sai nulla di lei. C’è appena il tempo per scambiarsi i nomi, un frammento della sua storia, tra la Toscana e Parigi, tra il sogno di diventare una parrucchiera di successo e la realtà di sfruttamento, lavori neri, precari e malpagati, ogni settimana uno diverso. Si chiama Mailuna, il nome è di fantasia, ma la violenza di quelle parole, la sensazione di essere stata violata nel proprio intimo, nell’indifferenza generale, quella è reale, viva, e non se ne andrà con un bicchier d’acqua al vagone ristorante. L’ultima cosa che vedi di lei, prima che scenda dal treno, è un sorriso. E ti sembra impossibile che sia della stessa ragazza che fino a mezz’ora prima stava per scoppiare in lacrime. E allora capisci che ne vale ancora la pena. Di restare umani. Di alzarsi in piedi e andare a occupare fisicamente quel posto dalla parte giusta della storia che decine di passeggeri e milioni di italiani hanno rinunciato a prendere. Fai in tempo a chiederti dove sarà ora Mailuna, cosa farà stasera, quello che deve aver passato fino ad oggi, chi diventerà, dove la porterà la vita tra cinque, dieci, vent’anni. E, per un attimo, le auguri che sia ovunque ma non in Italia. È un attimo, già, solo un attimo. Perché, tra i due, tra Mailuna e quell’uomo sulla quarantina dalla montatura spessa, lo straniero non è e non sarà mai lei. Vorresti urlarglielo, ma è troppo tardi. È tardi per un sacco di cose. È accaduto oggi, poco fa, su un Frecciabianca, da qualche parte in Toscana, Italia, pianeta Terra, 2019. Resistere! Resistere! Resistere!
Boccia (Pd): “L’autonomia secondo Fontana e Zaia serve a spaccare definitivamente il Paese”. “Il Paese è già stato spaccato in passato. Se guardiamo tutto il bilancio dello Stato si capisce che il sud è già stato abbandonato da decenni”. Paola Venturelli lunedì 22 Luglio 2019 su Italia Chiama Italia. Francesco Boccia, deputato del Pd, è intervenuto su Radio Cusano Campus sul caso Autonomia: “L’autonomia secondo Fontana e Zaia serve a spaccare definitivamente il Paese. La loro idea è ‘lavoro-guadagno, pago-pretendo’, con questa impostazione non vanno da nessuna parte”. “Il Paese è già stato spaccato in passato. Guardiamo Ferrovie, io ho pagato le tasse in questi 25 anni e con le mie tasse l’alta velocità è stata garantita al nord, che facciamo saliamo dal sud al nord con gli zainetti, smontiamo i binari dell’alta velocità e ce li portiamo al sud? Nella mia Puglia l’anno scorso la crescita è stata del 3%, non ha nulla da invidiare alle altre regioni e ha dimostrato che ci può essere un mezzogiorno diverso. Rispetto ai numeri, in Puglia 4,5 dipendenti comunali ogni 1000 abitanti, l’efficiente Lombardia 6,5 ogni 1000, che facciamo mandiamo un pullman in Lombardia e ci portiamo giù due dipendenti? Se guardiamo tutto il bilancio dello Stato si capisce che il sud è già stato abbandonato da decenni. Io ho fatto un’interpellanza parlamentare nella quale chiediamo al governo se siano veri o meno alcuni dati che riguardano la differenza che in questi anni non è stata erogata al mezzogiorno su investimenti pubblici e su alcuni servizi mirati. Negli ultimi 20 anni il mezzogiorno ha avuto 61 miliardi in meno. Se vogliamo parlare di autonomia facciamolo, recuperiamo quei 61 miliardi e poi sediamoci al tavolo con tutte le regioni. Dobbiamo fissare, come dice la Costituzione, i livelli essenziali di prestazioni. Dobbiamo decidere cosa viene garantito a tutti gli italiani sui servizi pubblici e sui servizi alla persona. La storia che le siringhe costano meno al nord e più al sud è una bufala, una cosa ridicola. Certo, poi ci sono luoghi dove sono stati fatti disastri, ma questo non significa nulla. Questa ricostruzione grottesca che al nord c’è l’efficienza e al sud no la rifiuto totalmente”. Sul PD. “Penso che Zingaretti abbia avuto sulle proprie spalle un onere non semplice, quello di mettere insieme i cocci di un partito che è stato giudicato dagli elettori. Per questo trovo stucchevoli le beghe interne, come quelle di Renzi che è andato in Silicon Valley, dove ci sono elusori ed evasori fiscali, anziché andare nei politecnici italiani. Zingaretti si è insediato il 17 marzo, ha riportato il partito al 23%. Abbiamo anche il presidente del Parlamento europeo del PD. Zingaretti ha uno stile che è quello di costruire e non distruggere, mettere insieme e non separare o scindere. Si stanno sciogliendo i dubbi e i nodi sui singoli dossier. Dopo la Costituente delle idee sarà chiaro a tutti l’impianto che il PD presenta alla società italiana”. Sulla mozione di sfiducia. “E’ stato un errore presentare la mozione di sfiducia in quel modo. Quando cade un governo lo decidono i componenti del governo. E’ evidente che quella mozione in quel momento non può far altro che ricompattare la maggioranza. Era più giusto ascoltare il premier riferire in Senato e poi decidere”.
Da Libero Quotidiano l'8 agosto 2019. "Il Fatto Quotidiano paragona Di Maio a Dybala. Mi sembra un insulto alla testa oltre che ai piedi". Vittorio Feltri non usa mezze parole per esprimere tutta la sua bassa stima (per usare un eufemismo) nei confronti di Luigi Di Maio, il leader dei Cinquestelle di cui non ha mai parlato molto bene. E decisamente non è d'accordo con l'azzardato paragone calcistico proposto da Marco Travaglio sul suo quotidiano. Qualche settimana fa, parlando del vicepremier e del caso Alitalia, Feltri aveva toccato vette altissime. "Del problema si occupa un tanghero come Di Maio, un omino totalmente incapace di tenere la contabilità della serva. Se una ditta incassa dieci e spende 20 è fatale che vada a ramengo. Nel caso di specie pure un cretino sarebbe arrivato a una logica conclusione. Il mondo è pieno di flotte che applicano tariffe modeste, e possono tenere prezzi bassi poiché hanno tagliato drasticamente le spese, a cominciare da quelle del personale, che percepisce stipendi assai contenuti".
Autonomia, scontro in tv Emiliano-Fontana. «Basta dire terroni». «Ma che c... dici». Scintille tra i due governatori di Puglia e Lombardia in diretta a Sky tg 24. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Settembre 2019. Si è scaldato dopo pochi minuti il dibattito tra tre governatori sull'autonomia in diretta questo pomeriggio su SkyTg24. «Voi lavorate e noi vi sfruttiamo...» ha detto il presidente lombardo Attilio Fontana commentando la lettura sull'autonomia che stava dando il presidente pugliese Michele Emiliano. «Smettila di dire che i terroni non lavorano», la replica di Emiliano, al che Fontana è sbottato: «Ma che c...dici?». «Ho detto una cosa completamente diversa - ha proseguito Fontana - noi saremmo quelli che sfruttano e voi quelli che lavorano? E’ il vizio di fondo questa contrapposizione tra nord e sud che avete voluto far nascere». Il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha ricordato che «negli anni passati si è chiesto di trattenere i 9/10 della fiscalità e questo non vuole dire autonomia, ma secessione. E io dissi state sbagliando, perchè io che con voi voglio l’autonomia differenziata dico che chi raccontava quello è diventato il miglior alleato di chi ha messo il nord contro il sud». Bonaccini ha ricordato che «la differenza molto profonda è sulla scuola» rispetto all’autonomia chiesta dalla Lombardia e Fontana ha sottolineato che «vogliamo avere le competenze sulla sanità perchè siamo vincolati da una norma nazionale che non ci consente di assumere medici». «Fontana non si accorge di dire le stesse cose che diciamo noi», ha commentato Emiliano. "Probabilmente sbaglio qualcosa», l’immediata replica del governatore lombardo, che ha respinto anche la lettura data dal governatore pugliese sulla caduta del governo: «Basta far cadere i governi sul tema dell’autonomia, Salvini l’ha fatto anche perchè incalzato dai suoi governatori», ha detto Emiliano. "Questa è una vulgata assolutamente non vera», la risposta di Fontana.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 22 novembre 2019. Dalla democristiana Balena Bianca siamo precipitati alle acciughe rosse e ciò contraddice la teoria di Darwin relativa alla evoluzione della specie. Un tonfo che tuttavia costituisce una metafora significativa di questi nostri tempi che segnano il disastro della politica. Non bastavano i grillini a darci il senso della decadenza, ci volevano le sardine che stanno bene in scatola e non quando la rompono ogni dì. Portiamo pazienza, è la realtà. Se ci prendono a pesci in faccia, occorre rassegnazione. Rimane da domandarci che cosa vogliano da noi le alici. Essere mangiate? Provvederemo. Esse, se abbiamo compreso i loro intenti, ce l'hanno con Salvini e si mobilitano numerose nelle piazze per contrastarlo. Hanno un programma monotematico: uccidere il nemico lombardo il cui consenso è debordato dal Nord al Centro e perfino al Sud. La popolarità del Capitano, inattesa e straripante, irrita la sinistra che però è incapace di contenerla, il Pd con le proprie forze in estinzione non ce la fa ad arginare la Lega, cosicché, non sapendo che pesci pigliare ha organizzato a latere un allevamento di sarde che finiscono sott'odio anziché sott'olio. E si illudono di frenare l'avanzata di capitan Findus, che le congelerà e le offrirà in pasto agli elettori. Se i gilet gialli transalpini non hanno combinato un accidenti in Francia, figuriamoci cosa potranno fare in Italia alcune migliaia di pesciolini fuor d' acqua. I quali non hanno alcuna strategia se non quella di dire "no" a qualsiasi iniziativa Salviniana, ignari del fatto inequivocabile che il Capitano è ascoltato dal popolo per una semplice ragione: lui parla alla gente e ne interpreta le esigenze a differenza dei progressisti che pensano allo ius soli, si rivolgono ai fighetti dei quartieri alti e trascurano coloro che abitano nelle case popolari. Tali sardine sono insipide, assomigliano a quei ragazzi che assiepano le platee dei concerti pop, cui piace andare in delirio con l' ausilio di droghe e di accordi musicali spacca orecchie. Personaggi di questo genere, che non riescono a migliorare se stessi, è ovvio non possano che peggiorare una politica stracciona quanto l' attuale. Ridateci la Balena Bianca e lasciateci Salvini.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2019. Ieri il nostro ottimo Giuliano Zulin ha scritto un fondo sull'evasione fiscale nel quale ha posto in evidenza le manchevolezze dello Stato, svelto nel pretendere dai cittadini le tasse e lentissimo nel pagare i creditori, al punto che migliaia di persone aspettano di riscuotere il dovuto dalla pubblica amministrazione, però obbligate a sborsare le imposte in tempi stretti. Già questa ingiustizia basterebbe a capire il motivo per cui il fisco è disprezzato e per nulla accontentato nelle sue richieste folli e inique. Ma il punto è un altro. Versare le imposte è un atto obbligatorio e bisogna farlo alla luce del sole. I contribuenti sono costretti tutti a stilare la denuncia dei redditi ogni anno, e non si capisce perché le loro dichiarazioni debbano rimanere segrete in quanto protette dalla privacy. Un tempo non troppo lontano ciò che ciascuno di noi introitava col proprio lavoro o con le proprie rendite veniva stampato dai giornali, nazionali o provinciali fossero. La gente leggeva avidamente le cifre e si rendeva conto se qualcuno avesse ciurlato nel manico. C'era un controllo sociale rigoroso sulla fedeltà delle somme incassate dal vicino di casa. Se io scrivevo sulla "Vanoni" di aver percepito cento milioni e il mio tenore di vita era superiore a tale importo, scattavano le verifiche e i furbetti erano incastrati. Attualmente il contribuente imbroglione la fa franca perché nessuno sa nulla giacché i redditi di ciascuno di noi non possono essere divulgati dalla stampa. In mezza Europa invece si continua a renderli noti cosicché gli esattori sono all' altezza di capire chi froda. Seguitiamo a dire che bisogna fare la lotta all' evasione, ciononostante non ci dotiamo degli strumenti idonei a scovare coloro che evadono.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 9 dicembre 2019. Se sfoglio i giornali trovo paginate dedicate all'odio, come se fosse un'emergenza nazionale. Se guardo la tv, noto che, su qualsiasi rete, si discetta con toni allarmati di questo sentimento. Ogni discussione pubblica e privata finisce per trattare il tema dell'acredine crescente nel nostro Paese che pure ha ben altri problemi. Intanto vorrei puntualizzare che detestare una persona o un partito o un gruppo di individui non è vietato. Infatti non esiste il reato di odio per cui ciascuno di noi è libero di disprezzare a piacimento chiunque senza incorrere nei rigori della legge. Gli odiatori hanno il diritto di esercitarsi quanto garba loro nell' esecrazione, sia rivolta alla moglie, ai figli, ai parenti tutti o ad altri, tra i quali gli avversari politici. Impedire a un uomo o a una donna di avere in forte antipatia un proprio simile è insensato, così come lo sarebbe vietargli di amarlo e di sacrificarsi per lui. Quello che cova nell' animo di un essere vivente può talvolta essere disdicevole o addirittura turpe, però è insindacabile se non si traduce in azioni violente e contrarie alle disposizioni dei codici penale e civile. Se a me stanno sulle balle Di Maio e Scanzi non me ne vanto, tuttavia non per questo devo essere censurato. È affare mio e soltanto mio, non perseguibile in termini normativi. Tra l' altro mi sembra di aver capito che, in questa congiuntura, sia lecito maledire Matteo Salvini e Giorgia Meloni, cosa che fanno tutti quelli di sinistra, mentre sia proibito disdegnare i pesci in barile, cioè le sardine, oppure Zingaretti e la sua troupe di ex e post comunisti. Perché due pesi e due misure? Non riesco a convincermi che esista un livore buono e uno cattivo. Io aborrisco tutti quelli che odiano eppure non li condanno.
Roma, insulti a Raggi: Vittorio Feltri rinviato a giudizio. Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 da Corriere.it. «Molti ricorderanno un “raffinatissimo” titolo che mi dedicò oltre due anni fa il quotidiano Libero, “La patata bollente”, e un articolo di Feltri condito dai più beceri insulti volgari, sessisti rivolti alla mia persona: nessun diritto di cronaca esercitato né di critica politica... semplicemente parole vomitevoli. Avevo annunciato che avrei querelato il giornale e i suoi responsabili per diffamazione. L’ho fatto e oggi voglio darvi un aggiornamento: mi sono costituita parte civile ed il gup di Catania ha disposto il rinvio a giudizio per il direttore Vittorio Feltri e per il direttore responsabile Pietro Senaldi»: con questo lungo post sul suo profilo Facebook la sindaca di Roma, Virginia Raggi, annuncia che la vicenda tra lei e il giornalista è finita in un’aula di tribunale. «Una battaglia per chi non si rassegna a un clima maschilista. È un primo importante risultato - continua Raggi -. Non tanto per me, ma per tutte le donne e tutti gli uomini che non si rassegnano a un clima maschilista, a una retorica fatta di insulti o di squallida ironia. E il mio pensiero va a tutti coloro, donne e uomini, che hanno subito violenze favorite proprio da quel clima». Lo sfogo della sindaca sui social non si ferma qui e si trasforma in un’invettiva contro i giornalisti, per lo meno contro alcuni (attacchi a cui gli esponenti M5S non sono estranei): «Gli pseudo-intellettuali, i politici e alcuni giornalisti che fanno da megafono ai peggiori luoghi comuni, nella speranza di vendere qualche copia o conquistare qualche voto in più, arrivano persino a infangare la memoria di figure istituzionali come Nilde Iotti o a insultare le donne emiliane e romagnole. Patata bollente e tubero incandescente mi scrivevano... io non dimentico... vediamo come finisce in tribunale questa vicenda».
Da unionesarda.it il 12 dicembre 2019. Vittorio Feltri è stato rinviato a giudizio per l'articolo dedicato più di due anni fa a Virginia Raggi dal quotidiano Libero. "La patata bollente", era il titolo di apertura del quotidiano. Lo ha annunciato la stessa prima cittadina della Capitale, scrivendo che il Gup di Catania, "accogliendo la richiesta della procura, ha disposto il rinvio a giudizio per il direttore Vittorio Feltri per diffamazione aggravata". "Molti ricorderanno un raffinatissimo titolo che mi dedicò il quotidiano Libero, e un articolo di Feltri condito dai più beceri insulti volgari, sessisti rivolti alla mia persona. Nessun diritto di cronaca né di critica politica esercitato, semplicemente parole vomitevoli", scrive sul suo profilo Facebook la Raggi. Con Feltri è stato rinviato a giudizio anche il direttore responsabile del quotidiano Pietro Senaldi. "Avevo annunciato che avrei querelato il giornale e i suoi responsabili per diffamazione. L'ho fatto e mi sono costituita parte civile", continua il sindaco. "Feltri e Senaldi andranno a processo per diffamazione aggravata. È un primo importante risultato, non tanto per me, ma per tutte le donne e gli uomini che non si rassegnano a un clima maschilista, a una retorica fatta di insulti e squallida ironia". "Il mio pensiero - conclude la Raggi - va a tutti coloro, donne e uomini, che hanno subito violenze favorite proprio da quel clima. Gli pseudo-intellettuali, i politici e alcuni giornalisti che fanno da megafono ai peggiori luoghi comuni, nella speranza di vendere qualche copia o conquistare qualche voto in più, arrivano persino a infangare la memoria di figure istituzionali come Nilde Iotti o a insultare le donne emiliane e romagnole. Patata bollente e tubero incandescente mi scrivevano. Io non dimentico, vediamo come finirà in Tribunale questa vicenda".
(ANSA il 13 dicembre 2019) - "Come prima cosa devo dire alla signora Raggi che non la ho in antipatia, anzi mi sta simpatica. A volte l'ho anche difesa. Sul merito posso solo dire che io sono direttore editoriale e non ho alcuna responsabilità sui titoli, al massimo li propongo. Nel mio pezzo non c'era nulla di assertivo, sostenevo solo che se qualcuno va a parlare con un collaboratore a cui ha aumentato lo stipendio sul tetto la cosa lascia perplessi...". Così il direttore editoriale di Libero, Vittorio Feltri, interviene dopo la decisione del Gup di Catania di rinviarlo a giudizio per diffamazione aggravata nei confronti della sindaca di Roma, Virginia Raggi, per l'articolo intitolato "La patata bollente". "E' una cosa curiosa il rinvio a giudizio - dice Feltri all'ANSA -, non capisco quale sia l'imputazione. Se il problema riguarda il titolo, ricordo che l'espressione "patata bollente" fu usata anche da Lilli Gruber contro la Boschi e dallo stesso Libero nei confronti di Ruby Rubacuori, ma in quel caso, essendo lei marocchina, evidentemente non interessava a nessuno. Anche questo fa un po' ridere...". Sul titolo non si deve chiedere a me - sottolinea Feltri -, bisogna chiedere al direttore responsabile Pietro Senaldi, è lui che approva i titoli. Quel titolo non l'ho neanche suggerito io, ma confesso che quando l'ho visto mi ha anche divertito. D'altronde sul vocabolario 'patata bollente' significa questione scottante". "Comunque non ci vado neanche al processo - prosegue il giornalista -. Cosa che devo dire? Non mi è mai passato per la testa di offendere la Raggi, mi sta anche simpatica".
Vittorio Feltri contro Virginia Raggi: "A processo per il titolo? Ecco che cosa mi deve spiegare". Libero Quotidiano il 13 Dicembre 2019. Gentile dottoressa Raggi, sindaco di Roma, ho letto il suo comunicato in cui annuncia trionfalmente di aver ottenuto dal Gup di Catania il mio rinvio a giudizio, oltre che di Pietro Senaldi, per un titolo a lei dedicato oltre due anni fa da Libero, «Patata bollente», sopra un mio pezzo in tema assolutamente rispettoso della verità. Capisco la sua gioia nel costringere due giornalisti a rispondere del loro lavoro in Tribunale, persone non grilline e neppure smaccatamente di sinistra, quindi antipatiche e degne di fucilazione. Si dà però il caso che l' espressione «patata bollente» sia di uso comune, tanto è vero che una femminista incallita quale Lilli Gruber dovette annunciare la proiezione su La7 di un film intitolato appunto Patata bollente. E questo sarebbe niente. Qualche tempo dopo l' eccellente conduttrice nel commentare lo scandalo riguardante Maria Elena Boschi relativo a Banca Etruria, disse apertis verbis che Gentiloni si sarebbe trovato a gestire una patata bollente. Quindi si deve dedurre che se la patata bollente è in bocca alla Gruber è ottima, se invece esce dalla penna di un cronista di Libero è sessista e discriminatoria. Non le sembra assurdo e paradossale? Quanto al mio articolo rigorosamente narrativo mi sono limitato a sottolineare la stravaganza di un fatto: lei andava a parlare con un suo collaboratore, cui aveva aumentato lo stipendio, sul tetto dell' edificio comunale. E io segnalai la stranezza della cosa affermando che a me non era mai capitato di conversare con una mia giornalista sotto le tegole. Una semplice osservazione confermata dalle cronache. Niente di male. Ma non vorrà negare che la sua scelta di salire in cielo onde chiacchierare con quel signore non rientrava nelle consuetudini di un sindaco. Scrissi che le sue supposte ed eventuali debolezze (chi non ne ha) meritassero le stesse valutazioni riservate a Berlusconi. Frase dubitativa, non assertiva. Quindi non comprendo perché lei ce l' abbia con me visto che in varie circostanze l' ho difesa da attacchi politici e personali. Io credo che certe controversie non vadano affidate alla magistratura che usa il coltello anziché il bilancino del farmacista. Se lei ed io ci fossimo parlati non saremmo arrivati a questo punto morto. Mi creda, con stima. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri, il racconto di una notte da incubo: prostitute, transessuali e cocaina come "carburante". Libero Quotidiano il 23 Novembre 2019. Pubblichiamo un articolo di quasi 40 anni fa del direttore Vittorio Feltri. Racconta di una notte in giro a Milano con la Buoncostume: le strade erano piene di "passeggiatrici" e trans. Oggi le scene sono le stesse di allora.
Com'è triste Milano sotto i lampioni. Sono cresciuti nuovi grattacieli, le vecchie palazzine liberty sono state stuccate e riverniciate, le «600» e le «1100» del dimenticato miracolo economico sostituite dalle «Ritmo» e dalle «Regata» ma il panorama notturno è quello di sempre: donne che attendono nell'ombra con la borsa penzoloni, uomini che le caricano in macchina dopo brevi trattative, che talvolta si concludono tra risa sguaiate. E dire che in recenti saggi dei soliti sociologi prêt-à-porter avevo letto che la prostituzione si sta estinguendo per il calo della domanda; il maschio anni Ottanta non cercherebbe più l' amore a pagamento, dato che ce l' ha gratis. Dove e quando vuole; in ufficio, al bar, in discoteca, sul tram. Secondo gli esperti da boutique, non ci sarebbe ragazza, ormai, che si neghi per principio; se le vai a genio, basta un' occhiata per combinare. Sarà. Ma non per tutti. Almeno non per quelli - alcune migliaia - che ho visto in azione, una sera, per procurarsi qualche minuto di svago. Ho fatto un giro, con la mitica squadra del buoncostume, in vari quartieri, nelle ore di punta: dalle 10 alle 2 di notte; ho scoperto che non ci sono amiche, fidanzati e conoscenti disponibili che tengano: il genere che va per la maggiore resta la passeggiatrice, o il passeggiatore sotto mentite spoglie che, come vedremo più avanti, è assai in voga. Non potevamo non cominciare da piazza Castello e dintorni, luoghi da sempre deputati ad esercizi sbrigativi. La macchina amaranto della polizia, che nel gergo professionale è definita civetta, in quanto priva di contrassegni, si ferma di fronte al capolinea dell' Autostradale. I fari inquadrano quattro gambe ben sagomate. Appartengono a due vistose ragazze in divisa da marciapiede: minigonna, tacchi arditi, scollatura generosa. Si sottopongono, mansuete, al controllo dei documenti; si direbbe che erano preparate alle richieste degli agenti. Osservandole da vicino, mi accorgo che la prima impressione era sbagliata; hanno ginocchia livide, scarpe sformate, abiti modesti; i loro volti, dietro spessi strati di cipria, sono inespressivi, sembrano maschere; gli occhi, sovraccarichi di belletto nero, ostentano indifferenza, freddezza. Da un pullman austriaco scendono una cinquantina di turisti anziani che si dirigono verso l' edificio sforzesco; alcuni si voltano, e una delle signorine reagisce facendo boccacce. I poliziotti fingono di non aver visto. Il maresciallo, prima di congedarsi, domanda: c' è movimento stasera? Rispondono di malavoglia: «Come al solito, i clienti ci sono, mancano i soldi». E scoppiano a ridere. Apprendo che sono drogate, «fatte» fino al collo, precisano i miei accompagnatori. Eroina e cocaina sono i carburanti delle neoprostitute, da quella professionale a quella dilettantistica. Ci sono quelle che battono per la bustina e quelle che la prendono per darsi il coraggio di battere. Le prime lavorano part-time, occasionalmente, e non sono incluse in alcuna statistica; le altre, circa seicento, vanno riciclandosi: da stradaiole si trasformano in stanziali, tendono a disbrigare le pratiche in casa, perché rende di più, consente di selezionare la clientela e tiene al riparo dai rischi: scippatori e vagabondi.
LE PENDOLARI. A parere della buoncostume, bisogna poi tener conto delle pendolari che costituiscono un fenomeno relativamente nuovo: ragazze che hanno un lavoro, che abitano fuori Milano, e che, aspettando il treno o il pullman, si danno da fare. Arrotondano. In un' ora o due guadagnano, minimo, duecentomila lire che servono per il parrucchiere di grido, la pelliccetta, lo chemisier firmato. Esordiscono quasi sempre per scherzo, o per scommessa; invogliate da amiche che già «svolgono» con profitto. Sulla piazza sono molto richieste, perché offrono all' utente, a parità di prezzo con la concorrenza, maggiori attrattive: intanto, un «prodotto» più fresco se non di migliore qualità; soprattutto, la passeggiatrice di complemento profonde nelle prestazioni un impegno superiore rispetto alle veterane. La categoria è difficilmente quantificabile; a occhio e croce le appartenenti saranno 2.000, ma il numero, se è inesatto lo è per difetto. La civetta amaranto adesso si blocca nei pressi dell' Arena. Il traffico è intenso, nonostante sia mezzanotte; si forma un ingorgo, ed è subito strepito di clacson rabbioso. Attorno alle piante, vari campanelli di donne. Gli agenti le chiamano a raccolta per adempiere al rito delle verifiche; nessuna protesta. Affondano la mano nella borsetta, estraggono portafogli sgualciti e consegnano diligentemente i documenti. Una, claudicante, con tacchi a spillo uno più lungo dell' altro, mostra la fotocopia della carta d' identità, e spiega in vernacolo pugliese, che sembra l' imitazione di Banfi: «L' oriccinale lo tenghe a casa, che è la decima volta che me l' arrubano la borsetta con tutt' e cose dentro». Il maresciallo sorride e annota nome e cognome. «È l' unica arma che ci rimane - dice -. Chi non è in regola finisce in questura, ma le italiane di solito lo sono. Le straniere, invece, spesso passano dei guai perché non hanno il permesso di soggiorno». Straniere? «Già, non lo sapeva? Almeno la metà di questa gente è di importazione: Sudamerica, specialmente. Una volta erano soltanto ragazze; adesso anche travestiti, un esercito». Vicino alla claudicante ce n' è uno: stivaletti di camoscio, flosci, minigonna d' ordinanza, unghie laccate, busto solido ma corredato di specificità femminili; il timbro di voce è inconfondibilmente maschile: «Io non sono mica straniero, né. Vengo da Viggiù, faccio la spola. Qui ci ho un pied-à-terre». I poliziotti sono cortesi con lui come con le colleghe. «Quando cambi forma? » gli domandano. «Presto - risponde -. Ho messo da parte i soldi per l' operazione. A giugno, zac. Inscì, sunt a post. Casablanca? Neanche per sogno, Stati Uniti, loro sì che sono all' avanguardia in taglio e cucito, minga i tunisini che al massimo vann ben per i tappeti. Cosa le pare a lei, bel giovinotto, le sembro tipo da marocchini? ». Il giovanotto sarei io. Approfitto della simpatia che suscito in lui per approfondire la questione. Quanti siete voi (Non oso dire travestiti, mi pare spregiativo). «Noi chi? I trans? Un' infinità, guardi. Dieci anni fa, che ho cominciato io, beh, eravamo una rarità. Vita dura perché allora non c' era ancora la mentalità, e tante volte ci facevano correre, parolacce e botte in testa sa? Ma anche soddisfazioni, che essendo noi più pochi, i clienti erano parecchi. Adess l' è un disastro: soltanto qui al Parco saremo cento. Cosa dico, duecento. In Milano siamo più di quelli di Garibaldi, almeno mille. Oddio, c' è da fare per tutti. L' importante è che si fermi la legione straniera, che di baluba ne arriva uno al giorno».
LE TARIFFE DEI TRANS. Non oso chiedere qual è la tariffa, non vorrei essere scambiato per uno che ha una mezza intenzione. Provvede la squadra a soddisfare le mie curiosità: da 20 mila, per un servigio spiccio sullo sterrato ai bordi della rotabile, a 100 per un' opera completa, alloggio incluso. Non c' è differenza, in pratica, con i listini in vigore nel settore tradizionale. Imbocchiamo via XX Settembre. È avvolta nella penombra, sembra un artifizio cinematografico per ambientare una scena di vita notturna nella metropoli. Solide ville e austeri palazzi novecenteschi, ampi giardini, siepi ubertose che addolciscono cancellate. C' è, vicino a una cancellata, una signora attempata che sorride. La interrogo. Mi confida che fa la vita da decenni. E aggiunge serafica: «Campo decentemente. Me custa nient. Ci ho il mio appartamento, i miei capricci. Ogni tanto le mando qualcosa alla mia figlia, ghe basten mai. Lei sta a Reggio Emilia, io preferisco rimanere qui, logicamente. Sebbene che si sappia quello che faccio, lo sanno tutti tranne il mio nipotino, spero. Mi dicono di smettere, ma se ci do i soldi, i ciappen e parlen no. Mio padre poveretto ci soffriva. Nove figli maschi, bravissimi lavoratori, l' unica femmina, putana». È scatenata, il suo racconto punteggiato di risate rauche e, gorgoglianti: «Protettore? È una razza scomparsa. Le donne hanno imparato a farne a meno, anche le giovani. Era ora. Io ho sempre rifiutato. Ci han provato in tre: uno mi ha sparato, uno mi ha dato una coltellata, l' ultim el m' ha sbattùu foera do dent. No oggigiorno è diverso: si incassa meno ma si campa meglio». Cinquanta metri avanti, eccone un' altra. Stessa età; stessi timori, retaggio di un' epoca non poi così lontana, quando le prostitute, una sera sì e una no, finivano nel cellulare, erano portate in questura e trascorrevano il resto della notte in guardina, uno stanzone con quattro panche per venti o trenta recluse; unico comfort, lo storico bugliolo. Negli occhi sgranati della logora reduce sfilano, probabilmente, le immagini di quei ricordi che il nostro approccio ha risvegliato. «Che stremizzi, gent - dice-. Mi fate venire l' angina pectoris». Ormai rassicurata, riprende ad armeggiare sulla siepe i cui rami sporgono da un muretto. «Cosa fai?» domanda un poliziotto. E lei: «O bèla mi serve per i fiori, ci ho il terrazzo pieno, mi serve un po' di verde, chi ghe n' è tant, per una foglia non li mando mica in malora i padroni. Cosa dici te, poliziotto?». Non demorde ma il ramo non si stacca: provo io ed ho sorte migliore. Per la gioia emette un grido ma si porta subito la mano sulla bocca: «Scusate, l' è minga l' ora de fa burdell, ma ci tenevo troppo. Grazie».
LE STORIE. Una dopo l' altra le passiamo in rassegna tutte: solita trafila dei documenti, solite storie. A una, sui 40 anni, preme sottolineare che è sul punto di abbandonare. «Questione di un anno o due - proclama con orgoglio- : i figli sono grandi, studiano in collegio, bravi ragazzi. La macchina è pagata, due palanche le ho, mi manca giusto qualche rata della casa e sono sistemata. Gli affari? Stasera maluccio, per la verità è un periodo di fiacca, spopolano i travestiti». Non ha torto. Nella zona intorno alla Rai, pullulano. Impossibile per me, che non sono del ramo, distinguerli dalle donne. Due signorine ballano in mezzo alla carreggiata, i fasci di luce dei nostri fari ne mettono in rilievo le gradevoli rotondità, esaltate dall' abbigliamento: jeans attillati, magliette maliziose. L' autista della buoncostume frena bruscamente, gli agenti schizzano fuori dall' abitacolo fra lo sbatacchiare delle portiere. «Ma che fate, la danze del ventre sulle strisce pedonali?». La più giovane, una ragazzina, arrossisce. Ha i capelli dritti, castano chiari; un faccino da seconda liceo, con le lentiggini; una qualsiasi figlia di famiglia. «Documenti», sollecita severo un sottufficiale. Glieli porgono tremando: sono spagnole, vengono da Barcellona. «Che ci fate qui?». L' educanda non fiata, fa una smorfia che significa: «Sì, proprio quello che pensate». Ce ne andiamo. «Pazzesco - commento più tardi - due bambine». «Sì, bambine - aggiunge ironicamente un poliziotto - vedesse che roba». «Quale roba?». «Faccia uno sforzo di fantasia, quelli sono uomini». «Uomini?». «Maschi, e come glielo devo dire?». Giuro che non ci credo. Dinanzi a un bar dondola un negro con la sottana, persino io capisco che è un giovanotto. Dei cerchi come piatti gli pendono dalle orecchie, il rossetto è tracciato da mano inesperta, i denti spaziati; è tragicamente buffo. Ha pure lui il problema dell' intervento per cambiare sesso, ne parla appassionatamente: «Forse in settembre - sostiene - avrò la cifra necessaria; poi andrò in Canada, mia sorella mi ha promesso di ospitarmi, le sarò di aiuto in casa finché non troverò un lavoro, uno qualunque. Sono stufa della strada». La polizia lo ascolta con partecipazione, non gli dice frasi sconvolgenti o battutacce. Il maresciallo, che da 22 anni fa questo mestiere, si comporta come un assistente sociale, un medico condotto: dispensa consigli sui certificati, sui passaporti che scadono, sul rinnovo dei permessi. Il suo nome è Salvatore Marzano. Intuisce quel che mi passa per la mente e sbotta: «Che altro potrei fare, prenderli a calci? Sono dei poveracci, all' inizio mi mandavano in bestia ora mi fanno pena; e non per quello che sono, che non me ne frega niente, ma per come si guadagnano da mangiare».
I PERICOLI. Attraversiamo la città. Pizzerie, paninerie e trattorie rigurgitano folla. Strade intasate, e sono le due di notte. Ma dove vanno? Arriviamo di fronte al Palalido, sul piazzale ancheggiano alcune falene, attorno alle quali turbina un carosello di macchine; la più brutta è una BMW targata Mantova. La presenza degli agenti non scoraggia i corteggiatori, non hanno remore nel porsi in evidente, e paziente, attesa del loro turno di emozione trasgressiva. Una - uno, mi correggo - corre piagnucolando incontro al maresciallo Marzano: «Mi hanno scippata, maledetti». «Documenti». «Anche quelli, scippati. Erano nella borsetta. Le posso dare le mie generazioni».
«Darmi che cosa?». «Le generazioni, no?». «Va bene, dammi le generazioni, poi si va in questura a denunciare. Allora, cognome?». Una collega della derubata si siede sbuffando sul parafango di una Mercedes. «Quella cretina - dice - ogni sera ne ha una, che noia». Poi, saltellando raggiunge una Jaguar che lampeggia. Si spalanca lo sportello e la luce si accende; al volante c' è un signore sulla quarantina, elegante chic. L' auto parte con fragore. Possibile? «Possibilissimo - sottolinea - la buoncostume -. Succede 5 mila volte ogni notte. Perché? I travestiti sono sei o settecento; sette o otto clienti ciascuno, faccia un po' il conto». Ma più che la quantità degli estimatori della specialità, mi stupisce il loro livello. Che avesse ragione quell' investigatore privato di Torino? Il quale avviò un' inchiesta sul fenomeno, ma la fermò quasi subito perché, dopo aver fatto il riscontro delle targhe di un centinaio di auto, si accorse che appartenevano a rinomati professionisti e imprenditori. Sarà meglio che rinunci anch' io. Vittorio Feltri
VITTORIO FELTRI - L'IRRIVERENTE. MEMORIE DI UN CRONISTA. Da liberoquotidiano.it il 10 novembre 2019. Si chiama L'Irriverente l'ultimo libro firmato da Vittorio Feltri per Mondadori. Un libro di memorie di una intera carriera giornalistica, il racconto di un direttore che spiega di non aver mai voluto comandare, e che anche per questo è sempre rimasto un cronista. Un libro che il direttore di Libero ha presentato a Roma giovedì 7 novembre. Una presentazione in cui si è parlato di tutto, non soltanto del libro. Il resoconto di quanto accaduto viene fatto da Il Tempo, che dà conto di una battuta di Vittorio Feltri, una sorta di lezione di vita a chi scopre di essere tradito: "Una volta mi hanno chiesto cosa farei se trovassi mia moglie a letto con un altro. Ho risposto: le direi di cambiare le lenzuola". Amen.
Vittorio Feltri per Libero Quotidiano l'8 dicembre 2019. Lo spunto per il mio articolo di oggi viene da Michele Serra, editorialista della Repubblica, il quale, nella sua rubrica sul Venerdì, settimanale allegato al quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, discetta della differenza tra destra e sinistra. Riassumo brutalmente. Secondo lui la prima raccoglie voti di elettori spesso di bocca buona, «che non stanno tanto a sottilizzare». La seconda viceversa riceve consensi da persone più schizzinose, più esigenti. Però non dice che cosa costoro esigano. In parole più volgari ma forse meno vaghe, i leghisti sono dei buzzurri che ragionano poco, mentre i progressisti sono uomini e donne di alto profilo, sensibili e attenti alle reali necessità della società. Può darsi che in queste affermazioni ci sia qualcosa di vero o verosimile. Tuttavia vorrei segnalare allo stimato Serra che la sinistra non è nata ieri, bensì trae origine dal vecchio e defunto Partito Comunista, sostenuto per anni da una folla quasi maggioritaria di modesti lavoratori privi di istruzione superiore, i cosiddetti proletari, che si affidavano al marxismo nella speranza di campare meglio e non avevano illusioni di tipo accademico. Sociologicamente, costituivano una massa simile a quella che attualmente dà fiducia e suffragi a Salvini. Cioè una massa enorme di individui che sono passati in un decennio dalla simpatia per il leninismo e similari a una sorta di affetto per il Carroccio. Mi domando senza spirito polemico: se costoro erano bravi e intelligenti allorché tracciavano la croce sul simbolo del Pci, non possono essere diventati all' improvviso imbecilli poiché oggi preferiscono tracciarla in favore di Alberto da Giussano. Se sono cretini ora, lo erano pure ieri. È improbabile che abbiano subìto una tale negativa mutazione cerebrale nel giro di qualche lustro. Dal mio ininfluente punto di vista i signori e le signore che si sono convertiti al leghismo hanno compiuto un passo avanti e non indietro, data la fine miserrima che ha fatto il socialismo reale. Non vi è dubbio che nella sinistra militino buoni cervelli, le cui idee però si sono rivelate fallimentari, e non lo dico io, lo dimostrano i risultati storici. Pertanto credo sia lecito affermare che i progressisti siano dei cavernicoli, mentre i leghisti vivano il presente con maggiore lucidità.
Vittorio Feltri, la confessione: "Io di destra? Ho pensieri osceni, pensieri di sinistra. Mi vergogno". Libero Quotidiano l'8 Novembre 2019. Vittorio Feltri fa una confessione impensabile ai microfoni di Un giorno da pecora: "Ho pensieri di sinistra, pensieri osceni". "Chi è di sinistra in Italia? Nessuno", continua il direttore di Libero. "La cosiddetta sinistra finta non si rivolge più alle case popolari ma agli attici. Da ragazzo sono sempre stato socialista ma avevo pensieri di destra". Leggi anche: Vittorio Feltri svela il segreto di Montanelli. "Ora tutti dicono che sono di destra ma ho pensieri di sinistra, pensieri osceni. Sono convinto che l'eccesso di liberismo senza regole ferree abbia portato alla trascuratezza totale e all'abbandono della socialità: è un pensiero di sinistra, del quale mi vergogno", dice. Nella scena politica attuale, "Matteo Renzi si è confermato il più furbo di tutti, in un solo colpo ne ha fatti fuori 4. Può piacere o non piacere, ma il ragazzo è sveglio". C'è spazio per parlare del 'confronto a distanza' con Lilli Gruber. "Su 4 ospiti" nella sua trasmissione "3 sono di sinistra e il disgraziato di destra fa molta più fatica e quando apre la bocca viene sommerso. E lei rimane indifferente. Come dice Crozza, ho fatto 3 righe fattuali... Non c'è niente di male a essere di sinistra, ma lo dica...", dice Feltri. "La signora Gruber ha parlato di andropausa grave, ma non è una patologia. L'andropausa ce l'hanno tutti quelli che invecchiano: l'unico modo per evitarla è morire. E' stata un'offesa sessista".
Dagospia il 10 novembre 2019. Da Un Giorno Da Pecora. Le vacanze, le donne, la politica e quell'unico spinello provato nella sua vita. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, il direttore di Libero Vittorio Feltri si è raccontato in una lunga intervista rilasciato a Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Tra poco più di un mese arriverà il Natale: lei partirà per qualche viaggio, magari per una meta esotica? “No, non amo le vacanze e non le ho mai fatte. Il lavoro coincide con la mia passione, mi diverto di più a lavorare che a stare come un cretino su una spiaggia”. Non le piace il mare? “Il mare per me è la cosa più orrenda che ci sia, un ricettacolo di tutte le deiezioni del mondo“. Quindi non ha mai viaggiato. “Quando facevo l'inviato del Corriere della Sera ho girato il mondo, poi mi sono stancato. Ad esempio sono stato a New York”. Le è piaciuta la Grande Mela? “No, mi fa vomitare, è zozza, come Parigi”. New York è' sporca come Roma? “Roma in quanto a zozzeria assomiglia molto a Parigi: due città bellissime tenute come cloache”. Parliamo di bellezza femminile e politica: per lei è più affascinante Maria Elena Boschi o Mara Carfagna? “Io preferisco la Boschi”. Come mai? “Beh, lei fa sangue”. Almeno con lei una vacanza la farebbe... “No. Ci andrei in un motel al massimo”. Ha mai frequentato i motel? “Certo, come no, specie quando ero più indigente. Andavo sempre nello stesso motel ed ero preoccupato dalla possibilità che mi spedissero i panettoni a casa: chissà mia moglie cosa avrebbe detto”. Ha mai avuto una relazione con una politica? “Si”. Di quale partito? “Forza Italia. Ma anche fosse stata di Rifondazione Comunista per me sarebbe andata bene lo stesso...” E chi preferisce tra le due ultime donne di Matteo Salvini, Elisa Isoardi e Francesca Verdini? “Mi piacciono tutte e due”. Meglio il sesso o la sua Atalanta? “Meglio l'Atalanta, almeno una partita dura 90 minuti...” Lei è il più imitato da Maurizio Crozza. “La sua imitazione mi piace sempre, quando lo vedo rido, oggettivamente è molto divertente”. Vittorio Feltri da giovane si è mai ubriacato? “Mai nessuno mi ha visto ubriaco”. E ha mai fumato una canna? “Una sola volta, coi miei figli, perché volevo scoraggiarli”. Com'è successo? “Una sera li convinti a fumare una canna: me l'hanno passata, ho fatto due tiri ed era una schifezza. Gli ho detto: questo è uno schifo, una roba da barboni. Ne ho dette di tutti i colori, ho smontato in ogni modo quello spinello”. E i suoi figli come l'hanno presa? “Dopo molti anni mi hanno confessato che, dopo quella sera, non hanno più fumato”, ha concluso Feltri a Un Giorno da Pecora.
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 21 novembre 2019. Che meraviglia il libro di Giulio Giorello. Il titolo dice tutto: La danza della parola. L'ironia come arma civile per combattere schemi e dogmatismi (Mondadori, pagine 122, 17,00). Il filosofo della scienza di maggior prestigio internazionale che abbiamo in Italia si è cimentato su un tema che in apparenza è quanto di più lontano dalla scienza ci possa essere, e se vogliamo anche questa sfida è essa stessa ironica, è autoironia da Giorello applicata alla propria persona e al proprio mestiere. Del resto non c' è nulla di più serio dell' ironia, ed è il paradosso che dà senso alle giornate. Qualunque sia la situazione che ognuno di noi viva, in qualsiasi amarezza o esaltazione sia sprofondato o innalzato, l' ironia aiuta a veder meglio, allarga l'orizzonte, decanta e incanta. Giorello dà pregnanza filosofica a una verità esistenziale senza cui perfino la morte sarebbe un mortorio. Lo dico di me: in assenza di ironia sarebbe impossibile sopportare gli altri, figuriamoci se stessi. Se non siete d'accordo, toglietemi il saluto, saltate a un altro articolo, anzi cambiate giornale, giacché non siete dei nostri, non siete lettori di Libero. Se c' è un sentimento che il cavallino alato, situato sopra la testata, coltiva come marchio fin dalla nascita, è l' ironia. A volte feroce, quando ci vuole salace (la allegra patata, gli amici ricchioni), ma di norma atta a far increspare appena appena le labbra in un sorriso, talvolta malinconico. I nostri titoli hanno tale scopo: informare con una correzione di sambuca. Si offrono all' intelligenza, aiutando il disincanto persino davanti alle tragedie. Senza la «danza» giorelliana di parole che si spostano immotivatamente fuori dai binari delle frasi fatte e pertinenti, la vita si ridurrebbe a un susseguirsi meccanico di eventi per un attimo entusiasmanti o disperanti e poi subito noiosi. Ho sempre creduto, direi sperimentato, che l' intelligenza o è ironica oppure è idiozia. Il mondo purtroppo è pieno di idioti con un quoziente intellettuale altissimo. Gente che risolve test matematici e di logica post-euclidea con velocità prodigiosa, tuttavia non si sposta più in là dell' ovvio neppure con il carro attrezzi. Poi ci sono quelli che non conoscono il congiuntivo, e sono aggrappati alla loro ignoranza, e se vedono negli altri questa capacità di smarcamento, di immaginazione che esce dai dogmi e dagli schemi, li oscurano, cercano di punirli, denunciarli confidando che chi ha il potere di censurare e di punire sia ottuso come loro. E ahimè spesso confidano giusto. Giorello non lavora in astratto. Non estrae concetti da concetti. Li sorprende al lavoro e ne valorizza la profondità fragile, non perentoria, friabile, sempre rovesciabile con un' altra ironia sull' ironia dove non te l' aspetti. Anzitutto nei fumetti, quando essa è racchiusa nelle nuvolette, e le buca. Comincia da Topolino. Sin dalle prime storie, negli anni '30, la creatura di Walt Disney, grazie al genio di soggettisti e sceneggiatori, nonché disegnatori, infiltra l' apparente cemento armato delle convinzioni indistruttibili, e costringe ad osservare i limiti della presunta onnipotenza dello Stato e l' inesistenza della purezza di intenzioni nei potenti. Pure Paperon de' Paperoni, con il suo cappello a cilindro, la sua tirchieria, la sua capacità di sfruttare tutto e tutti, è una miniera di ironia sottotraccia. Anche le storie di Gambadilegno e della Banda Bassotti non si risolvono mai in una esaltazione dei buoni: «L' ironia colpisce i centri del potere, e anche le istituzioni». Tex Willer e soprattutto Kit Carson, protagonisti del fumetto western italiano, sono campioni di questa virtù del non prendersi troppo sul serio: «Drammi autentici e mosse ironiche si intrecciano indissolubilmente». Nel palcoscenico della vita non è forse la stessa cosa? Chi non vede nei fatti anche più tragici l'ironia al lavoro, e non sa tradurla in uno sguardo, in un gesto o nelle parole, talvolta nelle parolacce, perde il sugo delle cose umane. Scrive Giorello una regola che, applicata alla prima pagina di Libero, è diventata oggetto di scandalo per i nuovi parrucconi progressisti: «L' ironia può venire impiegata anche per capire i rivolgimenti più truculenti della storia». E per dar forza all' asserzione cita Hannah Arendt, finalmente evitando lo stereotipo della banalità-del-male: «Ho creduto che il solo modo di affrontare l' orrore fosse l' ironia. Perché? Perché ero così dannatamente arrabbiata, perché ciò che è successo è a stento credibile». L'ironia è la padrona del libro di Giorello, e credo altresì della sua testa. Egli balza dai fumetti, in cui di questa qualità sottile e impertinente scopre interi giacimenti, ad una domanda: l' ironia è morta? Risponde: «Non direi defunta, ma scomparsa». Non è stata uccisa, poiché è impossibile, essa è una dimensione immortale della natura umana. La differenza è che nelle generazioni precedenti le nostre essa apparteneva al buon senso popolare. Oggi sopravvive in isole sperdute dove campa una minuscola comunità, in alcune compagini di amici: «Piccole compagnie, perché per apprezzare l' ironia bisogna essere almeno in due». La sua scomparsa è così spiegata dal filosofo: «Se è vero, come è vero, che nella rete piuttosto che in televisione, come negli stessi rapporti quotidiani, la tendenza generale è cercare l' appoggio alle proprie idee e vivere tranquilli e sicuri nella conventicola di coloro che la pensano allo stesso modo, c' è veramente poco posto per l' ironia: essa è disturbante». Infatti, «l' ironia è un modo di mettere in questione quei "fondamenti" che prima si credevano intoccabili». Confesso di averne avuto finora un paio anch' io, almeno nel campo della letteratura. Ritenere cioè l' Ulisse di James Joyce e l' Uomo senza qualità di Robert Musil noiosissimi, illeggibili, mattoni da citazioni salottiere come Proust. Con la sua ironia impagabile Giorello insegna a rintracciare pagine di eternità. E l' eternità è ironica, se no che barba.
Scazzo tra Feltri e Sofri a ''Fake'' di Valentina Petrini. Dagospia il 20 novembre 2019. Da ''Fake'' in onda stasera su ''Nove'' dopo ''L'Assedio''. Nel corso della nuova puntata di Fake – La Fabbrica delle Notizie, condotto da Valentina Petrini ogni mercoledì alle 23:30 sul Nove, dopo un contributo video con il climatologo Luca Mercalli si innensca un botta e risposta in studio tra Feltri e la conduttrice Valentina Petrini. Poi subentra il direttore de ilPost.it, Luca Sofri. Ecco qui un’anticipazione, stasera tutto il dibattito con epilogo finale, Feltri avrà lasciato lo studio oppure avrà continuato a difendere le tesi negazioniste sul clima?
Clip: “Come definirebbe gli articoli di Libero sui cambiamenti climatici? (voce fuori campo, ndr)”.
Il climatologo Luca Mercalli: “lo definirei un giornalismo non coerente con il codice deontologico della nostra professione. Io faccio tutte e due le professioni, sono ricercatore in campo climatologico ma sono anche giornalista scientifico iscritto all’ordine e so che nel nostro codice deontologico c’è una regola: bisogna sempre verificare le informazioni e non difendere delle informazioni lesive per qualche categoria sociale. In questo caso l’informazione lesiva della negazione del cambiamento climatico di origine antropica è l’intera umanità.”
Valentina Petrini al rientro in studio: “Feltri, a te la parola”. Vittorio Feltri: “Ma, naturalmente vorrei dire a questo signore che intanto l’iscrizione all’Ordine dei Giornalisti non è che aggiunga dei meriti particolari, anzi... Comunque lui sostiene che gli articoli di Libero siano delle stupidaggini, ma noi che siamo solamente dei giornalisti e non siamo ricercatori...”
Interrompe la conduttrice: “Lui lo è però”, “Ma mi fai finire o vuoi parlare tu?” risponde piccato il direttore di Libero. “Ti stavo semplicemente segnalando che era anche un climatologo”, aggiunge la Petrini. “Sì ma sarà anche il padreterno però noi che non siamo padreterni abbiamo guardato il termometro”, conclude Vittorio Feltri.
Luca Sofri ha uno scambio acceso con Vittorio Feltri a proposito del cambiamento climatico, visto che spesso il giornale diretto da Feltri ha sposato le tesi di coloro che mettono in dubbio che il surriscaldamento sia un fenomeno causato dall’uomo.
“Questo giochino dialettico che se uno obietta una cosa che sta dicendo qualcun altro gli sta dando del cretino... non funziona. Nessuno ti sta dando del cretino, semplicemente le tue (opinioni, ndr) non sono supportate dai dati e derivano dal fatto 1) che giudichi rispetto a quello che è successo a Bergamo - che è come andare in giro per Milano e dire che l’Italia è un paese ricco e florido se uno va in centro a Milano - no, non è rilevante quello che succede a Bergamo, rispetto alla questione del riscaldamento globale, con tutto il rispetto per Bergamo.... ho molti amici bergamaschi come si dice in questi casi...
“Numero due...”, tenta di proseguire il ragionamento il direttore del post.it, ma lo interrompe Feltri “E l’Alto Adige? E il Trentino?’”. “Ci siamo allargati parecchio”, ironizza Sofri. “Anche queste sono periferie?” domanda Feltri. “Sono posti dove nevica a novembre, da sempre, cosa mi stai dicendo...” si accende Luca Sofri. “A metà novembre non nevica? Aprono gli impianti a metà novembre spesso e volentieri. Da anni sù, nevica e fa freddo in Trentino e a Bergamo”. “A novembre, son tutti a sciare a novembre...” commenta Feltri. “Va bene, allora valutiamo il riscaldamento globale rispetto al fatto che nevica in Trentino” la conclusione di Sofri.
Anna Montesano per ilsussidiario.net il 19 novembre 2019. Serata al cardiopalma per il pubblico di Live Non è la d’Urso che ormai vive di liti e di scontri. Come è possibile fare un po’ di discussioni se non mettendo insieme Vittorio Feltri, Vittorio Sgarbi e cinque sedicenti vip seduti nelle sfere pronte a tutto per farsi notare? Barbara d’Urso lo sa bene ma poi deve anche andare incontro a quella che sono le conseguenze del suo modo di mettere in piedi i programmi come l’addio di Vittorio Feltri che esce dallo studio inviperito. Come se questo non bastasse, il direttore è poi tornato sui social per chiarire la sua posizione e, soprattutto, accusare ancora coloro che erano presenti al dibattito ieri sera. In particolare, Vittorio Feltri su Twitter ha scritto: “Il programma della D’Urso stasera è stata fenomenale, una riedizione tardiva del manicomio e di un pollaio meraviglioso pieno di cretine”. Tornerà ancora nei programmi della d’Urso oppure no? Lo scopriremo solo alla prossima messa in onda, quello che è certo è che quando c’è Vittorio Feltri in mezzo gli ascolti al top sono garantiti. (Hedda Hopper)
Vittorio Feltri sbotta e va via. Vittorio Feltri ha dato letteralmente di matto durante il momento “uno contro tutti” a Live Non è lo D’Urso. Il giornalista e direttore di Libero, impegnato a rispondere alle domande degli sferati, ha cercato di rispondere alla polemica legata a Lilli Gruber dicendo: “è una ignorante, l’andropausa non è una malattia” ma lo interrompe Veronica Maya, una delle cinque sferate. A quel punto Feltri sbotta dicendole: “ma stai zitta, perchè devi rompere i coglioni?” e poi cerca di riprendere il discorso dicendo “l’andropausa non è una malattia…” ma viene nuovamente interrotto. Feltri alla seconda interruzione si alza in piedi e alza la voce: “mi sono rotto le palle a sentire delle galline che mi interrompono. Me ne vado basta, ma sono sceme” dice rivolgendosi alle cinque donne nascoste nelle sfere. Veronica Maya ribatte al giornalista: “Lei sta facendo una brutta figura”, ma Feltri risponde a tono: “sei una gallina, ma ti rendi conto?”. Anche Daniela Martani prende la parola contro Feltri: “si è fatto lo spritz come la Mega?”. (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)
Vittorio Feltri contro Luxuria: “frocio non è un’offesa”. Vittorio Feltri nel momento “Uno contro tutti” a Live Non è la D’Urso si ritrova a rispondere alle domanda dei cinque sferati. Tra questi c’è anche Vladimir Luxuria che lancia una vera e propria bomba: “i termini frocio, ricchione, culattone sono delle battute che possono anche strappare delle risate, ma è un insulto e non se la può cavare perchè la parola gay è un termine inglese”. Non solo la Luxuria sul finale dà del cafone al giornalista e direttore di Libero che si difende dicendo: “la cafona è lei, io uso il linguaggio che voglio, che è quello popolare se a lei non piace non me ne frega niente. Pretendo che non si faccia la guerra al dizionario, tutti i termini che io uso sono contenuti nei migliori dizionari della lingua italiana”. La Luxuria però non ci sta e difende il suo punto di vista: “deve smettere di usare questo linguaggio perchè ci sono anche dei ragazzi che si sono suicidati per queste parole” con la D’Eusanio che sottolinea a voce alta “le parole hanno un peso e sapete che il significato delle parole”. (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)
Vittorio Feltri: “Dico quello che penso, di solito anche delle cazzate…” Vittorio Feltri è ospite con Vittorio Sgarbi del momento “uno contro tutti” a Live Non è la D’Urso. Il giornalista e direttore di Libero si confronta con la prima sfera occupata da Alda D’Eusanio. “Sono la prima palla dottor Feltri” – dice la D’Eusanio che procede dicendo – “tutti i figli delle mie amiche impazziscono per lei, tutti sono in rete a ridere con le sue battute. Lei è diventato icona dei giovani, allora mi chiedo i giovani ridano di lei o con lei?”. Feltri allora replica: “non mi sono mai accorto di essere seguito dai giovani e dai vecchi. Io faccio una vita solitaria, sto sempre nel mio giornale e qualche volta purtroppo accetto inviti televisivi e il più delle volte sono irritato perchè il conduttore mi fa una domanda. Non riesco neppure a cominciare a rispondere che quei coglioni che ci stanno nello studio mi interrompono ed io mi irrito. Dico quello che penso, di solito penso delle cazzate…” (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)
Dai “ceffoni” a Greta Thunberg alla “menopausa” di Lilli Gruber. Si prospetta una puntata di Live non è la D’Urso parecchio accesa. Per lo scontro con le 5 sfere, Barbara D’Urso ha infatti scelto due protagonisti sicuramente noti per le polemiche e le liti che spesso scatenano sia sul piccolo schermo che sul web. Ultimamente Vittorio Feltri ha fatto parlare di sé per alcuni attacchi mirati in particolare a Lilli Gruber – spesso protagonista di pungenti frecciatine – ma anche alla giovane attivista Greta Thunberg. In un’intervista per Le Fonti Tv, Feltri si è scagliato duro contro la Gruber in primis: “Libero ha pubblicato un articolo su Lilli Gruber scritto da una donna, Costanza Cavalli. – ha esordito – Siccome la Gruber sa parlare ma non sa leggere ha pensato che lo avessi scritto io, nonostante ci fosse una firma corpo 14, quindi o è cieca o non capisce quello che legge.”
Vittorio Feltri contro Lilli Gruber: “Ho risposto in modo sessista ma…” L’attacco di Vittorio Feltri alla Gruber non si ferma qui. Ricordando la dura replica della conduttrice e giornalista, Feltri infatti aggiunge: “”Lei mi ha attaccato in modo sessista dicendo che sono in andropausa grave, ignorando che l’andropausa non è una patologia ma un fatto naturale che vivono tutti quelli che hanno la fortuna di invecchiare perchè l’unico modo per non invecchiare è morire giovani e io questa scelta non l’ho fatta.” Così prosegue “E le donne, dal canto loro, hanno la menopausa. Ma siccome lei è in menopausa da 20 anni non può dare a me del malato di andropausa. Io ho risposto in modo sessista ma è stata lei a offendere me immotivatamente visto che non ero io l’autore dell’articolo”.
Vittorio Feltri: “Greta Thunberg? Le darei un paio di ceffoni”. Nella sua lunga intervista, Vittorio Feltri non risparmia la giovane attivista Greta Thunberg, sulla quale tuona: “Se avessi una figlia come Greta un paio di ceffoni glieli darei per rimandarla a scuola perchè lei non va a scuola e chi non va a scuola non può arrogarsi il diritto di fare la professoressina.” E non manca un cenno ad un altro tema caldo come quello della scorta a Liliana Segre: “Spiace moltissimo che una signora di 90 anni come Liliana Segre, che ha subito quello che ha subito, venga insultata. Però non è vero che sono 200 insulti al giorno ma semmai 200 all’anno, quindi non mi sembra una manifestazione così grave.”
Vittorio Feltri contro Barbara Lezzi: "Cozze al posto dell'acciaio? Ho dubbi sul suo equilibrio psichico". Libero Quotidiano il 18 Novembre 2019. Ieri Aldo Grasso sul Corriere della Sera, in prima pagina, ha preso per i fondelli Barbara Lezzi, del Movimento 5 Stelle, già ministro per il Sud distintosi per la propria nullità, perché in un momento di torpore mentale ha dichiarato che se per caso l'Ilva dovesse chiudere, poco male: Taranto avrebbe la possibilità di rifarsi promuovendo la coltura dei mitili, cioè dei molluschi. Una proposta del genere è talmente ridicola da suscitare stupore e anche indignazione. Sostituire la produzione dell' acciaio con quella delle cozze è una ipotesi così cretina che meriterebbe un pernacchio. Ma noi ce ne asteniamo poiché non siamo ostili pregiudizialmente ai politici e alle politiche del Meridione, quand'anche da certe bocche escano bischerate sesquipedali. Ci limitiamo pertanto a dire a madame Lezzi che le conviene stare zitta allo scopo di proteggere la propria dignità. La signora in un recente passato aveva affermato che il Pil delle terre sotto Roma sarebbe accresciuto durante l'estate grazie al maggiorato consumo di energia elettrica dovuto all'iper funzionamento dei condizionatori. Una boiata tale pronunciata da una ministra, per quanto grillina, meriterebbe la radiazione dalle istituzioni di chi ne è autore. Eppure siamo stati costretti a ingoiarla senza eccedere in insulti. Ma l'idea di rimpiazzare il ferro con le cozze è surreale e fa nascere un sospetto sull'equilibrio psichico di Barbara Lezzi, la quale non si è chiesta neppure con quanti molluschi sarebbe economicamente equiparabile il fatturato dell' acciaio. Benché sia opportuno ricordare che la impepata di cozze piaccia molto agli italiani, tant'è che sono riusciti a digerire per oltre un anno la responsabile del dicastero dedicato al Mezzogiorno, che con le cozze forse ha delle affinità. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri sull'Ilva, quelle vecchie parole profetiche: la falsa "catastrofe ambientalista". Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. La questione dell'Ilva comincia ad essere vecchia e ciononostante non si è mai risolta. Anni fa scrissi due pezzi a riguardo che mi sembrano ancora validi, per cui li ripropongo ai lettori di Libero. Contro i proprietari della fabbrica non è mai stata emessa una sentenza, per cui non si può dire che i Riva siano stati giudicati colpevoli di qualcosa. Oggi la faccenda è di nuovo di attualità ma non è stata chiarita. Giudichi il lettore dopo aver letto le mie considerazioni basate sulla realtà.
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La materia che stiamo per trattare è scottante e va presa con le pinze, tanto più in questo momento. Ci riferiamo all' Ilva di Taranto, accusata di produrre un inquinamento micidiale a causa del quale sarebbero morte centinaia e centinaia di persone: cancro ai polmoni. La fabbrica, tra le più importanti d' Europa nel settore dell' acciaio, rischia addirittura di fare una brutta fine: è in corso un' inchiesta della magistratura, dalle cui carte emerge una situazione drammatica tale che, se fosse confermata da una sentenza di condanna che non c' è, la speranza di salvare l' azienda si ridurrebbe al lumicino. Naturalmente noi non abbiamo le conoscenze scientifiche necessarie per esprimere giudizi in merito. Ma leggendo i documenti abbiamo constatato alcune incongruenze tali da suscitare dubbi sulla fondatezza delle responsabilità attribuite ai gestori dello stabilimento. Tra l' altro, nei giorni scorsi il commissario dell' Ilva, nominato dal governo, Enrico Bondi (già collaboratore dell' ex premier Mario Monti e risanatore della Parmalat) ha inviato una lettera ai vertici della Regione Puglia in cui, riassumendo le osservazioni di quattro consulenti dell' impresa, fa notare che non esistono prove certe che l' elevato numero di decessi sia rapportabile alle cosiddette polveri sottili emesse dagli impianti industriali. Non l' avesse mai fatto: Bondi è stato travolto dalle critiche. Vari partiti, tutti impegnati in una gara a chi è più ambientalista, si sono sollevati all' unisono per protestare contro il commissario reo di aver contraddetto le tesi colpevoliste. Essi non hanno tenuto conto che Bondi era considerato all' unanimità l' uomo più adatto, alla luce del suo impeccabile curriculum, a risolvere i problemi. Non siamo in grado di accertare se abbia ragione lui o il gruppo dei suoi improvvisati detrattori: rimane il fatto che chiunque osi manifestare perplessità sull' effettiva dannosità delle scorie dell' Ilva viene messo al bando quale complice di Sorella Morte, benché la discussione sull' inquinamento a Taranto sia circoscritta all' ambito delle ipotesi. Spulciando tra gli atti dell' inchiesta è difficile dare torto a Bondi: essi sono disseminati di contraddizioni meritevoli di attenzione. La più grossolana è contenuta in una perizia acquisita dall' Ufficio del giudice per le indagini preliminari, Patrizia Todisco, dove si legge che i morti per cause naturali sono stati, in tredici anni, 386, un dato impressionante. Peccato che in un altro punto della documentazione si scopra che, invece, 140 dei 386 decessi denunciati, siano attribuibili a cause non naturali: cioè dovuti a incidenti stradali, suicidi eccetera. Le cifre sono state alterate di sicuro in buona fede, ma ciò non giustifica l' errore, soprattutto non giustifica la mancata correzione del medesimo, visto che le conclusioni sono state tratte dal quadro statistico falsato.
CIFRE ALTERATE. In un' altra perizia ordinata dal Tribunale si sostiene che le sostanze nocive per essere tollerabili non devono superare il limite di 20 milligrammi per metro cubo, come raccomanda - o sogna - l' Organizzazione mondiale della sanità. Ma uno degli stessi autori, in un altro documento riguardante una consulenza richiesta dalla Regione Lombardia, afferma che la media annua e tollerabile delle polveri sottili è di 40 milligrammi per metro cubo, esattamente come recita la disposizione europea tramutata in legge dall' Italia. Da sottolineare che la media delle sostanze tossiche emesse dall' Ilva non è mai andata oltre il limite fissato dalla citata legge. Quindi non si capisce in che cosa consistano le presunte violazioni commesse dalla fabbrica in questione. Immagino che le obiezioni di Bondi - che non è l' ultimo arrivato - sorgano anche dagli elementi che abbiamo riportato in sintesi e con un linguaggio semplice. C' è da aggiungere, per rimarcare la confusione regnante in questo campo, una curiosità. Legambiente, nel 2012, ha elaborato una ricerca su scala nazionale relativamente al Pm10 (polveri sottili) da cui si evince che, nella classifica delle città più inquinate, Taranto figura al 46° posto. Milano, per intenderci, è in vetta insieme con Torino, seguite da Verona, Alessandria e Monza.
IL CASO DI MILANO. L' incidenza delle sostanze tossiche presenti nell' atmosfera sulla mortalità non è mai stata misurabile né lo sarà, presumibilmente, per parecchio tempo ancora. Milano, per esempio, pur avendo un' aria irrespirabile, in teoria, in pratica offre ai suoi abitanti le migliori aspettative di vita: sotto il Duomo si campa più a lungo che sotto le Dolomiti. Ergo, andiamoci piano con i catastrofismi degli ambientalisti professionali. Se anche la magistratura si lascia influenzare dai luoghi comuni e dai luogocomunismi della vulgata, seguiteremo a morire, e moriremo poveri. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri, l'ex Ilva e il male dell'Italia: "I rimasugli di comunismo che rovinano Paese e imprenditori". Libero Quotidiano il 12 Novembre 2019. Si parla della crisi dell'Ex Ilva e della fuga dall'Italia di Arcelor Mittal. A dire la sua, ospite di Myrta Merlino a La7, è il direttore di Libero, Vittorio Feltri, il quale sfrutta la vicenda per fare un discorso complessivo su ciò che proprio non funziona nel sistema-Italia. Si parte dalla crisi di Taranto: "Non mi sembrano in grado di risolvere il problema Ilva. Non tanto per demerito del governo, ma la situazione dell'Ilva ha iniziato ad essere molto grave quando furono arrestati i Riva. Non c'è stata alcuna sentenza, non si capisce perché questi signori siano stati buttati fuori", rimarca Feltri, individuando così una responsabilità primigenia della magistratura. "Si continua a parlare di tutela dell'ambiente, e benissimo, va tutelato - riprende il direttore -. Ma segnalo che l'Italia è il paese europeo dove la vita è più lunga, quindi vuol dire che i problemi ambientali nostri sono meno gradi rispetto ad altri paesi, dove però non si chiudono le fabbriche così a capocchia mandando a spasso 17 o 18mila persone, perché questo è il rischio. Naturalmente il governo non può fare miracoli a questo punto, dato che gli indiani sono decisi ad andarsene: hanno capito che l'Italia non è un posto accogliente per gli imprenditori", rimarca. E ancora, aggiunge Vittorio Feltri: "Si pensi che tutti gli imprenditori italiani cercano di fuggire e ce l'hanno a morte col nostro sistema. Le partite Iva vengono considerate evasori fiscali: è una cosa pazzesca - sbotta -. Chiunque intraprenda si trova a che fare con una tassazione mostruosa e con ostilità sociale, abbiamo rimasugli di comunismo che hanno modificato la mentalità. Gli imprenditori sono ladri che sfruttano i lavoratori: siamo rimasti a questo punto", conclude il direttore di Libero.
Vittorio Feltri: "Quella banda di comunisti che mi ha disgustato". La vendetta contro i compagni. Libero Quotidiano il 10 Novembre 2019. La caduta del muro di Berlino, avvenuta 30 anni fa, è oggetto in questi giorni di commemorazioni retoriche e noiose. I giornalisti cerimonieri ne parlano senza requie quasi si trattasse di un avvenimento gioioso. In realtà quel crollo voluto dalla gente comune della Germania Est segnò la morte del comunismo, non dei comunisti. Che ancora oggi continuano a rompere le balle con le loro utopie, basta vedere quanto succede in Cina che è riuscita a mischiare il collettivismo più rigido con uno sfrenato capitalismo. Un ibrido vomitevole che tuttavia non accenna a trasformarsi in qualcosa di simile a un regime liberale. Il dì in cui la barriera oscena che divideva il popolo tedesco si sbriciolò io ero direttore di un settimanale importante, l'Europeo (Rizzoli). Il quale però non uscì per due mesi a causa di uno sciopero dei redattori (tutti) motivato dal fatto che non ero comunista, quindi sgradito all' assemblea dei colleghi. Peggio: avevo fama di essere addirittura anticomunista in quanto socialista. Il maledetto muro era pertanto cascato a Berlino eppure era rimasto in piedi, ben saldo, a Milano, anzi in Italia, dove i compagni, almeno nell' ambito della editoria, seguitavano a dettare legge, esercitando ostracismo nei confronti di coloro che non avevano simpatia per l' orda rossa. Giorgio Fattori, presidente della casa editrice (proprietaria altresì del Corriere della Sera) mi incitò a resistere e gli diedi retta, finché i vergini di sinistra, stanchi di non ricevere lo stipendio, mi accolsero, sia pur malvolentieri, quale direttore, cosicché cominciammo a lavorare e ad andare in stampa con un prodotto decente che ebbe in edicola un buon successo. Nel giro di un paio di anni, raddoppiammo le vendite mettendo al sicuro la vita del settimanale. Tuttavia quella banda di comunisti mi aveva talmente disgustato che non appena mi fu offerto di prendere in mano l'Indipendente, quotidiano nuovo e già moribondo, accettai di buon grado. Nel frattempo il segretario del Pci, Achille Occhetto, cambiò denominazione al partito, sconfessando la tradizione marxista, compiendo cioè una operazione ai limiti del ridicolo, come se il Papa all'Angelus avesse detto al folto pubblico di piazza San Pietro: cari fedeli devo informarvi che Dio non esiste, concludendo il suo discorso facendo alla folla il gesto dell'ombrello. Paradossale. Ciononostante l'ex Partito comunista è ancora qui con i propri rimasugli a menare il can per l'aia. E finge di festeggiare la caduta di quel muro schifoso sotto le cui macerie esso è idealmente morto. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri, Occhetto e i comunisti italiani: "La balla sul muro, Mosca e Berlinguer". Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. Lunedì mattina ho partecipato al programma de La7 condotto dall' ottima Myrta Merlino e tra gli ospiti c' era Achille Occhetto, il quale sul finire degli anni Ottanta fu segretario, l' ultimo, del Partito comunista italiano, il più forte dell' Occidente. Nel 1989 cadde, come è noto, il muro di Berlino cosicché costui, davanti al devastante episodio, pensò giustamente di abiurare, cambiando nome al partito stesso, dato che, alla luce dell' evento tedesco, risultava superato dalla realtà. Egli non poteva fare diversamente. Tuttavia, rimane il fatto che quel muro non fu abbattuto dai marxisti bensì dagli anticomunisti che non ne potevano più del regime liberticida di stampo sovietico. I compagni nostrani non ebbero alcun merito nella abolizione del famigerato blocco, mai fecero una manifestazione contro di esso, che avevano accettato come un dogma rosso. Alla trasmissione ero presente anche io e mi sono limitato a dire che Occhetto, preso atto della demolizione del manufatto che divideva la Germania in due tronconi, non poteva che rinnegare la propria fede collettivistica fondando una nuova formazione politica, a cui però avrebbero aderito parecchi condiscepoli. Durante la discussione, il vecchio leader ha specificato che comunque Enrico Berlinguer aveva già preso le distanze da Mosca, pertanto il comunismo italiano non era più da tempo filosovietico. Balle. Berlinguer non fu mai eretico del tutto, aveva programmato l' eurocomunismo senza spiegare in che cosa potesse consistere. Inoltre non smise di ricevere finanziamenti dall' URSS, segno che una vera rottura tra i due comunismi non vi fu mai. Un ricordo. Quando Breznev morì, tutti i politici italiani di rilievo, incluso il presidente della Repubblica Sandro Pertini, parteciparono ai funerali per rendere omaggio al dittatore, capitanati dal PCI. L' episodio avrà o no un senso preciso? Torniamo al muro di Berlino. Fu frantumato dagli anticomunisti tognini dell' Est e non dai comunisti nostrani che oggi, mentendo, se ne attribuiscono il merito. La trasformazione del PCI in PDS fu una operazione realizzata a tavolino per salvare il salvabile e peraltro riuscì, benché avesse provocato una scissione: nella circostanza nacque Rifondazione comunista, a dimostrazione che non tutti i compagni condividevano l' uccisione del bolscevismo. Il ripudio del quale non è mai avvenuto completamente, tanto è vero che ancora oggi resiste nella testa di gran parte dei connazionali la mentalità legata al massimalismo leninista, il quale impone la convinzione che i padroni siano sfruttatori della manodopera e impoveriscano la classe operaia. Sciocchezze immortali. Occhetto va capito, non giustificato. Non tutti i rossi erano canaglie, e lui era una brava persona ma pur sempre comunista e quindi fuori dalla storia. Oggi le cose non sono migliorate molto, ma almeno sappiamo che la Rivolusione russa fu uno scempio che produsse più vittime del nazismo. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri: "Gruber sciocca comunista, così favorisce Meloni e Salvini". Il giornalista senza mezzi termini: "Fa benissimo a maltrattarli perché ad ogni insulto loro guadagnano voti". Luca Sablone, Mercoledì 13/11/2019, su Il Giornale. Ennesimo scontro di fuoco tra Giorgia Meloni e Lilli Gruber nel corso della trasmissione Otto e mezzo negli studi de La7, dove gli animi si sono accesi sul tema dell'antisemitismo. Il leader di Fratelli d'Italia ha risposto duramente all'implicita accusa di ambiguità sulla questione all'interno della destra: "Credo ci sia una grande ambiguità invece nella sinistra italiana. Nella mozione della commissione Segre non è mai citata la parola Israele perché altrimenti la sinistra non l'avrebbe votata". L'ex ministro della Gioventù ha fatto un riferimento a chef Rubio e Michele Anzaldi, provocando la reazione improvvisa da parte della giornalista che ha infine addirittura minacciato: "Ho il dovere di farle delle domande. Mi faccia finire altrimenti le faccio togliere l'audio".
"Sciocca comunista". Sulla questione è intervenuto senza mezzi termini e giri di parole Vittorio Feltri, che sul proprio profilo Twitter ha scritto: "La Gruber fa benissimo a maltrattare a Otto e mezzo la Meloni e Salvini, perché ad ogni suo insulto loro guadagnano voti dato che gli spettatori non sono sciocchi quanto la conduttrice comunista". La Meloni poi sui suoi canali social è tornatq sulla questione: "Accusano la destra di essere 'ambigua' sull'antisemitismo e poi vorrebbero in Rai un signore che scrive 'sionisti cancro del mondo'. Ma non si vergognano nemmeno un pochino?". Non è la prima volta che le due donne finiscono per discutere animatamente. Circa un mese fa un altro durissimo scontro era partito dopo l'accusa da parte della Gruber sulle "sciocchezze" sostenute dal leader di FdI, che poi aveva risposto: "Io sono stufa di questo atteggiamento. Se dice che io dica delle sciocchezze mi deve rispondere nel merito, perché io sono abituata ad argomentare. Lei adesso deve argomentare, sono stufa di sentirmi dire che dico sciocchezze. Continuiamo, ma con rispetto". Si stava discutendo dell'indulgenza dell'Unione europea nei confronti del governo Renzi rispetto a quello in cui era presente Matteo Salvini.
Dagospia il 17 novembre 2019. Estratti dell’intervista di Pierluigi Diaco a Vittorio Feltri da “Io e te di notte” - Raiuno
DIACO: COME STAI VITTORIO, CHE PERIODO è DELLA TUA VITA?
FELTRI: Un trionfo! Sono diventato vecchio, ho 76 anni, sono ancora vivo, sto abbastanza bene, fumo più che posso, sbevacchio anche qualche whiskino… eppure non demordo! E quindi questo mi sembra degno di una celebrazione!
(ndr riferendosi al bassotto Ugo, in studio con Pierluigi Diaco) Ho una curiosità. Ti ho visto con un cagnolino meraviglioso… siccome io amo gli animali, vorrei che tu lo intervistassi un po’.
DIACO: Te lo presento! Si chiama Ugo, è il mio bassotto, e fa parte integrante del cast della trasmissione. Ti piacciono i bassotti, Vittorio?
FELTRI: Sì, sì! Mi piacciono i cani, mi piacciono tutti gli animali. E Ugo mi sembra meraviglioso!
DIACO: Lo sai che Ugo ha avuto il privilegio di andare ospite a Porta a Porta da Bruno Vespa con tanto di porta che si è aperta… quindi è un cane che è entrato nella terza camera dello stato!
FELTRI: è fantastico! Anch’io sono stato a Porta a Porta, quindi posso essere equiparato a Ugo!
DIACO: perfino i tuoi detrattori ti riconoscono una simpatia, una verve, un tasso di provocazione che invita a riflettere e che strappa un sorriso. Ti fa piacere questa attenzione oppure no?
FELTRI: Sì, mi fa naturalmente molto piacere. Tra l’altro quelli che parlano male di me non riescono a ferirmi perché io so che non si può piacere a tutti, quindi accetto sia le lodi, quando ci sono, sia le critiche… le ascolto, ma in fondo me ne frego!
DIACO: (Diaco mostra foto di Vittorio Feltri a 3 anni coi fratelli, Ariel e Mariella) come me hai perso tuo padre a 6 anni, io ne avevo 5 (…). A te la mancanza del padre cosa ha provocato?
FELTRI: Guarda, io non amo svelare cosa c’è in fondo al mio animo, per cui quando mi fanno questa domanda rispondo che in fondo sono stato fortunato, perché anziché avere due genitori che mi rompevano le balle, ne avevo una sola.
DIACO: (…) l’assenza di tuo padre è stata forte quanto sarebbe stata la sua presenza?
FELTRI: In sincerità ti dico che avrei preferito avere un padre che potesse dare un equilibrio alla famiglia. Purtroppo questo non è avvenuto! Noi tre fratelli ci siamo adattati alla situazione, ma ci dispiaceva vedere sempre nostra madre che doveva lavorare per due per tirare avanti la baracca… questo ci ha fatto un po’ soffrire. Mia madre è morta a 90 anni, e quando è successo io mi sono incaricato di tutte le pratiche burocratiche: il funerale, la bara etc etc. Dopo aver svolto tutte queste attività sono tornato in automobile, ho avviato il motore e non sono riuscito a partire perché mi veniva da piangere (ndr Vittorio Feltri è visibilmente commosso).
DIACO: (mostra foto di Feltri a 14 anni) col senno del poi cosa ti senti di dire al ragazzo che sei stato?
FELTRI: Caro amico, ti è andata bene! (applausi)
DIACO: (mostra foto di feltri durante il servizio militare) che mesi sono stati quelli della leva?
FELTRI: Devo dire che all’inizio non avevo nessuna voglia di fare il militare perché avevo cose più interessanti da fare a casa. Ma alla fine mi sono adattato. Lavoravo al ministero, facevo poco, vivevo a Roma, che allora era una città meravigliosa… e quindi quando ho finito il servizio militare e dovevo tornare a Bergamo, non ne avevo voglia. Ricordo quel viaggio di ritorno in macchina che mi struggeva perché volevo rimanere a Roma.
DIACO: il senso della disciplina, del dovere, il senso dello stato quando hanno cominciato ad attraversarti? Già negli anni della leva o questi valori li ha scoperti prima o più tardi?
FELTRI: Direi prima perché a 17 anni mi iscrissi al partito socialista italiano, che allora era equiparato alle brigate rosse, e quindi sono diventato libertario. Sono diventato insofferente ai luoghi comuni, ai comportamenti usuali etc... Questo spirito un po’ ribellistico mi è rimasto addosso anche adesso che ho l’età del dattero.
DIACO: hai pagato un prezzo per il tuo carattere? per questa tua attitudine a dire sempre quello che pensi e a fare qualcosa di diverso rispetto a ciò che di solito fanno i tuoi colleghi?
FELTRI: No, sono stato fortunato. Sono sempre stato assistito da un santo che si chiama San Culo, quindi non ho subito negatività di nessun tipo, tranne qualche eccezione, qualche momento di difficoltà che ha qualsiasi persona. Tutto sommato le cose sono filate lisce. Mi dispiace di essere arrivato a 76 anni perché capisco che ormai sono all’ultima curva.
DIACO: che rapporto hai con ciò che avverrà dopo la tua scomparsa? Ci pensi, non ci pensi, te ne freghi?
FELTRI: Ci penso, ma non riesco a credere in Dio perché non l’ho mai conosciuto, non l’ho mai incontrato, non ho mai fatto due chiacchiere con lui. Come faccio a credere a qualcosa che non conosco? Mi è difficile. Sono convinto che dopo la morte ci sia il sonno. Quando ti addormenti tu non ci sei più, dormi tranquillamente, qualche volta sogni, ma non sempre, e quindi immagino che sarà una bella dormita eterna.
DIACO: (FA ASCOLTARE SOLO IN audio UNA vocE) di chi è questa voce?
FELTRI: Gianni Brera, il giornalista che ho sempre preferito. Mi ha aiutato nel lavoro. Mi è sempre stato vicino. Un uomo che… insomma, non ce ne sono più di uomini così! Mi dispiace perché quando se ne è andato ho perso un amico, ho perso una persona che stimavo. Però io in cielo non voglio andare… perché neanche vado in aereo figurati se voglio andare in cielo da morto!
DIACO: se non sbaglio questo rapporto non è nato sotto una buona stella, ma poi una bottiglia di grignolino vi ha riavvicinato…
FELTRI: (ndr ride) Sì sì, in effetti avevamo litigato per le olimpiadi a Milano. Io pensavo non si potessero fare e infatti non sono state fatte. Dopo una polemica giornalistica, io ho finito un articolo scrivendo che Brera aveva toccato il fondo della bottiglia, e poi non lo vidi per un anno o due. E poi un giorno entrando in un ristorante lo trovai seduto a un tavolo. Io feci finta di non vederlo perché non volevo ricominciare la polemica, ma dopo pochi minuti egli fece recapitare al mio tavolo una bottiglia di Grignolino con un biglietto che diceva: “Caro Feltri, spero che oggi sia tu a toccare il fondo della bottiglia!”. Era un uomo spiritosissimo, simpatico. Poi ci sedemmo allo stesso tavolo e ridiventammo amici. La cosa mi fece un grande piacere. Brera era un narratore incredibile, raccontava tante cose, era un uomo di una profonda cultura. E quando io tornavo al giornale andavo a verificare sulla Treccani se le cose che mi aveva detto fossero state esatte. Lui non mi ha mai raccontato una balla. Era ferratissimo, sapeva tutto, e io l’ho ammirato per la sua cultura incredibile e per la sua facondia… una capacità narrativa straordinaria. (applausi)
DIACO lancia clip il Natale secondo Feltri – Crozza imita Feltri (Che tempo che fa – 2017)
DIACO: la pensi così, no?
FELTRI: (ndr ride) Non proprio così però mi fa ridere Crozza. Infatti adesso non è Crozza che imita me, ma io che imito Crozza.
DIACO: non tutti lo sanno ma tu hai contribuito alla stesura di questa canzone. Te la faccio ascoltare…Destra – Sinistra di Giorgio Gaber! Ma è vero che questa canzone è nata da un dialogo condiviso insieme a te in osteria?
FELTRI: Devo precisare che la canzone l’ha scritta tutta lui… eravamo a tavola, e mentre lui scherzava con il testo, a un certo punto io, dovendo andare in bagno, ho detto: “Caro Giorgio, io devo andare in bagno, che naturalmente è sempre in fondo a destra!”. Il mio contributo è stato minimo, e poi questa battuta, che non è neanche una gran battuta, è finita nella canzone, per il resto ha fatto tutto lui. Gaber era un genio, una persona di straordinarie capacità. Io gli ho ricordato una verità e lui l’ha messa nella canzone.
DIACO: UN TESTO MERAVIGLIOSO… COSA RAPPRESENTA PER TE QUESTA CANZONE?
FELTRI: Il riassunto cantato della mia prima giovinezza, e quindi quando la sento mi commuovo sempre. Gaber è riuscito a fare un riassunto di tanti stati d’animo che io ho provato tutti!
DIACO: perché l’irriverenza è un valore e non un difetto?
FELTRI: Io penso che sia un difetto, è per quello che me ne vanto! (applausi)
Feltri, ricerca alla mano sui giovani gretini: "Duri di comprendonio ma esperti di climatologia". Libero Quotidiano il 5 Dicembre 2019. Non c'era bisogno dell' Ocse per sapere che gli studenti italiani, specialmente quelli del Sud, sono pressoché analfabeti, non essendo capaci di decriptare uno scritto che non sia elementare. Il fenomeno era noto. La scuola e le famiglie sono ignoranti perché non leggono e molte persone che invece tentano di farlo non capiscono un accidenti. Il loro linguaggio è miserrimo e non sono in grado di comprenderne uno leggermente più articolato. Gli stessi professori temo che abbiano difficoltà a spiegare ciò che essi stessi non comprendono appieno. La cosa strana è che i ragazzi, pur duri di comprendonio, sono convinti che la sintassi e la grammatica siano pregiudizi borghesi, e si piccano di essere esperti di climatologia. Ascoltano le deliranti teorie di Greta, si persuadono che siano supportate dalla scienza, le fanno proprie e riescono perfino a convincere i giornali di avere ragione nel sostenerle, quando viceversa sono bischerate bevibili soltanto dai bischeri, appunto. Il problema dell' insipienza culturale diffusa non è dovuto esclusivamente alla deficitaria istruzione pubblica, i cui difetti sono noti, bensì anche ad altro. Per esempio al fatto che genitori e figli non conversano più a tavola. I primi lavorano e quando rincasano non hanno voglia di parlare e scambiare esperienze e opinioni, tacciono, compulsano il cellulare e se un bambino li distoglie dalle loro abitudini silenti, interrogandoli, rispondono in malo modo: zitto stupidino. Nelle case la televisione è accesa e c' è chi la vuole ascoltare, di solito è il padre, il quale se qualcuno alza la voce e disturba l' audizione, si incavola e smoccola. La prole, pronta ad imitare i grandi, si rifugia a sua volta nell' iPad, smanetta a tutto spiano sulla tastiera, e addio scambio di idee tra famigliari. Ovvio che in queste condizioni il dialogo vada a farsi benedire, senza il quale la manifestazione del pensiero dei grandi e dei piccoli si impoverisce, riducendosi a livelli primitivi. I quotidiani sono in crisi di vendite. Segno che non sono più graditi alle masse che preferiscono i social, miniere di stupidaggini. Ma piacciono ai giovani che ovviamente alla propria educazione sono disattenti. Suppongono che il computer sia ricco di informazioni utili benché veicolo di gigantesche fesserie. È evidente che pure l' informazione basica sia contaminata da una sorta di imbecillità strisciante che non aiuta certo la formazione delle nuove generazioni. Infine un cenno alla qualità di chi sta in cattedra. Gli insegnanti sono mal pagati, accettano di guidare una classe pur di avere una occupazione che li strappi all' indigenza, però sono frustrati e vivono la propria condizione quale ripiego pressoché disonorevole. Il loro impegno è minimo o assente. Se sono scarsi i professori, figuriamoci gli allievi. Se la scuola fosse alta quanto un tempo, allorché il latino era una materia obbligatoria alle medie, forse i discenti davanti a una locuzione come "ius soli" non avrebbero i brividi tipici di chi è di fronte a un mistero. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri su Leonardo: "Piace ai francesi, che male c'è? Non lamentiamoci se ci chiamano inaffidabili". Libero Quotidiano il 10 Novembre 2019. L'Italia è sempre identificata con lo splendore del Rinascimento. Beh, in effetti non è che nei secoli successivi il nostro paese, ancora diviso o già unitario, abbia offerto "prestazioni" memorabili. Naturalmente è un Rinascimento un po' da cartolina, non falso ma adattato ai gusti e alle esigenze dei turisti. E quindi arte, mecenatismo, dinastie, dame. In realtà il Rinascimento fu attraversato da enormi tensioni politiche e religiose. Gli Stati italiani erano in perenne conflitto fratricida. Le grandi famiglie producevano anche tiranni poco illuminati. Il Vaticano era l' ago della bilancia ma pure la preda più ambita. Avere un Papa della propria fazione assicurava una rigogliosa stagione di dominio. Le compagnie di ventura facevano la guerra per procura però i mercenari, da sempre, sono fedeli solo alla paga. Il Rinascimento ci ha dato il metodo scientifico ma resta un periodo di alchimisti in cerca della pietra filosofale. L' uomo era al centro di tutto, per la prima volta. Ciononostante il processo di secolarizzazione avrà conseguenze non sempre gradevoli. Si scopriva il nuovo mondo ma l' Europa iniziava a perdere la sua centralità, un processo nel quale siamo ancora immersi. La politica, da minuetto diplomatico seguito da mazzate, diventava uno sfoggio di cinico realismo seguito da mazzate.
LA RICORRENZA. Problemi e opportunità epocali, dunque, che hanno prodotto innovazioni altrettanto epocali in tutti i campi. E ora veniamo ai nostri giorni. Quest' anno cadevano i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci. Il genio toscano è sepolto in Francia dove visse negli ultimi anni. Ovvio quindi che una parte delle celebrazioni abbia luogo Oltralpe. Meno ovvie un paio di cose: l' Italia ha demandato ai francesi rinunciando a proporre qualcosa di significativo; la collaborazione con i cugini di Parigi si è trasformata in una barzelletta di quelle che iniziano così: «Ci sono un italiano, un francese e Leonardo da Vinci». Cerchiamo di riassumere per quanto possibile la vicenda triste eppure utile come un trattato di antropologia per capire il potere italiano. Passano i mesi e cambiano i ministri della Cultura alla velocità della luce. Il nemico di ieri diventa l' amico di oggi. Il numero due del Partito democratico, Dario Franceschini, offre ponti d' oro ai transalpini: prego, venite e servitevi a vostro piacimento. In cambio ci date qualche Raffaello per la mostra italiana dell' anno prossimo? Risposta vaga: mah, sì, vediamo. Cade il governo, arriva il grillino-leghista Alberto Bonisoli, che sarà ricordato per... non mi ricordo. Bonisoli è contrario a prestiti ingenti o meglio i direttori dei musei gli fanno notare che non possono privarsi di quadri fondamentali, proprio quelli per i quali i cinesi si mettono in marcia per venire a Firenze, ad esempio. Dai ponti d' oro si passa a quelli di legno. Bonisoli fa sapere: vi diamo qualche disegno, accontentatevi. Cade il governo, ritorna Dario Franceschini con il suo mantra: prestare, prestare, prestare. Non possiamo togliere l' Annunciazione dalla parete degli Uffizi? Ma diamo a Parigi almeno l' uomo di Vitruvio, un disegno, un simbolo della personalità eclettica di Leonardo. Bene, accordo fatto. Passa un mese e interviene, come sempre in Italia, il Tar: calma, calma, l' uomo di Vitruvio non si può spostare per motivi di sicurezza e incolumità dell' opera. In Francia si irrigidiscono un po': allora scordatevi i Raffaello, trapela a livello non ufficiale. Nel frattempo gli esperti si danno battaglia sulle pagine dei giornali, confondendo ulteriormente le acque.
GLI ESPERTI. Già, perché intervengono anche esperti che sono parte in causa nelle varie celebrazioni. Parleranno in nome della scienza o della coscienza di dover portare a casa il massimo per la propria causa? Ah, saperlo, direbbe Roberto D' Agostino, deus ex machina del sito Dagospia. In attesa delle prossime puntate, che purtroppo non mancheranno, possiamo fare qualche mesta considerazione. L' Italia riesce a non essere d' accordo con se stessa nel consueto moltiplicarsi dei centri decisionali. Comandano il ministro, i burocrati del ministero, i direttori dei musei, gli esperti, il Tar... Tutti quanti, contemporaneamente, e tutti quanti con una idea diversa, meglio se contraria a quella del ministro che rimedia figuracce e va vedere quanto conta: come il due di picche. Poi noi italiani ci lamentiamo se siamo considerati inaffidabili: non riusciamo neppure a decidere se mandare un disegno (già promesso) in Francia ed è comunque un passo avanti rispetto ai tempi in cui iniziavamo una guerra con un alleato e la finivamo con un altro. L' Unione europea è magnificamente unita. Invece di festeggiare insieme, le celebrazioni vengono lottizzate: un Leonardo a te, un Raffaello a me. Ci potrebbe anche stare, in un' ottica bizzarra di complementarietà, se a questo non si aggiungesse lo scambio delle figurine con ripicca: se tu non mi dai Leonardo, scordati Raffaello. Italia, paese ridicolo, inserito in una Unione ridicola, geograficamente parte di una ridicola penisola chiamata Europa, sempre più una semplice appendice della grande Asia. di Vittorio Feltri
Vittorio Feltri sul cardinale Ruini: "Finalmente qualcuno che ragiona". Libero Quotidiano il 4 Novembre 2019. Aldo Cazzullo, prima firma del Corriere della Sera, ha avuto un' ottima idea: intervistare Camillo Ruini, un cardinalone non allineato alla corrente conformistica della Chiesa alla moda, quella che tiene bordone alla sinistra innamorata degli immigrati. L'articolo che ne è sortito sorprende e consola - immagino - tanti cattolici poco inclini a incrementare ciecamente l' accoglienza. Era ora che una personalità religiosa di rilievo pronunciasse un discorso di buon senso in grado di mettere un po' di pace nel mondo dei credenti. Ruini ha detto: è sbagliato non dialogare con Salvini, il quale, tutto sommato, sa cogliere e interpretare meglio di altri i sentimenti dei cristiani. Il porporato ha fatto altresì chiarezza sulla vexata quaestio del Rosario "brandito" spesso dal leader leghista. Non c' è nulla di male, anzi, a baciare in piazza il crocefisso: semmai è un contributo alla fede popolare, un modo efficace di esprimere la passione e la fede delle masse. Ruini, stimolato con garbo da Cazzullo, ha compiuto una analisi corretta e non livorosa della attuale situazione confusa della politica italiana, senza demonizzare nessuno, eppure ponendo l' accento su questioni altamente divisive in questo momento. Una operazione, la sua, destinata a portare il sereno nonché a chiarire le faccende che creano oggi le maggiori turbolenze. L' alto prelato per anni è stato per la Chiesa un punto di riferimento importante e anche ora, pur essendo fuori dai giochi, ha dimostrato di possedere una grande lucidità di pensiero che può aiutare il clero a ritrovare la bussola. Qui si tratta di rappacificare gli animi e di dare il via a una nuova stagione non solo spirituale, bensì pure sociale. L'ex capo della Cei, conferenza dei vescovi italiani, va elogiato oltre che rimpianto per la pacatezza e l' acume dei suoi ragionamenti. Nota finale: i suoi colleghi seguano l' esempio dell' insigne cardinale e la smettano di parteggiare per coloro che non amano la gente comune e agevolano il mercato delle braccia nere. Vittorio Feltri
MOSCHEA AL NASO. Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” l'11 settembre 2019. Illustre Procuratore Francesco Greco, secondo lei qualificare come "fetido" l' ambiente in cui fioriscono i terroristi, qualunque sia la religione che praticano, è una discriminazione, è razzismo, è incontinenza di linguaggio? E se, puta caso, si tratta di manigoldi nutriti dai versetti più o meno satanici (Salman Rushdie) del Corano, si incorre nel delitto di islamofobia quando si invochi la loro cacciata dal patrio suolo, il loro trasferimento il più lontano possibile dai nostri figli e nipoti, dalle nostre case e chiese? Quando Donald Trump, nel novembre del 2017, ha così stabilito per l' America, gli ho dato ragione su Libero, auspicando una identica determinazione per l' Italia. Chi gli ha tirato addosso contumelie rabbiose, accusandolo di razzismo, infilzandolo come una bambolina del voodoo, è stato considerato un animo d' alto sentire, a me è andata diversamente. Dopo una procedura lenta e per me umiliante di "incolpazione", nei mesi scorsi l' Ordine lombardo dei giornalisti ha decretato la "censura" nei miei riguardi per aver tradito l' etica giornalistica avendo condiviso la decisione del presidente americano con linguaggio giudicato discriminatorio. Fin qui, normale in Val Padana, per l' Ordine è un rito, dev' essere una festa di precetto. Questa deliberazione però è stata confermata dalla Procura generale di Milano con frasi spicce. Essa - nella persona del sostituto dottor Sandro Celletti - ha respinto il ricorso presentato dal mio ottimo avvocato Valentina Ramella, indicando quasi fosse una pistola fumante proprio l' aggettivo "fetido". Non è finita. Quanto mi è accaduto avrà la prossima puntata al Consiglio nazionale dei giornalisti a Roma, che - forte del parere della magistratura milanese competente - si muoverà come le sarà agevole, dottor Greco, prevedere. Il tutto mentre già altri procedimenti gremiscono il mio futuro promettendo di allietarmi la vecchiaia. Oso dire che a essere discriminatorio e lesivo della mia identità è piuttosto il "processo domestico" (così si chiama quello disciplinare) cui sono sottoposto. Con le mie parole, ho auspicato un repulisti indiscriminato esclusivamente per i terroristi e chi li fiancheggia e favorisce. Ritengo giuste e doverose anche le espressioni che hanno il carattere della crudezza. Chi si loda s' imbroda, e non sono degno, ma accidenti il mio non è "libellismo", come insultando la mia modesta prosa sostengo i colleghi maldicenti e etimologicamente ignoranti, bensì polemica accusatoria che attinge alla scuola giornalistica di Emile Zola, l' invettiva vibrata che mi vede umile discepolo di Oriana Fallaci. Mi chiedo: che le sarebbe successo, se fosse finita con i suoi libri e i suoi articoli sotto le medesime grinfie? Impiccagione? Fucilazione? Ah come mi sarebbe piaciuto vederla sottoposta alle domandine insinuanti che mi hanno dedicato per un paio d' ore di interrogatorio i gazzettieri impancati a giudici. Girerebbero tuttora vestiti di sacco. Scusi l' irruzione del mio scritto sulla sua scrivania ingombra di pratiche di ben altro peso. So bene che in quanto procuratore, e per di più a cose fatte, non è in suo potere intervenire. Proprio per questo mi sono deciso a interpellarla. Nessuno potrà dire che il suo pensiero, qualunque sia la sua risposta, se mai vorrà consegnarla a me e ai lettori, sia un' interferenza. Sappia che per me è preziosa. Non solo per il sollievo che possa dare allo scrivente. C' è di mezzo un bene più grande che non le mie agitazioni notturne per la palese ingiustizia. Se la cosa riguardasse solo il Vittoriofeltrifuangelo, mi vergognerei dell' intrusione. Ma sono convinto che maoisticamente si colpisca me per educarne cento. Mi preoccupo di me, ma anche dei cento, anzi dei milioni che non potranno più bere da fonti diverse da quelle con il cloro disinfettante nelle acque. Qualora non mi fossi spiegato, non sto piatendo compassione, che peraltro dev' essere una virtù, perché se fosse un vizio sarebbe l' unico a essermi sfuggito. Mi rendo conto che attraverso e ben oltre la mia trascurabile persona, spezzando la mia penna, tagliando la mia lingua, si lede qualcosa di assai più vasto: il diritto-dovere di cercare e poi dire e scrivere la verità, o almeno qualcosa che le somigli. Dico verità, senza maiuscole, non sono Eugenio Scalfari o Paolo Mieli. Ovvio, non ho alcuna pretesa di infallibilità e di assolutezza. Proprio per questo esiste il pluralismo, non solo di concetti, ma anche di lessico, in nome di quella libertà di giudizio e opinione che ci fa uomini. La ridico, quella parola: libertà, anche se è stata sciupata dall' uso non conosco niente di più prezioso, a parte una goccia di whisky la sera. Privati della libertà saremmo dei pagliacci caricati a molla, che ripetono come carillon la tiritera del politicamente corretto, o al massimo appena appena scorretto con la sambuca. Riterrei indegna di essere vissuta una vita dove dovessi aggirarmi con i ceppi ai piedi delle mie opinioni, le quali non sono optional, ma la ragione stessa della mia identità di figlio di mia madre. Mi rivolgo pubblicamente a Lei o, come direbbero gli avvocati di provincia, alla Signoria Vostra, per stima e per disperazione. La stima nasce dalla considerazione del senso di giustizia e di sicurezza che promana da parole e atti della sua guida alla Procura di Milano. La disperazione è dovuta al fatto che non vedo via d' uscita a tutto questo. Salvo il mettersi insieme di persone che, pur di diverse visioni dell' universo, ambiscono scambiarsi pensieri e parole sul fragile assetto di questo mondo. Sia chiaro. Nel rispetto profondo di chiunque, qualunque sia la sua etnia, classe sociale, religione, credo politico, colore dei capelli e della pelle. Io rivendico però il diritto, che per me è un dovere, di non essere flaccidi, teneri, davanti al nemico che ci assalta, anche se pare dormire, e fa la faccia dolce, e si chiama fondamentalismo islamico. Il quale ha il pregio di mantenere le promesse obbedendo ai comandi bene espressi da almeno una ventina di "sure" del Corano, di cui le risparmio la pedestre citazione, e che per fortuna non sono tradotte in sangue dalla gran maggioranza del miliardo e mezzo di musulmani, anche se parecchi di loro tifano per chi ha il coraggio di metterle in pratica. Oggi è l' 11 settembre. L' attentato bestiale alle Torri Gemelle e al Pentagono compie diciotto anni. La guerra che, in nome dell' islam, Bin Laden e soci hanno scatenato contro "i giudei e i crociati" è diventata maggiorenne. Lo sceicco barbuto è stato eliminato, prontamente sostituito da ceffi peggiori di lui, i quali fanno proseliti ovunque. Essi diffondono il loro verbo sanguinario e organizzano la loro rete anche in Italia. Pure in questo momento. Leggo sulla prima pagina della Stampa di domenica scorsa: «Aquila e Torino. Cellula jihadista reclutava imam: 9 arresti». Usavano serene e linde moschee come base per arruolare alla guerra santa, e per raccogliere milioni di euro con cui foraggiare i nostri probabili assassini. La mia opinione resta quella del 2 novembre del 2017. Ripulire quegli ambienti dai terroristi e dalla fetida attitudine a ospitarli come bravi fedeli. Sono parole fuori dai giardini fioriti del conformismo linguistico usi tra la crème che si lecca a vicenda. Ehi, questa è una guerra. Dura da troppo tempo, la guerra stanca. Ma è assurdo che ripetere come chiedeva Oriana «Troia brucia, Troia brucia!», propugnare perciò fermezza, sia imputato come un crimine e soffocato dalla censura. Su che altro è il caso di alzare la voce, e di incrociare il fioretto ma qualche volta la mazza (dialettica), più che su questa faccenda grave eppure dimenticata? Oggi ci si scanna - e non mi tiro fuori - sul funzionamento del parlamento e delle regole. Be', c' è qualcosa di più serio. Detesto citare Hannah Arendt, specie dopo che l' ha fatto lunedì il premier Conte, ma c' è un concetto nel suo Introduzione al senso della politica, che spiega molto meglio di quanto sappia fare io l' importanza del tema, e la necessità di incontrarci e scontrarci su questa guerra. Scrive: «Guerre e rivoluzioni, non il funzionamento dei governi parlamentari e degli apparati dei partiti democratici, costituiscono le esperienze politiche fondamentali del nostro secolo. Se le trascuriamo è come se non avessimo affatto vissuto nel mondo che è il nostro». Bisogna prendere posizione. E invece incolpazione, censura, procura generale. Busso perciò alla porta della sua coscienza, dottor Greco.
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 2 novembre 2019. Caro Ancelotti, perdoni se mi intrometto in una questione calcistica estranea alla mia professione di cronista generico. Non ho i titoli allo scopo di rimproverarla per il suo atteggiamento stravagante riferito alla ultima partita disputata al San Paolo di Napoli. Mi limito ad alcune osservazioni fredde, dopo aver assistito in tivù all' incontro della sua squadra con l' Atalanta, della quale confesso di essere affezionato quale bergamasco di nascita. Lei è sempre stato un gentiluomo sia da giocatore sia da allenatore e, non bastasse, ha ottenuto in entrambi i ruoli risultati eccezionali. Ricordo i suoi esordi nel Parma, addirittura promosso in serie B grazie non solo, ma soprattutto, a lei, possente centrocampista dotato di un folgorante tiro. Poi rammento le sue prestazioni nella Roma e nel Milan: roba di alto livello. Nelle vesti di trainer infine si è distinto per signorilità e produttività. Mi tolgo il cappello che non ho davanti a tanta qualità umana e sportiva. Ecco perché oggi sono stupito e amareggiato per le sue reazioni scomposte all' episodio accaduto mercoledì nello stadio partenopeo. Mi riferisco allo scontro avvenuto in area tra Llorente e Kjaer. Il primo inavvertitamente, forse, ha colpito con una gomitata il secondo che di conseguenza gli è rovinato addosso. Fallo evidente e indiscutibile del suo attaccante, quindi niente rigore. La palla è finita tra le braccia del portiere nerazzurro. Che ha rinviato. Tutto si è svolto in modo chiaro, però lei unendosi al triste e sconsolante piagnisteo inscenato sugli spalti si è abbandonato a una protesta improntata a protervia al grido "era un penalty". Non lo era, ma a parte questo dettaglio simile a molti altri che si registrano abitualmente sui campi, mi domando come sia possibile che una persona seria quanto lei abbia potuto farsi trascinare in una sceneggiata farsesca finalizzata a dare del pazzo all' arbitro, che non ha fatto altro che applicare il regolamento. Capisco l'irritazione dovuta alla circostanza che un minuto dopo il campione Ilicic abbia segnato fissando il punteggio sul 2 a 2. Tuttavia non mi sembra il caso che un signore della sua statura si sia accodato all'isterismo dei tifosi e del presidente De Laurentiis, i quali si sono volgarmente stracciati le vesti per una discussa azione di gioco. Da lei, se non dalle tribune, ci saremmo aspettati un contegno più dignitoso. Le faccio notare che la povera Atalanta, in occasione della finale di Coppa Italia, persa contro la Lazio, non ebbe assegnata la massima punizione allorché un calciatore avversario colpì il pallone nettamente con una mano, eppure, al di là di ovvie lagnanze, non si scatenò la fine del mondo, e gli orobici dal primo all' ultimo rappresentante della società accettarono con rassegnazione l' esito contraffatto del match. Mi auguro che il piagnucolio dei napoletani, nonché il suo, si stemperi presto in un concerto di mandolini anziché sfogarsi nelle interpellanze parlamentari invero ridicole.
Da “la Zanzara - Radio24” il 4 ottobre 2019. “Io razzista? Ma se ho appena assunto una governante nella mia nuova casa di Milano che è un’africana. Nera”. Lo dice il direttore di Libero Vittorio Feltri a La Zanzara su Radio 24 litigando con uno dei conduttori David Parenzo, che ribatte: “E allora? C’erano anche quelli che lavoravano nelle piantagioni di cotone?”. “Ma cosa c’entra il cotone”, ribatte Feltri: “Stai zitto un attimo, imbecille. Scusa, c’è una signora che cerca un posto di lavoro ed io l’ho presa. Ma come rompe i coglioni Parenzo. Si potrebbe dire, Mens nana in corpore nano”. Come chiamerai la tua donna di servizio, nera o negra, dice ancora Parenzo: “Ma perché devo chiamarla negra? Si chiama Faitou, perché devo chiamarla negra? E poi per me nera o negra è la stessa cosa”. Se la chiamassi negra, nei suoi panni sputerei dentro l’acqua che ti porta, aggiunge Parenzo: “Parenzo, imbecille, tu non sai un cazzo. Io metto giù perché questo mi infastidisce. Tu sei negro nel cervello. Parenzo, tu sputeresti nel bicchiere perché sei un cafone. Nell’animo. Sei veramente un pezzo di merda”.
Vittorio Feltri e Milano bloccata per Sergio Mattarella: "Inutile, serve solo a rompere i cazzo agli italiani". Libero Quotidiano il 4 Ottobre 2019. Ieri a Milano sono arrivati Mattarella, presidente della Repubblica, e la Casellati, presidente del Senato, e si sono recati alla Scala per parlare, anzi per udire le lagnanze di Confindustria verso le decisioni del governo più sprovveduto che gli italiani abbiano avuto, pur abituati ad essere guidati da incompetenti, gente che si improvvisa amministratrice della nazione non essendo in grado manco di badare a un condominio di periferia. Al posto dei due alti rappresentanti delle istituzioni, ci saremmo astenuti dal venire in terra lombarda per assistere alle esibizioni inutili degli imprenditori, i quali da sempre predicano inascoltati allo scopo di convincere l' esecutivo a dare loro retta. Ma il punto è un altro. La metropoli, per accogliere il capo dello Stato e la signora di Palazzo Madama, è stata paralizzata dalle prime ore del mattino. Perché? Giusto rendere omaggio a due autorità, ciò è innegabile. Sarebbe andata bene anche la partecipazione della banda musicale, tuttavia non c' era motivo di bloccare le vie ore e ore danneggiando i cittadini impegnati a guadagnarsi il pane, come usa qui al Nord, già pregiudicati in modo grave un venerdì sì e uno no dagli scioperi dei trasporti eccetera. Insomma, è assurdo che in assenza di lavoratori impegnati a protestare, per ragioni misteriose, si mobilitino le forze dell' ordine al fine di impedire lo smaltimento del traffico solo perché il capo del Quirinale e del Senato vanno nel teatro più importante del Paese per non dire niente di decisivo. Non si capisce il motivo per cui a Roma ogni giorno circolino politici di qualsiasi livello e non c' è chi se ne curi, mentre se a Milano giungono Mattarella e la Casellati si debba immobilizzare la città, rendendola impraticabile. Nella quale, sia detto con rispetto, per parecchio tempo non è stato possibile circolare, strade ingolfate di automobili, clacson impazziti, bestemmie à gogo, imprecazioni. Che senso aveva tutto questo? Nessuno al Settentrione si sogna di fare del male a Mattarella o alla Casellati, per cui allestire un apparato difensivo così rigido non serve a tutelare la loro incolumità, bensì soltanto a rompere i coglioni alla gente che sgobba per spingere il Paese fuori dalle secche in cui il governo più scemo della storia lo ha spinto. Vittorio Feltri
Massimo Fini per il “Fatto quotidiano”il 25 settembre 2019. Su Libero del 20 settembre Vittorio Feltri, che ne è il direttore editoriale non il responsabile così le querele se le becca tutte il povero Senaldi, in un articolo intitolato "Giustiziamo i giustizialisti di sinistra", a proposito di Diego Sozzani di cui la magistratura aveva chiesto l'arresto (ai domiciliari naturalmente perché questa detenzione soft è riservata a lorsignori, parlamentari e non, mentre gli altri, nelle stesse condizioni, vengono sbattuti in carcere senza tanti complimenti e anche questa è una discriminazione sociale intollerabile) ha scritto: "Troviamo assurdo privare della libertà un signore, fosse anche colpevole, prima di essere processato e condannato. La gente, di qualunque tipo, non va punita se non dopo sia stata dimostrata con regolare processo la sua partecipazione a un reato Basta ricevere un avviso di garanzia per essere sputtanato a vita, esposto al pubblico ludibrio". Il Feltri si concede qui la parte del Cesare Beccaria del Dei delitti e delle pene (meglio cento colpevoli in libertà che un innocente in galera). Ma il Feltri Beccaria lo deve aver letto abbastanza di recente o forse è uno scambio di persona tanto diverso è dal Feltri che diresse l' Indipendente dal 1992 al 1994. Quell' Indipendente fu il quotidiano più "forcaiolo" della storia del giornalismo italiano. Fu Feltri a sbattere in prima pagina, con goduto compiacimento, una grande foto dell' onorevole Carra in manette. Fu sempre Feltri a coniare per Bettino Craxi, in quel momento raggiunto solo da un avviso di garanzia, il termine "cinghialone" dando a una legittima inchiesta della magistratura il sapore di una caccia sadica che non fu estranea al vergognoso lancio di monetine davanti all' hotel Raphael. Fu ancora Feltri ad attaccare pesantemente i figli di Craxi, Stefania e Bobo, come se i figli avessero le colpe dei padri. Avallò anche i suicidi che avvennero durante la stagione di Mani Pulite: "Craxi ha commesso l' errore di spacciare i compagni suicidi (per la vergogna di essere stati colti con le mani nel sacco) come vittime di complotti antisocialisti". Il Feltri diventò "ipergarantista" quando nel 1994 passò alla corte di Silvio Berlusconi. Era stato l' ammiratore più fanatico dei magistrati di Mani Pulite, Di Pietro in testa, ne divenne un altrettanto fanatico accusatore. Da questo "forcaiolo", poi pentitosi al momento in cui gli conveniva pentirsi, non accettiamo quindi lezioni postume di "garantismo". La carcerazione preventiva certamente dolorosa per qualsiasi indagato, soprattutto se poi risulterà innocente, si rende necessaria in tre casi: quando i magistrati ravvisino il pericolo di fuga o la possibilità di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato. Ma seguiamo pure l' ultimo Feltri o il Feltri numero 2 o lo pseudo Feltri, che di diritto ne sa quanto la mi zia, nel suo ragionamento e aboliamo quindi la carcerazione preventiva. Non si capisce allora però perché questa immunità dal gabbio lo indigni particolarmente quando di mezzo c'è un parlamentare. Non gli ho sentito emettere simili lai quando in carcere preventivo, e non ai più comodi domiciliari, sono stati sbattuti senza tanti complimenti presunti ladri di galline, presunti rapinatori, presunti stupratori. In questo caso la linea è anzi quella di madama Santanchè che fa parte del suo giro o comunque del movimento politico, la destra, cui si rifà: "In galera subito e buttare via le chiavi". Cioè in galera senza che nemmeno ci sia un processo. Il Feltri o lo pseudo Feltri appartiene a quella linea politica, sempre la destra, che quando Pietro Valpreda era in galera da quattro anni senza processo voleva che vi rimanesse a vita. La carcerazione preventiva è una dolorosa necessità che esiste in tutti gli ordinamenti. Ma se si vuole abolirla, come sottintende il Feltri, allora va abolita per tutti e con la stessa indignazione che Feltri riserva al parlamentare di Forza Italia. Insomma, nonostante il lacrimoso e intellettualmente disonesto articolo di Feltri, siamo alle solite: due pesi e due misure, due diritti, uno per lorsignori e gli amici degli amici l'altro per i cittadini comuni. Mi colpisce l’inerzia di questi ultimi. I privilegi di lorsignori rimangono intatti tant'è che Feltri li difende fingendo di farlo per tutti e noi non ci ribelliamo mai. Qualsiasi partito si sia votato o non si sia votato la cittadinanza intera dovrebbe insorgere. Invece no. Siamo solo pecore da tosare, asini al basto, maiali che si fanno docilmente portare al macello senza emettere nemmeno un grugnito, preda per soprammercato degli azzeccagarbugli alla Vittorio Feltri.
Da Libero Quotidiano il il 25 settembre 2019. Per Vittorio Feltri, Massimo Fini nutre una sorta di ossessione. Sul Fatto Quotidiano, infatti, più volte negli ultimi tempi ha riservato la sua attenzione al direttore di Libero. Oggi, giovedì 25 settembre, compreso. Una lenzuolata tra le pagine dei commenti vergata per attaccare Feltri, definito un "azzeccagarbugli". Qui diamo conto della durissima replica del direttore all'articolo di Fini, una replica piovuta su Twitter, con i caratteri dunque contingentati ma non per questo meno incisivi: "Massimo Fini, grande giornalista precocemente diventato piccolo come un moscerino e soprattutto miserabile, dice che sono un azzeccagarbugli. Bene. Lui poveraccio non azzecca più neanche i garbugli con i quali si strangola rendendosi patetico". Non c'è nulla da aggiungere.
Vittorio Feltri contro Fioramonti e il vescovo di Bologna: "Umiliante sottomissione all'islam". Libero Quotidiano il 2 Ottobre 2019. C' è un bischero che vuole togliere i crocefissi dalle aule scolastiche. Li tolga pure se gli garba, prima di farlo però sarebbe meglio chiedesse il parere non dico degli studenti ma almeno dei genitori. Inoltre: capirei se l' abolizione dei simboli cristiani avvenisse in ossequio della laicità dello Stato. Avrebbe un senso. Farli sparire per compiacere ai musulmani che ci odiano è un atto di sottomissione vergognoso e umiliante. Come si fa a non comprendere che l' Italia per salvare la sua dignità di Paese occidentale è obbligata a difendere la propria cultura e le proprie tradizioni? L' ospitalità è un conto, e va garantita agli stranieri che purtroppo accogliamo senza neppure selezionarli, l' asservimento è altra e deplorevole cosa. Tra l' altro il vescovo di Monreale, auspicando il mantenimento del crocefisso nelle scuole, invece di addurre motivi religiosi, afferma che eliminandoli si farebbe il gioco di Salvini. Come dire: piuttosto che fare il gioco della Lega è meglio agevolare quello degli islamici. Una idiozia del genere non poteva venire che da un alto prelato infognato nella peggiore politichetta. Il quale evidentemente tiene più ai voti che alla spiritualità del suo gregge, che giustamente se ne fotte del suo pastore del cavolo. Almeno spero, promitto e iuro che notoriamente reggono l' infinito futuro. Andiamo avanti nel peggio. In certe zone da sempre si mangiano volentieri i tortellini, per altro ottimi, che contengono un ripieno eccellente a base di carne di maiale. Ora qualcuno, non pochi, ha pensato di prepararne utilizzando il pollo. Perché? I seguaci di Maometto non gradiscono nutrirsi di suini, prediligono il pollame. I produttori di questa leccornia sono padroni di fare ciò che vogliono tuttavia che le loro scelte gastronomiche dipendano dai gusti musulmani, ai quali è obbligatorio assoggettarsi, pare una cazzata mega galattica. Magari presto scoprirò che il piatto tipicamente emiliano è più buono con la polpa del galletto che non con quella dell' amato porcello, ciononostante l' idea che a impormelo siano quelli che predicano con i glutei per aria mi disgusta e impone di ribellarsi. Questa più che integrazione culinaria, è una operazione fatta col culo. di Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 2 ottobre 2019. Il romanzo di Aldo Cazzullo e Fabrizio Roncone mi ha riconciliato con l' idea di Padania. Una bella secessione, e via. Infatti il loro splendido giallo, scintillante di vocaboli che se li usassi su Libero sarei arrestato, è una introduzione del lettore nel corpo vivo di Roma, anima no, perché Roma è la dimostrazione che l' anima non esiste. L' Urbe in questo testo che si beve come un Negroni (i Mojito portano male) è viva, nel senso che è carne marcia che respira. Perché Roma è eterna non per meriti o grande bellezza, ma perché è in stato di putrefazione immortale. Il thriller si intitola appunto Peccati immortali (Mondadori, pag. 260, 18). Sono peccati che spaziano da quelli sotto la cintura, e perciò veniali, agli omicidi con killer prezzolati, ai tradimenti degli amici e all' uso di santi e madonne per scopi di potere più schifosi di quelli che immaginate. Non è vero come alcuni dicono che non esista sotto il Cupolone e presso il Colosseo il senso del peccato. Esiste ma è rovesciato, rispetto alla giansenista Torino e alla calvinista Milano. Il fatto è che Roma non crede che il male sia poi così male come dicono, anzi esiste, ma fa bene. In fondo pure il diavolo è uno dei nostri, è romano, e deve mangiare anche lui alla tavolata con la pajata. Insomma, la lettura è alquanto istruttiva. Mi conferma nella mia determinazione di stare il più lontano possibile da quella che Gianfranco Miglio, buon' anima, chiamava "palude tiberina". Qui - come dimostrano i due autori - si ruba e si corrompe con animo sereno. Il problema è che a essere derubati e vittime dei corrotti siamo noialtri di fuori. I protagonisti non ce l' hanno con Dio, di cui non temono i fulmini anche perché i cardinali lo hanno coinvolto come complice, ma con i nordici. Non tutti. Ci sono lombardi e veneti che si trasformano in cittadini onorari più intrisi dello spirito della Bestia di quanto non siano gli autoctoni. Tali e quali i gabbiani emigrati qui e cresciuti, fino a essere il perfetto simbolo della Babilonia italica. Non più la Lupa ma il Gabbiano: «(I gabbiani) bestiacce ancora sporche del sangue dei piccioni predati in strada e degli avanzi rubati - con tecnica davvero pregevole - dai sacchi dell' immondizia». Si salvano in questa orgia di sesso, denaro e potere soltanto una prostituta a nome Emmanuelle e una suorina colombiana chiamata Remedios. Sono entrambe diversamente purissime. Ci sarebbe anche un eroe-non-eroe,l' antiquario-agente-segreto-in-sonno Gricia, «ciccione di merda» e in fondo buono, proprio come la pasta che adora e gli ha dato il nomignolo: quella con il guanciale, gli spaghettoni e il pecorino, di cui viene fornita la ricetta, e che alla fine è la sola cosa onesta e pulita dei banchetti satrapeschi e satrapreteschi in cui il romanzo ci avviluppa. Capita che un cardinale sia trovato morto, dopo una notte di bagordi con un telefonino in tasca. Il porporato fa in tempo a dire solo una frase prima di morire, e che me lo ha reso subito simpatico: «I poveri hanno rotto i coglioni». Il telefonino viene recuperato dalla suorina Remedios, che curò da vivo, e ora cura da morto, con amore devoto e casto (sul serio) il prelato di cui conosceva le debolezze esagerate della carne. Non resiste. Apre il telefonino. Nella galleria di fotografie dell' iPhone c' è quello che immaginate: l' orgia. Si vede lui e si nota anche l' inconfondibile tatuaggio di cui va orgoglioso il ministro plenipotenziario del "Partito dell' Onestà", ora al governo con il Pd (l' ambientazione è tra il 2020-2022). Questo telefonino passa dalle mani di una zingara ladra, che evita le grinfie del suo padre-padrone parente degli Spada. E lo vende a un "negro" (si scrive così nel libro, e usano tutti questa parola), che è un capo della mafia nigeriana, a sua volta braccio destro di un losco figuro amatissimo dal Papa perché dirige la Onlus "Fratello Migrante" da cui spreme denaro a gogo. Remedios corre dal suo padre spirituale a confidarsi, un cardinale di sinistra che scrive per Micromega e tiene una corrispondenza altissima e progressista con padre Enzo Bianchi, il frate più amato da Gad Lerner e da papa Bergoglio. Anche il cardinale santo è in realtà un satanasso dalla doppia vita: vuole anche lui il telefonino, così come lo desidera un vecchio democristiano, il quale si allea con una corrente del Partito dell' Onestà, e con un cardinale reazionario, mascalzone ma saggio. Insomma. Un libro magnifico. Con spunti filosofici su cui rimarrete una mezzoretta a riflettere. Tipo questa frase detta da Gricia a Remedios: «L'uomo è sempre sostanzialmente incolpevole, ma solo perché mai è all' altezza della sua colpa». La trama è intessuta con penna doppia e leggerissima. Siccome sono estimatore di entrambi gli autori, ciascuno dotato di una cifra inconfondibile e rara nel panorama giornalistico italiano (sono inviati del Corriere della Sera, capaci però di formidabili guizzi fuori dai ranghi del conformismo), mi sono stupito della loro capacità di mimetizzarsi uno nella scrittura dell' altro. Certo i riferimenti a Beppe Fenoglio e una certa competenza ecclesiastica sono di Cazzullo, così come certi scorci crudamente poetici del male romano, mentre il linguaggio di certi dialoghi di cardinali e politici sembra trasferito direttamente dalle interviste e dalle cronache a volte surreali di Roncone. Ma i due sono riusciti a unirsi e fondersi senza omogeneizzare i sapori, un po' come Fruttero e Lucentini, di cui sono persino più disincantati. Questo libro va letto. Dimostra con arte finissimamente greve che i luoghi comuni su zingari, negri, cardinali, politici sono proprio veri, per scorgerli basta uscire dai quartieri dei signorini, i quali tra l' altro sono in gran parte froci, come pure in Vaticano. Insomma. In ordine. Gli zingari qui sono tutti ladri e avvelenatori e perseguitano le donne. I negri sono violentatori, assassini arrivati con il barcone per fotterci, oppure finti sagrestani chierichetti ricattatore e pure peggio (non rovino il finale). I cardinali sono spietati criminali disposti a tutto per fare il bene, ovvio. I politici sono tutti uguali, ammorbati con i servizi segreti, con sottopanza manipolatori, ignoranti o sapienti, ma comunque tutti, vecchi o nuovi, pelosi di dentro. Da questo quadro infame, si stacca Gricia: con tutti i suoi vizi, difetti, antichi delitti, compromessi, arrotondamenti amorosi, rappresenta misteriosamente quell' aspetto di Roma che non si tira fuori del tutto dalla melma, ma la rende odiosamente simpatica. Remedios è invece la figlia che vorremmo avere, e l' idea che in fondo la Chiesa è sì prostituta (come Emmanuelle) ma anche casta. I giornalisti sono gli unici della cloaca trattati abbastanza bene. Capisco Aldo e Fabrizio: in fondo cane non mangia mai del tutto cane, magari lo mozzica ma appena appena. Sono persino coraggiosi. Memorabile la stroncatura morale di uno che io ho capito benissimo chi sia, ma non lo dico: «L' ex presidente del Consiglio, che tutti consideravano e considerano un santo, l' emiliano, scriveva su giornali americani articoli a favore del leader ucraino, quello amico di Putin...». Ma sì, oso: sarà mica Romano Prodi? Di "Peccati immortali" dovrebbe farne un film Pupi Avati. Sorrentino no, lo rovinerebbe come già fece con Andreotti.
Vittorio Feltri: i veri poveri sono gli anziani e il Movimento 5 stelle li odia. Libero Quotidiano il 19 Ottobre 2019. I poveri sono sempre esistiti ed esisteranno sempre. Le cause della miseria sono varie e nessuno riesce ad eliminarle. C'è chi non lavora poiché non trova un posto e chi non sa fare alcun mestiere pertanto ha difficoltà ad avere una occupazione. Al Nord il numero degli indigenti è di gran lunga inferiore rispetto al Sud per chiare ragioni: ci sono più imprese e le opportunità di ottenere un impiego sono superiori. Non ci vuole molto a capirlo. Ma rimane il fatto che è difficile stabilire chi è al verde non essendolo e chi lo è davvero e perché. Quelli che sgobbano e percepiscono retribuzioni in nero risulta che abbiano le tasche vuote mentre in realtà le hanno piene. Quelli che viceversa non sanno fare un tubo è ovvio che versino in condizioni penose. Ma sono una minoranza di sfigati la quale non mi pare incida molto sulle statistiche degli affamati. In effetti coloro che riscuotono il reddito di cittadinanza di solito sono ragazzotti che non hanno voglia di fare alcunché e che noi manteniamo per pietà pur sapendo che essi sono un branco di fessi, nati stanchi, i quali non hanno studiato né si sono impegnati per diventare muratori o idraulici o falegnami, attività che consentirebbero loro, se fossero idonei a svolgerle, di guadagnare fior di quattrini e uscire così dal novero degli straccioni. Lavorare stanca però non lavorare abbruttisce benché non impedisca di campare a sbafo dei genitori e parenti. Da anni seguo la cronaca quotidiana per motivi professionali e non mi è mai capitato di registrare una morte per inedia. Ogni tanto invero qualche clochard tira le cuoia perché dorme all'addiaccio, tuttavia mi risulta che vari barboni preferiscano rimanere raminghi piuttosto che accettare un ricovero garantito dall'assistenza pubblica. Ovvio che di tanto in tanto qualcuno di loro crepi. Dispiace, ciononostante non è lecito violare la volontà di certi individui di cui ignoriamo la mentalità. Piuttosto penso che i poveri autentici, quelli che soffrono in silenzio e quindi non si calcolano, siano i vecchi, uomini e donne su di età che si arrabattano negli stenti, disponendo di pensioni vergognosamente basse, dovute alla circostanza che un tempo parecchi dipendenti non erano in regola con i contributi sociali, in quanto gli imprenditori per cupidigia non li versavano. Risparmiavano sulle spalle delle loro maestranze. Cosicché oggi una moltitudine di anziani percepisce dalla Previdenza assegni inferiori a quanto loro dovuto. Insomma i poveri sono coloro che sono stati fregati dai padroni-ladroni, e non hanno chi li difenda. I vecchi sono abbandonati a se stessi e ce ne infischiamo se vanno al mercato per raccogliere a terra gli avanzi e gli scarti di chi acquista e consuma. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 ottobre 2019. I poveri sono sempre esistiti ed esisteranno sempre. Le cause della miseria sono varie e nessuno riesce ad eliminarle. C'è chi non lavora poiché non trova un posto e chi non sa fare alcun mestiere pertanto ha difficoltà ad avere una occupazione. Al Nord il numero degli indigenti è di gran lunga inferiore rispetto al Sud per chiare ragioni: ci sono più imprese e le opportunità di ottenere un impiego sono superiori. Non ci vuole molto a capirlo. Ma rimane il fatto che è difficile stabilire chi è al verde non essendolo e chi lo è davvero e perché. Quelli che sgobbano e percepiscono retribuzioni in nero risulta che abbiano le tasche vuote mentre in realtà le hanno piene. Quelli che viceversa non sanno fare un tubo è ovvio che versino in condizioni penose. Ma sono una minoranza di sfigati la quale non mi pare incida molto sulle statistiche degli affamati. In effetti coloro che riscuotono il reddito di cittadinanza di solito sono ragazzotti che non hanno voglia di fare alcunché e che noi manteniamo per pietà pur sapendo che essi sono un branco di fessi, nati stanchi, i quali non hanno studiato né si sono impegnati per diventare muratori o idraulici o falegnami, attività che consentirebbero loro, se fossero idonei a svolgerle, di guadagnare fior di quattrini e uscire così dal novero degli straccioni. Lavorare stanca però non lavorare abbruttisce benché non impedisca di campare a sbafo dei genitori e parenti. Da anni seguo la cronaca quotidiana per motivi professionali e non mi è mai capitato di registrare una morte per inedia. Ogni tanto invero qualche clochard tira le cuoia perché dorme all' addiaccio, tuttavia mi risulta che vari barboni preferiscano rimanere raminghi piuttosto che accettare un ricovero garantito dall' assistenza pubblica. Ovvio che di tanto in tanto qualcuno di loro crepi. Dispiace, ciononostante non è lecito violare la volontà di certi individui di cui ignoriamo la mentalità. Piuttosto penso che i poveri autentici, quelli che soffrono in silenzio e quindi non si calcolano, siano i vecchi, uomini e donne su di età che si arrabattano negli stenti, disponendo di pensioni vergognosamente basse, dovute alla circostanza che un tempo parecchi dipendenti non erano in regola con i contributi sociali, in quanto gli imprenditori per cupidigia non li versavano. Risparmiavano sulle spalle delle loro maestranze. Cosicché oggi una moltitudine di anziani percepisce dalla Previdenza assegni inferiori a quanto loro dovuto. Insomma i poveri sono coloro che sono stati fregati dai padroni-ladroni, e non hanno chi li difenda. I vecchi sono abbandonati a se stessi e ce ne infischiamo se vanno al mercato per raccogliere a terra gli avanzi e gli scarti di chi acquista e consuma.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 20 ottobre 2019. I premi non mi erano mai interessati, specialmente perché non ne avevo mai presi. Ma stavolta ce l'ho fatta: mi hanno dato un bel diploma. Intendiamoci, non ho meriti, tranne quello di aver pagato e di non aver fatto nulla perché gli organizzatori si accorgessero che non sono un commercialista, ma un giornalista. Una truffa? Non lo so, giudichino gli esperti. Una beffa? Forse. Personalmente, preferisco limitarmi a raccontare quello che è successo. Qualche giorno fa un lettore scrive al Corriere: «Sono due anni che ricevo l'allegata documentazione. Per me è tutto un imbroglio, ciò può accadere solo da noi». La documentazione allegata consiste in alcuni dépliant. Sui quali, tra l' altro, si legge: «Con la presente, nel formularle le nostre più vive congratulazioni per il conferimento di questo prestigioso riconoscimento, il più importante ed ambito in campo nazionale ed internazionale, la informiamo che domenica 19 gennaio 1986 alle ore 10,30 presso l' aula magna capitolina alla presenza di illustri personalità politiche e religiose, con l' intervento delle maggiori testate giornalistiche e delle più importanti reti televisive - non esclusa la Rai - il comitato d' onore le conferirà ufficialmente il diploma del Premio Italia per la consulenza economica e commerciale Naturalmente le numerose iniziative approntate per valorizzare la sua partecipazione comportano un simbolico contributo spese pubblicitarie di lire 194.000 più Iva (18%)...». La carta è intestata così: «Accademia internazionale per le scienze economiche e sociali, sede generale italiana, via Nazionale 163, Roma». La firma è del presidente: Musizza Lucio. Venerdì mattina, quando mancavano tre giorni alla cerimonia, telefono all' Accademia (numero: 06-6784149). Risponde un signore gentile. Gli dico: «Mi chiamo Vittorio Feltri, vi ringrazio per avermi scelto fra chissà quanti candidati. Le espressioni gentili che mi avete dedicato nella missiva mi hanno commosso. Desidero ardentemente ritirare l'attestato. Temevo di non farcela a venire fino a Roma perché avevo degli altri impegni. Ma ora, e mi scuso se ho deciso all'ultimo momento, sono lieto di comunicarvi di essere pienamente disponibile. Sono ancora in tempo?». Il rappresentante dell' Accademia non ha indugi: «Ma certo ragionier Feltri, sarà un onore averla con noi. Non ha ancora spedito la scheda di adesione? Non importa, la compilo io, subito, mi dia i suoi dati». E io glieli do senza inventare un dato: cognome, indirizzo, numero di telefono. Neanche una bugia, soltanto un'omissione: dovrei smentire di essere ragioniere e commercialista, ma non ce la faccio. E lui sul finire della conversazione: «La prego di una cosa, mi mandi direttamente il vaglia telegrafico con l' importo di 194 mila lire più Iva, in modo che il suo nome possa comparire sulla stampa». Obbedisco. Corro all' Ufficio postale e compilo il modulo, in fondo al quale, nello spazio riservato al mittente, scrivo ragionier Vittorio Feltri, mentendo ancora una volta sul titolo. D' altro canto è necessario. E ieri mattina, come da invito, mi presento con una testimone femminile - non si sa mai - all' Auditorium Seraficum di Roma (EUR), nel collegio della facoltà teologica San Bonaventura. Nell' ampio atrio c' è molta gente, completi grigi da nozze riesumati dal solaio, giacche blu e cravatte vinaccia, abiti di seta turchese, viola e neri con lustrini, scarpe di raso, qualche pelliccetta. Volti tirati per l' emozione. Andirivieni di tele cineoperatori, di hostess, di sconosciuti. L'atmosfera è elettrica, come in occasione di un premio vero. C' è una scrivania, quella della segreteria: mi accosto con titubanza, convinto di essere scoperto, ma sono pronto a tutto. Mi rivolgo all' addetto, declinando le mie generalità come una recluta, ed esibisco la ricevuta del vaglia. Il giovanotto mi scruta. Per me sono attimi di panico. Penso: «Ecco, hanno fatto un controllo e hanno accertato che non sono un ragioniere, ma un ficcanaso». Neanche per sogno. Mi consegna una busta con un sorriso. Contiene due biglietti-buono: uno per il ritiro dell' ambito attestato, l' altro per la colazione-festa al Grand Hotel Ritz. Apprendo, inoltre, da un cartoncino-avviso che, se non mi accontento della pergamena, ho facoltà di richiedere - pagando - una statuetta (200 mila), un distintivo (8 mila), un gagliardetto (40 mila), un piatto (60 mila). Scelgo il gagliardetto e il distintivo. Quindi prendo posto nell' Auditorium insieme con gli altri che attendono trepidanti di essere insigniti e di intrufolarsi nella storia di questo Paese. Sul palco, al tavolone delle autorità, siedono in sette. Alcuni hanno facce note: il giornalista Ruggero Orlando (trascorsi non comuni in tv ed ex deputato socialista), Isabella Biagini (soubrette) e Tony Dallara (dall'archeologia canora). Attacca a parlare Orlando: fa un discorso di politica estera stile «bar commercio», coinvolgendo Gheddafi, Andreotti, Spadolini, che non si capisce cosa c'entrino con i ragionieri e i dentisti, (anche i dentisti, di fatto, sono della partita). Ma ecco, con un balzo giovanile, entra in scena Silvio Noto, proprio quello di Campanile Sera. Comincia la premiazione. È una processione di poveracci che, rispondendo all' appello, come a scuola si precipitano giù per le scale, fanno l'inchino davanti al tavolone, stringono qualche mano, ritirano il premio e tornano, fra gli applausi che si tributano a vicenda, in poltrona. Quasi tutti impacciati, alcuni inciampano, le guance di fuoco. Una signora fa un ruzzolone, fatica a rialzarsi: ci vogliono due volontari per rimetterla in piedi. Ovazioni. Arriva il mio turno: mi vergogno come un ladro, mi sento in punto di morte. Scavalcando seggiole, periti contabili, stomatologi e consorti varie guadagno il palco. Lancio uno sguardo alla Biagini che, a titolo di incoraggiamento, mi offre in visione la doppia fila dei suoi denti, non più tanto regolari. Un tale mi dà il diploma che reca la seguente motivazione: «Quale massima attestazione di merito per la precisa ed accurata valutazione ed applicazione delle norme valutarie dimostrate nell' espletamento di una così importante professione». Un dettaglio: sono giornalista da 23 anni, ho fatto tutt' altri studi che quelli di ragioneria. Ma che importa, oltre ai soldi sborsati come ho descritto, ho scucito - per non essere da meno «dei colleghi» - altre 200 mila per le foto-ricordo (tariffa minima). Sulla ricevuta (Royal international film) c'è lo stesso indirizzo dell' Accademia: probabilmente, anche la torta è la stessa. In totale ho speso circa mezzo milione. Dal giornaletto che mi hanno regalato - dove campeggia il mio nome - evinco che siamo stati premiati in 300. Fate il conto: l' incasso per gli organizzatori è stato di 150 milioni. Aggiungetene una decina per un' asta estemporanea (dipinti e litografie) e un' altra decina per una lotteria. Qualche lira andrà in beneficenza, ha assicurato il presidente Lucio Musizza: «Ma non crediate che siano buttate via. La suora dell' istituto a cui li devolveremo, vi farà avere una lettera in cui figurerete come benefattori dei bambini bisognosi. Una lettera che vi permetterà di aprire molte porte. A buon intenditore, poche parole». Me ne vado amareggiato mentre la festa continua. Mi volto verso la platea gremita, mi sembra brava gente, mi chiedo se abbia capito. Un signore, data la circostanza, si è messo in tight. Lo osservo: sarebbe impeccabile se non avesse le calze di lana grigio-orfanotrofio e le scarpe con la para. Stringe la statuetta, il diploma, il gagliardetto, e altre cianfrusaglie. Ha speso più di me: come minimo, 800 mila. No, lui non ha capito.
Vittorio Feltri, non solo Beppe Grillo: "Chi sono i cretini a cui va tolto il diritto di voto". Libero Quotidiano il 21 Ottobre 2019. Anche Giorgio Gori, uomo intelligente, sindaco di Bergamo efficiente e già direttore di Canale 5, ogni tanto fa la pipì fuori dal vaso. Pensate che ha appoggiato la scemenza pronunciata da Grillo, e cioè che bisogna togliere il voto ai vecchi per darlo ai sedicenni. Perché? I seniores se ne fottono dei giovani e si occupano soltanto di se stessi, quindi perdono di vista il futuro e badano egoisticamente agli affari propri. Al comico e al suo allievo orobico sfugge un fatterello non irrilevante: la Costituzione afferma che tutti i cittadini i quali hanno raggiunto la maggiore età sono uguali e godono degli stessi diritti e hanno gli stessi doveri. Tra l'altro, se un individuo ha superato i 65 anni non solo deve poter esprimere le proprie idee attraverso il suffragio universale, ma ha la facoltà di candidarsi in Parlamento e in altre istituzioni. La Consulta si rifiuterebbe di sicuro di approvare le deliranti proposte pentastellate e del mio amico Giorgio, improvvisamente colpito non dico da demenza però qualcosa del genere, visto che la Costituzione non è un giocattolo da usarsi a capocchia. Gori, pur non essendo uno sprovveduto, aggiunge: chi ha un progetto migliore di quello di Beppe ce lo comunichi. Io ce lo avrei. Invece di inibire la cosa pubblica agli anziani, i soli che pagano tutte le tasse e si rendono utili alla società come ausiliari delle famiglie, impediamo l'accesso alle cabine elettorali ai cretini non in grado di ragionare e neppure di comprendere un testo scritto causa analfabetismo cronico. Semmai è assurdo aprire le urne ai sedicenni, molti dei quali non capiscono un cazzo, non sono capaci di concludere decentemente gli studi superiori, si distinguono per bullismo, frequentano chiassose discoteche, si drogano, ne combinano di tutti i colori e, se chiedi loro chi fosse Craxi, ti rispondono che era un contemporaneo di Garibaldi. Senti, Giorgio caro, vai a scopare il Brembo e il Serio. E ricorda che fra meno di sei anni ne compirai 65 e in base ai tuoi suggerimenti dovresti ritirarti dalla politica. Il che mi dispiacerebbe perché tu a tratti, quando non sei offuscato dal Valcalepio, sei bravo. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri e la "guerra sporca dello Stato contro il Nord: presto scoppierà un casino infernale". Libero Quotidiano il 23 Ottobre 2019. La Catalogna brucia. Da tempo immemorabile reclama l'indipendenza e non la ottiene. Anzi, si vede ogni giorno frustrata nelle sue ambizioni e viene mortificata dalla Spagna che le nega il diritto di mettersi in proprio. Purtroppo l'autodeterminazione dei popoli, un diritto fondamentale, è diventata una barzelletta che suscita soltanto il disprezzo delle nazioni consolidate. Non comprendiamo il motivo per cui si voglia impedire a Barcellona e dintorni la possibilità di amministrarsi senza condizionamenti ispanici. Dove sta scritto che una regione debba essere sottomessa a un Paese? Negli ultimi dì la Catalogna è stata massacrata e umiliata, disordini, lotte di piazza, battaglie, arresti di gente che reclama soltanto di governarsi come le garba. Perché impedire ai catalani di essere tali e non dipendenti da Madrid? Non esiste una ragione seria che non consenta a una parte cospicua della penisola iberica di fare da sé. In piccolo, la stessa cosa succede in Italia, dove la Lombardia e il Veneto hanno chiesto e ottenuto tramite un referendum l'autonomia fiscale. Lo Stato centrale da due anni combatte con mezzi sporchi allo scopo di vietare al Nord di gestirsi, adducendo motivazioni egoistiche. Roma pretende di tenersi tutte le tasse versate dai settentrionali i quali, viceversa, puntano giustamente ad essere protagonisti dei loro destini. Siamo difronte, noi quanto i catalani, a una prepotenza insopportabile. Non concedere l'autonomia alle regioni è un atto di violenza intollerabile, che produrrà guasti enormi nella convivenza italiana simili a quelli che turbano la Spagna. Ne vale la pena? Prima o poi scoppierà un casino infernale. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri: "E' la classe dirigente il male dei meridionali". Libero Quotidiano il 25 Settembre 2019. Ecco il botta e risposta tra Gianpiero Falco, delegato sviluppo regionale Confapi, e il direttore Vittorio Feltri. Campania Egregio Direttore, le scrivo per darle pieno e convinto appoggio a quanto da lei affermato sul secondo governo Conte, se le sue frasi, nell' ormai noto commento, volevano trasmettere il messaggio seguente. E cioè rappresentare con la parola «zoo» esseri viventi che dipendono da qualcun altro per il loro sostentamento; e asserire, come credo, con il termine «terroni» soggetti limitati e capaci di fare solo cose dedite o riferibili al settore primario. Cosa questa comunque inesatta, poiché per dedicarsi a tale attività ci vuole fatica e credo che tale attività, per i giovanotti a cui lei si riferiva, non sia particolarmente gradita. Si tratta quindi di un «complimento», a mio avviso, che i più non hanno colto e che mi spinge a fare alcune riflessioni, da imprenditore del Sud, che vive la sua vita da italiano a tutte le latitudini del nostro amato Paese. Ebbene, egregio Direttore, lei è vittima dell' ipocrisia che opprime il nostro Paese, quella che per intenderci ci accompagna dalla nascita della seconda Repubblica e che definisco clerico-comunista. Associazioni meridionaliste e suoi colleghi si sono indignati per le sue parole, non comprendendo la dietrologia dei messaggi che tale ragionamento voleva rappresentare e non comprendendo che tali scellerate unioni politiche apriranno, o meglio spalancheranno, le porte alla Lega che loro tanto detestano. Mi fa ridere lo sciovinismo imperante del mio amatissimo Mezzogiorno, e soprattutto il provincialismo più bieco nell' offendersi per questioni formali e di poco conto e non nell' indignarsi, invece, del contesto in cui siamo costretti a vivere. Il nostro territorio invaso dalla malavita, in tutti i settori economici più importanti, e soprattutto affamato da una burocrazia malvagia e oppressiva nei confronti dell' imprenditoria sana, riferibile nel nostro caso alle PMI che sono l' ossatura del Paese. Ormai siamo oppressi da una filosofia pauperista dell' impresa, che crea sviluppo, e siamo accerchiati da una pizza-connection, che aggredisce in particolare le opere pubbliche del nostro territorio. Inutile dire che, per far ciò, innumerevoli professionisti dei cosiddetti ambienti «bene» della nostra società meridionale si prestano alla bisogna divenendo quelli che il nostro stimato presidente Cantone chiama «colletti bianchi». Io stesso, in qualità di imprenditore, ho subito sollecitazioni debitamente denunciate per quanto riguarda condotte penalmente rilevanti, ma sono anche vittima della burocrazia di un Comune della Provincia di Napoli, Pomigliano d' Arco, il paese del nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Un Comune che mi chiede di fare una variante alla Concessione, da me aggiudicata, di opera pubblica per inserire una caserma dei carabinieri e, dopo averla accettata, mi costringe ad aspettare 4 anni. Essendo ancora in attesa dell' assestamento finanziario, scopro che questa variante addirittura veniva ad essere sterilizzata con il non inserimento nel nuovo ordinamento urbanistico del Comune, quindi di fatto rendendola ineseguibile. Tutte situazioni strane che sono a danno della città e che spetterà a terzi giudicare. Situazioni che peseranno sulle tasche del contribuente. Nel frattempo abbiamo eseguito le opere comuni a tutte e due le ipotesi: quelle che erano presenti nella concessione approvata e in quella oggetto di variante. Quindi siamo meritevoli dell' appellativo Terroni, in quanto onoriamo la fatica giornaliera con cui cerchiamo di raggiungere gli obiettivi, ma siamo andati anche oltre perché crediamo in quello che facciamo. Crediamo in un Mezzogiorno libero da questa mentalità che ci opprime, ma per fare questo c' è bisogno di una nuova azione nei confronti di tutto il Sud. Di un nuovo intervento straordinario, simile a quello pensato dai nostri Padri Costituenti per riallineare i punti di partenza tra tutte le Regioni d' Italia. Solo così potremmo dedicarci alle autonomie (in questo dissentiamo dal suo convincimento), e solo quando il nostro sviluppo meridionale si sarà diffuso e sarà libero potremmo offenderci se ci chiamerete ancora terroni. Anche se, ripeto, i «terroni» hanno peculiarità che oggi sono sconosciute ai più. E poi che dire dei miei amici del Nord che non si offendono mai... quando li appello come polentoni... lenti? Con grande stima. Gianpiero Falco
Caro dottor Falco, ho letto con grande interesse la sua lettera accorata e la condivido dalla prima all' ultima riga. Il problema del Sud è costituito dalla inefficienza della propria classe politica, dirigente e burocratica che non è riuscita a liberarsi da lacci e laccioli che imbrigliano il Meridione impedendogli di svilupparsi. Mai nessuno dalle vostre parti ha pensato di creare infrastrutture idonee a promuovere l' espansione economica. Ancora oggi è impossibile raggiungere in treno, e in fretta, Matera. Non parliamo poi di Reggio Calabria, considerata una specie di appendice fastidiosa della penisola. Sono disgustato dal trattamento riservato a voi che vivete sotto Roma. Ho dimestichezza con il vostro territorio. Da ragazzo ho apprezzato il Molise dove ho trascorso anni, ospite dei miei zii bergamaschi laggiù emigrati per amministrare un latifondo, un feudo. Ho conosciuto gente di cuore ed evoluta umanamente malgrado un ambiente ostile, cioè povero e oserei dire abbandonato. Ho passato lustri felici che mi hanno insegnato a comprendere il prossimo e le sue difficoltà. Ho amato i molisani con parecchi dei quali ho intrattenuto rapporti affettuosi. A un certo punto a Guardialfiera i politici hanno deciso di trasformare le piane di Larino in un lago, tramite una diga che contenesse le acque del Biferno, sommergendo stupendi giardini, paradisi ortofrutticoli. Tutto questo per facilitare l' irrigazione del Tavoliere della Puglia. Bella operazione che ha ucciso una regione per favorirne un' altra. È solo un esempio dello scempio compiuto ai danni di una comunità che necessitava di aiuto e ha ricevuto soltanto schiaffi in faccia. Le garantisco che personalmente non ho niente contro i terroni, anzi, ma ciò non mi impedisce di chiamarli scherzosamente appunto terroni, un termine che molti, non io, usano in senso spregiativo. La sua analisi dei problemi della terra in cui abita e agisce è perfetta. Sono persuaso che se uomini come lei prevalessero sui parassiti dominanti, nel giro di poco, le differenze palpabili fra Nord e Sud si estinguerebbero fino ad annullarsi. Purtroppo esistono ostacoli culturali che frenano la parificazione, bisogna abbatterli. Come? Questo è il punto. Non è facendo la guerra alle parole, terroni e polentoni, che sia possibile trovare una soluzione. Per concludere mi corre l' obbligo di compiere una riflessione. Il governo nega l' autonomia alla Lombardia e al Veneto. Capisco i motivi che lo inducano alla prudenza. Però mi deve spiegare perché Sicilia, Sardegna,Valle d' Aosta, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige godano di tale privilegio mentre i lombardoveneti siano condannati a dipendere in toto dalla Capitale. Sono forse figli di un dio minore o addirittura figli di puttana? Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 agosto 2019. Sabino Cassese sul Corriere della Sera di ieri ci ha spiegato con dovizia di particolari che l'acqua calda ha una temperatura più elevata di quella fredda. Ma dobbiamo informarlo, a costo di deluderlo, che fin qui ci eravamo arrivati da soli, senza l' aiuto culturale di alcuno. Noi, a differenza dell' editorialista, non siamo per fortuna costituzionalisti, né mai ci è premuto di diventarlo, anche perché la Carta italiana, definita da un folto gruppo di allucinati la più bella del mondo, in realtà assomiglia ad un catalogo di buoni sentimenti e di cattive intenzioni. Essa, essendo tesa a garantire la non governabilità, offre il pretesto per definire, coram populo, chiunque intenda guidare il Paese un aspirante dittatore. Infatti Salvini è sputacchiato da una folla di odiatori professionali poiché non si lascia sopraffare dai demagoghi di sinistra impegnati a riaprire i porti contro la volontà della gente sensata. Gli immigrati che arrivano qui a frotte non fuggono da guerre inesistenti, pensano soltanto, influenzati dalla propaganda buonista e sgangherata, di trovare un altrettanto inesistente Eldorado nella penisola. Siccome poi non hanno un mestiere e non possiedono la cultura del lavoro, finiscono con l' essere sfruttati dal caporalato meridionale e dalla criminalità organizzata o, nel migliore dei casi, col bivaccare nei giardini pubblici delle città del Nord, dove si specializzano con risultati brillanti nell'attività di rompere i coglioni ai passanti. Salvini è l'unico politico in sintonia con i connazionali ostili alle invasioni barbariche ed è ovvio che raccolga ricche messi di consensi. Mentre i cosiddetti progressisti e i cattolici integralisti si illudono di sedurre l'elettorato predicando l'ospitalità incondizionata, cioè senza precisare quanti stranieri siamo all' altezza di ricevere e fino a quando. Trattasi di incoscienza allo stato puro per non dire che siamo di fronte a un fenomeno di imbecillità inguaribile. Cassese, che ha una mente fine però sganciata dalla volgare realtà in cui vivono i compatrioti, sorvola su questi temi. E non si accorge di uscire dai binari del senso comune. Ecco un suo ragionamento stravagante. Gli aventi diritto al voto da noi sono 51 milioni di individui. Di questi, 9 milioni regalano il suffragio a Salvini, il quale pertanto rappresenta una relativamente esigua minoranza, cosicché non è democraticamente autorizzato ad avere un potere totalitario. Che scoperte del piffero. Il costituzionalista dimentica che le maggioranze si calcolano sulla base di chi si è recato al seggio e ha depositato la scheda nell' urna, non contano nulla coloro che hanno disertato la cabina. Non fosse così, poiché costituiscono il gruppo omogeneo più folto, gli astensionisti dovrebbero essere chiamati, stando alle elucubrazioni di Cassese, a reggere la cosa pubblica. Insomma dovrebbero governare loro, e forse sarebbe meglio. Bravo, professor Sabino. Avevamo bisogno delle sue fosche illuminazioni.
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 10 agosto 2019. A molti, quasi tutti, piace il mare, è diffuso l' amore per le barche, perfino per i gommoni, e stendiamo un velo sui battelli, le navi e roba del genere. La gente non appena dalle nuvole spunta un raggio di sole si precipita sulle spiagge, si denuda in modo sconcio e si crogiola sulla battigia in attesa di gettarsi tra le onde, nuotare e compiere varie scemenze balneari. D' estate i litorali italiani sono più gremiti degli stadi che ospitano in altre stagioni gli spettacoli calcistici. De gustibus non disputandum est. Tuttavia non ho mai capito quale piacere si possa provare ad ammassarsi lungo i litorali dove la folla ti inghiotte impedendoti perfino di respirare. La bolgia non è mai rassicurante, ti accerchia e ti limita la libertà. Ma questi non sono i soli motivi che mi tengono rigorosamente distante da quello che il duce chiamava bagnasciuga. Ciò che mi fa detestare l' arenile è proprio il mare che considero, su basi scientifiche, un immenso bacino di schifezze in cui non ho mai messo piede per questioni igieniche. In effetti, se ci pensate bene, dove vanno a finire i liquami scartati dall' umanità? Gli scarichi urbani, fognari, ogni rifiuto anche il più ripugnante si rovescia attraverso fiumi e torrenti nel pelago, nel caso dello Stivale nell' Adriatico, nel Tirreno e nello Jonio. In termini brutali e volgari i mari (e non i laghi padani? N.d.a.) sono raccoglitori di tutta la merda del mondo. Vero che poi negli oceani qualsiasi immondizia che non sia plastica si scioglie e forse si purifica, ciononostante la cacca di ogni nazione e di ogni continente si squaglia lì, nell' acqua salata tanto adorata non solamente dai marinai ma pure dagli alpini. E non ci vuole molto a capire che la cacca, per quanto diluita, resta cacca, e la lascio volentieri assaggiare a coloro che nuotano con voluttà sia a Rimini sia alle Baleari. Io nelle deiezioni planetarie non mi tuffo. Non l' ho mai fatto e mai lo farò. Ovviamente, forte di tali certezze incontestabili, me ne guardo bene dal mangiare i poveri pesci costretti a vivere in un ambiente settico e a nutrirsi in profondità ricche di escrementi in ammollo. Ciò che i pescatori portano a riva, oltretutto, suscita in me una pena immensa, lo buttano vivo in ceste, e lasciano che muoia soffocato. Una fine atroce che viene offerta alla gentile clientela come roba fresca e appetibile. Le creature ittiche che si dibattono disperate sui banchi del mercato non fanno pietà, eppure ingolosiscono la gente, che si commuove per lo scoiattolo ferito e non per la sogliola in agonia poiché non piange. I pesci sono muti. Ecco spiegata la ragione per cui detesto il mare e ne sto alla larga, preferendo le vette alpine dove l' aria è pura, la vegetazione è rigogliosa e non vi sono escrementi se non quelli di animali vegetariani. Sarà perché sono nato alle falde delle montagne orobiche, provo piacere a respirarne i profumi. Passeggiare lentamente lungo i sentieri rupestri mi rincuora e rigenera. Fermarsi in una baita o in rifugio ad alta quota dona un senso di benessere. Osservare cervi e marmotte docili risolleva l' animo. Intendiamoci, non sono un provetto escursionista né uno scalatore, non sono le arrampicate sportive che mi eccitano e neppure le sciate sulle piste innevate, piuttosto adoro la bellezza e la quiete dei monti sui quali regna la pace. Non vado pazzo per le vacanze, per carità, lavoro con gusto giacché la mia professione coincide con la mia passione, ma se proprio devo staccarmi dagli impegni quotidiani scelgo un paio di giorni da trascorrere sui massicci brembani cui sono legato da antico, direi ancestrale affetto. Non trascurerei nemmeno la campagna, specialmente quella del Molise (dove da ragazzo mi recavo alcuni mesi ogni estate) ricca di frutteti, piena di gente mite e generosa nonché ospitale. La mia meta era Guardialfiera, che spiccava su un colle da cui si ammirava la piana del Liscione, ormai sommersa dalle acque di una diga distruttiva, che ha raccolto il Biferno, fiume fresco e trasparente quale cristallo. E che ora è sparito lasciando una ferita nelle terre del Sacramento. Nonostante ciò il Molise è rimasto vergine e i pochi che lo visitano rimangono incantati, affascinati dai campi di grano e dai giardini fitti di piante da frutta sapida. È quasi offensivo per i nostri connazionali che molti cittadini preferiscano luoghi stranieri per trascorrere le ferie e trascurino le nostre regioni assai più invitanti. Conosco persone intelligenti e colte che si recano a New York per distrarsi e non hanno mai visitato la Toscana o la Basilicata. Cercano fuori quello che hanno in casa, e non lo trovano.
Lo pseudo-Feltri insulta Di Maio. Invecchiamo tutti male, ma qualcuno invecchia peggio degli altri. E’ il caso, quasi drammatico per chi lo ha conosciuto bene, di Vittorio Feltri, il quasi mitico direttore dell’Indipendente che portò da 19.500 copie a 120 mila in un anno e mezzo (1992-1994), prima di trasferirsi alla corte di Berlusconi. Massimo Fini Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2018. L’altra notte la giornalista che stava facendo la rassegna stampa di Sky Tg24 segnalava come primo giornale Libero e il suo titolo di testa “Da Galileo a Di Maio-come siamo scesi in basso”, definendolo “originale”. Purtroppo non è originale, è ridicolo, rasenta e supera il grottesco. Feltri ricorda alla rinfusa alcuni italiani illustri (Leonardo Da Vinci, Guglielmo Marconi, Enrico Fermi, Galileo Galilei, Meucci, Rubbia, Olivetti) e li paragona a “un ragazzotto senza arte né parte” come Luigi Di Maio. Deve essersi bevuto il cervello per non accorgersi che nessuno dei personaggi da lui citati è stato un uomo politico. Ma al di là di questo dettaglio quale dei nostri politici attuali può reggere il raffronto con Leonardo Da Vinci? Salvini? Renzi? Grasso? Verdini? Brunetta? Berlusconi? E’ curioso che Feltri si accorga del basso livello dei nostri uomini politici solo ora. E anche del basso livello culturale degli italiani cui lui stesso ha contribuito con articoli sempre più sgangherati, scevri di alcuna logica. E volgari. La volgarità è diventato un marchio dell’ultimo Feltri. L’avevo conosciuto come uno che si vestiva come si può vestire un bergamasco quale è. Cioè stava nei suoi panni e uno che sta nei suoi panni, si tratti di un aborigeno australiano o di un contadino padano, non è mai volgare. Adesso Feltri, rimpannucciato, per fare il figo si veste all’inglese. Non sa che nessun inglese si è mai vestito all’inglese. Naturalmente i più implicati in questo degrado sono gli undici milioni di italiani che hanno votato i Cinque Stelle e con loro Luigi Di Maio, “rimbambiti e completamente fuori di senno”. Forse rimbambito e fuori di senno, qui, è qualcun altro. Invece per quest’ultimo, svilito, immiserito, irriconoscibile Feltri, che ritrova anche il suo innato razzismo, rincoglionita è “la folla di terroni e vari fessi settentrionali ex comunisti dall’encefalogramma piatto”. Nella sua foga scarcassata Feltri parla anche di “nani inguardabili”, dimenticando che per lungo tempo è stato al servizio del “nano” per eccellenza. Feltri fa finta di dimenticare che in democrazia il voto popolare è sovrano. E’ vero che a Feltri della democrazia non è mai fregato nulla, come a me, solo che io ho sempre avuto il coraggio di dirlo e lui no. Se ne accorge solo adesso. Se il paragone non fosse insultante per Mussolini vede il Parlamento come “una bettola piena di mediocri, sciurette e nullafacenti”. Si dimentica dei delinquenti. Dice ancora Feltri, ma preferirei chiamarlo, per l’affetto che conservo ancora per lui, lo pseudo Feltri, che “abbiamo bisogno non di volti nuovi bensì di vecchi saggi”. E qui sta il nocciolo di tutto il suo articolo. Gli italiani dovrebbero “togliersi dalle palle” Luigi Di Maio e tenersi “il vecchio saggio” Silvio Berlusconi, un uomo che, se vogliamo parlare di quella “dignità della Patria” che Feltri improvvisamente riscopre, ci ha fatto fare figuracce inenarrabili ogni volta che ha messo piede all’estero (il “kapò” affibbiato all’europarlamentare Martin Schulz, poi diventato presidente del Parlamento europeo, le corna fatte a un ministro spagnolo durante un importante consesso internazionale, il suo avvicinare, da scolaretto impertinente –ed era già intorno ai settant’anni – le teste di Putin e Obama, eccetera, eccetera) lasciando perdere, proprio per carità di patria, la sua attività delinquenziale. Di questo “vecchio saggio” che è su piazza da più di un quarto di secolo siamo noi ad averne “le palle piene”. E anche di Vittorio Feltri. Massimo Fini Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2018
Stasera Italia, la teoria della Maglie spiazza tutti: "Perché Salvini ha fatto bene a mollare". Libero Quotidiano il 10 Settembre 2019. "Ho sentito di parlare di suicidio perfetto quello di Salvini ma non sono d'accordo, io credo che dal punto di vista della razionalità Salvini ha fatto la mossa che ha fatto perché doveva farla in quell'esatto momento". Lo sostiene Maria Giovanna Maglie a Stasera Italia, in diretta su Rete 4, affermando che Salvini al governo non toccava palla. Immediata la contestazione di Vittorio Feltri, in collegamento con Barbara Palombelli: "Non toccava palla al governo? Ora che ne è fuori ne tocca ancora meno". Feltri ha sottolineato come il grande consenso di Salvini dopo la caduta del governo sia ovviamente scemato. Feltri ha poi parlato di terroni: "Non capisco dove sia l'offesa. Abbiamo un governo di terroni".
Stasera Italia su Rete 4 Mediaset il 10 settembre 2019. Mediaset nota per la sua inclinazione ed indole antimeridionalista, date le sue origini meneghine. Vittorio Feltri: «Secondo me è un atradizione quella del Sud che si impadronisce, spessissimo, delle posizioni di potere nel Governo. Non è una novità di oggi. Però vorrei anche dire che quando io uso il termine “Terrone”non intendo offendere nessuno, proprio perché la parola “Terrone”può essere interpretata in senso dispreggiativo, dipende da che la dice (da te, nda) o in senso scherzoso. Se io vengo definito, come è successo oggi su twitter, un polentone, io non mi offendo, anche se il termine “Polentone” è ancora più offensivo, diciamo da un certo punto di vista, perché quelle che mangiavano la polenta, prevalentemente i bergamaschi ed i bresciani, non ingerivano il sale, per cui si ammalavano di pellagra. Quindi, praticamente, noi polentoni siamo sospettati di essere un po deficienti, che probabilmente è anche vero. Quindi io non ce l’ho… Dire terrone, come dire…animo allegro. Non possiamo sempre parlare con un linguaggio burocratico: i meridionali; quelli del mezzogiorno. Ma insomma torna il terrone e il polentone. Non capisco dove sia l’offesa. In ogni caso a me avere un Governo di Terroni, tanto per restare in tema, non da assolutamente fastidio. Però, per esempio oggi, ho sentito il “foggiano” Conte, ed anche ieri, che ha fatto un discorso meraviglioso dal punto di vista dell’aggettivazione ed anche dell’uso della terminologia italiana, però non ha citato una cifra. Lui, così, ha manifestato di voler realizzare un programma senza dirci come, con quali soldi. Quindi questo mi terrorizza: la mancanza di abilità nel fare i conti di molto personale meridionale. Forse ha meno dimestichezza con le palanche di quanto non ne abbiamo noi del nord, che in feffetti siamo molto più ricchi. Voi pensate che la Lombardia, il Veneto ed il Friuli insieme fanno il 50% del Pil italiano. Quindi tanto imbecilli non siamo noi del Nord, anche se abbiamo ingerito poco sale». (Quindi polentoni, un po’ deficienti, ossia coglioni)
Cenni di consenso ed approvazione da parte di Maria Giovanna Maglie.
Vittorio Feltri smonta il discorso di Giuseppe Conte in aula: "Cosa penso di quel che ha detto". Libero Quotidiano il 10 Settembre 2019. Giuseppe Conte per ottenere la fiducia della Camera si è molto sforzato: ha parlato tanto e chiaro, ma non ha detto nulla, sciorinando una serie interminabile di luoghi comuni e banalità che hanno addormentato il pubblico televisivo. Lui stesso nell'ascoltarsi si è appisolato lasciandosi cullare dall'onirismo, e abbandonandosi ai sogni. I quali con la politica ed i programmi gestionali non hanno alcuna attinenza. Il discorso del premier foggiano e paraculo non si è addentrato nella soluzione dei problemi italiani: si è limitato a elencare un cumulo di buone intenzioni evitando con cura di specificare come e con quali mezzi realizzarle. Tipico dei nostri partiti e dei loro rappresentanti che non sanno andare oltre la retorica e gli scioglilingua. Non ne siamo stupiti, anzi non ci aspettavamo nulla di diverso, conoscendo sia la casta che la sedicente anti casta. L'aspetto più paradossale del comizio consiste nel fatto che l'oratore (si fa per dire) ha insistito sulla necessità di normalizzare il Paese sul piano dialettico: basta con liti, forzature verbali, scontri sui social. Egli si riferiva alle impuntature della Lega e, in particolare, di Matteo Salvini, ormai considerato una maledizione, la causa di ogni guaio italiano. Si è dimenticato il paglietta pugliese miracolato da Di Maio che i guai nazionali non sono provocati dal Carroccio, bensì da ogni altro gruppo parlamentare. Difatti conviene ricordare che la Lombardia, il Veneto e il Friuli funzionano a meraviglia pur essendo guidate da uomini di Alberto da Giussano, e producono il 50% della ricchezza patria, e mi riferisco al Pil nonché ai proventi fiscali che ingrassano le casse romane e del Sud. Mentre gli altri enti locali, per esempio la Capitale e Torino, nella mani di due grilline giulive, Raggi e Appendino, navigano nel fango e rischiano di sprofondarvi. In altri termini, la Lega è capace, mentre il M5S e il Pd, che si è segnalato a Bibbiano nella vendita di sfroso di infanti, sono accolite di pasticcioni senza arte né parte. È quindi del tutto evidente che le storture e i drammi che rendono difficile la vita dei cittadini non dipendano dal famoso Capitano, ma da chi stoltamente lo combatte per impedirgli di semplificare l' esistenza dei cittadini. Ora sulle nostre coste si stanno avvicinando minacciose imbarcazioni colme di immigrati. Il nuovo esecutivo aprirà i porti onde rivelare la propria disponibilità all'accoglienza. Suppongo che a quasi tutti gireranno le scatole e rimpiangeranno il pugno di ferro di Salvini, del quale auspicheranno il ritorno immediato al Viminale. Lo spero anche io. Vittorio Feltri
Andrea Scanzi: “Littorio Feltri, l’uomo che sussurrava ai gin tonic. Andrea Scanzi il 10 settembre 2019. Littorio Feltri, l’uomo che sussurrava ai gin tonic, è un noto idolo contemporaneo. Di lui, in particolare, le masse amano quel suo parlar forbito, sempre in punta di penna e mai sopra le righe. Egli è pure un grande animalista. Lo si intuisce anche solo dai suoi ultimi tweet. Per esempio: “Apprendo che gli scimpanzé hanno un minimo di dna inferiore a quello nostro che impedisce loro il linguaggio. Per il resto sono uguali a noi. Prescisi (sic). Non parlano. Beati loro che di conseguenza non ascoltano. E non leggono i social”. Oppure: “Ho visto il video del pompiere che ha salvato il gattino e ho pianto anche io. Non tutti gli uomini per fortuna sono merde. Ne esistono di bravi e sensibili”. Bravo Littorio: hai capito che l’umanità è sopravvalutata e gli animali sono molto meglio di noi. Peraltro senza neanche sforzarsi granché. Ma non è certo questo l’unico pregio del nostro eroe, paladino indefesso di casalinghe e Cuba Libre come se piovesse. Con fare diuturnamente borbottante e malmostoso, Littorio (l’epiteto è come noto di Travaglio) ha di recente mollato ogni ormeggio. Suole imperversare in tivù, soprattutto Rete4 e La7, per lanciar strali a caso con la leggiadria di un facocero lanciato a bomba contro una cristalleria comunista. Da sempre intellettualmente sbarazzino come una musona meretrice del West, Littorio si è messo in testa di andare sempre oltre l’imitazione gaglioffa che ne fa Crozza. E ci riesce, spingendo ogni volta il pedale alcolico del greve popolano. Ciò, oltre a esaltare le plebi (che lui fucilerebbe giustamente tutte), crea un ulteriore parossismo di comicità se si considera che il Littorio scriba ami usare nei suoi articoli parole arcaiche per sentirsi un po’ Gozzano. Qualcuno (in queste ore Ruotolo e Borrometi) ne chiede la cacciata dall’Ordine dei Giornalisti, ma sarebbe una perdita immane per l’umanità tutta: Egli è tutto. Di lui, rapiti, vergammo un anno fa un elzeviro colmo d’amor, che Littorio apprezzò da par suo con parole sature di stima: “Caro Scanzi, non avevi bisogno di scrivere un articolo volgare su di me per dimostrare di essere un coglioncino. È noto a tutti da tempo che lo sei. Sappi che è meglio bersi un whisky che bersi il cervello come fai tu”. Grazie Litto’! Purtroppo l’uomo che sussurrava ai gin tonic è oggi triste, perché il nuovo governo Mazinga non gli piace. Ma proprio per niente. Giovedì 5 settembre, dopo aver appreso la lista dei ministri, egli ha tuonato duro. Anzi durissimo. La prima pagina di Libero, giornale che sin dal nome che si è dato ci tiene a prendersi e prenderci per il culo in partenza, era quel dì assai guerreggiante. Ogni titolo, uno svolazzo. “Il governo più ridicolo della storia” (invece quello del bunga bunga era un giglio di campo). “Di Maio ministro degli Esteri e dei disastri” (e Di Maio deve ancora cominciare). “Peggio non poteva capitare, ma non stracciamoci le vesti. Limitiamoci a vomitare per qualche tempo, che non sarà troppo lungo, speriamo. Una squadra tanto sgangherata ci riempie vergogna e ci induce a pensare che al male, in effetti, non vi è limite” (daje Litto’!). Quindi il colpo di genio: “Lo zoo di Conte pieno di terroni fa ribrezzo”. E vai col fiasco! Ci immaginiamo non senza invidia le riunioni in redazione di Libero, in un parossismo contagioso di rutti, shottini e ceffoni piazzati bene a Filippo Facci tanto per ammazzare il tempo. Idoli senza pari. Verrebbe da dire che, se questo strano Mazinga fa così schifo a tali dotti scampaforche (per dirla con Kit Carson), forse qualche pregio ce l’ha. Sarebbe però ingeneroso nei confronti di Littorio: l’uomo che sussurrava ai gin tonic non può sbagliare. Mai. E se talora qualche volta così ci sembra, è solo perché ogni tanto persino i migliori barman del bar di Guerre Stellari sbagliano dose. (Uscito oggi sul Fatto Quotidiano cartaceo. Rubrica Identikit, come ogni martedì)
Peggio terrone o polentone? E i guai di Bossi. Vito Tartamella su Parolacce il 23 Maggio 2013. Come insulto è più pesante dire “terrone” o “polentone”? La domanda mi è stata rivolta giorni fa da un valente collega, Stefano Lorenzetto. Gli ho risposto di getto (peggio terrone) ma oggi voglio sviscerare l’argomento più a fondo, dato che – per fare un esempio – Umberto Bossi è stato condannato a 1 anno di reclusione per aver dato del “terùn” al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante un comizio. Tornando alla questione: è più pesante l’epiteto di terrone o quello di polentone? Innanzitutto può aiutarci l’etimologia: qual è l’origine di queste parole? La più antica è terrone: risale al 1600, e il termine indicava – in modo neutrale, non spregiativo – i grandi latifondisti: era sinonimo di “grande proprietario terriero”. Il suo uso come spregiativo geografico è attestato fin dal 1946, nel romanzo di Carlo Bernari “Tre casi sospetti”.
In pratica, terrone è diventato un insulto per qualificare gli abitanti del Sud come contadini: uno spregiativo classista, socio-economico. Come dire che contadino è sinonimo di persona poco acculturata e dai modi rozzi, incivile. Uno stereotipo tutt’altro che originale, dato che termini come burino, villano, cafone, tamarro giocano proprio sulle stesse (labili) argomentazioni razziste.
Polentone, invece, ha una storia più recente. In origine designava una persona lenta nei movimenti, pigra e indolente, poco sveglia. Ma dal secolo scorso (la sua prima apparizione letteraria risale al 1975 in “Parole e storia” di Bruno Migliorini) si è trasformato in un epiteto offensivo rivolto ai settentrionali: sinonimo di mangiapolenta, ovvero anche in questo caso, un insulto classista. Chi mangia solo polenta? I contadini poveri e ignoranti, ovviamente...
Dunque, i meridionali hanno ripagato i settentrionali con la stessa moneta. Allora i 2 insulti sono equivalenti? Per nulla. Intanto, dato che storicamente il disprezzo è originato al Nord ricco contro il Sud povero, potremmo dire che “polentone” è stata una forma di legittima difesa. O, per essere più precisi, un fallo di reazione da parte di un soggetto (il Sud) in svantaggio sociale ed economico. Ma al di là di questo, c’è un dato inequivocabile che dimostra che terrone è peggio di polentone: la percezione sociale. Che avevo misurato nel 2009 con un sondaggio, il volgarometro, che ebbe un risultato inequivocabile: tra gli italiani, terrone è percepito come insulto a offensività medio-alta (1,4 su una scala da 0 a 3), mentre polentone risulta avere un’offensività medio-bassa (0,8). In pratica, terrone ha una forza d’urto quasi doppia rispetto a polentone.
QUESITI LINGUISTICI. Cosa vuol dire davvero “terrone”? Risponde la Crusca il 16 settembre 2017
La storia del nostro Paese è caratterizzata dalle onnipresenti divergenze tra nord e sud, due aree diverse che spesso si sono arrese agli stereotipi senza risparmiarsi epiteti poco felici. Tra questi la fanno da padrone polentoni e terroni. Tratto dall’Accademia della Crusca.
La storia del nostro Paese è caratterizzata dalle onnipresenti divergenze tra nord e sud, due aree diverse che spesso si sono arrese agli stereotipi senza risparmiarsi epiteti poco felici. Tra questi la fanno da padrone polentoni e terroni, che al Nord suona terùn.
Risulta difficile stabilire in che periodo questi vocaboli sia entrati nell’uso come epiteti dispregiativi. Bruno Migliorini in Parole e Storia (1975) scrive: «le polemiche fra Nord e Sud, risorte come risorgono in famiglia nei tempi difficili, hanno divulgato due epiteti che già i soldati popolarmente adoperavano: quello di terroni e di polentoni. I meridionali chiamano polentoni quelli del Nord, dove è frequente l’uso della polenta, mentre questi ultimi chiamano i meridionali terroni, cioè abitanti delle “terre ballerine”, soggette ai terremoti». Se sull’origine e il significato di polentone i principali dizionari della lingua italiana (GDLI, GRADIT, GARZANTI, Vocabolario Treccani, Sabatini-Coletti e Grande Dizionario italiano Hoepli) sono concordi con quanto afferma il Migliorini, sull’origine di terrone le posizioni sono diverse e poco chiare.
Perché terroni? Da dove arriva e cosa vuol dire questa parola?
Il vocabolo viene registrato per la prima volta da Bruno Migliorini nell’appendice al Dizionario moderno di Alfredo Panzini nel 1950: “Terrone: così gli italiani del settentrione chiamano gli abitanti delle regioni meridionali (più o meno, da Roma in giù)”. Secondo le notizie che ci fornisce il GDLI, la voce nasce appunto nei grandi centri urbani dell’Italia settentrionale con valore di ‘contadino’ (come villano, burino e cafone) e usata, in senso spregiativo o scherzoso, per indicare gli abitanti del Meridione in quanto il Sud era una regione del nostro paese caratterizzata da un’agricoltura arretrata. Ma il dizionario, notando che la parola risulta un composto di terra con il suffisso -one (con valore d’agente o di appartenenza), riporta altre possibili etimologie: «come frutto di incrocio fa terre[moto] e [meridi]one; come “mangiatore di terra” parallelamente a polentone, mangia polenta “italiano del nord”; come “persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra”; o, ancora, come “originario di terre soggette a terremoti” (terre matte, terre ballerine)». Il DELI, oltre a registrare le stesse interpretazioni del Battaglia, segnala la presenza del cognome Terronus a Caffa (città della Crimea che fu colonia genovese dopo il 1266) portato da due notai nel 1344 e ipotizza che voglia dire “della Terra (del lavoro)” e il possibile legame con lo spagnolo terrón "zolla". Possiamo constatare che il cognome risulta ancora oggi diffuso; nel nostro paese con due varianti Terroni (con una principale distribuzione nel nord Italia, in particolare in provincia di Parma) e Terrone (con concentrazione maggiore in Puglia e Campania e altre regioni dell’Italia settentrionale), mentre in Francia è possibile trovare Terrón con varianti come Therond, Teron e Terrony. L’origine storica del cognome, come già ricordato dal GDLI, risale al XIV secolo con attestazioni anche nel XVII secolo. Si può ipotizzare che si sia affermato partendo dall’estensione del significato di terrone (e tutte le sue varianti formali) da semplice "contadino" a "proprietario terriero", come sembra confermare la presenza della famiglia Terron nella nobiltà francese del Seicento che annovera nel suo albero genealogico un certo Charles Albert du Terron, signore di Terron, di Bourbonne e di Torcenay morto nel 1684 all’età di 56 anni dopo aver prestato valoroso servizio alla corona francese. Questa forte presenza del cognome ci porta a dubitare che l’appellativo terrone possa avere un’etimologia recente, anche se è certo che nell’accezione con cui oggi lo conosciamo ha origine nel XX secolo (per il GRADIT la prima attestazione è del 1950 e si riferisce probabilmente alla registrazione miglioriniana sopra ricordata; 1945 la data dell’Etimologico di Nocentini, che lo spiega come “der. di terra nel senso di "legato alla terra, che lavora la terra", ritenuta condizione di inferiorità sociale e culturale”). Sul Vocabulario Español e Italiano di Lorenzo Franciosini "fiorentino" del 1638, sotto la voce terrón è possibile leggere: “- è propriamente quel pezzo di terra, che in arando divide il vomero, che noi diciamo zolla o mozzo. Destripa terrones- è un epiteto, o titolo, col qual si chiama un villano, o contadino, e vale, rompi mozzi, o zolle”. Questa testimonianza dell’uso di destripa terrones come epiteto per indicare un contadino potrebbe suggerire l'ipotesi che le varianti dei cognomi, così tanto diffusi in Europa, derivino per ellissi da questa accezione. Curioso risulta riscontrare che la parola terrón, sempre nel vocabolario di Lorenzo Franciosini, usato metaforicamente come ‘cumulo di terra’, veniva utilizzato nella locuzione “Ser un terron de lisonjas”, che vuol dire "sei un cumulo di lusinghe". Quest’uso è confermato da un altro vocabolario, il Tesoro de las dos lenguas francesa y española del 1612 del francese Cesar Oudin che sotto la voce terron riporta: “motte de terre, gazon. Eres un terron des lisonjas, tu es un tas de flatteries”. L’uso nell’accezione spregiativa risulterebbe testimoniato da una lettera scritta da Gilles De Gastines ad Antonio Magliabechi nel 1693 da Napoli: Illustrissimo Signore e Padrone colendissimo. Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l’informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant’anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono lo vogliano per loro. Amedeo Quondam e Michele Rak, nella loro edizione delle Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi (1979), ci informano che l’autore della lettera era un mercante francese che si occupava del traffico librario tra Napoli, Livorno e Firenze e che tra il 1693-1694 dovette prolungare la sua permanenza a Napoli per risolvere alcune complicazioni nei rapporti con la burocrazia napoletana. Gilles De Gastines non risparmia considerazioni negative sul Regno borbonico scrivendo: “in questo paese non si trova candidezza e la maggior parte della gente non trattano che con doppiezza”. Quasi certamente quando scrive questi teroni non si riferisce ai napoletani in genere, ma, come suggeriscono i due curatori, il riferimento potrebbe essere a personaggi che appartengono a vario titolo ad aggregazioni di potere della città partenopea. E appare in modo chiaro che il riferimento a questi signori ha una connotazione dispregiativa (d’altronde volevano estrometterlo da un negozio). Il GDLI riporta questa unica attestazione a supporto di terrone con il significato di "proprietario terriero" (dedicando un’entrata a questo significato, oltre a quella di terrone con il significato di "abitante del sud Italia") ma, così come affermato appena sopra, a una lettura più attenta l’occorrenza potrebbe avere un significato diverso da quello riportato a lemma.
Tutti questi indizi possono avvalorare l’ipotesi che l’origine della parola terrone sia molto antica vista la sua presenza (con significati diversi ma simili) in italiano e in francese, spagnolo e anche portoghese. È certamente un derivato di terra che, indicando in prima istanza un "cumulo di terra derivante dall’aratura", venne probabilmente usato in seguito come nome per i contadini, fino a divenire un cognome. E l’uso di terrone, in quanto contadino, con valore dispregiativo, si affiancherebbe a parole come villano e cafone. Col passare del tempo la parola sembra che abbia perso, almeno nell’area settentrionale dell’Italia, il significato di "cumulo di terra", "zolla" per polarizzarsi sul senso di "colui che zappa la terra" (probabilmente per analogia con altri sostantivi terminanti in -one, come accattone, bacchettone, chiacchierone, dormiglione, fannullone, imbroglione…). Nel sud Italia questa parola non risulta attestata nell’uso. Si possono sostenere due ipotesi: la prima è che il vocabolo venisse usato con il valore di contadino, senza una connotazione marcatamente negativa, e dunque utilizzato per rivolgersi agli emigrati dal Sud in quanto lavoratori agricoli; la seconda è che la parola terrone fosse già in uso nelle regioni del nord Italia con connotazione negativa e dunque l’appellativo sarebbe nato come insulto rivolto a chi assumeva un comportamento rozzo riconosciuto tipico dei contadini. Dal frequente uso sono nate parole derivate da terrone; Bruno Migliorini, ancora nel suo Parole e storia, ci informa che durante la seconda guerra mondiale “a Trento si coniò persino Terronia per indicare l’Italia meridionale, principale fornitrice di burocrati e di poliziotti”. Il termine Terronia è stato registrato dal GDLI (che riporta la citazione di Migliorini) e dal Grande Dizionario Hoepli. Il Battaglia registra anche l’aggettivo terronico per indicare ciò "che si riferisce a, che riguarda i terroni, i meridionali" mentre nel GRADIT di Tullio De Mauro è possibile trovare il sostantivo terronese, glossato come scherzoso, e usato per indicare "la varietà meridionale di italiano". Oggi la parola terrone sta avendo una “rivalutazione” in senso positivo. Questo cambio di rotta è riscontrabile nell’uso che il sostantivo ha nelle varie pagine social, curate dagli studenti meridionali che vivono nel settentrione d’Italia, i quali ironizzano sugli stereotipi che negli anni passati hanno nutrito diffidenza e razzismo così da favorire un reale uso scherzoso della parole terrone e dei suoi derivati. L’uso odierno sta ulteriormente estendendosi così da essere utilizzato nei confronti di qualsiasi individuo proveniente da sud in genere (es. un toscano in relazione a un piemontese), ricordandoci che il posto di ciascuno nel mondo è relativo e, parafrasando Luciano De Crescenzo in Così parlò Bellavista, che in fondo siamo tutti un po’ terroni.
Le avventure lombardo-terroniche: Il Terrone fuori. Scritto da postoilterronefuorisede.it. Sono ormai 7 anni che vivo a Milano, dal lontano settembre del 2010 quando decisi (n.d.r. prego notare il passato remoto) di salire su, cercare casa, iscrivermi all’università. In una parola, di cambiare il mio status in Terrone fuori sede. Si parla tanto, tra il serio il faceto, degli usi e costumi dei fuori sede diggiù, che da generazioni (ma sempre meno in verità) si spostano dalle città del Sud Italia alla volta del Nord. Ma quale è il più grande problema di una ragazza o di un ragazzo che ha ormai acquisito il marchio di Terrone fuori sede? Quello di sentirsi, anche e soprattutto, Terrone fuori posto. Perché, che lo vogliate ammettere o meno, quando “sali su” diventi automaticamente il terrone per i polentoni e un polentone per i terroni.
La cena...Chi si dimentica la prima volta in cui tutti noi siamo “scesi giù” per le vacanze? Chiami i tuoi amici per una birra dopo cena e si pone subito il primo problema: l’orario. Tu, TFS, non te ne sei reso conto ma è così: pian piano il tuo orario è cambiato e alle 11 di sera hai “già” finito di cenare. Mentre i tuoi amici – magari ancora a casa con mammà – hanno da poco finito il primo.
...e il dopo-cena. Poi arriva il momento dell’incontro in piazza, dei saluti con i vecchi compagni rimati in sede. E lì il secondo, drammatico errore si palesa in tutta la sua crudezza: dopo pochi minuti, esaltato dalla voglia di divertirti con gli amici ritrovati, ti scappa un “Dai ragazzi, facciamo serata stasera?” Il silenzio cala, gli sguardi dei tuoi amici si incrociano insospettiti, un velo di imbarazzo ti coglie …è finita, sei ufficialmente un Terrone fuori sede: troppo polentone per i tuoi compagni meridionali e troppo meridionale per i tuoi nuovi amici settentrionali.
Insomma, una vita fuori posto, passata chiedendo infastidito il bicchiere d’acqua al bar a Milano e ordinando un “marocchino” al bar a Ostuni. Invitando gli amici dell’università a cena per le 22 – nel generale sconcerto di tutti – e bramando la cena alle 7 e mezza di sera quando sei giù – nel generale sconcerto di tutti -; arrivando sempre in ritardo agli appuntamenti al Nord e sempre in perfetto orario giù. Sarà pure una vita fuori posto ma ogni TFS che si rispetti sa di avere il cuore nei paesi d’origine e la testa nel mondo. E questo suo peculiare punto di vista prima o poi (più poi che prima) contagerà chiunque gli sia a fianco.
Vittorio Feltri: "Gli eredi di Cossiga e De Mita sono indegni. C'è terrone e terrone". Libero Quotidiano il 29 Agosto 2019. Molta gente mi accusa di essere antiterrone, cioè di detestare i connazionali nati e cresciuti da Roma in giù. Critiche superficiali e false. La verità è che ho avuto ed ho pochi amici, la quasi totalità dei quali è (ed era) meridionale. Ne cito alcuni, i più cari: Paolo Isotta, insigne scrittore, Ettore Botti, Salvatore Scarpino e Gaetano Afeltra, giornalisti di vaglia. Tra i politici che un tempo conobbi e frequentai, c' erano uomini di valore, mentre quelli di oggi mi sembrano modesti, per usare un termine gentile, eppure assatanati, vogliosi di sbranare il potere usando mezzucci squallidi. Al confronto di costoro, i personaggi del Sud di una volta erano giganti sia sotto il profilo culturale sia sotto quello etico e tecnico. Ne ricordo qualcuno, i migliori, che durante la prima Repubblica si sono distinti per saggezza e competenza. Cossiga, per esempio, era un autentico fenomeno: non si dava arie, la sua cifra era la semplicità mista ad arguzia e intelligenza. Ricoprì varie cariche distinguendosi per efficienza e sagacia. La più alta, quella di Capo dello Stato. Egli rimase al Quirinale a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, quando tangentopoli infuriava. Comprese per primo che il regime democristiano era alla frutta e sarebbe finito malamente qualora lo scudo crociato non avesse trovato la forza e le risorse per respingere gli attacchi della magistratura. Cominciò a sferzare tutti, non solo gli amici di partito nella speranza di ricondurli alla ragione. All' epoca, famosi furono i suoi colpi secchi al sistema marcescente che venivano ripresi dalla stampa con notevole evidenza. In quel periodo io dirigevo l'Indipendente e pernottavo al residence Romana, a Milano. Spesso la mattina presto mi telefonava. Il portiere mi avvertiva: «C'è un tizio che le vuol parlare, sostiene di chiamare dal Quirinale». Me lo passi, dicevo. Era Francesco che affermava: «Caro Vittorio, oggi piccono». In effetti i suoi interventi denigratori della casta erano definiti picconate, e lo erano. Mi informava delle sue intenzioni affinché predisponessi la mia redazione a prenderne atto con la dovuta attenzione. Io stavo al gioco e lo accontentavo perché convinto che avesse ragione da vendere. L'indomani le sue picconate venivano esaltate sul mio quotidiano. Diventammo amici e lo rimanemmo pure allorché se ne era andato dal Colle. Fondai Libero e Cossiga mi chiese di incontrarmi; fui felice di accordargli un appuntamento nella sede del giornale. Dove un pomeriggio si appalesò un po' zoppicante. Conoscendo il suo amore per il Whisky scozzese gli offrimmo un sorso di Lagavulin ovviamente torbato. Che gradì. Poi fece un giro nelle nostre modeste stanze stringendo la mano a ogni collega. Infine mi fece una proposta che non si poteva rifiutare: «Vorrei diventare giornalista, iscrivermi all'Ordine e quindi scrivere articoli per voi». Fantastica idea. Il presidente emerito iniziò una fitta collaborazione raccontando stupendi aneddoti politici che ci aiutarono a incrementare la diffusione. Cossiga era disciplinato oltre che cortese. Annunciava i suoi pezzi deliziosi e li inviava con puntualità svizzera. Per parecchi anni ci gratificò con la sua produzione letteraria pregevole. Appena ottenne, due anni appresso, l' iscrizione all' ordine mi invitò a pranzo e festeggiammo al ristorante Trussardi di Milano. Questo era Francesco. Impossibile non apprezzarlo e amarlo. Era colto. Capace. Aveva un solo difetto: troppo perbene per essere accettato nelle sue alzate di ingegno. Lo rimpiango. Quando incontrai Ciriaco De Mita era da poco stato rapito ed ucciso Aldo Moro ed era quindi alle battute finali la politica di compromesso storico che negli anni precedenti aveva tentato di portare al riavvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, il quale tuttavia non arrivò mai a partecipare al governo in una grande coalizione. La Dc, risoluta ad archiviare questa fase e ad intraprendere un nuovo corso, inaugurò una serie di convegni a cui presero parte i personaggi politici di spicco. Fui mandato dal Corriere ad uno di questi raduni, che si tenne sul lago Maggiore, dove ebbi modo di ascoltare il discorso di De Mita, facendone la cronaca e riportandone i concetti, espressi dal politico con il suo linguaggio fumoso. Il giorno seguente, uscito il pezzo, De Mita, allora ministro, mi telefonò complimentandosi per la mia scrittura. Restai attonito. Di lì a poco ebbe inizio la campagna elettorale ed io fui incaricato dal mio giornale di seguire i leader dei diversi partiti nei loro comizi. Si trattava di un mandato rilevante. Mancai di partecipare solo ai convegni di Bettino Craxi, il quale si oppose alla mia presenza. Quando comunicarono a Ciriaco che sarei stato io a scrivere riguardo la sua campagna elettorale, ne fu molto lieto. Raggiunsi come prima tappa il Piemonte, dove una folla straripante accolse De Mita. Alla sera avrei dovuto recarmi a Roma e Ciriaco, avendolo appreso, mi invitò sull' aereo privato del suo caro amico Calisto Tanzi, sul quale egli stesso viaggiava. Insistette tanto che non potei rifiutare. Durante il volo il ministro ed un altro passeggero si misero a giocare a carte, a tresette, con un certo coinvolgimento, tanto che arrivarono persino ad incazzarsi e a bestemmiare. Non persi l' occasione di raccontare anche questo spaccato di "ordinaria" quotidianità nel mio pezzo. Ciriaco ne fu molto divertito. Un ferragosto fui inviato dal Corriere nel paese natale di De Mita, a Nusco, in provincia di Avellino. Trovai alloggio in un albergo orrendo, del resto da quelle parti non c' era molta scelta. Giunto in hotel, dalla mia stanza, chiamai Ciriaco, il quale mi disse che in quel momento era impegnato e mi diede appuntamento per il giorno seguente. L' indomani mi presentai a casa del politico, una villetta graziosa seppure arricchita con elementi dal gusto discutibile, come un pozzo finto piantato in giardino. Davanti all' abitazione fui catapultato in un passato ancestrale, anzi medioevale, ritrovandomi in mezzo ad una folla di persone che andavano a porgere omaggio a De Mita, stringendo sotto il braccio chi un cappone chi una pagnotta. Per non creare turbamento, mi misi in fila anche io, pur essendo a mani vuote. Giunto finalmente il mio turno, fui spinto in casa con calore da De Mita che mi offrì un bicchiere o due di Falangina, servito freddo. Ma a ristorarmi dall' afa non fu il vino ghiacciato, bensì le freddure di Ciriaco nonché una spassosa barzelletta che aveva come protagonisti De Mita stesso e Craxi. Ciò che suscitava maggiore ilarità era la circostanza che a raccontarmela fosse Ciriaco stesso, che continuava a ridere a crepapelle. Non mancai di allietare anche i lettori con quella storiella buffa. Scrissi il pezzo, lo consegnai, il mattino seguente mi recai in edicola e con mio grande stupore vidi che il mio articolo non solo era finito in prima pagina, ma costituiva titolo di apertura. De Mita mi telefonò felice, ringraziandomi e facendomi i complimenti per la mia opera. Nel 1992 l' uomo divenne presidente della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali, dopo neanche un anno ne fu estromesso ed io feci questo titolo: "De Mita lascia la Bicamerale, gli rimane l' attico". La titolazione prendeva spunto dal fatto che, quando era diventato presidente del Consiglio nel 1988, De Mita andò ad abitare in un attico preso in affitto, messo in sicurezza dai servizi segreti. Va da sé che Ciriaco non se la prese. In fondo, erano state maggiori le occasioni in cui gli avevo reso onore riconoscendo il suo merito. Come quando, dopo il terremoto in Irpinia del 1980, scrissi un pezzo sull' avvenuta ricostruzione nel quale sottolineai il fatto di avere trovato il paese di Ciriaco risanato in modo impeccabile, segno che questi avesse utilizzato in modo efficace i soldi pubblici destinati proprio alla ricostruzione. Credo che De Mita questa cosa se la fissò in testa. Assunta la direzione de Il Giornale, lo statista invitò me e Paolo Mieli, allora direttore del Corriere della Sera, ad Avellino per prendere parte ad una conferenza sul dopo terremoto. Terminato il convegno, Ciriaco ci condusse a cena a casa sua. Erano presenti, oltre alla moglie, che cucinò in modo stupefacente, anche i suoi figli. L' atmosfera era intima, familiare, lieta. Ricordando il pozzo finto in giardino non mi stupì la vista di un' enorme statua di San Ciriaco che dominava il salone principale, regalo fatto al politico da un parroco locale. Durante il lauto banchetto discutemmo anche di politica. Io sostenevo che la Dc fosse oramai finita. De Mita si incazzava. Litigammo, ma oramai eravamo diventati amici. Tuttora Ciriaco mi è molto affezionato e mi telefona di tanto in tanto. Quell'attico famoso De Mita lo acquistò alla fine, al prezzo stabilito dall' ente proprietario, una cifra piuttosto conveniente. Tutti i media lo attaccarono con violenza. Io lo difesi sostenendo che solo un idiota si sarebbe fatto sfuggire la ghiotta occasione di acquistare ad un ottimo prezzo un'abitazione nella quale dimorava da tempo. Ciriaco, figlio del sarto di Nusco, era un leader dall' animo semplice e pieno di premure. Con le inchieste di "Mani pulite" la Dc entrò in crisi, il suo potere continuava ad erodersi, ma era come se i suoi vertici non se ne rendessero conto. Andai a trovare Cirino Pomicino al Ministero del Bilancio e gli dissi: «Come fate a non vedere che state morendo? Vi stanno massacrando». Ed egli rideva. I democristiani si credevano invincibili. Le cose poi andarono come avevo previsto. Gli eredi di Cossiga e De Mita sono indegni. C' è terrone e terrone. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri, una terribile profezia: "In Italia potrebbe accadere una cosa orribile". Libero Quotidiano il 5 Agosto 2019. Vittorio Feltri mette in guardia l'Italia. "Gli americani", scrive su Twitter, "uccidono gli ispanici perché questi sono troppi. Una cosa orribile che se non blocchiamo l’immigrazione succederà anche da noi". Il direttore di Libero si riferisce al terrificante episodio di violenza accaduto in Usa a El Paso. Poco prima delle 11 di mattina di sabato 3 agosto un ventunenne armato è entrato in un supermercato Walmart di El Paso, in Texas, al confine con il Messico, e ha cominciato a sparare a chiunque vedesse. Prima che l’assalitore venisse fermato, almeno 20 persone erano state uccise e 26 erano state ferite. Le motivazioni della strage: la polizia ha confermato che diversi indizi fanno pensare a un crimine motivato dall’odio razziale verso gli ispanici e gli immigrati del Centro e Sud America. Secondo Feltri, dunque, se non si fa qualcosa, anche l'Italia potrebbe essere teatro di vicende simili.
Feltri dice che il governo Conte è «uno zoo di terroni ostili al Nord». Enzo Boldi il 05/09/2019 su Giornalettismo. Questa volta Vittorio Feltri non usa l'ironia per parlare del nuovo governo Conte. Il direttore di Libero parla di "zoo di terroni ostili al Nord". Un giudizio netto e con i soliti toni evitabili. Ci risiamo, anche oggi ci è stato dato il nostro Vittorio Feltri quotidiano. Il direttore di Libero, affranto, deluso e distrutto per la formazione di un nuovo governo senza la destra – che si è esclusa da sola con la mossa suicida di Matteo Salvini -, non se ne fa una ragione e torna ad attaccare la seconda categoria che lui ama prendere di mira in qualunque occasione e per qualsiasi cosa: quelli che lui chiama i «terroni». Stavolta non ci ride, non ci scherza e non prova a fare dell’ironia. Parla addirittura di zoo. Lo ha fatto, come al solito, nel suo editoriale pubblicato quest’oggi, giovedì 5 settembre 2019, su Libero. Parla di vomito, terroni e poteri del Sud che si sono uniti per tramare contro il Settentrione. Una sorta di ossessione che riesce fuori ogni qualvolta qualche personaggio politico del Meridione ottiene un posto nelle stanze del potere italico. E è così che gli 11 ministri del Sud che sono entrati a far parte della squadra guidata da Giuseppe Conte – anche lui meridionale e orgogliosamente pugliese – devono avergli provocato i brividi a fior di pelle e i conati di vomito. Come una reazione allergica.
Feltri e il suo editoriale sui ministri di Conte. «Peggio non poteva capitare, ma non stracciamoci le vesti – sentenzia Vittorio Feltri dalla pagina 1 di Libero quotidiano -. Limitiamoci a vomitare per qualche tempo, che non sarà troppo lungo, speriamo. Una squadra tanto sgangherata ci riempie di vergogna e ci induce a pensare che al male, in effetti, non vi è mai limite». Fino a qui è un giudizio con i soliti termini forti, ma personale e legittimo. Poi, però, la vena si chiude e cade nella discriminazione.
Lo zoo di Terroni. «Non riesco a immaginare quale sia l’umore di Mattarella, costretto a benedire questa porcata – prosegue Vittorio Feltri -. Lasciamo a Conte il suo zoo di terroni ostili al Nord che li mantiene tutti». Forse occorre ricordare che Libero è uno dei pochi quotidiani che ha vissuto anche grazie ai fondi pubblici versati dallo Stato, quindi da Roma. Ma la capitale (e il Sud) continuano a essere ladroni e mantenuti. La realtà capovolta dello Stivale sottosopra.
Feltri: “Lasciamo a Conte il suo zoo di terroni e ostile al Nord che li mantiene”. La Voce di Napoli il 5 settembre 2019. All’indomani della formazione del Governo della nomina dei ministri del Conte Bis, sono tante le voci di dissenzo. Tra le tante spunta quella di Vittorio Feltri che su Libero coglie l’occacione per attaccare tutti. Un editoriale solitamente razzista che il giornalista bergamasco pubblica per dire la sua. Noto per le infelici uscite contro i meridionali, Feltri attacca prima Mattarella e poi Conte e ministri compresi. “L’intera compagine governativa è piena di gente improbabile, di serie B, che farebbe fatica a guidare una bocciofila di periferia. Un esecutivo così scassato l’Italia non lo ebbe mai e ciò se da un lato sputtanerà la nostra povera patria, dall’altro garantirà un grande divertimento a tutti i nostri connazionali. Peggio non poteva capitare, ma non stacciamoci le vesti. Limitiamoci a vomitare per qualche tempo, che non sarà troppo lungo, speriamo. Una squadra tanto agangherata ci riempie di vergogna e ci induce a pensare che al male, in effetti, non vi è limite. Non riesco a immaginare quale sia l’umore di Mattarella, costretto a benedire questa porcata. Lasciamo a Conte il suo zoo pieno di terroni e ostile al Nord che li mantiene tutti”.
"Zoo pieno di terroni", Ruotolo e Borrometi denunciano Feltri all'Odg. Libero Quotidiano il 9 settembre 2019. (AdnKronos) Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi hanno presentato al Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia una denuncia contro Vittorio Feltri. Lo annuncia Ruotolo con un tweet. I due giornalisti puntano il dito contro la prima pagina di Libero, diretto da Feltri, di alcuni giorni fa, in un cui "in un articolo sul nuovo governo dal titolo "Peggio di così non poteva capitarci. Ci sarà da divertirsi", all’ultimo capoverso si legge: "Lasciamo a Conte il suo zoo pieno di terroni e ostile al Nord che li mantiene tutti". "Si tratta di una frase evidentemente razzista - scrivono i due giornalisti - dove i meridionali vengono appellati esplicitamente con l’aggettivo di terroni e implicitamente come animali, visto il riferimento allo zoo. La discriminazione è rafforzata ancora di più nel rapporto con il Nord, superiore, che li ‘mantiene tutti’ con riferimento ai cittadini meridionali". Ruotolo e Borrometi chiedono al Consiglio di Disciplina dell’Odg della Lombardia di aprire un procedimento alla luce del fatto “che al punto b dell’art. 2 del Testo unico dei doveri del giornalista è specificato che il giornalista rispetta i diritti fondamentali delle persone e osserva le norme di legge poste a loro salvaguardia” e che “le affermazioni di Feltri incitano evidentemente all’odio razziale dei settentrionali nei confronti dei meridionali”.
Governo "zoo pieno di terroni", da Ruotolo e Borrometi segnalazione all'Odg contro Vittorio Feltri. I due giornalisti chiedono al Consiglio di Disciplina della Lombardia di aprire un procedimento alla luce del fatto «nel 'Testo unico dei doveri del giornalista' è specificato che il giornalista 'rispetta i diritti fondamentali delle persone e osserva le norme di legge poste a loro salvaguardia' e che 'le affermazioni di Feltri incitano all'odio razziale dei settentrionali nei confronti dei meridionali».
Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi. Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi hanno presentato al Consiglio di Disciplina dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia una denuncia contro Vittorio Feltri. Lo annuncia Ruotolo con un tweet. I due giornalisti puntano il dito contro la prima pagina di 'Libero', diretto da Feltri, di alcuni giorni fa, in cui, in un articolo sul nuovo governo dal titolo 'Peggio di così non poteva capitarci. Ci sarà da divertirsi', all'ultimo capoverso si legge: "Lasciamo a Conte il suo zoo pieno di terroni e ostile al Nord che li mantiene tutti". «Si tratta di una frase evidentemente razzista – scrivono i due giornalisti – dove i meridionali vengono appellati esplicitamente con l'aggettivo di 'terroni' e implicitamente come animali, visto il riferimento allo zoo. La discriminazione è rafforzata ancora di più nel rapporto con il Nord, superiore, che li mantiene tutti con riferimento ai cittadini meridionali». Ruotolo e Borrometi chiedono al Consiglio di Disciplina dell'Odg della Lombardia di aprire un procedimento alla luce del fatto «che al punto b dell'art. 2 del 'Testo unico dei doveri del giornalista' è specificato che il giornalista 'rispetta i diritti fondamentali delle persone e osserva le norme di legge poste a loro salvaguardia' e che 'le affermazioni di Feltri incitano evidentemente all'odio razziale dei settentrionali nei confronti dei meridionali». (AdnKronos – Roma, 9 settembre 2019)
"Zoo pieno di terroni", Ruotolo e Borrometi denunciano Feltri all'Odg. adnkronos.com il: 09/09/2019. Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi hanno presentato al Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia una denuncia contro Vittorio Feltri. Lo annuncia Ruotolo con un tweet. I due giornalisti puntano il dito contro la prima pagina di 'Libero', diretto da Feltri, di alcuni giorni fa, in un cui "in un articolo sul nuovo governo dal titolo 'Peggio di così non poteva capitarci. Ci sarà da divertirsi", all’ultimo capoverso si legge: "Lasciamo a Conte il suo zoo pieno di terroni e ostile al Nord che li mantiene tutti". "Si tratta di una frase evidentemente razzista - scrivono i due giornalisti - dove i meridionali vengono appellati esplicitamente con l’aggettivo di terroni e implicitamente come animali, visto il riferimento allo zoo. La discriminazione è rafforzata ancora di più nel rapporto con il Nord, superiore, che li ‘mantiene tutti’ con riferimento ai cittadini meridionali". Ruotolo e Borrometi chiedono al Consiglio di Disciplina dell’Odg della Lombardia di aprire un procedimento alla luce del fatto “che al punto b dell’art. 2 del ‘Testo unico dei doveri del giornalista’ è specificato che il giornalista ‘rispetta i diritti fondamentali delle persone e osserva le norme di legge poste a loro salvaguardia” e che “le affermazioni di Feltri incitano evidentemente all’odio razziale dei settentrionali nei confronti dei meridionali”.
LA REPLICA DI FELTRI - "Ruotolo e Borrometi mi denunciano per un articolo? Al giornalista che ha offeso la figlia di Salvini però non hanno detto nulla". Così Vittorio Feltri risponde alla denuncia all'Odg. "Non capisco quale sia il problema, so che non hanno simpatia per me ma facciano quello che vogliono - replica ancora Feltri - 'Terrone' è un termine che viene usato per sfottere, e io lo uso in questo senso; ha anche un significato denigratorio ma io non ho mai denigrato alcun meridionale, ormai nessuno più ce l'ha con i meridionali" sottolinea il direttore di 'Libero'. Che conclude: "Il vero problema è che il Sud continua a vivere in una situazione peggiore del Nord e credo che qualche responsabilità ce l'abbiano anche i politici. Non ho mai sentito, neanche da Conte, un programma per il rilancio del Sud". Poi, su Twitter, una nuova precisazione: "Ho scritto terrori invece che terroni. Non ho dimestichezza con le tecnologie. A parte questo, cito il dizionario Rizzoli Larousse. Terrone: epiteto spregiativo o scherzoso con cui vengono designati i meridionali".
“QUAL È LA DIFFERENZA TRA LE FAKE NEWS E VITTORIO FELTRI?” Arnaldo Capezzuto per La Domenica Settimanale il 2 ottobre 2019. “Mi chiedo qual è la differenza tra le fake news e il giornalista autorevole Vittorio Feltri? Questo è un problema nostro che ci dobbiamo porre come categoria. Il giornalista è sempre meno autorevole e quel signore li era un giornalista autorevole”. Parole di fuoco pronunciate dal giornalista Sandro Ruotolo nel corso di un dibattito nell’ambito di "IMBAVAGLIATI", Festival Internazionale di Giornalismo Civile ideato e diretto da Désirée Klain svoltosi a Napoli. Il cronista d’inchiesta da anni sotto scorta -pochi giorni gli è stata rafforzata a tutela per altre minacce – insieme a Paolo Borrometi, ha denunciato con un esposto al Consiglio di Disciplina territoriale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia Vittorio Feltri, direttore del quotidiano Libero. Ora la documentazione è all’attenzione del Consiglio che chiederà al diretto interessato ragguagli sulla vicenda denunciata da Ruotolo e Borrometi. Nell’esposto si elencano in modo dettagliato specifici articoli discriminatori contro il Mezzogiorno d’Italia firmati da Feltri. In particolare scrivono Ruotolo e Borremeti : “Il giorno 5 settembre 2019 in un articolo sul nuovo Governo della Repubblica dal titolo ‘Peggio di così non poteva capitarci. Ci sarà da divertirci’”. “All’ultimo capoverso scrive il direttore del quotidiano Libero: ‘Lasciamo a Conte il suo zoo pieno di terroni e ostile al Nord che li mantiene tutti’”. L’iniziativa dei due cronisti da anni sotto scorta per le gravi minacce di morte subite da organizzazioni mafiose sta creando all’interno degli organismi della professione non poche polemiche. “C’è un abbassamento della qualità dl nostro mestiere – tuona Ruotolo – oggi il giornalista è sempre meno autorevole e rispetto a Feltri, io preferisco essere un attivista semplice e modesto perchè con quel giornalismo là non ho nulla a che vedere”. Giudizi duri e convinti che hanno incontrato il consenso della giovane platea che ascoltava attenta il discorso di Sandro Ruotolo di come è cambiata la professione, le grandi occasioni che offrono le nuove tecnologie per chi svolge il mestiere d’informare ma anche i grandi pericoli. “La partita non è che si gioca domani, si gioca oggi. E se è vero che quel mondo pieno di imbecilli, di fakenews, di cultura sovranista, di odio e rancore è un pericolo, io rivendito non tanto la tessera professionale ma la presenza e il presidio dei giornalisti che è l’unica garanzia per difenderci” – sottolinea Sandro Ruotolo -. Intanto, già a partire dalla settimana prossima ci potrebbero essere della novità dal Consiglio di Disciplina territoriale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia. Alla denuncia di Ruotolo e Borrometi si è aggiunta anche quella dell’associazione socio culturale ‘Movimento Economico Social Popolare Intereuropeo (Mespi), che si occupa, tra l’altro, di monitorare i mass media per contrastare l’immagine spesso negativa dei meridionali, e presieduta dall’ingegner Francesco Terrone ha presentato querela-denuncia contro Feltri per l’editoriale su Libero in cui ha scritto: “Lasciamo a Conte il suo zoo pieno di terroni”.
Bisogna spiegare a Vittorio Feltri e compagnia che i terroni non sono animali da zoo. Nicolò Carnimeo, Docente universitario e scrittore, su Il Fatto Quotidiano il 9 settembre 2019. “Non riesco a immaginare quale sia l’umore di Mattarella, costretto a benedire questa porcata. Lasciamo a Conte il suo zoo pieno di terroni e ostile al Nord che li mantiene tutti”. Lo stralcio, naturalmente, è di un recente editoriale del “direttore” di Libero Vittorio Feltri. Se un’esortazione si può fare al nuovo governo in carica è quella di mitigare il livello di odio che viene fomentato ogni giorno non solo dalle colonne di Libero. Se quotidianamente queste testate gettano fango sul meridione, qualcuno – oltre al loro sparuto gruppo di lettori – finirà per crederci, per legittimare comportamenti razzisti perché è di razzismo che stiamo parlando. Non lotta politica, che spesso è aspra, dura e anche volgare alla quale siamo ormai abituati e, purtroppo, assuefatti, ma offesa, ingiuria, pretesa supremazia del Nord sul Sud. Teorie di pancia, che qualche tempo fa ad Omnibus, nota trasmissione televisiva su La7, sono suonate persino come superiorità etnica. Non dimentico le parole del direttore responsabile di Libero, Pietro Senaldi, il quale, durante una discussione sull’autonomia regionale, ha detto: “I veneti hanno un ceppo diverso da quello italiano. La faccia di Zaia non la trovi in Calabria”.
Senaldi (Libero): “I veneti hanno un ceppo diverso da quello italiano. La faccia di Zaia non la trovi in Calabria”. Perché collegando l’affermazione di Senaldi con quelle di Feltri, lassù sono esseri umani e noi in “Terronia” poco più che “animali” da giardino zoologico. Attenzione, non bisogna credere che dietro queste parole non ci sia un disegno preciso, perché legittimati da questa “ideologia suprematista” qualcosa iniziava a cambiare davvero. Notizia dell’inizio di quest’anno è che in alcune Asl – in Trentino (Bolzano) e in Veneto – su un questionario per una visita di neuropsichiatria infantile doveva essere certificato dai genitori il gruppo etnico o la “razza” di appartenenza. Che già solo la parola “razza” in questo contesto mette i brividi.
Bolzano, questionario Asl chiede la “razza dell’alunno”. Distretto si scusa: “Errore di traduzione da testo inglese”. Per aggiornare Feltri e compagnia sulle “ultime” teorie evoluzioniste bisogna mandargli – ma probabilmente lo hanno già sul comodino – un bel saggio di Cesare Lombroso (1835 – 1909), il quale teorizzò il “criminale per nascita”, con un occhio attento proprio ai crani dei banditi del Sud che collezionava nel suo museo di antropologia criminale. Meglio nello zoo di Feltri o nel museo di Lombroso? Di peggio c’è che nessuno ormai s’indigna, né protesta. “Faremmo il gioco di Feltri e compagnia, gli si darebbe solo visibilità” dice un mio amico sui social dove, invece, qualcosa sul tema rimbalza. Sì, ma il silenzio alla lunga è complice, diventa assuefazione, mollezza. Non dobbiamo più consentire qualunque tipo di linguaggio che fomenti odio, diversità, razzismo perché corrode i nostri principi anche costituzionali, genera precedenti pericolosi, realizza forme di aggregazione, che oggi purtroppo sono più facili grazie ai social dove un lombrosiano di Vattelappesca si sente facilmente legittimato con una decina di like. Ribadiamo: non si tratta qui di far politica, perché l’etichetta a questo pezzo è facile da immaginare, ma bisogna tener forti le nostre fondamenta come uomini e come italiani.
“Uno zoo di terroni ostile al Nord che li mantiene tutti”. Feltri offende ancora il Sud. Leccenews24.it il 7 Settembre 2019. Non poteva che essere al vetriolo l’editoriale del direttore di Libero, Vittorio Feltri, sul nuovo governo: “Lasciamo a Conte il suo pieno di terroni, ostile al Nord che li mantiene tutti”. Tutti conoscono la lingua (o la penna) tagliente di Vittorio Feltri. Il direttore di Libero e opinionista televisivo se non ha fatto parlare di sé per i suoi pungenti editoriali, ha conquistato l’attenzione con i suoi interventi in cui non le manda certo a dire e non nasconde le sue antipatie o simpatie. Questa volta è un commento al nuovo governo giallorosso a far scoppiare le polemiche. «Lo zoo pieno di terroni e ostile al Nord che li mantiene tutti…». Questa l’infelice battuta apparsa su Libero. Certo, dopo l’attacco ad Andrea Camilleri, ricoverato in fin di vita in Ospedale e gli altri suoi ‘illustri’ precedenti non ci sarebbe da stupirsi, o indignarsi. Invece, la frase non ha fatto che alimentare una diatriba tra polentoni e terroni che pareva oramai più un retaggio del passato. In realtà è stata una scintilla che ha riacceso il fuoco che evidentemente covava sotto la cenere. Ma andiamo ad analizzare l’affermazione che ‘nasconde’ almeno quattro offese gratuite degne di nota. Zoo pieno di terroni, sta a significare un recinto nel quale ci sono animali (prima offesa), appartenenti alla razza dei terroni (seconda offesa). Ostile al nord, ovvero avversi e nemici del nord (terza offesa). Che li mantiene tutti, nel senso che il nord Italia fa fronte al sostentamento del sud dell’Italia (quarta offesa). «Caro Vittorio – ha replicato Luca Fiocca, un lettore di Leccenews24 che ci ha chiesto di poter rispondere a Feltri – noi meridionali siamo persone dabbene, e non animali in quanto non amiamo molto i recinti dai quali per tradizione rifuggiamo. Siamo individui Liberi, come il suo giornale, e la storia lo dimostra perché siamo riusciti a sconfiggere orde di popoli conquistatori a noi avversi. Non siamo terroni più di quanto non lo siano pure gli agricoltori del nord, che con la forza delle loro braccia le garantiscono la colazione mattutina. Definirci addirittura ostili al nord, noi che al nord ricopriamo posti di prestigio negli ospedali, nelle scuole, nei tribunali, nelle imprese, etc. etc. Ciliegina sulla torta, Lei afferma, con convinzione, che il nord ci mantiene. Le vorrei rimembrare che ai tempi del Regno delle due Sicilie, e non sto parlando mica del medioevo, il meridione era lo Stato più ricco e all’avanguardia d’Italia e tra i più floridi in Europa…»
Vittorio Feltri: "La rapina del foggiano Conte e Di Maio da Napoli. Siamo al brigantaggio". Libero Quotidiano il 21 Luglio 2019. Il foggiano Conte, presidente del Consiglio dei ministri, e Di Maio, responsabile del Lavoro che non ha mai svolto, sono contrari alla autonomia regionale e fanno imbufalire Zaia e Fontana, rispettivamente governatori del Veneto e della Lombardia. I quali sono ottimi amministratori e sanno spendere i fondi a vantaggio della gente, ma vengono sfottuti dai due succitati meridionali perché intendono migliorare le condizioni di vita dei loro concittadini. Non mi stupisco che il pugliese e il partenopeo siano ostili alla indipendenza veneta e lombarda. Costoro sono costituzionalmente mantenuti da sempre dai settentrionali e non ne vogliono sapere di tagliare il cordone ombelicale che li lega al Settentrione per motivi alimentari, di sopravvivenza. I terroni in pratica intendono comandare sui polentoni non per motivi antropologici, ma economici. Senza i nostri quattrini i primi morirebbero di fame, dato che non sono capaci che di produrre deficit, pertanto vedono nell' autonomia una sorta di minaccia di morte civile.
Prendiamo il problema della scuola. Quella italiana è la peggiore d' Europa, così come i nostri insegnanti sono in massima parte incompetenti. Ciò risulta dalle statistiche continentali. Ebbene la Lombardia e il Veneto, probabilmente anche l' Emilia, hanno un piano per aumentare la efficienza della pubblica istruzione e desiderano attuarlo a condizione di poter disporre dei propri capitali. Il premier foggiano e il vicepremier napoletano si oppongono, pretendono di rapinare il nostro patrimonio, lasciandoci in bolletta, onde sostenere coi proventi delle grassazioni il Mezzogiorno, a costo di tenere basso il livello culturale della nazione intera. In sostanza, questo governo di parassiti punta a cronicizzare il sottosviluppo di cui è figlio per ottenere un appiattimento verso il basso dell' Italia, sfruttando le potenzialità produttive eccezionali delle zone nordiche. È una forma di banditismo o almeno di brigantaggio che andrebbe combattuta non solo politicamente ma anche socialmente. Ci appelliamo a Salvini: cerchi di porre fine a questo scandalo intollerabile, altrimenti saremo costretti a rimpiangere Umberto Bossi che almeno puntava alla secessione. Un progetto troppo ambizioso, però molto arrapante. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri sulla differenza tra Milano e Roma. Libero Quotidiano il 18 Luglio 2019. Chi non conosce Milano e non la frequenta abitualmente non può comprendere che il divario fra Nord e Sud è diventato incolmabile. Il capoluogo lombardo, grazie anche a sindaci speciali quali Albertini e Moratti, è diventato una metropoli mondiale, funziona a meraviglia, i servizi pubblici e privati sono assai efficienti, la vita che vi si svolge è perfettamente allineata ai massimi livelli europei e non solo. La civiltà abita qui, il denaro altrettanto, lo sviluppo nasce da queste parti. Basta percorrere le vie del centro per percepire la capacità milanese di non arrendersi all' andazzo nazionale. La gente del Mezzogiorno che si trasferisce in Lombardia e vi si insedia, dopo un breve periodo si abitua a campare in modo civile, apprezza gli stili esistenziali della regione e solo alla idea di dover rientrare nel Meridione pensa al suicidio. Roma, invece, da luogo incantevole si è trasformato nell' ultimo ventennio in un centro spaventoso, dove trionfano caos e pressappochismo sia istituzionale sia sociale e in cui comandano i cinghiali e i gabbiani più aggressivi. Io, quando arrivo nella capitale e mi sposto da piazza del Collegio Romano, mi sento a mio disagio come se fossi piombato al Cairo. Mi prende una voglia matta di risalire sul treno e correre a Milano, che è accogliente, rispettosa e al sottoscritto ha dato di più di quanto io gli abbia mai restituito. Tutto ciò per dire che è l' ambiente a condizionare il comportamento delle persone, siano terroni o polentoni, non importa, e non siamo noi umani a creare l' habitat. La città ambrosiana non è un miracolo, bensì una costruzione meravigliosa alla quale hanno contribuito tutti coloro che ci hanno lavorato e ci lavorano con passione. La dimostrazione sta nel fatto che su un milione di abitanti solo 70 mila sono meneghini; gli altri, per la stragrande maggioranza, provengono dalle terre del Sacramento, eppure nessuno se ne accorge. Milano produce occupazione, serietà, ordine e in cambio ti chiede soltanto impegno e rigore nel rispetto delle regole. Il resto viene da sé. L' Italia in pratica è divisa in due tronconi da sempre, eppure oggi la distanza dell' uno dall' altro si è acuita e questo non alimenta le speranze di una fusione. Coloro che dalla Lombardia e dal Veneto seguono le vicende politiche capitoline non capiscono un accidenti, hanno l' impressione di essere cittadini di un altro pianeta. E hanno ragione. Che c' entrano Treviso, Brescia e Varese con le borgate romane infestate dai rom? Noi siamo talmente scemi da pagare le tasse i cui proventi si disperdono in mille rivoli del Sud e poi se chiediamo l' autonomia ci accusano di voler spezzare lo Stivale per puro egoismo. L' avidità semmai è di quei meridionali che ci spremono come limoni prima di gettarci nella spazzatura. Ne abbiamo piena l' anima: qui si tratta di decidere se sposare il modello evoluto del Settentrione oppure se abbandonarci alla guida sgangherata di Di Maio, Fico e personaggi simili, pur sapendo che ci condurranno in fondo al pozzo nero. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri sull'autonomia: "La Lega si rassegni, alla Camera la maggioranza è meridionale". Libero Quotidiano il 10 Luglio 2019 . A scanso di equivoci. Noi di Libero siamo favorevoli alla autonomia regionale. Tant' è che abbiamo appoggiato a tutto gas il referendum che si svolse in Lombardia e in Veneto e che ebbe l' esito che sappiamo: il Nordest pretende di amministrarsi senza interferenze romane. Va da sé che le leggi nazionali vigono dalle Alpi alla Sicilia. Non è in discussione lo Stato unitario. Si tratta soltanto di consentire agli enti locali di decidere come e dove investire il denaro da essi prodotto. Se a Milano o a Venezia è necessario costruire un' opera è assurdo che le due città, con i propri proventi fiscali, non possano agire nell' interesse della popolazione e debbano attenersi alle disposizioni governative, ispirate malamente dalla burocrazia peggiore del mondo. I governatori Fontana e Zaia sono sicuramente più preparati e competenti di Toninelli per deliberare in varie materie. Sono più esperti, conoscono il territorio e le sue esigenze, mentre i fannulloni del Parlamento pensano soltanto a sprecare, compiendo spese pazze col denaro pubblico.
Un esempio clamoroso? Il reddito di cittadinanza distribuito a cani e porci che invece di lavorare si girano i pollici e se proprio lavorano lo fanno in nero, evadendo le tasse, incidendo negativamente sulle statistiche relative alla disoccupazione nonché sul Pil, quindi imbrogliando i cittadini. Tutto ciò è assodato e non merita un dibattito. Lo si constata a occhio nudo. Nonostante questo, alcune parti politiche si ostinano a negare al Settentrione la facoltà di provvedere a se stesso mediante l' autonomia democraticamente invocata tramite plebiscito. Perché? Elementare. I deputati e i senatori del Sud, oltre ai governanti, sono terrorizzati all' idea di perdere la tetta da cui attingere nutrimento, sotto forma di finanziamenti cospicui, per le zone disastrate del Mezzogiorno. Le quali senza i capitali versati all' erario dagli odiati polentoni andrebbero definitivamente alla deriva. Pertanto non si illudano la Lega e i suoi sostenitori: l' autonomia non passerà mai alle Camere a maggioranza meridionale, come non passò mai il famoso e sterile federalismo fiscale. Noi siamo condannati a mantenere i nostri cari fratelli terroni. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri: "La Luna è roba terrona. A dirigere la missione nello spazio è stato Rocco Anthony Petrone". Libero Quotidiano il 23 Luglio 2019. Come immagino abbiano fatto tutti, anche io ho visto in tv e letto sui giornali mille rievocazioni epiche della conquista della Luna, alla quale peraltro assistetti mezzo secolo fa grazie alla Rai. Avevo 26 anni e mi emozionai all' impresa che sembrava un sogno di mezza estate. Però devo ammettere che i ricordi dell' evento, per quanto ben riproposti, sono stati tutti privi di suggestioni. Frasi fatte e ripetute mille volte, solite facce, condite con la retorica giornalistica sfoggiata dai professionisti del memorialismo, non mi hanno affascinato. Replicare all' infinito gli stessi concetti alimenta la noia e non aggiunge nulla al risaputo. Eppure, rovistando tra le mie sudate carte ho rinvenuto un elemento che, per quanto trascurato o citato di striscio, mi ha impressionato, cosicché desidero rendervene partecipi. Il nostro pallido satellite parla italiano, sissignori. L'uomo fantastico che diresse la missione nello spazio non era tedesco come Von Braun, genio assoluto, ma un oscuro benché fenomenale studioso figlio di lucani emigrati negli Stati Uniti, cioè l'ingegner Rocco Anthony Petrone, nato nello Stato di New York il 31 marzo 1926. I suoi genitori erano povera gente, talmente in miseria da essere costretti a lasciare il paesello, Sasso di Castalda, provincia di Potenza, per recarsi in America nella speranza di sopravvivere all'atavica fame della Basilicata. Il babbo fu subito assunto quale operaio ferroviere e la mamma nel ruolo di guantaia in una fabbrichetta locale. Poiché la sfiga non perde mai di vista gli indigenti, il papà muore in un incidente e lascia soli la moglie e il bimbo, Rocco, lo stesso nome del patrono di Sasso. Una tragedia infernale. L'orfano - so cosa vuol dire esserlo da piccoli - per aiutare la madre disperata si adatta a portare di casa in casa il ghiaccio, dato che i frigoriferi erano di là da venire. Raccatta qualche dollaro utile ad arrotondare la modesta paga della genitrice. Il carattere del ragazzo si rivela già in questo commovente episodio. Poi diciamo che i terroni non hanno voglia di sgobbare.
L' ACCADEMIA MILITARE. Rocco cresce secondo l' educazione rigorosa della mini-famiglia e non appena raggiunge la maggiore età entra trionfalmente, per meriti di studio, nell' Accademia militare dove senza intoppi si laurea. Non gli basta. Frequenta un corso difficile e ottiene un master prestigioso in ingegneria meccanica. Votazione mostruosa. Accede immediatamente alla Nasa, accolto con ogni guadagnato onore. E ci dà dentro con il lavoro. Non gli serve molto tempo per scalare i vertici della organizzazione spaziale e distinguersi per abilità e profondità scientifica. Il nostro lucano non fatica a prendere in mano l'intera Nasa che si affida a lui per crescere e predisporsi al grande salto. L' ingegnerone non sbaglia un colpo, mette a punto il piano di lancio e i tognini che lo assistono stanno ai suoi ordini quali scolaretti. Trascorrono alcuni anni e Rocco si impadronisce degli ambiziosi programmi statunitensi e predispone ogni cosa affinché vengano eseguiti alla lettera. Vietato sbagliare: lassù nel vuoto ogni errore può costare non solo il fallimento dell' impresa ma anche la vita di tanti esseri umani fiduciosi nella tecnica spaziale marcata Lucania. Viene quasi da ridere pensando che un individuo così grigio eppure dotato di ingegno e temperamento abbia mandato in cielo, con successo, una spedizione ancora oggi considerata miracolosa. Un aneddoto, dato che il capintesta era lui, Petrone, e non altri: questi un bel giorno si accorse che uno dei fornitori di materiale delicato tendeva a prenderlo in giro, ed egli lo ripagò afferrandolo per la giacchetta e buttandolo fuori, in puro stile montanaro, direi bergamasco, dal suo ufficio nonché dall' azienda.
AMMIRAZIONE E STIMA. La sua attività professionale, apprezzata da chiunque, inclusa la presidenza degli USA, proseguì per lustri, e l' allunaggio fu la sua consacrazione. Tuttavia, trattandosi di un tipo schivo e scontroso, egli preferì rimanere nell' ombra, senza mai darsi delle arie, e a forza di nascondersi fu quasi dimenticato malgrado i suoi risultati. La Luna comunque è roba sua, roba terrona. Egli ha riscattato l' Italia e specialmente la Basilicata dove l' olio di gomito si spreca e l' intelligenza spesso si sottovaluta. Rocco è stato ed è un mito e io, polentone, mi inchino davanti a lui, invitando i miei colleghi a fare altrettanto. È vissuto fino a 80 anni nonostante fosse piagato da diabete mellito, quello che colpisce i giovani. Ha combattuto eroicamente persino la malattia. Impossibile non ammirarlo. Viva la Lucania. Ancora oggi, e siamo nel 2019, i metodi di lancio in uso nelle basi da cui decollano le missioni sono i medesimi, quelli approntati dal nostro connazionale. Non mi sembra poco. Vittorio Feltri
"Camilleri in punto di morte. Chi è, cosa penso di lui". La parola a Vittorio Feltri. Libero Quotidiano il 19 Giugno 2019. Andrea Camilleri è in punto di morte e probabilmente se ne andrà presto, come è ovvio che sia: un uomo, benché bravo nel suo mestiere, essendo giunto a 94 anni pur fumando montagne di sigarette (alla faccia degli antitabagisti), più che vecchio non può diventare. A tutti tocca andare al cimitero, lui non fa eccezione come non la farò io. Attendo il trapasso senza fretta, però so che arriverà. Mi preoccupa il modo. Più che il decesso temo la sofferenza che esso spesso comporta. Chiunque vorrebbe tirare le cuoia durante il sonno, non rendendosene conto. Ciò detto mi affretto a dire che Camilleri, per quanto comunista, aveva un talento notevole di narratore che me lo rendeva simpatico. Egli ebbe un gran successo quando aveva superato i 70 anni. Non è una bella cosa affermarsi in età pensionabile, ciononostante è sempre meglio che non affermarsi mai. Alcune sue opere si inseriscono perfettamente nella tradizione letteraria siciliana, cito a capocchia Pirandello, Verga, Sciascia e ne trascuro altri per brevità. D' altronde la lingua italiana si è sviluppata in Sicilia per merito di Federico II di Svevia, sebbene in seguito sia stato ufficialmente adottato l' idioma toscano o, meglio, fiorentino. Segno che gli isolani padroneggiano il lessico e non stupisce che palermitani e catanesi siano diventati scrittori importanti, fondamentali. Le capacità affabulatorie di Camilleri non sono in discussione, la struttura matematica dei suoi racconti è esemplare e ammirabile. Ma la sua testa matta, oltre che affascinante, desta qualche perplessità. Non riusciva a capire che il marxismo era già marcio ancor prima di imporsi. E quando esso si rivelò una bufala e svanì quale neve al sole, Andrea non ebbe la forza di riconoscerne il fallimento brutale. Rimase rosso ma non di vergogna. Egli ha rivendicato fino all' ultimo la sua adesione al bolscevismo. Tuttavia l' arte non ha bandiere, e quella di Camilleri va riconosciuta per quello che è: mirabile. Non tutta, ma quasi. Oggi, di fronte alla probabilmente prossima fine, riconosciamo allo scrittore ogni merito tecnico e a lui ci inchiniamo. L' unica consolazione per la sua eventuale dipartita è che finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni almeno quanto suo fratello Zingaretti, segretario del Partito democratico, il peggiore del mondo. Vittorio Feltri
Ruotolo e Borrometi si autosospendono dall'Ordine dei giornalisti: "Le parole di Feltri su Camilleri sono inaccettabili". I due giornalisti: "Ne va della credibilità di ognuno di noi e della nostra categoria". Il presidente Verna: "Sarà sottoposto a procedimento disciplinare". La Repubblica il 20 giugno 2019. "Caro Presidente, abbiamo deciso di autosospenderci dall'Ordine Nazionale dei Giornalisti perché ci consideriamo incompatibili con l'iscrizione all'albo professionale di Vittorio Feltri". Comincia così la lettera aperta scritta da Paolo Borrometi e Sandro Ruotolo al presidente del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna. "Proprio noi, che più di altri, ci battiamo per la difesa dell'articolo 21 della Costituzione, riteniamo gli scritti e il pensiero del direttore Feltri veri e propri crimini contro la dignità del giornalista" scrivono i due giornalisti. "Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere - aggiungono - hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ne va della credibilità di ognuno di noi e della nostra categoria. Adesso basta. O noi o lui. Quel "terrone che ci ha rotto i coglioni" per noi figli del Sud è inaccettabile. Non è in gioco la libertà di pensiero. Sono in gioco i valori della nostra Costituzione. Ogni suo scritto trasuda di razzismo, omofobia, xenofobia". "Dopo la miseria portano le malattie" (rivolto ovviamente ai migranti), l'ormai tristemente celebre "Bastardi islamici" - ricordano ancora nella lettera - o, uscendo dal seminato delle migrazioni, robaccia come "Più patate, meno mimose" in occasione dell'8 marzo (e le diverse varianti dedicate anche a Virginia Raggi, con il "patata bollente") o "Renzi e Boschi non scopano". Poi gli insulti a noi del sud con il celebre "Comandano i terroni" e infine il penultimo, di qualche mese fa, "vieni avanti Gretina" (dedicato alla visita a Roma di Greta Thunberg)". "L'idea che Vittorio Feltri offre - sottolineano - è che si possa, impunemente, permettersi questo avvelenamento chirurgico. E non è un problema solo suo. Almeno, non lo è più. A lui non frega niente: il limite, la deontologia, la misura, il buon senso, diremmo perfino la dignità sembrano saltate da tempo. Noi siamo convinti che resti intatta la bellissima frase che recita "Non condivido le tue idee ma darei la vita per permetterti di esprimerle". Continuiamo a batterci contro la censura e gli editti, ma non possiamo accettare tra noi chi istiga all'odio. Ne va della nostra credibilità". "Condivido le ragioni dei colleghi Borrometi e Ruotolo sul caso Feltri-Camilleri, se l'ordine dei giornalisti fosse un club mi autosospenderei pure io. Ma non lo è e l'istituto dell'autospensione non esiste, ci si può semmai cancellare, astenendosi dallo svolgere la professione e salvo il diritto d'opinione per poi iscriversi di nuovo quando sono cessate le ragioni di cui alla polemica". Così Carlo Verna, presidente dell'Ordine Nazionale dei Giornalisti, replica alla lettera aperta di Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi. "Ma l'occasione è opportuna per chiarire il funzionamento in base alla normativa vigente dei consigli di disciplina - aggiunge Verna - totalmente autonomi dopo la cosiddetta legge Severino rispetto all'Ordine e in ogni caso privi di poteri cautelari di sospensione perché per fortuna esiste l'articolo 21 della Costituzione. Per cui Feltri come chiunque altro potrà semmai essere sottoposto al rituale procedimento disciplinare, al termine del quale ci sarà un pronunciamento che tutti dal sottoscritto a Borrometi e Ruotolo dovranno rispettare. Poi naturalmente le leggi si possono cambiare se il Parlamento lo ritiene e in tal senso già il consiglio nazionale ha avanzato proposte di riforma per ciò che attiene ai giornalisti, mentre per quel che riguarda le separate funzioni disciplinari la normativa è la stessa per tutti gli ordini professionali", conclude.
Lo strabismo dei soliti soloni. Vittorio Sgarbi, venerdì 21/06/2019, su Il Giornale. Due anime belle, Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi, si indignano con Vittorio Feltri e si autosospendono (bizzarra formula diversa dalle dimissioni) dall'Ordine nazionale dei giornalisti, ritenendosi incompatibili con l'iscrizione all'albo professionale del direttore di Libero. Cosa ha fatto questa volta? Ha espresso in modo brutale un suo malumore, più letterario che umano, attraverso la formula della stroncatura. Un genere letterario, spesso feroce, che si manifesta in epigrammi, e in battute lampeggianti nelle quali erano specialisti grandi giornalisti e scrittori come Karl Kraus, Leo Longanesi, Ennio Flaiano, Franco Fortini. Giuseppe Baretti aveva creato il personaggio di Aristarco Scannabue per la rivista Frusta letteraria. Roberto Longhi, del grande scultore Antonio Canova, aveva scritto: «Lo scultore nato morto il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all'Accademia e il resto non so dove». Cacciamo anche questi impertinenti? D'altra parte, nella circostanza, Feltri è stato prudente e misurato. Ha detto: «Mi dispiace se Camilleri muore. Però mi consolerò pensando che Montalbano non mi romperà più i cog... Basta, mi ha stancato». Quindi, letteralmente, rammarico per le condizioni di salute della persona, insofferenza per Montalbano che è una creatura letteraria, come Harry Potter, come Don Rodrigo, come Jago. Pare più grave quello che loro due dicono di lui, soprattutto in considerazione del fatto che l'articolo 21 della Costituzione garantisce la libertà di critica, anche severa, adottata da Feltri. «Quel terrone che ci ha rotto i cog... per noi figli del Sud è inaccettabile. Ogni suo scritto trasuda di razzismo, omofobia, xenofobia». Ma Feltri non ha neppure usato la parola «terrone» nei confronti di Camilleri, si è limitato a manifestare antipatia per il personaggio di Montalbano. Ricordate il più corto epigramma del mondo, contra personam? È di Franco Fortini: «A Carlo Bo. No». L'effetto teatrale e il colpo di scena sono essenziali alla battuta, spesso «assassina». Ma evidentemente, nei loro santuari, Ruotolo e Borrometi non considerano giornalista quel Tomaso Montanari che ha infierito, appena morto, su Zeffirelli e manifestando odio e rabbia anche per la Fallaci. Ieri ha rincarato: «Sono figure che affondano nel fango». E, dopo avere così affettuosamente trattato due illustri morti che hanno onorato e onorano l'Italia, aggiunge: «Credo sia Salvini a infangare questo Paese». Mi sembrano affermazioni più gravi di quelle di Feltri su Montalbano. E che, nella loro indignazione, Borrometi e Ruotolo siano un po' strabici.
Vittorio Feltri per Libero Quotidiano il 2 dicembre 2019. Ho inseguito a lungo questo libro, dopo averne letto la seduttiva presentazione di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Era tanto tempo fa. Più di un mese, che per una novità editoriale è un' eternità. Cercato in libreria, niente da fare. Titolo strambo, credo anglo-arabo: Naploitation. L' autore una garanzia di serietà e limpidezza di prosa e di testa: Marco Demarco. La dimensione incoraggiante: 138 pagine, prezzo basso, 12 euro. Dopo aver lavorato all' Unità, e aver fondato con Paolo Mieli il Corriere di Napoli nel 1997 con Paolo Mieli, è stato richiesto dalla casa madre e ne è diventato la spina dorsale invisibile. Poca scrittura, lavoro faticoso e inventivo da "culo di pietra". Ora è rientrato a Napoli, mi dicono per una nuova avventura giornalistica. In occasione del ritorno, ecco un volume che Cazzullo descriveva assai urticante se le medesime tesi fossero state esposte da un nordista. È uno di quei napoletani che a Milano hanno illustrato magnificamente la dote connessa alla milanesità, la laboriosità non lamentosa, mai annoiata. Nel giornalismo questa città ha goduto di casi favolosi, Giuseppe Marotta, e quindi Gino Palumbo e Gaetano Afeltra, per me autentici maestri. Hanno obbedito a quella Madonnina d' oro che si ergeva sopra la nebbia (quando c' era), che non è discesa dal cielo come le altre, ma si è arrampicata in cima alle guglie, e se ne sta lì con le braccia aperte e le maniche sempre rimboccate. Così diversa dalle Madonnine partenopee per lo più col cuore spezzato e le sette spade infilate nel petto. Le ricordavo quelle figure, in giro per strade e vicoli, spericolatamente appeso alla Vespa di Paolo Isotta, e le ritroverò poi nel volume. Esse sono tantissime, mai tese a spingere all' azione, ma a conservare. «Mollette di ferro» che tengono insieme una città e classi sociali che altrimenti si disfarebbero. Demarco cita non so quale urbanista: «Il blocco delle abitazioni è tenuto insieme, agli angoli, da immagini murali della Madonna, quasi fossero mollette di ferro». La Vergine Maria è simbolo della napoletanità, una parola che fu criticata aspramente da Raffaele La Capria, per la sua vuotezza, perché alla fine è un alibi per contemplare le rovine, in un rimpianto fatuo. Invece a Milano, ma anche a Bergamo, di cui sono figlio orgoglioso di esserlo, la coesione sociale non ha bisogno di teorizzazioni.
LA MILANESITÀ. Esistono la milanesità e la bergamaschità, però si preferisce dispiegarle in opere, opifici e oggi grattacieli e metropolitane, musei antichi e resi lindi, autobus e tram puntuali, piuttosto che in dialoghi di profondità esasperanti. Non è questione di ridurre la vita a lavoro e soldi, fabbrichetta e investimenti, ma di impregnare le cose quotidiane, anche affari, produzione e commercio, ma pure cultura, di senso pratico, di desiderio di prosperità persino un po' ironica. Per questo mi serviva leggere, e mi è servito davvero, leggere anzi divorare questo libro: dovevo regolare i miei conti con Napoli e i napoletani. È un paradosso della mia vita. Passo per un anti-napolitano, perché oso scrivere e far scrivere contro l' abusivismo, le complicità della camorra, l' inettitudine delle classi dirigenti, e la passività del popolo che se li conserva come se fosse la teca di San Gennaro. Non vedo contraddizione con il fatto che i pochi amici che ho sono - quasi tutti - meridionali e napoletani in particolare. Oriana Falalci ne ricaverebbe la battuta che io faccio scappare gli amici come la peste, per cui il fatto che Paolo Isotta, per dirne uno e il più geniale di tutti, abiti lontano, lo preserva dalla fuga e dai litigi. In realtà, come in tutti i veri amori, dopo il fuoco, si sta meglio lontani, probabilmente. Sono arrivato in ritardo a scrivere di questo libro, qualità direi meridionale, poco lombarda senz' altro. In libreria? Da qualche parte dice il commesso: «Esaurito!», altrove: «Mai visto». Chiedo che verifichino al computer. Nessuna copia neppure dal distributore. Da Libero, Lucia Esposito, capo della cultura, napoletana dell' Arenella, scrive alla casa editrice. Nessuna risposta. Riscrive: niente. Telefona: zero. Invece di sfruttare il successo meritatisssimo, ristampandolo al volo, buttandolo fuori in massa, poiché di napoletani fuorusciti, e di amanti e odiatori di Napoli è pieno il mondo, che fanno? Pensano. In questa città dove passeggiò Seneca, compilano riflessioni, esplorano tracce di ragionamento e di poesia. Cioè, il volume che voglio riesco ad averlo tra le mani, per via fortunosa, forse di contrabbando, dopo un mese: ma certo, è la napoletanità. Un editorepartenopeo meraviglioso, pieno di meriti culturali, collane fascinose, titoli coraggiosi, autori geniali, poi si incarta, inciampa nelle canalizzazioni librarie che trascurano Napoli, o forse è Napoli e i napoletani che si isolano e se ne compiacciono?
VIA D' USCITA. Il libro di Demarco è proprio una protesta calma, e la proposta di una via d' uscita alla strana situazione di questa città e della sua gente. La napoletanità o napolitudine (come la chiama Luciano De Crescenzio) corre continuamente il rischio di scivolare nello stereotipo. E qui Demarco cita un grandissimo scrittore per il quale ho autentica venerazione, Raffaele La Capria. Secondo cui occorre operare due distinzioni: «La prima, tra la napoletanità e la napoletaneria, che ne è la degenerazione. La seconda, tra napoletanità e napolinanità, cioè la vacuità da cui uscire, come la mosca dalla bottiglia». Ecco il punto. Secondo Demarco non si tratta di abbandonarsi alla nostalgia, alzando mura per mummificare le tradizioni. E neppure di rinnegare ideologicamente la napoletanità, come la generazione degli intellettuali progressisti degli anni '60-'70 proposero in odio ad Achille Lauro, bensì di sfruttare tutto, persino gli stereotipi, per conservare il meglio della propria identità. Né Roberto Saviano che racconta solo la camorra, né solo De Magistris che la nega. E qui Demarco sorprenderà tutti. Infatti chi tira fuori come modello, certo incompleto, certo correggibile, ma purtroppo stroncato dalla cattiveria e dalle fake news dell' "arco costituzionale": sì proprio lui, Achille Lauro.
O' SINDACO LAURO. Spiega che alla fine forse l' unico tentativo serio fatto per modernizzare Napoli, fu il suo. Leggende false quelle delle scarpe spaiate per farsi votare, e pure quelle delle banconote tagliate a metà. «Nel vitalismo postbellico tutto ancora si tiene. Napoli resiste anche agli scontri successivi al referendum istituzionale del 1946. Con Lauro, nel bene e nel male, la città appare ancora compatta, quasi a una dimensione: stesse feste popolari, stesse canzoni, stessa euforia. A stravolgere lo scenario è la durezza della lotta politica. 'O sindaco-comandante è incontenibile: mance, favori, promesse, ma anche piazze rifatte, quartieri risanati, la vita che riprende. Contro di lui, di tutto». Invece vedeva il futuro. I guai cominciano dopo di lui, non con Lauro...E qui viene buono il titolo. «La parola chiave è Naploitation. È una parola-macedonia, inventata mettendone insieme due: Naples e exploitation, sfruttamento, in modo da avere a disposizione una variante di blaxpoitation. Cioè del neologismo che gli americani usano per indicare lo sfruttamento mediatico (exploitation) dell' essere neri (black) da parte degli stessi neri». Insomma, Napoli rinasce e cresce, cuore pulsante, ma anche civiltà moderna se trasforma proprio quelle che paiono essere pesi insopportabili e stantii, pizza e mandolino, Pulcinella e Masaniello, e li trasforma da luoghi comuni in luoghi selvatici, nuovi, misteriosi, e redditizi. Insomma propone di usare lo schema della pop-star Rihanna. La quale, dotatisssima di lato B, invece di farselo sfruttare da chi in fondo la disprezza, lo gestisce come un giacimento d' oro. E posa i suoi piedi sul mondo che credeva di chiuderla nello stereotipo delle sue chiappe. Ho costruito il finale con questo concetto tondo, perché porta bene. In onore della napoletanità.
Vittorio Feltri, la pruriginosa e amarissima verità sul sesso: "Ne facciamo come in passato, ma..."Libero Quotidiano il 16 Ottobre 2019. Dicono che Antonio Scurati sia un eccellente scrittore e non mi va di metterlo in dubbio. Ieri però ho letto sul Corriere della Sera un suo articolo sulle cosiddette culle vuote dal titolo: «Abbiamo vissuto nel presente. Ecco perché ci ritroviamo senza bambini». A parte il fatto che è difficile non vivere nel presente, dato che siamo contemporanei, mi meraviglio che ci siano molti individui, anche intellettuali, che si domandino come mai calino le nascite e se ne dispiacciano. Ma chi se ne frega se la società invecchia e se gli asili sono meno affollati rispetto ai tempi andati. Dov'è il dramma? Negli anni Cinquanta la popolazione italiana ammontava a circa 40 milioni di abitanti, i quali oggi sono 60 milioni. Significa che in mezzo secolo c'è stato un notevole incremento, di cui non dovremmo lagnarci, semmai rallegrarci, malgrado per decenni abbiamo imputato all'esplosione demografica ogni nostro problema, come predicavano all'epoca i radicali, i quali avvertivano che il pianeta più si riempiva di persone e più avrebbe sofferto per sopravvivere. Oggi invece si piange poiché non figliamo più. Mi sembra come minimo una contraddizione. Dobbiamo diminuire o aumentare? Ah, saperlo. Ma non chiedete conto di questo a Scurati, il quale preferisce che l'umanità si gonfi a dismisura per combattere il nichilismo punk e quello neoliberista anni Ottanta. Secondo costui non scopiamo più per ragioni para ideologiche. In realtà maschi e femmine continuano a congiungersi come in passato, solo che usano il preservativo e altri anticoncezionali in quanto considerano il sesso un piacevole modo per trascorrere le serate e non per altro. Lo scopo è quello di non procreare non soltanto per i motivi arcani denunciati erroneamente da Scurati, bensì perché oggi mettere al mondo un figlio costituisce un problema per i genitori. Intanto occorre un matrimonio o una convivenza, più diffusa rispetto al primo, poi serve un alloggio i cui costi di affitto, e non parliamo di acquisto, sono impegnativi. Pertanto la eventuale coppia opta per un bilocale onde non svenarsi, visto che le retribuzioni non consentono spese folli. In due stanze la comunanza di tre soggetti non è il massimo della vita, figuriamoci se gli sposi possono concedersi il secondo bebè. Dove lo mettono, sul terrazzino? In epoche lontane le famiglie usavano accatastarsi in pochi metri quadrati. La maggioranza era abituata ad ammonticchiarsi in due vani o tre, ora non più. Sono mutate le consuetudini e nessuno più si adatta a campare come zingaro. Non solo. Attualmente le donne giustamente vogliono e devono sgobbare per contribuire al mantenimento del nucleo. E se una signora ha una occupazione non è in grado di accudire a una pletora di fanciulli. Quindi il contenimento della prole entro un numero esiguo di soggetti è un obbligo imposto dal modus vivendi e non dalle bischerate evocate da Scurati. Con gli stipendi correnti, con le esigenze della modernità, con questi chiari di luna è fuori luogo pretendere che i giovani siano all' altezza di riempire le culle. Io ho avuto quattro pargoli e mia moglie si è ammazzata di lavoro, ma la mia attività ha consentito di crescerli tutti alla grande. Cosa che non a tutti è permessa. Vittorio Feltri
Claudio Plazzotta per “Italia Oggi” il 6 novembre 2019. La produzione libraria di Vittorio Feltri inizia ad assumere proporzioni interessanti. Nel senso che, con la sua 14esima fatica in uscita (L' irriverente. Memorie di un cronista, per Mondadori), le opere del direttore editoriale di Libero occupano ormai un intero scaffale. Si esce nell' imminenza delle feste di fine anno, ma «non scrivo per la strenna di Natale. Lo faccio perché non voglio disperdere, neanche a me stesso, tutta una serie di aneddoti, di episodi legati ai personaggi che ho incontrato nel mio lavoro». Come il replicante alla fine del film Blade Runner, perciò, Feltri, romanticamente, non vuole che tutti quei momenti vadano perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. Il burbero brontolone su cui lo stesso Feltri ha plasmato il proprio personaggio pubblico prova invece a raccontare di persone famose, descrivendole attraverso una lente inattesa.
Domanda. Per esempio, mi racconti di Giorgio Gaber.
Risposta. L' ho conosciuto quando avevo 18 anni, alla festa dell' Unità di Bergamo, che era l' unico avvenimento interessante in città. Successivamente, quando lavoravo alla Notte a Milano, il direttore mi chiese di intervistarlo. Iniziammo a frequentarci, a uscire ogni tanto a cena in trattoria, in osteria. E lui, una sera, mi confidò, angosciato, di soffrire tantissimo per essere solo ragioniere. Voleva diventare dottore in filosofia e si era iscritto alla Università Statale di Milano. Ma faceva una fatica boia a conciliare studio, lavoro, famiglia. Ci teneva, ma era una vera sofferenza. Allora gli dissi che anche Montale era ragioniere; che Quasimodo era agronomo; che la Deledda aveva la terza media; che Marconi non si era neanche diplomato all' istituto tecnico industriale. Insomma, l' unico Nobel italiano laureato era Pirandello. Quindi Gaber non doveva soffrire di complessi di inferiorità. Lui mi guardò strano, non credeva tanto alle mie parole. Perché queste cose non le sapeva, e va detto che anche adesso le sanno in pochi. Poi, dopo due giorni, mi telefona: «Ho verificato, hai ragione tu. E allora sai che cosa ti dico? Vaffanculo la filosofia e l' università». Ecco, un punto di vista di Gaber che non è molto noto.
D. Ho seguito con molto interesse la vicenda della sua casa di Bergamo in vendita e del suo trasferimento definitivo a Milano. Una svolta epocale. Come mai?
R. Ho traslocato a Milano da fine settembre. La mia casa di Bergamo è ancora in vendita. Ho preso questa decisione perché mia moglie Enoe è un po' più anziana di me e non potevo più lasciarla da sola in collina tutta la settimana in una casa grandissima e isolata. Io dormivo sempre a Milano e tornavo a Bergamo solo al venerdì sera. Adesso almeno ci vediamo a mezzogiorno. L' ho fatto per quello, niente di più.
D. Nella imitazione di Maurizio Crozza lei abiterebbe a Milano in via Quadronno.
R. Abitavo da solo in via Quadronno, è vero. Adesso la casa di via Quadronno l'ho lasciata a mia figlia, mentre io e mia moglie siamo andati a vivere in una casa con un po' di giardino, così stanno bene pure i gatti.
D. E la giacca regalata a Crozza?
R. Le sue giacche facevano schifo, e allora gli ho detto: già che mi imiti, almeno cerca di imitarmi bene. E gli ho regalato una delle mie giacche. La sua imitazione non mi ha dato per niente fastidio, anzi, ormai sono io che imito Crozza che mi imita. Mi fa molto ridere.
D. Lei va in tv da molto tempo. Si è sempre presentato vestito elegante, ma parlando semplice, in maniera comprensibile. Da qualche anno, però, ha scelto anche la via del turpiloquio: perché?
R. Perché il linguaggio della gente è infarcito tantissimo di parolacce. Beppe Grillo ha fondato un partito sul vaffanculo. E questo mi ha fatto riflettere. Dopodiché si parla tanto di sessismo, che però colpisce di più gli uomini, ci rifletta: quale è l' offesa che si fa più di frequente? Il popolo dice: testa di cazzo. Mentre invece se vuole definire una cosa bella dice: come è figa, quello lì come è figo. Quindi ha vinto la figa, han vinto le donne.
D. Però usare le parolacce è spesso una scorciatoia facile, non trova?
R. Io finché ho avuto i figli piccoli in casa mi sono trattenuto. Adesso, però, sono loro che le usano più di me.
D. Ecco, i figli. Di Mattia sappiamo, fa il giornalista. Le altre tre figlie? Una si chiama Saba, un nome molto particolare.
R. L'ho chiamata Saba dal poeta Umberto Saba, che mi piace tanto. Saba lavora alla Tim da sempre, dopo il liceo si era iscritta all' università ma non aveva voglia. Fiorenza è farmacista a Milano. Laura ha una società immobiliare: il paradosso è che quella che sembrava la più scema è quella che è invece diventata la più ricca.
D. Quindi si farà consigliare da lei per la vendita della villa di Bergamo?
R. Per l' amor di dio, io mi faccio gli affari miei.
D. In una intervista suo figlio Mattia, parlando della professione giornalistica, ha detto che preferisce consumarsi il cervello che consumarsi le suole delle scarpe. È d' accordo?
R. Il mio direttore Nino Nutrizio diceva a tutti: «Se non avete il cervello, almeno consumate le suole delle scarpe». Mattia ha fatto il cronista molto bene, specialmente al Foglio. Poi anche lui è invecchiato, lo hanno nominato capo della redazione romana della Stampa, e dopo si diventa sedentari. Come è successo a me: quando ero al Corriere della sera facevo tanti bei reportage. Io nasco soldato, sono rimasto soldato, non mi è mai piaciuto comandare, eppure non ho fatto altro per tutta la mia carriera. È assurdo, ho fatto la cosa che non mi piaceva fare: comandare.
D. Lei da anni non è più direttore responsabile di Libero. Però ci credono in pochi.
R. Giuro, non sono più direttore responsabile. Certo, faccio i titoli. Ma io semplicemente li propongo.
D. Ok, ma chi potrebbe permettersi di correggerli, dai.
R. Ah, beh, allora che si fottano se non hanno il coraggio. Io, ripeto, li propongo, ma non sono responsabile. Se il direttore mi dice: «Qui magari rischiamo», per me non c' è problema, cambiatelo. Si fa così nei giornali, nessuno è perfetto.
D. Come vanno i conti di Libero, in questa crisi senza fine dell' editoria cartacea?
R. Noi, con tutto il disastro che c' è, chiudiamo il bilancio 2019 con circa 2 milioni di euro di utili, un risultato eccezionale. Però, devo dire la verità, ho affamato tutti. Ma l' alternativa era chiudere.
D. In effetti oggi i giornalisti sono tra le categorie peggio pagate.
R. Le faccio un esempio. Negli anni 60 avevo vinto un concorso e lavoravo alla amministrazione provinciale di Bergamo: guadagnavo 120 mila lire al mese, uno stipendio molto dignitoso negli anni 60. Quando, poco dopo, ho cominciato a fare il giornalista, alla Notte, lo stipendio da praticante sotto i tre mesi, quindi lo stipendio minimo, era di 240 mila lire al mese. Il doppio. E all'epoca con 490 mila lire ti compravi una Fiat 500. Quando poi nel 1974 dalla Notte passai al Corriere d' informazione diretto da Gino Palumbo, io ovviamente non discussi nulla del mio compenso. Avevo 30 anni, non potevo certo mettermi a discutere con Palumbo. Lui mi fece avere il contratto in busta chiusa, io corsi in macchina, aprii la busta e c' era scritto: un milione al mese. Un sacco di soldi. E ho mantenuto la famiglia alla grande. Il mestiere di giornalista era prestigioso. Ora ti vergogni, dici giornalista o poliziotto è uguale.
D. Chi sono, oggi, i suoi migliori amici?
R. Sono molto amico di Melania Rizzoli, vedova di Angelo Rizzoli, e di Maria Luisa Trussardi, di cui ero compagno di scuola. Ho avuto più amicizie femminili, ma non per motivi sessuali: è che mi trovo meglio con le donne, le stimo di più. Comunque sono amico anche di Aldo Cazzullo, di Antonio Polito, di Gennaro Sangiuliano.
D. Che poi, a ben guardare, sono spesso persone molto lontane e diverse da lei.
R. Ma su molti punti ci troviamo. E poi se uno ha idee diverse dalle mie che problema c' è? Si figuri, io per primo non condivido le mie idee, cosa vuole che me ne freghi.
D. Ha perfino scritto il suo primo libro con Furio Colombo, un altro che parrebbe molto lontano dal suo mondo...
R. Colombo è stato il mio collaboratore numero uno quando dirigevo L' Europeo. Gli feci fare il libro Perché Israele ha ragione, che ebbe uno straordinario successo.Lo allegammo all' Europeo e superammo l' Espresso. Con Colombo ho un ottimo rapporto. Poi la pensiamo diversamente, ma, ripeto, chi se ne frega.
D. E invece quale amico le manca di più?
R. In generale, i miei amici di Bergamo, perché frequentando sempre Milano alla fine diventa difficile. Mi è spiaciuto tanto quando è morto Gigino Pezzoli, industriale tessile della Val Seriana: un uomo di una intelligenza elevata nonostante non avesse un istruzione classica. Lui capiva di economia molto più degli economisti, che, se fossero così bravi, sarebbero tutti ricchi e invece vanno in giro con le pezze al culo. Adesso io passo tanto tempo con mia moglie Enoe, una persona meravigliosa che mi ha salvato la vita. Siamo sposati da 51 anni. Il suo è un nome greco, credo che significhi «dalla bella mente». Vado d' accordo con lei, ci parlo volentieri. Certo, stare cinque giorni a Milano e solo due a Bergamo era l' ideale. Però anche adesso che ci convivo tutti i giorni, confesso che ci sto bene.
D. I suoi gatti hanno il giardino anche a Milano. E i suoi cavalli?
R. Ne ho ancora due, sono vecchi, li mantengo ma sono a riposo, non li può cavalcare più nessuno. Uno dei due non mangiava più perché aveva i denti guasti. E allora ho chiamato il dentista dei cavalli e ho speso 3.800 euro per farglieli sistemare. Cavoli, appena sistemati si è rimesso a mangiare e adesso sta benone.
D. Che ne pensa dello scontro tra Carlo De Benedetti e i suoi figli sulla gestione del gruppo editoriale Gedi?
R. Sto con Carlo De Benedetti tutta la vita. Lui ha fatto il grave errore di dare tutto in mano ai figli. Poi si è accorto della cavolata, ha provato a fare marcia indietro, un tentativo lodevole andato male. Ma non ho antipatia per De Benedetti, neanche un po'. Tra l' altro mi invitava spesso da lui in via Ciovasso, a pranzo.
D. E come vede l' ascesa di Urbano Cairo?
R. Ammirevole, bravo. Come amministratore è fenomenale, lo stimo molto. Certo, poi è uno di quelli che se scrivi che è spettinato si incazza. Il problema di Cairo è che per rilevare tutta la baracca di Rcs si è dovuto fare sostenere da Banca Intesa, e quei soldi li dovrà restituire. Questa è l' unica complicazione, gli auguro di farcela in fretta. La sua discesa in politica? Non ci credo, cosa ci va a fare, non lo conosce nessuno. Mia moglie, per esempio, pensa che Cairo sia solo la capitale dell' Egitto.
D. Perché continua ad avere la testa di Benito Mussolini su uno scaffale dietro alla sua scrivania?
R. È il regalo di uno spaghettaro qui vicino.
D. Ma la tiene lì per il periodo socialista del Duce, visto che lei è sempre stato socialista?
R. Dai, nessuno nega che Mussolini ne abbia combinate più che bertoldo, ma dal punto di vista storico non si può ignorare. La sa una cosa? Sulla scrivania di Indro Montanelli c' era una statuetta bellissima di Stalin: gli chiesi come mai. Lui mi rispose: «È quello che ha ammazzato più comunisti di tutti, non posso che rispettarlo». Quindi Montanelli poteva tenere Stalin, e io non posso tenere Mussolini?
D. Vabbè, ma lei non tiene lì Mussolini perché ha ucciso tanti fascisti. Nonostante ne abbia uccisi tanti.
R. No, certo. Va detto che c' è anche pigrizia: se lo butto via nel cestino, non ci sta. E allora devo smaltire il rifiuto, è complicato. Quindi lo tengo, non ho pregiudizi, che mi frega.
D. Ma i suoi articoli li scrive ancora a macchina?
R. Continuo a non avere il computer. Però io miei articoli non posso più scriverli con la macchinetta, perché non abbiamo più i tastieristi. E quindi mi sono dovuto adattare all' iPad, e praticamente ogni riga è una bestemmia. Mi cambia le parole, un disastro, faccio una fatica tremenda. Non è difficile, è fastidioso perché il ritmo della macchina da scrivere, su cui ho scritto per 70 anni, non mi faceva più fare i refusi. Qui, invece, boh, me ne scappano molti. Certo, rileggo, cerco di evitare i danni, però è complicato.
D. Va sempre a pranzo al Baretto?
R. Sì, ci vado volentieri perché si mangia male e si paga tanto. Ah ah ah, però il posto è bello, dai.
D. Lei è tifoso dell' Atalanta, e poi della Fiorentina. Come mai?
R. A 13 anni, nel 1957, sono andato a vedere Atalanta-Fiorentina. Pioveva, il risultato era sullo 0-0. Il terzino dell' Atalanta, Roncoli, che durante la settimana faceva il farmacista, scivola sull' erba bagnata e resta a terra. Montuori, attaccante della Fiorentina, rimane da solo davanti al portiere, ma, anziché tirare in porta, decide di buttare fuori il pallone per soccorrere Roncoli. Un gesto di sportività che mi fece innamorare di Montuori e della Fiorentina, che poi quell'anno vinse lo scudetto giocando benissimo. Mi ricordo ancora tutta la formazione a memoria.
D. Quindi lei nasce socialista, poi ha la testa del Duce sullo scaffale, appoggia i radicali nelle campagne per l' eutanasia, va a pranzo con De Benedetti, ha diretto il Giornale di Berlusconi... Come si definirebbe?
R. Sono nato socialista, e fondamentalmente sono libertario. Ero molto amico di Marco Pannella. Che mi diceva che ero un Indro Montanelli ma con un cilindro in meno.
D. Lei è da molti anni una presenza fissa in tv. Cosa pensa dei giornalisti di quotidiani che vanno tanto in televisione e rubano il tempo al loro lavoro principale?
R. Di sicuro non fanno vendere più copie ai giornali. Però andare in televisione fa il bene dei singoli giornalisti, nel senso che dopo essere stati in tv la portinaia li riconosce. Ormai se non vai in tv non ti conosce nessuno. Enzo Biagi diceva sempre che per avere un minimo di buona fama devi aver scritto almeno 3 mila articoli, ma per sputtanarti ne basta uno.
D. Enzo Biagi mi evoca il nome di Bice Biagi: io, anni fa, credevo fosse sua moglie.
R. È vero, avevo con lei una frequentazione assidua, anche se ero sposato. Non era una cosa clandestina. Dico sempre che la fedeltà è la virtù dei cani, io ho un po' diversificato. D. Nelle sue diversificazioni ha pure suonato il piano R. Da ragazzo facevo perfino il piano bar, per raccattare due lire. Poi, però, se non ti eserciti, perdi l' 80%. Comunque ho un piano a casa, e devo farlo accordare. Assolutamente.
Vittorio Feltri e Indro Montanelli, andare controcorrente non ha sempre gli stessi effetti. Angelo Cannatà, docente di storia e filosofia, il 24 Giugno 2019 su Il Fatto Quotidiano. Andrea Camilleri sta malissimo e Vittorio Feltri sente l’urgente bisogno di esternare: “mi consolerò pensando che Montalbano non mi romperà più i coglioni. Basta, mi ha stancato”. E’ libero Feltri d’esprimere giudizi così duri? Certo. Si chiama diritto di critica. Di più: l’attacco è al personaggio non allo scrittore (dicono le “anime belle”). E dunque, Camilleri combatte con la morte e Feltri non può non farcelo sapere: “Finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni”. Si potrebbero fare lunghi discorsi sulla sensibilità di Feltri, la delicatezza, il senso dell’opportunità, la voglia di scandalizzare a tutti i costi, e mille altre cose ancora. Sarebbero punti di vista legittimi e portatori di una certa verità, ma resteremmo ancora lontani dal motivo profondo che ha spinto il Nostro verso questo giudizio. Senza scomodare Freud, che scriverebbe pagine interessanti su questo caso, credo che insultare Montalbano e, attraverso il personaggio, il suo autore (se sbrocco contro I Promessi Sposi sbrocco contro Manzoni), e farlo in circostanze così tristi, mentre tutti ricordano le qualità umane e letterarie di Camilleri, significa essere mossi da un’irrefrenabile volontà di andare controcorrente. Questo desiderio agita l’anima di Feltri, senza che tuttavia avverta la necessità di confrontarsi con alcuni dati oggettivi:
1. Pur scrivendo bene è infinitamente lontano dal grande Indro Montanelli;
2. Per essere controcorrente dovrebbe distinguersi dalla massa, non assecondarla; insomma, andare anche contro l’onda salvinista. Facile criticare Montalbano;
3. Montanelli graffiava con eleganza senza essere volgare;
4. Il fondatore del Giornale aveva carattere e contestava i potenti;
5. Montanelli non avrebbe mai – per una questione di buon gusto – attaccato il personaggio di un libro e attraverso questo il suo autore gravemente ammalato.
Ecco, ciò che lascia stupefatti nell’uscita di Feltri è l’assoluta mancanza di sensibilità. “E’ peggio di un delitto – ha scritto qualcuno – è una caduta di stile”.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” l'1 ottobre 2019. Domenica scorsa Silvio Berlusconi ha compiuto 83 anni. Mi piace ricordare i miei rapporti con lui utilizzando un capitolo del libro "Il Borghese" (Mondadori) firmato da me. Nel brano che segue parlo anche di Montanelli, perché la storia dei due personaggi è intrecciata. Nel 1989 assunsi la direzione del settimanale L'Europeo. Volevo prendere come vice Scarpino, ma io non avrei potuto portarlo via a Il Giornale senza confrontarmi con il suo direttore. Allora incontrai Indro, manifestandogli questo mio desiderio. Montanelli acconsentì e il giornalista cosentino, stimato tanto da Indro, passò a L'Europeo. Già dopo due anni iniziai ad avvertire il desiderio di cambiare, fui preso dalla mia frenesia. Avevo portato il settimanale da 78 mila a 130 mila copie, ora volevo nuove sfide. Puntualissima arrivò la proposta di dirigere L'Indipendente, che versava in una grave crisi. Nel 1992 lo presi e lo rivoltai tutto. A L'Europeo rimase Scarpino, che dopo qualche mese andò a lavorare come caporedattore a Rete4 con Emilio Fede. In quel periodo continuavo a sentire e a vedere ogni tanto Indro. Ricordo la sua Lancia Thema blu, con la quale dopo il nostro pranzo mi faceva accompagnare dall'autista ovunque avessi bisogno di recarmi. Non era una macchina di lusso, ed appariva anche un po' consumata. Montanelli non era uno che badava alle frivolezze. Tuttavia, curava con precisione il suo aspetto, era sempre vestito bene, un po' britannico, indossava camicie a quadri, dolcevita, e zoppicava perché era stato colpito dalle brigate rosse alle gambe. La sua gentilezza era addirittura estrema. Ma io non sono gentile e con L'Indipendente, che diventò in brevissimo tempo da malato terminale a quotidiano di successo, gli andai nel culo: da 15 mila copie lo portai oltre le 120 mila, creando serie difficoltà alla concorrenza. Superai Il Giornale. Montanelli se ne infischiava delle vendite, ma stava attento. Nell'aprile del '93 ricevetti la chiamata di Silvio Berlusconi. Ancora non si parlava del lancio in politica e Forza Italia non esisteva. Dirigeva allora l'ufficio stampa dell'imprenditore un giornalista con cui avevo lavorato a Il Corriere, Giovanni Belingardi, amico mio carissimo. Fu lui a contattarmi informandomi che Berlusconi desiderava incontrarmi. Non avevo motivo di rifiutare l'invito. Giovanni venne a prendermi in ufficio per portarmi ad Arcore. Mi lasciò davanti al cancello e andò via. «Il signore in questo momento si trova in giardino, sta accompagnando Gianni Agnelli all'elicottero. Se si incammina per questo vialetto, vi incrocerete», mi comunicò il maggiordomo appena varcata la soglia della residenza. E fu proprio lì che ci vedemmo per la prima volta, su quel vialetto. L'imprenditore mi venne incontro e mi salutò in modo cordiale, quasi affettuoso. Era giovane, gentilissimo ed energico. Avevo davanti a me un uomo semplice. Non provavo soggezione. Non ho avuto alcuna palpitazione. Mi interessava capire soltanto cosa egli volesse da me. Durante il pranzo piovvero le proposte.
LA CONDIZIONE. Berlusconi mi chiese innanzitutto cosa ne pensassi di un mio passaggio a Il Giornale in qualità di direttore. Non nascosi di essere attratto da questa ipotesi, sostituire Montanelli mi attizzava. Ma aggiunsi anche che io stavo alla grande lì dove mi trovavo. L'Indipendente andava molto bene e le mie entrate erano soddisfacenti. Sottolineai, infine, che fintanto che Montanelli fosse stato alla guida de Il Giornale io non avrei mai osato scavalcarlo e che solo nel caso in cui Indro avesse deciso di abbandonare il timone per motivi suoi, io sarei stato interessato ad un mio passaggio al quotidiano di via Negri. Berlusconi la prese bene. Non è un tipo che si scompone. Dopo il nostro primo incontro il futuro leader di Forza Italia mi chiamava spesso per farmi i complimenti per i miei titoli o i miei pezzi, mi diceva che il mio giornale gli piaceva molto. In occasione del ferragosto di quello stesso anno, il '93, fui invitato da Silvio a pranzo, sempre ad Arcore. «Mi trattengo a Milano per lavoro e sono da solo, porti anche sua moglie ed i suoi figli», mi pregò l'imprenditore. Mi presentai lì non accompagnato. A tavola questa volta Berlusconi si fece più insistente. «Venga da me, le affido la direzione di Canale 5», mi disse. Io non avevo mai fatto televisione, avevo alle spalle solamente qualche piccola esperienza in codesto ambito, sono un giornalista della carta. Berlusconi mi fornì il nome ed il numero di un suo amministratore, un certo ingegnere Spingardi, augurandosi che potessimo raggiungere un accordo fissando un compenso. Insomma, l'uomo mi voleva a tutti i costi. Incontrai Spingardi, più per farlo contento che per negoziare, infatti la trattativa non andò in porto. Influì sull'esito infausto anche la reciproca antipatia tra me e questo amministratore.
LA DIATRIBA. Nei mesi successivi la stampa ci diede dentro con la diatriba infocata tra Montanelli e Berlusconi. Il primo non accettava che il secondo avesse fondato un partito. Indro era incazzato nero, poiché aveva capito che il suo giornale sarebbe diventato un organo di partito. Si mormorava che Montanelli avesse intenzione di mollare la presa. Agli inizi di dicembre di quello stesso anno, il '93, Berlusconi mi telefonò per chiedermi un consiglio. «Non so a chi affidare il partito, che ne pensa di Mariotto Segni?», mi chiese. «Mi sembra flaccido», osservai. «E Mino Martinazzoli come lo vede?», proseguì. «Anche peggio. Mino, lumino cimiteriale, è una specie di agente mortuario», risposi. Berlusconi rideva e mi ascoltava. Ad un certo punto incalzò: «Insomma, Feltri, lei chi metterebbe a capo di Forza Italia?». «Metterei Silvio Berlusconi. Perché, quando ero direttore de L'Europeo feci fare un sondaggio al fine di sapere quale fosse il cittadino più ammirato d'Italia e al primo posto risultò lei. Se decide di entrare in politica, il partito deve dirigerlo lei, altrimenti lasci perdere», conclusi. Sospetto di avere fornito a Forza Italia non solo il leader, ma persino il nome. Negli anni '80 io, Walter Zenga e Nicola Forcignanò conducevamo un programma televisivo che si chiamava Forza Italia, trasmesso sull'emittente di Tanzi. Berlusconi premeva e mi chiedeva in modo sempre più incalzante di andare a Il Giornale. Ci fu un altro incontro, ancora una volta ad Arcore. «Ok, vengo al Giornale», dichiarai dopo estenuanti tentativi di convincimento. Le condizioni erano cambiate rispetto ai mesi precedenti. Montanelli stava andando via. Era deciso. «Quando Indro toglierà le tende, ammesso che ciò accada effettivamente, io accetterò di prenderne il posto. Di sicuro non verrò lì a dargli una gomitata», specificai. E, in effetti, Montanelli, sicuramente messo a dura prova da un Berlusconi che voleva scaricarlo, abbandonò il quotidiano da lui stesso fondato. Dimessosi, il posto per pochi giorni restò vacante. Nel mentre prese avvio la trattativa riguardante la mia assunzione. A L'Indipendente guadagnavo mezzo miliardo l'anno, ecco perché mi misi a ridere allorché i dirigenti de Il Giornale, nel corso di un colloquio, mi offrirono 600 milioni. Li mandai a quel paese senza esitazioni. Già non ero molto eccitato al pensiero di lasciare un quotidiano che vendeva molte copie, inoltre mi veniva proposto di farlo per 100 milioni in più. «Se vi serve un cretino, ce ne sono in giro tanti. Se avete bisogno di un direttore, io sono ancora per poco disponibile», dissi rivolgendomi a tutti i presenti, incluso Paolo Berlusconi. Poi lasciai la stanza. Davanti all'ascensore fui recuperato e riportato dentro.
IL COMPENSO. A quel punto mi offrirono 800 milioni e, per convincermi ad accettare, mi proposero un compenso anche per le copie vendute. Insomma, più avrei recuperato lettori più avrei incrementato i miei guadagni. Una bella sfida, che colsi al volo. Già dopo pochi giorni vendevo 30 mila copie in più. I pranzi con Montanelli si interruppero. Non sentivo di averlo usurpato. Non appena presi la direzione de Il Giornale uscì il mio primo articolo, quello di saluto ai lettori. Il giorno successivo, tra le 10:30 e le 11, ricevetti la telefonata di Indro. Parlava in modo pacato e sicuro, come sempre. Nella sua intonazione nessun accenno di rancore o di rabbia: «Vittorio, ti faccio gli auguri ora che sei diventato il mio successore, ho letto il tuo articolo di fondo e devo dire che mi è molto piaciuto. Mi secca solo di non averlo firmato io». Restai sbalordito ancora una volta dalla sua gentilezza. Montanelli era un vero signore. Nelle sue parole percepivo affetto. Forse voleva togliermi dall'imbarazzo. Quanta delicatezza! Il Giornale andava abbastanza bene quando esordì il nuovo quotidiano fondato da Montanelli La Voce, che vendette da subito la bellezza di 500 mila copie. Tuttavia, io ero tranquillo. Avevo studiato bene quel giornale e lo vedevo brutto. Non avevo nessun timore. Sapevo che La Voce sarebbe stata una meteora. Scintillante all' inizio e dalla vita breve. Infatti, durò solamente un anno. Da 115 mila copie a gennaio del '94, Il Giornale superò le 200 mila a fine luglio. Indro mi portò via una cinquantina di giornalisti, tra cui Beppe Severgnini, sebbene di lui mi dicesse «Beppe è soltanto cipria», Marco Travaglio, Mario Cervi, e tanti altri.
«LA VOCE» CHIUDE. Dopo un anno dalla sua uscita, La Voce vendeva 30 mila copie o 40. Il giorno in cui chiuse io mi trovavo a Santa Margherita Ligure. Appresa la notizia, feci fare 10 righe sulla prima pagina, una colonna, per rispetto, al fine di informare i lettori che il giornale di Indro aveva terminato le pubblicazioni. Neanche una parola di commento. Non avrebbe avuto senso infierire. Rientrato a Milano, il giorno seguente, mi chiamò Montanelli per chiedermi di vederci. Ci incontrammo in un ristorante di corso Venezia, Santini. Mi appariva quasi stanco, ma sereno. «Ho dovuto chiudere il giornale. Aiutami, vorrei che tu riprendessi con te queste persone», e mi fece il nome di alcuni giornalisti. «Se posso, Indro, lo faccio più che volentieri», risposi. E, in effetti, ne feci assumere qualcuno. Mi segnalò Cervi, che reintegrai subito. Iniziò così una nuova fase di frequentazione tra me e Montanelli, che tornò a Il Corriere come editorialista. Non seppi mai cosa Indro pensasse di me dalle sue labbra. Lo appresi leggendo Panorama, dove io peraltro in quel periodo curavo una rubrica di opinione e rispondevo ai lettori. Intervistato dal settimanale, al fondatore del giornale che io dirigevo fu chiesto se fosse vero ciò che si diceva, ossia che io fossi un suo allievo. «Questo non lo posso dire, ma da come scrive sento che è un mio parente», fu la sua risposta. E poi: «De Il Giornale cosa ne pensa?». «È come avere un figlio drogato», dichiarò gelido ed ironico Indro. Montanelli mi accusò di cavalcare il peggio della borghesia italiana, cosa che aveva fatto pure lui. Ciò che gli era sfuggito era semplicemente il fatto che era la borghesia ad essere cambiata. Io l'avevo seguita. Lasciato Il Giornale, fui invitato a cena a casa sua. «Avevi ragione tu, Indro, quando andasti via da via Negri. Sono stato lì quattro anni e mi sono davvero rotto i coglioni», gli confessai. Montanelli scoppiò a ridere. «Perché hai mollato?», mi domandò. «Ero stufo e, siccome avevo una cospicua liquidazione da riscuotere, ho sloggiato più volentieri», spiegai. Ridevamo come matti. Lo divertiva il fatto che avessi strappato una bella vagonata di soldi, lui non era bravo a trattare con il denaro. Io, invece, quando c'è da riscuotere divento ancora più tignoso ed incazzato. Dopo qualche mese decisi di fondare Libero e la notizia venne diffusa. Mi trovavo a pranzo con Renato Farina al ristorante Il Porto quando nel tavolo in fondo alla sala vidi Montanelli, il quale si alzò e mi raggiunse. «Noto che non fai più parte del mio club, quello dei magri, hai messo su qualche chilo, caro Vittorio», poi aggiunse: «Tu, a differenza mia, sai fare bene i conti, ce la farai con il tuo Libero». E poi la rottura. In diretta tv. Durante una trasmissione condotta da Santoro, Raggio Verde, in onda su Rai2, ci fu un' accesa discussione tra me e Indro. Era presente anche Travaglio. Era il marzo del 2001. Non ci chiarimmo mai più. Indro morì. Mi dispiace non averci parlato, ma, in fondo, non c' era nulla da chiarire. Avevo ragione io. Indro era andato via incazzato da Il Giornale perché Berlusconi si era gettato a capofitto nell' agone politico, io comprendevo le sue paure e ragioni, tuttavia il modo che utilizzava per criticarlo era ingiusto. Sosteneva che il leader di FI fosse un fascista, un despota, un pericolo per la democrazia, un manganellatore. «Caro Indro, per vent'anni hai sempre affermato che Berlusconi fosse il migliore editore che tu avessi mai potuto immaginare di avere, perché non ha rotto mai le palle. Ad un certo punto, da un giorno all' altro, hai capovolto la tua opinione, dipingendo l'uomo come una sorta di mostro», gli dicevo. Il punto è che Indro era convinto che Berlusconi fosse il proprietario del suo giornale e lui il padrone assoluto. Ma il proprietario, se non gli vai più a genio, ti caccia. È una realtà schifosa, ma questa è. Siamo tutti liberi, certo. I giornalisti italiani sono i più liberi di attaccare l'asino dove vuole il padrone. Indro però non aveva torto, non sopportava che arrivasse qualcuno, quantunque fosse colui che mette il grano, a dettare legge imponendogli una certa linea, che magari avrebbe seguito di sua spontanea volontà se non fosse stata l'unica strada permessa. Devo ammettere che io andai via da Il Giornale poiché mi ero rotto le scatole delle pressioni ricevute non da Berlusconi ma dagli ominicchi del suo partito, che davano per scontato che il quotidiano che io dirigevo fosse al loro servizio. Di Montanelli restano gli insegnamenti. Mi sembra ancora di sentirlo e non c' è mattina in cui io, giunto in redazione, non ripensi a queste parole: «Caro Vittorio, quando fai un giornale, devi sempre tenere presente che alla gente non interessano molto gli spiccioli della politica, per cui devi fare due articoli di fondo alternati, di cui uno contro un personaggio politico importante, ed il titolo deve essere "testa di cazzo". Se invece fai un pezzo sull' Italia, il titolo deve essere "Paese di merda". Questa è la tecnica migliore». E come un' eco si aggiunge Gaetano Afeltra: «Vittorio, ricordati sempre la regola delle tre "s", sesso, sangue e soldi. E, infine, uno schizzo di merda qua e uno là». Certe persone restano per sempre, persino quando non ci sono più.
Vittorio Feltri, la vecchia intervista a Montanelli: una pazzesca profezia (che oggi si è realizzata"). LIbero Quotidiano il 13 Ottobre 2019. Sapevo che Montanelli non è un uomo ordinario, ma non a questo punto. Forse quanto il mitico Longanesi, sul quale ha scritto, con la collaborazione di Staglieno, un libro che comincia a invadere le vetrine e avrà successo perché in quelle pagine il conte di Bagnocavallo è più vicino di quando era vivo: lui e la sua Italietta che non è cambiata, ed è come la nostra, meschina e piccolo-borghese, ambiziosa e bugiarda. L' anticamera del direttore del Giornale riserva la prima sorpresa, un merlo parlante. E il fatto eccezionale non è che parli, ma quel che può dire e ha detto. Dimora in una comune gabbia piazzata al centro della stanza, davanti alla scrivania della gentilissima segretaria. Sembra un uccello per bene, e lo sarà: ma che lingua. Mi ha accolto con un fischio poderoso da Tee in ritardo, e già questo era interpretabile come un brutto segno: forse suscitavo basso gradimento. Poi, cogliendomi alla sprovvista, mi ha chiesto: «Fischio bene?». Credevo scherzasse e sono stato al gioco. «Mica tanto», gli ho risposto. Non l' avessi mai detto. Con voce fredda e tagliente mi ha liquidato così: «Vai al diavolo». Giuro che sono rimasto male. Che sia un volatile da guardia? Probabilmente è un test per selezionare i visitatori: quelli che lo superano, e non scappano, sono attrezzati per affrontare il più pungente e anticonformista, amato e odiato, dei giornalisti italiani.
Cioè il più bravo di tutti. Mi sembra scortese domandare a Indro Montanelli ragione dell' impertinente pennuto; ma l' ho scoperta lo stesso con una piccola indagine di corridoio. È un merlo adottato, era di Angelo Rizzoli. Quando l' editore si assentò per i noti e dolorosi motivi, lo affidò a numero uno del Giornale, che lo portò nello studio. Perché successivamente sia stato trasferito in segreteria, questo non l' ho accertato, ma considerata l' originalità con cui sa intrattenere gli ospiti immagino che la sua attuale collocazione risponda a un sottile disegno del padrone: far capire ai nuovi venuti, con una burla innocente ma densa di significato, che lì si parla chiaro ed è gradita la sintesi. Montanelli per fortuna, pur essendo schietto almeno quanto l' uccello, era molto più cordiale. Mi accoglie, se non esagero, con affetto. È altissimo, magro, gli occhi sono di quelli che non riescono a fissare, trapassano. Mi dà del tu, come usa nella categoria, col sottinteso che dovrei ricambiare. Ma continuerò con il lei. Saremo colleghi ma è meglio non montarsi la testa, finché ne rimane un briciolo. Ha 75 anni, più di cinquanta trascorsi nei giornali: migliaia di articoli e decine di libri; un primato di quantità e, soprattutto, di qualità. Glielo riconoscono perfino i nemici, e non ne ha pochi. La prima volta che misi piede in una redazione, vent' anni fa, mi fecero scrivere tre o quattro volte la stessa notizia. Erano dieci righe e non andavano mai bene. Non volevo protestare, ma aspiravo a una spiegazione. Il capocronista non sollevò neppure lo sguardo dai fogli, mi disse: «Chi credi di essere, Montanelli?». Adesso che ce l' ho qui davanti mi sembra uno normale: dove sarà andato a prendere tanta bravura? È vestito come un gentiluomo di campagna, tweed da ogni parte. La sua stanza è piccola, troppo piccola per essere quella del più grande. Assomiglia allo studio di un avvocato di provincia, raccolta e senza ombra di ostentazione Comincia lui: «Allora, che cosa ti devo dire?».
Come mai proprio adesso un libro su Longanesi?
«Desideravo farlo da tempo, ma me ne mancava per un impegno di questa portata. Poi s' è offerto Staglieno che ha compiuto un lavoro ottimo: anche ricerche d' archivio, recupero di materiale. E allora s' è potuto fare. Ma non basta. Longanesi è complesso, non è riducibile in una biografia: il rischio è di tirarne fuori una macchietta; invece era un uomo di sconfinata qualità. Le opere che ha lasciato sono un nulla a confronto di quello che ha seminato e sperperato regalando ad altri. La speranza è che, dopo di questo ci possano essere altri libri su di lui. Siamo soltanto agli inizi».
Quale era la dote migliore di Longanesi?
«Senza dubbio, il gusto. Raffinatissimo. Non ha mai detto né approvato una volgarità. E il feeling. Le sue intuizioni erano folgoranti, capiva anche quello che non sapeva. Aveva l' intelligenza dei valori, non gli è mai sfuggito un talento, si direbbe che ne sentisse l' odore a distanza. Non era avaro: le idee che gli venivano, ed era un getto continuo, le metteva a disposizione di chi le apprezzava; suggeriva come dovevano essere realizzate e finché non arrivavano al successo non aveva pace».
Qual è l'insegnamento più prezioso che le ha dato?
«La mentalità dell' anticonformismo: non schierarsi col più forte, non andare in soccorso del vincitore, come usa oggi e, forse, usava ieri e l' altro ieri. Leo fu antifascista quando il fascismo era in auge e senza oppositori; crollato il regime, non pronuncio più una parola oltraggiosa e non si appiccicò alcuna medaglia al petto. Fu critico con la democrazia come lo era stato prima: aspro e sarcastico. Andava contro tutti e non gli veniva in tasca nulla. Ha dato molto e ha ricevuto poco: è morto con cinquanta milioni di debiti».
C'è un episodio che ricorda volentieri, che le è rimasto più impresso?
«Tanti. Ci vorrebbe un volume per raccontarli. Questo m' è venuto in mente ieri. Leo era direttore di Omnibus, più della metà del lavoro la faceva lui. In redazione eravamo Pannunzio e io, e ci capitò per mano un libraccio, intitolato Il Piave, di un autore sconosciuto. Cominciammo a leggerlo, era una porcheria in piena regola, retorico e ridondante, traboccava fesserie. Ci prese una riderella irrefrenabile e sfottemmo quel prosatore da quattro soldi che ci sembrava il peggior imitatore di Sem Benelli. Entrò Longanesi: "Qual è la ragione del divertimento?" ci domandò. E gli mostrammo il libraccio. Lesse mezza pagina e ci copri di invettive: "Siete due cretini, non capite un accidenti, qui sotto c' è un talento". Incaricò me di scovargli quell' autore, era Vitaliano Brancati. Lo rintracciai: lavorava al Tevere, il giornale più ossequioso dell' epoca, una sinfonia del fascismo. Il povero Brancati ci ricavava da vivere, era giovane, avrà avuto vent' anni. Gli riferii che Longanesi aveva piacere di incontrarlo, e si eccitò: normale, perché Leo era già un mito. L' incontro avvenne a Milano. Brancati forse si aspettava un elogio, invece l' altro gliene disse di tutti i colori: "Smettila di scrivere queste stupidaggini, tu devi raccontare storie di corna e dongiovannismo della Sicilia, datti da fare". Praticamente gli aveva dettato anche il titolo. Vitaliano Brancati è nato così. E Buzzati? Leo lesse un suo racconto sbagliato, non dico brutto, ma sbagliato, eppure indovinò il genio: gli suggerì Il deserto dei tartari. Longanesi era un rabdomante».
Come faceva?
«Che ne so, in mezzo a cento pescava quello giusto».
Lei come fu pescato?
«Ero giovane, ma avevo già scritto: fui letto e pescato».
E Pannunzio?
«Lo prese al bar».
Come al bar?
«Pannunzio aveva vent' anni, era nessuno. Leo lo conobbe al banco del caffè: due chiacchiere, un' occhiata, e via, se lo portò in redazione. La sua forza era l' intuito, un' intelligenza femminile. Da lui non c' era da aspettarsi un ragionamento fondato sulla logica, non ne era capace. Ma se si trattava di andare a naso, era infallibile».
Da chi era stimato e da chi odiato?
«Probabilmente lo odiavano soltanto i fessi».
Quanto ha inciso nel giornalismo?
«Ha inventato quasi tutto. Nel nostro mestiere non c' è nulla che Longanesi non avesse già sperimentato, dalla grafica al taglio degli articoli. Omnibus, che è degli anni Trenta, è un esempio: basti sfogliare le raccolte. Si può dire che lo facesse da solo, lavorava incessantemente. Oggi si vive di rendita su quello che ha insegnato dilapidando la propria intelligenza».
Se non sbaglio non ha lavorato assiduamente per i quotidiani: perché?
«Scrisse articoli per la Gazzetta del Popolo. Ma preferiva stare in proprio, era un artista artigiano. E gli piaceva spingere gli altri, non gli importava di apparire».
Le sue battute sono memorabili: quale le è rimasta più impressa?
«Ce n' è raccolte intere, l' imbarazzo è nella scelta. Ne produceva ogni giorno, sempre improvvisando: e non ha mai detto due volte la stessa, aveva orrore delle ripetizioni».
È stato un grande maestro, ma lui da chi aveva imparato?
«Da sé. Crebbe in un piccolo paese, i suoi orizzonti culturali erano limitati. Era un genio innato, non solamente per il giornalismo ma anche per l' arte: fu il primo a comprendere Morandi».
Cos' è cambiato nel nostro ramo dai tempi di Longanesi?
«Non vedo talenti nuovi. Forse non ce ne sono più, o restano nell' ombra perché non c' è lui a scoprirli».
I settimanali, popolari e non, sono migliorati o peggiorati da allora?
«Peggiorati. Sono mediocri imitazioni di quelli che lui faceva benissimo; non si fa che rimasticarli male e senza aggiungervi una novità, senza guizzo».
Immagina cosa avrebbe fatto se non fosse morto così presto?
«C' è da ringraziare Iddio, non avrebbe risparmiato nulla e nessuno, ma gli sarebbe toccato di vedere troppe brutture indigeste. Certo, cose ne avrebbe fatte, anche Il Giornale, e sarebbe stato meglio. Era un grande direttore d' orchestra, non come me che sono un solista: mi manca il colpo d' occhio per avere sotto controllo, in un attimo, la situazione completa. Anche coi giovani: ne avrebbe coltivati parecchi; io pochini, non ho il suo fiuto sugli uomini».
Di Pertini e di Craxi cosa direbbe?
«Ah, come mi mancano i suoi giudizi. Chissà che sarebbe uscito da quella bocca».
Con Pertini ci ha provato anche lei.
«Una piccola prova».
Lei assomiglia a Longanesi?
«In certe cose sì».
Quali?
«Nell' andare contro corrente e nel ripudio della retorica».
Nella categoria oggi c' è un Longanesi?
«No. Non scherziamo».
I migliori giornalisti sono gli anziani: lei, Scalfari, Biagi e pochi altri che non cito per brevità. Nessun giovane. Come mai? Solo i cretini adesso si danno al giornalismo o c' è qualche altra ragione?
«L' appiattimento. Questo è il tempo delle masse, che travolgono e azzerano anche le migliori individualità. Nei giornali arrivano quintali di agenzie e si finisce per manipolare quelle, anziché scrivere articoli. Si tende al grigio e non ci sono opportunità per chi ha il piacere dell' acuto, è soffocato dal coro».
I direttori non hanno responsabilità?
«Forse, ma anch' essi subiscono probabilmente l' appiattimento, si abituano ad avere un giornale monocorde e non vanno in cerca della nota nuova: si rassegnano. Anche perché, fra i diritti sindacali e diritti vari, al direttore restano margini angusti di manovra».
Se lei avesse vent' anni, che mestiere cercherebbe di fare, ancora i giornalista?
«Non lo so. Questo mestiere mi è piaciuto e mi piace, sono felice di averlo scelto, anzi di essere stato scelto dal giornalismo. Ma oggi è meno importante, se cominciassi adesso mi sentirei meno scoraggiato. Potrei arrivarci da altre strade, magari dalla storia, che amo e credo di conoscere e per la quale qualcosa ho fatto. La vita di redazione si è imbarbarita, meglio essere un collaboratore che un redattore: si porta l' articolo al giornale e del resto ci si disinteressa».
Nella situazione attuale rifonderebbe Il Giornale o la sua nascita è legata a un' epoca?
«Mi sono stufato di trovare tanta gente che ci dà ragione. Ma per cinque o sei anni qui s' è lavorato come un ghetto. Se il clima in Italia è cambiato, lo si deve anche al Giornale che è stato a lungo una voce diversa: quasi tutto quello che dicevamo si è rivelato esatto, purtroppo. Abbiamo avuto un pubblico che ha creduto in noi e in noi continua a credere. Ce lo teniamo. Non posso dimenticare quegli anni di "confino". Ebbi un incidente e qualcuno se ne accorse. Non m' importa il fatto in sé, quello è una stupidaggine: ma né Il Corriere né La Stampa misero il mio nome nei titoli, e questo la dice lunga sulla mentalità che dominava, avevano paura a citare uno del ghetto; Piero Ottone e Arrigo Levi si vergognino. Scrivi, scrivi pure: si vergognino».
È vero che i quotidiani, con la Tv e l' informatica che spopolano, sono destinati a scomparire, quantomeno a perdere d' incisività?
«Non credo. Ma devono cambiare. Sulla rapidità nel dare le notizie sono sempre battuti dalla miriade di radio e televisioni, e diminuiscono i lettori che li comprano solamente per sapere quello che è successo. Ma aumenta la richiesta di commenti e di opinioni, e su questo terreno l' importanza dei quotidiani è addirittura in crescita. Complessivamente il numero delle copie resterà quello attuale: il guaio è che gli italiani costituzionalmente leggono pochi giornali, preferiscono i settimanali perché sono più svelti e disinvolti».
C' è un articolo che non ha mai osato scrivere?
«No, li ho scritti tutti, e sono anche troppi».
Le è venuta voglia di smettere?
«Mai. La salute non mi manca. Finché c' è inchiostro c' è speranza».
Credo che lei dal giornalismo abbia avuto molto, moltissimo. Cosa si aspetta ancora?
«Niente. Vorrei morire su questa sedia, davanti al mio tavolo. Vivo per il giornalismo fine a se stesso, non mi interessa altro: né politica, né titoli, né patacche. Ho sempre rifiutato ciò che col lavoro non c' entrava».
Se avesse un figlio che vuol fare il giornalista che consiglio gli darebbe?
«Grazie a Dio non ho figli. Oggi, averne, sono soltanto problemi. Ma se ne avessi le possibilità sarebbero due: o avrebbe una vocazione spiccata, e in tal caso farebbe di testa sua e finirebbe in un giornale, sottoponendosi alla trafila che tocca a tutti; al massimo potrei aiutarlo a entrare, perché il primo passo è difficile anche per chi ha buone gambe. Oppure avrebbe una vocazione incerta, e allora lo sconsiglierei».
Come si fa ad aver successo?
«Cominciando a non cercarlo».
E quando si ha, come lo si conserva?
«Infischiandosene d' averlo».
Vittorio Feltri
Dino Messina per il Corriere della Sera il 28 ottobre 2019. Dietro la maschera che si è costruito e che gli hanno cucito addosso (vedi le esilaranti caricature di Maurizio Crozza) c' è un Vittorio Feltri genuino, fedele ai maestri e alle amicizie, agli affetti più cari e soprattutto ai decenni di lavoro che hanno fatto di un cronista di provincia (la sua Bergamo Alta) uno dei protagonisti indiscussi del giornalismo italiano. Certo, oggi la carta stampata non gode di grande salute, ma tutti noi ricordiamo come veri e propri miracoli le performance di Vittorio Feltri alla direzione di giornali presi in stato preagonico e portati a tirature di tutto rispetto. Dopo aver raccontato la sua vita ne Il borghese (Mondadori), oggi il giornalista che Marco Pannella aveva definito un Indro Montanelli «con un cilindro in meno» continua a raccontarsi. Lo fa in un volume molto gradevole, L' irriverente. Memorie di un cronista - in uscita il 29 ottobre per Mondadori (pagine 112, e 17) - da cui non riesci a distaccarti, che contiene quindici capitoli, quattordici dedicati agli umani e l' ultimo ai suoi gatti. Naturalmente si parla molto di giornali e di giornalisti, ma anche di altre figure cruciali nella formazione di un ragazzo curioso del mondo e amante dell' eleganza. Tra i primi Giorgio Gaber, a 22 anni già cantautore affermato che dopo un concerto a Bergamo si sedette a una tavolata di ammiratori, tra cui il diciottenne Vittorio, per bere una birra in compagnia. Gaber indossava un blazer blu e dei mocassini. Uno stile sobrio che tanto piacque al suo interlocutore. I due si scambiarono il numero di telefono e quando Feltri approdò alla «Notte», il quotidiano del pomeriggio guidato da Nino Nutrizio, utilizzò quel numero per realizzare un' intervista che segnò l'inizio di una amicizia duratura. I due si incontravano spesso per parlare di politica, della vita, delle carriere. Una volta in trattoria il discorso andò sulla definizione di destra e sinistra. Feltri racconta che Gaber prese un foglio e cominciò ad annotare: «Fare il bagno è di destra, la doccia invece è di sinistra, fumare le Marlboro è di destra, le sigarette di contrabbando sono di sinistra. La fortuna non si sa se sia di destra, la sfiga sicuramente è di sinistra». E via elencando. Da quella conversazione nacque uno dei brani più popolari del cantautore milanese, il cui ritratto apre questa galleria, quasi a voler sottolineare l' aridità e inconsistenza di certe gabbie nelle quali vogliamo costringere uomini e cose. E a ben guardare nel pantheon di Feltri i posti d' onore sono riservati a personaggi scomodi come Giuseppe Prezzolini, che Palmiro Togliatti ebbe la gentilezza di definire «merce vecchia venduta su tutti i marciapiedi», in realtà un grande del Novecento che lasciò l'Italia quando Benito Mussolini si consolidò al potere e non vi ritornò stabilmente mai più. Preferendo alloggiare dal 1968 in un appartamento non lussuoso a Lugano, lontano dai suoi connazionali che mai gli tolsero l'etichetta di fascista e che lo riscoprirono tardi, poco prima della morte avvenuta a cento anni nel luglio 1982. Altro personaggio scomodo raccontato da Feltri è Enzo Tortora, il popolare giornalista e conduttore televisivo arrestato nel giugno 1983 con l' accusa di associazione camorristica e traffico di droga. Tortora fu la vittima di uno dei più clamorosi errori giudiziari della magistratura repubblicana. Ma fu doppiamente vittima grazie al coro accusatorio levato dai tanti giornalisti che sposarono subito le tesi accusatorie. Vittorio Feltri, e chi scrive ben lo ricorda, fu il primo a dissociarsi dalla canaia colpevolista e, spulciando nelle carte istruttorie che tutti avevano a disposizione ma che nessuno aveva letto, scoprì che il principale accusatore, il pentito Gianni Melluso, che aveva raccontato di aver conosciuto Tortora a Milano in piazzale Loreto (o forse in piazzale Lotto), all' epoca del supposto incontro era in galera. E così l' altro elemento d' accusa, il numero di telefono scoperto nella rubrica di Giovanni Pandico, in realtà non era quello di Tortora, ma di un' altra persona, forse un omonimo. Ci vollero anni per ristabilire la verità, e in quel periodo Enzo Tortora si ammalò di un irrimediabile tumore. Quegli articoli scritti da Feltri sono una medaglia che pochi possono vantare. Naturalmente nelle pagine dell' Irriverente ci sono tanti giornalisti, e c' è tanto «Corriere della Sera», dove l' autore ha lavorato per circa tre lustri. Ci sono i direttori amati, come Gino Palumbo, «un mostro di bravura» che fu a capo del «Corriere d' Informazione» e della «Gazzetta dello Sport». C'è Piero Ostellino, che divenne direttore del «Corriere» quando Palumbo si ammalò di tumore e non potè accettare l' incarico. C'è Franco Di Bella, che portò il maggiore quotidiano di via Solferino a vendere un milione di copie ma inciampò nell' iscrizione alla P2. E c' è Alberto Cavallari, che detestava Feltri ed era da questi ricambiato. Una volta «l' irriverente» fece cambiare la gerenza e mettere al posto del direttore il nome di un noto whisky, Johnnie Walker. Per fortuna un amico tipografo lo salvò in extremis. Altra allusione alcolica Feltri la fece in una polemica con Gianni Brera, che accusò di «aver toccato il fondo della bottiglia» e ne divenne amico quando, incrociatolo in un ristorante, si vide recapitare al tavolo una bottiglia di grignolino, inviata dal maggiore dei giornalisti sportivi in modo che anche Feltri potesse «toccare il fondo ». Nell' Irriverente ci sono pagine drammatiche come l' incontro in carcere con l' editore Angelo Rizzoli, e si raccontano episodi esilaranti, come quello del cronista di «Bergamo Oggi» Piero Baracchetti, che, richiesto di fare un pezzo per la prima pagina sullo scoop del giorno, la risoluzione del giallo sulla scomparsa di tre donne per mano di un impiegato di banca, si presentò dal giovane direttore con quindici righe striminzite. Feltri accartocciò quel foglio e vergò quindici cartelle. Si è detto che la fortuna di Feltri direttore sia stata quella di aver drogato i giornali, con titoli a effetto e al limite della correttezza (alcuni memorabili come quello su De Mita: «Chiude la bicamerale, rimane l' attico»). In realtà la sua prima qualità è stata di essere un grande cronista, capace di capire e scrivere le notizie. E sgobbare dalla mattina alla sera.
Vittorio Feltri, la confessione: "Come è nato il mio amore per il Sud". Libero Quotidiano l'1 Novembre 2019. Pubblichiamo un capitolo del nuovo libro di Vittorio Feltri, L’Irriverente - Memorie di un cronista (Mondadori, pagg. 104, euro 17) disponibile in tutte le librerie. A dispetto di quello chemolti pensano, queste pagine dimostrano il legame e l’amore del direttore di Libero per il Meridione. Visitai il Sud per la prima volta quando era appena finita la guerra. Ero molto piccolo, avrò avuto 5 anni, ma mi è rimasto impresso nella memoria il lungo viaggio per raggiungere lo zio Ernesto e la zia Nella. Quest' ultima era una delle sorelle di mia madre, la quale insieme a suo marito da Bergamo si era trasferita in Molise, a Guardialfiera, poiché lo zio, che era perito agrario e aveva una particolare abilità nell' amministrare aziende agricole, era stato chiamato in quella regione per governare un feudo molto ampio da un certo signor Baranello, latifondista che risiedeva a Campobasso ma era napoletano di origine. Da Bergamo raggiungemmo Milano e da qui salimmo sul treno Milano-Lecce. Viaggiavo in compagnia della zia Tina, la quale per me fu come una mamma. A un certo punto il convoglio si bloccò poiché le ferrovie nel dopoguerra erano state gravemente danneggiate dai bombardamenti. Ci comunicarono che c' era una specie di impedimento a proseguire e dovemmo scendere dal vagone per salire su un carro bestiame, che ci avrebbe condotti a Termoli, il primo comune del Molise. Fu durante quel pellegrinaggio che ebbi il primo impatto con qualcosa che fino ad allora mi era sconosciuto: il mare. Ne avevo sentito parlare, ma non lo avevo mai veduto. Mi imbattei in quella distesa azzurra mentre la zia Tina dormiva sulla paglia che fungeva da tappeto e il convoglio procedeva a ritmo costante. Un timido raggio di sole mi ferì le palpebre, spalancai gli occhi e restai stupefatto da quella straordinaria celeste visione. Una signora che era a bordo, forse notando la mia emozione, mi spiegò che quello era il mare. Lo guardavo. Una palla rossa si sollevava dalle sue viscere, lentamente veniva a galla e saliva come se qualcuno dall' alto la trainasse tramite un filo invisibile. Era l' alba.
Dodici ore - Fu una trasferta simile a quella che compiono gli extracomunitari che intendono toccare il suolo europeo. Dodici ore di viaggio, in quelle condizioni, su un adulto pesavano tanto, poco però su un bambino che continuava a stupirsi di tutto ciò che intravedeva dal carrozzone di legno. Finalmente giungemmo a Termoli, tuttavia l' avventura non era ancora terminata: occorreva lasciare il vagone riservato alle bestie e prendere un treno diretto a Campobasso. Noi saremmo scesi prima, ossia a Larino, al fine di poggiare i sederi su un pullman scalcinato che ci avrebbe infine fatti approdare a destinazione. Rimembro che a un certo punto accusai delle fitte atroci al basso ventre: da troppo a lungo trattenevo la pipì, eppure non osavo lamentarmi né farmela addosso poiché non avrei sopportato di presentarmi agli zii con i calzoni sporchi. La casa della zia Nella era come un porto che ci accoglieva dopo tanto girovagare. Si trattava di un bel palazzo, situato nel cuore di Guardialfiera. L' opulenza era ovunque. Abbondanza di cibi, di servitù, di comodità. Eravamo fortunati perché noi avevamo il bagno, un vero e proprio lusso. Era una sorta di appendice dell' edificio, appiccicata al resto del fabbricato come fosse una scatoletta, segno che il cesso era stato aggiunto dopo. Il soggiorno in Molise si fece esaltante nel momento in cui lo zio Ernesto mi portò in campagna col biroccio, assoluta novità per me che vedevo i cavalli e i calessi passare ogni tanto da lontano in quel di Bergamo. Ricordo ancora il nome degli equini, Bellì e Amì. Ne ero affascinato e mi innamorai durante quella mia prima estate molisana anche un po' del Sud. Del resto, vivevo una situazione completamente diversa da quella consueta. Inoltre, lo zio era come un babbo, stavamo sempre insieme e mi spiegava tutto, pure riguardo i cavalli. «Vittorio, non dimenticarlo mai: non bisogna frustarli, bensì trattarli bene, perché questi animali qui sono nostri amici, ci portano in giro, fanno tanta fatica» era il suo monito continuo. Zio Ernesto mi teneva per mano e io mi sentivo più forte. Notavo che egli stesso era orgoglioso di menarmi con lui, mano nella mano, allorché doveva fare i suoi giri. Ci recavamo nelle masserie che dipendevano da lui e i proprietari nei confronti di mio zio che era l' amministratore avevano un atteggiamento di estremo riguardo, gli offrivano qualunque cosa, spesso anche le uova. Quando gliele porgevano, egli me ne faceva bere subito uno. Con uno spillo che teneva sempre nel taschino, lo zio praticava un buchetto sopra e uno sotto l' uovo e mi incitava a succhiarne il contenuto. Si andava in giro per le campagne fino a sera. Era piena estate e contemplavo le distese dorate di grano. Quello tenero è biondissimo, quello duro ha una venatura di nero sulle spighe, in alto. Pure questo me lo ha insegnato lo zio. E poi campi di canapa, di lino, ho quei paesaggi stampati nel cuore.
Guardialfiera - Mi fermavo a Guardialfiera anche tre mesi, senza mia madre che, essendo vedova, lavorava senza requie per mantenerci. Mi sentivo totalmente libero. Era una pacchia. Nessuno mi poneva limiti. Era il principio degli anni Cinquanta, non esistevano pericoli, neanche le auto c' erano da quelle parti. Inoltre, mi conoscevano tutti e venivo trattato con cura e rispetto. «È il nipote di don Ernesto» sentivo spesso esclamare al mio passaggio. Frequentavo gli altri bambini, più o meno miei coetanei. Notavo che avevano costumi diversi ma la cosa non mi ha mai stupito. I bimbi più piccoli indossavano dei calzoncini di lana che in basso avevano un buco da cui ciondolava il pisellino. Allorché gli scappava la pipì la facevano ovunque e in qualsiasi situazione senza scomporsi. E le mamme non avevano la croce di dovere ogni dì fare il bucato, una pratica che allora era piuttosto complicata. Nelle abitazioni infatti mancava l' acqua corrente ed era necessario raggiungere la fonte e prenderla con la tina, che veniva caricata sulla testa e trasportata per centinaia e centinaia di metri.
Questo succedeva nel mio Sud. Non erano del tutto assenti soltanto le automobili, ma anche le motociclette. Il primo che da quelle parti comperò una motoretta fu un certo Romolo, giovane oste, simpatico ed evoluto per quei tempi. Un bel dì fu intravisto provenire da un paese limitrofo, Casacalenda, che si trovava su una specie di montagnola: scendeva a tutta velocità e da Guardialfiera i cittadini vedevano questo puntino nero che scorreva e scorreva, e si avvicinava. Rapidamente si diffuse la voce in tutto il paesino che Romolo stava per arrivare a bordo della sua motoretta e tutti, uomini, donne, bambini, anziani, infermi, scesero in piazza per accoglierlo con tanto di applausi, come fosse stato un eroe, un prodigio. Era un evento storico, una novità assoluta, e a quella gente sembrò il caso di celebrarla. Dopotutto lì ci si muoveva con l' asino; il cavallo lo avevano in pochi poiché era considerato roba da signori. C' era una situazione di disagio sociale assoluto. Pochi avevano un lavoro. Un mio amico aveva trovato un impiego alla posta e si considerava estremamente fortunato. Si chiamava Vincenzo, in seguito fece anche il giornalista. Tuttora mi manda i suoi articoli. In quel borgo le abitudini erano ancora primitive, le signore erano vestite di nero, durante il giorno tutti stavano tappati in casa per il troppo caldo. Quanto a me, inutile specificare che me ne andavo sempre a zonzo, non ero tipo da pennichella neanche allora. Mi dedicavo alle esplorazioni con i miei amici, insieme costituivamo delle piccole bande e vagavamo di qua e di là. In tal modo ho potuto osservare tutto quello che succedeva. Gli amichetti mi portavano nelle loro case, molto più umili rispetto al palazzo dei miei zii, tuttavia non esistevano differenze sociali, classi, almeno per noi piccolini: eravamo tutti uguali. In quegli alloggi scorgevo un andito buio, quasi tetro. Molti avevano la radio, non mancava qualche sedia di paglia. C' era solo una camera da letto, in cui si dormiva tutti insieme, in cinque, o sei, o dieci. Quello che mancava era il bagno e io mi domandavo dove quelle persone si recassero a fare i loro bisogni. Scoprii che andavano «a balle pa fischia mammuccia» (giù nella valletta fischia mammuccia), ossia correvano a valle, anche di cento o duecento metri, dove c' era il granturco e lì potevano espletare le loro esigenze fisiologiche. Ero animato solo da curiosità, non provavo alcuno stupore. Nello squallore generale di quelle stamberghe modeste ma decorose vigeva un certo rigore formale, c' era una dignità. Non importava quanto quegli individui fossero poveri, si comportavano sempre da ricchi generosi e ti offrivano qualcosa ogni volta che passavi di lì, fosse anche un biscotto. Ero affascinato da questo calore umano, da questa vicinanza gli uni agli altri, mi trovavo bene al Sud. Alla sera me ne stavo sul balcone della casa della zia e guardavo ciò che accadeva sotto, su corso Umberto. I cittadini di Guardialfiera facevano le vasche avanti e indietro, lo struscio insomma. Erano presenti pure i notabili del paese. E anch' essi vestivano la giacca del pigiama, quasi come fossero in smoking. Mi piaceva questa stranezza e dicevo alla zia Nella che desideravo unirmi a quel viavai di matti. Anche io volevo passeggiare in pigiama in mezzo a loro. Ella me lo vietava severamente. San Gaudenzio - A una certa ora andavo a prendere lo zio Ernesto in osteria, dove giocava a carte, e insieme rincasavamo. Come di consueto, lo zio mi teneva per mano. In quei momenti mi sembrava di avere un padre. Vagabondando da solo ho scoperto tante cose di questo paese. Mi è rimasta dentro l' immagine della povertà, nella forma di una vecchia signora, la quale abitava in una catapecchia situata di fronte alla reggia degli zii. La sua casetta era una specie di caverna, un antro buio, in cui ella aveva collocato due o tre mobili e un fornello. All' ora di pranzo la vecchietta si preparava il suo misero piatto di pasta. Andavo a trovarla, era sempre carina con me, e seguivo quelle operazioni quasi incantato. La vedevo con i miei occhi misurare la pasta, metterla nel piatto, poi prendere la bottiglia dell' olio, che manovrava come se si trattasse di un tesoro. La donna vi intingeva un lungo ferro da calza dal quale poi faceva scivolare sulla pietanza tre gocce di olio, non una di più, per condirla. Si cibava di questo ogni santo giorno. La miseria è questa cosa qui: il ferro da calza che affoga nella bottiglia. Il formaggio non esisteva. Con il mio sguardo non ancora disincantato di pargoletto pensavo che quello fosse nient' altro che un metodo di misura. Pure a Guardialfiera avevano luogo le feste religiose tipiche del Mezzogiorno. Ogni estate veniva celebrato san Gaudenzio e la banda del paese si esibiva in piazza su una specie di rondò. Mi piaceva quel casino. Ascoltavo la musica, mangiavo noccioline zuccherate, correvo allegro con i miei amici. Lo zio Ernesto, a cui piacevano i bambini, per l' occasione dava 5 lire a ognuno perché si comprassero il gelato. Io andavo con loro a prendere il mio gelatino. Negli anni ero diventato amico di un ragazzino che faceva il sarto, e andavamo insieme al fiume, il Biferno, a fare il bagno. Il suo nome era Nicola. Trascorrono tantissimi lustri e un giorno viene un tassista al «Giornale», il quale chiede in portineria del direttore, ossia di me. Non avevo idea di cosa volesse. Dico al custode di farlo salire. Era lui. È entrato nella mia stanza e l' ho riconosciuto. Mi sono commosso, sono stato travolto dai ricordi. Nicola era imbarazzato, mi vedeva in televisione, ero diventato importante per lui. È stato un momento anche duro. Ci siamo abbracciati in silenzio. Non ho dimenticato neanche Nicolino, il figlio dello stalliere di mio zio, Tonino. Nicolino a un certo punto, quando aveva 14-15 anni, emigrò a Milano. Mio fratello Ariel lo incontrò per caso nel capoluogo lombardo dopo circa sei mesi dal suo insediamento e Nicolino parlava ormai come i milanesi.
Pane abbrustolito - Sento quei profumi. Quello del pane abbrustolito condito con pomodoro, origano e aglio. Si mangiava benissimo in Molise, nonostante la povertà. Ho nostalgia di quei sapori semplici. Ed ecco che rivedo lo zio Ernesto. Stiamo andando a Larino, siamo sul calesse. A metà strada incrociamo il mattatoio e i cavalli si agitano, fiutano la morte, sono terrorizzati, si inchiodano. Lo zio scende dal calesse, gli si affianca, li accarezza, sussurra qualche parola nelle loro orecchie, come se fosse certo che essi lo comprendono, e i cavalli in effetti mostrano di capirlo, si convincono. Lo zio afferra le redini dal freno e li guida in avanti con amore. Le bestie si acquietano. È stato zio Ernesto a trasmettermi l' amore per i cavalli. È stato lo zio a insegnarmi tutto ciò che c' è da imparare in campagna, ho trebbiato con le mie manine. Egli mi portava nelle stalle. Una volta mi condusse con sé a Liscione, località ora coperta dalla diga, posto meraviglioso. I suoi contadini avevano comperato una bella cavallina, dolcissima, e quando arrivammo me la mostrarono subito. «Voi salirci?» mi chiesero. Fu la prima volta che montai a cavallo. Avevo circa 10 anni. Ben cosciente della mia passione per gli equini, lo zio ogni pomeriggio, verso le 18, mi incaricava di abbeverare i suoi due cavalli. L' abbeveratoio era situato un po' fuori dal paese e io li portavo uno alla volta dalla capezza, ossia dalla corda. Poi, come mi aveva mostrato lo zio, fischiavo agli animali per indurli a bere. Al ritorno saltavo su un muretto e montavo sulla groppa del cavallo, rientrando a Guardialfiera al galoppo. Le estati in Molise sono state le più esilaranti della mia esistenza. Quando tornavo a Bergamo, parlavo più volentieri il guardiese che il bergamasco, poiché il Sud lo vivevo davvero, stavo sempre in strada con i miei amici, da scapestrati, mica chiuso in casa come in città alta. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri e il ricordo di Oriana Fallaci: "Vi racconto la mia amica e i suoi ultimi giorni con me". Libero Quotidiano il 16 Settembre 2019. Ogni anno il 15 settembre, anniversario della scomparsa della mia cara amica Oriana Fallaci, vengo assalito dalla nostalgia. Dai meandri del cuore emergono dolci e aspre memorie, come era lei. Per celebrarla ho deciso di condividere con voi il capitolo del mio libro "Il borghese", dedicato a questa donna straordinaria. Mi congratulo con Matteo Salvini per averla ricordata ieri a Pontida e per non averne dimenticato insegnamenti e moniti.Oriana la vidi, più che la conobbi, per la prima volta all' inizio degli anni '80, quando scriveva le sue interviste colossali e interminabili, che erano quasi dei romanzi, a personaggi come Khomeyni, capo spirituale e politico iraniano dal '79 all' '89, Gheddafi, l' allora primo ministro della Libia, e gentaglia simile. Fallaci, non essendo una giornalista ordinaria, non è che vergasse la dannata intervista e la mandasse attraverso gli stenografi o il fax. Il suo dattiloscritto non viaggiava mai da solo. Giungeva in redazione insieme alla sua autrice, che si fermava in via Solferino fintanto che il suo articolo non fosse stato impaginato con il titolo che decideva lei, nel modo in cui voleva lei, quando lo stabiliva lei. E noialtri tutti zitti e mosca. A un dato momento compariva al primo piano di via Solferino, dove si creava una confusione da manicomio. "Oddio, c' è la Fallaci", si udiva riecheggiare nei corridoi, "Si salvi chi può". Mezza redazione era mobilitata: passare il testo, disegnare il menabò, scegliere i caratteri tipografici, mille verifiche e mille discussioni. Non andava mai bene niente. Oriana ribaltava anche ciò che era pronto. Roba da prenderla a sberle. "Avanti, ricominciamo daccapo". "Meglio così?". "Meglio un corno", protestava lei dando del bischero a chiunque. Un delirio. Perciò il panico serpeggiava già diverse ore, se non addirittura giorni, prima del suo ingresso. Fallaci si imponeva anche per i dettagli, i sommari, i titolini che servono per spaziare il testo. Non lasciava scampo. Arrivava come una dea ed una tiranna e metteva a soqquadro il giornale. Si scatenava la guerra una volta che Oriana varcava la soglia dello stanzone albertiniano, una copia di quello del Times, dove c' erano le postazioni dei giornalisti, alcuni dei quali dovevano dedicarsi esclusivamente a lei. Uno di questi era il malcapitato Sandrino Rizzi, capo-servizi degli esteri, la vittima prediletta di Oriana, la quale, forse non ricordandone mai il nome, gli aveva affibbiato un nomignolo alquanto mortificante, soprattutto per un uomo: "Cosino". Rizzi, da parte sua, non osava ribellarsi o protestare. Non appena udiva la mitica sospirare: "Cosino, vieni qui", Sandrino trottava, si precipitava, accorreva, al fine di soddisfare qualsiasi capriccio di Oriana, che se la prendeva anche con le virgole, anche queste ad un certo punto ne avevano piene le palle dei girotondi a cui Fallaci le costringeva. Le impuntature della fiorentina facevano rabbrividire, si potevano perdere delle ore per un nonnulla, che per Oriana era tutto, perché era una perfezionista ossessiva, una maniaca della punteggiatura. Dalla mia scrivania, muto, osservavo le grandi manovre fallaciane e queste scene un po' divertito e un po' sconvolto. "Questa donna è una calamità", pensavo. Lo spettacolo si protraeva fino alle 23. Per la redazione, in subbuglio per il pezzo di Fallaci, sembrava ad un certo punto arrivare la tregua quando l' articolo era ormai impaginato. Macché. Era tutta una diabolica finta. Mentre si rileggevano in religioso silenzio i bozzoni delle pagine umidi e odoranti d' inchiostro, all' improvviso si udiva un improperio. Era Oriana, che era riuscita a ravvisare persino in questa fase qualcosa fuori posto, da rifare, da sistemare, da correggere seduta stante, mandando tutti in crisi psicomotoria. Tipografi che accorrevano con gli occhi sbarrati, correttori di bozze esausti e tremanti. Altro delirio. Alle due del mattino, cascasse il mondo, il giornale si chiudeva. Oriana Fallaci saltellante e vispa come un grillo, lanciata un' occhiata di commiserazione a noi poveri amanuensi, raccattava cappotto e borsetta, scendeva a passo svelto lungo lo scalone e, inghiottita da un' automobile, svaniva nella notte insieme ai nostri incubi. L' indomani il Corrierone con la perla di Oriana in apertura di prima pagina era preso d' assalto in edicola. Oltre un milione di copie vendute. La stampa di mezzo mondo che riprendeva la prosa della matta e ne faceva oggetto di dibattiti che duravano settimane. Allora i giornalisti, orgogliosi di avere partecipato alla costruzione del capolavoro di successo, e godendo di riflesso della gloria di Oriana, si davano di gomito: "Però, la matta ha colpito ancora".
NOTTI INFERNALI. Fu durante una di quelle notti infernali che Fallaci entrò nella mia vita. Nel 1981, o '82, una sera, saranno state circa le 22, dunque ancora nella viva fase di elaborazione di un suo articolo, mentre Oriana era indaffarata, intenta a cambiare un aggettivo, a togliere una virgola, a metterne un' altra, fumando come una ciminiera, ad un certo punto si accorse di avere finito le sigarette. Sul suo viso lessi per un istante un lampo di disperazione. Ma non si perse d' animo e, dopo essersi guardata intorno con una rapida occhiata per scorgere qualcuno che fumasse, come un falco pose i suoi occhi su di me, che avevo un pacchetto di Muratti sulla scrivania, poggiato accanto alla Olivetti portatile. Ed in un soffio me la ritrovai dinnanzi alla postazione di lavoro a me riservata: "O te, bel giovane, mi offriresti una sigaretta?". "Prego", risposi, porgendo un intero pacchetto che avevo estratto dal mio cassetto appositamente per lei. Oriana, risollevata, anzi contentissima come una bimba, tornò al suo meticoloso lavoro di cesello sul suo pezzo. Sennonché, fumando una cicca dietro l' altra, dopo un' ora e mezza aveva già prosciugato le ultime riserve che gli avevo procurato. Era un fumo nevrotico il suo. Rieccola lì, parata davanti alla mia scrivania. Sollevai lo sguardo dalle mie carte e vidi che mi fissava. "Ne hai altre?", mi chiese. "Non ho più pacchetti, ma te ne do alcune delle mie". Ne estrassi tre o quattro per me e le lasciai il resto. Afferrò il tutto e, prima di girare i tacchi, commentò: "Le Muratti non sono buone, pizzicano in gola". "Cambierò marca", replicai. "Bravo, vedo che le idee intelligenti non ti mancano". Mi sembrava una matta completa, ma ne ero affascinato, perché Oriana metteva nel suo lavoro una tale foga e concentrazione da suscitare ammirazione. Fallaci terrorizzava chiunque, faceva casini, urlava, non era mai paga di ciò che si stava creando. Non era considerata né era vista come una donna, bensì come una giornalista scassacazzi, una sorta di Attila della carta stampata. Alcuni anni dopo passai da Il Corriere della Sera alla direzione de L' Europeo, il settimanale che aveva lanciato Oriana. Chiamò in redazione chiedendo del direttore. Risposi. Fallaci mi salutò cordialmente, dicendo che le avrebbe fatto piacere incontrarmi per conoscermi di persona. Combinammo l' appuntamento presso il bar di un albergo, a Milano. Non appena mi vide nel luogo convenuto, Fallaci si alzò dalla poltrona e scoppiò a ridere. "Ma tu sei il bel giovane delle Muratti!". "Sì, sono io. Ma adesso fumo Philip Morris". "Sei peggiorato". Da quel giorno la nostra tribolata amicizia si intrecciò con il lavoro. Erano più numerose le liti delle conversazioni. Oriana si divertiva a questionare, qualsiasi spunto era motivo di piccoli scontri, cui seguivano immancabili riappacificazioni, talvolta precedute da scambi di lettere piccate. Oriana mi chiamava, mi dava suggerimenti sulle tematiche da approfondire, mi segnalava le campagne da sostenere, i motivi per cui battermi. A volte le dicevo che in Italia ormai era cambiata la musica, che era arrivata la Lega, lei replicava: "Ma chi? Quei bischeri? Sono proprio dei campagnoli". Ogni due o tre mesi rientrava in Italia e voleva vedermi. Fallaci si sentiva quasi esiliata, ma voleva vivere negli Stati Uniti, nel centro di New York aveva una stupenda casa in stile liberty. Insomma, il suo era un esilio volontario e dorato. Però comprendo che in patria si sentisse avversata. Oriana era amata dai lettori, ma non dai colleghi, che la invidiavano per i suoi successi e non la tolleravano per la sua arroganza ed il suo caratteraccio. Solo con me la brillante giornalista non manifestava atteggiamenti di presunzione, era molto carina. Mi riempiva di regali, camicie stupende, sculture per la casa. Un giorno concordammo una cena in via Statuto, da Alfio. Alle 21 ero seduto al tavolo. Di lì a poco arrivò lei trafelata, con un borsone gigantesco. "È per te, Vittorio!", esclamò con entusiasmo. Ne estrasse una pelliccia di visone tra lo stupore degli avventori, che saranno stati una cinquantina, tutti attratti dalla Fallaci e soprattutto dalla pelliccia di foggia maschile. Dissimulai l' imbarazzo e cercai di manifestare gioia e anche qualcosa di più. Ma ero terrorizzato all' idea che, al prossimo rendez-vous, sarei stato obbligato ad indossare quel capo per non offenderla. Oriana, vivendo gran parte dell' anno in America, era diventata americana anche nei gusti, almeno a riguardo dell' abbigliamento da uomo. Mangiava come un uccellino: tre o quattro acciughe salate, quattro granellini di riso insaporiti da una strisciolina di tartufo. E beveva un vino dolce emiliano, Malvasia. Raccontava storie recitando con piglio da attrice teatrale, mimica formidabile, gusto per i dettagli, inserendo motteggi popolari e battute sferzanti. Una sera con lei di buonumore era più spassosa e sapida che al cabaret. Spigolosa e generosa, piena di slanci, si rabbuiava per un' inezia. E non apriva più bocca se non per dire: "O te, s' è fatto tardi, portami via da qui".
L'INTERVISTA. Durante la guerra del Golfo Oriana si era recata sul terreno dei conflitti per conto del Corriere e mi propose di essere intervistata da me per L' Europeo. Non appena rientrò in Italia ci incontrammo all' hotel Excelsior, a Roma. Tuttavia, forse per la nostalgia di casa che le aveva messo addosso l' atmosfera bellica, Oriana aveva fretta di rientrare a Firenze e non appena mi vide disse: "Si va a casa mia. Subito". Così dalla capitale ci spostammo nel capoluogo toscano in macchina. Il suo appartamento era modesto. Ci mettemmo subito all' opera. Facevo le domande, lei rispondeva, poi si pentiva. Dopo qualche ora mi ero rotto i coglioni e mi ero procurato un mal di testa pazzesco. Non ce la facevo più. Ne avevo fin sopra i capelli di quella matta e non vedevo l' ora di essere a Milano. Sano e salvo. Erano circa le 20:30 quando le venne appetito. "Oh, si mangia qualcosa?", propose Oriana. "Volentieri", dichiarai io, che non vedevo l' ora di prendere respiro. Aprì il frigo e non trovò un cazzo. Mai frigorifero fu più triste di quello. L' unico elemento che alleggeriva un minimo tanta desolazione era costituito da un barattolo da mezzo chilo di caviale. Afferrate due posate ci nutrimmo di cucchiate di caviale come fosse una minestra, rimettendoci subito al lavoro. Terminammo l' intervista a mezzanotte. Fu un parto travagliato. Oriana insistette a lungo perché mi fermassi a dormire lì, ma io non avevo il cambio per il giorno seguente, e soprattutto ero animato da tanta voglia di rincasare e mi misi in macchina per correre a Milano, dove giunsi intorno alle 3 di notte. L' intervista fu un successo. Giunto l' inverno, Oriana invitò me e mia moglie, Enoe, a trascorrere l' ultimo giorno dell' anno in corso ed il primo di quello nuovo con lei, a Greve in Chianti, località in cui la giornalista aveva una casetta bellissima. Purtroppo, il freddo era insopportabile ed io ed Enoe, nel tentativo di non morire assiderati, dormimmo avvinghiati. Era presente anche una delle due sorelle di Fallaci, Paola, con la quale Oriana litigò tutto il tempo, persino durante la cena, per motivi futili. A tavola consumammo una zuppa deliziosa. Io mi complimentai con le sorelle per la bontà di quel piatto. Non lo avessi mai fatto: Oriana si incazzò perché non era stata lei a cucinare, bensì Paola. Avrebbe voluto averla preparata lei quella maledetta minestra. Oriana aveva la sindrome della prima donna. Tornò ad essere indiscussa ed indiscutibile protagonista quando iniziò a narrarci le vicende della guerra. Fallaci non si limitava a fare il suo racconto, si levava in piedi e sceneggiava il tutto come una diva. Noi la osservavamo affascinati e perplessi. Aveva la capacità di catturare il pubblico. Mia moglie aveva una simpatia particolare per questa donna, la quale spesso la chiamava per fare quattro chiacchiere.
IL VECCHIO CASALE. Quando finalmente arrivò il momento di andare, Oriana mi pregò di seguirla perché desiderava farmi visitare un suo vecchio casale, che avrebbe voluto vendermi. La costruzione si trovava in prossimità di un fiume. Un freddo boia. Non me la sentii di fare questo "investimento". Enoe mi guardava con gli occhi sbarrati per la paura che io potessi accettare l' affare. Dopo quel capodanno continuammo a vederci, poi nel '92 i nostri incontri si fecero più sporadici. Io avevo assunto la direzione de L' Indipendente e per gli impegni reciproci ci perdemmo un po' di vista. Oriana mi cercò qualche volta, io la scansai. Poi un giorno mi chiamò da New York e mi disse: "Vittorio, tu non mi vuoi più vedere perché ci ho i cancri". La rassicurai. Non era questo il motivo. Anzi, una ragione non c' era. A volte capita che i grandi amici si allontanino per un po', ma questo non vuol dire che l' affetto venga meno. Mi sembrava improbabile che avesse il cancro. Per tutti Oriana era invincibile, una forza della Natura, indistruttibile: non poteva mica ammalarsi. Non la vidi mai piangere. "Ti voglio bene come sempre", le risposi. Oriana però si ammalò sul serio. Nel '94, assunta la direzione de Il Giornale, Fallaci mi telefonò per congratularsi. Tra lei e Montanelli non correva buon sangue, quindi la notizia che io fossi alla guida del giornale da lui fondato al posto suo la allettava alquanto. Indro e Oriana discutevano spesso, del resto, con lei era facile litigare. Anche Biagi la odiava. Il motivo era semplice: lei era più brava di lui. La Fallaci era vista da tutti come una rivale formidabile. Nel periodo in cui fondai Libero il mio rapporto con Oriana divenne più intenso di prima e lei si attaccò morbosamente a me. Allora non stava affatto bene. Penso che mostrasse la sua vulnerabilità soltanto a me, eppure la dissimulava, la travestita, perché non c' era cosa che la inorridiva di più del fare pena, tanto era il suo orgoglio. Mi chiedeva consigli, alcuni dei quali non ero in grado di darli: sui rapporti con gli editori, sui diritti d' autore, in generale, sui suoi affari. Spesso, la sera tardi, il mio cellulare suonava e difficilmente rispondevo. Ma se sul display scorgevo il suo nome, pigiavo il tasto "ok" senza esitazione. Nella fine settimana, conoscendo le mie abitudini e sapendo quindi che rientravo a Bergamo, mi chiamava direttamente a casa. Non appena affondavo la forchetta negli spaghetti, con una puntualità sconcertante, l' apparecchio squillava. "Pronto, sei te, Vittorio?", domandava con tono profondo. Minimo minimo mi toccavano 30 minuti buoni di monologo, infiorato di coloratissimi toscanismi, tra cui invettive variamente distribuite a Tizio e a Caio. Mi metteva in guardia dal pericolo costituito dall' islam radicale. Mi parlava molto male di alcuni colleghi. I suoi giudizi erano folgoranti. Le sue critiche ai politici italiani, feroci. Le sue previsioni nazionali ed internazionali, pessimistiche. Con me si sfogava. Ad un tratto, però, mi faceva intendere che si era rotta le scatole di parlare e bruscamente si congedava. "Ora mi sono stufata, me ne vado a dormire, ci ho i cancri, vaffanculo, ciao!", e metteva già la cornetta. Finalmente potevo tornare al mio spaghetto. Ormai freddo. Tra il 2003 ed il 2004 Oriana cominciò a scrivere per Libero e nel 2005 mi consegnò un pezzo meraviglioso, si trattava di un' intervista ad un vescovo polacco. Era estate e per la prima volta il quotidiano da me fondato superò le 100 mila copie. Passare un suo articolo era il solito tormento, l' equivalente di votarsi al suicidio. La affidai ad Alessandro Gnocchi, che per lei assunse lo stesso ruolo che aveva avuto il povero Sandrino, ossia Cosino. Nonostante fosse sfiancante, avere a che fare con Oriana rappresentava un onore per chiunque. Un giorno mi attaccò con un pretesto che non ricordo, probabilmente sempre per qualcosa inerente ad uno dei suoi articoli, non le andava mai a genio niente. Da New York mi mandò una lettera carica di insulti tramite fax. Fu una lite furibonda. Io feci ciò che forse non si sarebbe aspettata: le risposi a tono, dicendogliene di tutti i colori. Il fatto che l' avessi mandata al diavolo invece di allontanarla, chissà perché, l' avvicinò ancora di più a me. Non avevo reagito con odio, ma le avevo tenuto testa. Una mattina mi chiamò come se non fosse successo nulla. Era un tipetto davvero particolare. Presa dal desiderio di sistemare i conti, mi propose ancora una volta un acquisto immobiliare. Stavolta si trattava della sua casa di New York. "Oriana, come ti salta in mente? Io non parlo l' inglese, non predo l' aereo, non mi muovo da Milano, cosa devo farci con un appartamento negli Stati Uniti?", le risposi. E lei rise di gusto. Gli ultimi suoi dodici mesi furono duri. Stava sempre peggio. Le telefonate dall' America erano brevi ma frequenti. "Ci ho tre o quattro cancri, Vittorio, non li conto nemmeno più". Si stancava presto, aveva il fiato corto e troncava la comunicazione: "Ora ciao ché devo morire". Che idiota ero: pensavo scherzasse e non la pigliavo sul serio.
RICHIESTE DI AIUTO. A giugno del 2006 squillò il cellulare. Era lei. Mi pose un problema. "Vittorio, ho bisogno del tuo aiuto. Rientro in Italia perché voglio morire a Firenze. Prima però faccio un salto, anzi mi trascino a Milano. E lì non so dove appoggiarmi. Non ho casa e in albergo non scendo. Mostrarmi in pubblico conciata in questo modo, con i cancri che mi divorano, non mi garba. Dimmi te, che si fa?". Percepita la sua disperazione, non esitai a proporle la mia abitazione milanese. Accettò. Mi recai a riceverla e la accompagnai a destinazione. Le feci visitare l' appartamento, che trovò di suo gradimento, salvo lamentarsi alla vista di un gradino all' ingresso della cucina. "Che ci fa qui sto scalino?!", esclamò sbigottita. "E ci fa! Oriana, è uno scalino che porta in cucina". "Che tu parli fiorentino ora?". "Parlo come cazzo mi pare". Ridevamo come matti, sebbene fossi incredulo e amareggiato nel vederla in quello stato. Avevo il cuore a pezzi. Sullo scalino non sorvolò, ovviamente. Fece subito comprare del nastro bianco e rosso, come quello che mettono per strada al fine di delimitare dei lavori in corso o gli incidenti, e lo appose tra gli schienali di due sedie disposte in prossimità del vano cucina. Insomma, aveva trasformato l' area in una sorta di "scena del crimine". Prima di abbandonare l' appartamento per quella settimana, dissi ad Oriana che l' avrei affidata alle cure della mia governante. "Non la voglio tra i coglioni", mi rispose serafica. Andava la sua segretaria a farle qualche lavoretto o commissione. Ed io stesso mi recavo a trovarla ogni pomeriggio. Suonavo il campanello e, per aprire la porta, Oriana armeggiava dieci minuti. Entravo nella mia abitazione imbarazzato e camminavo in punta di piedi perché mi sentivo invadente. Tutto era in disordine. Mozziconi ovunque. Il 24 di giugno, giorno del suo compleanno, le portai una bottiglia di Dom Pérignon, il suo champagne preferito. Oriana sembrava felice come una pasqua. Ne bevemmo un goccio, giusto per festeggiare la ricorrenza noi due soli. Intanto lei non aveva perso il vizio: continuava a fumare una sigaretta dietro l' altra, come oltre vent' anni prima faceva al Corriere, e la spegneva sul bracciolo del mio divano con una nonchalance disarmante, lasciandoci dei buchi. Mi dispiace farglielo notare. Il giorno seguente mi disse: "In questo palazzo abita la signora Trussardi? Mi piacerebbe conoscerla, perché, quando mi trovavo in Medio Oriente, mi concedevo un unico vezzo: qualche goccia di profumo del suo marchio". Luisa, mia cara amica dai tempi delle scuole elementari, organizzò un magnifico pranzo per Fallaci, la quale si vestì e si agghindò per l' occasione come una regina. Era elegantissima. Indossava un abito meraviglioso, stupendi gioielli, i tacchi, in un attimo sembrava quasi avesse cancellato e dimenticato i segni dell' odiosa malattia. Come era solita fare, Oriana non mangiò quasi nulla, ma era gioiosa. Quando la accompagnai a casa, mi disse: "Vittorio, c' ho un altro desiderio: vorrei andare in salumeria". L' indomani andai a prenderla e la condussi tenendola al braccio, passino dopo passino, ad una salumeria vicina, dove comprò felice quattro cosette. Poi la misi sul divano dicendole: "Oriana, ora devo correre in redazione". E lei ridendo: "Ho lavorato tutta la vita io ed ora devo stare a sentire te che ti dai delle arie perché lavori due giorni". Si trattenne a Milano circa una settimana. Sbrigò le sue faccende e partì alla volta di Firenze con un' auto ed un autista che le procurai io su sua richiesta. Fu un viaggio stancante persino per me che non lo feci. Durante il tragitto Oriana mi chiamò più volte lamentandosi del fatto che in macchina facesse troppo caldo e che la colpa fosse di colui che guidava, poi del fatto che facesse troppo freddo. Io da lontano cercavo di accomodare tutto pregando l' autista di assecondare le richieste di Oriana senza fiatare. Dopo qualche mese mi ammalai di una prostatite acuta, rischiai addirittura il decesso e venni ricoverato d' urgenza in ospedale per una decina di giorni, durante i quali Oriana provò a contattarmi perché desiderava parlarmi di qualcosa. Chiamò anche a casa mia, a Bergamo. "Ho bisogno di sentire Vittorio, Enoe, devo dirgli delle cose. Come si fa? Io ci ho pure da morire ora", sospirò affranta a mia moglie. Non seppi mai cosa volesse annunciarmi Oriana. Ho cercato in questi anni di sciogliere questo dubbio che mi pesa dentro e mi sono convinto che forse mi volesse raccomandare di continuare la battaglia contro l' estremismo islamico. Erano trascorsi tre o quattro mesi dalla scomparsa della mia amata amica, quando un mattino, verso le 4, feci un sogno, che sembrava terribilmente realistico. Mi trovavo in un ascensore di legno lucido, bello ed elegante. Non provavo quel disagio che di solito avverto quando sono in uno spazio tanto angusto. Mi sentivo sereno. Arrivato al piano che dovevo raggiungere, si spalancò la porta e mi ritrovai in un' ampia stanza, non molto luminosa ma piuttosto accogliente, sebbene fosse vuota. C' era solo una piscina, l' acqua era azzurra, limpida. Uscendo dal locale sentii una voce che cantava meravigliosamente. Era Oriana, che mi veniva incontro sorridente. Era giovane. Fresca. "Oriana, ma come canti bene, perché non mi hai mai svelato queste tua dote?", le chiesi sorpreso. In quel momento mi svegliai. Ancora disorientato ed emozionato, mi misi seduto sul mio letto, poggiando le spalle sulla testiera. "Pensa che sogno del cazzo!", mormorai tra me e me. E all' improvviso udii nitida una voce, era rauca come quella di Oriana: "Vittorio, Vittorio, ti devo parlare". Sì, era proprio lei. E continuava a ripetere il mio nome. "Oriana, vattene, ho paura", urlai disperato. E fu silenzio. Di lì a qualche tempo presenziai ad un convegno su di lei. C' era anche monsignor Rino Fisichella, che le era stato vicino negli ultimi dolorosi giorni. Il prelato mi consegnò un sacchetto di plastica: "Oriana mi ha raccomandato tanto di restituirti questa roba". Il sacchetto conteneva un bicchiere e un cucchiaino, che la giornalista aveva prelevato dalla mia credenza prima di raggiungere Firenze. Le erano serviti per assumere un medicinale antidolorifico durante il viaggio. Monsignor Fisichella mi precisò che Fallaci era preoccupatissima di non farcela a restituirmeli. Così aveva incaricato lui. Nulla doveva restare in sospeso. Questa è la mia Oriana. di Vittorio Feltri
Vittorio Feltri, la durissima accusa contro l'islam: "Solo gli imbecilli non capiscono quanto sia grave", scrive il 13 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. Lunedì 4 marzo, come ho già riferito, sono stato processato dall' Ordine dei giornalisti della Lombardia per aver scritto un articolo poco simpatizzante nei confronti degli islamici, specialmente terroristi e violenti di ogni genere. A giorni mi arriverà la sentenza in cui si dirà che ho offeso la dignità di un popolo e di una religione, quando invece personalmente ce l'ho soltanto con gli assassini e chi trasforma la fede in un alibi per commettere delitti. Ma questi sono dettagli irrilevanti per il lettore, al quale voglio solo far notare che, mentre perseguitano un cronista perché afferma la verità, in Iran è stata inflitta una pena detentiva di 38 anni, con l'aggiunta di 148 frustate, alla signora Nasrin Sotoudeh, 55 anni, avvocato di grido e difensore strenuo delle donne iraniane, dei loro diritti umani, di cui lo Stato musulmano se ne infischia ritenendoli capricci femminili. La vicenda dell'eroica professionista è emblematica di una situazione la cui gravità sfugge solamente agli imbecilli che tutelano l'inciviltà orrenda di un Paese - la ex Persia - col quale l'Italia ha intessuto rapporti commerciali intensi, fottendosene di trattare affari con un regime privo di un minimo di moralità. La stampa nostrana più sensibile, per esempio il Corriere della Sera, ha riservato meritoriamente mezza pagina alla vergognosa vicenda, tuttavia la categoria alla quale non mi onoro di appartenere non ha sprecato una parola contro la condanna di Nasrin che grida vendetta. Non un comunicato, non una frase solidale nei riguardi della vittima, zero. Però processa me in quanto sul mio quotidiano ho espresso riprovazione verso una cultura, quella musulmana, che permette scempi del tipo che ho narrato in queste poche righe. Mi auguro che i guru dell'Albo prendano atto della realtà emergente dalla citata storia iraniana per farsi un esame di coscienza, ammesso ne abbiano una. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri, la sfida all'Ordine dei giornalisti che lo processa: "I terroristi sono bastardi", scrive il 5 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. Ieri mattina sono stato "processato" dall'ordine dei giornalisti per un articolo che scrissi per Libero nel 2017, in cui auspicavo che i musulmani fortemente sospettati di essere violenti venissero espulsi, secondo lo stesso piano proposto da Trump. In sostanza, sostenevo che non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. Mi è stato detto che alcune mie espressioni non corrispondono alle norme deontologiche. E allora ecco la mia difesa che mi auguro venga accolta dai "giudici". Posto che la stragrande maggioranza dei terroristi che hanno compiuto stragi in Europa, facendo centinaia di vittime, sono estremisti islamici, nel mio pezzo incriminato ingiustamente sostengo (alla riga nona) che "non tutti i musulmani sono bastardi inclini a uccidere, ma è assodato che la minaccia alla nostra incolumità proviene dal loro (quello dei bastardi) fetido ambiente". Ovvio pertanto che coloro che sono fortemente sospettati di essere terroristi vadano eliminati dalla società, esattamente come intende fare Trump che non è un dittatore, bensì il presidente degli Usa, ossia un Paese democratico. Ho sottolineato che gli osservatori bigotti del Corano hanno una cultura che spesso contrasta con la nostra, tanto è vero che non sono rari gli episodi in cui si registrano violenze specialmente contro le donne che adottano costumi occidentali. E questa è una verità incontestabile. Noi non sopportiamo che taluni ospiti musulmani agiscano in violazione delle leggi italiane che prevedono la parità dei generi. L' Isis poi ha sparso troppo sangue e non lo accettiamo. Qui si tratta di espellere non gli islamici in blocco, ma coloro che commettono reati o progettano di compierne. I concetti da me espressi sono chiari e netti. Per quanto riguarda il titolo dell'articolo non posso venire chiamato in causa non essendo il direttore responsabile. Infine non credo che concordare con Trump sia un delitto perseguibile dall' Ordine dei giornalisti. Andando ad un'analisi logica del testo osservo che laddove scrivo "non tutti i musulmani sono bastardi inclini a uccidere" faccio un'evidente e netta distinzione fra chi è deprecabile (al quale ben si addice - essendo terrorista - l'aggettivo impiegato) e chi non lo è. Faccio notare che sul piano semantico del resto la stessa Treccani illustra a proposito del termine "bastardi" l'uso estensivo del sostantivo invalso per indicare un soggetto "degenere" o corrotto. Tornando all' analisi logica della frase, laddove aggiungo "ma è assodato che la minaccia alla nostra incolumità proviene dal loro fetido ambiente", appare incontrovertibile che il pronome personale "loro" è riferito ai terroristi, dunque l'aggettivo impiegato per identificare l'ambiente da cui provengono è assolutamente appropriato. Anche qui, sul piano meramente semantico, sempre la Treccani spiega che l'impiego dell'aggettivo fetido è in uso figurativo per esprimere grave riprovazione, condanna, disgusto. In definitiva c'è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che i terroristi non sono bastardi e che il loro ambiente non è fetido? Credo proprio di no! Non vorrei che i colleghi censori mi avessero confuso con Crozza quando esaspera i toni o confonde posizioni che non ho mai avuto. Vittorio Feltri
Deve essere dura essere Vittorio Feltri. Fabio Manenti, Giornalista e portavoce del sindaco di Ragusa, il 22 Giugno 2019 su Il Fatto Quotidiano. Vittorio Feltri è quel comico che non riesce a far ridere senza inchiodare due parolacce “a minchia”. O quel bambino difficile, che per attirare l’attenzione schiaffeggia gli altri, bulletto triste. Ogni parolaccia, ogni pugno, una richiesta di ascolto. Lo fa continuamente, lo fa ciclicamente ogni volta che la soglia cala troppo: “Guardatemi, sono qui, ci sono anch’io”. In un mondo dove l’informazione soffre e l’opinione è ovunque, spararla grossa risponde a un’esigenza precisa: istinto di sopravvivenza. Dev’essere triste non avere nulla che valga davvero la pena dire; essere costretti a prendersela con qualcuno che nemmeno si conosce, oppure per categorie, o ancora con qualche ragazzina ecologista, con i “bastardi islamici” (per difendere il titolo comparso su Libero), la “patata bollente”. Con un grande in condizioni drammatiche. Però un merito, al dott. Feltri, va riconosciuto: avere ricordato a milioni di italiani di essere terroni. Grazie davvero. E non perché ce la prendiamo, anzi: l’intelligenza vuole che quella parola sia uno scherzo per quanto ridicola, al massimo un’onta per chi la pronuncia. Grazie perché in questo marasma sovranista, confuso, ipocrita, ricordare a tutti, a chiare lettere, che c’è un’Italia terrona e un’altra microscopica ma ancora resistente che in quella parola, “terroni”, ci crede, è importante. E una critica, invece, voglio infliggerla a me stesso, che sto coscientemente sbagliando nel parlare di Feltri. Così come sono convinto che continuamente sbagli chi si indigna per certe terribili vergogne di oggi e, anziché agire, indignandosi le rilanci, le condivida, le ingrandisca. I nostri sono giorni a macchia d’olio: ci vuole un niente ad allargare l’unto, ci vuole un niente a scivolarci sopra. Perché a volte, provando a lavare via la macchia, la si ingrossa. E le si dà più peso di quel puntino che invece è.
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 25 Giugno 2019. Lettera aperta al presidente dell' Ordine Nazionale dei giornalisti italiani, Carlo Verna. Caro collega, un paio di giornalisti si sono autosospesi dall' albo (cosa che non si può fare) dicendo: o buttate fuori Feltri o ce ne andiamo noi. Ottima iniziativa, sarebbe stato più corretto se si fossero dimessi, ma non importa. A me di essi non frega niente. È curioso il motivo della loro comica iniziativa. Ritengono che io abbia offeso Camilleri in fin di vita. Falso. Ho elogiato, forse in modo esagerato, lo scrittore siciliano. Al termine del mio articolo pubblicato su Libero ho aggiunto che per consolarmi della sua eventuale morte avrei gradito il fatto che il terrone Montalbano non mi avrebbe più rotto i coglioni. Il quale Montalbano è un personaggio inventato, non un uomo in carne e ossa. Quindi non ho insultato nessuno. Come se avessi dato della zoccola a Cappuccetto Rosso, che non esiste. Invece i due colleghi che hanno raccolto le firme affinché io venga radiato sostengono il contrario: avrei oltraggiato tutto il Sud. Senza peraltro considerare che il termine terrone ha due valenze, una spregiativa e una scherzosa, sfottitoria. In ogni caso io non ho dato del terrone a Camilleri bensì, ripeto, a Montalbano che appunto è una figura letteraria e non l' autore che l' ha animata. Inoltre, i due signori che auspicano la mia espulsione, mi accusano di aver vergato titoli razzisti, omofobi, sessisti. Semplicemente ciò è falso. Io sono direttore editoriale di Libero, non responsabile. Quindi non rispondo dei contenuti del giornale che non abbia scritto io. "Bastardi islamici", "Patata bollente", "Comandano i terroni", eccetera, non sono definizioni mie, ma sintesi espressive - opere dell' ingegno altrui - non attribuibili a me e di cui non posso appropriarmi. Anche se particolarmente evocative dei miei scritti (quindi non istigative) ed efficacemente suggestive per il lettore. Affibbiarmele costituisce una menzogna che l' Ordine dovrebbe sanzionare. È ciò che mi aspetto tu promuova per difendermi, visto che sono iscritto da oltre 50 anni all' Albo, da una campagna denigratoria che non fonda sulla verità, ma sull' odio gratuito. Ti prego di agire in questo senso. Grazie. Vittorio Feltri.
LA REPLICA DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO NAZIONALE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI CARLO VERNA A VITTORIO FELTRI. Da ODG.it il 25 Giugno 2019. Caro Direttore, abbiamo in comune il non essere responsabili. Lei di Libero e dei suoi titoli, io delle pronunce deontologiche (se lo fossi come qualunque giudice non potrei esprimermi liberamente come sto facendo). Diversi sono il peso mediatico, con la bilancia che pende tutta dalla sua parte e le nostre idee sul giornalismo. La mia è certamente meno nota e la sua lettera mi offre l’opportunità di esprimerla. Al centro vi è il rispetto per le persone oltre che naturalmente per la verità. Proprio per questo quando il suo (si può dire anche per il direttore editoriale) giornale titolò: “Viva il gommista che ha ucciso uno dei criminali, merita una medaglia”, poiché la legge che separò le funzioni prevede che ad effettuare le valutazioni siano autonomi Consigli di disciplina e che chiunque possa investirli delle questioni, con questa veste personalmente sottoscrissi la segnalazione ovviamente nei confronti di Pietro Senaldi che firma Libero. Tanto autonomi sono i giudici disciplinari che la loro risposta fu – per sintetizzare – titolo “urtante e cinico” ma non fuori dalle regole. È del tutto irrilevante che io resti convinto che quel titolo non fosse corrispondente alle nostre norme deontologiche. È lo stato di diritto. Non può esserci un presidente, una petizione o qualcuno che annuncia impossibili auto-sospensioni di protesta a metterla fuori dall’Ordine dei giornalisti. A parte c’è la sensibilità umana che, come il coraggio di don Abbondio, non può essere imposta. Personalmente non userei espressioni provocatorie quando c’è sofferenza, neanche se a lottare per la vita fosse… Cappuccetto Rosso. Ma sono solo un presidente che, nel momento più difficile della storia del giornalismo, cerca di battersi perché i cittadini abbiano delle garanzie di corretta informazione, applicando le regole che ci sono e cercando, laddove non funzionino, di ottenere che il legislatore le cambi. Una persona che sogna ponti e non muri, ragionamenti e non arringhe alle pance, dialogo fra punti di vista contrapposti e non insulti. CARLO VERNA Come forma di augurio, infine, mi firmerei così: Carlo Verna sono.
Giampiero Mughini per Dagospia il 25 Giugno 2019. Caro Verna, non ho assolutamente alcun titolo per mettere becco nello scambio di opinioni tra il mio amico Vittorio Feltri e lei che è il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti oltre che palesemente una persona civile. Ammesso che lo sia mai stato, non sono più un giornalista da quando il consiglio regionale del Lazio mi tolse dall’albo. Lei forse non ricorderà. Era successo che avevo partecipato a uno spot pubblicitario in televisione. L’allora segretario del consiglio regionale dell’Albo mi convocò, e questo perché un giornalista non deve e non può contribuire a una promozione pubblicitaria. Io che sono un bravo ragazzo sono andato nella sede romana del consiglio regionale, con cui mai in trent’anni di vita professionale avevo avuto a che fare. C’era un gruppetto di persone, di cui non conoscevo nessuno. Assolutamente nessuno. Solo li guardavo me e loro guardavano me. Alla domanda se fossi stato pagato per quello spot, risposi “Ci mancherebbe altro!”. Dopo di che mi sospesero due mesi dall’ “attività” giornalistica, il che non capii che cosa volesse dire dato che da tempo non lavoravo più in un giornale. Continuai a fare quello che ho sempre fatto, scrivere articoli, il che è un diritto costituzionale se non erro. Dal consiglio regionale mi arrivò una nuova e minacciosa lettera, chiedendomi di interrompere la produzione di quegli articoli. Risposi che ero “un autore di qualità” e che con loro non volevo perdere un solo minuto della mia vita. Mi arrivò una terza lettera con la quale mi comunicarono che ero stato “tolto” dall’albo dei giornalisti. Da allora ho risparmiato i cento euro annui che versavo all’Ordine dei giornalisti. Non dirò che ne sia stato moralmente lacerato. Non se l’abbia a male, caro Verna, ma questo è il punto. Se ha il benché minimo senso l’esistenza di un organo – il consiglio nazionale dei giornalisti – che soprassiede alle regole deontologiche della professione e rimbrotta di volta in volta ora l’uno ora l’altro autore di un titolo o di un articolo apparso sui giornali. Il tutto dello scambio di opinioni tra lei e il mio vecchio amico Vittorio Feltri nasce dal fatto che Feltri ha scritto feltristicamente della condizione di salute di Andrea Camilleri, al che qualcuno di voi gli ha puntato il dito contro. Definire tutto questo qualcosa di ridicolo è dire poco, è dire niente. Se delle persone presunte a modo dovessero puntare il dito contro una tantissima parte di quello che esce sui giornali, ne scaturirebbero contese e ammonizioni a non finire. Lasciate che Pietro Senaldi o Vittorio Feltri facciano il loro lavoro per come lo intendono. Feltri scrive feltristicamente, Scalfari scrive scalfaristicamente, molti direttori di giornali scrivono non saprei dire come e comunque scrivono. Giudicheranno i posteri. Verrà un giorno, scrisse una volta Leonardo Sciascia, che qualcuno leggerà quel che appare sui giornali. E siccome ho vissuto trent’anni nei giornali, so di che pasta erano fatti molti dei miei colleghi. Come volete che Feltri scriva se non al modo suo, al modo che piace a lui e ai lettori del suo giornale? Ovvio che in quelle sue righe non c’è “deontologicamente” nulla di blasfemo. E’ il suo stile, la sua da lui conclamata predilezione per parole e ragionamenti ruvidi. Che c’entra il “comitato” di giudici cui lei accenna? Si facciano gli affari loro, scrivano gli articoli loro, si trovino uno stile che convinca dei lettori ad acquistare un giornale. Le parla uno che prima di usare una parola ruvida ci pensa diecimila volte. Quando più volte mi hanno chiesto com’è che fossi stato “tolto” (non “radiato”) dall’albo dei giornalisti, ho sempre risposto che quel provvedimento lo aveva preso una congrega di nullità. Non c’era nulla di ruvido. Era una mia opinione, o meglio era un fatto.
TERRONI contro IMBRUTTITI. Angelo Allegri, Mercoledì 08/05/2019 su Il Giornale. «Ciutaglione» è una parola sconosciuta anche a molti napoletani: è un termine dialettale, ma della Campania più profonda, della zona di Sala Consilina, in provincia di Salerno, al confine con la Basilicata; si usava soprattutto un tempo per dare amichevolmente dello stupido a qualcuno. Allo stesso modo «giargiana», o in dialetto «giargianes», era l'espressione in cui decenni addietro i milanesi al cento per cento irridevano bonariamente chi arrivava da fuori città. Modi di dire all'apparenza destinati a una silenziosa e indolore scomparsa, conseguenza di una inesorabile omologazione linguistica. Solo all'apparenza, però, perché non più tardi di un paio di d'anni fa sul palco dello show televisivo per eccellenza, il festival di Sanremo, due tra i protagonisti della serata, l'attore Claudio Santamaria e il conduttore Pierfrancesco Savino si sono affrontati di fronte a milioni di persone proprio a colpi di «ciutaglione». E nel capoluogo lombardo, tra un'apericena e l'altra, nella lingua dei più giovani sono spesso due schieramenti a contrapporsi: gli imbruttiti (chi vive all'interno della «circonvalla», la circonvallazione) e, appunto, i giargiana. Il bello è che a far rivivere due espressioni «local» per eccellenza è stato il mezzo più «global» che ci sia, Internet: ciutaglione e giargiana sono le parole simbolo di due casi di costume nati sulla Rete: Casa Surace e Il Milanese Imbruttito, fenomeni umoristici e allo stesso tempo attività imprenditoriali cresciute su una comunità di spettatori appassionati. Tra Facebook, Instagram e Youtube hanno milioni di fan che attendono ogni settimana la pubblicazione dei loro video, così come altri collettivi dello humor via web, pionieri come i The Yackal o i The Show. Tutti hanno numeri e spettatori da canali televisivi. Le loro storie o i loro percorsi sono la dimostrazione di come la Rete abbia cambiato anche i percorsi della comicità.
NONNE DI CULTO. Napoli, zona Salvator Rosa. Un gruppo di studenti fuori sede che condividono un appartamento in affitto diventa la maledizione dei vicini di casa: feste, scherzi, musica a ogni ora. Un giorno arrivano anche i Carabinieri, chiamati da un coinquilino esasperato. «Da lì siamo partiti: della nostra voglia di divertirci abbiamo fatto una professione», spiega Simone Petrella, uno del gruppo originario. I ragazzi, oggi poco più che trentenni, iniziano a girare qualche video artigianale. C'è Petrella, appunto, studente di lettere, e il suo compagno di facoltà Alessio Strazzullo; Andrea Di Maria che adesso fa l'attore (ha un ruolo importante in Gomorra), ma che allora era indeciso tra economia e scuola di teatro; Daniele Pugliese avviato verso la laurea in ingegneria. Un po' alla volta scenette e video realizzati diventano sempre più professionali. Nel 2015 nasce «Casa Surace». Arrivano attori come Antonella Morea (è stata la mamma nel musical teatrale della Disney ispirato a Mary Poppins) e fanno la loro comparsa personaggi di culto come la «nonna», alias Rosetta Rinaldi, 86 anni, che esordisce perché è la nonna (vera) del direttore di produzione. All'inizio il fulcro della vera e propria sitcom a puntate pubblicata sulla Rete sono le differenze tra Nord e Sud viste da due studenti fuori sede, Pasqui (interpretato da Bruno Galasso, il meridionale) e Ricky (Riccardo Betteghella, il settentrionale, a dir la verità finto visto che è di Napoli anche lui). Le differenze tra nordici e «terroni», termine rivendicato e utilizzato con orgoglio, diventano occasione di scherzo e risate. «Adesso ci stiamo concentrando sempre di più sui tic e le abitudini della famiglia allargata meridionale», dice Petrella. I centri di produzione sono Napoli e Sala Consilina, di cui alcuni nel gruppo di partenza sono originari e dove molti dei video sono girati. «È la nostra piccola Hollywood», aggiunge Petrella ridendo. Quanto alle fonti di reddito, i soldi che arrivano da Youtube per le inserzioni pubblicitarie prima e dopo i video, sono ben poca cosa. La parola magica è «branded content». Il prodotto da pubblicizzare non fa più una semplice comparsa nel video, ma diventa il fulcro della sceneggiatura. Così Casa Surace si è fatta una base anche a Milano, capitale italiana dell'advertising. «Si ricorda i comici tradizionali, tipo il Trio Lopez, Marchesini e Solenghi?», chiede Luca Persichetti, che di Casa Surace è il marketing manager. «Se si vuole avere successo creatività e comicità devono essere le stesse, ma tutto ormai è proiettato verso il Terzo Millennio». Senza dimenticare gli strumenti più tradizionali visto che Casa Surace è diventata anche un libro («Quest'anno non scendo»), pubblicato da Sperling & Kupfer.
VIVA LE PARODIE. Multimediale è anche The Jackal, un altro dei collettivi cresciuti a Internet e umorismo. In questo caso i media alternativi alla rete sono soprattutto cinema e tv. Il gruppo ha già esordito sul grande schermo con una pellicola «Addio fottuti musi verdi», prodotta da due pesi massimi del settore, Cattleya e Rai Cinema, e che racconta di un disoccupato che trova lavoro solo grazie agli alieni. La storia dei The Jackal è parallela (e per molti versi anticipa) quella di casa Surace: un gruppo di amici napoletani, in alcuni casi in classe insieme sin dalle scuole elementari, che iniziano a «girare» per divertimento. I volti più noti del collettivo sono Francesco Capaldo, detto Francesco Ebbasta, regista di quasi tutte le produzioni, Ciro Capriello (in arte Ciro Priello), attore e direttore del casting, Simone Ruzzo e Gianluca Fru. La loro specialità sono le parodie di spettacoli televisivi, prima tra tutte la serie Gomorra. Sono stati loro, in uno dei video che hanno raggiunto la maggior popolarità sulla Rete, a «uccidere» i giudici di Masterchef, con lo slogan: «Ogni volta che cucini male, uno chef muore». Nel caso dei The Jackal l'evoluzione professionale è culminata con il loro approdo, come società di produzione nel gruppo Ciopeople, uno dei più interessanti esempi di imprenditoria internettiana, che edita tra l'altro il sito di informazione Fanpage, tra i primi in Italia per visualizzazioni.
IL BUSINESS È DI CASA. Se i Ciaopeople Studios, la casa dei The Jackal, ha base a Napoli, l'altro polo della comicità internettiana è a Milano. E nel capoluogo lombardo ha per definizione inizio la storia del Milanese Imbruttito. Con una particolarità: nessuno tra i papà dell'imbruttito meneghino è di Milano. Marco De Crescenzio, oggi 29 anni, è pugliese di Taranto, Tommaso Pozza, classe 1987 di Padova, Federico Marisio, il meno «arioso» tra i tre, anche lui 32 anni, di Varese. Uno scrive testi, un secondo è tecnico del suono, l'altro ancora social media manager. Nel 2013 i tre, che collaborano a uno studio di registrazione, si ritrovano insieme a scherzare sui tic del «bauscia» milanese. Creano una pagina di Facebook con la prima battuta: «Il milanese non ha amici ma contatti». È un gioco per divertirsi in compagnia, ma in poco più di un mese i «like» sulla pagina raggiungono quota centomila. Poi per un evento del cosiddetto «Fuori salone» vengono stampate qualche centinaio di magliette con il logo del Milanese imbruttito. Vanno a ruba. E da bravi «lumbard» (acquisiti o meno) i tre sentono aria di business. Oggi la loro è un aziendina: tre libri già pubblicati con un editore come Rizzoli, un sito con annesso shop online per gli articoli di merchandising (dalle felpe alle tazze), milioni di visualizzazioni per i video con immancabile «branded content» (la prima azienda a credere nel protagonista della serie, che considera l'aperitivo un principio di vita, è stata, manco a dirlo, la Campari). A dare il volto al milanese tipico, con le sue manie per donne e fatturato un attore, Germano Lanzoni, ormai identificato con il personaggio. E alle sue storie si aggiungono le interviste improbabili (soprattutto per le risposte) di Luca Abbrescia. La storia non è finita qui. «Adesso stiamo lavorando per dare più continuità ai rapporti con le aziende e i centri media», spiega De Crescenzio. «E non escludiamo nemmeno di arrivare e presto a un accordo-joint venture con un gruppo editoriale di peso».
“DARE DEL ‘TERÙN’ NON E’ RAZZISMO, E’ UN TERMINE RUDEMENTE INCLUSIVO”. Michele Serra per “la Repubblica” il 3 maggio 2019. Siccome il razzismo è un problema serio, e le curve degli stadi sono davvero un moltiplicatore di violenza e volgarità, bisognerebbe evitare di costruire "casi" come quello di Brescia, che con il razzismo c'entrano poco o addirittura per niente. Il calciatore che, per festeggiare la promozione in serie A, intona il coretto irridente sui rivali «terùn» del Lecce e del Palermo non fa che perpetuare le vecchie prese per i fondelli che echeggiano, su al Nord, dalla notte dei tempi. Fin dalle elementari (venivo da Roma) presi confidenza, a mie spese, con l'epiteto di "terrone", un poco ottuso nel suo provincialismo goto-padano eppure mai davvero spregiativo: e anzi udito in seguito, infinite volte, nei bar e nei posti di lavoro, con tonalità confidente e quasi affettuosa. Nella Milano di Jannacci e del Derby e poi di Abatantuono e poi di Aldo, Giovanni e Giacomo, «terùn» non è mai stato un termine razzista, semmai rudemente inclusivo; e ricambiato con uguale dileggio. Nella tipografia dell'Unità dove in pratica sono cresciuto, lo sfottò tra indigeni e terroni era ininterrotto e colorito, «dove hai parcheggiato il cammello?» il benvenuto per i meridionali, «a casa di tua moglie» una risposta frequente, e nessun incidente etnico venne a turbare quella vivace convivenza. Un lessico censurabile in Parlamento non lo è sotto una curva di stadio e un centravanti non è tenuto a parlare come un ministro. Offendersi ogni dieci minuti e gridare al razzismo ogni venti non aiuta a mettere a fuoco le offese vere e il razzismo vero.
“TERÙN TERÙN”, I CALCIATORI DEL BRESCIA FESTEGGIANO LA PROMOZIONE CON CORI CONTRO I MERIDIONALI. Da Corriere dello Sport il 3 maggio 2019. Dopo otto anni di purgatorio il Brescia torna in massima serie ma la festa promozione delle Rondinelle è stata macchiata da un episodio che ha coinvolto gli stessi calciatori della squadra lombarda. Nel corso dei festeggiamenti in campo al termine della partita vinta per 1-0 contro l'Ascoli, Leonardo Morosini ha invitato il pubblico di fede bresciana a cantare la canzone "terùn, terùn" come sfottò contro Lecce e Palermo, formazioni contro cui il Brescia ha lottato per la promozione fino alle ultime giornate del campionato. CORI PUBBLICATI SU ACCOUNT DEL CLUB - L'episodio, di chiara discriminazione territoriale, è testimoniato da un video dapprima pubblicato e poi rimosso sulle storie Instagram del club. Nel video si vede l'attaccante Ernesto Torregrossa con il megafono in mano che suggerisce un coro da cantare alla curva mentre Morosini gli strappa di mano il megafono e dà il via al coro "terùn, terùn".
IL PRECEDENTE CON IL VERONA - Non è il primo caso di cori denigratori nei confronti dei meridionali nel corso dei festeggiamenti delle squadre di calcio. Nel 2011 l'allora allenatore del Verona, Andrea Mandorlini, cantò la canzone 'Ti amo terrone' al Bentegodi per sbeffeggiare la Salernitana; venne deferito e fu costretto a chiedere pubblicamente scusa dichiarandosi non razzista e ricordando che nella sua squadra tanti giocatori erano meridionali.
Da Sportavellino il 3 maggio 2019. Leonardo Morosini ha risposto pubblicamente, attraverso il suo profilo privato di Instagram, alle polemiche sul presunto coro razzista cantato da lui durante i festeggiamenti per la promozione in Serie A della sua squadra, ovvero il Brescia. L’ex calciatore biancoverde ha precisato in maniera forte che non voleva offendere il Sud, oppure le citta di Palermo e Lecce, ma era soltanto un coro dedicato al suo compagno di squadra, Ernesto Torregrossa.
Pino Aprile: "Terroni e nordisti, prevedo la secessione". Pietro Senaldi il 15 Gennaio 2019 su Libero Quotidiano. «Quando mi dicono terrone non mi offendo, l'insulto può essere nell'intenzione, non nelle parole, che sono come i jeans, con l'uso si stingono. A meno che non si voglia intendere terrone di m..., e in quel caso è reato. Un tempo brigante era un' offesa, oggi è quasi un complimento, visto che i briganti si ribellavano a un' invasione». A parlare è la massima autorità in materia, Pino Aprile, giornalista e scrittore, l'intellettuale meridionalista di maggior spicco attualmente in Italia, autore, fra gli altri del libro "Terroni", un viaggio tra le miserie del Sud, territorio «spogliato e colonizzato dal Piemonte sabaudo fin dai tempi dell' Unità, che proprio per questo in realtà non c' è mai stata».
Perché titolò il suo libro proprio "Terroni"?
«Non fu un' idea mia ma degli editori. All' inizio ero contrario, perché pensavo a un libro freddo e distaccato. Lo feci così e non mi piacque, quindi lo riscrissi, forte, e a quel punto il titolo ci stava benissimo, perché testimonia la rabbia e il disgusto che ho dentro ma anche il recupero della storia negata del Mezzogiorno. Non è solo la parola terrone, in Italia tutto ciò che attiene al Sud assume una valenza negativa, anche l' aggettivo borbonico ce l' ha. Per non parlare del sostantivo meridionalismo, una dottrina sofisticatissima, per di più nata sostanzialmente al Nord, che si proponeva di comprendere e risolvere la questione meridionale, nata con l' Unità, e che ora è sinonimo di assistenzialismo d'accatto».
Il suo ultimo libro invece si intitola "L'Italia è finita": perché?
«Perché questo Paese è una finzione, è nato diviso e sotto cattivi auspici, il giorno 17, per di più di martedì, quando non ci si sposa, non si parte né si dà principio all' arte. Siamo una nazione duale e pertanto destinata al fallimento, meglio prenderne coscienza. Dall'Unità d' Italia a oggi, il divario tra Settentrione e Meridione non ha fatto che allargarsi. Fino al 1861, nel Sud si concentravano i due terzi dei soldi del Paese, dopo l' esperienza fascista per la prima volta nella storia tutte le Regioni del Mezzogiorno si sono ritrovate più povere di tutte quelle del Centro e del Nord: sotto la retorica mussoliniana del nazionalismo si celava il trionfo delle ragioni che hanno spaccato l'Italia».
Cosa prevede per il futuro?
«Oggi il barometro segna secessione. Finché l' economia tirava, e non c' era ancora l' euro, il Paese grazie alla svalutazione poteva ancora reggere in qualche modo, concentrando gli investimenti pubblici al Nord e l' assistenzialismo clientelare al Sud. Oggi però c' è un divario incolmabile tra i due Paesi che formano l' Italia e non sta nell' economia o nella qualità dei servizi e della vita. Tutto quello che è pratico è risolvibile, ma davanti alla distanza di cuori e menti non puoi far nulla nel breve termine».
Nessuno oggi parla più di secessione.
«Il governatore del Veneto, Luca Zaia, lo ha detto subito dopo il referendum. Ma è il flusso della storia che spinge a questo: già quando il Paese nacque, l' idea dell' Italia unita era condivisa da una piccolissima minoranza, l' 1% dei futuri italiani, un po' di idealisti e tanti figli di buona donna e affaristi, con una nazione, il Piemonte, tecnicamente fallita, che voleva ripagarsi i debiti con i soldi delle terre conquistate. Oggi che ci sono la globalizzazione e la civiltà informatica, gli Stati nazionali sono un impiccio al mercato unico e vanno eliminati».
È l'idea degli europeisti?
«Sì, ma l' Europa è fallita, ha perso la propria battaglia contro gli Stati nazione, che non è riuscita a unire e che però oggi sono vittime di spinte centrifughe: la Catalogna, la Baviera, la Scozia, il Veneto, tutto spinge alla separazione. E francamente, da meridionale, se deve continuare così, me lo auguro: visto come funzionano le cosa da 160 anni in questo Paese, per il Sud potrebbe essere una fortuna».
Prevede due Italie: al Nord una leghista e al Sud una grillina?
«Se i grillini vanno avanti così, non credo. La gente è furibonda con loro, l' alleanza con la Lega sta penalizzando Cinquestelle al Sud: prevedo che alle Europee M5S prenderà una sberla colossale. L' Ilva, il Tap, l' autonomia, le grandi opere al Nord quando ancora non c' è una linea ferroviaria diretta che unisce Bari e Napoli. Molti meridionali non perdoneranno i cedimenti grillini, anche se vedo che ultimamente il Movimento sta cercando di cambiare pelle: finora non aveva capito il Sud e lo sfrutta solo come bacino elettorale ma adesso c'è una piccola ma determinata pattuglia che ha intuito quanto il voto meridionale sia legato alla rappresentanza e sta cercando di imporsi».
Come si spiega il boom di Di Maio e soci al Sud?
«Il Sud ha preso coscienza di essere un soggetto politico unitario, con le medesime esigenze, e si è votato a una forza meridionalista che si presentava come nuova. Ma il processo è partito prima: che il Mezzogiorno ormai sia un blocco elettorale compatto è chiaro dal 2015, quando per la prima volta nella storia tutto il Sud si votò al centrosinistra: il Pd arrivò a governare tutte le Regioni e le principali città».
E poi cos'è successo?
«Che ci aspettavamo di vedere arrivare un treno a Matera, 400 metri sul livello del mare, ma Delrio mandò i geologi a studiare le rocce, mentre sull' Himalaya i binari corrono a 5.000 metri d' altezza. Renzi aveva illuso il Sud ma poi, temendone le richieste, mise i governatori l' uno contro l' altro, scatenando la guerra al pugliese Emiliano, che voleva un' azione comune delle regioni del Mezzogiorno. Risultato, al referendum del 4 dicembre 2016 i meridionali votarono in massa contro».
Se il Sud smetterà di votare M5S si orienterà verso la Lega?
«La Lega ha percentuali inferiori a quelle che aveva la destra di An e deve stare molto accorta nella scelta della propria classe dirigente meridionale, visto come sta pescando. Più facile che la gente torni a non votare. Anche se vedo che stanno nascendo piccoli partiti territoriali i quali per il momento non decollano perché sono in competizione tra loro. Se si fondessero però».
Pensa a dei gilet gialli del Sud?
«Nel marasma meridionale oggi può venir fuori di tutto. Il sentimento del Sud è molto chiaro: è arrabbiato perché si sente derubato e sfruttato dal Nord».
Non tende ad assolvere troppo la classe politica meridionale?
«La classe dirigente locale ha colpe locali ed è funzionale a quella egemone nazionale. I politici meridionali si sono fatti sistematicamente cooptare per fare gli interessi del potere dominante. O facevano così, o non duravano». Pietro Senaldi
“LA FACCIA DI ZAIA NON LA TROVI IN CALABRIA”. Da Il Fatto Quotidiano il il 14 giugno 2019. “So che qui a Roma non lo si capisce ma nel Nord-Est c’è voglia di autonomia regionale. Loro si ritengono una nazione: hanno la loro bandiera, la loro lingua, hanno anche un normotipo veneto che è diverso dal normotipo italiano“. Sono le parole del direttore responsabile di Libero, Pietro Senaldi, che a Omnibus (La7), durante una discussione sull’autonomia regionale, ha sottolineato la diversità dei veneti rispetto agli altri italiani, persino nelle sembianze fisiche. “Non si parla più di razza, però ci sono dei ceppi nell’umanità – ha aggiunto Senaldi – E i ceppi veneti sono diversi da quelli italiani. E quel ceppo lo si riconosce. La faccia di Zaia non la trovi in Calabria, se non si è spostato un veneto in Calabria. I veneti, insomma, si ritengono un popolo diverso. Vogliono l’autonomia e solo la Lega li rappresenta”.
Le facce calabresi e quelle venete, il nuovo razzismo secondo Libero. In una recente puntata di Omnibus dove era ospite, il direttore Pietro Senaldi ha esposto la sua teoria basata sulle differenze somatiche: «Una faccia come quella di Zaia non la trovi laggiù». Enrico De Girolamo lacnews24.it venerdì 14 giugno 2019. «Una faccia come quella di Zaia non la trovi in Calabria». Che detta così non capisci bene se è un complimento o un’offesa. Forse è solo una sciocchezza, un’iperbole usata dal direttore responsabile di Libero, Pietro Senaldi, che durante una recente puntata di Omnibus, la trasmissione di La7, si è avventurato sul versate lombrosiano del pregiudizio antimeridionale. Nell’esaltare lo spirito indipendente dei veneti, che «si ritengono una nazione e hanno voglia di autonomia regionale», Senaldi ha spiegato che le facce che trovi in Veneto non le trovi in altre parti. «Hanno la loro bandiera, la loro lingua e anche un normotipo che è diverso dal normotipo italiano». Perché, ha continuato con voce sempre più acuta il giornalista, forse tradendo a se stesso la consapevolezza della vaccata che si apprestava ad esporre, «oggi non si parla più di razze, ma ci sono ceppi diversi nell’Umanità». Diciamolo, e che diavolo, sembrava suggerire con la mimica (a dire il vero un po’ terrona) delle due mani chiuse a “cuppitiello”, come quando bisogna sottolineare un “cosa vuoi?” Dunque, Senaldi, e chi la pensa come lui, non è un razzista, ma un ceppista. Loro non dividono l’Umanità in razze, perché non si usa più, fa brutto. Ma in ceppi. E quello veneto dimostra la sua diversità presumibilmente superiore con una faccia doc, quella di Luca Zaia, presidente della Regione del Prosecco. «Una faccia così non la puoi trovare in Calabria», ha insistito il direttore di Libero. Non scherziamo. Il ceppo è ceppo. Anche se… a guardarlo bene Zaia, con quei capelli ricci e neri impomatati sulla nuca, con quel sorriso accattivante da latin lover anni ’50, le sopracciglia folte e gli occhi scuri… ecco, a guardalo bene e immaginandolo con una coppola in testa, di quelle che ancora usa qualche vecchio contadino del Sud, mica sarebbe tanto facile distinguerlo dal ceppo calabro. Ostregheta! Proprio quando sei certo di aver trovato il bandolo della matassa etnica ti perdi il ceppo e ti ritrovi con una cippa.
LUCA ZAIA, UNA FACCIA DA CALABRESE. Pubblicato il 15/06/2019 da Emiliano Rubbi su alganews.it. Feltri, Senaldi, quelli di Libero in generale, sono fantastici. Dico sul serio, mi fanno ammazzare dalle risate come pochissime altre cose al mondo. Perché non si limitano a fare titoloni grotteschi tipo “Vieni avanti Gretina” o a fare clickbait con i vari “Feltri ASFALTA X” (laddove “X” è il “nemico” di turno e il “Feltri ASFALTA” è, solitamente, lo sfogo bilioso di un povero vecchio senza alcun diritto di replica per il suo immaginario interlocutore). No, loro sono gli ultimi giapponesi della Lega Nord con il NORD stampato in fronte, quella Lega delle origini che se la prende, sì, con il ne*ro e il rom, ma che non dimentica che il suo nemico principale erano e restano i terroni. Così, chi è abituato, come me, a leggere un po’ di tutto (anche i quotidiani umoristici come Libero), sa benissimo che Libero supporta il governo, ma solo e soltanto per la parte leghista. Di Maio ecc. sono del tutto invisi a Feltri e soci. Tanto è vero che il leader grillino, solitamente, viene costantemente attaccato in quanto napoletano, ex venditore di bibite, nullafacente e amico dei nullafacenti (ovvero i napoletani e i meridionali in genere). Un giorno sì e l’altro pure, infatti, sulle pagine di Libero compare “un’indiscrezione” (di solito completamente inventata di sana pianta da qualche redattore) che rivela come Capitan Salvini stia lavorando per “umiliare”, “distruggere” o “asfaltare” (sta cosa dell’asfalto piace molto, da quelle parti) i propri partner di governo. Ma ieri si è sfiorato il capolavoro. Senaldi si è lanciato in una considerazione fantastica: il governatore Zaia, come tutti i veneti, sarebbe “etnicamente diverso” dagli altri italiani. Infatti, come spiega lo stesso Senaldi: “Non si parla più di razza, però ci sono dei ceppi nell’umanità. E i ceppi veneti sono diversi da quelli italiani. E quel ceppo lo si riconosce. La faccia di Zaia non la trovi in Calabria, se non si è spostato un veneto in Calabria”. Ora, io non so se avete presente la faccia di Zaia. È questo in foto qui sotto. Probabilmente sono poco bravo io a riconoscere sti fantomatici “ceppi umani”, ma se non lo conoscessi e qualcuno mi chiedesse: “secondo te questo tizio da quale regione proviene?”, sono quasi certo che risponderei “Campania” o “Calabria”. Magari potrei sbilanciarmi pure con un “Sicilia”, visto che, se stessi girando una fiction sulla mafia italoamericana e mi servisse uno con la faccia giusta per fare il picciotto di scarsa rilevanza, lui mi sembrerebbe perfetto. Perché effettivamente, se esistono delle caratteristiche somatiche locali, Zaia ne presenta veramente molte tipiche dell’italiano meridionale. Ma per Libero è vero il contrario, cioè: lui è un campione di “venetismo”, uno che dimostra da solo, con la sua faccia, l’esistenza di un misterioso ceppo umano selezionatosi nei secoli all’ombra della Serenissima. Mi raccomando, non dite mai a Feltri che nelle campagne del sud è pieno di vecchietti che hanno una faccia in tutto e per tutto simile alla sua. A una certa età certe notizie potrebbero rivelarsi letali. E allora mi toccherebbe trovare un altro quotidiano umoristico da leggere. Non ci provate. Nessuno tocchi Feltri.
Feltri critica Conte e attacca ancora la Puglia: «Signore ben vestito nonostante sia di Foggia». A luglio scorso il direttore di Libero attaccò i pugliesi in un video: andate a raccogliere le olive invece di grattarvi, scrive il 05 Aprile 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Dopo l'invito ai pugliesi di andare a raccogliere le olive anzichè grattarsi, arriva una nuova battuta che fa discutere da parte del direttore di Libero. «Conte è un signore gradevole, addirittura ben vestito nonostante sia di Foggia, e questo ce lo rende simpatico. Allorché va in giro per il mondo, instancabilmente, non rimedia la figura del buzzurro. È l' unico merito che gli attribuiamo senza esitazione. Per il resto, il presidente del Consiglio è una frana incontenibile. Non la tiriamo troppo per le lunghe, limitandoci a un esempio, l' ultimo episodio in ordine di tempo che ha reso il premier ridicolo nella sua goffaggine». Inizia così un articolo sul quotidiano Libero da parte del direttore Vittorio Feltri: quell'inciso, riferito a Foggia in cui il direttore «elogia» il premier «nonostante sia di Foggia» non è andata giù ai foggiani ma ai pugliesi in generale che sui social hanno iniziato a protestare e bersagliare il giornalista. Feltri, del resto, non è nuovo a queste battute anti meridionali: a luglio dello scorso anno, in un video rivolgendosi ai pugliesi disse «Andate a raccogliere le olive invece di grattarvi».
Dominik Paris? Per il giornale altoatesino non è italiano. La "gaffe" indigna i social network. Una curiosa scelta in prima pagina sul giornale dell'Alto Adige ma scritto in lingua tedesca scatena le proteste online, scrive Gloria Riva l'8 febbraio 2019 su L'Espresso. Santa Valburga, che si trova in Val d'Ultimo, cuore dell'Alto Adige, è diventata Nazione. Almeno, così la considerano i cronisti del giornale d Dolomiten – Tagblatt der Sudtiroler, diffusissimo in Alto Adige e scritto in tedesco. Stamattina, in prima pagina, il quotidiano pubblica la notizia della vittoria di Dominik Paris, sciatore originario di Merano, neocampione del mondo del SuperG di Are, punta di diamante della squadra azzurra di sci. Peccato che, nella classifica assoluta, dove vengono indicati i tempi, Dominik non viene identificato come italiano (Italien, come dicono in Alto Adige), bensì come cittadino di St. Walburg in Ulten, tradotto: Santa Valburga in Ultimo. Mentre per tutti gli altri viene indicata l'esatta nazionalità. Forse che, per gli italiani, risulta più utile indicare la località di provenienza, dandone per scontata la nazionalità? No, perché in ottava postazione si piazza Mattia Casse (che è di Moncalieri) e viene giustamente definito Italiano. Certamente, potrebbe trattarsi di una svista, ma intanto su Facebook s'è scatenato il malcontento degli altoatesini, o almeno di quelli fieri di essere italiani. C'è chi ha scritto: «Da quando l’Ultental è diventata nazione? Va bene il patriottismo ma così è irrispettoso e ingiusto nei confronti della Federazione Italiana Sport Invernali e di tutta l’Italia. Nazione di cui Dominik ne è portabandiera!».
A Bolzano manifesti xenofobi contro i medici italiani: esposto in procura. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. L’Ordine nazionale dei medici ha presentato un esposto in procura riguardante alcuni cartelli e manifesti comparsi nei giorni scorsi a Bolzano e ritenuti offensivi e xenofobi nei confronti dei medici italiani; i cartelli erano stati affissi dalla Sudtiroler Freiheit, il partito separatista che chiede il distacco dell’Alto Adige dall’Italia e il suo ricongiungimento all’Austria. Un esposto analogo è stato presentato dal Movimento Cinquestelle della provincia di Bolzano. Sui cartelli e sui manifesti si vede un cadavere steso su un lettino dell’obitorio sovrastato dalla scritta «Il medico non sapeva il tedesco». «Quel manifesto fa passare un messaggio pessimo: allarmistico per i cittadini, offensivo per i medici e, soprattutto, lesivo per il rapporto di fiducia che è alla base della relazione di cura: va ritirato, e subito», afferma il presidente della Fnomceo, (federazione nazionale degli ordini dei medici) Filippo Anelli. La campagna ha riguardato non solo Bolzano ma anche altri centri provincia. La polemica innescata dai separatisti sudtirolesi riguarda l’eccessiva presenza (a loro dire) nelle strutture sanitarie di camici bianchi italiani, non in grado quindi di rapportarsi con la maggioranza della popolazione che è di lingua tedesca. «Quei manifesti sono un chiaro incitamento all’odio razziale» aggiunge Diego Nicolini, del M5S di Bolzano. Suedtiroler Freheit, a corredo della campagna, ha diffuso un comunicato in cui spiega: «Se il medico non capisce il paziente e viceversa, può portare a situazioni pericolose. Il settore sanitario in particolare è un’area molto delicata in cui si desidera comunicare nella propria lingua madre. Molti cittadini non possono comunque fare molto con la terminologia medica, figuriamoci in una lingua straniera. La salute è meno importante nella logica dell’Italia. Questo è razzismo aperto e una palese violazione dello Statuto di autonomia». Lo scorso giugno la giunta della provincia autonoma di Bolzano ha approvato una norma in base alla quale per esercitare la professione di medico è sufficiente la conoscenza del tedesco; in precedenza, invece era richiesta la conoscenza anche dell’italiano come requisito obbligatorio per ottenere l’iscrizione all’ordine dei medici. Tuttavia l’Alto Adige, al pari di altre zone d’Italia è alle prese con la carenza di personale negli ospedali e negli ambulatori; così da mesi le Asl sono dovute correre ai ripari assumendo medici che non sono bilingui. In provincia di Bolzano operano attualmente nelle strutture pubbliche 1.137 medici, 644 di madrelingua tedesca, 475 italiani e 17 ladini.
«Abolito» l’Alto Adige: così si prova a cancellare la Carta. Pubblicato lunedì, 14 ottobre 2019 su Corriere.it da Arco Angelucci. L’indicazione geografica italiana sparita dalla «Legge europea» voluta dall’Svp (con il silenzio della Lega). L’unica parola che andrebbe sempre abolita è «ricatto». Magari insieme ad alcune pratiche politiche, come l’acquiescenza, la logica della propria convenienza e sopravvivenza anteposta a tutto, anche alla Costituzione. «Siamo sicuri che il governo non modificherà questa legge» dice il presidente Arno Kompatscher a proposito del provvedimento che ha cancellato i termini «Alto Adige» e «altoatesino» da un testo ufficiale della Provincia autonoma. I toni si sono fatti meno perentori dopo che il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia ha detto che la legge verrà impugnata dopo la sua pubblicazione. Ma la sostanza non cambia. La profezia e la perentorietà del governatore della provincia di Bolzano erano dettata da una motivazione poco nobile, ma solida. I tre senatori della sua Südtiroler Volkspartei hanno un certo peso nell’appoggio a una maggioranza dai numeri traballanti in quel ramo del nostro Parlamento. Ma chi è senza peccato scagli il primo vocabolario. Che dire della Lega, il partito del prima gli italiani? A Bolzano fa parte della maggioranza che ieri ha approvato quel provvedimento, e ha due assessori in giunta, tra i quali il vicepresidente. Dopo le elezioni del 2018, che per la prima volta negavano l’autosufficienza alla Svp, l’occasione di prendere il potere era così ghiotta da rendere tutto sommato digeribili le notevoli differenze tra Svp e Lega, e meno indispensabile quella tutela degli interessi patrii tanto cara a Matteo Salvini. Una storia già sentita, dalle parti di Roma. E il fatto che i quattro consiglieri leghisti abbiano fatto il bel gesto dell’astensione, 0 del voto contro, in attesa del report ufficiale dell’aula le versioni divergono, non cambia molto. Ultima viene proprio la Svp, l’autonomia moderata, che ha fatto propria una mozione della minoranza proveniente dai Freiheitlichen, che moderati invece non sono, in quanto espressione dell’area secessionista. Non è una prima volta. Kompatscher ha un bel dire che in realtà la denominazione Alto Adige non è stata davvero abolita. In questa legislatura, e in quelle passate, ci sono già state alcune limature all’italianità del linguaggio, passate inosservate o registrate al massimo alla voce «folclore locale». Quest’ultima e più evidente restrizione non è solo un incidente di percorso, ma rappresenta anche un altro tentativo di compiacere le pulsioni che provengono dalla pancia di quella società, contando sul proprio peso nel Parlamento italiano. Lo sbianchettamento di quelle due parole, che non dovranno più essere usate dal giorno successivo alla pubblicazione nel Bollettino ufficiale della Regione, non ha conseguenze solo linguistiche, al netto dell’effetto cacofonico che potranno generare frasi di nuovo conio come «quest’anno andiamo in vacanza nella provincia autonoma di Bolzano e Sud Tirolo». Non è neppure una questione di patriottismo o di muscolosità sovranista. Lo dimostrano le reazione contrarie di persone di diversa provenienza come Carlo Cottarelli o Maria Elena Boschi, che parlano entrambe di precedente pericoloso. Come sa bene anche l’Svp, l’articolo 116 della Costituzione dello Stato al quale appartiene questa provincia parla espressamente di «Trentino-Alto Adige». Cancellare quelle parole significa compiere, magari senza neppure volerlo fino in fondo, uno strappo dal valore simbolico elevato. Le parole sono importanti, sempre. Negarle, o peggio rinnegarle, per questo continuo e maldestro tentativo di solleticare la pancia dell’irredentismo sudtirolese non è solo un errore. È anche una prova di stupidità storica.
Federico Guiglia per “il Messaggero” il 14 Ottobre 2019. In Alto Adige hanno cancellato per legge l'Alto Adige. Se il governo di Roma aveva bisogno di un esempio di come la Provincia autonoma di Bolzano legifererebbe sulla toponomastica italiana se solo ne avesse la potestà, eccolo servito: con i voti della Svp il Consiglio provinciale ha approvato l'emendamento di una formazione minore e secessionistica, la Südtiroler Freiheit, che per la prima volta cancella la dizione di Alto Adige e di altoatesino nell'espressione italiana della legislazione bilingue italiano-tedesca. Dunque, la parola Südtirol che compare nella formulazione tedesca di un testo legislativo sull'adempimento di obblighi europei, è stato reso come provincia di Bolzano nell'espressione italiana. Roba da matita blu, visto che non era la traduzione di Provinz Bozen. Ma non è una svista. I proponenti hanno spiegato che il corrispettivo toponimo di Alto Adige è un termine fascista da eliminare. Contro il diktat politico-linguistico hanno votato tutti i consiglieri di lingua italiana e i Verdi interetnici, spinti dalla protesta di Alessandro Urzì (l'Alto Adige nel Cuore/Fratelli d'Italia), che parla di «atto inaudito di pulizia linguistica anti-italiana». E che si tratti di una scelta-boomerang, l'ha compreso, con ritardo, il governatore Arno Kompatscher. Il quale, dopo aver avallato la provocazione in Consiglio provinciale, e a fronte della bufera che è subito scoppiata non solo in Alto Adige, ha dichiarato che è stato uno sbaglio. Un riconoscimento, però, a parole. Perché se la legge non sarà modificata con un'altra norma provinciale o impugnata dal governo davanti alla Corte Costituzionale, come il ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia, annuncia che farà in caso di inadempienza, finirebbe per cancellare il nome di Alto Adige dalla legislazione atesina. Un grave precedente, per un nome che è scolpito in articoli della Costituzione. In realtà, l'imposizione è il frutto avvelenato di una propaganda tanto martellante quanto ignorante, nel senso che ignora -o finge di ignorare- la lunga storia dei toponimi italiani dell'Alto Adige. Per la maggior parte essi furono concepiti e determinati addirittura agli inizi del Novecento. Non fu Mussolini, bensì il governo-Giolitti nel 1921 a dare il primo e formale via libera alla toponomastica italiana in Alto Adige poi introdotta con regi decreti del 1923 e del 1940. Decreti che sono stati a loro volta recepiti e resi repubblicani, pochi anni fa, da una rigorosa e inequivocabile sentenza della Corte Costituzionale (la 346 del 2010). Sentenza che ha convalidato l'efficacia dei nomi in vigore da quasi cent'anni, respingendo ogni interpretazione in senso opposto da parte della Provincia di Bolzano. La forma italiana della toponomastica bilingue ha, quindi, una protezione costituzionale a cui nessun legislatore, tantomeno provinciale, può venir meno. Nel caso specifico l'abolizione di Alto Adige è ancor più surreale, perché l'origine del toponimo non è mussoliniano: è d'epoca napoleonica. Dipartimento dell'Alto Adige (Départment du Haut-Adige,) risale al 1810. Più di cent'anni prima della Grande Guerra, giusto per dare un'idea della confusione storico-politica che si vuole ingenerare sui nomi italiani. Ma Alto Adige è soprattutto la dizione più popolare in uso non solo presso la comunità altoatesina. Facendo riferimento al fiume che nasce lì, all'Adige, Alto Adige è persino il nome del principale quotidiano locale in lingua italiana. Eppure, la cosa forse più sconcertante, è che un Consiglio provinciale della Repubblica, contando su una maggioranza di soli consiglieri di lingua tedesca, ha preteso di imporre agli italiani come possono o non possono chiamare in italiano la loro terra.
Alto Adige «abolito»? Ecco cosa è successo a Bolzano (e cosa cambia davvero). Pubblicato lunedì, 14 ottobre 2019 su Corriere.it da Arco Angelucci. L’indicazione geografica italiana sparita dalla «Legge europea» voluta dall’Svp (con il silenzio della Lega
I secessionisti sudtirolesi non riescono a digerire il termine Alto Adige. Nel senso che non lo vogliono proprio sentire. Ma, non riuscendo a cambiare il gonfalone, né il nome dell’Istituzione (che è stabilito da un decreto del presidente della Repubblica, il 670 del 31 agosto 1972) procedono a piccoli passi. E così, ogni volta che in Consiglio provinciale arriva un provvedimento che contiene la parola «Alto Adige» o «altoatesino», i secessionisti presentano un emendamento per provare a cancellarlo. E la Volkspartei, il partito di maggioranza, li segue a ruota. L’ultimo atto risale appunto a venerdì scorso quando, dall’articolo 1 della «Legge europea», una legge della Provincia che serve non solo a riorganizzare l’Ufficio di Bruxelles, ma parifica la lingua tedesca a quella italiana, sono state cancellate le parole «Alto Adige» e «altoatesino» (leggi qui il testo approvato in Commissione, poi modificato). Nel dettaglio in aula è stato modificato l’articolo 1 comma 2 sostituendo «Alto Adige» con «Provincia autonoma di Bolzano» e «altoatesino» con «della Provincia autonoma di Bolzano». Si passa da: «Per favorire un’ampia partecipazione del sistema territoriale altoatesino al rafforzamento della presenza dell’Alto Adige a Bruxelles, la Provincia, tramite l’Ufficio di Bruxelles, supporta il coinvolgimento di differenti attori pubblici e privati del territorio, anche mediante programmi di lavoro specifici annuali». A questa dizione: «Per favorire un’ampia partecipazione della provincia al rafforzamento della presenza della Provincia autonoma di Bolzano a Bruxelles, la Provincia, tramite l’Ufficio di Bruxelles, supporta il coinvolgimento di differenti attori pubblici e privati del territorio, anche mediante programmi di lavoro specifici annuali». Cosa cambia? Dal punto di vista geografico-istituzionale nulla. La cancellazione del termine «Alto Adige» potrebbe avvenire solo in virtù di una legge costituzionale. È solo una «provocazione». Ma il nodo, a ben vedere, ed è la cosa che dovrebbe far preoccupare, è un altro: la «Legge europea», al di là del fatto che faccia sparire il termine «Alto Adige», è fondamentale per i secessionisti del Sudtirolo, perché introduce la possibilità di iscriversi a tutti gli ordini professionali anche se non si parla una parola di italiano. Basta il tedesco per potersi iscrivere all’Albo dei medici, dei commercialisti, degli avvocati. Una norma molto delicata e niente affatto scontata, nata per portare giovani medici austriaci negli ospedali delle valli che rischiano la chiusura, che ora rischia di essere affondata a causa dell’arroganza di secessionisti ed Svp che, con la scusa dell’Autonomia, cercano di imporre la cancellazione del termine Alto Adige. E tutto questo con il silenzio complice della Lega che, pur essendo in giunta con la Svp, per non indispettire gli alleati ha ingoiato il rospo. L’opposizione ha gridato allo scandalo (leggi qui il resoconto del dibattito in aula) e la polemica stavolta ha travalicato i confini provinciali. Tanto che il ministro delle Regioni Vincenzo Boccia (Pd) ha minacciato di impugnare la legge se «il testo italiano e quello tedesco non saranno resi perfettamente identici». Il governatore Arno Kompatscher, conscio che la questione sta sfuggendo di mano, prova a mettere una pezza facendo dietrofront e spiegando che «sulle questioni identitarie non si può procedere a colpi di maggioranza». Ma ormai il caso è aperto. Difficilmente il presidente troverà i voti per far approvare le correzioni richieste da Boccia anche perché la maggioranza del suo partito tresca con i secessionisti e non accetterà mai di ripristinare il termine «Alto Adige».
Da adnkronos.com il 15 ottobre 2019. Reinhold Messner si dice favorevole, Gustav Thoeni contrario. La decisione per legge della Provincia autonoma di Bolzano di eliminare il termine Alto Adige, e conseguentemente l'aggettivo "altoatesino" per i suoi abitanti, divide anche il mondo dello sport. "Hanno ragione perché noi stessi decidiamo, perché ci sentiamo sudtirolesi", è il pensiero espresso all'Adnkronos da Messner, celebre alpinista ed esploratore, che rimarca: "Io sono sudtirolese e non sono un altoatesino, molto semplice. Sono europeo, sono cittadino del mondo e sudtirolese. Però non si può vietare che un altro si senta altoatesino. Non sarà vietato il sentimento del Sudtirolo e i tre quarti dei sudtirolesi non si sentono tali. Il nostro paese si chiama Sudtirolo e non Alto Adige, questo è stata un'invenzione di De Gasperi di tanti anni fa". "A me non crea alcun problema la denominazione 'Alto Adige', sarei favorevole a mantenerla", ribatte la leggenda dello sci alpino altoatesino, Gustav Thoeni. "Qui c'è sempre questa diatriba tra germanofoni e italiani. Io mi sento altoatesino, ho gareggiato e vinto con l'Italia e mi sono trovato sempre molto bene -aggiunge Thoeni-. Credo comunque che questa decisione non cambi nulla nella sostanza". Di posizione neutrale, invece, l'argento olimpico della discesa Christof Innerhofer: "La politica non mi interessa -taglia corto l'azzurro-, io penso solo a sciare forte".
Dopo le polemiche la denominazione «Alto Adige» torna al posto di «Provincia di Bolzano». Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 da Corriere.it. «Si è trattato di un’incongruenza a cui abbiamo voluto porre rimedio nel più breve tempo possibile». In una conferenza stampa il governatore Arno Kompatscher ha reso noto che la giunta provinciale di Bolzano ha approvato un disegno di legge per modificare l’articolo 1 della legge europea che sostituisce il termine «Provincia di Bolzano» con «Alto Adige». Nella versione approvata a inizio ottobre, nel comma 1 e nel comma 2 dedicato all’Ufficio di rappresentanza di Bruxelles, il testo italiano riportava il riferimento alla Provincia di Bolzano anziché all’Alto Adige, nonostante il testo tedesco facesse riferimento alla parola Südtirol. «Ci tengo a ribadire che non si è mai voluta abolire la parola Alto Adige», ha aggiunto Kompatscher, «che continuerà a essere utilizzata come riferimento geografico al territorio, così come si utilizza Südtirol nella forma tedesca. Quando ci si riferisce alle istituzioni, invece, è giusto parlare di Provincia di Bolzano in italiano e di Provinz Bozen in tedesco». Il disegno di legge sarà discusso e posto in votazione nel corso della seduta di fine novembre del Consiglio provinciale.
La Padania dei Celti e dei Longobardi esiste solo nella fantasia dei leghisti. Parola di storico, scrive il 15 febbraio Leonardo Cecchi su L’Espresso. “Noi, che siamo Celti e Longobardi, e non merdaccia levantina e mediterranea”. Con queste parole, l’allora punta di diamante della Lega Nord Mario Borghezio, faceva ruggire la folla di Pontida. Il folklore del partito di Umberto Bossi, a sostegno dell’indipendentismo cosiddetto padano, passava infatti per la più classica “invenzione della tradizione”, ovvero quella pratica che in antropologia è nota come l’elaborazione, spesse volte del tutto o in buona parte artefatta, di una memoria, un’origine comune per un determinato gruppo sociale, che nel nostro caso specifico era quello che prendeva il nome di “padano”, ovvero l’Italia settentrionale, da contrapporsi a quello “levatino”, ovvero dell’Italia centro-meridionale. Nel grande revival dei partiti indipendentisti che l’Europa del XX secolo ha sperimentato, la Lega Nord per l’indipendenza della Padania è stata altresì, occorre dirlo, la più maldestra nella realizzazione prima e la predisposizione della sua particolare “tradizione”. Mentre infatti molti altri partiti indipendentisti europei cercavano in ogni modo di avvalorare e raffinare la tradizione storica degli ethnos di cui si proclamavano portavoce, avvalendosi in questo di storici, scrittori, linguisti e intellettuali romanticamente disposti ad appoggiare una nuova causa indipendentista contro questo o quello stato contribuendo a costruire, più o meno artificialmente, muri e barriere tra il “noi” ed il “loro” del caso, la Lega Nord, banalmente, ignorava quasi completamente questa pratica. L’unico riferimento “intellettuale” della tradizione padana risultava, infatti, un libro intitolato “Noi, Celti e Longobardi” (da cui l’affermazione di Borghezio, presumo), scritto da Gualtiero Ciola, un ex veterinario. Il libro, il cui intento era ricostruire l’identità etnica del Nord Italia, che da storica regione mediterranea sarebbe divenuta un enclave celto-germanica in un mare levantino, è pieno di ricche rivisitazioni ed interpretazioni che lo rendono, a mio parere, un prodotto con un alto contenuto di pseudo-storia, pseudo-archeologia e pseudo-antropologia. Questo per un motivo tutto sommato abbastanza semplice: fonti alla mano, l’Italia settentrionale, di celtico, ma soprattutto di longobardo, ha molto poco. Ma da chi discendono allora i cosiddetti “padani”? Per il segretario della Lega Nord, che continua a mantenere nel suo nome quella particolare frase “per l’indipendenza della Padania”, sarà una brutta sorpresa scoprirlo, ma i “padani”, più o meno come gli altri abitanti d’Italia, discendono da una koiné etnolinguistica che potremmo definire italico-romana, sia pur con alcune aggiunte. La Gallia Cisalpina, infatti, divenne romana già nel III secolo a.C, e completamente romanizzata già alla seconda metà del II. Nella regione, vi erano, è vero, componenti celtiche; ma assieme a loro si trovavano popolazioni liguri, preindoeuropee e decisamente mediterranee; etrusche, giunte nell’area padana molto prima dei Celti, da cui furono poi “sommerse” e inglobate; venetiche, quindi italiche ed estremamente affini agli stessi popoli latini, italici anch’essi. A buona parte di questi popoli, i Galli (quindi Celti), prima dell’arrivo di Roma, imposero la propria lingua e parte dei propri costumi, “celtizzandole”, ma non soppiantandole. Quando la Repubblica romana conquistò l’area, dunque, si trovò di fronte ad una popolazione fortemente eterogenea, non un blocco unico. E poi? E poi Roma produsse, nell’Italia del Nord, quel processo grazie al quale l’Italia per come la conosciamo noi venne per la prima volta unificata: la romanizzazione. Nell’area, nel corso dei secoli, vennero fatti affluire numerosissimi coloni da tutta la parte centro-meridionale della Penisola. Alcuni erano cittadini romani, altri latini, altri ancora appartenenti alle popolazioni italiche “socie” di Roma. Molti venivano tradotti nell’area con una vera e propria formazione di colonie (e difatti molte città dell’Italia settentrionale furono fondate da Roma); altri ancora partirono spontaneamente, giacché, curiosamente in maniera simile agli anni dell’ultimo dopoguerra, il Nord rappresentava anche all’epoca una terra ricca di opportunità. E così dal centro-sud partivano cavalieri etruschi, contadini sanniti, artigiani tarantini: tutta gente che si impiantava nei municipi dell’Italia settentrionale, mescolandosi con la popolazione locale. Ben presto, la “Padania” divenne allora una koinè con gente da ogni parte d’Italia, dove un abitante tipico di Mediolanum poteva tranquillamente annoverare antenati provenienti dal Veneto, dall’Apulia, dall’Etruria e dalla Liguria. Pensate, persino sul Lago di Como arrivarono i “migranti meridionali”, sembra addirittura greco-italici (la toponomastica di alcuni dei paesini sul Lago ce lo dimostra: Dorio, Bellagio, tutti nomi di probabile origine greca). Poi Roma cadde. Nel V secolo d.C, arrivarono i barbari, come sappiamo. Prima i Goti, poi i famigerati Longobardi, da cui i “padanisti” vorrebbero discendere. Ma quanti erano i Longobardi? Circa 100 mila, migliaio più migliaio meno. Alcuni revisionisti del web, in particolare alcuni cultori del nazionalsocialismo italiano che vorrebbero un’Italia “ariana”, parlano invece, non si sa bene su che base, di milioni di longobardi giunti in Italia. Ma la cifra è grottesca, perché è infatti improbabile credere che, in età antica (anzi altomedioevale), potessero avvenire esodi più grandi di 100/150mila persone alla volta. E gli abitanti dell’Italia, ed in particolare quella del Nord, quanti erano? Non abbiamo numeri certi, ma a seguito della guerra greco-gotica, assai feroce, possiamo stimare il numero di abitanti romani dell’Italia tra i 4 ed i 5 milioni, di cui presumibilmente almeno 1,8/2 ubicati nell’Italia settentrionale. I Longobardi arrivarono un po’ ovunque nella Penisola, ma anche volendo credere che la maggior parte si fosse stanziata nel Nord, il rapporto percentuale tra i due gruppi apparirebbe comunque abissale: i Longobardi rappresentavano probabilmente tra il 4 ed il 6% della popolazione altoitaliana; 8, a dire tanto, a fronte invece di un 92-96% di Romani. Anche da questa prima considerazione meramente statistica dovrebbe allora derivare, di per sé, l’assurdità dell’affermazione “discendere dai Longobardi”. Ma in realtà la questione si complica ulteriormente per i padanisti. I Longobardi, lo sappiamo, non erano un popolo dalla mente aperta. “Barbari tra i barbari”, vennero definiti, giacché, a differenza di altri popoli germanici, essi non avevano vissuto in nessun modo la romanità, neanche quella di “confine” derivata dallo stanziare vicino al limes romano, poiché essi, negli anni precedenti, stazionarono nelle regioni dell’Europa centrale. Per questa ragione, la loro era una società che oggi definiremmo francamente razzista. Dove andavano, sviluppavano infatti un sistema di feroce “aparheid”: c’era un “noi”, gli uomini liberi, i guerrieri longobardi, di fede “ariana”, ed un “loro”, i Romani, diversi, inferiori, di fede “cattolica”, da cui rimanere il quanto più possibile distanti. Per questo nelle città occupate si formarono addirittura quartieri separati e i matrimoni misti divennero rare eccezioni. E per la stessa ragione i Longobardi persero, progressivamente, il proprio potere: non integravano e non si integrarono (la conversione al cattolicesimo, ad esempio, arrivò tardissimo), e visto che in un’epoca in cui le guerre erano frequenti il privilegio di prendere le armi e combattere rimaneva l’esclusiva di un gruppo minoritario, quello degli “arimanni”, gli uomini liberi longobardi, il loro numero, progressivamente, calò sotto i colpi degli scontri con altri invasori, con i Bizantini ancora presenti in Italia e, non da meno, sotto i colpi dei gruppi longobardi rivali e concorrenti per il potere. Le percentuali rispetto alla popolazione nativa, dunque, si ridussero enormemente nel tempo, fino a scemare quasi del tutto. E allora? E allora da queste considerazioni non possiamo che trarre una triste conclusione per leghisti e padanisti: la Padania, come regione storico-etnica/linguistica/culturale di ascendenza celto-longobarda, da cui discenderebbe dunque un diritto all’indipendenza rispetto ad un’Italia diversa perché, per usare le parole di Borghezio, fatta di “merdaccie levantine e mediterranee”, non esiste. A dirlo non sono i rosiconi, i gufi, i professoroni, le banche o i poteri forti: è un qualunque storico che abbia dedicato un po’ di attenzione al periodo classico e altomedioevale, nonché alla storia d’Italia. E chiunque vi creda ancora, sappia allora che sta credendo ad un sogno, un delirio, una ricostruzione fantasiosa a tal punto da diventare, invero, grottesca. “Noi, che siamo Celti e Longobardi, e non merdaccia levantina e mediterranea”. Con queste parole, l’allora punta di diamante della Lega Nord Mario Borghezio, qualche anno fa faceva ruggire la folla di Pontida. Il folklore del partito di Umberto Bossi, a sostegno dell’indipendentismo cosiddetto padano, passava infatti per la più classica “invenzione della tradizione”, ovvero quella pratica che in antropologia è nota come l’elaborazione, spesse volte del tutto o in buona parte artefatta, di una memoria, un’origine comune per un determinato gruppo sociale, che nel nostro caso specifico era quello che prendeva il nome di “padano”, ovvero l’Italia settentrionale, da contrapporsi a quello “levatino”, ovvero dell’Italia centro-meridionale. Nel grande revival dei partiti indipendentisti che l’Europa del XX secolo ha sperimentato, la Lega Nord per l’indipendenza della Padania è stata altresì, occorre dirlo, la più maldestra nella realizzazione prima e la predisposizione della sua particolare “tradizione”. Mentre infatti molti altri partiti indipendentisti europei cercavano in ogni modo di avvalorare e raffinare la tradizione storica degli ethnos di cui si proclamavano portavoce, avvalendosi in questo di storici, scrittori, linguisti e intellettuali romanticamente disposti ad appoggiare una nuova causa indipendentista contro questo o quello stato contribuendo a costruire, più o meno artificialmente, muri e barriere tra il “noi” ed il “loro” del caso, la Lega Nord, banalmente, ignorava quasi completamente questa pratica. L’unico riferimento “intellettuale” della tradizione padana risultava, infatti, un libro intitolato “Noi, Celti e Longobardi” (da cui l’affermazione di Borghezio, presumo), scritto da Gualtiero Ciola, un ex veterinario (sic!). Il libro, il cui intento era ricostruire l’identità etnica del Nord Italia, che da storica regione mediterranea sarebbe divenuta un'oasi celto-germanica in un mare levantino, è altresì così pieno di ricche rivisitazioni ed interpretazioni da renderlo rendono, a mio parere, un prodotto con un alto contenuto di pseudo-storia, pseudo-archeologia e pseudo-antropologia, più che di storia vera e propria. Questo per un motivo tutto sommato abbastanza semplice: fonti alla mano, l’Italia settentrionale, di celtico, ma soprattutto di longobardo, ha avuto molto poco. A differenza, dunque, di altri partiti indipendentisti europei, che traggono la propria forza da considerazioni etno-storiche più o meno verosimili (catalani diversi da spagnoli, fiamminghi diversi da valloni, bretoni diversi dai francesi e via discorrendo), l'indipendentismo padano trae forza da leggende metropolitane storicamente poco attendibili, tra le quali la più fantasiosa è, appunto, quella che vorrebbe gli Italiani del Nord seduti al fianco dei Germanici in uno scandinavo Valhalla. Ma se non da Celti e Longobardi, da chi discendono allora i cosiddetti “padani”? Per il segretario della Lega Nord, che continua a mantenere nel suo nome quella particolare frase “per l’indipendenza della Padania”, sarà una brutta sorpresa scoprirlo, ma i “padani”, più o meno come gli altri abitanti d’Italia, discendono da una koinè etnolinguistica che potremmo definire italico-romana, sia pur con alcune aggiunte. La Gallia Cisalpina, infatti, divenne romana già nel III secolo a.C, e completamente romanizzata già alla seconda metà del II. Nella regione, vi erano, è vero, componenti celtiche; ma assieme a loro si trovavano popolazioni liguri, preindoeuropee e decisamente mediterranee; etrusche, giunte nell’area padana molto prima dei Celti, da cui furono poi “sommerse” e inglobate; venetiche, quindi italiche ed estremamente affini agli stessi popoli latini, italici anch’essi. A buona parte di questi popoli, i Galli (quindi Celti), prima dell’arrivo di Roma, imposero la propria lingua e parte dei propri costumi, “celtizzandole”, ma non soppiantandole. Quando la Repubblica romana conquistò l’area, dunque, si trovò di fronte ad una popolazione fortemente eterogenea, non un blocco unico. E poi? E poi Roma produsse, nell’Italia del Nord, quel processo grazie al quale l’Italia per come la conosciamo noi venne per la prima volta unificata: la romanizzazione. Nell’area, nel corso dei secoli, vennero fatti affluire numerosissimi coloni da tutta la parte centro-meridionale della Penisola. Alcuni erano cittadini romani, altri latini, altri ancora appartenenti alle popolazioni italiche “socie” di Roma. Molti venivano tradotti nell’area con una vera e propria formazione di colonie (e difatti molte città dell’Italia settentrionale furono fondate da Roma); altri ancora partirono spontaneamente, giacché, curiosamente in maniera simile agli anni dell’ultimo dopoguerra, il Nord rappresentava anche all’epoca una terra ricca di opportunità. E così dal centro-sud partivano cavalieri etruschi, contadini sanniti, artigiani tarantini: tutta gente che si impiantava nei municipi dell’Italia settentrionale, mescolandosi con la popolazione locale. Ben presto, la “Padania” divenne allora una koinè con gente da ogni parte d’Italia, dove un abitante tipico di Mediolanum poteva tranquillamente annoverare antenati provenienti dal Veneto, dall’Apulia, dall’Etruria e dalla Liguria. Pensate, persino sul Lago di Como arrivarono i “migranti meridionali”, sembra addirittura greco-italici (la toponomastica di alcuni dei paesini sul Lago ce lo dimostra: Dorio, Bellagio, tutti nomi di probabile origine greca). Poi Roma cadde. Nel V secolo d.C, arrivarono i barbari, come sappiamo. Prima i Goti, poi i famigerati Longobardi, da cui i “padanisti” vorrebbero discendere. Ma quanti erano i Longobardi? Circa 100 mila, migliaio più migliaio meno. Alcuni revisionisti del web, in particolare alcuni cultori del nazionalsocialismo italiano che vorrebbero un’Italia “ariana”, parlano invece, non si sa bene su che base, di milioni di longobardi giunti in Italia. Ma la cifra è grottesca, perché è infatti improbabile credere che, in età antica (anzi altomedioevale), potessero avvenire esodi più grandi di 100/150mila persone alla volta. E gli abitanti dell’Italia, ed in particolare quella del Nord, quanti erano? Non abbiamo numeri certi, ma a seguito della guerra greco-gotica, assai feroce, possiamo stimare il numero di abitanti romani dell’Italia tra i 4 ed i 5 milioni, di cui presumibilmente almeno 1,8/2 ubicati nell’Italia settentrionale. I Longobardi arrivarono un po’ ovunque nella Penisola, ma anche volendo credere che la maggior parte si fosse stanziata nel Nord, il rapporto percentuale tra i due gruppi apparirebbe comunque abissale: i Longobardi rappresentavano probabilmente tra il 4 ed il 6% della popolazione altoitaliana; 8, a dire tanto, a fronte invece di un 92-96% di Romani. Anche da questa prima considerazione meramente statistica dovrebbe allora derivare, di per sé, l’assurdità dell’affermazione “discendere dai Longobardi”. Ma in realtà la questione si complica ulteriormente per i padanisti. I Longobardi, lo sappiamo, non erano un popolo dalla mente aperta. “Barbari tra i barbari”, vennero definiti, giacché, a differenza di altri popoli germanici, essi non avevano vissuto in nessun modo la romanità, neanche quella di “confine” derivata dallo stanziare vicino al limes romano, poiché essi, negli anni precedenti, stazionarono nelle regioni dell’Europa centrale. Per questa ragione, la loro era una società che oggi definiremmo francamente razzista. Dove andavano, sviluppavano infatti un sistema di feroce “aparheid”: c’era un “noi”, gli uomini liberi, i guerrieri longobardi, di fede “ariana”, ed un “loro”, i Romani, diversi, inferiori, di fede “cattolica”, da cui rimanere il quanto più possibile distanti. Per questo nelle città occupate si formarono addirittura quartieri separati e i matrimoni misti divennero rare eccezioni. E per la stessa ragione i Longobardi persero, progressivamente, il proprio potere: non integravano e non si integrarono (la conversione al cattolicesimo, ad esempio, arrivò tardissimo), e visto che in un’epoca in cui le guerre erano frequenti il privilegio di prendere le armi e combattere rimaneva l’esclusiva di un gruppo minoritario, quello degli “arimanni”, gli uomini liberi longobardi, il loro numero, progressivamente, calò sotto i colpi degli scontri con altri invasori, con i Bizantini ancora presenti in Italia e, non da meno, sotto i colpi dei gruppi longobardi rivali e concorrenti per il potere. Le percentuali rispetto alla popolazione nativa, dunque, si ridussero enormemente nel tempo, fino a scemare quasi del tutto. E allora? E allora da queste considerazioni non possiamo che trarre una triste conclusione per leghisti e padanisti: la Padania, come regione storico-etnica/linguistica/culturale di ascendenza celto-longobarda, da cui discenderebbe dunque un diritto all’indipendenza rispetto ad un’Italia diversa perché, per usare le parole di Borghezio, fatta di “merdaccie levantine e mediterranee”, non esiste. A dirlo non sono i rosiconi, i gufi, i professoroni, le banche o i poteri forti: è un qualunque storico che abbia dedicato un po’ di attenzione al periodo classico e altomedioevale, nonché alla storia d’Italia. E chiunque vi creda ancora, sappia allora che sta credendo ad un sogno, un delirio, una ricostruzione fantasiosa a tal punto da diventare, invero, grottesca.
Autonomia regionale: il meridione contro la secessione dei ricchi. Ma i ministri grillini si schierano con i governatori del Sud, scrive Paolo Delgado il 15 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Il governo deve ancora chiarire la propria posizione nell’incontro che domani dovrebbe concludersi con la firma dell’accordo sulla cosiddetta ‘ autonomia separata’ di tre Regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia- Romagna. La trattativa era stata avviata un anno fa dal sottosegretario Bressa, governo Gentiloni. Lombardia e veneto chiedono l’attribuzione esclusiva in tutte le 23 aree di competenza previste dall’art. 117 della Costituzione e sinora considerate ‘ materie concorrenti’ tra governo centrale e governi regionali. L’Emilia- Romagna era partita dal chiedere l’attribuzione di 9 aree di competenza, già lievitate a 15. Ma è improbabile che la Regione a guida Pd non chieda di essere uniformata alle due leghiste ove a queste venisse concessa la competenza esclusiva su tutte le aree. E’ già certo che, se l’accordo verrà firmato, altre Regioni chiederanno lo stesso trattamento: Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Marche hanno già avanzato richieste, pur se meno estreme in questo senso. Il pre- accordo siglato da Bressa, con ciascuna delle tre Regioni e separatamente, abbraccia un arco di tempo decennale, passibile però di modifica in qualsiasi momento in caso di accordo in questo senso tra Stato e Regioni, e riguarda cinque materie che dovrebbero diventare competenza esclusiva delle tre Regioni. Non sono secondarie, trattandosi di lavoro, istruzione salute ambiente e rapporti internazionali inclusi quelli con la Ue. Ma Veneto e Lombadia non hanno alcuna intenzione di accontentarsi: «Non firmeremo accordi al ribasso», ha chiarito ieri il governato del Veneto Zaia, specificando che l’autonomia deve riguardare tutte e 23 le aree consentite dalla Carta. I governatori godono del pieno appoggio della ministra Erika Stefani, leghista, e della Lega, che ha fatto inserito nel contratto di governo la legge sulle Autonomie e considera la riforma assolutamente irrinunciabile. I 5S la pensano diversamente, soprattutto perché penalizzerebbe quel sud che costituisce oggi il loro principale bacino elettorale. Ma si può scommettere a colpo sicuro sul fatto che in materia Salvini non arretrerà di un millimetro. Il passaggio delle competenze esclusive su una simile massa di materie comporta un’alterazione massiccia nella divisione degli introiti fiscali tra governo e Regioni. La pre-intesa prevede che, entro un anno, venga superata la ripartizione basata sulla «spesa storica», cioè sul calcolo delle spese degli anni precedenti, per passare al parametro della "spesa standard", quello cioè che indica il costo dei servizi ‘ nelle migliori condizioni di efficienza e appropriatezza’. Uno degli elementi fondamentali per determinare il ‘ fabbisogno standard’ sarebbe ‘ il gettito dei tributi maturati nel territorio regionale’. Di fatto i 9 decimi del gettito delle regioni ricche dovrebbe restare in quei territori, invece di essere redistribuito a favore dell’intero Paese. E’ questa la vera posta in gioco nella partita sull’ "autonomia separata" ed è una posta infinitamente più rilevante delle materia che hanno fornito l’argomento per i titoloni di prima pagina nell’ultima anno, Tav, Quota 100 e RdC inclusi. Veneto e Lombardia chiedono inoltre la gestione totale delle infrastrutture stradali e autostradali e degli aeroporti. L’ “ente concedente”, con relativi introiti, diventerebbe quindi la Regione. Si tratterebbe, come ha scritto Giancarlo Viesti, di una vera e propria «secessione dei ricchi». Verrebbe introdotta di fatto una distinzione tra italiani di serie a, che goderebbero di servizi molto migliori a tutti i livelli ma soprattutto sui fronti della sanità e dell’istruzione, e italiani di serie b. Il sistema dell’istruzione, peraltro, ne uscirebbe completamente modificato, con assunzioni basate sui criteri stabiliti dalle Regioni tra i quali figurerebbe certamente la residenza. La riforma, pur essendo di immensa portata, non dovrebbe neppure essere discussa dal Parlamento e tantomeno emendata. Conte ha già detto di volersi prendere un mese per riflettere, dopo l’eventuale firma dell’accordo domani. Poi il Parlamento voterà, a maggioranza assoluta e non relativa, ma solo per ratificare. Trattandosi di un’intesa tra Stato e Regioni il governo intende infatti appellarsi all’art. 8 della Costituzione e limitare il ruolo del parlamento alla ratifica. Il che, trattandosi di una riforma incisiva quanto e più di una revisione della carta, può in effetti suonare almeno un po’ strano.
Sud: la vendetta degli emarginati renderà il voto ancora più incerto. L’impressione è che nessuna delle proposte politiche presenti nel paese sia in grado di spiccare il volo a Sud, scrive Aldo Varano il 27 gennaio 2018 su Il Dubbio. I giudizi sono unanimi: il risultato elettorale resterà incerto fino al voto. Il sistema elettorale in scena il 4 marzo è inedito e potrebbe innescare processi (e risultati) imprevedibili. L’area dell’incertezza è tanto ampia (37%) da poter sconvolgere qualsiasi previsione. Come si orienterà quest’area? Chi premierà? Alla fine in quanti andranno a votare? Gli interrogativi si moltiplicano nel Mezzogiorno e in Calabria. Qui l’incertezza è più alta e l’astensionismo rischia di arrivare alle stelle. Non c’è il radicamento del nord- est con le percentuali altissime della Lega. Né siamo l’Italia rossa del Centro. Gli orientamenti che scuotono l’Europa e il mondo ancor più e ancor prima che per classi e ceti sociali sembrano incardinarsi per territorio. Il Medwest “arretrato” ha strappato le ali alla Clinton per far volare Trump. L’Inghilterra sofferente del Nord ha determinato la Brexit. La Germania orientale ed comunista ha indebolito la Merkel e i socialdemocratici tedeschi sposando suggestioni hitleriane. Territori contro. Hanno utilizzato il voto come strumento di vendetta sociale perché lasciati indietro dalle parti più dinamiche dei loro paesi. Il Mezzogiorno italiano negli ultimi dieci anni ha conosciuto una crisi più pesante di quella dell’intero paese. Le rielaborazioni dei dati Istat fotografano un Sud che dieci anni fa aveva sei milioni e mezzo di occupati e ora, in ripresa, è ancora inchiodato a sei milioni. Mentre i due milioni e mezzo di disoccupati di 10 anni fa sono esplosi fin tre milioni e mezzo. Il Sud avverte di non essere stato scelto da nessuno come protagonista per la ripresa e l’uscita dalla crisi. Peserà tutto questo e quanto sul voto? L’impressione è che nessuna delle proposte politiche presenti nel paese sia in grado di spiccare il volo a Sud. Il M5s, dicono i sondaggi, riesce solo in parte a captare il disagio. L’impostazione e la sensibilità ligure e nordista del movimento non s’è mai sbilanciata sui problemi del Sud. Di Maio è meridionale, come il Dibba, ma il cuore del duo Casaleggio-Grillo ha sempre battuto da un’altra parte. Difficile capire se qualche foglia di fico potrà nasconderlo. Sicilia a parte, le performance dei 5s successive al 2013 non sono mai state “esagerate” nel Mezzogiorno. Il Cdx è dato in crescita a Sud ma neanche lui “esagera”. Gli gioca contro, forse, il peso non sottovalutabile della componente leghista, cioè di una tradizione che fino non molto tempo fa affidava all’Etna e al Vesuvio (forza Etna, forza Vesuvio) la soluzione (veramente definitiva) del della questione meridionale, a partire dalla scomparsa dei suoi cittadini. Pubblicità? Battute? Certo, sarebbe un’idiozia pensare che veramente i leghisti abbiano sperato in eruzioni vulcaniche capaci di pietrificare tutti i meridionali. Ma tutte le cose che accadono lasciano il segno. E’ vero: in passato il Cdx ha vinto e stravinto a Sud alleato con la Lega. Ma B. aveva inventato l’alleanza differenziata: al Nord (con la Lega) e al Sud (con An) tra loro non alleati. E quando l’alleanza diventò (solo formalmente) organica, i rapporti di forza al suo interno erano tali per cui Fi era quattro volte più forte e più visibile della Lega che ora, invece, è in competizione per la conquista del primo posto. Il pensiero di Salvini capo del governo provoca la pelle d’oca ai meridionali. Il Pd è al governo da cinque anni e governa tutte le Regioni meridionali. Ma questo non ha significato un exploit di questa parte dell’Italia. I governi diretti da Letta, Renzi e Gentiloni sostengono di aver fatto scelte importanti a favore del Sud. Ma il meccanismo fondamentale del dualismo non è stato non dico risolto (che sarebbe in cinque anni pretesa fuori dal mondo) ma neanche seriamente intaccato. Non vi è stata tra i meridionali la percezione di un cambiamento o almeno di un consistente tentativo in questa direzione.
Cosa accadrà quindi al Sud? Il territorio si vendicherà o troverà rifugio nell’astensionismo? Un altro elemento pesa. Le classi dirigenti italiane, politici e non solo, non credono, se non con mille riserve e mai fino in fondo, che sia possibile scommettere sul Mezzogiorno. Cresce nel paese, paradossalmente a partire dal Sud, il convincimento che non ci sia più niente da fare. Il fenomeno che s’è trasformato in un vero e proprio “teorema del mezzogiorno” poggia sull’inconfessato ma corposo convincimento che l’Italia possa fare a meno di risolvere il dualismo (ormai unico caso nella fascia europea di cui facciamo parte). Quando il grasso cola si può in qualche modo accontentare il Sud, quando non cola peggio per loro. Non è lontano il tempo in cui il ministro Tremonti (sempre filoleghista) rilanciò l’antico mantra del “Sud palla al piede del paese” per giustificare i fallimenti di tutte le strategie di ripresa sotto Roma. Dal “teorema mezzogiorno” muovono le proposte generiche che emergono nel dibattito elettorale. Una miriade di microtargeting (proposte per catturare segmenti anche minori di elettorato tenendo conto di aspettative e paure) mentre a sud s’irrobustisce l’esodo di giovani e competenza verso Nord e il resto del mondo. Non c’è traccia, da parte di nessuno dei tre maggiori schieramenti, di un progetto o uno sforzo specifico per questa parte dell’Italia. Eppure non è difficile immaginare che se le cose continueranno ad andar così prima o poi arriverà il momento della vendetta. Per scansarla c’è un solo modo: cancellare quei tre milioni e mezzo di disoccupati che affollano il Sud. Ma per farlo serve un progetto e la voglia di realizzarlo.
Per i comunisti “razzismo” è solo quell’atteggiamento assunto dagli italiani rispetto agli immigrati. I sinistri ignorano il razzismo perpetrato a danno degli stessi italiani.
"Quereliamo Celentano per la mafia a Napoli". L'ira dei napoletani finisce in querela: un'associazione pronta a portare Celentano in tribunale per come ha dipinto la Napoli del futuro nel suo Adrian, scrive Chiara Sarra, Giovedì 24/01/2019, su "Il Giornale". I riferimenti alla "Mafia International" che dominano la Napoli del futuro nel cartone Adrian, la serie animata di Adriano Celentano? Possono costare caro al Molleggiato. Come racconta il portale Vesuviolive, infatti, è stata annunciata una querela per l'artista. "Abbiamo dato incarico ai nostri consulenti di scaricare e trascrivere i file e video della trasmissione di Canale 5 in cui per aumentare audience si è svolto un ingiustificabile spettacolo in danno dell’immagine di Napoli e dei napoletani", spiegano dall'associazione NoiConsumatori, "Civilmente e soprattutto in sede giudiziale tali gratuite e dannose offese amplificate dalla tv devono essere stigmatizzate e punite secondo legge se non si vuole trasformare la tv e lo spettacolo in un amplificatore di insulti e violenza verbale. Non si può parlare senza controllo e dare appellativi di mafia (cancro del mondo e non di Napoli) per proprio uso e profitto, ma purtroppo certe persone fanno informazione e business in questo modo e quindi preferiamo vederle solo in tribunale. Con il risarcimento danni e con i loro soldi, si spera accompagnati da scuse e pentimento quanto prima visto che sbagliare è umano ma perseverare è diabolico, si potranno realizzare tanti spettacoli iniziative sociali a tutela della vera arte della canzone e del cinema e anche dello sviluppo turistico di Napoli".
Adrian, arriva la querela per Celentano: “Offese a Napoli per aumentare audience”, scrive Vesuvio live il 24 gennaio 2019. Annunciata la prima querela per Adriano Celentano dopo la polemica nata per il cartoon Adrian che ha etichettato Napoli come “Mafia International”. A darne notizia è via social Angelo Pisani dell’associazione Noiconsumatori che difenderà Napoli insieme a Sergio Pisani. “Abbiamo dato incarico – spiega Pisani, commentando un post – ai nostri consulenti di scaricare e trascrivere i file e video della trasmissione di Canale 5 in cui per aumentare audience si è svolto un ingiustificabile spettacolo in danno dell’immagine di Napoli e dei napoletani. Civilmente e soprattutto in sede giudiziale tali gratuite e dannose offese amplificate dalla tv devono essere stigmatizzate e punite secondo legge se non si vuole trasformare la tv e lo spettacolo in un amplificatore di insulti e violenza verbale”. Per l’avvocato “non si può parlare senza controllo e dare appellativi di mafia (cancro del mondo e non di Napoli) per proprio uso e profitto, ma purtroppo certe persone fanno informazione e business in questo modo e quindi preferiamo vederle solo in tribunale. Con il risarcimento danni e con i loro soldi, si spera accompagnati da scuse e pentimento quanto prima visto che sbagliare è umano ma perseverare è diabolico, si potranno realizzare tanti spettacoli iniziative sociali a tutela della vera arte della canzone e del cinema e anche dello sviluppo turistico di Napoli”. Pisani, però, si scaglia anche contro i responsabili della rete che “non sono intervenuti per censurare e cessare tali violazioni né il giorno dopo hanno chiesto scusa. In casi del genere chi ha la responsabilità dell’organizzazione interviene e ferma il conduttore, l’ospite e il pubblico e non dà modo di sviluppare condotte illegittime e, comunque, ci si dissocia subito non approfittando solo dell’audience”. Una nuova dura presa di posizione che arriva dopo quelle del sindaco di Napoli de Magistris e del noto giornalista partenopeo Sandro Ruotolo.
Il manuale del perfetto sovranista in venti episodi di ordinaria attualità. Vuoi essere anche tu al passo con i tempi? Butta i vestiti dei barboni, scheda gli scienziati, tieni i migranti ostaggio sulle navi, sradica panchine e chiedi agli stranieri documenti impossibili da ottenere. Ecco le azioni fondamentali a cui ispirarsi, tratte da eventi accaduti davvero, scrive Susanna Turco il 16 gennaio 2019 su "L'Espresso".
Spacciare disumanità per efficienza. Oppure, a scelta, tacciare la pietà di incoerenza. Concentrarsi su Matteo Salvini, che ci riesce meglio di tutti. Studiarlo. Ad esempio, solo in ultimo, per il caso dei 49 migranti in mare sulle navi Sea Eye e Sea Watch. «Non cambio idea, non sbarca nessuno», ha detto quando i naufraghi si trovavano in mezzo al mare da 18 giorni e tre di loro avevano smesso di mangiare. «Accogliere quindici famiglie di migranti sarebbe un segnale di cedimento, che farebbe dire agli scafisti 10 oggi, 15 domani, vediamo, continuiamo a prenderli. Io dico agli scafisti “basta, stop, fine, chiuso”. Sono coerente».
Sostenere chi lo fa. «Risveglio con #SalviniNonMollare primo nei trend Twitter! Grazie Amici e buongiorno, io non mollo!» (tweet di Matteo Salvini).
Spacciare per chiusi luoghi aperti. Può sembrare difficile a prima vista, soprattutto per grandi spazi. Invece si può. Accade da mesi nei porti italiani, che non sono mai stati chiusi anche se lo sembrano. L’unico strumento concreto per farlo sarebbe infatti un decreto. L’articolo 83 del Codice della navigazione prevede che sia il ministro dei Trasporti, non quello degli Interni, a poter «limitare o vietare il transito o la sosta di navi mercantili nel mare territoriale per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e (...) per motivi di protezione dell’ambiente marino. Cosa che il titolare alle Infrastrutture, Danilo Toninelli non ha mai fatto. Strepitosa l’argomentazione da lui fornita: «Non ho emanato alcun decreto di chiusura dei porti perché non serve».
Eludere. Rilasciare interviste in cui non si nominano i porti, pur essendone responsabili. Difficilissimo. Ci riesce solo Toninelli.
Atteggiarsi a Schindler. Come il premier Conte che parla di accogliere 15 migranti su 49, oppure il vice Di Maio che dice solo donne e bambini (su consiglio del presidente della Camera Fico che questa estate ha fatto altrettanto). Diversivi: cambiare mezzi di soccorso, proponendo di utilizzare gli aerei in luogo di navi - come se fosse quello il punto.
Scacciare extracomunitari, ribaltare banchetti. Se ministri, dotarsi di scorta che all’occorrenza allontani stranieri che vendono oggetti (lo ha fatto quella del titolare dell’Interno a Teramo, il 5 gennaio). Se meno potenti, accontentarsi della forza pubblica. Per esempio a Genova, fine dicembre, due agenti hanno ribaltato un banchetto in via San Lorenzo. «Le calamite che cadevano hanno sferragliato così forte che il tempo si è fermato. I turisti attoniti, l’ambulante che scappava divincolandosi dal vigile. A mio figlio è caduto il cono gelato e mi ha chiesto “ma possono farlo?”», ha raccontato una mamma su Facebook. Se non presenti forze dell’ordine, pretenderle, convocarle a gran voce: a ottobre, sul Flixbus Trento-Roma una signora lo ha fatto perché un venticinquenne di origini senegalesi, Mamadou, residente a Bolzano da 15 anni, pretendeva di sedersi accanto a lei, avendo il biglietto che indicava quel posto (Alla fine lui è stato spostato in fondo al bus).
Gettare vestiti altrui e vantarsene. Il vicesindaco leghista di Trieste, Paolo Polidori, imprenditore, venditore di distributori automatici di bevande, si è impadronito di piumino, altri tessuti e una bottiglietta di plastica di Mesej Mihaj, rumeno, 57 anni, clochard, e li ha gettati nel cassetto dell’indifferenziata in via Carducci. Indi, lo ha annunciato sulla sua pagina Facebook, specificando di aver compiuto il gesto «con soddisfazione, da normale cittadino che ha a cuore il decoro della sua città» e di essersi poi «lavato le mani».
Brandire spray. «Sei nero, ora ti facciamo diventare bianco». Così a Bari, il 15 ottobre, un bambino di otto anni e mezzo è stato inseguito da un gruppo di ragazzini che prima del suo passaggio erano intenti a imbrattare auto.
Minimizzare, distinguere. Chiudere gli stadi per i cori razzisti durante le partite? Quei luoghi sono meglio di come li raccontano, ha spiegato Salvini: «I dati a nostra disposizione, periodo dal primo luglio al 30 novembre 2018, ci dicono che il calcio è uno sport più sano rispetto al 2017». Al contrario, la possibilità di chiudere gli stadi «è un tema scivoloso. Perché è un funzionario del ministro dell’Interno che si prende l’onere di dire sì o no. Poi si rischia di mettere in mano a pochi il destino di tanti». Già.
Ispirarsi a Kafka. Richiedere (specie ai migranti) documenti praticamente impossibili da ottenere. Di particolare soddisfazione se si guida una amministrazione pubblica. Ad esempio, la certificazione sui patrimoni posseduti nel Paese d’origine, chiesta a Lodi per mandare i figli alle mense scolastiche, o a Pisa per accedere alle graduatorie delle case popolari.
Copiare filastrocche. A Monfalcone (Gorizia), l’assessore leghista alla sicurezza, Massimo Asquini, ex sovrintendente di Polizia, ha pubblicato su facebook la seguente filastrocca: «Il migrante vien di notte con le scarpe tutte rotte/ vien dall’Africa il barcone per rubarvi la pensione; nell’hotel la vita è bella nel frattempo ti accoltella; poi verrà forse arrestato e l’indomani rilasciato». L’interessato: «Non c’è nulla di offensivo, è quello che tutti gli italiani pensano. E la filastrocca non è roba mia, l’ho copiata dal web. In ogni caso non è un’offesa per nessuno. È uno scherzo in tema con la leggerezza del giorno della Befana». Lo difende anche la sindaca leghista Anna Maria Cisnit, la prima a guidare una giunta di centrodestra in città dal dopoguerra al 2016.
Schedare scienziati. La ministra della Salute Giulia Grillo che svolge una indagine sulle opinioni politiche dei membri del Consiglio superiore della Sanità. Il premier Giuseppe Conte minimizza (vedi alla voce): «Più che una indagine mi sembra sia stato uno scambio di mail. Non penso avesse qualche rilievo ai fini delle valutazioni di competenza del ministro».
Rifarsi il guardaroba. Tendenza estrema destra. Ispirazione, ancora Salvini. Esempi: giubbotto d’ordinanza di Casa Pound sfoggiato in tribuna d’onore allo stadio olimpico, t-shirt di una linea ultrà di estrema destra «Offence best defence» indossata in estate per ritrarsi intento a giocare a flipper. Maglie degli alpini, invece, con moderazione.
Svegliare persone in piena notte, brandendo il telefonino. In una mezzanotte di fine agosto, il vicesindaco Polidori (vedi sopra) in diretta Facebook aveva sgomberato personalmente un gruppo di pakistani e afgani accampati nella zona del molo di Trieste. Li svegliava a uno a uno e ripeteva: «Dovete andare via». Lo rifarebbe di corsa: «Il mio comportamento è stato impeccabile. Non c’è possibilità di avere torto».
Scardinare panchine. Michele Conti, 48 anni, sindaco leghista di Pisa, ha disposto di togliere le panchine dal piazzale antistante la stazione. Motivo: erano troppo comode, c’era chi ci si sdraiava sopra. Cosa vietatissima. Tra gli altri divieti introdotti: sedersi sui gradini, sulle rastrelliere, sulle spallette del Lungo Arno, mangiare, bere, dormire, costruire moschee. Ogni sera l’idropulitrice spara acqua sulle pietre di piazza dei Cavalieri, deserta.
Smontare brandine. Alle 2.03 del 4 gennaio, stazione Tiburtina di Roma, nella sala per l’emergenza freddo predisposta dal comune di Roma su 30 brandine 24 erano vuote (sono state poi smontate per inutilizzo). Fuori dalla sala, 19 migranti dormivano al freddo, in terra, perché il Dipartimento alle politiche sociali non aveva permesso loro di entrare. Volendo, ha poi precisato, potevano andare alla stazione Termini. Con un comodo autobus notturno - a trovarlo.
Sgomberare. Passare con le ruspe sul Baobab Experience, associazione che aveva allestito un centro di accoglienza informale per migranti nei pressi della stazione Tiburtina, che ne ha ospitati circa 80 mila in cinque anni.
Urlare negli altoparlanti. Come la capotreno Trenord del regionale 2653 Milano-Cremona-Mantova, che ad agosto – avendo davanti a sé un rom che si rifiutava di scendere - ha sbloccato il citofono di bordo con la chiavetta in dotazione e via altoparlante ha annunciato: «I passeggeri sono pregati di non dare monete ai molestatori. E agli zingari: scendete alla prossima fermata perché avete rotto i c.»
Ringraziare chi lo fa. «Farò tutto quello che è in mio potere perché la capotreno non si a punita. Anzi fosse per me dovrebbe essere ringraziata» (Matteo Salvini, 10 agosto).
Sognare droni. «Abbiamo 54 chilometri di confine da controllore. Tutta foresta. Abbiamo pensato che dei droni, con delle termo camere, potrebbero essere d’aiuto per identificare i migranti anche di notte, anche quando passano sotto le fronde degli alberi. Dobbiamo fermare l’invasione» (il vicesindaco di Trieste in una intervista a La Stampa)
A proposito del Titolo di Libero sui “Terroni”.
Gli opinionisti del centro-nord Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Ergo: COGLIONE. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali. Si perde se si rincorre il Sud come prossimo passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia. Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Terroni, in Italia comandano loro: per questo sono tutti contro Matteo Salvini, scrive l'11 Gennaio 2019 Azzurra Noemi Barbuto su Libero Quotidiano. Mentre vengono intavolati e consumati dibattiti perditempo in cui dotti opinionisti sentenziano che questo governo è a trazione leghista, per poi essere contraddetti da altri colleghi i quali sostengono che a tracciare le linee-guida dell'esecutivo siano i cinquestelle, un dato emerge incontrovertibile: i terroni nelle istituzioni attualmente la fanno da padroni. E sottolineo questo trend con fierezza, poiché sono terrona anch' io, pur non essendo una tifosa del derby Nord-Sud e non appassionandomi a romantici e noiosi campanilismi oramai desueti. Del resto sembra che i rancori intestini abbiano ceduto il passo a idiosincrasie intestinali nei confronti di ciò che sta oltre i confini nazionali e non da Roma in su o da Roma in giù. Pressurizzati come siamo da un'Europa severa che ci impone regole e austerità e da un indisciplinato continente africano che preme su di noi come ettolitri contro la diga ci siamo scoperti tutti abitanti di una stessa nazione, l'Italia, e abbiamo rispolverato il patriottismo, coniando altresì un nuovo termine, ossia «sovranismo», e reinventandone un altro che già fu in voga, ovvero «populismo». Abbiamo così sostituito al tradizionale dualismo polentone-terrone, divenuto adesso binomio politico addirittura vincente, la dicotomia italiano-extracomunitario. Ed è accaduto persino l'impossibile: ossia che il leader della Lega Nord, deposte le felpe verdi da montanaro, sia diventato vicepremier di un governo in cui il connubio tra settentrionali e meridionali non è stato mai così spiccato e dove su 18 ministri ben 7 sono terroni e 3 di Roma. In Consiglio dei ministri - Anche il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è nato e cresciuto nel Mezzogiorno, e precisamente a Volturara Appula, paesino della provincia di Foggia, Puglia, prima di fare le contestate esperienze professionali (inserite nel suo curriculum) presso l'Università di Yale e la Sorbona. E terrone non è soltanto il premier, ma anche la prima carica dello Stato, il mite presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sotto la cui apparente flemma brucia e bolle l'animo di un palermitano doc. Sergio, che è stato tirato su a panelle di ceci e politica, dato che il suo papà, Bernardo, ligio democristiano, fu ben cinque volte ministro tra i ridenti anni Cinquanta e Sessanta, ha vissuto sulla sua pelle anche gli aspetti oscuri e mostruosi della sua terra natale. Suo fratello maggiore Piersanti, allora presidente della Regione Sicilia, nel 1980 fu ammazzato da Cosa Nostra. Indro Montanelli diceva che «i continentali hanno delle ragioni che la ragione siciliana non conosce», per sottolineare il fatto che gli abitanti dell'isola possiedono un modo tutto loro di essere e di pensare, inciso in codici di comportamento. Osservando Mattarella, mentre se ne sta abbottonato nel suo ermetico silenzio, con la sua aria mesta e serena ed i suoi occhi azzurro cielo, ci si aspetta che tutto ciò che dirà e farà sarà per forza giusto. La tesi sui neomelodici - Ed è meridionale anche la terza carica dello Stato. Sì, lui, proprio lui, l'uomo che confonde l'ègida con Egidia, che ancora non sappiamo chi diavolo sia, il presidente della Camera dei deputati, Roberto Fico da Napoli, appassionato di napoletanità tanto da redigere una tesi di laurea dal titolo "Identità sociale e linguistica della musica neomelodica napoletana". Anche lui, come il premier, è volato all' estero, precisamente ad Helsinki, dopo essersi aggiudicato una borsa di studio Erasmus, giusto per tentare di scrollarsi di dosso un po' di provincialismo. Tra le varie occupazioni ricoperte, ove figura anche quella di impiegato in un call-center, Fico ha fatto l'importatore di tessuti dall' Africa. E per un bizzarro déjà vu ora si batte perché importiamo immigrati dalle stesse sponde. Nel triumvirato di governo costituito dal primo ministro Conte e dai titolari dei dicasteri dell'Interno e del Lavoro, in ordine Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i polentoni sono in minoranza schiacciante. Pure Luigino infatti è terronissimo. Nato ad Avellino e cresciuto a Pomigliano d' Arco, in provincia di Napoli, dove ha trascorso anche le estati in ammollo nella piscina smontabile della villetta rigorosamente abusiva di famiglia, Di Maio non aveva le idee chiare, conseguita la maturità classica, riguardo ciò che avrebbe fatto nella sua esistenza. Si iscrisse prima alla facoltà di ingegneria, poi ci ripensò e passo con un volo pindarico a quella di giurisprudenza, che con la prima ha molta attinenza del resto, proprio come il giorno e la notte. Alla fine, Luigino tagliò la testa al toro: nel dubbio amletico su cosa studiare preferì mollare direttamente gli studi e distribuire bibite allo stadio. Forse che intravedeva nel prossimo futuro una brillante carriera politica in cui laurea, preparazione, competenze, sarebbero stati elementi superflui, addirittura inutili? Gli altri ministri provenienti dalla punta dello stivale sono la svirgolata Barbara Lezzi, leccese, ministro per il Sud, la quale per ogni riccio ha una gaffe; Alfonso Bonafede, alla guida del dicastero della Giustizia, di Mazara del Vallo, provincia di Trapani; il napoletano Sergio Costa, ministro dell' Ambiente; la catanese Giulia Grillo, ministro della Salute; il ministro per la Pubblica Amministrazione Giulia Bongiorno, palermitana tanto quanto Mattarella, donna di ferro e terrore dei fori italiani; infine, Paolo Savona, ministro per gli Affari europei tacciato di antieuropeismo, nato a Cagliari. Giudici ed economisti - E non è mica finita qua. Ai vertici istituzionali siedono altri uomini del Sud: Angelo Borrelli, capo della Protezione civile, della provincia di Latina; Giorgio Lattanzi, presidente della Corte Costituzionale, romano; Giovanni Mammone, avellinese, primo presidente della Corte Suprema di Cassazione; il napoletano Filippo Patroni Griffi, presidente del Consiglio di Stato; Ignazio Visco, governatore della Banca d' Italia, anch'egli del capoluogo campano; e infine il barese Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d' Italia e presidente dell' Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, l' IVASS. Per la legge del contrappasso il polentone Salvini, proprio lui, si trova ora a dividere il potere e il timone del governo con un esercito di terroni. Inevitabile che qualche volta cali le braghe, per quieto vivere, anzi per quieto sopravvivere, almeno per qualche mese ancora. I leghisti volevano frazionare l'Italia e hanno poi finito - paradosso - con l'unirla mediante il matrimonio combinato (e scombinato) tra Matteo e Luigi. Non vi è dubbio su chi dei due fuori casa porti i pantaloni. Ma tra le mura domestiche è tutta un'altra storia: a comandare sono i terroni. Punto. La maggioranza. Azzurra Noemi Barbuto
“Comandano i terroni”: tutti contro il titolo-shock di Libero. Di Maio in testa, scrive Ludovica Colli l'11 Gennaio 2019 su Primato Nazionale. “Comandano i terroni”, titola Libero e il vicepremier Luigi Di Maio va all’attacco, via Twitter, contro il “giornale finanziato con soldi pubblici, anche quelli dei terroni”. “Ecco – prosegue il capo politico del M5S – la preziosa informazione da tutelare con i vostri soldi! Tranquilli abbiamo già iniziato a togliergliene da quest’anno e nel giro di 3 anni arriveranno a zero”, assicura. “P.S. – aggiunge – l’Odg rimarrà di nuovo in silenzio?”. “Questo non è giornalismo, non è informazione”, gli fa eco su Twitter il capogruppo del Movimento 5 stelle alla Camera, Francesco d’Uva. Il titolo provocatorio del quotidiano milanese diretto da Vittorio Feltri ha scatenato la polemica politica. In effetti – argomenta il quotidiano – dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, siciliano doc, al premier Giuseppe Conte, nato a Volturara Appula, in Puglia, sono molti i nomi di meridionali in cariche importanti, tutti citati dalla giornalista Azzurra Noemi Barbuto. “E sottolineo questo trend con fierezza, poiché sono terrona anch’io”, specifica la stessa autrice nel pezzo. Ma la scelta della parola “terroni” a tutta pagina è stata duramente condannata praticamente da tutti. “Libero, il quotidiano del parlamentare FI con il record di astensionismo Antonio Angelucci, ha aperto stamattina con il titolo ‘Comandano i Terroni’, alludendo alle cariche istituzionali ricoperte da uomini e donne del Sud. L’ennesima prima pagina vergognosa di un quotidiano che negli ultimi anni ha ricevuto milioni di euro di soli contributi diretti statali e che ancora continua a riceverne”, è la condanna di Veronica Giannone, portavoce del M5S alla Camera dei deputati. “Terroni e negri, è sempre quello il cruccio dei certa gente. Possono cambiare nome e sbraitare ‘prima gli italiani’, ma l’unico italiano che conoscono è quello che vive sopra il Po, è ricco e anche un po’ evasore. Razzisti incalliti”. Commenta invece il segretario nazionale di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, deputato di Liberi e Uguali. “Se davvero comandassero i terroni, come dice Libero, oggi non avremmo un paese che va a due velocità…”, sottolinea invece l’ex presidente del Senato, il palermitano Renato Schifani. “Quando si ricoprono alte cariche si guarda al paese e non al territorio di provenienza – spiega il senatore di Forza Italia – La storia politica del nostro paese ci conferma questo dato”. Se l’Ordine dei giornalisti – chiamato in causa da Di Maio – non si è ancora espresso, la Federazione nazionale della stampa condanna duramente la scelta del giornale diretto da Feltri: “Il titolo odierno di apertura del quotidiano Libero, dedicato ai ‘terroni’ ai vertici delle istituzioni, non può essere considerato una provocazione e neanche un divertissement. Senza voler invadere le competenze dell’Ordine dei giornalisti in materia deontologica, è semplicemente inaccettabile perché in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione e anche con i principi della Carta di Roma, alla quale la Federazione nazionale della Stampa italiana ha aderito”. Così, in una nota, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Fnsi, che attaccano però anche il governo, giudicando “altrettanto inaccettabile l’esultanza del vicepremier Luigi Di Maio per il taglio del fondo per l’editoria, che non colpirà soltanto Libero, ma anche tante altre testate, assestando un colpo mortale al pluralismo dell’informazione e al mercato del lavoro”. “In democrazia – spiegano Lorusso e Giulietti – la chiusura di un giornale non è mai una bella notizia, neanche quando non se ne condivide la linea politica. Un esponente di governo che esulta per il taglio dei fondi all’editoria rende ancor più palese la sua idea di democrazia. Utilizzare il potere di legiferare per compiere ritorsioni e consumare vendette nei confronti di un settore industriale strategico per la democrazia e di una categoria di professionisti, come è recentemente avvenuto, non è degno di un Paese civile e democratico”, conclude la Fnsi. Ludovica Colli
Libero e la prima pagina "Comandano i terroni". "Comandano i terroni": la (stupida) prima pagina di Libero. "Ai meridionali tre cariche istituzionali su quattro. Ecco perché Salvini ha tutti contro", si legge sul quotidiano fondato e diretto da Vittorio Feltri, che fa un'analisi insensata e provocatoria dei rapporti di forza tra meridionali e settentrionali nel governo, scrive Violetto Gorrasi l'11 gennaio 2019 su Today. Libero ha il gusto della provocazione, non lo scopriamo certo oggi. Spesso il quotidiano diretto da Vittorio Feltri e Pietro Senaldi - sarà per il calo delle vendite, sarà per "vocazione"... - cerca di attrarre l'attenzione con titoli ad effetto (qui e qui alcuni esempi). Titoli che non di rado sfociano nell'insensatezza, nel cattivo gusto, superando il limite della decenza. E' il caso di oggi, venerdì 11 gennaio: Libero titola a tutta pagina "Comandano i terroni", usando questo appellativo caricato di una connotazione spregiativa per gli italiani del Sud per fare un'analisi (insensata e provocatoria a parer nostro) dei rapporti di forza tra meridionali e settentrionali nel governo. "Ai meridionali tre cariche istituzionali su quattro", scrive il quotidiano evidenziando la superiorità numerica di "quelli del Mezzogiorno" ed elencando le alte cariche dello Stato e i ministri nati e cresciuti al Sud."Mattarella capo dello Stato, Conte premier e Fico presidente della Camera sono del Sud - si precisa nel sommario -. Ecco perché Salvini ha tutti contro". Come se, automaticamente, essere del Sud significasse necessariamente essere contro la Lega e i settentrionali. E viceversa. Una contrapposizione davvero puerile e insensata. Una logica da coro da stadio più che da quotidiano che deve dar conto del confronto politico. Azzurra Noemi Barbuto, autrice dell'articolo, dopo poche righe ci tiene a chiarire: "Sottolineo questo trend con fierezza, poiché sono terrona anch’io, pur non essendo una tifosa del derby Nord-Sud e non appassionandomi a romantici e noiosi campalinismi ormai desueti". Non ci sarebbe nessun intento discriminatorio, dunque. Ci crediamo poco. Anche perché subito dopo il quotidiano stila la lunga lista dei "terroni". Si parte dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, poi Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, e poi Roberto Fico, presidente della Camera. Si prosegue con il vicepremier M5s Luigi Di Maio e poi, ancora, con i ministri: Barbara Lezzi (Sud), Alfonso Bonafede (Giustizia), Sergio Costa (Ambiente), Giulia Grillo (Salute), Giulia Bongiorno (Pubblica amministrazione), Paolo Savona (Affari europei). E leggiamo anche che "nel governo il connubio tra settentrionali e meridionali non è stato mai così spiccato, su 18 ministri ben 7 sono terroni e 3 di Roma". La prima pagina di Libero di oggi diventa prima un caso social - è la polemica del giorno su Twitter e Facebook - e poi politico. Luigi Di Maio, uno dei "terroni" menzionati da Libero, è il primo a prendere posizione."Buongiorno con la prima pagina di Libero, giornale finanziato con soldi pubblici, anche quelli dei terroni. Questa è la preziosa informazione da tutelare con i vostri soldi! Ma tranquilli: abbiamo già iniziato a togliergliene da quest'anno e nel giro di 3 anni arriveranno a zero. P.S. Anche questa volta l'Ordine dei giornalisti rimarrà in silenzio?", scrive su Facebook. "Questo non è giornalismo, non è informazione", gli fa eco su Twitter il capogruppo del Movimento 5 stelle alla Camera, Francesco D'Uva. Questa, invece, la nota dell'Ordine dei giornalisti: "Due modi diversi di voler male al giornalismo e di essere irrispettosi dei cittadini che hanno il diritto di essere correttamente informati. Per il titolo strillato del quotidiano Libero e i relativi contenuti è stata già predisposta la segnalazione al consiglio territoriale di disciplina. Recentemente il Tribunale di Milano ha confermato, su uno dei tanti brutti titoli di Libero che costituiscono un caso, una sanzione emessa dall'ordine dei giornalisti". L'Odg, nelle parole del suo presidente Carlo Verna, critica però anche il commento del vicepremier grillino (che ha colto l'occasione per ribadire il taglio dei contributi pubblici all’editoria): "E' altrettanto inaccettabile il post di Luigi Di Maio che, strumentalizzando la vicenda, torna a compiacersi per i tagli al sostegno all’editoria. Attendiamo che il premier Conte e il sottosegretario Crimi attivino quel tavolo di ragionamento critico sui tagli all’editoria promesso in diretta dal Presidente del Consiglio durante la conferenza di fine anno. Imputare le colpe del quotidiano Libero a tutta la stampa libera è purtroppo perfettamente in linea con gli insulti generalizzati per i quali Di Maio è a sua volta atteso da un consiglio di disciplina". Nel pomeriggio, dopo le polemiche, è arrivata la replica del direttore editoriale di Libero, Vittorio Feltri. "Non mi sorprende Di Maio, che sicuramente non è analfabeta, ma illetterato, altrimenti saprebbe che terrone è termine colloquiale, scherzoso, senza valenze negative (sic!), come polentone", dice all'AdnKronos. "Nel nostro articolo non c'è alcuna connotazione negativa visto che diciamo come dal sud hanno preso tante cariche, pur non contando un ca... economicamente", assicura il direttore editoriale di Libero. "Il problema - spiega rivolgendosi ai Cinque Stelle - è che sono ignoranti come travi". "Di Maio, se sapesse leggere avrebbe letto l'articolo della giornalista che è una leggermente calabrese, di Reggio Calabria e non se ne vergogna", sottolinea Feltri. Che aggiunge come "inoltre la giornalista che lo ha firmato scrive anche 'polentone' e nessuno se ne è lamentato".
Vittorio Feltri e la prevalenza del cretino: "Vi spiego cosa significa la parola terrone", scrive Vittorio Feltri il 12 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano". La prevalenza del cretino si è confermata. Il nostro titolo di ieri è stato considerato offensivo nei confronti dei meridionali, i quali dovrebbero invece essere orgogliosi di dominare la scena istituzionale e quindi di dirigere il Paese. Terrone infatti è un termine consolidato nel linguaggio colloquiale e significa - consultare il dizionario etimologico, per favore - lavoratore della terra e viene oggi usato in chiave scherzosa e non certo per denigrare la gente del Sud. Purtroppo fa più danni l'ignoranza, che alimenta il pregiudizio e la malafede, della cattiveria. È notorio. Io sono di Bergamo e non mi adonto se qualcuno mi dà del polentone, cioè del mangiatore di polenta, cosa peraltro vera. Segnalo agli illetterati, non solo della politica, che l'autrice del delizioso pezzo incriminato ingiustamente, Azzurra Noemi Barbuto, è nata e cresciuta a Reggio Calabria e si è laureata a Messina. La quale nel testo si dichiara con fierezza terrona ed è da idioti pensare che ella abbia inteso così screditarsi. Il problema è che all'incultura si aggiunge la superficialità e ci si accanisce, utilizzando i social, su chi conosce la lingua e ha dimestichezza con essa. Ormai non si fa più la guerra alle opinioni bensì al vocabolario. Che malinconia. Per completare l'opera, ricordo che Pino Aprile, già ottimo inviato del settimanale Oggi, ed esponente di punta del giornalismo meridionalista, scrisse due best seller decisivi: Terroni, il primo, e il secondo Il Sud puzza. Centinaia di migliaia di copie vendute. A nessun fesso è venuto in mente di condannare i citati libri dai titoli menzionati. Se terrone è una parola accessibile per Aprile, perché non può esserlo per Libero? I signorinetti dell'Ordine degli scribi mi spiegano con quale criterio giudicano la liceità o meno del lessico familiare? Vittorio Feltri
"Il Mezzogiorno è stato stuprato. Eppure...". Feltri, la scomodissima verità sui meridionali, scrive il 13 Gennaio 2019 "Libero Quotidiano". Botta e risposta tra Raffaele Auriemma e Vittorio Feltri.
La logica del "terronismo" come arma di difesa nei confronti del meridionali che governano, caro direttore non funziona più. Perché cresce il numero di quelli come me, che conoscono la vera storia del Paese e che si lasciano scorrere addosso insulti e contumelie: noi meridionali sorridiamo di fronte a chi pretende che il Sud del Paese sia un territorio a parte, che rappresenti un'enclave inferiore, forse addirittura un genere diverso da quelli che vivono al Nord. Un ragionamento del genere è frutto di ignoranza, ma pesante ed alimentata anche da un difetto gravissimo: si parla di luoghi che, probabilmente, mai si sono vissuti così bene da poterli valutare sotto il profilo della popolazione. Sì, come scrive Libero "comandano i terroni", perché tutta l'Italia si era stufata del marciume prodotto da chi aveva raso al suolo la credibilità della nostra repubblica. Tutta gente del Nord, varesini, pisani o fiorentini che hanno fatto (quasi) tutto contro l'italica popolazione. E vedendo la spaventosa corruzione alla base dello scandalo che ha devastato Roma, allora sì, l'elettore medio ha capito che è molto meglio se a governare ci fossero i siciliani, i pugliesi, i campani, cioè quelli che nell' immaginario collettivo erano da sempre sinonimo di delinquenza e malaffare. Però capisco pure la vicinanza di vedute fra il quotidiano "Libero", cioè il giornale della Lega Nord, ed il ministro Matteo Salvini, con il tentativo di giustificare, eventualmente, il progressivo allontanamento del leader leghista da M5S. Ma questi sono interessi vostri, per difendere i quali il direttore Senaldi ha trovato corretto lanciare il solito spruzzo di fango verso i detestati "terroni". L' espressione in quanto tale potrebbe anche non essere offensiva, anche perchè rappresentativa di una realtà che prima del savoiardo sbarco nel Regno delle due Sicilie, era prerogativa primaria dei territori a Nord dello Stivale. E non sfuggirà a chi appella il Sud in tal modo, che proprio nelle "terre" del Nord, l'agricoltura era l'unica fonte di reddito e di sostentamento, fino a quando le guerre tra Comune e Comune generarono una tremenda povertà ed una forte insufficienza della produzione agricola, tanto che le genti si nutrivano solo di erbe selvatiche, d' ogni genere, ma sempre e solo erbe. Scoppiarono carestie, con fanciulli macilenti, braccia e gambe insecchite, e la peste portata dai Lanzichenecchi fece il resto. Io non ho mai sentito un uomo del Sud cercare in questo ambito l'offesa da rivolgere al suo simile del Nord, così come invece l'utilizzo del termine "terrone" rappresenta ancora una forma subdola per svilire le capacità in dotazione agli uomini del Sud, una sorta di retaggio di quella becera discriminazione tendente a creare una distanza con chi, sotto sotto, si teme ci possa accorgere che non ha meno qualità di chi sfoggia la solita aria di superiorità. Anzi. Caro direttore, proviamo a crescere anche nell' informazione, nella titolazione dei giornali, cerchiamo di trovare una comunanza in questa nazione che unita mai lo è stata, perché manca il desiderio di essere Italia. E se dopo 150 anni siamo ancora qui a dipingere quelli del Sud come "terroni", si sappia che l'offesa sta diventando un boomerang che colpisce chi dopo centocinquant' anni non ha ancora capito quale avrebbe dovuto essere il senso dell'Italia unita. Raffaele Auriemma
La risposta del direttore di Libero
Caro Raffaele, anche tu come molti meridionali ti sei seccato per il termine terroni, e questo è semplicemente ridicolo. La semantica della parola che respingi va presa in considerazione, non dico studiata, ma almeno osservata. Il vocabolo non ha alcuna valenza negativa, bensì è usato per scherzo. Scusa, come fai a non saperlo? Dici giustamente che bisogna approfondire, ma tu sei sicuro di aver studiato la pratica? Non mi pare. Sappiamo tutti che il Mezzogiorno è stato stuprato, e nessuno lo nega. Una domanda: hai letto, o almeno visto, il libro di Pino Aprile intitolato Terroni? Come mai non hai reagito davanti al volume in questione, mentre ti scateni contro Libero e l'autrice dell'articolo che abbiamo pubblicato, Azzurra Noemi Barbuto, che è una terrona Doc? Il cui testo è rispettoso e garbato. Dimmi la verità, non l'hai nemmeno letto, altrimenti non saremmo qui a discutere. In te è esploso, guardando il titolo, il classico vittimismo della gente del Sud, e ti sei abbandonato alle critiche infondate del nostro serio lavoro. Ci siamo limitati a sottolineare che le maggiori cariche istituzionali sono occupate da terroni, e ciò, come direbbe Crozza, è fattuale. Di conseguenza il Paese è guidato da uomini nati sotto Roma. Cosa di cui a me non importa nulla, però ho il diritto di segnalarlo o no? Questa è l'informazione. La politica italiana, a parte Giolitti e forse De Gasperi, è sempre stata lacunosa. Nordisti e sudisti non hanno mai brillato, pertanto sarebbe inutile alimentare una polemica stucchevole basata sulle loro origini. Mi vuoi spiegare in cosa consiste l'offesa ai napoletani e affini da noi sputata solo perché abbiamo riferito che essi in questo momento sono ai vertici delle istituzioni più importanti? Siete sicuri di non soffrire di gravi turbe psicologiche? Voi meridionali avete in mano le redini della nazione e vi seccate se ve lo facciamo notare. È assurdo. Per altro dovete riconoscere che Salvini ha compiuto uno sforzo enorme per unificare l'Italia, abolendo la divisione Nord e Sud, tanto è che egli sta conquistando i consensi di vari terrori. Oppure il dato vi sfugge? Vittorio Feltri
Quel terrone di Napolitano. Nessuna legge è sacra. Tanto meno il vilipendio del capo dello Stato. Ecco perché questa normativa è sbagliata, scrive Vittorio Sgarbi, Venerdì 12/10/2018, su "Il Giornale". Terrone (e tanto meno l'affettuoso terun) non è un'offesa. Ma un'indicazione geografica, territoriale, volendo peggiorativa, ricordata dai dizionari in questi termini: «Appellativo con cui gli Italiani del Nord chiamano spesso quelli del Mezzogiorno; tratto dalle espressioni terre matte, terre ballerine, si carica spesso d'una connotazione spregiativa». E, proprio perché nessuna legge è sacra, è ingiusto che nel nostro Codice penale vi sia ancora il vilipendio del capo dello Stato secondo il dettato dell'articolo 278, anche se mitigato dal legittimo diritto di critica, che può essere esercitato anche nei confronti del capo dello Stato, ma che trova un limite nel decoro e nel prestigio del medesimo. Dunque la legge è sbagliata. Ed è stata anche applicata scorrettamente dai magistrati dei tre gradi di giudizio che hanno condannato a 18 mesi di carcere il senatore Umberto Bossi, nonostante l'insindacabilità delle opinioni espresse nelle sue funzioni, in base al prevalente articolo 68 della Costituzione. Ma il problema è lessicale: Terun non è un insulto; e, geograficamente, il presidente Napolitano è un meridionale. Può essere poco elegante, ma non è offensivo. In ogni caso io lo dico e, se il direttore di questo giornale ha il coraggio di consentirlo, non temo una analoga condanna. Anzi chiedo (e lo farò formalmente) all'attuale presidente della Repubblica, meridionale anche lui, la grazia per Bossi in primis e, preventivamente, per me e per Sallusti.
Terrone non è un’offesa?
Diede del “terrone” a Napolitano, la Cassazione conferma condanna a Bossi, scrive il 12/09/2018 "La Stampa". È stato condannato ad un anno e 15 giorni di reclusione l’ex leader della Lega Umberto Bossi per aver definito «terrone» Giorgio Napolitano e avergli fatto il gesto delle corna durante un comizio del Carroccio svoltosi ad Albino, nella bergamasca, il 29 dicembre 2011 quando Napolitano era il capo dello stato. A deciderlo è stata la I Sezione Penale della Cassazione che dichiarato «inammissibile» il ricorso presentato dalla difesa di Bossi. Anche il Sostituto Procuratore Generale della Cassazione, Alfredo Viola, aveva chiesto che il ricorso del Senatur fosse dichiarato inammissibile. Bossi, alle prese a Genova anche sulla vicenda dei fondi della Lega, è stato condannato dagli Ermellini anche a pagare le spese legali e a versare 2.000 euro alla Cassa delle Ammende. In I Grado il `padre´ della Lega era stato condannato a una pena più pesante, per vilipendio al presidente della repubblica, pari a 18 mesi di reclusione, con decisione emessa dal tribunale di Bergamo il 22 settembre 2015. In seguito, la Corte d’Appello di Brescia, l’11 gennaio 2017 aveva ridotto la condanna a un anno e 15 giorni, una decisione adesso ratificata anche dai magistrati di legittimità. L’udienza svoltasi stamani in Cassazione era stata aggiornata a nuovo ruolo in seguito al rinvio chiesto dalla difesa di Bossi lo scorso 9 aprile per motivi di salute dell’avvocato Domenico Mariani. L’udienza era stata fissata per oggi, ma anche in caso di nuovo rinvio non c’erano rischi di prescrizione che sarebbe maturata solo il 28 giugno 2019. A denunciare Bossi per vilipendio erano stati dei privati cittadini che si erano indignati per le parole e il gesto indirizzate all’allora inquilino del Quirinale.
Diede del “terrone” a Napolitano: la Procura di Brescia ordina la carcerazione per Bossi, subito sospesa. Il fondatore della Lega Nord deve scontare un anno e quindici giorni. E i guai giudiziari non sono ancora terminati, scrive Emilio Randacio il 26/09/2018 su "La Stampa". La condanna definitiva per vilipendio all’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, gli ha fatto saltare ogni beneficio. Per il fondatore della Lega, Umberto Bossi, il rischio di scontare parte delle condanne fin qui inanellate è una ipotesi più che concreta. Il 12 settembre la Cassazione aveva confermato l’anno e 15 giorni per gli insulti al Quirinale. La colpa, riconosciuta, di Bossi è quella di avere del «terrone» a Napolitano durante un comizio. La procura generale di Brescia ha sommato tutte le condanne del senatur - dagli 8 mesi per i finanziamenti illeciti di Carlo Sama - e ha disposto la carcerazione visto che i benefici sono ampliamenti sforati. Provvedimento immediatamente sospeso - Bossi e vicino agli 80 anni-, per permettere al parlamentare leghista di chiedere misure alternative al carcere. Compreso il differimento della pena per i problemi di salute che, da oltre 10 anni, attanagliano l’ex segretario di via Bellerio. Anche se i grattacapi con la giustizia, non sono ancora finiti, visto che tra Milano e Genova si attendono i processi d’appello per le malversazione dei fondi pubblici gestiti dal Carroccio.
Insulti a Kyenge, Calderoli condannato a 18 mesi: riconosciuta l'aggravante razziale. Definì l'ex ministra "un orango" durante un comizio alla festa della Lega di Treviglio. Lei: "Abbiamo vinto un'altra volta", scrive il 14 gennaio 2019 su "La Repubblica". È stato condannato in primo grado a un anno e sei mesi dal tribunale di Bergamo, che ha riconosciuto l'aggravante razziale, il senatore della Lega Roberto Calderoli, a processo a Bergamo - dove vive - per aver dato dell'orango a Cecile Kyenge all'epoca esponente del governo Letta. L'ex ministra commenta: "Abbiamo vinto un'altra volta. Evviva, evviva, evviva. Il razzismo la paga cara". All'epoca Kyenge aveva scelto di non sporgere denuncia, ma il procura a Bergamo il procedimento era partito d'ufficio sostenuto dai pm Maria Cristina Rota e Gianluigi Dettori. Era il luglio 2013, Calderoli si trovava alla festa della Lega Nord di Treviglio, e quelle dichiarazioni avevano scatenato un vero e proprio putiferio tanto che il Colle, all'epoca il presidente della Repubblica era Giorgio Napolitano, si disse "colpito e indignato". Calderoli cercò, viste le polemiche, di difendersi affermando che la sua era soltanto "una battuta simpatica". La questione finì anche al Senato quando, nel 2015, la difesa aveva cercato di sostenere la scriminante dell'articolo 68 della Costituzione, secondo il quale i membri del Parlamento, nell'esercizio delle loro funzioni, non possono essere chiamati a rispondere delle loro affermazioni. L'Aula diede l'autorizzazione a procedere per il reato di diffamazione escludendo però l'aggravante razziale. Ma il Tribunale di Bergamo fece ricorso alla Consulta che, infine, diede ragione ai magistrati lombardi: quell'accusa aveva un sottofondo razzista. Visto che l'ex ministra non si è costituita parte civile, non sono previsti risarcimenti di natura economica.
Diede dell'"orango" alla Kyenge: Calderoli condannato a 18 mesi. Nel 2013 disse: "Quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare alle sembianze di un orango". Oggi la condanna per Calderoli, scrive Sergio Rame, Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". Roberto Calderoli è stato condannato 18 mesi di carcere per avere definito "orango" l'ex ministro all'Integrazione Cecile Kyenge nel luglio del 2013 durante una festa della Lega Nord. La pena è stata sospesa e non ci sarà menzione nel casellario giudiziario ma il legale del senatore leghista, l'avvocato Domenico Aiello, ha sottolineato che "la pena detentiva per un supposto reato di opinione, per di più avvenuta durante un comizio di partito, ha evidenti risvolti di inciviltà giuridica e miopia". L'europarlamentare piddì, invece, esulta e rilancia attaccando a testa bassa il Carroccio: "Il razzismo la paga cara". Nel maggio del 2017, un altro esponente della Lega, l'europarlamentare Mario Borghezio, era stato condannato al pagamento di mille euro di multa e a un risarcimento di 50mila euro per alcune frasi pronunciate nel corso della trasmissione La Zanzara su Radio 24. Per lo stesso motivo è stato condannato oggi Calderoli dal tribunale di Bergamo. Il senatore leghista era stato, infatti, accusato di diffamazione aggravata dall'odio razziale presentata per alcune dichiarazioni fatte dal palco della festa del Carroccio di Treviglio il 13 luglio 2013. "Amo gli animali - aveva detto Caldaroli davanti a 1.500 persone - orsi e lupi, com'è noto. Ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango". Calderoli, che al tempo delle dichiarazioni era già vice presente del Senato, si era scusato per quanto detto contro la Kyenge. Ma il processo era andato ugualmente avanti e il pubblico ministero, Gianluigi Dettori, aveva chiesto due anni. In sentenza il giudice Antonella Bertoja ha deciso di ridurre la pena a un anno e sei mesi. "È una sentenza incoraggiante per tutti quelli che si battono contro il razzismo - ha commentato la Kyenge - il razzismo si può e si deve combattere per vie legali, oltre che civili, civiche e politiche". Alla lettura della sentenza Calderoli non era presente in aula perché ricoverato in ospedale a Padova per alcuni accertamenti.
Libero ha ragione, comandano i terroni. Peccato non si occupino mai del Sud, scrive il 12 gennaio 2019 L’Inkiesta. Libero ha titolato un articolo “Comandano i terroni” ed è stato sommerso di proteste. Invece chi vuole guardare ai fatti e non all’indignazione spicciola, dovrebbe farsi due domande, incluso il vicepremier Di Maio. Ce li aspettavamo un po’ più intelligenti questi terroni. Un po’ più ironici, un po’ più capaci di pensiero divergente. Meno “square”. Il quotidiano Libero ieri ha messo in prima pagina un articolo provocatorio, dal titolo molto provocatorio: “Comandano i terroni” e si sono aperte le cateratte - mentre calavano le cataratte - dell’Antica Frustrazione Meridionale. Ma torniamo al fatto. Libero fa un titolo così e parte l’indignazione atmosferica per i titoli di Libero. Solo che stavolta, dopo le patate bollenti, le mortadelle, i bastardi islamici, si parla di terroni, con un articolo scritto da una giornalista di Reggio Calabria, Azzurra Noemi Barbuto, che fa una rassegna inappellabile dei posti di potere in mano meridionale. A parte l'evidente autoironia, il fatto è che ciò che ha scritto Libero è vero: le principali cariche dello stato sono in mano a gente del Sud, la maggior parte dei ministri sono del Sud (includendo Roma, avevate dubbi che Roma fosse Sud?). Ed è altrettanto vero che certi provvedimenti del Governo, come il reddito di cittadinanza, favoriscono il Sud. Come è vero che la Questione Meridionale si torna ad affacciare adesso, ed è il perturbante impiccione di un equivoco accordo di Governo: Lega non più Nord ma sempre Nord, Cinquestelle sempre più vecchia Dc, quindi Sud. La subalternità politica del Nord (tranne che per brevi periodi) è un grande classico almeno quanto la Questione Meridionale. La cosa grave è, semmai, che tutti questi potenti meridionali una volta in sella si sono regolarmente dimenticati del Sud. Ce li aspettavamo un po’ meno "square", questi terroni, compreso il vicepremier Luigi Di Maio, che ha commentato: “questo non è giornalismo, non è informazione”, e ha agitato lo spauracchio della chiusura del rubinetto ai fondi all’editoria. Certo non ci si aspettava ironia dall’Ordine dei giornalisti, pronto col cartellino sanzionatorio. Tra l'altro il presidente, Carlo Verna, è di Napoli, quindi si potrebbe tranquillamente includere nella sommaria rassegna di potenti meridionali. Ci sono, anche, risvolti di involontaria comicità Vito Crimi, sottosegretario con delega all'editoria, ha invocato l'intervenendo dell'Ordine dei Giornalisti dopo che l'Ordine si era espresso. Complimenti per l'attenzione. Proseguiamo: oltre alle reazioni istituzionali degna di menzione l’ondata social, con le proteste di Myrta Merlino (napoletana), Gianni Riotta, (palermitano), Nadia Terranova (messinese) e infiniti altri meridionalisti al nero di seppia. Quanto ai fatti: è noto e stranoto che i meridionali sono maggioranza tra i dipendenti pubblici, tra gli insegnanti, tra gli alti burocrati. Si vede guardando le statistica e riflettendo sulla Storia. La subalternità politica del Nord (tranne che per brevi periodi) è un grande classico almeno quanto la Questione Meridionale. La cosa grave è, semmai, che tutti questi potenti meridionali una volta in sella si sono regolarmente dimenticati del Sud, ma anche qui siamo tra gli evergreen del Meridionalismo. E il paradosso, semmai, è che dei terroni si offendano per il termine “terroni” e i polentoni (altro termine usato nell'articolo) no. Siamo alla cataratta della Grande Frustrazione Meridionale. Unici terroni sensati quelli del gruppo Facebook “Lo Statale ionico”. Che hanno commentato con quest’immagine. Terroni sì, ma intelligenti.
I “terroni” di Libero e il “Ponte sullo Stretto” che ossessiona Travaglio sul Fatto: qual è il vero razzismo? L’articolo di una giornalista reggina su Libero indigna i meridionali molto più del vero razzismo anti-Sud: il mondo al contrario, scrive il 13 Gennaio 2019 Peppe Caridi su Stretto Web. Il popolo del Sud s’è rivoltato nei giorni scorsi contro il quotidiano “Libero” per il titolo “Comandano i Terroni”, che ha mandato su tutte le furie tutti quei meridionali (evidentemente ignoranti) che si sono sentiti offesi. Già, ignoranti perchè ignorano cosa significhi il termine “terrone”, e in quale contesto e per quale motivo Libero l’abbia utilizzato in quel modo. “Terrone”, infatti, non è un’offesa ma invece si tratta di un termine goliardico con cui i settentrionali si rivolgono ai meridionali, talmente tanto consolidato da decenni che è stato più volte utilizzato da noti e stimati poeti, scrittori, registi, artisti, cantautori del calibro di Pier Paolo Pasolini, Rino Gaetano, Cesare Pavese, Marino Moretti, Anna Banti, Giovanni Arpino, Enzo Jannacci, Pino Aprile. Tra questi, alcuni meridionali che – di essere “terroni” – ne vanno orgogliosi. Anche l’articolo di “Libero”, “Comandano i Terroni”, l’ha scritto una giovane giornalista terrona, orgogliosamente terrona: si chiama Azzurra Noemi Barbuto ed è proprio di Reggio Calabria. Stamattina in un’intervista ha spiegato con lucidità il senso del suo lavoro e ha respinto nel modo migliore gli insulti ricevuti dai “classici odiatori frustrati che sfogano su internet il proprio malcontento”. I tipici grillini “indinniati”, il popolo del reddito di cittadinanza, quelli che “kombattono la kasta”. Nel suo articolo, Azzurra Noemi Barbuto ha illustrato come in realtà in questo governo considerato da molti a trazione nordista per l’ingombrante presenza di Salvini e della Lega, comandino i meridionali che ricoprono tutte le principali cariche dello Stato. Persino Maria Elisabetta Alberti Casellati, la Presidente del Senato, è di origine reggina: gli Alberti erano infatti marchesi di Pentedattilo e duchi di Melito Porto Salvo, e proprio sulla jonica reggina troviamo le origini della seconda carica dello Stato. Poi c’è Sergio Mattarella, palermitano doc, “il mio preferito” per la giornalista reggina di Libero che ne tesse le lodi; il napoletano Roberto Fico alla presidenza della Camera, e il pugliese Giuseppe Conte come premier. Nell’articolo di “Libero”, quindi, non c’è nessun razzismo: è un articolo positivo per il Sud, che non si limita a constatare come oggi i meridionali stiano governando il Paese, ma con entusiasmo recita che “finalmente” il Sud sia nella cabina di comando dell’Italia. Poi c’è quel titolo, dal tono chiaramente goliardico e provocatorio, che sorprende solo chi non conosce “Libero” e la stampa: come “Il Manifesto”, “Libero” è un giornale che da sempre si caratterizza per uno stile molto pungente, sarcastico, “politicamente scorretto”. Inoltre da quando Vittorio Feltri, uno dei giornalisti più autorevoli sul panorama nazionale odierno, ne è tornato alla guida il 3 maggio 2016, è riuscito a moltiplicarne le vendite e risollevarne le sorti proprio grazie a questo stile giornalistico che in più occasioni ha portato “Libero” a caratterizzare il dibattito nazionale. Esattamente come negli ultimi giorni. Insomma, Feltri – da giornalista navigato – ha fiutato l’occasione per spopolare e quei tanti idioti che adesso gli si accaniscono contro, stanno soltanto facendo il suo gioco. L’ha spiegato lui stesso in un brillante editoriale di ieri sulla “prevalenza del cretino”. Dare del “terrone” a un meridionale equivale al classico epiteto con cui i reggini scherzano con i messinesi etichettandoli come “buddaci”. Una goliardia, uno scherzo, una battuta simpatica e leggera. Difficile che nel 2019 ci sia ancora qualche “buddace” che si offenda. Per i messinesi, i reggini sono “sciacquatrippa” e dagli aliscafi alle Università è uno scherzo continuo. Così come per i terroni, le popolazioni nordiche sono “polentone”. Niente di più simpatico in un Paese così variegato che un po’ di sana goliardia regionale. Se, invece, al Sud ci sono milioni di ignoranti che ancora si offendono, è evidente che soffrano di un complesso di inferiorità che non gli consente più neanche di scherzare: addirittura c’è chi parla di “razzismo” (!!!), ma qual è il vero razzismo? Stamattina nella prima pagina del Fatto Quotidiano, il giornale simbolo dei grillini che spopola soprattutto al Sud, tale Marco Travaglio scrive un “editoriale” che sembra un tema di terza media in cui si scaglia contro i manifestanti Sì-Tav che ieri hanno riempito piazza Castello a Torino per la seconda volta in poche settimane. Erano 30.000 ed è comprensibile che questa manifestazione non piaccia a uno come Travaglio: innanzitutto perchè non c’erano facinorosi incapucciati con passamontagna e armati di spranghe e bombe molotov, da anni fomentati dall’odio che i vari Travaglio & company alimentano sulle classi più svantaggiate. Non era una manifestazione dei centri sociali, non c’erano simboli o bandiere di partito, non ci sono stati disordini: è stata una manifestazione di tanta gente che di solito non manifesta, di gente acculturata, preparata, che sogna un’Europa unita e vicina, e che vuole un’Italia protagonista nell’Europa unita del futuro. Un progetto che non può prescindere da collegamenti veloci e funzionali come la Tav Torino-Lione, appunto, una “piccola” grande opera che si inserisce in un più ampio contesto continentale di collegamenti rapidi e che solo l’incompetenza economica e sociale poteva riuscire a mettere in discussione. Le uniche bandiere in piazza ieri a Torino erano quella dell’Italia e quella dell’Unione Europea, simboli in cui tutti dovremmo riconoscerci. Insomma, è stata una manifestazione di unione e di amore, rispetto a quelle di divisioni e odio che Travaglio negli ultimi anni ha spesso aizzato e cavalcato (dai Vaffa Day grillini ai Gilet Gialli francesi). Nel suo articolo, Travaglio riesce a tirare in ballo anche il Ponte sullo Stretto (confermando così la sua storica ossessione nei confronti del grande progetto per collegare Calabria e Sicilia in modo stabile). Ecco, se c’è davvero un “razzismo” nel giornalismo italiano di oggi è proprio quello di chi da anni parla del Sud con toni sprezzanti giustificando posizioni contrarie alla realizzazione di opere di sviluppo (come ovviamente sarebbe il Ponte) perchè “inutili in zone così disagiate”. Quante volte hanno detto che il Ponte unirebbe “due cosche”, o “due cloache“? Eppure nessuno ha fatto le barricate anti-razzismo: siamo proprio noi meridionali che non sappiamo distinguere chi ci odia veramente da una battuta leggera. Ci indigniamo per un “terroni” scherzoso, di cui dovremmo andare orgogliosi, e chiniamo la testa di fronte a chi ogni giorno ci dipinge come criminali e giustifica il nulla cosmico che da decenni lo Stato realizza per il Sud. A maggior ragione adesso che con il governo dei terroni e il reddito di cittadinanza, siamo tornati ai tempi dell’assistenzialismo della Prima Repubblica: anzichè Ponte, infrastrutture, collegamenti, lavoro e sviluppo, vogliamo l’elemosina per continuare a tirare a campare. Salvo incazzarci se ci dicono “terroni”. I veri casi umani siamo noi.
Caro Feltri, comandano i "polentoni". Evidentemente, non conosci la storia. Comandano i terroni, polemiche sul titolo di Libero, scrive Biagio Maimone, Sabato, 12 gennaio 2019 su Affari italiani. Desidero poter dire la mia circa il titolo dell'articolo "Comandano i terroni", pubblicato, in prima pagina, lo scorso 11 gennaio, dal quotidiano " Libero", diretto da Vittorio Feltri. Mi piacerebbe, innanzitutto, far presente a chi ha formulato tale titolo che la parola "terrone", nata con l'intento di essere offensiva, in realtà non realizza il suo scopo di umiliare il popolo del Sud Italia. Difatti, se per "terrone" si intende chi coltiva la terra, chi si occupa di agricoltura, fonte di sostegno alimentare, tale appellativo sortisce addirittura un effetto elogiativo per gli abitanti del meridione di Italia che, nel corso dei secoli, hanno dimostrato di saper trarre dalla propria terra la fonte del loro sostentamento economico, consapevoli che lo Stato aveva dimenticato le loro terre, in quanto ad esse non aveva dato impulso economico. Ciò che colpisce, pertanto, non è tanto la definizione del popolo meridionale come un popolo di "terroni", ma è la menzogna storica che l'articolo divulga, in quanto il meridione d'Italia è stato sempre posto ai margini della vita socio - economica italiana ed ancora lo è. E' una verità storica, Caro Direttore, e, pertanto, non è confutabile. Il potere economico e politico che ha guidato, nel corso dei secoli, il nostro Paese, già a partire dai tempi di Mazzini e Cavour, ha stabilito che il Sud non dovesse progredire e dovesse, invece, restare ai margini della vita sociale. Pertanto, il Mezzogiorno d'Italia, da sempre abbandonato a se stesso, a causa di tali logiche di potere, è sempre più povero. La disoccupazione è aumentata perché le piccole aziende, le poche nate nei territori meridionali dell’Italia, chiudono a causa dell'eccessiva pressione fiscale. Purtroppo, non si può negare che, nel Sud Italia, si è raggiunto un livello di povertà che fa pensare al terzo mondo. Nulla di nuovo, in quanto il Sud, come ho affermato, per logiche antichissime di natura politico - economica, deve rimanere povero per poter essere il “materasso” del Nord. Così industrie, lavoro e progresso hanno preso piede solo nei grandi centri urbani del Nord e nel Sud dell’Italia è proliferata la disoccupazione e l’arretratezza dei suoi territori. Da qui la mafia, che ha governato indiscussa, facendo dello stato di arretratezza delle terre del Sud la leva del suo potere. Si può affermare, inoltre, che il Nord ha accolto il valore aggiunto offertogli dalla mafia del Sud, che, sostituitasi allo Stato assente, ha contribuito ad alimentare il potere economico e politico del Nord, inibendo la crescita del Sud italiano. Ad alcuni uomini del Sud, culturalmente progrediti, è stato concesso dal potere politico di ricoprire ruoli di prestigio, ma il potere economico, che è il vero potere, è sempre rimasto ai territori del Nord Italia, come da secoli avviene. Sembrerebbe quasi che il Sud italiano debba rimanere più povero di quanto non lo sia già, perché se il Sud è povero il Nord potrà avere di più. Ma occorre fare una considerazione vincente a favore del Sud Italia ed è che, nell'epoca attuale, bisogna fare i conti con l'emancipazione e con la tecnologia. Potrà verificarsi, in tal modo, che le logiche di potere esistenti siano sgominate dai giovani meridionali che, con la loro energia, saranno in grado di cambiare le cose. Il Sud è ricco di cultura, tradizione e storia, che costituiscono un patrimonio davvero inestimabile su cui porre le basi della rinascita delle sue terre, che sono state fonte di cultura e di affermazione, a livello internazionale, per la nostra Italia. Solo facendo leva sulla ricchezza culturale del Sud italiano potrà essere sovvertita la scelta di chi vuole lasciare nella depressione il nostro mezzogiorno per trarne vantaggio e ricchezza per pochi.
Luigi Di Maio sfregia il leghista Bussetti: "I meridionali lavorino di più? Una fesseria", scrive il 9 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Si apre un nuovo casus belli tra Lega e Movimento 5 Stelle, dopo che il ministro dell'Istruzione Marco Bussetti del Carroccio, in visita ad una scuola ad Afragola, nel corso di una intervista a Nano Tv di Caivano in provincia di Napoli ha detto: "Come colmare il gap tra le scuole del nord e del sud e se verranno erogati nuovi fondi? Ci vuole l’impegno del sud, vi dovete impegnare forte. Questo ci vuole. Fondi? No, Impegno, lavoro, sacrificio, impegno, lavoro e sacrificio". A parte le scontate reazioni delle opposizioni, all'attacco del ministro leghista è partito lancia in resta anche il vicepremier grillino Luigi Di Maio, che tra l'altro proprio dell'hinterland napoletano è originario: "Se un Ministro dice una fesseria sulla scuola, chiede scusa. Punto. Venire in una delle aree più in difficoltà d’Italia a dire - usando il 'voi' - che per ridurre il gap nelle scuole del sud 'vi dovete impegnare di più' farebbe girare le scatole anche ad un asceta. Figurarsi gli insegnanti!". Così su Facebook Di Maio. "Caro Marco, siamo noi al Governo che evidentemente dobbiamo impegnarci sempre di più. Soprattutto sulla scuola, che richiede interventi storici per le condizioni veramente indegne in cui versano tante strutture - scrive -. Ci sono genitori preoccupatissimi per lo stato degli edifici scolastici e ci sono studenti che fanno lezione in condizioni imbarazzanti. Siamo noi che dobbiamo fare di più e ogni cosa che faremo non sarà mai abbastanza".
Giusi Fasano per Il Corriere della Sera del 12 febbraio 2019. Sembra di vederla, Erminia. Legge la mail che arriva dal Friuli Venezia Giulia, fa un sospiro e va all’attacco con la risposta. Tanto per cominciare «sorvolo sul profilo penale che si può desumere dalle sue parole, palesemente discriminatorie per i palermitani». Detto questo «io volevo solo ringraziarla: ho capito che questo centro non fa per me». E, per chiarire: «A Palermo abbiamo menti libere, non credo potrei esprimere al meglio le mie potenzialità professionali e umane collaborando con persone con la mente ristretta ed evidentemente corrotta da stupidi pregiudizi». Quindi «non tenete conto della mia candidatura». A mandare su tutte le furie Erminia Muscolino - 30 anni, laureata in biologia e studentessa della specializzazione in biotecnologia medica e medicina molecolare - è stato un commento in uno scambio di email arrivate a lei per errore. Si scrivevano due persone del centro di ricerca al quale aveva inviato il curriculum (l’Istituto Tumori Cro di Aviano). E riferendosi proprio al curriculum l’una scriveva all’altra: «Già ricevuta anche io... Figurati se andiamo a prendere una da Palermo». La risposta risentita di Erminia ha avuto una replica da Pordenone: «Il suo atteggiamento belligerante non ha proprio senso. Non possiamo offrire contratti vantaggiosi per disposizione della legge Madia». Spiegazione inutile: «Un modo banale — ribatte lei — per giustificare la mail precedente».
Il caso Normale e il disprezzo dell'idea di Scienza, scrive Eugenio Mazzarella Domenica 16 Dicembre 2018 su Il Mattino. Quel che è successo a Pisa per il progetto della Scuola Normale per una sinergia con la Federico II per implementare al Sud, presso l’Ateneo napoletano, una Scuola d’eccellenza sul modello della scuola pisana, è di una gravità che è difficile sottovalutare. E non solo per l’evidente lesione dell’autonomia universitaria, stigmatizzato dal direttore Barone, costituzionalmente tutelata, ad opera del sindaco leghista di Pisa che si vanta in modo degno di miglior causa di un provvedimento che ha pochi precedenti in termini di tutela del suo “territorio”, senza neanche rendersi conto di quel che dice con questa autorapprentazione della sua presa di posizione contro il progetto fin qui voluto dalla Normale. Ma l’episodio è grave anche per il sostegno che ha ricevuto dai rappresentanti degli studenti nel senato accademico della Scuola. (Rappresentanti votati anche da studenti meridionali nda). E spero davvero che non ci siano sostegni a questa posizione nel corpo docente della Scuola, per altro “infarcito”, per dirla alla leghista, storicamente e tutt’ora, di meridionali. Perché sorge spontanea una domanda: che studenti e studiosi forma la Normale? Nata per altro per dare all’Italia sotto l’influenza napoleonica una classe dirigente “nazionale”. Evidentemente a Pisa e anche in Normale si pensa in termini di tutela provinciale al proprio “particolare”, in spregio all’idea stessa universale di scienza, che più banalmente significa oggi la sua implementazione operativa in reti internazionali ben più larghe persino di quelle nazionali, e che però ne sono ovviamente una strategia di efficientamento. In effetti quello che volevano fare il direttore Barone e il rettore Manfredi, in qualità di presidente della Crui più che di rettore federiciano, perché più consapevoli della politica pisana dello stato dell’arte della ricerca di eccellenza oggi. Tutta questa vicenda lascia l’amaro in bocca per lo stato del paese che sta introiettando pericolose pulsioni disgregatrici dell’unità nazionale, a prescindere dall’annosità dei pregiudizi contro il Sud. Per quanto mi riguarda la Normale rischia, se condividerà la posizione del sindaco di Pisa, di uscire dal quadro delle eccellenze morali del Paese. Quanto all’eccellenza scientifica non la discute nessuno nel suo complesso, però sarebbe interessante far valutare da esperti se, disciplina per disciplina, il miglior studioso italiano sia a Pisa o altrove nel deprecato sistema a statuto ordinario delle università italiane. Forse ci sarebbe da sorridere. Intelligenti pauca. Per il resto si proceda all’istituzione di alcune Scuole di eccellenza con le stesse caratteristiche della Normale, a cominciare da Napoli. Il che vuol dire con gli stessi fondi e le stesse normative. Vedremo tra vent’anni come sarà distribuita normalmente l’eccellenza scientifica in Italia.
Barone: «La Normale ha perso una grande occasione», scrive il 10 gennaio 2019 Il Sole 24 ore. «Nella torre d'avorio l'eccellenza muore». Vincenzo Barone risponde così, dalle pagine del Sole 24 Ore, a quanti (Senato accademico, personale amministrativo, studenti) lo hanno spinto a dimettersi da direttore della Scuola Normale di Pisa, per aver cercato di aprire una sede distaccata a Napoli, ribattezzata Scuola Normale Superiore Meridionale. Il progetto, finanziato dal Governo con 50 milioni, si sarebbe realizzato in partenership con l'Università Federico II, che ora andrà avanti da sola. Per Barone «l'operazione ha dato fastidio», soprattutto dopo che è arrivato il finanziamento ministeriale di 50 milioni. «L'Ecole normale supérieure di Parigi è cinquanta volta più grande di noi: l'idea che in Italia solo 60 studenti della Normale e 120 del Sant'Anna siano meritevoli di una formazione di questo livello è demenziale. Questo tipo di formazione - dice ancora Barone - deve essere più larga e più diffusa sul territorio, e deve servire da spinta e da laboratorio per le Università generaliste». Il disegno di sviluppare una rete di scuole d'accellenza è tramontato e Barone, che resterà come docente alla Normale, ritiene che «sia stata persa una grande occasione. Per tanti motivi - dice -, tra cui l'autoreferenzialità della Scuola Normale: docenti e allievi ritengono che qualunque allargamento significhi abbassare il livello».
Normale Pisa, Barone: "Lasciato solo perché credevo nel Sud". Il direttore dimissionario: "Avevo detto di voler creare un'eccellenza al Sud, non ho sbagliato", scrive giovedì 10 gennaio 2019 Otto pagine. “Credevo nel sud, ma sono rimasto solo”. Così Vincenzo Barone, direttore dimissionario della Normale di Pisa ha spiegato in due interviste, a Repubblica e a La Stampa, le motivazioni che hanno portato lui a lasciare la carica prima che il Senato accademico lo sfiduciasse. “Il progetto di una scuola normale nel Sud è stato stravolto dalla legge votata alla Camera, trasformandosi in un'iniziativa che riguarda solo l'Università Federico II, ma non mi si può accusare di questo: solo dopo che una legge dello Stato ha creato un contenitore si comincia a discutere come realizzarlo. Mi sembra singolare pensare il contrario, e anche naif”. Il senato era pronto a sfiduciarlo proprio sulla base dell'iniziativa dell'apertura di una sede a Napoli, che aveva subito incontrato l'opposizione della Lega Locale. Barone ha spiegato, replicando a chi lo accusava di non aver spiegato il suo progetto: “Fin dal mio insediamento ho detto che volevo percorrere quella strada, evidentemente c'è qualcosa delle Scuola Normale di profondo, che non ho capito. Dal canto mio penso di non aver sbagliato nulla, ho fatto quasi un miracolo: far nascere una Scuola di eccellenza al sud è un'idea che è passata, le uniche differenze erano su come farla. Sono rimasto completamente solo. Mi dicono che non sono stato trasparente, che ho attentato alla democrazia della Scuola. È l'accusa peggiore".
Niente Normale a Napoli, Barone: “Se fosse stata al Nord avrebbero protestato?” Scrive Alina De Stefano il 10 Gennaio 2019 su Vesuvio Live. Era stata un’idea, un progetto e una missione culturale davvero allettante oltre che entusiasmante. Far nascere una succursale della Normale di Pisa a Napoli, città che già vanta una delle l’università laica più antica del mondo, il complesso universitario della Federico II, sarebbe stato non solo uno valido scambio culturale che avrebbe arricchito di prestigio Napoli, ma in misura proporzionata avrebbe confermato il potere culturale e attrattivo dell’Università pisana. E invece non se ne farà niente e l’autore nonché l’ideatore di questo progetto si dimetterà dal suo incarico di direttore dell’Università. Così Michele Barone, laureatosi alla Federico II, lascia la più prestigiosa carica universitaria per tornare a rivestire solo i panni di insegnate di Chimica, sempre presso l’ateneo pisano. Ma dalle sue dichiarazioni è chiaro come il principale problema sia stato la politica. Quella politica che dal primo momento ha messo i bastoni tra le ruote e si è cimentata in questo compito di “disturbatore” fino a far sbriciolare tutto. Lo stesso Barone ha infatti dichiarato, come riportato dal Corriere del Mezzogiorno: “Sono molto dispiaciuto perché eravamo andati vicini alla realizzazione di un sogno, portare la Normale di Pisa a Napoli. Dal punto di vista politico quello che non ha funzionato è stata un’interferenza indebita della politica locale sull’autonomia dell’università” – e rincara la dose aggiungendo: “Non so se a Pisa avrebbero protestato ugualmente se la sede fosse stata aperta al Nord. Io mi attengo alle dichiarazioni degli esponenti leghisti di Pisa secondo i quali la Scuola non si sdoppia”. Ma la Normale nel progetto iniziale non voleva né doveva sdoppiarsi. Napoli avrebbe fatto da “incubatore” e non avrebbe mai avuto una vita autonoma dalla Normale “madre”, ma ne sarebbe dipesa completamente. Per non parlare poi della politica leghista locale, che con un veto assoluto sul progetto ha intaccato gli stessi interessi della città di estendere e far risuonare a livello nazionale il nome della Normale di Pisa. Ma con un dubbio: che se la seconda sede fosse stata aperta al Nord, probabilmente non si sarebbe gridato allo scandalo.
Napoli è in grado di farsi da sola la sua Scuola Normale Superiore, scrive Gianfranco Morra l'11 gennaio 2019 su Italia Oggi Num. 9, pag 2. Nacque nel 1810 per volontà di Napoleone sul modello della francese «École Normale Supérieure». E continuò nel ripristinato Granducato di Toscana e nel Regno d'Italia. Il fascismo non la toccò, anzi fu un luogo, se non di opposizione, almeno di indipendenza politica. Il suo scopo era la specializzazione dei professori delle scuole medie superiori. Per due secoli è stata una scuola di eccellenza, nella quale si sono educati straordinari uomini di cultura. I «normalisti» erano il clou della cultura italiana. Come Giosué Carducci, Enrico Fermi, Carlo Azeglio Ciampi, Carlo Rubbia. Dal 1928 alla morte fu diretta da Giovanni Gentile. Da alcuni anni era in corso una discussione sul carattere troppo elitario e isolato dalla Scuola. E non pochi docenti proponevano di aprire una succursale in qualche grossa città italiana. Se lo aveva fatto la Cattolica tra Milano e Roma, perché non poteva farlo la Normale? Ormai l'operazione della filiazione era a buon punto e a novembre il rettore aveva dato l'annuncio. La città scelta per la gemmazione (destinata dopo un certo numero di anni a divenire sede autonoma) era Napoli. Non mancavano neppure i soldi per farlo. Napoli aveva accumulato non pochi capitali pubblici e privati. E qui è accaduto l'inatteso: al trasferimento erano contrari non pochi docenti normalisti e il sindaco della Città; ma per primi si sono opposti gli studenti, che hanno chiesto al Rettore, il chimico Vincenzo Barone, di lasciare la carica. Mercoledì si è svolto il Senato Accademico, al termine del quale il Rettore si è dimesso. Nessun dubbio sulla eccellenza della Normale di Pisa. Ma Napoli ha una tradizione universitaria e culturale non meno rilevante di quella della città toscana. È stata nel Settecento, insieme con Milano, il centro più prestigioso dell'Illuminismo italiano (anche senza parlare di Vico). Appare dunque saggia la decisione del Ministro del Miur, Marco Bassetti (che è uomo di Università): non è opportuno trasferire la Normale di Pisa a Napoli, meglio creare a Napoli una «Scuola Superiore del Sud». In tal senso i 50 milioni previsti sono stati girati nella manovra e intitolati proprio per tale fine, che trova il suo riferimento nella Università «Federico II» di Napoli. Giusto favorire il Sud anche nella istruzione universitaria. Ancora più giusto che non ci siano operazioni assistenzialiste del Nord per il Mezzogiorno, ma che Napoli faccia da sola. Non a caso la città è stata in grado di creare la più bella metropolitana della nostra Italia.
Normale di Pisa a Napoli, l’unica normalità è il solito pregiudizio antinapoletano, scrive il 15 Dicembre 2018 Maurizio Zaccone su Identità insorgenti.
C’era un progetto di gemellaggio tra l’Università Normale di Pisa e la Federico II di Napoli.
C’erano soldi (50 milioni) a finanziare questo progetto.
Un modo per investire sull’Università napoletana ma che a Pisa non piaceva. Una filiale a Napoli non era gradita.
Sono insorti tutti: (anche meridionali) studenti e docenti.
E soprattutto il neosindaco leghista di Pisa Michele Conti. «Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai» tuonava poco fa. La Scuola Normale Superiore è un’eccellenza italiana che già da 5 anni ha una seconda sede a Firenze. Ma la filiale in Terronia era per troppi inaccettabile. Il sindaco quindi è partito per Roma con il deputato Ziello dal ministro del Carroccio Bussetti e ha ottenuto rassicurazioni. Il marchio non si esporta. E via con i festeggiamenti.
“La Scuola Normale è salva. Al Sud non verrà istituita nessuna sede secondaria, l’università rimane unica e nella nostra città”.
“Volevano il marchio, i napoletani dimostrino di saper lavorare”.
“Io faccio il sindaco e so l’indotto che crea l’università sul territorio. Prima prendevano il simbolo poi ci facevano concorrenza”…noi già sappiamo come sarebbe andata a finire: sarebbe stata aperta la succursale in via sperimentale per tre anni, poi magari a Napoli avrebbero avuto l’autonomia e così utilizzavano il marchio della Normale per portare ricchezze solo al Meridione”.
Bravo, finiamola con questo meridione che si vuole arricchire alle spalle del nord. Impariamo a lavorare, piuttosto. Gran successo per l’agronomo Michele Conti, che esulta in diretta Facebook. Che non sa che alla Scuola Normale Superiore di Pisa ci sono già docenti napoletani provenienti dalla Federico II, che gli atenei collaborano proficuamente già da tempo, hanno un centro ricerca in comune e che i dottorati a Pisa li vincono spesso i laureati federiciani. E anche che la Scuola Superiore del Sud fortunatamente si farà comunque, perché i soldi restano stanziati. Ci mancherà il nome eccellente, dovremo accontentarci della nomea della Federico II con i suoi soli 800 anni di storia. Sotto il mirino il direttore della scuola Normale, accusato di aver avallato il progetto perché nato a Napoli (in realtà è nato ad Ancona ed a Napoli ha studiato, alla Federico II proprio). «Io credo che si debba tornare indietro di 40 anni per trovare risultati eccellenti come quello di oggi. Noi l’abbiamo fatto per il territorio e la nostra città che amiamo tantissimo». Ma alla sua città non sarebbe stato sottratto niente; solo che il timore di portare un beneficio a una città del Sud era troppo da sopportare. Ora, in un paese normale, l’autonomia delle università, sancita per legge, non si sarebbe dovuta toccare. La legge non si sarebbe dovuta cambiare per volontà politica. E il sindaco avrebbe dovuto solo fare il sindaco e preoccuparsi delle tante piaghe che affliggono la sua città. Perché è questo che gli compete. Perché certe scelte sono solo armi di distrazione di massa. Il solito Sud nemico che vuole campare sulle spalle, sul lavoro, sul blasone del nord. E così si nascondono i problemi della propria città dai furti ai parcheggiatori abusivi, fino alle piazze di spaccio, così simili ai nostri, che se li sapessero risolvere avremmo davvero qualcosa da imparare. Ecco, quando il buon sindaco leghista troverà la ricetta per questi problemi potrà dire di aver raggiunto “risultati eccellenti” per la sua città che “ama tantissimo”. Fino ad allora, sarà solo un leghista qualunque. Maurizio Zaccone
L’UNIVERSITA’ DI NAPOLI E’ PIU’ ANTICA DELLA NORMALE DI PISA, MA LA LEGA RAZZISTA NON LO SA… Scrive il 7 Dicembre 2018 Massimo Coppa. Il preside della Scuola Normale di Pisa, istituto universitario rinomato, ha promosso l’apertura di una succursale a Napoli: “Fa parte del programma con il quale sono stato eletto alla guida della ‘Normale’”, ha chiosato soddisfatto perché la Commissione Bilancio della Camera ha approvato l’iniziativa, stanziando anche i fondi necessari a quello che sarà un triennio di sperimentazione, dopo il quale la nuova sede sarà confermata o soppressa. Ma il sindaco leghista di Pisa, Michele Conti, è apertamente contrario all’apertura di una sede a Napoli. Pare che lo stesso Salvini non veda di buon occhio l’iniziativa e stia valutando di bloccarla, almeno a quanto riferisce l’edizione campana di “Repubblica”. Questa vicenda è emblematica dell’atteggiamento razzista che la Lega continua ad avere verso il Meridione d’Italia. Questo vorrei ricordare ai moltissimi napoletani e meridionali che, attualmente, sono presi da improvviso, passionale amore verso la Lega ed il suo leader il quale, a sua volta, ha tolto la parola “Nord” dalla ragione sociale del partito per intendere che esso si rivolge a tutto il Paese, e non più solo al Settentrione. In realtà i riflessi razzisti scattano ancora in automatico, come si vede: non c’è altra spiegazione. Eppure al sindaco di Pisa vorrei far notare che Napoli ha una storia culturale enorme, che risale a centinaia di anni addietro. Senza voler scomodare la Magna Grecia, basterà considerare che l’Università di Napoli “Federico II”, tuttora esistente, è nata nel XIII secolo, fondata dall’omonimo imperatore normanno, considerato padre delle arti e delle scienze, definito “stupor mundi”, “stupore del mondo”. L’Università di Napoli è tra le più antiche d’Italia e del mondo, mentre l’Università di Pisa è stata fondata un secolo dopo e la “Normale” addirittura nell’Ottocento! Prima, dunque, di stracciarsi le vesti pensando che la “Normale” viene a sporcarsi, colonizzando una terra di selvaggi, il sindaco pisano e Salvini farebbero bene a studiare un po’ di storia. È facile, oggi: basterebbe almeno consultare Wikipedia…
Razzismo radical chic: non si affitta a leghisti. Consigliere del Carroccio non trova casa: molti proprietari non vogliono «i fascisti», scrive Alberto Giannoni, Lunedì 04/02/2019, su Il Giornale. «Non si affitta ai razzisti». Ma non si affitta neanche «a chi pensa che la famiglia sia solo quella tradizionale» o a chi «crede che Salvini sia una persona degna di rispetto». Scene di ordinaria intolleranza. E nella civilissima Milano, a restare senza casa dovrebbero essere gli elettori leghisti. Visti i sondaggi degli ultimi giorni, molti appartamenti rischieranno di restare sfitti. Non li ha presi certo Giulio Manca, consigliere leghista di Zona 8 che - cercando un appartamento, anche in rete - negli ultimi mesi ne ha visti diversi, di annunci di questo tenore. «Cercando - racconta - ho notato più volte che alcune persone, presumo della sinistra milanese, specificano che non sono graditi inquilini che siano vicini alla Lega o che la pensano diversamente da loro. Si tratta dell'ennesima conferma del fatto che, nonostante le accuse che ci rivolgono, sono loro non democratici, sono loro a non accettare persone con idee diverse». «Credo che sia una forma di razzismo di una parte della sinistra» riflette il consigliere, che non ha alcun dubbio: «Questo clima non dipende da noi, assolutamente, ma dall'intolleranza di un pezzo di sinistra. Nel 2019 è triste che accadano cose simili». Per alcuni milanesi, proprietari di casa, i simpatizzanti leghisti sono alla stregua dei peggiori individui, come dimostra chi avverte di non volere «accumulatori di sporcizia, tossici all'ultimo stadio» e «razzisti/leghisti». «È assurdo - commenta il leghista Francesco Giani - ci sono persone che rifiutano di avere in casa qualcuno solo per un'idea o per un orientamento. Non pensavo che si potesse assistere a una cosa simile nella Milano del 2019. E se pensiamo alle scritte contro Salvini o agli attacchi alle sedi della Lega devo dire che siamo in un periodo non facile. Evidentemente diamo fastidio a qualcuno, ma in democrazia la risposta non può essere questa. Le idee si contrastano con le idee, non con l'odio. Purtroppo questo clima è alimentato da una parte dei mezzi di comunicazione e da pseudointellettuali, ma non fa bene al Paese e al sistema democratico, che noi abbiamo sempre rispettato».
· Il razzismo? Dipende dalla scarsa intelligenza.
Il razzismo? Dipende dalla scarsa intelligenza. Più sei stupido, più sei razzista. Lo dice la scienza. da Infofree il blog dell'informazione libera. Il razzismo? Dipende dalla scarsa intelligenza. Più sei stupido, più sei razzista. Lo dice la scienza. Il razzismo? Dipende dal QI basso. Ecco perché. Lo psicologo Gordon Hodson, della Brock Univerisity dell’Ontario, ha effettuato diverse ricerche negli ultimi anni volte ad osservare la correlazione – se mai ce ne fosse una – tra inclinazione ai pregiudizi, agli atteggiamenti conservatori, razzisti o omofobi e il QI. Un suo famoso studio mette in luce una correlazione piuttosto significativa che non ha mancato e non mancherà di far discutere.
Lo studio. Lo studioso ha infatti selezionato un campione britannico di circa 15000 bambini di 10/11 anni che sono stati sottoposti a test per la valutazione del quoziente intellettivo; lo stesso campione, 20 anni dopo, è stato ascoltato riguardo a opinioni su alcune tematiche del tipo “le donne che lavorano a tempo pieno causano un problema alla famiglia” “saresti disposto o meno a lavorare con persone di altre razze”, “è necessario educare i bambini a obbedire all’autorità”.
I test. I bambini che all’epoca del test avevano avuto i risultati più scarsi in termini di QI si sono rivelati essere mediamente più d’accordo con la linea conservatrice-discriminatoria rispetto a quelli che avevano avuto i risultati migliori. Al netto di generalizzazioni che sarebbero una sterile strumentalizzazione dei risultati della ricerca di Hodson, c’è un dato interessante che emerge da quanto osservato: un QI meno sviluppato risulta essere correlato alla resistenza al cambiamento, all’ostilità nei confronti del diverso e riluttanza verso il nuovo.
Le cause. Da questo consegue una posizione meno aperta al diverso in ogni sua forma. Il che riguarda non la bontà della persona ma la sua capacità di elaborare informazioni ad un livello più evoluto. Il che a sua volta determina il grado di limitazione entro il quale la persona si auto condannerà a vivere, o meno.
I dati. Dai dati è emerso anche come le persone con capacità cognitive meno sviluppate tendano ad avere meno contatti con le persone di altre razze e come i soggetti meno capaci di ragionamento astratto tendano a coltivare posizioni maggiormente omofobe. Si può quindi affermare che gli atteggiamenti discriminatori siano sintomo di una deficienza, in buona sostanza. Parafrasando qualcuno si potrebbe oggi dire “io ho un sogno: vivere in un mondo nel quale il QI delle persone sia abbastanza elevato da non arenarsi più su questioni – come il pregiudizio e la paura del diverso – che non riguardano a questo punto più la sfera morale ma l’auspicabile maggiore sviluppo cognitivo dei futuri abitanti del nostro pianeta.
SFORNIAMO GENERAZIONI DI ASINI. Lorena Loiacono per “il Messaggero” il 4 maggio 2019. Se queste fossero le pagelle di fine anno, le bocciature in Italia fioccherebbero a migliaia. Soprattutto al Sud. In terza media infatti non raggiungono la sufficienza in italiano più di un ragazzo su tre, in matematica addirittura 4 su dieci. È quanto emerge dalla fotografia scattata dal Rapporto Istat sui Sustainable Development Goals, gli obiettivi dello sviluppo sostenibile adottati con l' Agenda 2030 dall' Assemblea Generale delle Nazioni Unite per intervenire sulle criticità. Tra i vari obiettivi fissati dall' Agenda 2030, c' è anche quello legato all' educazione e alla formazione dei ragazzi. Secondo i dati dell' Istat, che si basano sulle rilevazioni svolte dall' Invalsi, i ragazzi che frequentano l' ultimo anno delle scuole medie si affacciano alle superiori con gravi insufficienze: il 34,4% infatti non raggiunge la sufficienza nelle competenze alfabetiche, riportando gravi difficoltà nella comprensione dei testi, mentre il 40,1% ha seri problemi con la matematica. Il quadro generale svela differenze importanti a livello territoriale. Le regioni dove si registra la maggiore presenza di ragazzi con difficoltà a ricostruire significati complessi, infatti, si trovano al Sud: in Campania si raggiunge la percentuale più alta pari al 50,2% di insufficienze in lettura, di poco inferiori le percentuali che si registrano in Calabria e in Sicilia dove si resta comunque sull' ordine di uno studente su due impreparato in italiano. Sempre al Sud e sempre in queste tre regioni si rilevano i peggiori risultati anche in matematica. A fronte di una media nazionale di 4 ragazzi impreparati su 10, in Campania e Calabria si sale addirittura a quota 6 su 10 e in Sicilia il dato cala di poco. In entrambi i campi presi in considerazione dai test invalsi, italiano e matematica, a fare la differenza è il genere: in matematica infatti i ragazzi vanno meglio rispetto alla media nazionale, le femmine al contrario raggiungono risultati migliori in italiano. Quando poi si passa al secondo ciclo di istruzione, alla scuola superiore, le criticità continuano a farsi sentire, ma con un quadro molto differenziato a seconda del percorso di studi scelto. Per quanto riguarda il secondo anno delle scuole superiori, infatti, il risultato medio cambia in base al tipo di istituto: il 17,7% dei liceali non raggiunge la sufficienza nelle competenze alfabetiche mentre uno su tre è scarso in quelle matematiche. Se invece si osservano i ragazzi al secondo anno degli istituti tecnici, risultano insufficienti in lettura poco meno di 4 ragazzi su 10 e in matematica il 42,3%. La pagella più brutta arriva dai professionali: sette studenti su dieci non raggiungono la sufficienza in lettura mentre quasi 8 su 10, il 77,2%, è insufficiente in competenze numeriche. Nel rapporto Istat una sezione a parte è dedicata al titolo di studio terziario: la laurea. In Italia meno di un ragazzo su 3, in età compresa tra i 30 e i 34 anni, possiede una laurea: il 27,9%. Il dato soddisfa l'obiettivo nazionale previsto da Europa 2020, fissato al 26-27%, ma resta comunque decisamente inferiore rispetto a quello dell' Unione Europea che arriva al 40,5%: il dato italiano è superiore solo a quello della Romania. A spiccare in questo campo sono le donne: nel 2018, infatti, il 34% delle donne di 30-34 anni ha una laurea contro il 21,7% dei coetanei maschi. Si tratta di percentuali in aumento rispetto al passato: nel 2004, erano rispettivamente il 18,4% e il 12,8%.
Uno studente su tre esce dalle medie senza sapere leggere, scrivere e far di conto. Pubblicato venerdì, 33 maggio 2019 da Corriere.it. Come è possibile che, con una percentuale praticamente del 100 per cento di promossi in terza media, al test Invalsi di italiano ottengano la sufficienza piena soltanto il 65,6 per cento degli studenti? Va addirittura peggio in matematica dove i «promossi», cioè coloro a cui è riconosciuto un livello di competenze matematiche sufficiente o più alto, sono il 59,9 per cento. Il dato, pubblicato dall’Invalsi a luglio 2018, è stato rilanciato nei giorni scorsi dal Rapporto Istat «SDGs 2019. Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia», nel capitolo dedicato al quarto «goal» dell’agenda, quello per una educazione di qualità per tutti: un obiettivo che - a leggere i risultati degli alunni italiani nelle prove Invalsi - è ancora molto lontano, viste le enormi disparità regionali e di genere registrate nei test e le drammatiche sacche di povertà educativa persistenti nel nostro Paese.
Istat, ragazzini promossi ma ignoranti. Il 34% alla fine della terza media non ha competenze sufficienti. Lo studio condotto sulla base delle prove Invalsi: le conoscenze rimangono a livello superficiale. Salvo Intravaia 3 maggio 2019 su La Repubblica. Promossi a giugno, e magari con una buona media, ma in difficoltà nella lettura e nella comprensione di un semplice brano o di fronte ai calcoli, anche elementari. È quello che emerge dall’ultimo report dell’Istat sugli Obiettivi per uno sviluppo sostenibile. Il rapporto 2019, diffuso qualche giorno fa dall’Istituto italiano di statistica, scandaglia tutti gli aspetti della vita economica e sociale del sistema Italia, mettendo al quarto posto, su 17 obiettivi, “l’istruzione di qualità per tutti”. Un aspetto che figura soltanto dopo la lotta alla povertà, la lotta alla fame e al benessere e alla salute. Scorrendo i dati sul livello effettivo di istruzione dei ragazzi italiani, calcolati in base all’Invalsi, si scopre che oltre un terzo non raggiunge una competenza alfabetica neppure sufficiente. Inondati dal linguaggio iper veloce e spesso sgrammaticato, zeppo di xché, xò e di emoticon, gli studenti del terzo anno della scuola media entrano sovente in crisi al momento di decodificare il contenuto di un brano scritto, che riescono a comprendere solo superficialmente. Secondo il Rapporto SDG (Sustainable Development Goals), il 34,4% degli studenti italiani che frequentano il terzo anno della scuola media “non raggiungono un livello sufficiente di competenza alfabetica”. Riescono cioè a decodificare solo brani semplici e con informazioni esplicite. Appena il testo richiede di riconoscere e ricostruire autonomamente significati complessi, anche impliciti, le cose si complicano. Ed un terzo dei nostri ragazzini entra in difficoltà. Stesso discorso per la competenza numerica, quella che rende capaci i ragazzi di risolvere problemi anche di una certa complessità, come quelli che si presentano quotidianamente sulle questioni economiche o statistiche. In questo caso, la quota di adolescenti carenti, che si troverà in difficoltà a decifrare il mondo che li circonda, sale al 40%: quattro su dieci. I dati come detto sono dell’Invalsi e relativi al 2018. Ed è al Sud che questi valori crescono e oltrepassano sovente il 50%. E cambia poco se si analizzano i dati relativi ai ragazzi del secondo anno della scuola superiore. La quota di studenti che, nonostante le promozioni a scuola, incontra difficoltà in italiano e matematica resta praticamente invariata, descrivendo una situazione che la scuola, da sola, non riesce a fronteggiare. Oggi, spiegano gli insegnanti, gli studenti fanno fatica a concentrarsi nello studio perché immersi in un mondo iper connesso in cui tutte le operazioni si svolgono a velocità sostenuta. E per gli approfondimenti c’è sempre meno tempo. “Il concetto di sviluppo sostenibile è introdotto per la prima volta - si legge nel dossier - nel Rapporto our common future rilasciato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo del programma delle Nazioni unite per l’ambiente. Nel documento è definito sostenibile quello sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Un concetto che proprio in questi giorni è tornato ad essere di estrema attualità. Con la studentessa svedese Greta Thunberg che, in difesa dell’ambiente e contro la produzione selvaggia che danneggia la Terra, ha sollevato le coscienze dei giovani di mezzo mondo. Paolo Mazzoli è direttore dell’Invalsi e non si sorprende troppo di questi dati. “Probabilmente, il nostro insegnamento è ancora troppo scolastico. Mentre le prove Invalsi non sono prove propriamente scolastiche, scandagliano competenze durevoli, profonde. Ecco perché, probabilmente, i ragazzi entrano in difficoltà appena si trovano di fronte alla risoluzione di problemi di realtà o nel decodificare i significati più profondi di un testo scritto”.
Scuola, troppi copioni ai test Invalsi: studenti del Nord più bravi di quelli del Sud. Leggo Giovedì 9 Luglio 2015. Aumenta in generale il numero di chi ha copiato le prove Invalsi, mentre gli studenti più bravi si trovano al Nord Italia. Sono questi alcuni degli esiti della prove Invalsi presentati il 9 luglio al Ministero dell'istruzione. Il fenomeno del cheating è in aumento rispetto all'anno scorso in Sicilia, Calabria, Molise e Campania. Per i prossimi anni si sta studiando per far affrontare la Prova Invalsi per via informatica. È quanto segnala Skuola.net che ha partecipato alla presentazione dei dati Invalsi al Miur.
ARGOMENTARE, TROPPO DIFFICILE PER GLI STUDENTI - Per quanto riguarda le prove di italiano è stato più difficile per gli studenti affrontare testi in cui si deve argomentare sul tema. Un aspetto complesso che si rispecchia anche nelle prove di matematica, quando ai ragazzi è stato chiesto di rispondere alle domande e articolare sulle risposte.
IL NORD MEGLIO DEL SUD - Le differenze tra gli studenti migliori e quelli peggiori emergono dalle scuole primarie in poi. Gli istituti tecnici del Nord Italia hanno una preparazione solida come quella dei licei. Lo stesso però non si può dire delle scuole tecniche del Sud, dove la variabilità dei risultati tra scuole e classi è molto sentita. Gli studenti migliori del Centro Italia sono comunque i marchigiani.
LE FEMMINE FORTI CON LE PAROLE, I MASCHI CON I NUMERI - Le ragazze amano scrivere e cimentarsi sulle materie umanistiche. E per questo sono più brave dei ragazzi in italiano. I maschi invece vincono sulle materie logiche e sono più pratici delle femmine in matematica.
Test Invalsi, il 35% degli studenti di terza media non capisce un testo d'Italiano. E al Sud 8 su 10 in ritardo sull'Inglese. I risultati delle Prove nazionali: leggeri miglioramenti per Matematica e Lingue alla secondaria di primo grado. L'Istituto di valutazione: "Il Meridione ha studenti in grande sofferenza". Il ministro Bussetti: "Motivi di preoccupazione". Corrado Zunino il 10 luglio 2019 su La Repubblica. I risultati delle prove Invalsi nazionali, che quest'anno contemplano anche l'analisi di qualità e attitudini dei nostri studenti di quinta superiore, mostrano un livello critico degli apprendimenti di bambini (seconda e quinta elementare), adolescenti (terza media) e ragazzi (seconda superiore e, appunto, quinta). Si avverte un leggero miglioramento, rispetto al 2018, per gli studenti della scuola superiore di primo grado, soprattutto in Matematica e Inglese, ma le larghe zone d'ombra faticano ad essere illuminate. L'istruzione al Sud resta un'emergenza. Così come, soprattutto nel Meridione d'Italia, l'idea di una scuola equa.
Campania, Calabria, Sicilia alle medie: tre anni persi. I livelli di assimilazione in Italiano, Matematica e Inglese mostrano differenze marcate nel Paese e le distanze, ancora contenute nella scuola elementare, crescono alle medie e diventano rilevanti alle superiori (il lavoro mette in discussione il convincimento collettivo che le medie inferiori siano il buco nero dell'istruzione italiana, sono solo uno dei passaggi critici). Bene, in seconda elementare il blocco di chi raggiunge risultati largamente insufficienti in Italiano (si parla di comprensione del testo) è pari al 20 per cento: uno scolaro ogni cinque. E se in Umbria e Basilicata quest'area supera di poco il 10 per cento, in Calabria si arriva al 24 per cento (peggio ancora nella provincia autonoma di Bolzano, ma in questo caso dipende dalla larga platea discente di lingua tedesca). Nelle stesse classi - sempre la seconda della primaria - la forbice si allarga se si prende in esame Matematica. La media dei "largamente insufficienti" del Paese qui è pari al 28 per cento, in Campania e in Calabria si arriva al 35. Vanno segnalati, anche in questo caso, i risultati confortanti della Basilicata con una quota di forte sofferenza sotto il 15 per cento, la più bassa tra le venti regioni italiane. Alle ampie difficoltà scolastiche del Sud si sottrae anche la Puglia. Il sistema scolastico nell’Italia meridionale e nelle Isole non solo continua a essere meno efficace rispetto all’Italia centrale e soprattutto settentrionale, ma coltiva un'ingiustizia di censo. La variabilità dei risultati tra scuole differenti e tra classi presenti nello stesso plesso, nel primo ciclo d’istruzione, è consistente e in ogni caso più alta che al Nord e al Centro, così come sono più elevate le percentuali di alunni con status socio-economico basso che non raggiungono livelli adeguati nelle prove. In particolare, in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna. Rispetto al 2018, tuttavia, alcune variazioni in positivo si osservano anche nella macro-area del Sud, nel primo ciclo d’istruzione e nel biennio del secondo ciclo. La crescita costante delle differenze Nord-Sud tra i 7 e i 19 anni si vede già con le prove Invalsi di quinta elementare. Gli allievi in "forte difficoltà" nella comprensione di un testo salgono nel Paese al 25 per cento: vuol dire uno su quattro. Calabria e Sicilia viaggiano, invece, hanno percentuali di dieci punti peggiori. Umbria e Marche mostrano una sofferenza intorno al 15 per cento: meno della metà rispetto all'estremo Sud. La Matematica allo stesso livello scolastico - stiamo parlando di pre-adolescenti di undici anni - acuisce le differenze: i "gravemente insufficienti" nel Paese diventano quasi un quarto, quelli della Calabria quasi quattro su dieci (con la Basilicata che detiene ancora il risultato migliore: 15 per cento di "ritardi seri"). Anche in Inglese lo stacco tra Settentrione e Meridione è netto. Nella comprensione (listening) si trova sotto il livello A1, l'Inglese basico, il 15 per cento degli scolari italiani di quinta e il 32 per cento degli scolari sardi. In terza media le differenze non si contengono più e i ritardi scolastici meridionali diventano una frattura nazionale. I problemi nella comprensione di un Italiano adeguato all'età si fanno seri in tutto il Paese: il 35 per cento dei quattordicenni, infatti, è al livello 1 e 2 (su una scala di cinque), ma in Calabria addirittura uno studente su due ha problemi di comprensione di un testo. Le Marche mostrano anche alle medie i risultati migliori. Per comprendere cosa si intende per livello 1 nella comprensione di un testo in terza media, l'Invalsi indica questo specchietto: "Al livello 1 l’allievo individua singole informazioni date esplicitamente in parti circoscritte di un testo. Mette in relazione informazioni facilmente rintracciabili nel testo e, utilizzando anche conoscenze personali, ricava semplici informazioni non date esplicitamente. Conosce e usa le parole del lessico di base e riesce a ricostruire il significato di singole parole o espressioni non note, ma facilmente comprensibili". Passando all'insidiosa Matematica la sofferenza tra gli studenti italiani, sempre in terza media, sale al 38 per cento - si parla di difficoltà rispetto a nozioni base -. In Sardegna e in Campania si supera il 50 per cento, in Sicilia ci si avvicina al 60 e in Calabria sono sei i ragazzi ogni dieci che non conoscono i ferri del mestiere della disciplina. "Possiamo dire che in larghe parti del Sud ci sono adolescenti che affrontano l'esame di terza media avendo competenze da quinta elementare", spiega Roberto Ricci, direttore generale dell'Invalsi, l'Istituto nazionale di valutazione del sistema educativo. Sulla comprensione dell'Inglese, ancora, i "gravi ritardi" in Valle d'Aosta sono poco meno di uno su cinque, in Sicilia sfiorano il 65 per cento.
Inglese, maggioranza dei maturandi sotto il livello B1. In seconda superiore gli "scarsi" in Italiano sono il 30 per cento, oltre il 45 in Calabria e Sardegna. I migliori risultati si vedono in Valle d'Aosta, Veneto e nelle due province autonome di Trento e Bolzano. Le forti difficoltà in Matematica sono al 38 per cento sul livello medio nazionale e oltre il 60 in Sardegna. Nella stessa disciplina i guai (e le differenze) esplodono in quinta: all'esame di Maturità approdano diciannovenni che nel 42 per cento dei casi hanno lacune larghe. In Calabria e in Sicilia i "gravi ritardi" superano il 60 per cento, in Campania si tocca l'aliquota sessanta, in Sardegna la si sfiora. Sull'Inglese il livello è imbarazzante (per la scuola italiana, ben prima che per i ragazzi). In Calabria quasi sette maturandi su dieci non riesce a leggerlo, in Calabria e in Sicilia l'85 per cento non lo comprende (al livello richiesto seguendo standard europei). Il dato medio del Paese sulla seconda lingua resta da allarme rosso: quasi il 50 per cento non sa leggere, il 65 per cento non raggiunge il livello B1 previsto, appunto, dai programmi di quinta superiore.
Le ragazze meglio nelle Lettere (italiane e straniere). In seconda primaria, la differenza tra maschi e femmine nei risultati delle prove Invalsi è di tre punti in Italiano, a favore delle seconde, e tre punti in Matematica, a favore dei primi. In quinta elementare le pre-adolescenti superano i coetanei di nove punti in Italiano mentre una differenza di sei punti si registra, ma a parti rovesciate, in Matematica. Nell'Inglese, sia nell’ascolto che nella lettura, le femmine conseguono un risultato migliore, di quattro punti nel primo caso e di sei punti nel secondo. In terza media la differenza si attesta a nove punti in Italiano e a tre punti in Matematica, a vantaggio nel primo caso delle femmine e nel secondo dei maschi. In Inglese, come già in quinta primaria, le studentesse ottengono un punteggio più alto dei maschi di sette lunghezze nella prova di ascolto e otto nella prova di lettura.
Gli stranieri faticano con le cifre, bene in Inglese. In tutti i gradi gli alunni stranieri ottengono in Italiano e in Matematica punteggi nettamente più bassi di quelli degli italiani. Le distanze tendono, però, a diminuire nel passaggio tra la prima e la seconda generazione d’immigrati e nel corso dell’itinerario scolastico, in particolare in Matematica, materia dove pesa meno la padronanza della lingua del Paese ospitante. In terza media, classe terminale del primo ciclo d’istruzione, la differenza tra italiani e stranieri di seconda generazione è, a livello nazionale, di diciotto punti in Italiano e di nove in Matematica. Nella scuola secondaria di secondo grado il divario in Lettere tra gli studenti italiani e quelli d’origine straniera si attesta sul piano nazionale, in seconda superiore, a ventiquattro punti rispetto agli stranieri di prima generazione e a tredici rispetto agli stranieri di seconda. In Matematica le differenze sono rispettivamente di diciassette e sette punti. Per i maturandi le distanze si riducono a diciassette e nove punti in Italiano e a nove e cinque punti in Matematica. La sola materia dove gli alunni stranieri conseguono risultati simili a quelli dei loro compagni italiani è l’Inglese: in varie regioni, gli stranieri, in particolare di seconda generazione e nella prova di ascolto, fanno meglio degli italiani. Considerando l’Italia nel suo insieme, in quinta elementare gli alunni stranieri di prima e seconda generazione superano di alcuni punti gli italiani nell’ascolto, ma non nella lettura. I dati del Rapporto Invalsi - l'adesione ai test in quinta superiore è stata del 96,4 per cento - evidenziano "innegabili motivi di preoccupazione, ma anche motivi di novità e interesse". Lo ha detto il ministro dell'Istruzione Marco Bussetti alla presentazione dei risultati, oggi alla Camera. "L'Invalsi è uno strumento che consente di avere una foto articolata e dettagliata del nostro lavoro", ha aggiunto, "come ministero siamo convinti dell'importanza della valutazione standardizzata degli apprendimenti che, tuttavia, si deve integrare e affiancare all'insostituibile ruolo della valutazione dei docenti". Critico il presidente della Commissione Cultura della Camera, Luigi Gallo (M5s): “Le valutazioni da sole non bastano se non si attiva un processo di miglioramento. Da vent'anni si mappano i guasti, senza però lavorare alle soluzioni. È necessario investire più risorse per sviluppare processi di miglioramento, per esempio rafforzando l’azione di Istituti di ricerca come Indire a cui va dato un ruolo cardine nella formazione e nella promozione concreta di processi di miglioramento della scuola”.
Dagli al meridionale, fin da quando è studente.
Se i numeri li fai leggere ai media del settentrione, è logico che il risultato è sfalsato.
Risultato che si scontra con la realtà dei fatti.
Nord-Sud, la Maturità rovescia l’Invalsi Puglia prima per lodi, Calabria seconda. Pubblicato lunedì, 22 luglio 2019 da Orsola Riva e Valentina Santarpia su Corriere.it. Quest’anno per la prima volta anche gli studenti di quinta superiore hanno sostenuto i test Invalsi di italiano matematica e inglese. Benché non fossero indispensabili per essere ammessi all’esame di Maturità né tanto meno facessero media, il grado di adesione è stato altissimo: oltre il 96 per cento. Da domani, martedì 23 luglio, i neo diplomati che lo desiderino potranno verificare il livello che ciascuno di loro ha raggiunto collegandosi al sito invalsiopen.it e digitando il codice personale che gli è stato dato durante le prove eseguite al computer la primavera scorsa. E magari confrontarli con il voto di Maturità. Non mancheranno le sorprese visto che, solo per fare un esempio, gli studenti calabresi che nelle prove standardizzate sono andati malissimo (più della metà non ha raggiunto la sufficienza in italiano né in matematica, dove sono andati anche peggio), alla Maturità invece sono arrivati secondi dopo i colleghi pugliesi, ottenendo una percentuale di lodi quattro volte superiore ai colleghi della Lombardia che invece primeggiano nell’Invalsi. Ed è vero che un conto sono dei test standardizzati a risposta multipla il cui scopo non è di misurare gli studenti ma di radiografare il sistema scolastico italiano segnalando cosa funziona e dove e cosa no; tutt’altro un esame che almeno nelle ambizioni vorrebbe accertare il livello di maturità culturale, personale e perfino civile raggiunto da ciascuno candidato nel corso dei tredici anni di carriera scolastica (come si è visto chiaramente sia nella scelta delle tracce del tema, su Mafia ed eredità del Novecento, che all’orale dove per la prima volta i candidati quest’anno sono stati interrogati anche sulle cosiddette attività di Cittadinanza e Costituzione). Ma non si può non riconoscere che la pubblicazione dei risultati Invalsi avrà come effetto paradossale che lo stesso studente in alcuni casi si ritroverà in mano due carte d’identità scolastiche con «altezza» «peso» e «colore degli occhi» non coincidenti. E i tanti pur bravi studenti lombardi resteranno con l’amaro in bocca per il cento o la lode mancata (la prendono solo lo 0,7 per cento: è la percentuale più bassa d’Italia) e magari anche con la sgradevole impressione di essere vittime della involontaria concorrenza sleale dei colleghi di altre regioni non solo del Sud ma anche del Centro (l’Umbria per esempio, che nell’Invalsi si attesta su valori in linea con la media nazionale, ottiene il triplo di lodi alla Maturità: 2,4 per cento). Ma poi potranno contare sull’alto di livello di competenze realmente raggiunto. Mentre sul lungo periodo i più penalizzati da questo sistema di valutazione così poco omogeneo saranno proprio gli studenti del Sud, calabresi in testa, che per tre quarti vengono licenziati con voti sopra il 70 senza però essere diventati dei cittadini realmente consapevoli, visto che più della metà di loro non è in grado di capire un testo di argomento astratto. Cosa conterrà - per chi vorrà confrontarcisi - la pagella dell’Invalsi? Nessun voto o punteggio, ma una descrizione qualitativa dei livelli di competenza raggiunti al termine della scuola. Mentre per italiano e matematica sono cinque con il 3 che corrisponde alla sufficienza, per l’inglese i livelli sono invece quelli stabiliti dal Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (QCER) e sono solo tre: non ancora B1 – B1 (corrispondente al «pre-intermediate») che è il livello atteso già alla fine della terza media – B2 («intermediate»), che invece sarebbe il traguardo da raggiungere al termine delle superiori.
Università, sorpresa dal Sud. Quante start up dietro quel pezzo di carta. Un’autorevole rivista britannica pubblica la graduatoria degli atenei con i più alti tassi di trasferimento tecnologico e la sorpresa è sbalorditiva. L’importanza strategica di dialogare con imprese e istituzioni e le tante start up nate grazie alla collaborazione con i centri di ricerca. La Repubblica l'8 luglio 2019. In questo effluvio di patriottico orgoglio, di inni di Mameli urlati al cielo con l’occhio madido, la braga corta e una palla sottobraccio, chissà mai che un giorno si rivendichi uguale fierezza per certi risultati che non ti aspetti ma che portano autentico lustro al nostro Paese. Succede che, scorrendo le schermate dell'autorevole THE, acronimo che sta per Times Higher Education, punto di riferimento per il mondo accademico più evoluto, ci si imbatta in una classifica strategica, che calcola, tra gli altri, un indice di capacità degli atenei di trasferire tecnologia alla società civile. E’ un dato tenuto in grande considerazione dagli esperti perché, se l’obiettivo di un’università resta quello di formare professionisti capaci di competere con gli altri colleghi del pianeta, è indispensabile che questa preparazione avvenga in un contesto fertile, ricco di occasioni e possibilità, non in un deserto produttivo e occupazionale. Chi sarà mai la prima Università italiana in questo ranking 2019, davanti a diversi prestigiosi atenei quali l’Università di Bonn e l’University of Science and Technology of China? Sorpresa: University of Calabria. Proprio così, nella terra dei migranti universitari, di intere generazioni costrette a salutare famiglia e amici per trapiantarsi altrove, spesso definitivamente, UniCal (abbreviato) riesce finalmente a gettare il proprio seme e a farlo fruttare. Volete la prova? Qualcuno avrà sentito parlare di Gipstech, l’applicazione di localizzazione per musei e luoghi al chiuso che funziona senza wi fi e che - da non credere - è stata adottata perfino nel museo di Storia dell’Informatica di Google a Mountain View, proprio in casa dei padroni della navigazione satellitare, e all’aeroporto Narita di Tokio, tanto per citare alcuni esempi. Un lavoro figlio dell’Università di Calabria. Ancora: Altilia è una società che ha inventato il Mantra deep insight platform, un programma che interpreta in modo straordinariamente funzionale e intelligente i big data in possesso a grossi gruppi imprenditoriali offrendo loro possibilità altrimenti non immaginabili per sviluppare il proprio business. E poi Ocore, start up che ha creato la crema alla cipolla di Tropea con effetti straordinari per le ulcere procurate dal diabete, migliore idea innovativa 2017, vincitrice del Premio nazionale dell’Innovazione, oppure Innovacarbon, altra start up che si è aggiudicata lo stesso premio nel 2018 per il sistema di filtraggio delle acque inquinate da idrocarburi. Tutti progetti e tutte imprese ad alto profilo innovativo passate, sostenute e affiancate da UniCal. “Sono oltre vent’anni che lavoriamo su trasferimento tecnologico e interazione con le aziende - spiega Giuseppe Passarino, delegato dal rettore al trasferimento tecnologico -, non a caso siamo soci fondatori di Netval e PniCube, le principali associazioni che coordinano politiche di innovazione e trasferimento tecnologico delle Università Italiane. Si è cominciato collaborando con le imprese nei settori della informatica e dell’ingegneria ma nel tempo abbiamo toccato aree tradizionalmente meno propense, grazie al lavoro incessante del nostro Liaison Office, che fa dialogare il nostro Ateneo con tante realtà locali e no. Durante questo periodo abbiamo prodotto circa 120 brevetti, in parte ceduti, e attualmente ne abbiamo circa 60 in portafoglio. UniCal conta 48 aziende SpinOff (create da nostri ricercatori o studenti) undici delle quali attive nel nostro Incubatore Technest mentre le altre sono ospitate presso i Dipartimenti. A queste ne vanno aggiunte altre dieci che, conclusa l’incubazione, sono ormai fuori dal nostro Ateneo e ora camminano con le proprie gambe”. La presenza dell’Università di Calabria è stata decisiva per l’affermazione del distretto di Sibari dove si pratica l’agricoltura avanzata e nei sistemi di bioedilizia. Sono diverse le aziende che hanno aperto e apriranno la loro sede nei dintorni dell’Università per meglio interagire con i gruppi di ricerca UniCal. Non solo: ad aprile è stato sottoscritto un accordo con Mito Technology che mette a disposizione dell’Università di Calabria e delle sue start up un fondo di investimenti di 40 milioni di euro.
· Quei razzisti come i tedeschi.
Federico Giuliani per ilgiornale.it il 27 novembre 2019. La Germania ha gonfiato il bilancio di Stato dal 2013 a oggi, approfittando sia dei tassi negativi applicati dalla sua banca centrale, sia dalla contabilizzazione degli incassi derivanti dalle emissioni degli stessi tassi negativi. Per capire la magia utilizzata da Berlino, dobbiamo prima spiegare il contesto all’interno del quale si è mosso il governo tedesco. Da ormai diversi anni, le banche centrali hanno iniziato ad applicare tassi di interesse negativi su prestiti e depositi. Come sottolinea Il Sole 24 Ore, nel mondo stanno circolando oltre 12 mila miliardi di dollari di obbligazioni con rendimenti sottozero. Cosa significa tutto questo? Quando parliamo di tasso di interesse positivo, nel momento in cui si acquistano alcuni prodotti finanziari, come ad esempio i titoli di Stato, o si depositano i soldi in una banca, si ottiene un certo profitto, in base alla percentuale del prezzo pagato o della somma piazzata. Se invece il tasso è negativo, chi ha intenzione di depositare una somma o acquistare titoli di Stato deve pagare qualcosa. Per quale motivo? Alcuni prodotti o servizi, come quelli citati, garantiscono agli investitori una grande sicurezza. I titoli tedeschi, ad esempio, sono considerati sicuri nonostante il passare del tempo, e c’è chi è disposto anche a pagare pur di possederli. Così facendo, gli Stati non pagano interessi sui propri debiti, ma anzi ricevono denaro da chi gli ha prestato i soldi acquistando bond. Se alla storia dei tassi negativi uniamo anche la contabilizzazione sui bilanci correnti degli incassi arrivati da questi tassi, il binomio è completo.
Il trucco di Berlino. La Germania, da sei anni a questa parte, ha già messo a bilancio gli utili derivanti dall’emissione di Bund per un valore di 25 miliardi di euro, ovvero la stessa cifra destinata dall’Italia per la manovra di Bilancio. La magia, o per meglio dire il meccanismo, è semplice: nel caso in cui Berlino emettesse un Bund a 105 da rimborsare dopo due anni a 100, può farlo proprio grazie al tasso di interesse negativo concordato con il creditore. Se gli effetti sono trascurabili per le obbligazioni a breve termine, lo stesso non può dirsi per quelle a lunga scadenza. Già, perché queste ultime possono esser fatte confluire nel bilancio pubblico corrente, gonfiandolo a dismisura. Lo scorso 19 giugno il governo tedesco ha ricevuto 1,588 miliardi di euro per l’emissione di un’obbligazione dal valore nominale di 1 miliardo di euro; i 588 milioni di euro di utile sono subito stati destinati al bilancio.
I rischi per le generazioni future. Siamo sempre stati abituati a considerare la Germania un colosso, ma buona parte dei muscoli tedeschi sono fittizi e frutto di plusvalenze. Nel 2019, proprio per via delle plusvalenze da emissioni incamerate nel bilancio, la Germania potrebbe gonfiare il proprio bilancio di ben 7,5 miliardi di euro. Se oggi per Berlino è tutto oro quel che luccica, lo stesso non diranno le generazioni future, che si ritroveranno costrette a rimborsare le salatissime cedole di obbligazioni a lungo termine.
«C’è emergenza nazismo». La mozione che scuote Dresda. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it da Paolo Valentino. Votato in consiglio comunale un documento per arginare «le azioni di xenofobi e violenti». «Dresda ha un problema con i nazionalsocialisti». Lo dice il Consiglio comunale della capitale della Sassonia, in una risoluzione approvata a maggioranza al termine di una infuocata seduta. Il documento proclama l’«emergenza nazismo» nella città sull’Elba e invoca protezione per le vittime e le minoranze della violenza di destra. È un atto soprattutto simbolico. Ma alla vigilia del trentesimo anniversario della caduta del Muro e della fine della divisione Est-Ovest, conferma l’allarme per la crescente attività di un’estrema destra ultranazionalista, violenta e aggressiva in tutta la Germania e soprattutto nei Länder della ex Ddr. Presentata da Max Aschenbach, consigliere dello Spasspartei, il partito dello spasso, la mozione ha provocato inizialmente una discussione molto polemica. La Cdu, parte del gruppo liberale e i Frei Wähler (liberi elettori) hanno contestato l’uso del concetto di «emergenza nazista», che secondo loro ricalca lo stesso linguaggio dei nazionalsocialisti e «porta acqua al mulino di chi vuol dare lezioni a Dresda», che fra l’altro nel 2025 sarà «capitale della cultura europea». Alla fine, nonostante sia stata ampiamente emendata rispetto alla formulazione iniziale, la risoluzione è passata con 39 voti favorevoli e ben 29 contrari. L’hanno votata Spd, Verdi, Linke, alcuni indipendenti e la Fdp nonostante le forti perplessità. Contrari la Cdu, i Frei Wähler e ovviamente l’AfD, il partito di estrema destra. A Dresda, secondo il documento, «emergono strutture e azioni antidemocratiche, antipluraliste, xenofobe e di estrema destra sempre più forti e anche violente». Sono necessari un rafforzamento della cultura democratica, una maggior difesa dei gruppi e dei singoli oggetto delle violenze, un impegno più forte contro le cause della recrudescenza neonazista. Il borgomastro Dirk Hilbert (Fdp) viene incaricato di elaborare un programma di misure e iniziative concrete per i prossimi cinque anni. La mozione tuttavia fa appello anche alle autorità del Land, invitandole a «perseguire con tutti i mezzi dello Stato di diritto i responsabili delle violenze di estrema destra». Che Dresda sia da anni palcoscenico privilegiato della canaglia neonazista è un fatto risaputo. Nella città dipinta da Canaletto è nato Pegida, il movimento anti-islamico e anti-immigrazione che ha fatto da rampa di lancio ai successi elettorali di AfD che, alle ultime regionali, è stata primo partito con il 20% dei voti. E anche se ha fatto meglio nella Sassonia nel complesso, con il 25% dei consensi, è Dresda la città simbolo del movimento. La minaccia neonazista ha confermato la sua gravità con il recente attentato alla Sinagoga di Halle, dove un estremista ha ucciso 2 persone e solo per caso è stata evitata una strage di massa. Secondo l’Ufficio per la Difesa della Costituzione, il servizio civile tedesco, ci sono oggi in Germania 12.700 estremisti di destra disposti alla violenza. Di questi però «solo» 43 vengono considerati un pericolo immediato e pronti ad agire.
Proclamato a Dresda lo «stato d’emergenza nazismo». Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it. Non è la storia che ritorna. Lo «stato d’emerganza» proclamato a Dresda contro i movimenti e partiti che s’ispirano apertamente al nazismo è un atto di freschissima attualità. Una decisione shock che senza dubbio è destinata a far discutere. Lo stato d’emergenza è stato proclamato ieri a maggioranza dal Consiglio comunale della città capoluogo della Sassonia cittadino. La risoluzione motiva l’allarme «Nazinotstand» con il fatto che «atteggiamenti e azioni antidemocratici, anti-pluralisti, contrari all’umanità e di estrema destra che arrivano fino alla violenza vengono apertamente alla luce a Dresda in maniera sempre più forte». Contraria la Cdu (Partito cristiano-democratico) che ha criticato la delibera come «meramente simbolica e lessicalmente sbagliata». Nelle recentissime elezioni in Sassonia il partito di estrema destra, l’AfD (Alternativa per la Germania), ha superato a Dresda la soglia del 20 per cento, tallonando la Cdu primo partito (26,8% dei voti). Ma quello che più preoccupa in città sono i raduni dei nostalgici del terzo Reich a cui non mancano (quasi) di partecipare tutti i più importanti leader neonazisti del Paese. Come quelli organizzati e sponsorizzati da Pegida (Europei patrioti contro l’islamizzazione dell’Occidente), il movimento fondato proprio a Dresda nel 2014. A partire da quel momento sono diventati famosi i loro «raduni del lunedì» che vedono la partecipazione di molti giovani di estrema destra (come nel quartiere Dresden Neustadt, abitato da molti studenti) e gli anziani nostalgici del passato della ex-Ddr, contrari alle politiche di Angela Merkel. Il movimento è considerato da molti analisti della politica tedesca vicinissimo ad «Alternativa per la Germania» e al «Partito Nazionaldemocratico di Germania». La lunga mano di Pegida, ad esempio, s’è fatta sentire lo scorso anno nella città di Chemnitz, est Germania. Per moti giorni cortei di persone hanno sfilato con braccia tese e slogan nazionalisti. Tutto ha avuto inizio con l’omicidio di un uomo e l'arresto di due immigrati. Subito dopo è cominciata una forsennata caccia all’immigrato, accompagnata da scontri con gli oppositori della destra radicale. Chemnitz ha segnato un momento cruciale nella politica tedesca: con l’apporto di Pegida, si è cementata tutta la galassia dell’estrema destra contro la politica migratoria della cancelliera Angela Merkel.
I dimenticati della Germania: i senzatetto di Berlino. Andrea Muratore su it.insideover.com l'1 novembre 2019. La Germania è Paese ricco e diseguale, che a trent’anni dalla riunificazione non sconta solo le asimmetrie di un modello economico fondato sulle esportazioni ma anche le problematiche di unire al suo interno le contraddizioni di due modelli diversi come quello capitalista dell’Ovest e il vecchio apparato socialista dell’Est. Con l’integrazione delle vestigia del secondo nel primo che, a trent’anni di distanza, si è rivelata faccenda complessa, tanto che nel Paese continua a esistere un “muro” immateriale che divide l’ex Ddr e l’Ovest per tenore di vita, opportunità economiche, prospettive sociali e demografiche. C’è una città che, per contesto sociale, dinamiche economiche e retaggi storici, queste contraddizioni le assomma contemporaneamente nella loro interezza: la capitale Berlino. Berlino mira a proporsi al mondo come centro dell’economia dei servizi, capitale universitaria, meta d’attrazione turistica, città globale e arrembante. Ma nemmeno a Monaco o Francoforte, cuori pulsanti dell’economia tedesca, si percepisce tanto il divario tra “coloro che stanno di sopra” e tutti gli altri, tra i vincitori del modello economico e gli ultimi, gli emarginati. Forgotten men alla tedesca penalizzati dalla precarizzazione del lavoro, dall’aumento dei tassi di povertà, dalla riduzione del welfare. La cui massa è rappresentata dalle decine di migliaia di famiglie delle periferie berlinesi che sopravvivono con i minijob delle riforme Hartz, la “povertà per legge” che ha istituito il precariato continuo come condizione di lavoro, e le cui avanguardie sono i senzatetto, sempre più numerosi nel cuore politico ed economico dell’Europa. All’ombra della Porta di Brandeburgo il fenomeno degli obdachlosen (letteralmente “i senza casa”) coinvolge quasi 8mila persone. Il problema è di notevole importanza se si pensa che soprattutto d’inverno Berlino è città fredda, che mette a repentaglio la salute di chi dorme all’addiaccio. Die Zeit lo scorso anno ha riportato che 300 barboni sono morti di freddo negli inverni berlinesi dalla riunificazione a oggi. 16 i morti assassinati nel 2017 e 17 lo scorso anno: le violenze nelle comunità dei clochard sono un altro riflesso della disperazione e della precarietà a cui tale condizione costringe. Circa il 60% dei senzatetto sono stranieri. Molti, soprattutto rumeni e bulgari, “migrano” d’inverno per sfuggire alle rigide condizioni delle notti di burian delle loro stagioni fredde. Il gelo di Berlino, comunque, è sopportabile rispetto a quello di Sofia o Bucarest. Mense per i poveri, strutture di ospitalità, fondazioni religiose e organizzazioni caritatevoli fanno il possibile per assistere queste persone disperate. Come sottolinea Italia Oggi, molto spesso l’assistenza si sostanzia nel pagamento di affitti per alloggi personali ai senzatetto: “nel 2012 venivano assistite 222 famiglie, oggi sono quasi 600. E si aggiungono i single, a loro volta in rapida crescita. In media, il municipio paga 30 euro a notte e a testa, e l’ anno scorso il conto totale è ammontato a 56 milioni e 400 mila euro”. Il problema dei senzatetto spalanca la più ampia questione irrisolta dei “senza dimora” (wohnunglose), ovvero di coloro che non possono permettersi case proprie o affitti e devono quindi far riferimento a strutture d’assistenza e entrare in lista per alloggi pubblici in case popolari. Sono oltre 1,2 milioni di persone i cittadini che vivono in tale condizione, che coinvolge sia i 440mila rifugiati, ospitati in centri specifici, che cittadini tedeschi colpiti dal problema della gentryfication, la trasformazione di quartieri urbani popolari in zone esclusive e, ovviamente, costose. Berlino in questo contesto è esempio negativo, come denunciato dal presidente dell’Autorità federale per i senzatetto, Thomas Specht, che ha accusato i governi di Angela Merkel per aver trascurato programmi decisivi come l’edilizia popolare (servirebbero almeno 200mila unità in tutta la Germania) e non aver impedito che i nuclei esistenti venissero presi d’assalto dalla gentrificazione. Berlino corre con le altre metropoli europee e lascia indietro i suoi cittadini più deboli: il prezzo medio degli affitti in città si aggira intorno ai 20 euro al metro quadrato per casa. Cifra inarrivabile per i senzatetto coinvolti nel piano di assistenza sociale. La faglia centro-periferia arriva dentro le capitali, e assieme ai senzatetto di Berlino si materializza anche in Germania il fantasma della povertà estrema.
Mario Deaglio per “la Stampa” il 13 settembre 2019. Il nuovo aeroporto di Berlino proprio non sembra tedesco. Assomiglia a uno dei quei tanti progetti infrastrutturali italiani che non si realizzano mai, un misto di ritardi (un decennio), errori di progettazioni, scandali, rivalità regionali. I ritardi, del resto, non riguardano solo quest' opera pubblica ma anche le ferrovie, dove i treni a lunga percorrenza sono noti per la scarsa puntualità; e l' Alitalia non è la sola linea aerea a collezionare risultati negativi, la Lufthansa ha fatto registrare nella prima metà del 2019 una perdita di 116 milioni di euro contro un utile di 713 milioni nello stesso periodo dell' anno scorso. L' elenco potrebbe continuare e l' immissione di liquidità decisa ieri dalla Bce non è fatta per salvare l' Italia; è fatta invece per salvare la Germania e con essa l' intero sistema economico europeo di cui la Germania rappresenta il centro tecnologico e operativo al quale l' Italia è fortemente agganciata. Una volta tanto i cattivi non siamo noi e non è un caso che negli ultimi mesi, mentre sull' Italia piovevano i rimproveri (largamente giustificati) della Francia e dei paesi nordici, i tedeschi stavano quasi sempre zitti. Che cos' è dunque che non funziona in Germania, il paese della tranquillità sociale legata all' avanguardia tecnologica? I punti dolenti dell' economia reale sono almeno cinque. Al primo posto occorre mettere le banche. Quando, negli Anni Novanta, la globalizzazione portò all' apertura del grande mercato finanziario mondiale, il sistema bancario tedesco si trovò con moltissimi soldi e poca esperienza. E quei soldi spesso li investì male, caricandosi dei famosi titoli americani "subprime" che persero gran parte del loro valore e che ancora adesso turbano i sonni di molti banchieri tedeschi. L' elenco continua con l' industria dell' auto, i cui primati fanno (facevano) invidia a tutti, specie per quanto riguarda i motori diesel, prodotti in varianti sempre più efficienti e meno inquinanti. Purtroppo, alcuni dei test dell' inquinamento risultarono truccati con un apposito software, con la nota sequenza di indagini e multe astronomiche soprattutto negli Stati Uniti. Puntando sul diesel, i tedeschi avevano posto in seconda linea i motori elettrici e ibridi, per cui si sono trovati in difficoltà sui mercati mondiali. I risultati della rincorsa cominceranno a tradursi in vendite solo tra uno-due anni. Al terzo punto compare quello che può essere considerato un autentico, grave infortunio industriale: la tedesca Bayer, colosso mondiale della chimica, nel 2016 acquistò l' americana Monsanto per la bellezza di circa 60 miliardi di euro. Circa due anni più tardi, un tribunale americano accertò che un prodotto della Monsanto era cancerogeno, aprendo la strada alla prospettiva di miliardi di dollari di danni da pagare. L'episodio sembra ormai superato, il carico sui bilanci - e sugli investimenti del gruppo - probabilmente non ancora. Da queste storie bancarie e industriali passiamo ai grandi flussi commerciali della globalizzazione. La crescita tedesca è stata realizzata per la generale eccellenza (al di là dei pur importanti e clamorosi casi sopra illustrati) dei prodotti riconosciuta in tutto il mondo. Ed è stata la guerra dei dazi, iniziata dal presidente Trump, a rallentare, sia pure indirettamente, la corsa tedesca e poi ora a mandarla in negativo: la Cina vende meno agli Stati Uniti, il suo principale mercato, e imprese e famiglie cinesi hanno meno soldi per acquistare i prodotti europei, il che potrebbe mettere a rischio redditi e posti di lavoro non solo tedeschi ma anche, tra l' altro, italiani in quanto moltissime imprese italiane sono fornitrici apprezzate dell' industria tedesca. E così arriviamo all' ultimo punto dolente, che agli italiani sembra impossibile: in Germania il deficit/Pil non esiste. Il che significa che lo stato tedesco, forse l' unico nell' Unione europea, oltre ai Paesi Bassi spende (da diversi anni) meno di quanto incassa. In un certo senso, quest' anomalia dà ragione a quanti considerano che la Germania andrebbe punita, così come vengono sanzionati i paesi che accumulano troppo deficit, visto che l' obiettivo generale è l'equilibrio dei conti pubblici. Come si spiega questo comportamento virtuoso, di una ben strana virtù che impedisce all' economia tedesca di esercitare una vera funzione di leader in Europa, pur avendone tutti i requisiti economici? Le radici profonde si trovano naturalmente nella storia tedesca, nell' inflazione degli Anni Venti del secolo scorso che distrusse i patrimoni delle famiglie, e più profondamente nella stessa lingua tedesca che usa lo stesso vocabolo ("Schuld") per indicare sia il debito sia la colpa. Per molti tedeschi avere un debito è come essere in colpa e fare deficit significa naturalmente aumentare il debito. Ecco allora arrivare, proprio ieri, l'ultimo colpo del "bazooka" di Mario Draghi - anche se c' è motivo di crede che Christine Lagarde, che gli succederà tra poche settimane, sia d' accordo - che crea le premesse per l' immissione di nuovo denaro nel circuito europeo e permetterà a paesi come la Germania di indebitarsi a tasso zero, o forse a livello inferiore a zero, restituendo di meno di quanto prendono a prestito. Forse anche il nuovo aeroporto di Berlino sarà presto finito. In ogni caso viene regalato anche all' Italia un forte sconto sugli interessi da pagare. Con la speranza che queste complesse decisioni contribuiscano davvero a far nascere una nuova Europa.
Federico Fubini per il Corriere della Sera il 14 settembre 2019. C' è un attimo della conferenza stampa di Mario Draghi l' altro ieri a Francoforte che spiega perché i rapporti con Jens Weidmann e Klaas Knot siano così tesi. Sono poche parole ma lasciano intendere che i dissapori fra il presidente della Banca centrale europea e i due, rispettivamente presidenti della Bundesbank e della Banca nazionale d' Olanda, non sono personali. Non solo, per lo meno. Vanno anche al cuore dell' identità dell' area euro nei prossimi anni. Il problema è balenato a un cenno di Draghi l' altro ieri, quando l' italiano ha detto che le modifiche alla dichiarazione introduttiva della sua conferenza stampa erano state «concordate all' unanimità». Fra queste ce n'è una che riguarda direttamente Germania e Olanda, i paesi di Weidmann e Knot. È il passaggio in cui la Bce afferma: «Visti i rischi e l'indebolirsi delle prospettive, i governi con margini di bilancio dovrebbero agire per tempo e con efficacia». In altri termini, la Banca centrale europea per la prima volta formalizza qualcosa che Draghi aveva già detto più volte: con i bilanci in surplus, un' enorme accumulazione di sempre nuovo risparmio, un costo sottozero dell' indebitamento e la crescita in frenata - la Germania è probabilmente già in recessione - per i governi di Berlino e dell' Aia è tempo di agire. Dovrebbero spendere di più per investire e aiutare così il resto d' Europa. Draghi ha risposto «decisamente sì» a chi gli chiedeva se il suo fosse un messaggio ai politici che «devono mettersi in gioco perché la Bce non correrà sempre al salvataggio». L'italiano ha rivendicato con un filo di durezza il lavoro di questi anni, quasi sempre con i voti contrari di Weidmann: «Tutto ciò che vedete in Europa, la creazione di 11 milioni di posti di lavoro in breve tempo, la ripresa, la crescita sostenuta: tutto è stato largamente il prodotto della politica monetaria della Bce. C' è stato ben poco di altro». Poi, appunto, la stoccata: stavolta l' invito ai governi di Germania e Olanda a cambiare rotta e investire di più è arrivato da Francoforte «all' unanimità», cioè anche con l' assenso di Weidmann e Knot. Questa è la frase più spiazzante per il presidente della Bundesbank, perché lui in prima persona non ha mai preso posizioni del genere. Al contrario: benché i dati tedeschi dell' industria, dall'export e la fiducia delle imprese cadano sempre di più, per adesso Weidmann nel suo Paese sta dicendo il contrario. Resta sulla sua linea ortodossa: il governo di Berlino non deve reagire alla frenata dell' economia e vale il freno costituzionale al debito, che rende qualunque stimolo di bilancio simile a un errore di arrotondamento (0,4% del prodotto lordo la spinta cumulata degli ultimi anni, secondo l' economista tedesco Christian Odendahl). Weidmann non ha mai trovato nulla da ridire sul fatto che dal 2009 in Francia gli investimenti in totale superino del 25% del prodotto lordo quelli della Germania (e ormai la produttività francese cresca di più). Il messaggio di Draghi dunque dev'essere stato avvertito da Weidmann come un' accusa: ipocrisia e scarso coraggio. Il tedesco sa che il suo governo deve cambiare strada - lo sottoscrive nei comunicati della Bce - ma non osa dirlo in pubblico perché per anni ha allenato l' opinione pubblica a un' altra verità. Qualcosa di simile deve avvertito anche Knot, che tra circa un anno dovrebbe lasciare Amsterdam per entrare a far parte dell' esecutivo Bce. Forse anche così si spiega la rivolta dei due ieri, simultanea e senza precedenti, lanciata solo ora che l' italiano non potrà restare a lungo a Francoforte per regolare i conti. Dietro gli attriti personali, il cuore però è politico e riguarda il futuro dell' euro. Tassare sempre di più i depositi non investiti delle banche e intervenire in acquisto di titoli praticamente all' infinito - le ultime mosse di Draghi - sono scelte drastiche. Il presidente della Bce ha sottolineato che funzionano meglio in altri Paesi (pensa agli Stati Uniti) dove i bilanci pubblici hanno accompagnato «dai sei o sette anni» la ripresa. È un messaggio potente, recapitato all' incontro dei ministri finanziari in corso a Helsinki dove molti stanno mettendo sotto pressione la Germania proprio per lo stesso motivo (come prefigurato ieri dal «Corriere»). L'invito implicito è a una cooperazione più stretta in futuro fra banca centrale e governi: la prima tiene i tassi a zero, i secondi possono approfittarne per lanciare progetti comuni d' investimento a debito su ambiente, ricerca, difesa, infrastrutture. Non è questa l'ortodossia con cui la Bce era nata vent' anni fa. La sua indipendenza fu garantita con tale forza da somigliare, per anni, a un muro di incomunicabilità con i governi. Ma quello era un mondo senza rendimenti negativi (investitori che pagano i governi, pur di prestar loro denaro), senza un' inflazione sempre vicina a zero, senza guerre commerciali, senza debiti enormi e popolazioni che invecchiano in fretta. Il grado di cooperazione della Bce con i governi sarà il cuore della prossima presidenza, quella di Christine Lagarde. Quando gli hanno chiesto se credesse allo «helicopter money», la distribuzione di denaro ai cittadini, Draghi l' altro giorno ha risposto: «È un compito della politica di bilancio, non nostro».
Germania all'attacco di Draghi: "Superato il limite". Ma è Deutsche Bank a risparmiare di più con le mosse Bce. La Bild dipinge il governatore italiano come un Dracula intento a succhiare il sangue ai risparmiatori tedeschi. E il numero uno della Buba parte all'attacco, con i falchi del nord. Tonia Mastrobuoni il 13 Settembre 2019. Che fantasia. Una foto di Mario Draghi con i canini d'oro che succhia sangue ai poveri risparmiatori tedeschi, un titolo "Draghila" che non ha bisogno di commenti. La Bild ha scelto il caratteristico tocco leggero per commentare le ultime mosse di politica monetaria della Bce. E, già che c'era, ha intervistato il 'falco' che aveva già fatto capire prima della riunione dei giorni scorsi della Bce che si sarebbe messo di traverso. Per Jens Weidmann, con il nutrito pacchetto di misure annunciate giovedì, Mario Draghi "ha superato il limite". La situazione economica, che proprio nel Paese del governatore della Bundesbank sta scivolando verso la recessione, "non è così grave". Weidmann è convinto che la lunga stagione di politiche monetarie accomodanti - che è la traiettoria scelta da anni dalle principali banche centrali nel mondo - renderebbe sempre più difficile per la Bce tornare su un sentiero meno emergenziale. Una considerazione smentita dai fatti: l'anno scorso Francoforte era uscita dalla fase emergenziale, aveva lentamente 'spento' il bazooka del quantitative easing, dell'acquisto di titoli pubblici e privati, e nulla era successo. I mercati avevano considerato, anzi, la normalizzazione delle politiche monetarie in linea con i fondamentali di un'economia in ripresa e avevano accettato la stretta senza sconquassi. Ma Helmut Schleweis, il presidente dell'Associazione delle casse di risparmio Dsvg, ha fatto eco a Weidmann sostenendo che il nuovo pacchetto di misure deciso da Draghi "produce più danni che benefici". Peccato che in queste ore JPMorgan si sia messa a calcolare quanto risparmieranno le banche grazie al "tiering", ai nuovi principi introdotti per i depositi degli istituti di credito, dopo che i tassi negativi tagliati ulteriormente a -0,50%. La Bce ha deciso in sostanza che la penalità verrà applicata soltanto dopo un certo ammontare - prima valeva per l'intero ammontare, ad eccezione delle riserve obbligatorie. E secondo JPMorgan la banca che ne approfitterà di più sarà la maggiore banca tedesca, Deutsche Bank, che risparmierà 200 milioni all'anno. Ma anche altri "falchi" hanno esplicitato la loro opposizione alla traiettoria ultra accomodante imboccata nuovamente dalla Bce. Il governatore della Banca centrale olandese, Klaas Knot, pensa che il pacchetto di Draghi sia "sproporzionato" rispetto all'attuale quadro economico. Al suo esordio in Bce come nuovo governatore della Banca centrale austriaca, anche Robert Holzmann ha espresso dubbi sulle scelte del board. Holzmann, che si è augurato una discussione sull'obiettivo di inflazione perché convinto che vada abbassato dal 2 all'1,5%, mentre Draghi ha detto ieri di ritenerlo sbagliato ("è una questione di credibilità"), ha definito "insostenibile" la scelta dei tassi negativi sui depositi.
Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 29 agosto 2019. Si conobbero nella sauna di un albergo in Austria. Quando lei arrivò, lui era già lì, nudo, con le guardie del corpo. Lei fece il gesto di girarsi e andarsene, ma lui la invitò a restare. Fu amore a prima vista e l' inizio di una lunga storia d' amore clandestina. Era la Pasqua del 1990, pochi mesi prima della riunificazione tedesca. Lei, Beatrice Herbold, aveva 28 anni e faceva l' agente immobiliare. Ma lui era Helmut Kohl, il cancelliere dell' unità, il gigante politico che più ha segnato la storia della Germania e dell' Europa nel Dopoguerra. Trent' anni dopo, a due dalla morte del suo ex amante, la signora racconta tutto in un libro, Geliebte Freundin, scritto con una giornalista del settimanale Bunte in uscita per Europa Verlag. È una rivelazione che getta una luce completamente diversa su Kohl, nella narrazione ufficiale rimasto sempre fedele alla moglie Hannelore, morta tragicamente nel 2001, quando si uccise non sopportando più la malattia agli occhi che la costringeva a vivere al buio. Voci che Kohl fosse sensibile al fascino femminile ci sono sempre state. Una insistente era che per anni avesse avuto una relazione con la sua segretaria personale, la mitica Juliane Weber, che gli fu accanto dagli anni 70 e fu il vero centro di potere della cancelleria. Con Herbold, che oggi ha 60 anni, galeotta fu la sauna, appunto. «Mi chiese di sedermi di fronte a lui», racconta, «ma io con la faccia tutta rossa per il caldo cercavo di puntare gli occhi in un' altra direzione, per non dover guardare il cancelliere federale nudo. Lui però sembrava godere della situazione». Da lì cominciò uno scambio intenso e continuo di lettere e telefonate (non c' era ancora Internet). Ma il primo bacio arrivò solo dopo 4 anni. Fu in un ascensore: «Io gli presi la mano, ma lui all' improvviso mi attrasse a sé e mi baciò con passione. Io ero molto turbata». Il libro è pieno di dettagli sulle fughe segrete dei due innamorati, in Germania e attraverso l' Europa. «Tra noi», racconta Herbold, «c' era forte affinità d' animo, è stato un amore profondo». La parabola discendente di Kohl e il suo addio al potere segnarono però l' inizio della fine della relazione. Dopo la sconfitta alle elezioni del 1998 ad opera di Gerhard Schröder, Kohl infatti cambiò. Lo scandalo dei fondi neri della Cdu, da lui gestiti per anni, che si sarebbe concluso con la sua definitiva emarginazione politica, lo rese progressivamente «risentito, brusco, scontroso, perfino collerico, anche nei miei confronti». Ma un chiarimento non ci fu mai. La storia si chiuse così, senza un vero perché. Eppure, commenta Herbold, «i nostri cuori sapevano che il nostro amore non sarebbe mai finito». Noi sappiamo invece che nel 2008, sette anni dopo la morte di Hannelore, Helmut Kohl si risposò con Maike Richter, 34 più giovane di lui, che per anni aveva lavorato come sua speechwriter alla cancelleria. Avevano una relazione sin dal 2004.
Elena Tebano per il “Corriere della sera” il 21 agosto 2019. Cento milioni di won coreani, ovvero 75 mila euro, per riparare alle sue sofferenze psichiche. È il risarcimento chiesto all' ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder,75 anni, dal primo marito della sua attuale moglie (la quinta), Soyeon Kim, 51 anni. L' uomo, un chirurgo plastico sudcoreano, l' anno scorso si è rivolto giudici di Seul perché accusa Schröder di aver provocato la fine del suo matrimonio con Kim: nei giorni scorsi, rivela la Bild , la causa è stata notificata formalmente agli uffici dell' ex politico a Hannover. Schröder ha conosciuto Soyeon Kim nel 2015, quando la donna gli ha fatto da interprete durante un viaggio nel Paese asiatico. Da quel rapporto di lavoro è poi nato un amore («Mi rende felice», ha confessato lui) e i due si sono sposati nel maggio 2018, venti giorni dopo che Schröder aveva ottenuto il divorzio dalla moglie precedente. Kim ha sempre raccontato che il suo matrimonio era già finito quando ha incontrato il politico tedesco. L' ex marito, invece, sostiene di aver acconsentito a una separazione dopo che la donna aveva già iniziato la relazione con Schröder. Per altro fino al 2015 l' adulterio in Corea era considerato un reato punibile con pene fino a due anni di carcere. Ora sarà il tribunale a dover accertare come siano andate davvero le cose. Non è la prima volta che sui tempi della relazione tra Schröder e Kim si pronunciano i giudici: l' anno scorso aveva fatto causa l' ex moglie di lui, Doris Schröder-Köpf, 56 anni. L'origine della disputa in quel caso era stata la conferenza stampa del gennaio 2018 a Seul con la quale Schröder e Kim hanno annunciato il loro fidanzamento. «Ho letto i lanci di agenzia mentre ero nel parlamento della Bassa Sassonia - ha raccontato Schröder-Köpf, che è deputata regionale con la Spd -. Fino ad allora la nostra famiglia non sapeva niente del fidanzamento». Anche perché all' epoca Doris e Gerhard erano solo separati. Davanti ai giornalisti, a Seul, Schröder aveva parlato della fine del suo matrimonio, ma aveva detto di essere andato via dalla casa in cui viveva con Köpf all' inizio del 2015, dopo che erano già «separati in casa» e che la quarta moglie gli aveva chiesto il divorzio nel 2016 perché «voleva essere libera per il suo nuovo partner». Kim, al suo fianco, traduceva per la stampa locale. Quando Doris si è fatta a sua volta tradurre le parole della donna, ha scoperto che aveva «aggiunto sue dichiarazioni», dicendo che i due ex coniugi «erano separati in casa da molti anni» e che «è impossibile visti i tempi» che Kim avesse a che fare con la loro separazione. Köpf è andata su tutte le furie e ha diffidato l' ex marito: il tribunale da allora gli vieta di affermare che il matrimonio fosse finito già due anni fa. Anche Kim ha dovuto firmare un impegno ad evitare dichiarazioni simili. Presto la storia tra Kim e Schröder avrà una versione ufficiale anche da parte coreana, vergata su documenti legali. Non è da tutti.
Chi è Angela Merkel, la “Cancelliera” della Germania, scrive Andrea Muratore il 2 febbraio 2019 su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Dal 2005 a oggi Angela Merkel è stata la protagonista principale delle dinamiche politiche europee, forte del fatto di guidare la Germania in una fase in cui Berlino, forte di una rendita di posizione notevole e di un sistema di regole comunitarie che aveva la capacità di plasmare e fare interpretare, ha acquisito un’influenza senza precedenti in seno all’Unione europea. Angela Merkel, più di ogni esponente della Commissione, ha rappresentato l’Europa e la sua governance dalla sua struttura transnazionale a partire da quanto, nel 2007, da presidente di turno del Consiglio europeo, guidò le negoziazioni finali per il Trattato di Lisbona, passando poi per gli anni della Grande Recessione e della crisi dei debiti sovrani del 2010-2011. Allora la Germania merkeliana rappresentò il volto duro dell’austerità, del rigore sui conti pubblici, della linea dura contro i Paesi in difficoltà, avviando di fatto quella fase di messa in discussione delle élite politiche ed economiche europee che solo Mario Draghi ha saputo moderare con il suo quantitative easing. Angela Merkel, oggi al suo quarto mandato da cancelliere, appare una politica a fine ciclo, ma mai dire mai. La prossima 65enne leader dell’Unione cristiano-democratica (Cdu) ha annunciato dopo una fase di crollo interno dei consensi per il suo partito il ritiro dal governo dopo la fine del mandato nel 2021. Tuttavia, nell’Eurozona deve ancora giungere il leader capace di porre definitivamente fine alla centralità della Germania e della “Cancelliera”. L’astro di Emmanuel Macron non ha fatto in tempo a sorgere prima di tramontare, e troppi Paesi, dall’Olanda alla Finlandia, sono favorevoli al proseguimento della linea tedesca volta a favorire le esportazioni. E se si parla di Angela Merkel come possibile candidata di “unione” alla Commissione europea, la notizia non deve essere sottovalutata.
L’ascesa di Angela Merkel. Nata nel 1954 ad Amburgo, Angela Dorothea Kasner, nome di battesimo della Merkel, crebbe e si formò nella Germania dell’Est dove era giunta al seguito della famiglia e, in particolare del padre, pastore luterano. Nella Ddr la Merkel conseguì la laurea in fisica all’Università di Lipsia ed è stata segretaria di un piccolo gruppo della Freie Deutsche Jugend, organizzazione giovanile del regime, e responsabile per l’agitazione e la propaganda dell’Accademia delle Scienze della Germania dell’Est. Peter Feist, esperto di storia della Germania e consigliere politico di Afd, ha dichiarato a Limes nel dicembre 2018 che, al momento della caduta del Muro di Berlino, la Merkel si sarebbe rivolta, inizialmente, ai socialdemocratici per iniziare la sua carriera politica nella Germania riunificata. Di fronte all’invito a “entrare nell’organizzazione di base e iniziare così la militanza dal basso”, la Merkel cambiò idea e si rivolse alla Cdu, “dove le venne permesso di fare subito carriera perché donna, dell’Est e laureata in Fisica”. Iniziava l’ascesa politica di una figura destinata a segnare sul lungo periodo la politica tedesca.
La Merkel si libera dell’ombra di Kohl. Ai tempi, la Cdu era egemonizzata dalla figura del cancelliere Helmuth Kohl, che approvò la candidatura della Merkel al Bunderstag, il Parlamento federale tedesco, nominandola Ministro per le Donne e i Giovani nel terzo governo da lui presieduto (1991-1994) e Ministro dell’Ambiente nel successivo e ultimo esecutivo, durato dal 1994 al 1998. La sconfitta di Kohl alle elezioni del 1998 segnò una vera e propria svolta per la carriera politica della Merkel, che nella discussione sul tema della transizione energetica dal nucleare aveva acquisito una vasta popolarità nell’opinione pubblica tedesca. L’ascesa di Gerhard Schroeder della Spd alla cancelleria federale mandò la Cdu all’opposizione: tra il 1998 e il 2000 Merkel ebbe l’incarico di Segretario generale del partito, ma dovette divider le sue ambizioni con il delfino di Kohl, Wolfgang Schauble, che sarebbe diventato il suo fedele e rigoroso Ministro delle Finanze. Uno scandalo esploso nel 2000 offrì alla Merkel l’occasione per criticare aspramente la linea di condotta di Kohl e presentare se stessa come il volto nuovo capace di riportare i centristi democristiani al governo. Fu, per certi versi, una fortuna il fatto che alle elezioni del 2002 la Csu, il “partito gemello” bavarese della Cdu, ponesse il veto alla candidatura della Merkel contro Schroeder, preferendo promuovere come candidato alla cancelleria il leader di Monaco Edmund Stoiber, che mancò per soli 6mila voti il sorpasso sui socialdemocratici. Sfruttando la crescente rivolta sociale contro le difficoltà economiche intercorse dopo l’approvazione delle riforme Hartz, che pure avrebbe saputo sfruttare con sagacia, la Merkel ebbe dunque campo libero per guidare tra il 2002 e il 2005 l’opposizione a Schröder. Le elezioni anticipate del 2005 videro l’Unione Cdu-Csu perdere 2 milioni di voti, ma il parallelo tracollo della Spd spianò alla Merkel la strada della cancelleria federale, inaugurando il primo di quattro mandati.
La Merkel di governo. Angela Merkel ha inaugurato, nei suoi mandati, uno stile di leadership caratteristico, fondato sulla volontà esplicita di conservare, quasi cristallizzandolo, uno status quo politico e, soprattutto, economico che garantisse la centralità della Germania in Europa. Rifiutando, per lunghi anni, il calcolo geopolitico e non destreggiandosi nell’elaborazione di una “grande strategia” la Germania merkeliana ha interpretato la convinzione tutta tedesca di poter vivere, letteralmente, al di fuori della storia. Imperniando tutta la sua politica attorno alla tutela e all’espansione del surplus commerciale, considerato metro di misura della potenza economica tedesca. Anche la stessa scelta di puntare fortemente sulle misure di austerità in relazione alla Grande Crisi, secondo un copione che molti, compreso l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, hanno ritenuto potenzialmente suicida, è indicatrice di una precisa volontà politica, finalizzata a far sì che la Germania guadagnasse, quasi per inerzia, il centro della scena e i massimi dividendi economici dall’evoluzione del contesto europeo, senza tralasciare cinicamente di sfruttare la crisi dell’Eurozona come un’occasione di profitto, come magistralmente sottolineato da economisti di spessore come Sergio Cesaratto. I primi tre governi Merkel sono dunque scivolati in un sostanziale immobilismo, nella percezione che per Berlino fosse più importante sfruttare le rendite di posizione che pensare a una reale strategia. Questo ha portato, sicuramente, benefici alla grande industria esportatrice tedesca, ma nel frattempo ha spinto il governo a ignorare a lungo l’accumulazione di contraddizioni interne alla società tedesca, di problematiche connesse alla disuguaglianza economica e alle prospettive lavorative della popolazione. Un materiale combustibile per cui la caotica risposta alla crisi migratoria del 2015 ha fatto da innesco.
Il brusco risveglio di Angela Merkel. Il contenzioso geopolitico ed economico con gli Stati Uniti, a cui Donald Trump ha aggiunto enfasi retorica ma che è stato inaugurato da Barack Obama, le polemiche tra Washington e Berlino per i continui rapporti economici ed energetici tra Germania e Russia, l’incapacità di capire le lezioni della crisi e la velata ostilità alle mosse di Mario Draghi e le problematiche migratorie, che hanno contribuito all’ascesa di Afd hanno contribuito a segnalare, bruscamente, ad Angela Merkel che la Germania e l’Europa non vivevano in un ameno paradiso post-storico. Che non bastava far pagare alla Grecia, all’Italia e all’Irlanda i costi della crisi per ritenersi protetti dalla buriana economica e dalle contraddizioni dell’euro. E, soprattutto, che una strategia di lungo termine è necessaria perché una nazione sopravviva nel mondo contemporaneo. La Germania degli ultimi anni è infatti un Paese che, in buona sostanza, senza troppi giri di parole, si sta riscoprendo umano. E questa riscoperta di umanità, di debolezza, di paura, ha colpito anche la figura ormai metafisica, quasi atarassica, della cancelleria tedesca. Non più inviolabile agli occhi del suo Paese, debole al confronto con i leader mondiali capaci di sfruttare, nella loro completezza, gli strumenti che il potere mette a disposizione, sebbene ancora di una categoria superiore a presunti leader come il presidente francese Emmanuel Macron. La decisione di Angela Merkel, dopo le ultime elezioni, di rinnovare la Grande Coalizione con i socialdemocratici giunti al loro peggior risultato storico segnala come le categorie di pensiero della leader della Cdu, tuttavia, non siano più adatte ai tempi attuali. Concepiscono la politica come uno strumento di spartizione di cariche, non come mezzo di risoluzione di problematiche reali. Il pensiero economicistico ha permeato, e plasmato, l’idea di potere in Germania. E così ai pensionati tedeschi stremati dalle riforme della previdenza si può al massimo concedere un aumento del sussidio, e dopo quindici anni il governo tedesco può tornare addirittura a parlare di investimenti pubblici senza considerarli un tabù, ma senza dimostrare la volontà politica reale di deviare da una traiettoria percorsa da tempo col pilota automatico. Il risveglio per Angela Merkel è stato brusco, ma auspicarsi una correzione di rotta politica da qua alla fine del suo mandato, nel 2021, è a dir poco ottimistico.
Nome in codice: «IM-Erika». Merkel e le ombre della Stasi. Pubblicato martedì, 11 giugno 2019 da Paolo Valentino, da Berlino su Corriere.it. Angela Merkel ha lavorato per la Stasi, la polizia segreta che spiava i cittadini della Germania Est? La domanda non è nuova. Chi mette il nome della cancelliera su Google, inciampa quasi subito sulla sigla IM Erika, dove IM sta per Inoffizielle Mitarbeiterin, collaboratrice non ufficiale, la sigla con cui la Stasi indicava gli informatori che non erano suoi agenti. Secondo una folta schiera di complottisti, Erika sarebbe il nome di copertura di Angela Merkel nella sua attività di delazione. C’è qualcosa di vero o è una fake news? Una cosa è certa: gli archivi della Stasi non hanno mai pubblicato documenti che suffragassero il sospetto. La risposta alle diverse richieste pervenute è stata che «la premessa per il rilascio è che ci sia una documentazione sul lavoro da IM». E ancora: «Altro tipo di documenti possono essere presi in visione solo con il consenso dell’interessato». Detto altrimenti, non ci sono carte che dimostrino che Angela Merkel fosse informatrice dei servizi. «Il che però non significa che non ci siano mai state», spiega Hubertus Knabe, in un saggio dedicato al tema e pubblicato ieri sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Knabe, 60 anni, storico, è un’autorità in materia: dal 2000 al 2018 ha diretto la Fondazione del Memoriale di Hohenschönhausen, l’ex prigione della Stasi trasformata in centro di documentazione e di ricerca, diventata celebre anche per aver fatto da set al film premio Oscar «Le vite degli altri». È significativo che un giornale autorevole come la FAZ dedichi un’intera pagina al tema. Tanto più che il saggio di Knabe solleva più interrogativi e suggestioni di quanti ne risolva. Andiamo con ordine. Merkel stessa ha raccontato di essere stata avvicinata nel 1978 dalla Stasi, che voleva assoldarla. Successe al Politecnico di Ilmenau, in margine a un convegno di studi. Lei rifiutò. Ma, osserva Knabe, «queste proposte non venivano fatte a caso», la precondizione fra l’altro erano provate «qualità personali e politico-ideologiche». Pensavano di potersi fidare, in altre parole. Proposte del genere venivano protocollate con pignoleria dalla Stasi: nessuno può dire se esistono, ma se ci fossero, per vederle occorrerebbe il consenso dell’interessata. Merkel, in modo del tutto legittimo, non l’ha mai dato. Alcune tracce, mai provate ma molto evocate sulla rete, emersero nel 2005 in un celebre documentario della televisione pubblica Wdr. Come la foto della Merkel, trovata da un reporter negli atti relativi alla sorveglianza di un noto dissidente, Robert Havemann. I complottisti ne hanno dedotto che la futura cancelliera, la quale visitò in effetti il dissidente portata nell’appartamento da un amico, lo abbia spiato. In realtà si è scoperto che la foto non era della Stasi ma era quella della patente di guida. In ogni caso, Merkel aveva allora 25 anni e secondo Knabe è del tutto «improbabile» che i servizi usassero un non professionista per un compito così delicato. Resta un dubbio però, nota lo storico: perché non ci furono conseguenze per lei dalla visita a un dissidente? Un altro fumus verrebbe dal fatto che Merkel lavorasse fianco a fianco con numerosi IM, almeno tre dei suoi colleghi – nome in codice Einstein, Bachmann e Manfred Weih – erano infatti informatori. Ma questo in verità non prova nulla. Meno chiare invece sono le circostanze dei suoi due viaggi nella Repubblica Federale, nel 1986 e nel 1989, un grande privilegio nella Ddr. A causa della non pubblicazione del dossier che la riguarda, non è chiaro se vennero autorizzati dalla Stasi e se lo furono sulla base di quali motivazioni. Speculazioni provocano anche i numerosi viaggi in Polonia, che però erano spesso di studio. Uno in particolare, nel 1980, quando al ritorno Merkel venne fermata alla frontiera con materiale di Solidarnosc. Anche se l’episodio fu subito comunicato alla centrale, ecco la stranezza, la cosa non ebbe alcuna conseguenza negativa. Poi c’è il ruolo nella Frei Deutsche Jugend, l’organizzazione giovanile del regime comunista, che Merkel ha sempre minimizzato, dicendo che «ci stava volentieri ma per opportunismo» e che era addetta a «procurare i biglietti per il teatro». Chiosa Knabe: «Questa descrizione suona eufemistica, la FDJ era un’organizzazione fortemente ideologizzata». Conclusione: non c’è alcun atto o documento che provi il sospetto che abbia lavorato per la Stasi, ma a Merkel «si può rimproverare il fatto di non parlare in modo aperto del suo passato nella Ddr».
Germania, Merkel era una spia della Stasi, leggenda nera tra fake news e storia. L'ex direttore del memoriale del carcere dell'organizzazione tenta di fare ordine. Tonia Mastrobuoni il 12 giugno 2019 su La Repubblica. Angela Merkel era una spia della Stasi, era lei a nascondersi dietro la presunta “Erika” come sostengono miriadi di siti di fake news che diffamano la cancelliera da anni? Su internet le teorie complottiste impazzano. E si basano sempre sugli stessi dettagli, sulle stesse leggende metropolitane. Così lo storico ed ex direttore del memoriale del carcere della Stasi di Hohenschoenhausen, Hubertus Knabe, ha tentato di fare un po’ di ordine sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Spazzando via molte sciocchezze. Ma sollevando anche qualche interrogativo. Non esistono documenti della Stasi, attualmente, che menzionino Angela Merkel come ”informatrice informale”. Certo, scrive Knabe, “ciò non significa che quei documenti non siano mai esistiti”. Nei turbolenti mesi post-caduta del Muro, nell’inverno del 1989, gli ufficiali del ministero dell’Interno (Stasi ne è un’abbreviazione) distrussero enormi quantità di carte prima di essere fermati dalla folla inferocita che occupò gli uffici e salvò quel patrimonio dalla devastazione. Ma ad oggi la meticolosa e paziente ricostruzione di quei preziosissimi archivi non riesce a venire a capo di 15mila sacchi pieni di carte ridotte a coriandoli. Knabe ha esaminato una ad una le leggende nere attorno alla cancelliera. Lei stessa ha raccontato una volta che la Stasi tentò di reclutarla, nel 1978. E uno dei problemi di una ricostruzione senza ombre della sua biografia pre-Muro è che la sua scheda, quella in cui la Stasi registrò quel tentativo di reclutamento, così come il suo rifiuto, possono essere visti solo ed esclusivamente dalla cancelliera. E’ una regola generale: negli archivi si può chiedere solo di visionare la propria scheda, nessun altro può farlo. Quindi, ammette Knabe, quel momento cruciale della biografia di Merkel resta effettivamente “un buco nero”. E, come per il resto delle storie su di lei, si può solo tentare di illuminarlo di lato. L’ex direttore di Hohenschoenhausen aggiunge però che “starebbe a lei fare trasparenza su questo punto”. Intanto, uno dei dettagli che emerge più spesso nelle fake news su Merkel è che avrebbe viaggiato varie volte all’estero e due volte nella Germania ovest negli anni ’80. Un privilegio riservato a pochi, sicuramente ai fedelissimi del regime. Ma i suoi viaggi, scrive Knabe, coincidono con un momento particolare, in cui i bonzi di Honecker allentarono la morsa sui cittadini che produsse un’impennata delle "scappate" di là del Muro. Insomma, da quei viaggi di Merkel “non si può assolutamente dedurre l’appartenenza alla Stasi”. Un viaggio in particolare torna, nei racconti degli untori: quello in Polonia nel 1981, quando al ritorno le trovarono addirittura dei volantini di Solidarnosc, il sindacato anticomunista di Lech Walesa. Perché non le successe nulla? Per due motivi, azzarda Knabe: perché era in un visita ufficiale con il dipartimento della sua università. E perché era un membro della Fdj, della Gioventù comunista. E un’ altra ossessione che ritorna spesso nei complottisti è che Merkel fosse responsabile per la Propaganda in quell’organizzazione giovanile. Dunque, di default, una spia. Anche questa è una sciocchezza, argomenta Knabe, così come la presunta notizia che sarebbe stata incaricata di sorvegliare il grande dissidente Robert Havemann. Oppure che fosse letteralmente circondata da spie. E quindi, inevitabilmente, un’informatrice informale anche lei. Invece, argomenta Knabe, il fatto che nessuno di loro l’abbia mai menzionata come collega fa pensare che davvero non lo fosse. Infine, il presunto nome di copertura, Erika. Anch’esso è una bufala. Sarebbe tratto da un romanzo su di lei, “Roberts Reise”, scritto da un ex spia. Peccato che la protagonista di quel romanzo, una scienziata alle prese col dottorato, non si chiami Erika, ma Renate.
Il crepuscolo della Germania. La storia di copertina del numero di Panorama in edicola dal 13 febbraio è dedicata ai grandi problemi della nazione che domina in Europa. Panorama nel numero in edicola dal 13 febbraio dedica la storia di copertina alla Germania, anzi, al declino politico della sua leader, Angela Merkel, ed all'economia che è in frenata. Un'inchiesta capace di raccontare la crisi di un paese che dà lezioni di "buon Governo" a tutta Europa ma che dovrebbe guardarsi di più allo specchio.
Germania: i problemi grandi di un grande paese. Oltre la propaganda che ne fa la locomotiva economica dell'Europa ed il guardiano dei conti di Bruxelles, con la fine del potere e dell'epoca di Angela Merkel emergono tutte le criticità, sul fronte sociale e su quello produttivo.
Germania, i problemi grandi di un grande paese. Ci viene presentata come la "locomotiva" d'Europa. Ma in realtà ci sono criticità nel mondo bancario, produttivo e sociale, scrive il 19 febbraio 2019 Panorama. Non si è ancora formalmente conclusa l’era Merkel, ma l’uscita di scena della Cancelliera è segnata. Le europee a fine maggio, e poi in autunno le elezioni in tre Länder orientali - assieme alla verifica di metà mandato della «grande coalizione» - indicheranno i tempi con cui la quattro volte leader del governo lascerà il potere. Se i contorni del Merkeldämmerung, ovvero il crepuscolo della Cancelliera, restano ancora indefiniti, il clima in Germania è già cambiato, soprattutto quello economico. Se ne è accorta anche Annegret Kramp-Karrenbauer, che di Angela Merkel è l’erede politica: a novembre 2018 «Akk» le è subentrata alla guida del partito cristiano democratico (Cdu) con l’obiettivo, un domani, di diventare lei la prossima cancelliera federale. «Le fondamenta della nostra prosperità non sono sicure come una volta» ha scandito Akk a inizio anno aprendo la direzione della Cdu e confermando ad alta voce i timori dei principali istituti di ricerca economica del Paese. «Il boom è finito e l’economia della Germania ha cominciato a rallentare» decretava poco prima di Natale il rigoroso istituto Ifo di Monaco di Baviera, segnalando che il comparto automotive e le esportazioni tedesche «sono esposte a notevoli rischi economici» e, dunque, destinate a perdere terreno. A fine gennaio il ministero tedesco dell’Economia ha poi stabilito, dopo un lunghissimo balletto di cifre sulla crescita per il 2019, che il Pil crescerà dell’1 per cento nel 2019, molto meno, cioè, della precedente previsione dell’1,8 per cento. Intanto l’Ifo individua alcune cause congiunturali destinate a pesare sulla performance tedesca: oggi, il rallentamento dell’economia dell’eurozona; nel futuro prossimo i dazi tariffari imposti da Trump su beni per 450 miliardi di dollari - il suo slogan America First! passa anche dall’abbattimento dei surplus commerciali cinese e tedesco nei confronti degli Stati Uniti. Ma i guai non sono finiti: a metà gennaio Pechino ha chiuso il 2018 con il tasso di cresciuta più basso degli ultimi 30 anni. Gli ordini dalla Cina sono dunque in calo, con conseguenze negative per l’economia di Berlino, tra le più dipendenti su scala globale dall’export, ovvero dalla salute economica dei propri partner commerciali. Se la Cina prende un raffreddore, la Germania rischia la bronchite. Esistono però anche cause interne che preoccupano gli analisti: il settore auto non si riprende dal Dieselgate, lo scandalo anzi si è appena allargato con nuovi 24 indagati del marchio Audi. Le industrie tedesche, poi, hanno difficoltà a trovare manodopera qualificata: è una conseguenza del calo demografico, lo stesso che, a differenza di quello italiano già riformato, rende l’attuale sistema pensionistico tedesco non sostenibile. Un altro problema che allarma gli economisti tedeschi è l’infrastruttura dei trasporti da molti definita al collasso, ma anche quella del settore telecomunicazioni è in grave ritardo: due problemi che rischiano di frenare l’economia esistente e di soffocare quella 4.0 nella culla. E ancora, il sistema fiscale è definito opprimente da molti mentre i costi energetici nella Germania del taglio delle emissioni di CO² sono fuori controllo. L’uscita dal nucleare prima e dal carbone poi stanno appesantendo la bolletta elettrica dei tedeschi. Stupisce, inoltre, che si registrino tante magagne durante una fase di grande liquidità della Germania. Le autostrade sono un groviera eppure le casse dello Stato sono piene di soldi. Il punto è che nessuno propone di usarli. Le spese sono ammesse in pochissimi settori: gli asili nido, per esempio, sono un fiore all’occhiello del Paese e permettono a tante donne un tasso di partecipazione al mondo del lavoro sconosciuto in Italia. Chi il lavoro lo perde, viene subito aiutato sia a ritrovarlo sia sostenuto con sussidi di disoccupazione. Eppure nessun Paese è perfetto: nella ricca Germania, per esempio, le cure sanitarie sono più costose e meno efficienti che in Italia. Non lo sostiene Panorama, ma l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) con sede a Parigi. Anche la difesa tedesca è messa male, eppure il governo della Germania vorrebbe entrare nel novero delle potenze mondiali con il diritto di veto alle Nazioni unite. Un Paese grande, insomma, ha problemi grandi, come è normale che sia. Oggi la Repubblica federale è ancora la locomotiva d’Europa ma, come rilevato anche da Frau Kramp-Karrenbauer, il futuro prossimo è pieno di incognite. Economisti e analisti invitano i dirigenti tedeschi a rimboccarsi le maniche per affrontare il domani, pena il declassamento. I denari ci sono, segnalano tutti. Quel che manca, osservano in molti, è l’onestà di ammettere che dalle pensioni alle banche, dalle tasse all’immigrazione è l’ora di fare scelte chiare per evitare il declino.
Germania "infelix". Cosa c'è dentro e dietro l'inchiesta di Panorama sui problemi economici e sociali del paese della Merkel, scrive Maurizio Belpietro il 18 febbraio 2019 su Panorama. Metto subito le mani avanti: so che la nostra copertina è una provocazione. Una Merkel con un titolo piazzato tra il naso e la bocca non può che evocare il volto di Adolf Hitler, con quei baffetti ridicoli che il capo nazista si portava a spasso. Ovviamente non abbiamo nessuna intenzione di sostenere che Angela Merkel somigli al Führer o che abbia intenzione di ricalcarne le orme. L’immagine irriverente, semmai, ricorda le tante copertine che nel corso degli anni i giornali tedeschi hanno dedicato all’Italia. Il settimanale Der Spiegel, l’equivalente del nostro Espresso, per raccontare il terrorismo rosso italiano (che imperversava pure in Germania e giunse a uccidere il presidente della Confindustria tedesca e quello della Deutsche Bank) mise una pistola su un piatto di spaghetti. Più tardi, in seguito al naufragio della Costa Concordia, lo stesso periodico fece una copertina dando degli Schettino a tutti noi. E da ultimo, mentre il nostro Paese era sotto attacco per i problemi del debito pubblico, rifece il giochino degli spaghetti, ma questa volta attorcigliati a una forchetta, a mo’ di cappio, con il titolo «Ciao amore!». Dunque, sia permessa anche a noi una provocazione. Non per sostenere che la Germania abbia mire espansionistiche e voglia occupare l’Europa, magari non con i carri armati bensì con le sue aziende e le sue banche. Ma per segnalare che semmai questa intenzione di conquista ci sia stata, beh, ora si può dire che è fallita. La Cancelliera di ferro, dopo quattro mandati, è agli sgoccioli e al suo ultimo giro di boa. Nel partito che ha guidato per vent’anni, la Cdu, ha già dovuto passare la mano, mentre per il governo la scadenza è fissata nel 2021. Sempre naturalmente che l’esecutivo riesca ad arrivare a quella data. Già, perché se mettere insieme la coalizione è stata dura, molto più semplice potrebbe essere scioglierla. Dietro all’immagine di successo, di una locomotiva teutonica che trascina con forza tutti gli altri vagoni europei, Italia compresa, ci sono infatti molte cose che non vanno. Certo, la Germania ha un surplus commerciale che tutti le invidiano e allo stesso tempo ha un debito pubblico che invece di crescere si riduce. Tuttavia, dietro la fotografia di Paese super efficiente che rispetta le regole e anzi le impone agli altri, ci sono diverse cose che non tornano. E soprattutto ci sono molti problemi che potrebbero mettere in crisi la corsa di un treno che fino a ieri sembrava non prevedere soste. Tanto per cominciare, il sistema bancario sembra assai meno solido di ciò che fino a ieri si è scritto, prova ne siano i guai in cui sono incappati sia la Deutsche Bank, sia la Nord Lb, per la quale è pronto un aiuto di Stato da 3,7 miliardi. Ci sono poi aziende con l’acqua alla gola che ora la Germania vorrebbe salvare imponendo misure antiscalata o prevedendo l’intervento diretto dello Stato. Per mettere al sicuro la tecnologia Siemens, Berlino aveva studiato una fusione con la francese Alstom, ma l’Antitrust l’ha bocciata e ora i tedeschi vorrebbero cambiare la legge sulla concorrenza e sui cartelli. Tuttavia, al di là delle difficoltà incontrate da banche e imprese, che hanno già prodotto un abbassamento delle previsioni di crescita del Pil, ciò che preoccupa sono le condizioni delle infrastrutture, le alte spese del sistema previdenziale, i bassi stipendi e i sempre più crescenti costi della sanità, già oggi in gran parte a carico degli utenti. Panorama ha condotto un’ampia inchiesta sul miracolo tedesco, ovvero sui risultati di una riunificazione che, dopo l’introduzione dell’euro, hanno visto crescere l’economia della Germania a livelli record. Ma l’indagine giornalistica ha messo in luce le molte ombre di questo successo. Dalle strade che per essere rese sicure avrebbero bisogno di ingenti investimenti, alle previsioni dei costi pensionistici nel prossimo futuro, all’aumento della povertà e dei costi a carico dei cittadini per la salute. L’inchiesta alza il velo su una realtà che la maggior parte dei commentatori preferisce ignorare, ma che a una attenta lettura svela il rovescio della medaglia della Grande Germania. Anche a proposito dell’immigrazione. L’apertura ai profughi provenienti della Siria era un’operazione che doveva consacrare Angela Merkel come la statista più importante del pianeta, ma in realtà ha rappresentato il suo più grande fallimento. E ha messo la parola fine alla sua carriera politica.
Arriva il crepuscolo della grande Germania. La creazione superba di Bismarck scricchiola qua e là nella sua armatura possente, scrive Benito Mussolini il 16 febbraio 1915, riportato Sabato 06/08/2016, su Il Giornale. Deutschlandsdämmerung. È il crepuscolo della Germania. L'impero tedesco, la creazione superba di Bismarck, condottiero vittorioso di tre guerre di rapina, scricchiola qua e là nella sua armatura possente, coi paurosi moti precorritori della catastrofe. Mille sintomi denotano che per la Germania la guerra gigantesca è giunta ormai nella fase suprema della disperazione. Gli eserciti si battono ancora alle trincee su tre fronti diverse, ma non avanzano, e i loro successi non sono che parziali e locali. Né mancano nelle file dell'esercito più disciplinato del mondo i segni di stanchezza e di abbandono. All'interno, non c'è il pane per nutrire le bocche degli uomini, scarseggiano i proiettili per riempire le bocche dei cannoni. Prima della guerra, la Germania era una caserma; oggi è una fortezza. Si requisiscono e si ripartiscono i viveri fra la popolazione - in parti uguali - come nelle cittadelle sottoposte a un lungo assedio; si strappano dai portoni i battenti di bronzo, si raccolgono tutti gli arnesi di metallo delle case e delle officine, per farne munizioni e riparare i vuoti dell'enorme consumo di questi mesi di guerra. Non c'è la materia prima per le officine di Essen, e se il blocco inglese non rallenta la sua vigilanza, fra poco la Germania non avrà più pane, né potrà più combattere. Dovrà chieder mercé. Certo, lo spirito pubblico della Germania, è depresso. La visione del domani conturba le popolazioni tedesche. Al periodo dell'esaltazione è subentrato quello della meditazione. Si parla di pace. Se ne parla pubblicamente, in pieno Landtag prussiano. Se ne discute sui giornali. Oh, sono ben lontani i giorni, in cui Massimiliano Harden esaltava il fulmineo trionfo delle armi germaniche, i giorni d'agosto - terribili - quando tutta Europa parve tremare sotto al passo formidabile degli eserciti del Kaiser. Cadevano una dopo l'altra le fortezze del Belgio, il Belgio stesso scompariva sommerso sotto la fiumana travolgente degli invasori; i soldati della Repubblica si ritiravano oltre la Marna, mentre le avanguardie degli ulani giungevano a dodici chilometri da Parigi. La Francia sembrava finita: l'operazione guerresca si compiva nel termine di sei settimane, prescritto dal Grande Stato Maggiore germanico. Occupata Parigi, disarmata la Francia; rimaneva ancora il settembre e l'ottobre per abbattere i russi; il natale del 1914 avrebbe visto e celebrato la grande pax germanica e il dominio della Germania su tutta l'Europa. Erano i bei giorni nei quali Harden magnificava la superiorità della razza germanica destinata a redimere il mondo. I pangermanisti tracciavano sulla carta geografica le linee dell'impero ampliato nelle terre e nei mari di tre continenti: da Calais a Tangeri, da Amburgo a Salonicco. Il sogno che aveva ubbriacato un popolo intero è finito e con esso è dileguato l'incubo che opprimeva noi, uomini nati e vissuti sulle rive del Mediterraneo luminoso. E il sogno durava da un secolo. Per ciò era divenuto coscienza e volontà nazionale. Ernest Moritz Arndt già nel 1802 vaticinava nel suo libro - La Germania e l'Europa - il giorno in cui un grande genio «despota e capitano, avrebbe fuso, colla conquista e il massacro, in una sola massa, i tedeschi». Arndt è un precursore di Treitschke e degli altri campioni del pangermanismo. Arndt è uno dei primi imperialisti senza scrupoli. Egli riteneva - ad esempio - che l'Olanda indipendente «fosse il più scandaloso degli affronti per la Germania»; Bethmann-Hollweg aveva - evidentemente - la stessa opinione nei riguardi del Belgio. E il Belgio è stato distrutto. Durante un secolo il tedesco è stato avvelenato dalla continua apologia della razza bionda, unica creatrice e propagatrice della Kultur in una Europa giunta al tramonto. L'impero doveva essere lo strumento di quest'opera di salvezza. Ma l'impero trova nel suo estendersi i limiti fatali della sua potenza. L'impero è intensione, non estensione. Dilatandosi, muore. La storia d'Europa ha visto tre imperi crollare. Quello di Carlo Magno, quello di Carlo V, quello di Napoleone. Né miglior sorte è toccata al quarto impero: quello del Papa sulle anime. Anch'esso è infranto. Né diverso destino attende il quinto impero vagheggiato nella sua megalomania sinistra da Guglielmo di Hohenzollern. Ha già trovato i suoi confini. Non li supererà. È ormai deciso. Gli automi dell'elmo puntato non varcheranno i molteplici ordini di trincee scavate sul suolo di Francia. Non giungeranno più a Parigi. Non si ripeterà nella Parigi occupata la cerimonia della fondazione dell'impero europeo, come nella Versaglia conquistata, al 19 gennaio del 1871, fu celebrata la creazione dell'impero tedesco. Guglielmo II, invecchiato, è tornato nel suo castello di Potsdam, al suo esercizio preferito: abbattere gli alberi della foresta. Così, forse, si era illuso di abbattere i nemici. Ma i nemici si sono serrati attorno a lui: più numerosi, più forti di quello che la diplomazia tedesca avesse previsto o pensato. Ed ora la partita è disperata. Si tratta di vita o di morte. Il Kaiser deve scegliere: o la guerra ad oltranza o una pace non lontana. La guerra ad oltranza può significare lo schiacciamento totale e definitivo della Germania, poiché a una vittoria completa dei tedeschi non è più il caso di pensare; la pace non lontana, è, anch'essa, la fine ingloriosa dell'impero. Ma è in questa pace, un grande pericolo per un'Italia rimasta neutrale. No, non la pace finché qualcuno non sia costretto a chiederla, senza porre condizioni di sorta. È necessario che questa guerra si concluda col trionfo assoluto degli uni o degli altri. Altrimenti l'Europa di domani rassomiglierà a quella di ieri: tornerà una caserma. Bisogna che la Germania sia schiacciata. E può esserlo, rapidamente, col concorso dell'Italia. I tedeschi sanno che il nostro intervento è decisivo. Ci hanno mandato per tenerci fermi, prima Sudekum, poi Billow. Ci blandiscono e ci minacciano. In Germania tutti - dai grandi agli infimi - sentono che la campana a morto dell'impero tedesco sarà suonata dall'Italia. L'Italia può, per fatalità di eventi, assolvere questo compito grandioso: chiudere un ciclo della storia europea. Nel 1815 si chiuse il ciclo napoleonico, nel 1915 si chiuderà quello degli Hohenzollern. Nel 1815 ci fu un mercato di popoli, nel 1915 ci sarà la liberazione dei popoli col trionfo dei diritti delle nazionalità. Italiani, voi non potete rimanere assenti da questo grande avvenimento. A voi, a noi affida la Storia il compito di vibrare il colpo mortale al gigante che voleva stringere nel suo pugno di ferro i popoli liberi e civili dell'occidente. Questo colpo sia vibrato, con animo forte e con braccio non meno forte. Il gigante aveva creato una macchina mostruosa per assicurarsi il dominio sulle genti: il militarismo. Occorre che questa macchina sia frantumata. Sarà un giorno memorabile nella Storia, il giorno in cui le officine del pederasta Krupp a Essen saranno date alle fiamme di un grande incendio che abbaglierà l'Europa e purificherà la Germania. In nome delle città e delle borgate belghe straziate e distrutte, in nome delle vittime innumerevoli della guerra scatenata dal bestiale orgoglio tedesco, Essen, la città dei cannoni, dovrà venir rasa al suolo. Solo allora, e soltanto allora i tedeschi, predoni e omicidiari, riacquisteranno il diritto di cittadinanza nel genere umano.
La Germania è disorientata e spaccata al suo interno, non può dare lezioni all’Italia sul debito pubblico, scrive Edoardo Toffoletto il 14 marzo 2019 su it.businessinsider.com. Di fronte al cinema numerico esibito dall’attuale governo italiano, che ha disperso tra i labirinti dell’incomprensione il deficit previsto per il 2019oscillante dal 2,4% al 2,04% del pil, la Germania emette i suoi avvisi. Come riporta in queste pagine Giuliano Balestreri, vi è ormai lo spettro di una possibile “ristrutturazione del debito” nel caso in cui l’Italia non presenti un avanzo primario necessario, cioè di circa il 4%, a sostenere il suo debito nell’ipotesi di recessione. Le previsioni sono un mero 1,3% per il 2019. Ciò significa che non è escluso che l’Italia possa essere sottoposta a un trattamento simile al caso greco, poiché questo si cela dietro all’eufemismo della “ristrutturazione del debito”. Si dice che “l’Italia sia too big, to fail”, magari vi potrebbe essere qualche trattamento di riguardo – ma in poche parole significa che le istituzioni europee potrebbero esigere dall’Italia la sospensione della sua auto-determinazione. Ma si impone una domanda: quali istituzioni europee? E per quali interessi? Dal contributo in queste pagine di Marco Cimminella a un articolo su Le Figaro del 27 febbraio, si fa riferimento a uno studio di un think tank tedesco, il Centre for European Policy, un organo, si badi, della Stiftung Ordnungspolitik, cioè una fondazione no-profit che si propone lo studio e l’approfondimento delle politiche europee sulla scia della Scuola di Friburgo, cioè la scuola di pensiero economico che gravita attorno ai nomi di Walter Eucken, Friedrich von Hayek e Ludwig Erhard. È molto curioso che esca proprio ora uno studio chemette in luce gli effetti squilibrati di 20 anni di euro, di una fondazione che si richiama a tali figure della tradizione economica, quando sono esse stesse cheispirano l’ortodossia di bilancio che anima le istituzioni europee. Come ricorda Antoine Schwartz in Le Monde Diplomatique di marzo 2019, l’euro non è una semplice moneta, bensì – e forse soprattutto – tanto per i suoi partigiani, quanto per i suoi detrattori, “un feticcio politico, un simbolo dell’Ue e un pilastro dell’integrazione”. Questa dimensione simbolica dell’euro è alla radice delle psiconevrosi dei partiti progressisti europei, che pur criticando le ineguaglianze indotte dalle regole europee, non mettono mai in questione l’euro come tale, che resta un tabù ma è lo strumento degli squilibri mostrati dallo studio del Centre for European Policy. L’obbiettivo è chiaro, minare alla base ogni progetto di integrazione europea alternativo all’ortodossia ordo-liberale (espressa dalla Scuola di Friburgo), colpendo il simbolo stesso dell’euro. Il messaggio subliminale sarebbe che ogni ulteriore integrazione non può che produrre ulteriori squilibri. Ogni ulteriore integrazione, dalla mutualizzazione del debito a politiche industriali coordinate a livello europeo, è vista con estrema reticenza da tutto l’establishment politico tedesco. Come ricorda Marie-Françoise Bechtel su Politique Étrangère dell’inverno 2018-2019, fu proprio la Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe a stabilire definitivamente nel 2009 che “la sovranità primordiale dimorerebbe nei parlamenti nazionali, e non esisterebbe una sovranità europea. Dal momento che non esiste un popolo europeo”, scrive Bechtel commentando il verdetto di Karlsruhe, “l’Europa non può creare un ordine sovrano e neanche un trasferimento irreversibile di competenze”. Quindi, secondo Berlino, Europa sì – ma cum grano salis. Nello studio del Centre for European Policy non vi sono neanche ricette per rimediare agli effetti nefasti dell’euro: solo la constatazione degli squilibri, basandosi sul solo parametro del Pil (nazionale e pro capite): grandi perdite per Italia, Francia, Spagna, Grecia e paesi mediterranei e al contrario aumento del Pil per Germania e Paesi Bassi. Lo studio quindi non propone alcuna spiegazione per questi effetti. Ovviamente, se si fossero considerati differenti fattori quali l’investimento e la produttività del lavoro, si sarebbe anche notato che la politica ordo-liberale deflattiva e l’eccesso di risparmio(cioè l’assenza di investimenti) sono stati le cause di questi squilibri di cui l’euro è solo lo strumento per mettere in relazione i centri dell’accumulo di surplus commerciale (Germania-Olanda) e il resto dell’Europa (vedi la Polonia, la piccola-Cina della Germania), che è obbligata a fornire merci a basso costo ai centri dell’accumulazione. Di tutto questo si tace. In effetti, come scrive Barbara Kunz nel Ramses del 2019, la pubblicazione annuale dell’Ifri, “l’Europa della difesa non ha propriamente un motore franco-tedesco”. Sempre su Ramses, Hans Stark ricorda che l’attuale Grande Coalizione è rifiutata da almeno il 47% dei tedeschi – cioè il governo tedesco ha i piedi d’argilla, e non riflette per niente la maggioranza della popolazione. Infatti, almeno un terzo del parlamento tedesco, composto da Die Linke, AfD e il partito liberal-democratico, esprime un diverso grado di scetticismo o “ostilità radicale, verso il governo e l’Unione europea”. Insomma, la Germania resta fedele alle sue contraddizioni esacerbate da un Centro cristiano proteso a vagamente seguire Macron verso co-operazioni di difesa a livello europeo, e una sinistra, dalla Spd ai Verdi e a Die Linke, ideologicamente pacifista e refrattaria a qualsiasi minimo aumento della spesa per il riarmo. Non soltanto in Germania il rigore di bilancio prevale sulla necessità del riarmo o sui necessari investimenti per le infrastrutture, ma persino l’idea stessa dietro alla sigla PESCO è diametralmente opposta tra Francia e Germania: la prima insiste nel formare un nucleo esclusivo capace di formare un corpo scelto europeo efficace con capacità operazionali e proiezione estera; la seconda tende verso un progetto inclusivo puntando sulla dimensione degli effettivi. Per questo non sorprende che un post del 27 febbraio diEurointelligence sostenga che il vero divario politico europeo è tra Francia e Germania. Contestualmente, il 3 marzo Wolfgang Münchau mette in luce sul Financial Times l’ambivalenza fondamentale della Germania nel confronti della Cina. La cancelleria tedesca è andata in visita in Cina per verificare la possibilità di un “accordo anti-spionaggio”, uno specchio delle allodole per dire a se stessi che dopo tutto la Cina non è una minaccia. Come la scusa trovata dalla Vestager per impedire la fusione Alstom-Siemens, che nega ogni minaccia cinese nel breve termine, è sempre un placebo per non posizionarsi strategicamente rispetto al gigante asiatico. Un paese in tale disorientamento strategico non dovrebbe forse esporsi troppo emettendo avvisi attorno ai debiti altrui, quando, come è il caso italiano, si è ancora creditori netti rispetto alle istituzioni europee.
Prospettive franco-italiane. La Francia intanto attraversa qualche tempesta tra i suoi giganti industriali, ci ricorda Giulio Sapelli. Non soltanto il veto alla fusione Alstom-Siemens voluto con maggior ardore dalla Francia che dalla Germania, ma anche l’affronto nel gruppo Klm-Air France, in cui lo stato olandese ha acquistato azioni per un valore di 744 milioni arrivando al 14% dell’azionariato. “E questo da parte di uno Stato”, commenta Sapelli, “che in tutta l’eurozona si fa paladino del libero mercato e di un severo antitrust”. Come se non bastasse i fatti legati a Carlos Ghosn, fino a pochi giorni fa “capo incontrastato della joint-venture sicuramente più poderosa al mondo”: Nissan-Renault-Mitsubishi. Ghosn fu posto a capo del gruppo dallo stato francese che detiene il 14% dell’azionariato e la mossa di tenere recluso in prigione in Giappone Ghosn, spiega Sapelli, da parte delle autorità giapponesi per la concorrenza, ancor prima che l’imputato abbia parlato con l’avvocato, e ben prima del processo, non serve che “a rafforzare il ruolo giapponese nel sistema automotive”. In questo contesto, il recente colloquio franco-italiano tra Tria e Le Maire, ha posto sotto l’attenzione i rapporti Stx e Fincantieri, che assieme potrebbero “costituire un gruppo europeo di livello mondiale nell’elettronica della difesa, con conseguenze geopolitiche importantissime”, che implicano anche – si spera – un’intesa sul teatro libico. L’Italia ha già ceduto “ai cinesi segmenti importantissimi delle reti nazionali di trasmissione sottomarina, nonché buona parte di un porto strategico – potenzialmente – come Trieste”, ma un dialogo con la Francia per assicurare una governance trasparente ad un possibile gruppo mondiale Stx-Fincantieri potrebbe essere un tassello decisivo sul piano globale per smarcarsi dagli avvisi delle potenze deflazioniste.
Il problema non è il debito, ma l’eccesso di risparmio che ostacola la crescita e l’occupazione. Il problema non è in effetti il debito, ma la crescita e l’occupazione. Secondo Bruxelles, come riportato dal Financial Times, l’accumulo del debito italiano e le politiche di spesa pubblica del governo stanno “nuocendo alla crescita economica”. Ora, il governo italiano attuale sembra cadere sempre nell’ipostatizzazione del consumatore come centro dell’economia. Il reddito di cittadinanza, come già accennato nell’intervista su queste pagine a Bernard Stiegler, è una forma assistenzialistica di risposta alla povertà, che punta all’alimentazione della domanda del mercato interno – soffocata dalle politiche ordo-liberali – per riattivare gli investimenti nel settore privato. Data la deflazione, cioè la riduzione tendenziale dei prezzi e del tasso degli interessi, anche di fronte all’aumento della domanda il settore privato difficilmente sarà propenso all’investimento. E quindi non si risolve il problema vero della crescita e dell’occupazione. Nella Homer Jones Lecture del 2016 alla Federal Reserve di St. Louis, Lawrence H. Summers ricorda quanto la tendenza a ripagare i debiti equivale alla tendenza al risparmio. Perciò l’ortodossia della parità del bilancio fa credere che il deficit sia negativo come tale, poiché la priorità è la riduzione del debito, che è una forma di risparmio. Ciò non deve però indurre a pensare che il problema della manovra dell’attuale governo sia l’eccesso di deficit, invece dell’utilizzo delle risorse ottenute attraverso il deficit. Il problema risiede nell’insufficienza e i limiti del reddito di cittadinanza per la crescita e l’occupazione. Esso non è una forma di investimento. Inoltre, si deve tenere presente, che nel quadro del reddito di cittadinanza vige l’obbligo, dopo due tentativi, di accettare un impiego, in cui si includono anche i contratti a tempo determinato di più di 3 mesi, così da poter affermare di “creare” – si fa per dire – circa 1 milione di posti di lavoro. Ciò non risolve il problema alla radice. Non contribuisce a cambiare la logica fondamentale in cui viene percepita l’attività lavorativa (valore=tempo di lavoro), che tuttavia diventa sempre più flessibile, instabile e imprevedibile. Per questo tale reddito di cittadinanza è mero assistenzialismo e non un investimento – perché non potrà promuovere a cambiare le regole del gioco: rimane un aiuto assistenziale, in cui regna lo status quo.
La proposta di legge di iniziativa popolare dell’avvocato Giuseppe Boscolo: il servizio civile democratico. Eppure ci sono delle iniziative popolari italiane che propongono una rielaborazione del reddito di cittadinanza, e dovrebbero venire ascoltate. Un esempio è la proposta dell’avv. Giuseppe Boscolo per l’introduzione di un “Servizio civile democratico” (Scd), come condizione per l’accesso al reddito di cittadinanza, che egli definisce “reddito base di partecipazione”. Si tratta di utilizzare in modo più efficiente e virtuoso l’1% del pil proposto dai 5Stelle, pari a circa 15 miliardi di euro, per trasformare l’erogazione di un reddito in un investimento. Gli osservatori internazionali non potrebbero che appoggiare una tale iniziativa. “Non sta scomparendo il lavoro”, osserva Boscolo, “quale attività socialmente necessaria, vengono via via ridotte a fenomeni marginali le forme storiche sin qui prevalenti”. Il reddito base di partecipazione, spiega nella presentazione della proposta di legge di iniziativa popolare, è “così definito perché condizionato alla partecipazione alle attività socialmente necessarie di un territorio, decise da una procedura democratica partecipativa, che vede la proposta di progetti di attività socialmente necessari da parte di consulte-assemblee degli interessati, la decisione dei consigli comunali, la esecuzione gestione da parte di fondazioni di comunità”. L’iniziativa di questa proposta di legge è il risultato di un lungo percorso, spiega Boscolo, “di vari decenni di vita e lavoro professionale e di esperienze politiche, sindacali e sociali almeno ancora in parte in corso, tutte all’insegna della democrazia diretta prevista dalla nostra costituzione, complemento degli istituti rappresentativi”. Tale percorso inizia nel 1978 con la proposta di referendum per “la estensione alle piccole imprese delle garanzie contro i licenziamenti, preceduta dalla proposta di legge popolare nel 1972 per l’aggancio degli affitti al reddito e da una petizione comunale nel 1969-70 che ottenne la diffusa dotazione dei bagni nel centro storico di Chioggia, allora sprovvisto per il 50% delle abitazioni”. Si passa poi ai primi anni 2000 con la proposta di legge di iniziativa popolare “a tutela della disabilità intellettiva”, raggiungendo quasi 100.000 firme a livello nazionale e ottenendo il “riconoscimento automatico della gravità nella sindrome di Down, con i relativi diritti, in pratica poi esteso da Inps a molte altre patologie irreversibili”. Ed è così che in questi ultimi giorni sono stati avviati, in collaborazione con il mondo universitario, una serie di incontri di approfondimento della proposta di legge in Emilia e in Veneto nell’ambito delle associazioni, dei centri per l’inserimento lavorativo e delle cooperative sociali legate alla disabilità intellettiva, così come al marcato disagio sociale. In effetti, la proposta di legge per il Scd viene concepita come una continuazione della proposta di legge a favore delle persone con sindrome di Down e disabilità intellettiva. Nella logica dell’attribuzione del reddito base di partecipazione la priorità cade sui soggetti diversamente abili per integrarli nella vita sociale attraverso il lavoro. Come l’esempio dell’economia contributiva descritto da Stiegler, non vi è alcuna corrispondenza fra il reddito base di partecipazione e la durata dell’attività svolta nell’ambito del Scd. Boscolo arriva a definirla un’attività “volontaria” o persino “lavoro gratuito” da concepire come complemento al sistema del lavoro retribuito tradizionale. Si legge all’art. 6 dell’Allegato A: “siamo tutti diversamente abili”, il che consente di estendere il SCD a tutti coloro che in una data circostanza ed un dato tempo e luogo sono esclusi socialmente, a causa dell’esclusione dal lavoro retribuito tradizionale. Il Scd può anche essere concepito come un trampolino verso il sistema del lavoro retribuito. Ad ogni modo, ciò che è di primaria importanza è il ruolo nevralgico delle “consulte-assemblee degli interessati” – essi stessi partecipando alle decisioni locali svolgono attività che cadono nell’ambito del Scd e del reddito base di partecipazione – che stabilisce di volta in volta i lavori socialmente necessari nel proprio territorio, così da informare alla propria collettività le possibili attività da svolgere per ottenere il reddito base di partecipazione. Come nella proposta di Bernard Stiegler, ritroviamo anche qui la natura locale del valore. Il vantaggio ulteriore della proposta di Boscolo è che il modello del Scd può incominciare a essere messo in pratica a partire dalle risorse disponibili in ogni località, sarà poi il valore locale prodotto dal lavoro nell’ambito del Scd a produrre le condizioni, rispondendo a problemi del territorio, per una dinamica virtuosa che potrà far aumentare le risorse disponibili per finanziare il sistema stesso del Scd. In ogni caso, se impiegato per promuovere tali iniziative nessun osservatore internazionale, neanche l’austera Germania, potrà reclamare avvisi e moniti di fronte all’aumento del deficit o del debito, poiché sono queste iniziative che permettono di promuovere gli investimenti e gettare le condizioni per la crescita e l’occupazione.
· Quei razzisti come i….
Anna Lombardi per “la Repubblica” il 6 dicembre 2019. Seppellite le vostre medaglie a Wounded Knee: ai margini del torrente "ginocchio ferito" che ancora scorre in Sud Dakota. È qui che il 29 dicembre del 1890, almeno 300 nativi, in buona parte donne e bambini Lakota, tribù della nazione Sioux, vennero sterminati nel corso di quello passato alla storia - anche grazie al bestseller del 1970 Seppellite il mio cuore a Wounded Knee di Dee Brown - come l' ultimo genocidio degli indiani. All'epoca, venti autori di quella carneficina vennero insigniti della medaglia d' onore, massima onorificenza dell' esercito Usa. Ora, Elizabeth Warren, la 70enne senatrice del Massachusetts candidata alla Casa Bianca dal sangue indiano - spregevolmente chiamata da Trump Pocahontas - vuol far revocare quelle decorazioni. Con un progetto di legge appena presentato in Senato, sull' esempio di quello depositato alla Camera a giugno dal deputato Denny Heck, insieme alle prime due native elette al Congresso Sharice Davids e Deb Haaland. Da tempo gli attivisti si battono per riscrivere in modo più obiettivo quella terribile storia. E nel 2001 il Congresso Nazionale degli Indiani d' America emanò due risoluzioni di condanna verso quelle "medaglie del disonore", attribuite ai massacratori del 7° Cavalleggeri. Quello comandato dal generale George Armstrong Custer: ucciso nel 1876 proprio dai Lakota, durante la battaglia di Little Bighorn, dove fu sconfitto. Che a Wounded Knee si fosse andati oltre ogni decenza, era chiaro già allora: il generale Nelson Miles, arrivato dopo la strage, definì «abominio» quei corpi di donne e bambini tagliati a metà con le sciabole. E deferì James Forsyth, il colonnello capo dell' operazione, alla corte marziale. Invece Forsyth fu promosso. I suoi uomini trattati da eroi. «La salvezza dei pionieri dipende dallo sterminio degli indiani», scrisse sull' Aberdeen Saturday Frank Baum, autore, dieci anni dopo de Il mago di Oz. Pochi giorni prima della strage, Toro Seduto, il guerriero di Little Bighorn, , reso celebre dal tour col circo Barnum al fianco di Buffalo Bill, era stato ucciso a Standing Rock durante un tentativo d' arresto dai militari: infastiditi da una profezia del movimento "Danza degli Spiriti", dove, unendo elementi cristiani e nativi, si presagiva un diluvio universale che avrebbe cancellato i bianchi. Il suo assassinio terrorizzò i Lakota. Volevano raggiungere Nuvola Rossa a Pine Ridge quando Forsyth lì fermò, costringendoli ad accamparsi sotto il tiro delle mitragliatrici. A scatenare lo spietato massacro fu un colpo partito per sbaglio dal Winchester di Coyote Nero, un giovane sordo. Sopravvissero in 51: 4 uomini e 47 fra donne e bambini. Fra i cadaveri abbandonati tre giorni sotto la neve vennero ritrovati quattro bebè vivi, ancora avvinghiati ai cadaveri delle madri. Il fuoco amico, aveva ucciso 25 soldati. Nel 1990 il Congresso chiese scusa per quel massacro. Senza offrire, però, nessuna riparazione ai discendenti. Eppure dal 1916 esiste una commissione che in cento anni ha già revocato 900 onorificenze. Per questo Warren chiede ancora giustizia: 130 anni dopo, insieme al cuore della nazione indiana, è tempo di seppellire anche quelle medaglie.
Luigi Ippolito per il “Corriere della sera” il 29 novembre 2019. È stata definita, nell' aula di tribunale, una «tragedia totale»: una delle poliziotte nere più in vista del Regno Unito è stata condannata per possesso di materiale pedopornografico. Ma è una sentenza che ha lasciato il pubblico stupefatto e che ha sollevato accuse di razzismo e discriminazione: perché quelle immagini raccapriccianti erano finite sul telefonino della super agente per caso. E c' è chi sospetta che la giustizia abbia usato la mano pesante perché si trattava di una donna di colore. Quel che è certo è che la carriera stellare di Robyn Williams è stata rovinata. Lei era considerata finora la prima possibile donna nera alla guida di Scotland Yard (attualmente a capo c'è Cressida Dick, una donna omosessuale). Figlia di genitori giamaicani, era cresciuta senza avere un padre accanto e a soli 18 anni si era arruolata nella polizia. In 36 anni di servizio era stata insignita di numerose medaglie e lodata dalla regina per il ruolo svolto nei disordini londinesi del 2011 e in occasione dell' incendio alla Grenfell Tower di due anni fa. Insomma, un ufficiale modello, esempio della diversità nei ranghi della polizia britannica. Una favola che si è infranta nel febbraio dell' anno scorso, quando sua sorella - che ha avuto una traiettoria esistenziale molto diversa - le ha mandato via WhatsApp un video pedopornografico. L' intento della sorella era di denunciare quella roba e chiederle di indagare. Ma la legge britannica è inflessibile: chiunque è in possesso di materiale di quel genere, se non riferisce subito alle autorità, commette reato. E la Williams ha impiegato un paio di giorni prima di accorgersi di cosa fosse finito sul suo telefonino. Il giudice che ha emesso la sentenza ha riconosciuto che si trattava di «circostanze particolarmente insolite» e che è stato costretto a improvvisare. Ma non c' è stato nulla da fare: Robyn è stata condannata a svolgere 200 ore di lavori socialmente utili e il suo nome è stato iscritto sul registro dei criminali sessuali. Con «immense conseguenze» sulla sua carriera. Ma la cosa non è andata giù a tutti. L' associazione dei poliziotti neri ha sostenuto che si tratta di un ennesimo esempio del «razzismo istituzionale» di cui è permeata Scotland Yard: secondo l' associazione, in casi simili è possibile esercitare una certa discrezionalità sulla necessità di procedere o meno con una incriminazione. E invece si è deciso di portare comunque il caso in tribunale, anche quando era evidente che non c' era nessun intento criminale da parte della Williams. E tra il pubblico che affollava l'aula del tribunale - tutto a sostegno della poliziotta - c'era anche chi affacciava teorie cospirative: forse Robyn sapeva qualcosa di troppo e si è voluto metterla a tacere in questo modo. Fantasie, con tutta probabilità. Ma comunque, come ha riconosciuto lo stesso procuratore, «un caso triste». Di fronte al quale l' agente Williams ora ricorrerà in appello.
Gerry Freda per ilgiornale.it il 29 novembre 2019. In Francia si è appena abbattuta una bufera mediatica su un centro parigino per la donazione degli organi. La struttura in questione, istituita presso l’università Descartes della capitale transalpina, è stata infatti accusata, riferisce la Bbc, di essersi trasformata, in più di un decennio, da centro di ricerca scientifica e di solidarietà a “cimitero di massa” nel cuore della metropoli. In base a quanto riporta l’emittente britannica citando i media locali, all’interno del centro collegato all’università vi sarebbero migliaia di corpi senza vita “ammassati senza alcuna dignità e in condizioni igieniche spaventose”. Negli ultimi dieci anni, tale istituzione scientifica sarebbe appunto divenuta teatro di scene raccapriccianti, in quanto era possibile trovare lì cadaveri totalmente nudi abbandonati sulle barelle e “accatastati l’uno sull’altro”, nonché corpi e parti anatomiche lasciati "imputridire e divorare dai topi”. Oltre a non riconoscere alcuna dignità ai corpi e a non rispettare alcuna precauzione igienica, il centro universitario si sarebbe macchiato di altre “pratiche immorali”. L’ente incriminato, prosegue la Bbc, avrebbe infatti, nel medesimo lasso di tempo, anche “venduto a soggetti privati” le parti del corpo destinate in origine a essere donate a chi attendeva un trapianto. Molte salme custodite nel centro parigino, una volta finite nelle mani di privati, sarebbero state poi impiegate per “fini per niente etici”, ad esempio utilizzate per dei “crash test automobilistici”. Sempre in base a quanto riporta il network britannico, il centro-donazioni avrebbe cercato di lucrare al massimo dalla vendita dei cadaveri e degli arti donatigli in nome della ricerca scientifica e dell’aiuto a chi aspetta un trapianto. Per un corpo intatto, la strutta universitaria sarebbe arrivata a chiedere ai privati 900 euro, mentre ne avrebbe invece abitualmente pretesi 400 per un arto. Il trattamento irrispettoso riversato ai corpi senza vita dal personale dell’istituzione in questione, precisa la Bbc, sarebbe stato denunciato dai media francesi sulla base di foto scoperte proprio in questi giorni. Le istantanee della vergogna, che immortalano cadaveri abbandonati in stanze piene di topi, sarebbero state infatti rinvenute dai quotidiani d’Oltralpe all’interno di un fascicolo, risalente al 2016, redatto dal professor Richard Douard, presidente dal 2014 al 2017 del centro finito nella bufera. Lo scandalo appena esploso ha subito causato diverse reazioni. In primo luogo, l’università Descartes ha pubblicato, sul proprio sito web, un comunicato in cui ammette che, all’interno dell’istituzione preposta alla donazione di organi, hanno finora avuto luogo pratiche “lontane dalle richieste di rispetto e dignità provenienti dai cittadini”. La nota dell’ateneo prosegue rivolgendo, alle famiglie che hanno messo a disposizione della struttura i corpi senza vita dei loro cari, scuse ufficiali e assicurando di volere fare luce sulla sconvolgente vicenda. Sull’argomento è intervenuta anche l’associazione Union Française pour une Médecine Libre, che, per bocca del suo presidente Jerome Marty, citato sempre dalla Bbc, ha presentato il primo come un grave colpo alla reputazione della categoria dei medici. Le inchieste giornalistiche hanno alla fine indotto il governo Macron ad avviare delle ispezioni nella struttura incriminata, affidate al ministero dell’Istruzione superiore e della Ricerca. Fino al termine delle indagini, il centro-donazione organi dell’università Descartes resterà chiuso.
Macron nella bufera: "Preferisco immigrati africani che non dell'est Europa". I fedelissimi di Macron infastiditi dall'ultima intervista rilasciata dal presidente francese. E intanto scoppia un caso diplomatico con Bulgaria e Ucraina. Federico Giuliani, domenica 03/11/2019 su Il Giornale. Emmanuel Macron è stato chiaro: per la Francia è meglio accogliere gli immigrati provenienti dalla Guinea e dalla Costa d'Avorio che non dall'Est europa. L'intervista rilasciata dal presidente francese alla rivista Valeurs Actuelles ha scatenato mille polemiche, sia da parte dei progressisti, scioccati dalle parole del loro beniamino, sia da parte della galassia sovranista. Ma le parole di Macron hanno infastidito, riporta il quotidiano Libero, anche alcuni deputati del suo stesso partito République en marche (Lrem) oltre che i governi di Bulgaria e Ucraina.
Tutti contro Macron. Per quanto riguarda l'immigrazione, il capo dell'Eliseo ha detto di essere pronto a introdurre quote di ingresso. Fin qui niente di clamoroso. Sono le parole successive che hanno fatto storcere il naso a numerose persone: “Preferisco avere un' immigrazione legale, registrata, con delle quote per vari anni invece di un lavoro distaccato dissimulato. Preferisco avere delle persone che vengono dalla Guinea e dalla Costa d' Avorio in maniera legale, che sono qui e fanno questo lavoro, invece di avere delle filiere clandestine bulgare e ucraine”. Apriti cielo. I fedelissimi di Macron, contrariati in partenza che il loro presidente rilasciasse un'intervista a una pubblicazione di destra, quando hanno sentito pronunciare parole del genere sono letteralmente andati in tilt. Macron ha inoltre creato un vero e proprio caso diplomatico, perché le sue dichiarazioni non sono passate inosservate neppure a Sofia e Kiev. Il primo ministro bulgaro, ad esempio ha convocato l'ambasciatrice francese a Sofia per chiedere spiegazioni. Stessa sorte è già toccata all'ambasciatore francese a Kiev.
Justin Trudeau è nei guai per una vecchia foto. La foto incriminata risalirebbe al periodo in cui Trudeau insegnava matematica e lingua francese in un’esclusiva scuola privata di Vancouver. Gerry Freda, Giovedì 19/09/2019, su Il Giornale. Il primo ministro canadese, il liberale Justin Trudeau, è ultimamente rimasto coinvolto in uno scandalo che rischia di compromettere la sua immagine di politico sempre pronto a difendere i diritti e l’identità delle minoranze etniche. Sui network nazionali ha infatti cominciato a circolare una sua vecchia foto in cui egli prenderebbe in giro le persone di colore. Il settimanale americano Time ha appunto pubblicato di recente un’istantanea scattata nella primavera del 2001, durante una serata di gala che ha avuto luogo all’interno di un’esclusiva scuola privata di Vancouver, la West Point Grey Academy. Tra i partecipanti alla festa in costume, denominata “Notti arabe”, vi era, stando all’immagine diffusa dalla rivista statunitense, anche l’allora ventinovenne Trudeau, che, dal 1999 al 2001, ricopriva in quella struttura l’incarico di docente di matematica e di lingua e letteratura francesi. Nella foto incriminata si vede il futuro premier del Canada con indosso un turbante, un abito bianco che richiama quello degli sceicchi e con il volto “annerito”. Tale diapositiva è stata fornita a Time dal magnate Michael Adamson, ex alunno della scuola di Vancouver, che ha assicurato la veridicità della prima. L’istantanea diffusa dal settimanale farebbe appunto parte dell’album fotografico ufficiale della West Point Grey Academy relativo all’anno scolastico 2000-2001. Sull’onda dell’indignazione maturata nell’opinione pubblica nazionale, il Partito liberale, tramite la sua responsabile della comunicazione Zita Astravas, ha reagito negando qualsiasi valenza razzista dell’immagine dell’esponente progressista. La donna, dopo avere confermato che l’uomo con la faccia annerita immortalato alla festa di gala è proprio un allora ventinovenne Trudeau, ha quindi precisato: “Quell’’istantanea è stata scattata in un anno in cui egli insegnava in una scuola privata di Vancouver, durante una festa in costume incentrata sulle atmosfere mediorientali e arabe. Il futuro primo ministro e alcuni suoi colleghi si erano in quell’occasione travestiti da personaggi dei film di Aladino”. Alla fine, il leader liberale, in piena campagna elettorale, ha deciso di scusarsi pubblicamente davanti alle telecamere dei network locali, affermando di avere “fatto una sciocchezza” nel prendere parte a quella serata con la faccia dipinta di nero. Egli ha successivamente dichiarato: “Non dovevo farlo. Sono veramente dispiaciuto”. Il premier ha quindi chiarito che avrebbe deciso di truccarsi in quel modo diciotto anni fa poiché doveva allora intrattenere gli altri partecipanti alla serata interpretando la canzone folk giamaicana Day-O, divenuta celebre nel mondo grazie all’arrangiamento messo a punto dalla star afroamericana Harry Belafonte. Trudeau ha poi puntualizzato: “Per me, quella foto, nel momento in cui è stata scattata, non era assolutamente razzista. Oggi, invece, abbiamo tutti una conoscenza e una sensibilità adeguate a condannarla con nettezza”.
· Le frontiere salvano i popoli e le civiltà.
Quei muri contro i migranti in nome della patria. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio l'8 novembre 2019. Forse un giorno i muri diventeranno il contrario – punti di sutura tra popoli e terre. E forse faremo pellegrinaggi per ricordare quanti provarono a scavalcarli. Il muro più famoso al mondo – a parte quello dei Pink Floyd – non si vede. E non si vede non per una qualche diavoleria ipertecnologica ma perché non c’è più, e da mo’. Però, ne è rimasta l’evocazione, anche se sovrappensiero. Stiamo parlando di Wall Street, la strada del muro – centro della finanza mondiale, dove si giocano spesso i destini del mondo. Che si chiama così, perché un tempo c’era un muro, appunto. In realtà, era poco più che una palizzata, fatta erigere e poi rinforzare nel 1640 da Peter Stuyvesant, governatore dei Nuovi Paesi Bassi il cui gioiello era New Amsterdam, per tenere lontani i pellerossa – gli altri, i diversi, i nemici. Quando scoppiò la guerra fra inglesi e olandesi la palizzata divenne un vero e proprio muro di terra e legname alto 3,5 metri e fortificato. Ma non resse alla storia. E quando gli inglesi nel 1664 rinominarono la città in New York il muro scomparve. Ma non la strada – dove fino al secolo successivo commercianti e broker avevano l’abitudine di stipulare i loro patti di transazione. Così, un giorno del 1792 decisero di stilare un accordo e lo chiamarono Buttonwood Agreement, perché Buttonwood è il nome in inglese del platano sotto cui erano soliti fare i loro scambi. E questo è l’inizio del New York Stock Exchange. Forse è vero che gli uomini hanno da sempre costruito muri mentre edificavano ponti o luoghi di culto, acquedotti e arene, piazze di mercato e accampamenti. Il Vallo di Adriano, limen dell’impero romano che divideva la Britannia, provincia conquistata, dai barbari che abitavano oltre, è del II secolo dopo Cristo – e è ancora in piedi.E la Grande Muraglia Cinese ( una serie di muri, in realtà, e di difese naturali, costruiti in epoche e dinastie successive), lunga 8.852 chilometri, iniziò nel 215 avanti Cristo. E sta ancora in piedi. Mentre le mura di Gerico non ressero alle trombe dei sacerdoti guidati da Giosuè, milleduecento anni prima di Cristo. Senza bisogno di ricorrere all’aiuto divino, Janet Napolitano, che è stata Segretario alla Sicurezza interna dal 2009 al 2013, presidente Obama, disse una volta: «You show me a 50- foot wall, and I’ll show you a 51- foot ladder / tu mostrami un muro alto 50 piedi e io ti farò vedere una scala alta 51». Non credeva, Janet Napolitano, che pure si era battuta già da governatore dell’Arizona contro il traffico dell’immigrazione clandestina, che i muri fossero “la risposta” – un muro si può sempre scavalcare, per quanto alto tu possa farlo. Eppure, non solo al confine tra gli Stati uniti e il Messico il muro sembra essere “la risposta” dell’amministrazione Trump di fronte a un esodo di massa, dal Guatemala, dall’Honduras, dal San Salvador, che ha aspetti e proporzioni bibliche. Trump ha deciso di fare fuoco e fiamme per “onorare” la proposta di campagna elettorale di allungare e rafforzare un muro che già il presidente Clinton, e dopo di lui sia Bush che Obama, hanno esteso. Solo negli ultimi dieci anni sono diecimila i chilometri di muro costruiti nel mondo. E perciò, non stiamo parlando di muri “storici” – come quelli di Belfast, iniziati nel 1969 dopo i Troubles, che sono 99 come i nomi di Allah, e dividono protestanti e cattolici, passando per vie e vicoli e dividendo caseggiato da caseggiato, quartiere da quartiere e che, per cinismo della storia, si chiamano Peace- walls, e oggi, colorati di murales che celebrano un qualche caduto dell’Ira o delle milizie orange a seconda di dove li si guardi, sono diventati meta turistica, e speriamo che tali restino. O quello che spacca Cipro, lungo 184 chilometri, separando turco- ciprioti e greco- ciprioti, che si chiama linea verde perché Peter Young, il generale inglese che nel 1963 provò a mettere un freno al massacro fra etnie, aveva sottomano solo una matita verde per tracciare la divisione dell’isola in due metà. O quello che divide le due Coree. Ci sono i 1.800 chilometri di muro che dividono l’Arabia Saudita dallo Yemen; i 700 chilometri che separano l’Iran dal Pakistan; i 230 chilometri tra Israele e Egitto ( oltre quelli in Cisgiordania); i 482 chilometri tra lo Zimbabwe e il Botswana; i 2720 chilometri ( il record!) tra il Marocco e il Sahara occidentale. L’Europa d’altronde non fa che costruire muri: c’è il muro che ci divide dall’Africa e che sta nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla e fanno da confine con il Marocco, una barriera lunga venti chilometri, alta sei metri, che è costata decine di milioni dell’Unione europea, nell’ambito del programma Frontex. C’è il muro che ci divide dall’Asia, dalla Turchia, e che in realtà è un fiume, quindi è una barriera naturale, il fiume Evros, e avrebbe dovuto comprendere anche un fossato, ma a causa dei costi molto elevati la Grecia ha deciso di mantenere soltanto una doppia barriera di reticolato e filo spinato alta quattro metri. Da qui arrivano immigranti da Afghanistan, Pakistan, Armenia, Kurdistan, Iraq, Siria. E poi ci sono i muri – anche qui barriere di reticolati, spesso elettrificati – che dividono l’Ungheria dalla Serbia ma Orbàn vuole costruirne un altro per separarsi dalla Croazia. E quello che divide la Bulgaria dalla Turchia, un vero e proprio muro lungo i trenta chilometri di frontiera. Insomma, caduta the iron curtain, la cortina materiale e ideologica che spaccava l’Europa a metà, dal mar Baltico al mar Nero e che teneva lontano i temibili cosacchi dalle fontane di San Pietro e il corrotto capitalismo dalla pura anima slava, l’Europa continua a frammentarsi e a rinchiudersi. Come a Alphaville, la gate community di SanPaolo, Brasile, dove i ricchi hanno deciso di rinchiudersi – e fare le proprie scuole, le proprie palestre, i propri centri commerciali – per stare lontani dal mondo sporco e cattivo delle favelas e mettere più di mille guardie a vigilanza e protezione: come dice un giardiniere che ci va tutte le mattine a pulire le aiuole e poi la sera orna a casa, di qua Alphaville di là Alfavela. In Brasile, Alphaville – nata proprio seguendo le indicazioni architettoniche per la città ideale di Le Corbusier – si va riproducendo e in America le gate community sono ormai realtà stabili. E sembra l’incubo rovesciato di 1997: Fuga da New York, il film dove nell’isola di Manhattan chiusa da alti muri impossibili a valicare sono stati rinchiusi i reietti. Che stiano lì nel ghetto, e non ci contaminino. Finché. Un’utopia che si trasforma in distopia. I muri sono il paradosso dei nostri tempi: tempi che si presupponevano fatti di scambi e movimenti liberi di uomini, capitali e merci e che invece si vanno distorcendo in una frammentazione sempre più ristretta di comunità. Forse un giorno i muri diventeranno il contrario – punti di sutura tra popoli e terre. E forse faremo pellegrinaggi per ricordare quanti provarono a scavalcarli, e vi lasciarono la vita.Un po’ come accadde per tutto il Novecento con il “muro dei federati” di Parigi, al cimitero del Père Lachaise, contro il quale il 28 maggio del 1871 vennero fucilati 147 Comunardi i cui corpi furono gettati nelle fosse comuni con altre migliaia di insorti e che divenne meta di cortei pavesati di bandiere rosse, “il nostro lutto e il nostro orgoglio”.
Le frontiere salvano i popoli e le civiltà. Norme e barriere sono un modo per confrontarsi con l'altro. La società liquida è solo una pericolosa utopia. Marcello Veneziani il 30 luglio 2019 su Panorama. «Le frontiere uccidono» titolava una copertina recente de L’Espresso. È vero se pensiamo ai vopos che uccidevano i loro connazionali, i tedeschi dell’Est che tentavano di varcare la frontiera per fuggire dal regime comunista. Se non sbaglio è stato l’ultimo capitolo in Europa di persone uccise perché volevano saltare il muro o il filo spinato. Ed era la frontiera di casa loro. A ben vedere, le frontiere che impediscono di entrare clandestinamente non sono malefiche perché salvaguardano popoli e territori, leggi, regole e cittadinanza, diritti e doveri; invece sono malefiche le frontiere che impediscono di uscire, come le cortine di ferro di tutti i regimi comunisti. Quelle sì, furono frontiere criminogene che trasformavano le nazioni in prigioni e gli stati in carcerieri. Ma dietro quel titolo e quella campagna contro le frontiere c’è un’ideologia, anzi c’è L’Ideologia del nostro Sconfinato Presente Globale. La riassume l’antropologo Michel Agier nella stessa rivista: «L’unica speranza è liberare il mondo dai confini» in modo da consentire «la libera circolazione delle persone». Senza limiti. Ma questo è il sunto della predica che ci propina ogni giorno la Fabbrica Mondiale dell’Opinione Corretta e che ha trovato in Carola Rackete la sua ultima testimonial, con tutto lo strascico di protettori e tifosi. E l’ideologia no border, morte ai confini, abbattiamo i muri e le frontiere di ogni tipo – tra popoli, tra territori, tra stati, tra sessi, tra culture. È il Racconto Unico e Globale recitato ogni giorno come un rosario dell’uniformità, da stampa e propaganda, declamato dal Papa e da cantanti, artisti, intellettuali, opinionisti e bella gente. Nell’ideologia no border confluiscono più eredità: l’Internazionale socialista e comunista, il cosmopolitismo di matrice illuminista e massonica, il filone catto-umanitario, la filantropia e il capital-liberismo del Mercato Globale. Ma di mezzo c’è un passaggio. È l’utopia eco-pacifista e anarco-permissiva fiorita tra il ‘68, l’Isola di Wight e Woodstock nell’estate del ‘69, che fu l’apoteosi del mondo hippie. Libero amore, libera droga, niente limiti e confini. Quel clima trovò il suo manifesto ideologico in una celebre canzone del 1971, Imagine di John Lennon. Fu la Bibbia di quei mondi. Non è un caso che la sigla di chiusura del comunismo in Italia sia stata proprio la canzone di Lennon, suonata a un congresso di Rifondazione comunista al posto dell’Internazionale. Lenin lasciò il posto a Lennon. È una gran bella canzone, Imagine, ma le sue parole sono il manifesto del nichilismo presente e dell’ideologia No border in purezza, come la miglior cocaina. Leggiamo le sue parole: «Immagina che non ci sia il paradiso...e nessun inferno... Immagina la gente vivere per l’oggi… Immagina che non ci siano più patrie... Nessun motivo per cui morire e uccidere, nessuna religione, niente proprietà...E il mondo sarà una cosa sola». È condensata in pochi versi l’Ideologia no border d’oggi: la negazione del senso religioso, dell’amor patrio e dei legami famigliari; il dominio assoluto del presente sul passato, sul futuro e sull’eterno, il pacifismo come fine della storia e risoluzione della politica, lo sradicamento globale e l’unificazione del pianeta, senza più frontiere. Ma se si vive solo per l’oggi, senza più motivi degni per vivere e per morire, se non ci aspettano cieli e inferni, se non c’è più dio né patria né radice, perché poi lamentarsi se il mondo si riduce a un immenso spurgatorio e noi siamo i relativi materiali in transito, frutto di una liberazione che somiglia a un’evacuazione? È questo il senso ultimo della società liquida? Quell’utopia è piuttosto l’estinzione dell’umanità nel fumo e nella polvere dei desideri; al suo posto c’è un gregge vagante e belante in perpetua transumanza, che si vive addosso, senza storia e senza avvenire, senza confini e senza civiltà, guidati solo dall’io voglio. Ma se al mondo togli le frontiere, togli le norme che regolano i popoli, abolisci gli Stati e gli ordinamenti giuridici ad essi connessi, le tasse e i servizi, togli le garanzie di libertà e di sicurezza per i suoi cittadini, salta tutto. Salta la civiltà, che è fondata proprio sulla linea di frontiera tra il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, il mio e il tuo, il naturale e il culturale. La libertà smisurata si rovescia nel suo contrario, e tramite l’anarchia conduce inevitabilmente al dispotismo, come insegnò Platone già 24 secoli fa. La libertà ha bisogno di confini, necessita di limiti, altrimenti sconfina, prima a danno della libertà altrui e poi annega nel caos universale. La libertà, come la dignità e la civiltà, si fonda sulle differenze. E ogni differenza delimita un’identità. La frontiera è il presupposto inevitabile per riconoscere l’altro, per confrontarsi e per dialogare. Il confine è il riconoscimento reciproco dei limiti. Del resto, il male peggiore per i greci era l’hybris, la tracotanza, il delirio di chi viola la misura e i confini. Per disintossicarsi da questa devastante utopia no-border consiglio di leggere almeno due libri, Elogio delle frontiere di Régis Debray (ed. Add) e Dismisura di Olivier Rey (ed. Controcorrente). Perduti Marx e Rousseau, che sopravvive come piattaforma nella caricatura grillina, perduto il socialismo di Lenin e di Gramsci, resta Lennon e l’Ideologia No Border ridotta a Imagine, anzi a imaginetta e spacciata come il toccasana per l’umanità. Resta immutata l’indole utopista, ma scende enormemente di livello. Immagina che bello, un mondo di replicanti a ruota libera...
· Anche i Turisti: a casa loro.
Everest: il Nepal cambia le regole, servirà esperienza e sarà più caro. Pubblicato martedì, 20 agosto 2019 da Paolo Virtuani su Corriere.it. Nove morti sul versante nepalese (più due su quello cinese), centinaia di persone in fila per ore a maggio per attraversare i passaggi più difficili sull’Everest hanno convinto il governo del Nepal a varare norme più restrittive per la salita in cima agli 8.848 metri della montagna più alta del mondo. Norme che, ovviamente, riguarderanno solo il versante sud del Nepal, quello nord è sotto la giurisdizione di Pechino. Finora nel 2019 sono 885 le persone che hanno scalato l’Everest: 644 dal versante nepalese e 241 da quello tibetano (cinese). Un comitato di studio ha proposto al governo di Kathmandu di permettere la scalata solo a chi ha già salito una vetta di almeno 6.500 metri, è in grado di presentare un certificato di buona salute e la presenza nell’ascesa di una guida nepalese. Il permesso di scalata sarà rilasciato dietro il pagamento di 35 mila dollari (circa 32 mila euro) rispetto agli attuali 11 mila dollari (10 mila euro). Per le altre sette montagne con almeno un versante in Nepal sopra gli 8 mila metri (Kangchenjunga, Lhotse, Makalu, Cho Oyu, Dhaulagiri, Manaslu e Annapurna, in ordine di altezza) il permesso di scalata aumenterà a 20 mila dollari. «Queste raccomandazioni al governo sono state inviate per assicurare la qualità e la sicurezza dell’alpinismo sulle nostre montagna», ha detto Ghanshyam Upadhayay, funzionario del ministero del Turismo e presidente del comitato. «Queste misure sono solo un palliativo», giudica Nives Meroi, l’unica donna alpinista italiana ad aver scalato tutte le 14 vette sopra gli 8 mila metri (insieme al marito Romano Benet) senza l’aiuto delle bombole di ossigeno e di portatori. «Non scoraggerà gli scalatori senza esperienza ma con tanti soldi. Deve invece cambiare la mentalità di chi si avvicina a queste vette come una meta turistica qualunque». «La maggior parte delle fatalità sul Sagaramatha (il nome in nepalese dell’Everest, ndr)», ha detto Mira Acharya, membro del comitato, «non è stata dovuta alle ore di attesa nella salita ma al mal di montagna, attacchi cardiaci, sfinimento e indebolimento». L’obbligatorietà della guida, ha aggiunto, vuole evitare le scalate in solitaria, le più rischiose. Inoltre sarà migliorato il sistema di previsioni meteo e saranno sistemate per tempo le corde fisse. In realtà secondo gli scalatori professionisti è l’inesperienza degli scalatori «turistici» che si affidano alle agenzie la principale causa di morte sull’Everest. Inoltre l’allungamento di tempi a causa del sovraffollamento nella cosiddetta «zona della morte» (sopra gli 8 mila metri) aumenta notevolmente i problemi di congelamento, mal di montagna, edemi polmonari, sfinimento a causa dell’esaurimento delle bombole di ossigeno. Quattro dei nove morti in Nepal possono essere fatti risalire all’affollamento.
Un miliardo di turisti ci travolgerà. Angelo Allegri, Martedì 20/08/2019, su Il Giornale. Dubrovnik, l'antica Ragusa, è una splendida città murata, con imponenti bastioni che raccolgono un centro storico di poche centinaia di metri per lato. Gli abitanti del reticolo di viuzze medievali sono meno di 1.500 e nelle più affollate giornate estive si trovano circondati da un numero di turisti che è almeno 10 volte superiore. I negozi di alimentari rimasti in centro sono quattro, quelli di souvenir 107 e i ristoranti 143. Un incubo. Per salvaguardare città e abitanti l'Unesco ha proposto di ridurre i visitatori a 8mila; il sindaco, Mato Frankovic, ha fissato un obiettivo ancora più ambizioso: 4mila. Per avvicinarsi (...) (...) alla meta poche settimane fa ha firmato un'intesa con la Clia, l'associazione internazionale che raggruppa gli armatori di navi da crociera, che portano ogni anno in città 800mila persone. Obiettivo: gestire l'accesso dei croceristi; in pratica contingentare gli arrivi.
STATE A CASA. Fino a qualche anno fa l'idea che un sindaco si proponesse come obiettivo quello di ridurre i turisti, con la conseguente perdita di affari e fatturato, era poco meno che fantascientifica. Ora è una specie di parola d'ordine tra i primi cittadini delle capitali d'arte di mezzo mondo. Il grande nemico contro cui tutti lottano è sintetizzato da un termine appena nato: overtourism, l'eccesso di turismo che mette pericolosamente alla prova strutture fisiche e la stessa vita sociale degli abitanti. Il fenomeno, in incubazione da anni, è esploso di recente. La stessa parola, overtourism, è entrata nell'Oxford Dictionary solo nel 2018 e sempre nel 2018 è stata inserita tra le 10 parole dell'anno. A rendere scottante il tema sono i numeri. Secondo l'organizzazione mondiale dell'Onu che si occupa del settore (Unwto) i turisti che hanno varcato una frontiera nel corso del 2017 sono stati 1,3 miliardi, il doppio che nel 2000, quattro volte tanto che nel 1980. Quasi 700 milioni si sono mossi in Europa. Se si andrà avanti così a livello globale i viaggiatori diventeranno due miliardi entro il 2030. In pratica quasi un abitante della terra su sei si è trasformato in turista e il rapporto crescerà fino a un abitante su cinque. L'invasione riguarda in prima linea l'Europa, meta dei viaggiatori provenienti da tutto il mondo. Ma i turisti arriveranno soprattutto dai Paesi asiatici: viaggiare, e soprattutto viaggiare nel Vecchio Continente, è la nuova priorità-status symbol delle borghesie emergenti di Paesi come la Cina o l'India. Dal 2000 a oggi il numero di cinesi in viaggio all'estero è cresciuto del 1380%, passando da 10,5 a 145 milioni. Le previsioni parlano di 400 milioni di visitatori in arrivo da Pechino e dintorni entro il 2030. Per l'India le stime sono solo di poco inferiori. Proprio l'ondata proveniente dal Far East ha provocato fenomeni curiosi. Hallstatt, per esempio, è un graziosissimo paesino sulla sponda occidentale dell'omonimo lago, nella regione del Salzkammergut, in Austria. In Asia ha finito per rappresentare l'idilliaca cartolina del borgo alpino. Risultato: tutti vogliono andarci. Nel 2018 i 776 abitanti hanno dovuto fare i conti con la bellezza di 19.344 autobus turistici che hanno portato nelle quattro o cinque vie del paesino quasi un milione di visitatori. In buona misura si trattava dei turisti più temuti: i partecipanti ai tour cinesi tutto compreso. Più o meno in due settimane e con partenza spesso da una capitale dell'Europa orientale per risparmiare sui costi, visitano almeno cinque Paesi europei, con soste calcolate al minuto e a malapena sufficienti per un stop in bagno. Un esempio perfetto di quello che gli esperti chiamano turismo predatorio, che sfrutta fin quasi al limite dell'infarto le infrastrutture esistenti senza che la comunità interessata ne ricavi alcun vantaggio sostanziale. Da quest'anno però, il sindaco del centro austriaco, disperato, ha iniziato a introdurre dei limiti: prima tutto il fatto che ora nei parcheggi non si può sostare per meno di 150 minuti. Chi va via prima paga comunque e il posto rimane vuoto. In pratica chi vuole visitare Hallstatt deve darsi il tempo effettivo per farlo.
QUI NON SI PASSA. Limiti e restrizioni più o meno soft sono diventati in molti casi la regola. Ma in qualche caso si è arrivati a veri e propri divieti di accesso. Maya Bay, la spiaggia thailandese resa famosa dal film «The beach» con Leonardo di Caprio rimarrà chiusa per decisione del governo fino al 2021, giusto il tempo di rimediare ai danni dell'inquinamento e di sconfiggere l'erosione delle barriere coralline causata dalla folla dei visitatori. Il filippino Rodrigo Duterte ha chiuso invece per sei mesi Boracay, tra le spiagge più belle del Paese: «Il turismo l'ha trasformata in un cesso», ha spiegato il sanguigno presidente, che ha detto sì alla riapertura, qualche mese fa, solo dopo aver introdotto una serie di restrizioni severe. Una strada diversa ha scelto il Bhutan, che ha imposto una spesa minima di 250 dollari per chi vuole entrare nel Regno. L'isola di Pasqua ha abbreviato e rese più severe le regole per ottenere il visto d'entrata. Un'altra soluzione, spesso minacciata e a volte anche praticata, è il numero chiuso, che in Italia viene ormai applicato in numerose spiagge sarde, ma che per ovvi motivi si cerca di evitare. Quest'anno il tema ha visto contrapposti il sindaco di Riomaggiore, nelle Cinque Terre, da anni prese d'assalto e le Ferrovie dello Stato. Il primo cittadino aveva emesso un'ordinanza che poneva un limite al numero di persone ammesse sulle banchine ferroviarie. Il provvedimento è stato motivato da ragioni di sicurezza ma aveva anche l'obiettivo di costringere a prenotare arrivi e partenze via treno, di fatto limitandoli. Portata di fronte al Tar, l'ordinanza ha superato l'esame dei giudici amministrativi. La prima città ad applicare un vero numero chiuso potrebbe essere Venezia, considerata la vera e propria capitale mondiale dell'overtourism, con i suoi 22 milioni di visitatori annui, che ha già introdotto i tornelli (sia pure a livello sperimentale) nelle zone di maggiore afflusso. Ai tornelli si è aggiunta anche la tassa per accedere al centro storico: la sua introduzione era già prevista quest'anno, ma per il momento si è deciso il rinvio al 2020. Venezia, come Amsterdam, Barcellona e le altre città vittime dell'eccesso di turismo devono fare i conti tra l'altro con il proliferare degli affitti turistici che «spiazzano» i residenti costretti a fare i conti con un mercato immobiliare dai costi insostenibili. Di fronte al problema le misure adottate sono diverse da caso a caso: da un «tetto» al numero di appartamenti potenzialmente a disposizione per le locazioni di breve periodo, fino a un aumento delle tasse. Sia in Olanda sia in Catalogna il fenomeno è diventato un tema caldo a livello elettorale, con la contrapposizione tra due schieramenti, quello dell'industria turistica da un lato e dei comitati cittadini che subiscono l'assalto dei visitatori senza averne alcun vantaggio.
GLI «SCONSIGLI». Intanto, per la prima volta, stanno diventando popolari quelle che si potrebbero definire guide turistiche al contrario. Non la segnalazione delle località da visitare, ma quelle piuttosto da evitare. «Fodor's», per esempio, casa editrice anglosassone specializzata in manuali e letteratura di viaggio, pubblica ogni anno una lista dei «not-to-go-places», posti in cui non andare. Accanto al sovraffollamento vengono presi in considerazione altri criteri, come la sicurezza e la sostenibilità ambientale. In cima alla classifica per il 2019 ci sono tutti i santuari del sovraffollamento: le isole Galapagos, il tempio indiano del Taj Mahal, il Machu Picchu in Perù, Amsterdam, Venezia, l'isola greca di Santorini, le isole Koh Khai, non lontane dalla tailandese Phuket. Ma non è con questi metodi che si risolverà il problema: per ogni viaggiatore turisticamente corretto che deciderà di evitare le località più affollate ci saranno sempre almeno un paio di cinesi pronti a prendere il suo posto. Angelo Allegri
Monte Bianco, salite a numero chiuso. Risponde il condirettore de "il Resto del Carlino", Beppe Boni il 17 agosto 2019.
In Italia ci sono troppi divieti che limitano il turismo. Città a numero chiuso, pedaggi come gabelle, tornelli come allo stadio. In questo modo si disincentivano i turisti che devono essere liberi, ma educati, per poter visitare città e borghi. Andare a Venezia, tra prenotazioni e tassa d’ingresso, è diventato più difficile che entrare al cinema il sabato sera d’inverno. Poi fanno entrare le grandi navi in laguna. Giovanni Toschi, Reggio Emilia
Risponde il condirettore de "il Resto del Carlino", Beppe Boni.
E’ comprensibile che le limitazioni infastidiscano. Bisogna però farsi una domanda: perchè entrano in vigore? La risposta è che il turismo di massa se non viene disciplinato può creare problemi. I sindaci che firmano ordinanze limitative, pur non impedendo l’ingresso a nessuno, sono costretti dalle circostanze. Qualcuno sarà più rigido, qualcuno meno ma le motivazioni hanno sempre un senso. E non succede solo in Italia. Il sindaco di San Gervais les bains, in Francia, come raccontava un servizio del Corriere della sera giorni fa, ha deciso il numero chiuso di escursionisti con prenotazione per salire al Monte bianco. Da questa località infatti accede la maggior parte degli escursionisti e degli alpinisti. Il primo cittadino ha anche istituito una sorta di Brigata bianca che controlla e gestisce gli accessi. Per chi sgarra ci sono multe fino a 30mila euro. La mancanza di selezione nel tempo ha creato disagi di ogni genere: affollamento ai rifugi, risse fra comitive per la precedenza, furti di attrezzature. La maleducazione non si elimina per decreto ma un maggior controllo rende la vita più facile a tutti. Turisti compresi.
Allarme overtourism: tra numero chiuso e divieti, ecco come rispondono le città italiane ai troppi turisti. Giulia Pace tgtourism.tv il 22 luglio 2019. Sono 1,3 miliardi le persone che nel 2018 hanno fatto le valigie: la metà di queste ha scelto l’Europa; molti di loro, l’Italia. I flussi turistici si concentrano in poche destinazioni: le preferite Roma, Venezia, Milano e Napoli. Che, soffocate dagli arrivi, lanciano l’allarme overtourism. Quali misure stanno adottando per difendersi dalle ondate di visitatori? Quali luoghi d’Italia hanno già scelto il numero chiuso? Masse di persone schiacciate contro i finestrini degli autobus,strade invase da fiumi di gente che arrancano faticosamente, alla ricerca disperata di un avanzo di ombra. Centri storici che si somigliano tutti: ristoranti turistici dai prezzi esorbitanti con all’ingresso “acchiappini” insistenti, negozietti che vendono souvenir identici, un inesorabile moltiplicarsi di fast-food e grandi catene commerciali. E poi file, file ovunque. Sulla banchina della metropolitana, sui marciapiedi davanti alle fermate dei tram, davanti alle gelaterie, lungo il perimetro dei monumenti “da non perdere”. Può sembrare uno scenario apocalittico, invece è la realtà con cui chi vive nelle città d’arte prese di mira dal turismo mondiale deve confrontarsi ogni giorno. C‘è un termine inglese nato per definire questo fenomeno: overtourism, ovvero turismo esasperato. Che rischia di portare all’esasperazione i cittadini autoctoni che lo subiscono e pure i visitatori che lo praticano. Visitatori che magari aspettavano quella vacanza da tempo, sperando di rifocillare pancia e spirito nei luoghi più famosi al mondo per il buon cibo e le bellezze artistiche, e che invece sono risucchiati nel caos di città invivibili e fuori controllo. A confermare che non si tratta di facili allarmismi intervengono i dati: quelli dell’Organizzazione mondiale del turismo, che ha calcolato 1,3 miliardi di viaggiatori nel 2017; a questo ritmo di crescita, si stima che nel 2030 a viaggiare saranno 2 miliardi di persone, quasi un terzo della popolazione mondiale. Un’onda che andrà a impattare contro le mete più gettonate, complicando notevolmente la situazione. L’Europa è la destinazione preferita, scelta dalla metà dei viaggiatori. I prossimi anni registreranno inoltre un’esplosione di turisti provenienti dalla Cina, in aumento costante: se nel 2000 erano circa 10,5 milioni i turisti cinesi che viaggiavano all’estero, nel 2017 sono stati 145 milioni, con un aumento del 1.380%, e l’Istituto di Ricerca Cinese sul Turismo Estero prevede che questa cifra toccherà quota 400 milioni entro il 2030. Il turismo impazza, complici i voli low cost e la diffusione di alloggi economici su Airbnb. Anche in Italia le destinazioni preferite sono sempre le solite note: Roma, Venezia, Milano e Napoli sono le più visitate nel 2018 secondo i dati Istat. Soltanto la Capitale ha accolto lo scorso anno 29 milioni di turisti. Come stanno reagendo le città italiane di punta al rischio invasione? Per ora sembrano prevalere le misure autoritarie e i divieti: si tratta di operazioni di “demarketing territoriale”, volte cioè a scoraggiare i turisti dal frequentare determinate città, zone o quartieri. Misure che spesso puntano più ad arginare l’emergenza che a instaurare pratiche virtuose valide sul lungo raggio. C‘è chi propone una “selezione censitaria” aumentando i prezzi degli alberghi o la tassa di soggiorno, come ha fatto Amsterdam, che ha raddoppiato la tassa turistica, o il Buthan, che ha imposto ai suoi ospiti una spesa minima di 250 dollari: banditi così i turisti low cost, la categoria più temuta, perché poco sembra poter offrire all’economia della città. Chi vuole vietare l’affitto di camere o appartamenti, per evitare il fenomeno, purtroppo sempre più diffuso, di spopolamento dei centri storici, dove i cittadini vengono sfrattati per lasciare il posto ad affittuari passeggeri, molto più redditizi: è l’opzione adottata anche da Valencia. L’ipotesi più seducente resta comunque il numero chiuso, a lungo ritenuto illegale (come si può vietare l’accesso al suolo pubblico?), e invece adesso sempre più presente nei discorsi e nei programmi futuri dei sindaci delle città sovraffollate. Venezia sarà probabilmente la prima città a sperimentarlo: la città lagunare ha già introdotto da tempo misure restrittive, come i tornelli per arginare gli ingressi, installati nei punti strategici del ponte di Calatrava e della stazione di Santa Lucia. Per il momento, però, i turisti potranno continuare a godere di Piazza San Marco gratuitamente: l’entrata in vigore della tassa per accedere al centro storico (chiamata spesso impropriamente “tassa di sbarco”), prevista per l’inizio di settembre, è stata rimandata infatti al primo gennaio 2020. Una “forticazione” della città che ha destato non poche proteste, soprattutto perché contraddetta dall’aumento dell’offerta alberghiera. Sono “salvi” quest’anno anche i visitatori del Passo Sella, sulle Dolomiti (non possiamo dire altrettanto della montagna): se l’anno scorso gli accessi al Passo con auto o moto erano contingentati, per preservare i monti dall’inquinamento acustico, questa estate non ci saranno limitazioni di mobilità; il progetto di installare telecamere per monitorare i flussi dei veicoli, però, sembra preludere a provvedimenti in favore dell’eco-tourism. Tra le zone più a rischio ci sono le Cinque Terre, dove i provvedimenti sono resi più necessari dai problemi di sicurezza che il “turboturismo” può provocare in un territorio così fragile. Se già nel 2016 si provava a gestire i flussi con i contapersonecollocati nei sentieri più suggestivi (come quello tra Monterosso e Vernazza) con l’obiettivo di tracciare gli ingorghi e disperderli indirizzandoli su altri sentieri, il comune di Riomaggiore ha preso quest’anno misure più drastiche: oltre una certa soglia il borgo chiuderà le porte ai turisti. Misure d’altronde già adottate anche fuori Italia, come nell’isola greca di Santorini, che ha imposto un limite di 8.000 sbarchi al giorno per fermare l’ondata dei crocieristi. A dire basta al turismo eccessivo anche diverse spiagge italiane. Molte hanno scelto l’accesso limitato: in Cilento Baia degli Infreschi di Camerota ha stabilito una sosta di massimo un’ora e un tetto di 67 persone. In Sardegna molte spiagge hanno seguito questa tendenza: Cala Mariolu, nel Golfo di Orosei, ha introdotto il limite di 1.000 persone al giorno e un biglietto di 1 €; a Cala Goloritzé potranno entrare massimo 350 turisti al giorno, con un biglietto di 6 €; Punta Molentis a Villasimius accoglie solo 300 persone al giorno, che dovranno pagare un biglietto di 3 € se a piedi o in bici, 5 € se in moto o 10 € se in macchina; la spiaggia di Cala Biriola è accessibile invece gratuitamente, ma ammette soltanto 300 persone. Nel nord Italia chiude ai turisti anche il Lago di Braies (Bolzano), preso d’assalto dopo aver fatto da sfondo alla celebre fiction tv Un passo dal cielo: fino al 10 settembre lo si potrà raggiungere solo a piedi, in bicicletta o in autobus. Restano ad accesso limitato anche l’Isola di Montecristo e l’isola di Pianosa, in Toscana. I muri alzati contro i turisti non sono a volte soltanto simbolici, come dimostra quello che si sta costruendo in Salento, nella Grotta della Poesia, amata dai turisti per le sue acque trasparenti e la roccia a picco sul mare da cui i più spericolati si avventurano in tuffi estremi, ancora più pericolosi per il sovraffollamento. In arrivo quindi una recinzionecon un accesso unico, per tenere sotto controllo gli ingressi e da chiudere in caso di necessità. Resta invece sprovvista di soluzioni la regina delle mete turistiche, Roma: l’ordinanza “anti-bivacco” del 2017 per tutelare le fontane storiche non sembra aver dato risultati tangibili, e lo stesso si può dire della proposta di limitare gli ingressi alla Fontana di Trevi, fallita per scarsità di personale addetto alla sorveglianza. Anche l’idea di imporre un biglietto di ingresso al Pantheon è caduta nel dimenticatoio.
Che il troppo turismo stroppi sembra fuori discussione: L’overtourism aumenta il traffico, inquinamento, rumore, rifiuti. Toglie identità ai luoghi e autenticità ai prodotti locali, mercifica. Aumenta i costi degli affitti e della vita per i residenti. I turisti spesso sono maleducati, adottano comportamenti trasgressivi mai osati nei paesi d’origine ha commentato a D di Repubblica Maurizio Davolio, presidente di AITR (Associazione italiana turismo responsabile). Per restituire alle città d’arte un barlume di decoro, a Firenze, Venezia e in altre città prese d’assalto si è arrivati a prendere provvedimenti repressivi, dal sapore proibizionistico: divieto di sostare in strada, anche in piedi, a mangiare un panino; divieto di consumare bevande alcoliche fuori dai locali; divieto di sedersi nelle piazze, nei giardini e persino sule soglie. Misure scaccia-turisti sempre più insofferenti. Ma potremmo davvero permetterci di vivere senza turismo? L’anno scorso i viaggiatori stranieri hanno lasciato in Italia 41,7 miliardi di euro (dati Banca d’Italia e Ciset); l’aumento della ricchezza prodotta dal turismo nel 2018 è pari al +5,7%, cifra impressionante se paragonata all’aumento del PIL nazionale: +0,85%. Difficile pensare di poter fare a meno di questo potente traino dell’economia italiana. Prima di sbarrare le porte delle città, sarebbe quindi opportuno chiedersi se esistono altre soluzioni per trattenere i vantaggi di questa industria, limitando i disagi. Per promuovere un turismo sostenibile e rispettoso dei luoghi. Come incoraggiare gli arrivi in periodi dell’anno meno “caldi”, o valorizzare le molteplici bellezze d’Italia che rimangono fuori dalla “top 4” delle città d’arte, sempre più provate. Progettando nuovi itinerari, che stupiscano i turisti con località e attrazioni di cui non sospettavano l’esistenza e che, al contempo, facciano defluire gli arrivi in aree poco conosciute.
Il turismo visto dalla Banca d’Italia. Stefano Landi su La Voce.info il 02.08.19. Lo studio della Banca d’Italia “Turismo in Italia: numeri e potenziale di sviluppo” fotografa un settore economico in crescita e con grandi potenzialità. Ma l’approccio deve aprirsi alla contemporaneità del marketing territoriale e aziendale.
Lo studio della Banca d’Italia. La Banca d’Italia conduce una rilevazione essenziale per conoscere le principali informazioni sul turismo italiano, che si basa su di una survey annuale permanente sulle spese e i comportamenti degli stranieri in Italia e per converso degli italiani all’estero, proseguendo così il lavoro dell’Ufficio italiano cambi. Questa fonte, insieme alla storica “Indagine sui viaggi e le vacanze degli italiani” condotta dall’Istat a partire dal 1959, costituisce il basamento delle informazioni affidabili circa la domanda turistica in Italia e verso l’Italia. È vero che gli esercizi ricettivi sono tenuti a raccogliere e trasmettere i dati sugli arrivi e sulle presenze turistiche, ma lo fanno in modi e con tempi largamente disomogenei. L’indagine della Banca d’Italia, che è la spina dorsale della pubblicazione, si articola in analisi di diverso approccio: peso economico, capacità produttiva, andamenti, tendenze, posizionamento, fino a una conclusione dedicata alle politiche per il turismo.
Chi ha paura del sovraturismo. Lo spauracchio del sovraturismo, argomento molto di moda nelle cronache estive, rappresenta il filo conduttore dell’intero lavoro, anche se non vengono delineate ancora possibili soluzioni praticabili, al di là di un generico richiamo alla destagionalizzazione e delocalizzazione dei flussi. I dati sono questi: sempre più turisti internazionali visitano il nostro paese e molti di più ancora lo vorrebbero fare. Si tratta soprattutto di “extracomunitari”, in misura crescente provenienti da paesi di recente sviluppo, che vogliono vedere per la prima volta Roma, Firenze, Venezia e così via. Mentre la capacità ricettiva (alloggi) cresce in modo tutto sommato controllabile, nonostante l’exploit della sharing economy, è il sistema dei trasporti che, se insegue senza governo la domanda, rischia di far invadere i nostri luoghi più pregiati da visitatori non pernottanti, “mordi e fuggi”. Ne è un chiaro esempio il caso delle Cinque Terre, anche per le ricadute della crocieristica a Savona, Genova, La Spezia, Livorno. Il problema è dunque mal denominato, si dovrebbe caso mai chiamare “sovra-escursionismo”. Né si intravedono soluzioni attraverso la politica locale, se si escludono i tanto vituperati “tornelli” o le ricorrenti proposte di numero chiuso, che peraltro esiste già, ad esempio sulle isole minori.
Aspettando la politica. La competizione, però, non è solo economica. In diverse parti del lavoro della Banca d’Italia si sostiene che sono i prezzi, assoluti e relativi, a orientare la domanda turistica, pur dovendo in definitiva ripiegare sulla constatazione di una bassa elasticità della domanda al prezzo. Questa legge economica mal si attaglia a prodotti come i viaggi e le vacanze, che sono ben lontani dalle necessità primarie, molto più “aspirazionali” che non “essenziali”. Nessun viaggiatore sceglie la propria destinazione solo sulla base della convenienza, anzi. Non è un caso che tra le mete turistiche più desiderate al mondo, e tra le più frequentate, ve ne siano diverse che si possono ben definire care. Anzi la notorietà, la reputazione e il desiderio tendono a far lievitare i prezzi, anche con una offerta non saturata. Il punto che sembra più debole nell’analisi della Banca d’Italia, tuttavia, è la classificazione “produttiva” delle aree di offerta turistica italiane, che rimane inchiodata a cinque categorie: turismo d’affari e, tra quello di svago, cultura, mare, montagna e rurale/lago. Queste sono tipologie geografico-territoriali, ma sempre meno categorie merceologiche di prodotto, perché prescindono dalle motivazioni, sempre più essenziali e trasversali. Nel marketing turistico il prodotto non è quello che si ha da vendere, quanto piuttosto ciò che il turista compra e perché lo sceglie. Così i prodotti possibili sono decine, se non centinaia. Ad esempio nel Piano strategico del turismo 2017-2022, alla linea di intervento A.1.1., ne vengono analizzati 22, rilevati per ognuna delle regioni italiane, a costituire il Catalogo delle destinazioni e dei prodotti turistici, utile anche per la promozione. E le motivazioni non possono essere riassunte con poche definizioni generiche, devono essere approfondite fino al punto utile in cui offerta e domanda si capiscono e si incontrano. Per questo anche nel turismo si è ormai diffusa l’analisi del ciclo di vita del prodotto e la “teoria della lunga coda” formulata da Anderson nel 2004 su Wired, in cui si riconosce l’utilità di vendere una grande varietà di prodotti in quantità relativamente piccole, rispetto a un numero esiguo di varianti: una massa di nicchie, e non più/non solo pochi prodotti standard. Nelle sue conclusioni il lavoro di Banca d’Italia non sfugge alla ricorrente tentazione di auspicare una politica “settoriale” per il turismo, pur constatando che il quadro istituzionale non è favorevole e che il Pst 2017-2022 rimane lo sforzo corale e di partecipazione più grande mai realizzato in questo campo. Peccato solo che il sistema indiscriminato di “buttare il bambino con l’acqua sporca”, così tipico degli avvicendamenti governativi, abbia penalizzato un lavoro che era stato condiviso da tutti i soggetti.
CITTA’ A NUMERO CHIUSO. Barbara Jerkov e Diodato Pirone per “il Messaggero” il 5 febbraio 2019. Il numero chiuso per il turismo mordi e fuggi di Venezia sta per diventare realtà: il time-limit è fissato al primo gennaio 2022, data dalla quale chi vorrà visitare la città potrà farlo solo con una prenotazione in mano. Lo prevede la proposta di delibera sul contributo di accesso presentata ieri dal sindaco Luigi Brugnaro e già approvata dalla giunta. «Non siamo interessati a far cassa - spiega - ma ad arrivare ad una gestione dei flussi turistici della città e una previsione degli arrivi con numeri reali e non inventati». Fra tre anni, precisa, «non sarà impedito a nessuno l' accesso, che sarà però più complicato per chi non prenota».
LE CITTÀ D' ARTE. Roma ha già fatto sapere che non seguirà l' esempio di Venezia. «La Capitale ha delle caratteristiche completamente diverse da Venezia», dice l' assessore allo Sviluppo Economico e Turismo di Roma Carlo Cafarotti. «Non attrae solo turisti, ma ha un gran numero di pendolari. Non è in discussione l' introduzione di una tassa di accesso che qui sarebbe impensabile.
IL CASO FIRENZE. «Firenze è molto diversa da Venezia anche per quanto riguarda aspetti come il turismo», osserva anche il primo cittadino fiorentino Dario Nardella. «L' idea di mettere una tassa a chi non è residente è molto difficile da praticare, anche da un punto di vista tecnico, oltre che politico e giuridico. C' è tutta un' aria metropolitana molto vasta e tanti non residenti che lavorano a Firenze». Diverso è il discorso dell' imposta di soggiorno e anche del modello che è contenuto nella nuova legge speciale per Venezia. «Si tratta di capire come colpire il turismo mordi e fuggi», sottolinea Nardella. «Perché una cosa è far pagare l' ingresso a un turista che viene solo per un giorno e non lascia niente in città. Altro conto è il turista che qui passa una settimana e quindi porta ricchezza alla città. Si deve combattere il turismo mordi e fuggi, quello delle crociere, quello dei grossi torpedoni, non l' altro». Intanto dal prossimo maggio, si parte subito con un ticket da 3 euro. Poi da gennaio 2020 scatterà il meccanismo dei bollini per modulare la tassa. Il contributo che verrà chiesto ai turisti (previsto nella legge di bilancio del governo) sarà di 6 euro per i periodi normali e di 8 per quelli da bollino rosso, per lievitare a 10 (nero) nei giorni di ressa. Nelle stagioni meno affollate il costo del ticket scenderà a 3 euro, la stessa cifra che sarà applicata come quota flat per tutto il 2019. Brugnaro, che per scrivere il testo della delibera ha voluto il contributo di uno studio legale esterno, sottolinea che la tassa «servirà a coprire i costi di gestione della città, superiori di 30 milioni di euro l' anno al resto d' Italia, e per la manutenzione di rii e masegni». Costi maggiori che riguardano, in particolare, i servizi, come dimostrato con un dossier presentato dallo stesso primo cittadino all' Unesco, «e che attualmente gravano sulla popolazione residente».
I SOLDI RICAVATI. I soldi ricavati, promette Brugnaro, serviranno a far calare gli oneri economici per chi vive e lavora in città, per i restauri e «per la miglior gestione della sicurezza in centro storico, tant' è che è prevista anche l' assunzione di nuovi vigili urbani». Si dicono soddisfatti gli albergatori. «Siamo favorevoli a questo progetto che finalmente - commenta Claudio Scarpa, direttore dell' Associazione Albergatori - chiede di contribuire al mantenimento della città anche ai turisti pendolari che costituiscono il 70% del totale».
“Troppi turisti”, ora le città italiane vogliono il numero chiuso. Gli appelli dalle Cinque Terre a Firenze, da Venezia a Capri: «Non riusciamo ad andare avanti». Il governo apre a un piano per regolare i flussi. Marco Menduni il 18 Luglio 2016 su La Stampa. La chiama semplicemente così: «Una Ztl per i turisti». Tornelli, sorveglianti, badge elettronici. Luigi Brugnaro, sindaco di Venezia, ci prova sin dal giorno del suo insediamento, il 15 giugno dell’anno passato, a gettare il tema sul piatto. Turismo a numero chiuso, numeri contingentati, stop al mordi e fuggi che porta solo spese, fastidi e poco reddito alla città, «dove il rapporto tra visitatori e residenti rischia di diventare conflittuale». Però ammette di avere le armi spuntate:«Oggi non si può. Si va a confliggere col diritto di movimento dei cittadini che possono andare dove vogliono». E dunque? Il tema del turismo a numero chiuso torna alla ribalta in un’estate dove tutti gli indicatori rivelano cifre da boom per i luoghi simbolo d’Italia. Il mondo si è ristretto, le turbolenze internazionali convincono sempre più italiani a restare in Italia e sempre più stranieri ad arrivare. Percentuali record previste nel 2016 sui numeri già generosi del 2015. Venezia +5%; Firenze 5,6; Capri 9; le Cinque Terre in Liguria il 20. Un’invasione che stimola l’appello concorde dei sindaci: il successo rischia di trasformarsi in un boomerang, se non si mettono i numeri sotto controllo. Il cruccio è questo. Non si possono chiudere porzioni del territorio quando l’ingorgo dei turisti diventa imponente, ma la battaglia è cominciata.
POMPEI E IL COLOSSEO. Esistono esperienze a numero chiuso in Italia? Sì, Pompei ha introdotto il limite dei 15 accessi per le visite domenicali, il Cenacolo di Leonardo ammette 24 persone a visita (turni di 15 minuti), il Colosseo non accoglie più di 3mila visitatori alla volta. All’Oasi di Bidderosa, cinque calette da sogno in Sardegna, l’accesso al parco in auto è limitato a 130 auto al giorno. Nel Parco nazionale dell’Abruzzo è stata estesa al Monte Meta la regola già operativa in Val di Rose, Valle Jannanghera e Monte Amaro: massimo 50 persone al giorno nei feriali, 80 nei festivi. Sono luoghi protetti e delimitati, quasi come fossero musei. Esperienze che non si possono mutuare così facilmente quando si parla di una città, un’isola, paesi abbarbicati sulle rocce davanti al mare come alle Cinque Terre.
Brugnaro la mette così: «Per uscirne serve una presa di posizione del governo». La proposta: il riconoscimento di «luogo speciale» per alcune località italiane, quelle maggiormente sotto pressione, poi poteri e strumenti speciali ai sindaci. Non si può, insiste Brugnaro, andare avanti con ordinanze spot che servono a poco. Il governo non respinge la proposta al mittente. Dorina Bianchi, sottosegretario al ministero dei Beni Culturali, anzi apre: «È un aspetto che si potrebbe affrontare in un confronto tra la Conferenza Stato Regioni e Anci, potremmo avviare un tavolo per individuare criticità e ragionare su possibili soluzioni». Ancora: «L’affollamento in alcune destinazioni è un effetto della forte domanda del brand Italia e della crescita dei flussi: solo 2015 sono aumentati del 3% e che vanno redistribuiti in maniera più regolare su tutto il territorio». La ricetta? Un approccio pianificato: «Il governo sta elaborando un piano strategico per il turismo (pronto entro luglio per esser varato dal Consiglio dei ministri, ndr), l’obiettivo è valorizzare tutto il territorio per diversificare l’offerta e decongestionare mete troppo gettonate con percorsi alternativi». Lo strumento? «Il braccio operativo sarà la nuova Enit: farà da raccordo con le Regioni e promuoverà l’Italia all’estero».
I COMPITI DELL’ENTE TURISMO. Così si salda l’opinione di Evelina Christillin, presidente dell’Enit, l’Agenzia nazionale per il turismo: «Il problema c’è, per questo tanto insistiamo sul turismo responsabile. Ma sarebbe brutto respingere un visitatore davanti a una sbarra, dicendo: siamo pieni, lei non passa». L’alternativa? «In certi luoghi serve un patto di ferro tra tutte le parti in causa, dalle amministrazioni agli operatori del turismo. Considerato poi che chi viaggia oggi, in maniera organizzata o autonoma, nell’80% dei casi usa internet, allora potrebbe essere utile un sistema di dissuasione sulla rete. Far capire a chi sta arrivando che c’è già troppa gente, che non potrebbe godere delle bellezze del luogo, troverebbe i servizi sovraffollati, sarebbe in difficoltà per mangiare e per dormire. Ma prima del suo arrivo». Di effetto-saturazione ne sanno qualcosa alle Cinque Terre, epicentro del boom turistico negli ultimi anni . «Il problema - spiega Emanuele Moggia sindaco di Monterosso - è che è impossibile pensare che tutti contemporaneamente possano venire in paesi che sono vecchi borghi di pescatori senza una redistribuzione dei visitatori giornalieri». Inoltre, «questi sono luoghi dove la gente vive: se la concentrazione di persone va oltre a un certo limite, chi può cogliere la genuinità del posto, ammirane le peculiarità, respirarne l’originalità?».
ARTE E NATURA A RISCHIO. La scena: in una domenica di ordinario caos il dirigente delle Ferrovie sta sul marciapiede della stazioncina con le mani nei capelli. A ogni stop svendono dal treno centinaia di persone, che si scontrano con il muro di chi vuol salire. Gli spazi sono ristrettissimi. «Così non può funzionare - ammette - le guide, i tour operator, i crocieristi fanno quello che vogliono, senza organizzazione». Ci spostiamo nella vicina Manarola. Ogni volta che alla Spezia approda una nave da crociera, tra le 9 e le 11,30, arrivano 30 bus che scaricano 1500 turisti. Poi c’è chi arriva in treno e, sempre per i fatti loro, in auto. «Succede che - racconta Fabrizia Pecunia, sindaco di Riomaggiore (Manarola, amministrativamente, ne è una frazione) - in tanti momenti della giornata se a una persona cadesse uno spillo non riuscirebbe a toccare terra». Tradotto: «Così rischia di diventare anche un problema di sicurezza e di ordine pubblico». La soluzione? Niente numero chiuso, parola tabù: «Ma bisognerà arrivare ad ogni costo a una razionalizzazione dei flussi, per forza». Sotto accusa per l’anarchia dei comportamenti, gli operatori del turismo ribattono a muso duro. Loredana Pisano è nel direttivo della Fiavet, la Federazione italiana associazioni imprese viaggi e turismo e sbotta: «L’accusa va assolutamente ribaltata: siamo noi che, in tutta Italia, cerchiamo di dialogare e di programmare, riscontrando quasi sempre scarsa disponibilità e impreparazione dalle amministrazioni». Sembra un dialogo tra sordi, qualcuno prova a muoversi. Il sito si chiama madeinitaly.travel. «È un tentativo di smuovere anche questa impasse, una rete di operatori locali cui rivolgersi per organizzare un viaggio passo passo. Affidandosi per ogni tappa a un operatore qualificato del luogo, questo potrà dialogare meglio con la realtà che conosce, organizzando e pianificando».
I CASI CAPRI E FIRENZE. Altro luogo critico in Italia è Capri. L’amministrazione fa leva sui mezzi privati: dal 24 marzo al primo novembre auto e moto non possono circolare, escluse quelle degli abitanti. Non basta. Ogni anno sulle banchine si registra il transito di 4 milioni di passeggeri. Traghetti e aliscafi arrivano al ritmo di uno ogni 5 minuti. Il sindaco Gianni De Martino vuole intervenire rallentandolo: non più di uno ogni 20 minuti. Al Festival del Paesaggio è sbottato: «A Capri abbiamo superato il limite di sostenibilità dei flussi, viviamo problemi di congestionamento che danneggiano irreparabilmente la nostra immagine». Di un vero numero chiuso ancora una volta non si parla: si tenta di intervenire rallentando, in altro modo, gli arrivi. A Firenze il dibattito sul numero chiuso è sollecitato dalle raccomandazione dell’Unesco. «Perché Firenze - afferma Gianfranco Lorenzo, direttore delle ricerche del Centro studi turistici - è una città viva, abitata, non una vetrina, un museo, un’esposizione. Il timore è che si trasformi in una cartolina per turisti, perdendo le sue caratteristiche». Un esempio: «Chi vive qui, non apprezza di trovare sotto casa il negozio della grande griffe, ma non un ortolano dove far la spesa». Anche qui i numeri sono sempre più choc. Negli ultimi due anni, si è calcolata la presenza media di 5866 turisti per chilometro quadrato, in continua crescita. Una pressione insostenibile «e che si perpetua - insiste Lorenzo - non solo stagionalmente, il problema è la continuità. Non dico per tutto l’anno, ma almeno per otto mesi la situazione è di sovraffollamento». Alla fine, sono gli stessi fiorentini a indicare una via, stretta, alternativa. Lo rivela uno studio dello stesso Centro: «Meno consumi mass market, forme di turismo più responsabili e interessate al patrimonio culturale». Il problema è che è l’affluenza a render disarmonico il contesto sociale. Gli stessi fiorentini che lamentano il depauperamento dell’identità cittadina (ci sono 72 vie e piazze della città dove ammettono di non passare mai «per il troppo caos») cercano poi di trarne un tornaconto.
IL FATTORE AIRBNB. Nell’anno passato 364 mila visitatori hanno utilizzato Airbnb, il sito dove si mettono le stanze di proprietà a disposizione, per soggiornare in città. «Trovare soluzioni non è facile», ammette Lorenzo. La via seguita da alcune amministrazioni, alzare le tasse di soggiorno, «alla fine va a colpire proprio chi porta turismo redditizio e lascia indifferenti i visitatori giornalieri, quelli che lecitamente si portano tutto da casa ma certo non danno ricchezza alle città». Il Comune, spiegano a Palazzo Vecchio, per ora ha mosso due leve: «Abbiamo aumentato la tariffa giornaliera per i bus turistici (passata in media da 250 a 300 euro, ndr) ma soprattutto puntiamo sulla promozione incalzante di itinerari e percorsi diversi da quelli classici, per distribuire di più i turisti in città». Se ne esce? La sottosegretaria Bianchi è cosciente che il problema è stato affrontato fino a oggi in ordine sparso, senza coordinamento: «Serve promuovere tutto il territorio, le Regioni hanno dimostrato disponibilità e hanno compreso che bisogna superare l’approccio frammentario che si è avuto finora».
· Viaggiate informati.
VIAGGIATE INFORMATI. Sara Bovi per Viaggi.corriere.it il 12 agosto 2019. Paese che vai, divieti incredibili, usanze e leggi, che trovi. E ignorarli può costare molto caro. Quando si viaggia, spesso si dà per scontato che la normativa sia uguale dappertutto. Non è così. Anzi, a volte, l’esistenza di alcune leggi in vigore – in Italia o all’estero – potrebbe sembrare inverosimile anche al viaggiatore più esperto. Divieti incredibili ma da rispettare in vacanza. Alle Cinque Terre, ad esempio, dal 1° aprile 2019 è vietato indossare le infradito, i sandali e le ciabatte mentre si cammina tra i sentieri dell’omonimo Parco Nazionale. L’obiettivo? Prevenire i molti incidenti che, fino all’anno scorso, avvenivano sul territorio proprio a causa delle calzature inadatte indossate dai turisti. Per chi non rispetta la legge, sono previste sanzioni da 50 a 2.500 euro. Con la sicurezza non si scherza. Divieti per chi viaggia, in Italia e all’estero. Quella del parco ligure, però, non è l’unica legge che può apparire particolare. Basta fare un confronto con le altre regioni – e gli altri Paesi – per rendersi conto di quanto siano numerose le norme un po’ bizzarre o, comunque, al primo impatto difficili da considerare vere. Sapevate, ad esempio, che in Oman si prende la multa se non si ha l’auto pulita? E che a Trinidad e Tobago è illegale indossare abiti con la stampa mimetica? È importante saperlo, se si ha in programma un viaggio in questi Paesi. Divieti strani nel mondo, ecco una lista dei più sorprendenti. Altro paradosso – non è una fake news – a Parigi non si può fotografare la Tour Eiffel, ma solo di notte. Perché? Questi sono solo alcuni dei divieti più strani in giro per il mondo. Sfogliate la gallery e scopritene altri. Meglio saperli, prima di fare le valigie, per non rischiare guai grossi. Dal 1° aprile 2019 stop alle infradito alle Cinque Terre. Troppi gli incidenti negli ultimi anni, dovuti all’abitudine dei turisti di avventurarsi tra i sentieri del Parco Nazionale ligure indossando semplici ciabattine di gomma. Il rischio, non da poco: scivolare giù dagli scogli. E ora, chi non rispetta il divieto, può incorrere in una sanzione che va da 50 a 2.500 euro. In vacanza a Firenze? Meglio non optare per lo street food. Nel capoluogo toscano, infatti, è in vigore il divieto anti-bivacco. Vale a dire, in alcune centralissime vie (via dei Neri, Piazzale degli Uffizi, piazza del Grano e via della Ninna) non ci si può fermare per mangiare in piedi o seduti tra le 12 e le 15 e tra le 18 e le 22. Nemmeno di fronte ai locali che vendono cibo di strada. Per chi non rispetta il decreto, in vigore fino al 15 settembre, c’è una multa che va dai 150 ai 500 euro. Niente Jimmy Choo per visitare il Partenone. In Grecia, dal 2009, è in vigore il divieto di indossare i tacchi mentre si visitano i siti archeologici ellenici. Questo tipo di scarpe, infatti, seppur elegante rischia di rovinare irrimediabilmente la superficie di luoghi dal valore incalcolabile. Tintarella integrale sì o no? Alle isole Fiji, autentico paradiso terrestre, la tentazione di prendere il sole come mamma ci ha fatto potrebbe essere grande. Attenzione, però: nell’arcipelago il nudismo è considerato offensivo. E il topless è vietato dalla legge. Squilla il telefono mentre si sta guidando? In Francia è vietato rispondere, a meno che non si utilizzi il vivavoce. Troppi gli incidenti e il governo è corso ai ripari. Dal 2015, per questo, è in vigore una legge che vieta di utilizzare il cellulare al volante, anche qualora si indossino gli auricolari. Non solo: dal 2018 è vietato utilizzare in auto il cellulare anche da fermi, a meno che non ci si trovi in un parcheggio (o l’auto sia in panne). Il rischio? Oltre a un incidente, una multa da 135 euro e la decurtazione di tre punti dalla patente. In vacanza in Thailandia? Fate attenzione a non calpestare il Bath, la moneta thailandese. Nemmeno involontariamente. Sulle banconote e sulle monetine, infatti, è ritratto il Re e pestare i soldi equivale a oltraggiare la famiglia reale. Attenti, dunque, se cade qualche spiccio per terra: non tentate di fermarlo con i piedi. Vietato fotografare la Tour Eiffel di notte. No, non è una fake news. Perché? Bisogna fare una premessa. La legge sul copyright dell’Unione Europea prevede che ogni opera artistica – che sia una foto, un video, una canzone o un monumento – sia protetta per tutta la durata della vita del suo creatore più altri settant’anni. In molti Paesi, però, il diritto di fotografare edifici e opere pubbliche senza violare la legge – la cosiddetta “libertà di panorama” – fa eccezione. Non in Francia. Da un punto di vista teorico, dunque, se è dal 1993 che l’immagine della Tour Eiffel non è più tutelata dalla legge sul copyright – il suo creatore, Gustave Eiffel, è morto nel 1923 – di notte, essendo le luci artificiali un’installazione artistica del 1985, non può essere fotografata. Teoricamente è necessario chiedere il permesso alla “Société d’Exploitation de la Tour Eiffel”. Fango, sabbia, polvere. A chi non è capitato che, a causa delle intemperie, la macchina risultasse poco pulita? Se ne noleggiate una in Oman fate attenzione: è illegale tenerla sporca. Qualche decina di euro la multa. Appena arrivati in piazza San Marco a Venezia? Evitate di lanciare briciole o mangime ai piccioni. È illegale dare da mangiare ai volatili. Il rischio? Una sanzione da 50 euro a 200 euro. Guidatore sbadato, guidatore avvisato: in Germania è illegale restare senza benzina in autostrada. Lungo l’autobahn, infatti fermarsi non è consentito. Nemmeno se la causa è la riserva. Attenzione, dunque, al livello di carburante nel serbatoio per essere certi di arrivare a destinazione (o almeno al primo benzinaio disponibile). Altrimenti c’è la multa. Se avevate pensato di intrattenere vostro figlio a bordo dell’aereo per gli Stati Uniti con un Kinder Sorpresa ricordatevi di mangiarlo prima di atterrare sul suolo americano: negli States il celebre ovetto di cioccolato è vietato dal 1938. Il Federal Food, Drug and Cosmetic Act nega, da allora, la commercializzazione di prodotti che mixano generi alimentari e materiali non edibili per il rischio di ingestione degli oggetti. La multa per chi viene sorpreso in possesso del dolciume può arrivare fino a 12.000 dollari. I furbetti sono avvisati: nella capitale del Regno Unito non si può rubare il posto quando si è in coda per acquistare il biglietto della metropolitana. Non è solo una regola di buon senso: è illegale, come stabilisce il regolamento del TFL Railway Byelaws. State partendo per il Paese del Sol Levante e arriva il raffreddore? Niente di più facile che mettere in valigia un decongestionante. Ma attenzione: i farmaci che contengono la pseudoefedrina – il Vicks, per esempio – sono illegali in Giappone. E chi li ha con sé, seppur in buona fede, rischia guai grossi. Niente chewing-gum in borsa per chi va in vacanza a Singapore. Nella futuristica metropoli è vietato importare gomme da masticare, proibite sul territorio. È stato il governo a vietarne l’utilizzo, per risparmiare sulle spese di pulizia di strade e marciapiedi. Non importa se è di moda: a Trinidad e Tobago una legge vieta di indossare abiti e accessori con stampa mimetica. Il motivo? Si può essere confusi con un militare. Attenzione: la legge è valida tutto l’anno. Vietati i vestiti camouflage, dunque, anche a Carnevale. Nella metropoli emiratina addentare uno snack (o bere una bibita) in metropolitana, sul bus o sul tram potrebbe costare molto caro. Non solo: anche all’interno delle stazioni o alle fermate dei mezzi. La sanzione? Un centinaio di dirhams (circa 25 euro). Se avete in programma un viaggio alle Maldive pensateci due volte prima di mettere in valigia una Bibbia. Nel paradisiaco arcipelago asiatico l’Islam è la religione di Stato (e l’unica permessa). Un indiano cattolico che ne aveva una copia in casa – insieme a un rosario – nel 2011 venne arrestato e tenuto in carcere per una settimana. Maschi o femmine non importa: in Thailandia non si può guidare a petto nudo. Non è solo una questione di buon senso ma il Codice della strada a prevederlo. E chi non rispetta la legge rischia guai seri. Appena atterrati in Kazakistan? Attenzione a non farvi un selfie. Nel Paese asiatico scattare foto dentro e attorno all’aeroporto è contro la legge, così come ritrarre edifici militari. Caso mai vi capitasse di fare un viaggio in Burundi, evitate la corsetta mattutina in compagnia. Nel Paese africano fare jogging di gruppo è un crimine. È stato il presidente Pierre Nkurunziza, nel 2014, a proibirlo sostenendo che un tempo era una copertura per progettare attività sovversive contro il governo. Cosa si rischia? Il carcere.
· Il mondo diviso da 70 muri.
Il mondo diviso da 70 muri: più barriere tra gli Stati ma nessuna è inespugnabile. Pubblicato sabato, 06 luglio 2019 da Danilo Taino su Corriere.it. A l confine con il Bangladesh, la polizia indiana ha la mano pesante. Le statistiche dicono che almeno un centinaio di persone vengono uccise ogni anno mentre cercano di passare illegalmente, o con poca attenzione, il muro di filo spinato che divide i due Paesi. Felani Khatun, una ragazza di 15 anni, bangladese, lavorava come domestica a Delhi. Il padre le aveva organizzato un matrimonio in patria ed era andato a prenderla nella capitale indiana. Non avevano documenti regolari e, tornando, decisero di scavalcare il muro con una scala a pioli. Era il 7 gennaio 2011: il padre passò per primo; Felani, seguendolo, rimase impigliata nel filo spinato; le guardie indiane la notarono e aprirono il fuoco. La fotografia della ragazza crivellata di colpi, a cavallo della barriera, camicia rossa e pantaloni blu, fece il giro del mondo. Era l’International Border 947, nella parte Nord del Bengala Occidentale: il corpo rimase appeso agli uncini per un giorno intero. Storie di muri, come ce ne sono tante. Qualche anno prima, sempre nel West Bengala ma più a Sud, nella zona di Basirhat, mi capitò di incontrare un contadino: indiano ma in realtà abitante di una terra di nessuno. Il confine tra India e Bangladesh, al tempo Pakistan Orientale, fu tracciato con pressapochismo da Cyril Radcliffe, che al momento dell’indipendenza del subcontinente dall’impero britannico presiedeva il comitato che tracciò le linee di frontiera nella Partition tra India e Pakistan. A Est, la Radcliffe Line ha diviso intere comunità, addirittura famiglie. Ma fino agli Anni Ottanta attraverso la linea di frontiera si circolava con non troppa difficoltà. Poi, però, Delhi ha deciso di costruire il muro, la fence di filo spinato: gli accordi erano che non si poteva tirarla su se non a 150 metri dal confine, e così fecero gli ingegneri indiani. Successe però che nella striscia tra il muro di ferro acuminato e il confine con il Bangladesh rimasero una quantità di abitazioni: ancora oggi almeno 90 mila persone vivono in questa striscia, interrotta solo quando il confine è segnato dai fiumi. «Ogni giorno che devo andare al mercato o dal medico devo presentare i documenti alle guardie dei cancelli», raccontava il contadino. E, naturalmente, nella terra di nessuno niente servizi, niente acqua e niente elettricità. Il governo di Delhi spiega l’infinito muro — 3.287 chilometri e non è mai terminato — con la necessità di controllare l’immigrazione, di bloccare i terroristi e di impedire il contrabbando di bovini. Quanto funzioni e quale ne sia il costo, in termini di manutenzione e di vite umane, è questione controversa. È che ogni barriera di confine non è solo un manufatto inerte: mette in moto dinamiche politiche, sociali, economiche, ambientali difficili da prevedere e controllare. Ciò nonostante, la corsa a tirare su i muri è in pieno svolgimento. La dichiarazione d’intenti più recente e più vicina è quella del ministro Matteo Salvini che non ha escluso la necessità di alzare «barriere fisiche» sulla frontiera tra Italia e Slovenia per fermare l’immigrazione incontrollata. Il progetto più discusso è invece quello di Donald Trump al confine tra Stati Uniti e Messico. È che viviamo tempi nuovi. Nel 1987, a Berlino Ovest, il presidente Ronald Reagan pronunciò il famoso discorso «Mister Gorbaciov, tiri giù questo muro». In effetti, due anni dopo il Berliner Mauer si sgretolò: sembrava che tutti i muri dovessero crollare, che le frontiere si annullassero, che il mondo fosse finalmente piatto, senza ostacoli da superare. Che la Storia fosse finita, come decretò Francis Fukuyama. Non è stato così. Nel 1990, alla caduta della Cortina di Ferro (il più grande muro politico e fisico mai visto), si contavano 15 barriere di confine, una decina in più di quelle in essere alla fine della seconda guerra mondiale. Oggi ce ne sono settanta e almeno altre sette sono in via di realizzazione o già finanziate. Non è finita la Storia e non è finita nemmeno la geografia: il mondo non è piatto, è sempre più punteggiato da frontiere dure, di cemento e filo spinato, e tecnologiche, telecamere e droni. Elisabeth Vallet, docente di Geografia all’università del Québec a Montréal ha condotto quello che è probabilmente lo studio più approfondito sulla moltiplicazione dei muri, sulle ragioni per cui sono eretti e sulla loro efficacia. È lei che ne ha contati settanta più i sette in preparazione (sono solo le barriere non mobili, puntualizza). Ed è il suo studio che è stato citato da Trump per dire che tutto il mondo alza muri, non si capisce perché lui non dovrebbe farlo. In realtà, chiarisce Vallet, il presidente ha omesso la seconda parte del suo studio, cioè che queste barriere non funzionano, che sono «una reazione alla globalizzazione». Fatto sta che la mappa dei tanti muri di confine è sorprendente, per dove sono e per le ragioni per le quali sono stati alzati. Il Botswana, per dire, ha costruito uno sbarramento elettrificato lungo 500 chilometri con lo Zimbabwe dopo un’epidemia di afta epizootica che nel 2003 ha colpito centinaia di allevamenti e forse veniva dal Paese vicino. Vicino che, invece, accusa il Botswana di averlo tirato su per fermare i migranti. Come che sia, la corrente elettrica non è mai stata attivata ma la barriera rimane. Sul filo spinato tra il Sudafrica e il Mozambico, invece, l’elettricità correva a 3.500 volt — localmente era chiamato «serpente di fuoco» — e negli Anni Novanta ha ucciso centinaia di mozambicani che fuggivano dalla guerra civile. Più a Nord, il Sahara Occidentale è attraversato da un muro alto tre metri e lungo 2.600 chilometri formato da sabbia e attrezzato con filo spinato, radar, bunker, chilometri di campi minati e guardato da centomila soldati. Lo ha voluto il Marocco per frenare gli attacchi del Fronte Polisario. Poco si sa anche della barriera a cinque file che l’Arabia Saudita ha eretto sul confine con l’Iraq dopo il 2014, per bloccare i terroristi dell’Isis. Un altro lo sta costruendo alla frontiera con lo Yemen. A rovescio è invece il muro di una decina di chilometri che l’Egitto ha costruito, con l’aiuto di Washington, per isolarsi dalla striscia di Gaza: si sviluppa sotto terra, per bloccare i tunnel che Hamas ha costruito a scopo di contrabbando e per importare armi. Qualcosa del genere sta facendo Israele sul suo di confine con la Striscia di Gaza, per impedire il rifornimento ad Hamas e per fermarne le infiltrazioni militari nel suo territorio. Molti altri sono stati costruiti negli anni: il più famoso e maggiormente militarizzato, quello che divide Nord e Sud della Corea sul 38° parallelo. Tutto questo, per molti versi è storia. Qualche volta con risultati decenti, altre volte con fallimenti totali: la Grande Muraglia rallentò ma non fermò gli assalti mongoli alla Cina; la Linea Maginot, il complesso di difese che la Francia innalzò negli Anni Trenta come barriera difensiva contro la Germania, fu superata a Nord dagli eserciti di Hitler. I muri più recenti sono però cronaca, attualità. E a guardare il complesso di quanto è successo e sta succedendo le sorprese sono ancora maggiori. Dagli Anni Novanta a oggi, gli Stati membri dell’Unione europea e dell’Area Schengen hanno tirato su quasi mille chilometri di muri (senza contare le operazioni di pattugliamento e respingimento in mare), secondo uno studio dello spagnolo Centre Delas. Nel primo decennio dopo la caduta del Muro di Berlino, le barriere alzate sono state due; nel 2015, anno della grande ondata di immigrati, il salto fu da cinque a 12; fino alle 15 del 2017. Dei 28 membri della Ue, dieci hanno alzato muri: Ungheria, Bulgaria, Slovenia, Austria, Grecia, Spagna, Lituania, Estonia, Lettonia, Regno Unito. Se si escludono i tre Paesi Baltici, che stanno costruendo barriere di difesa ai confini con la Russia (la Lituania con l’exclave di Kaliningrad), tutte le altre costruzioni sono state giustificate dalla necessità di fermare o rallentare i flussi di migranti. Prima quelli in arrivo dalla ex Jugoslavia, poi quelli spinti dalle guerre in Siria, Iraq, Libia, molti dei quali arrivavano dalla rotta dei Balcani. Fino agli immigrati che tentano di passare in Gran Bretagna da Calais — dove i britannici hanno alzato una barriera — attraverso il tunnel sotto la Manica. Fortezza Europa, dice lo studio del centro Delas: sigillata alle frontiere esterne. I movimenti migratori, insomma, sono diventati la ragione principale per la quale i governi alzano muri o — come in Australia in modo inflessibile e nel Mediterraneo con meno determinazione — schierano le navi. Gli esperti per lo più sostengono che, così come in guerra i muri sono serviti a poco e al giorno d’oggi servono a nulla, anche per fermare gli immigrati non funzionano molto. In realtà, la rotta balcanica è stata chiusa. È però vero che chi vuole arrivare in Europa cerca altre strade. E qui c’è un punto importante: più è difficile passare un confine, più chi lo vuole superare deve prendere dei rischi. Se il motivo per il quale ha deciso di emigrare è forte — fuggire da una guerra o dalla miseria — calcolerà il pericolo che corre rispetto a quanto rischia rimanendo nel luogo di partenza. La questione muri che si moltiplicano è dunque complicata. Non sono particolarmente efficienti. In gran parte dei casi sono un’iniziativa di propaganda dei governi per mostrare che fanno qualcosa: si tagliano nastri. Al contrario di quanto dice Trump del «beautiful wall» con il Messico, non sono una visione edificante. Sono però un elemento ricorrente nella storia quando le popolazioni si sentono insicure: ingenuo rigettarli su basi ideologiche. Raphael Cohen, un esperto dell’americana Rand Corporation e insegnante alla Georgetown University di Washington, sostiene che in alcuni casi sono utili in quanto «ostacoli di rallentamento». Ma «nessun muro storico si è dimostrato inespugnabile», aggiunge. Possono essere strumenti tattici: ad alto costo, come racconta la sorte della giovane Felani. La strategia, però, è un’altra cosa.
India pronta all’espulsione di quasi due milioni di stranieri. Mauro Indelicato su it.insideover.com il 4 settembre 2019. L’Assam è uno Stato orientale dell’India, abitato maggiormente da Indù ma dove è presente da tempo una significativa minoranza musulmana. Quest’ultima risulta stanziata nella regione dal 1826, anno in cui gli inglesi iniziano a richiamare dall’attuale Bangladesh centinaia di lavoratori a basso costo da impiegare nelle vaste piantagioni dell’Assam. Da allora inizia una convivenza non semplice con gli induisti: questi ultimi rivendicano a più riprese il carattere Indù della regione, negli anni nascono movimenti studenteschi e religiosi che vedono nella presenza musulmana una minaccia per l’Assam. Oggi la disputa sembra assumere toni sempre più importanti.
Via gli originari del Bangladesh residenti in India a partire dal 1971. Quando viene sancita l’indipendenza dell’India dal Regno Unito, Ali Jinnah lotta per la creazione di uno Stato per i musulmani indiani: scindere cioè l’entità Indù da quella islamica e dare vita a due nazioni differenti. Nasce così il Pakistan, che include al suo interno la popolazione musulmana, mentre l’India mantiene le vaste porzioni di territorio a maggioranza induista. Succede però che le zone a maggioranza musulmana sono alle due opposte estremità dell’India coloniale: il nascente Pakistan è quindi composto due regioni separate dal territorio indiano. Per questo nel 1971 si decide di dare vita al Bangladesh, ossia la regione a maggioranza musulmana situata nella parte orientale dell’ex colonia britannica. Ecco perché, nella nuova legge varata dal governo indiano di Narendra Modi, si fa riferimento al 1971. In particolare, secondo la nuova norma, tutti coloro che non dimostrano di essere residenti in India da prima del 1971 perdono il diritto alla cittadinanza. Si tratta di un milione e mezzo di cittadini originari del Bangladesh, che entro il 2020 potrebbero essere accompagnati alla frontiera. Il provvedimento, come scrive Carlo Pizzati su La Stampa, riguarda in primo luogo proprio lo Stato dell’Assam. Qui, come detto ad inizio articolo, la questione appare molto sentita: negli anni movimenti studenteschi e filo induisti danno vita a gruppi contrari alla presenza musulmana. Nel 1989 si arriva alla costruzione anche di un muro lungo i pochi chilometri di confine con il Bangladesh, con l’intento di bloccare l’arrivo di nuovi migranti. Oggi la decisione presa dal governo centrale ha il plauso di una buona parte della popolazione e dell’elettorato dell’Assam, mentre ovviamente le associazioni di musulmani della regione iniziano a parlare di vera e propria persecuzione.
Le ultime mosse del partito di Modi. Quella dell’espulsione dei cittadini non residenti in India da prima del 1971 è soltanto l’ultima delle norme che il Bjp, il Partito Popolare Indiano, mette in atto negli ultimi mesi che mostrano una virata sempre più marcata verso politiche di stampo nazionalista. Del resto, il Bjp ha sempre promosso una visione dell’India dove l’identità induista fosse sempre più prominente. Poche settimane fa il governo di New Delhi toglie l’autonomia al Kashmir, regione contesa con il Pakistan ed a maggioranza musulmana. Adesso l’inizio dell’operazione volta a far tornare indietro almeno due milioni di musulmani. C’è chi parla non di svolta ma di vera e propria “deriva“, ordita soprattutto dal ministro dell’interno indiano, Amit Shah, braccio destro di Modi. La norma sui residenti da dopo il 1971 è già in vigore: la lista di un milione e 900mila cittadini da espellere è già pubblicata. Chi è iscritto in questa lista è sospettato di essere in India come clandestino, anche se residente da anni, e nei ricorsi che può fare presso il tribunale per stranieri deve dimostrare il contrario. Diversamente scatta l’espulsione verso il Bangladesh. Da New Delhi si difende la nuova scelta, sostenendo che si tratta solo di un principio di legalità da difendere: “Tutti hanno diritto a dimostrare la loro cittadinanza, ma se non ci riescono, la legge seguirà il suo corso: saranno espulsi”, sostiene il ministro della giustizia dell’Assam Siddhartha Bhattachayra.
Antonio Socci, terrificante verità su Papa Francesco: "In Italia l'unico muro che c'è è in Vaticano". Libero Quotidiano l'8 Luglio 2019. Diceva Totò che ci sono le cose vere e quelle supposte. Spesso i media dimenticano le cose vere per usare le seconde - le (cose) supposte - contro i propri avversari politici. È il caso dei "muri", ovvero le barriere (rafforzate) di confine fra gli Stati. I media sono interessati solo a due muri, quello che Donald Trump vuole costruire sul confine messicano e quello che Matteo Salvini ha ipotizzato per la frontiera con la Slovenia. Sono due muri che non esistono al momento, eppure sono al centro delle polemiche. Poi ci sono i muri veri, ma quelli non attirano l' attenzione dei media. Perché non si possono usare per propaganda. Per esempio, si polemizza contro il muro che Trump vorrebbe costruire, tuttavia non si considera il muro, fra Usa e Messico, che è già stato costruito dai predecessori di Trump. Forse perché fra loro c' è il democratico Bill Clinton? O dispiace ricordare che fra i senatori che nel 2006 votarono per il rafforzamento di quel muro c' erano anche Hillary Clinton e Barack Obama? Elisabeth Vallet, docente di Geografia all' Università del Québec, a Montreal, ha fatto uno studio sui muri: sono circa settanta, più altri sette in preparazione. La prima sorpresa è questa: non si tratta perlopiù di muri dell' egoista Occidente ricco per lasciare fuori i poveri, come Bergoglio va dicendo. Infatti in gran parte sono muri che dividono Stati asiatici e africani. Muri di cui finora pochissimo si è parlato come quello fra India e Bangladesh, quelli fra gli Stati sudafricani o quelli fra Algeria e Libia e fra Tunisia e Libia o fra Kenia e Somalia. Mentre l' Italia è attaccata da tutti perché difende la sua frontiera marina dall' immigrazione irregolare proveniente dalla Libia, altri Paesi africani alzano muri al confine con la Libia e nessuno dice nulla. E i muri che gli altri Paesi islamici hanno costruito attorno a Siria e Iraq? Quelli di Marocco, Turchia, Arabia Saudita, Iran, Egitto, Cina o Birmania? Quelli di Pakistan e India? La mossa - Una cosa singolare è questa: diversi Paesi da cui arrivano a noi immigrati irregolari, proteggono i loro confini con i muri. Ma a noi non è permesso. Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato la cartina di questi muri: l' Europa ha pochi chilometri di «barriere», ma ce ne sono dovunque eccetto l' Italia. Eppure è l' Italia a essere bastonata. Ci sono muri, costruiti o progettati, a certi confini di Austria, Francia, Ungheria, Grecia, Bulgaria, Danimarca, Gran Bretagna, Spagna, Estonia, Lettonia, Lituania, Svezia.
E nessuno dice nulla. Però appena Salvini ipotizza una barriera con la Slovenia per controllare il flusso di irregolari scoppia il finimondo. Nella cartina del Corriere, che riflette lo studio della Vallet, manca però un muro: quello che separa lo Stato della Città del Vaticano dall' Italia. Altissime mura che impediscono a chiunque di entrare nello Stato di cui Bergoglio è teocrate assoluto. È il muro di confine più efficace e insuperabile fra tutti. Però il Capo di Stato (assoluto) del Vaticano tuona continuamente pretendendo che gli altri Stati (in primis l' Italia) aprano le loro frontiere a un fiume in piena di migranti. Venerdì un incredibile articolo dell' Osservatore romano affermava «senza equivoci» che «quando si tratta della povertà e della disuguaglianza non vale il limite delle acque territoriali o della zona Sar di competenza». Il giornale vaticano poneva poi una domanda retorica che lascia esterrefatti (la cui risposta è per loro scontata): «Esiste o no - in presenza di macroscopiche asimmetrie nella garanzia dei fondamentali diritti economici e sociali - un diritto a forzare la condivisione o anche semplicemente a cercare condizioni e risorse per una vita migliore, entrando con ogni mezzo in altri Paesi anche quando non ricorrono le condizioni richieste per lo status di rifugiato?». La risposta è: no. Sia per la legge che per il magistero di sempre della Chiesa (del tutto diverso da quello bergogliano). Ad ogni modo se nel Vaticano di Bergoglio ritengono che esista «un diritto a forzare la condivisione entrando con ogni mezzo in altri Paesi» non resta - agli immigrati - che entrare «con ogni mezzo» in Vaticano e «forzare la condivisione» di tanti palazzi che potrebbero utilmente ospitarli. Compreso l' Hotel Santa Marta dove sta Bergoglio. Berlino non c'entra - C' è poi tutta una retorica sentimentale sui «muri» che a sproposito evoca il famigerato «Muro di Berlino» come prototipo (talvolta sono intellettuali che furono comunisti a fare questo autogol). Ma non c' entra nulla. Infatti i muri costruiti per impedire alla propria gente di scappare (è appunto il caso del muro di Berlino) sono l' esatto opposto dei muri che servono per governare e regolamentare gli ingressi, anche per questioni di ordine pubblico e per motivi economici (sono sempre esistite le frontiere fra gli Stati).
I primi sono i muri di una prigione e caratterizzano i regimi comunisti che considerano i propri cittadini come schiavi. I secondi connotano ogni tipo di Stato normale, il quale esiste solo se e finché ha il governo del proprio territorio: uno Stato in cui entrano e scorrazzano, a proprio arbitrio, masse incontrollate di persone che arrivano da fuori non è più uno Stato. È una terra di conquista destinata allo sfacelo. Antonio Socci
· I Territori che si comprano.
TRUMP VUOLE COMPRARE LA GROENLANDIA. Dal “Corriere della sera” il 17 agosto 2019.
1. È possibile comprare un territorio da un' altra nazione?
Sì, tanto è vero che in passato è già avvenuto. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno acquistato l'intero Alaska dall'Impero russo, nel 1867, per 7,2 milioni di dollari di allora (circa 121 milioni di oggi).
2. Come avviene lo scambio?
Dipende dal trattato che viene siglato dai rappresentanti delle due nazioni. Nel caso degli Usa - che peraltro avrebbero comprato le Isole Vergini (poi definite Americane), proprio dalla Danimarca, nel 1916 - l'accordo di cessione dovette essere ratificato dal Congresso. Il Senato lo approvò subito. La Camera un anno più tardi.
3. Soltanto gli Stati possono scambiarsi territori in cambio di denaro?
Sì. Questo perché oggi, con l' eccezione dell' Antartide, la totalità delle terre emerse sono sotto la sovranità di uno Stato. È vero che esistono isole o grandi estensioni di territorio (pensiamo all' Australia) soggetti interamente a proprietà privata: ma il titolo di possesso non annulla i diritti sovrani dello Stato entro i cui confini si trova l'area in questione. Per fare un esempio: la riscossione delle tasse e la repressione di eventuali reati commessi.
4 Cosa prevede la legge internazionale sullo scambio di territori?
A partire dalla nascita della Lega delle Nazioni, nel 1928, e poi delle Nazioni Unite, nel 1945, nessun territorio può essere acquisito con una guerra di aggressione ma solo attraverso una trattativa diplomatica.
Il Muro di Berlino arrivava in Bulgaria 21 tedeschi uccisi cercando di fuggire. Pubblicato venerdì, 16 agosto 2019 da Antonio Carioti su Corriere.it. Attraversare il Muro di Berlino, o comunque la frontiera tra le due Germanie, prima del 9 novembre 1989 era molto rischioso. Si calcola che 138 persone siano state uccise, o comunque siano perite, nel tentativo di sfuggire al regime poliziesco della cosiddetta Repubblica democratica tedesca (Ddr), fino a quando il Muro non crollò, trent’anni fa. Meno note sono invece altre vittime, anch’esse tedesco-orientali, cadute mentre cercavano di attraversare la Cortina di ferro in un punto più periferico e meno sorvegliato, il confine della Bulgaria. Pare che i morti siano stati ben 21: l’ultimo fu un ragazzo diciannovenne di nome Michael Weber, assassinato dalle guardie di frontiera nel luglio 1989, quando il Muro già vacillava. A occuparsi della vicenda – riferisce l’agenzia Lapresse – è uno storico bulgaro, Stojan Racevskij, che ha consultato gli archivi della Stasi, l’efficientissima polizia segreta della Germania comunista. Il fenomeno nasceva dallo sviluppo del turismo all’interno del blocco sovietico: i cittadini della Ddr, senza dubbio il Paese più ricco del Patto di Varsavia, non potevano recarsi a Ovest, ma avevano la possibilità di visitare altri satelliti dell’Urss. E la Bulgaria aveva un confine piuttosto esteso con Stati della Nato (Grecia e Turchia) strategicamente meno importante sotto il profilo militare e quindi sottoposto a una vigilanza meno intensa. Ciò non toglie che i controlli ci fossero e giungessero fino all’ordine di aprire il fuoco sugli aspiranti fuggiaschi. Secondo i dati raccolti da Raicevskij, 695 cittadini della Ddr riuscirono a trasferirsi all’Ovest passando per il suo Paese, mentre circa 1.500 furono i tentativi sventati dalle forze di sicurezza bulgare. Chi veniva bloccato, come accadde nel 1983 all’allora giovane Franz Meier, era consegnato alle autorità della Germania comunista e finiva tra le grinfie della Stasi. Quello di Meier fu tuttavia un caso fortunato, perché aveva parenti della Repubblica federale tedesca che si adoperarono per il suo rilascio e trasferimento in Occidente. All’epoca ciò avveniva abbastanza di frequente, di solito previa il versamento di un «riscatto» in valuta pregiata da parte delle autorità di Bonn a quelle di Berlino Est.
· Africa, chi sono i nuovi padroni del Continente Nero.
Africa, chi sono i nuovi padroni del Continente Nero: le catastrofiche conseguenze sull'immigrazione. Alessandro Cantoni su Libero Quotidiano il 9 Luglio 2019. Pubblichiamo uno dei tanti articoli dedicati al continente africano, con l' obiettivo di indagare le cause profonde del fenomeno migratorio. Si discute spesso di quel che avviene oggi, ovvero in quale modo il mondo delle imprese e delle multinazionali incida sul bilancio delle nazioni del «Continente nero». Gli assetti geopolitici sono mutati, così come sono calati gli investimenti da parte dei padroni dell' economia del secolo scorso, ovvero Francia e Regno Unito. Ad aumentare sono i contratti statunitensi e soprattutto cinesi. Calcolando il valore degli investimenti nel periodo 2005-2015 in miliardi di dollari, per la Nigeria ne sono stati impiegati 32.2. Seguono l' Algeria (18.69), l' Etiopia (16.89), l' Angola (16.52) ed il Kenya (10.19). Nella maggioranza dei Paesi costieri sono stati realizzati porti che servono il mercato cinese, oppure importanti connessioni ferroviarie. Ricordiamo solamente quella collegante Tanzania ed Angola e quella che unisce commercialmente Kenya, Sud Sudan, Uganda e Ruanda e la recente conquista di Gibuti. La questione che viene posta è se le attività di investimento da parte delle multinazionali occidentali giochi un ruolo di promozione dello sviluppo delle economie nazionali interne o, viceversa, privi il Continente di risorse fondamentali per la sussistenza ed il sostentamento delle popolazioni locali.
CACCIA ALLE RISORSE. L'Africa possiede numerose risorse, distribuite eterogeneamente in tutto il territorio. Vi si trovano strategici giacimenti petroliferi, giacimenti di uranio (Sudafrica, Niger, RDC, Repubblica Centrafricana, Gabon), radio (RDC), rame (presente in dosi massicce in Zambia, RDC, Sudafrica e Zimbabwe). Tre quarti dell' oro mondiale provengono infine da Sudafrica, Zimbabwe, RDC e Ghana. Eni - insieme a Total - è la compagnia petrolifera che opera maggiormente sul territorio africano. Oltre il 57 per cento (dati del 2013) della produzione deriva dai giacimenti diffusi in Angola, Congo, Ghana, Gabon, Mozambico, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Togo, Kenya e Liberia. Le compagnie petrolifere che esercitano attività di carotaggio e prelevamento degli idrocarburi versano una quota comprendente diritti di produzione, imposte, royalty ed altri corrispettivi. In totale, per l' anno 2016, Eni ha pagato 4.919.058 euro ai governi delle nazioni in cui avviene l' estrazione. Alla Libia sono spettati - sempre nell' anno 2016 - 1.420.207 euro, mentre alla Nigeria 988.419. Da un lato, dunque, le compagnie petrolifere ed estrattive si presentano come benefattrici, compensando le attività di prelievo con corrispettivi economici ed ingenti liquidazioni. Tuttavia, i finanziamenti ai governi non implicano necessariamente una corretta redistribuzione della ricchezza nazionale, specialmente laddove dominano instabilità ed episodi di corruzione.
POCA TRASPARENZA. Lo sfruttamento delle risorse africane non avviene sempre in maniera trasparente. Mi riferisco, specificamente, all' attività di talune società estrattive, che si occupano di petrolio, gas, minerali o aree forestali primarie. Lo sfruttamento intensivo ed opportunistico dei territori e della manodopera lavorativa locale comporta l' impoverimento delle comunità medesime e la violazione dei diritti fondamentali dell' uomo. Gli incentivi ai territori in via di sviluppo non possono filtrare unicamente per via finanziaria (liquidazione ai governi, i quali reinvestono i fondi loro destinati per il benessere delle industrie e dei cittadini), bensì grazie all' importante azione che può essere svolta dalle imprese internazionali.
Diverse organizzazioni operano nel Continente per la ricerca di riserve idriche, la desalinizzazione delle acque marine, il ricavo di energia grazie a strumenti e tecnologie sofisticate. Diffondere capillarmente la rete delle imprese indipendenti, che assumano manodopera, lavoratori dipendenti e tecnici specializzati è un' ottima strategia per il rilancio della macroeconomia e per l' occupazione di quei territori. Un ottimo supporto deve essere fornito al sistema educativo, mediante investimenti in ambito dell' Istruzione e della Ricerca, contribuendo a ridurre sensibilmente l' elevato tasso di analfabetismo e l' impiego di potenziali risorse lavorative in termini economici e di sviluppo. Alessandro Cantoni
· Le due Curve da stadio.
La “divina ispirazione” di Travaglio. Come mai le ong “trovano i migranti”? 80 morti davanti alla Tunisia. Daniele Raineri il 6 Luglio 2019 su Il Foglio. "Un giorno magari le ong ci sveleranno quale divina ispirazione le fa trovare sempre nel posto giusto al momento giusto nello sterminato Mediterraneo", scriveva Marco Travaglio nel suo editoriale di domenica scorsa. Il direttore del Fatto insinua che le ong siano in combutta con i migranti o peggio con i loro trafficanti, altrimenti come saprebbero dove caricare a bordo le persone “nello sterminato Mediterraneo”? E’ lo stesso tipo di insinuazione che è stato già smentito più volte dalla magistratura – in questo caso non esercita il solito ruolo di faro per il direttore – e che eccita molti fan di Matteo Salvini e della sua copia minore Luigi Di Maio, che spesso ha parlato di “taxi del mare”. Ebbene, giovedì al largo di Zarzis, un porto della Tunisia, un barcone si è rovesciato e sono annegate ottanta persone secondo la testimonianza di quattro naufraghi raccolta da Associated Press. E se questo disastro non bastasse, ce ne sono decine di altri a dimostrare che, purtroppo, nemmeno le ong in missione riescono a trovarsi nel posto giusto al momento giusto “nello sterminato Mediterraneo”. E in molti casi le persone muoiono. Possiamo pensare che di molte stragi – accadessero sulla terraferma diventerebbero fatti eccezionali che riempirebbero i giornali per settimane – non sapremo nulla perché non ci sono sopravvissuti. Se il mare si richiude sopra di te magari di notte e non c’è “la divina ispirazione” nessuno lo verrà a sapere. Questo è il Mediterraneo di oggi. Le ong non devono pattugliarlo altrimenti sono accusate di collusione con i trafficanti di persone. La guardia costiera libica è corrotta e comunque lavora soltanto sotto costa e quando recupera i migranti li riporta in Libia dove le cose vanno malissimo. Le missioni poco robuste organizzate dall’Unione europea sono appunto organizzate dall’Unione europea, che è un’istituzione guardata con sospetto in Italia. Con o senza divina ispirazione, qualcuno però dovrà sorvegliare cosa succede nel tratto di mare fra Europa e Africa.
Viva la beffa di Lampedusa. Viva gli “Idraulici”. Cristiano Puglisi il 10 luglio 2019. Ma chi sono “Gli Idraulici”? Nel pomeriggio di ieri, a Lampedusa, un gruppo di tre attivisti che si sono autodefiniti co n questo nome ha inscenato una protesta simbolica contro le navi delle ONG all’imbocco del porto dell’isola siciliana. Dopo essersi avvicinati alla nave Open Arms, hanno esibito uno striscione con la scritta “scafisti” e hanno iniziato a lanciare contro l’equipaggio delle mutande sporche di… Nutella. Una protesta che i tre, in un comunicato stampa, hanno definito “La beffa di Lampedusa”, con evidente riferimento all’impresa dannunziana di Buccari. “Gli Idraulici – hanno scritto nel comunicato – credono nell’Ordine Naturale delle cose. Ma sanno che per ritornarci servirà la più grande ondata di merda mai vista dopo quella cavalcata da Bodhi in Point Break. Sanno anche che ci vuole esempio, sanno che qualcuno deve pur iniziare a sporcarsi le mani di merda. Gli Idraulici non hanno un partito politico di riferimento. Diversi tra loro hanno militato, ma questo è un altro affare. Gli Idraulici sono innanzitutto combattenti, uomini e donne verticali, non omologati nè omologabili. Gli Idraulici sono trasversali e saranno, senza distinzione di età, classe sociale, esperienza e provenienza, sulle barricate”. E chi sono i loro nemici? Pronta la risposta: “Uomini e donne, maestri di scuola e professori Universitari, imprenditori, avvocati, magistrati, psicologi, psichiatri, filosofi, giornalisti e “star” dello spettacolo, financo i preti. Sono gli stessi che dettano legge agli stati nazionali, che obbligano i popoli europei ad accettare un’integrazione forzata. Sono loro: quelli che la democrazia la predicano ma non la praticano. Quelli che sostengono l’invasione sono gli stessi degli scandali del Forteto e dell’Emilia”. Insomma, in una parola, la sinistra. “Quanto è successo oggi a Lampedusa – ha affermato Fabrizio Fratus, sociologo e fondatore del think thank Il Talebano, considerato vicino al gruppo – è la risposta dei cittadini (idraulici) a chi non rispetta la patria Italia”. Viva gli Idraulici allora, ultimi contestatori senza il bisogno di una poltrona retribuita. Ultimi eroi goliardici in un mondo di bigotti pusillanimi. Quei bigotti che, pur disprezzandoli, poi in pubblico hanno paura a contestare i gay pride e le Carole. Perché si sa, il buon cittadino è “moderato” e non prende mai posizione . È, cioè, un essere senza spina dorsale. Sì, viva gli Idraulici. Che le mani sporche di merda non le hanno loro. Ma tutti gli altri.
Le due curve Sud. Marco Travaglio il 30 Giugno 2019 su Il Fatto Quotidiano. La banchina di Lampedusa invasa da due fazioni di esagitati che salutano la capitana Carola Rackete appena sbarcata e arrestata, alcuni insultandola e altri esaltandola, è la perfetta rappresentazione di questo povero Paese che non riesce più a ragionare, ma solo a tifare. E a twittare. Chi volesse ragionare saprebbe distinguere tra ciò che ha fatto di buono la Sea Watch-3, cioè caricare da un gommone pericolante in acque libiche 53 migranti (un giorno magari le Ong ci sveleranno quale divina ispirazione le fa trovare sempre nel posto giusto al momento giusto nello sterminato Mediterraneo); e ciò che han fatto di inaccettabile, cioè infischiarsene della legge del porto sicuro più vicino (in Tunisia o a Malta) per creare l’ennesimo incidente politico col governo italiano, ricorrere al Tar contro il no di Roma e poi fregarsene della sentenza negativa, appellarsi alla Corte di Strasburgo e poi ignorare il verdetto contrario, violare i divieti di ingresso in acque italiane e di sbarco a Lampedusa, fino alla manovra spericolata e criminale di ieri, quando per poco non c’è scappato il morto tra i finanzieri della motovedetta schiacciata sulla banchina. Non lo diciamo noi fottuti giustizialisti. Lo dice il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, non certo sospettabile di filo-leghismo visto che aveva chiesto di processare Salvini per sequestro di persona e abuso d’ufficio per il caso Diciotti e ora ha disposto l’arresto in flagranza della Rackete: “Le ragioni umanitarie non possono giustificare atti di inammissibile violenza nei confronti di chi, in divisa, lavora in mare per la sicurezza di tutti”. Lo ribadiscono gli uomini della Guardia di Finanza sulla motovedetta: “La Sea Watch non ha fatto nulla per evitarci, siamo stati fortunati: poteva schiacciarci”. E il Reparto Operativo Aeronavale delle Fiamme Gialle di Palermo parla di “un atto di forza inaspettato, un gesto irresponsabile che ti puoi aspettare da un narcotrafficante o un contrabbandiere su un motoscafo”. Cos’hanno fatto e cos’hanno da dire ora i parlamentari-crocieristi de sinistra saliti a bordo della Sea Watch per garantirvi la loro personalissima “legalità”? E i fan dell’eroina non potrebbero almeno smetterla di chiedere la liberazione di un’indagata che, magari animata dalle migliori intenzioni, commette illegalità che non verrebbero tollerate in nessuna democrazia del mondo? Chi volesse ragionare saprebbe distinguere fra la simpatia umana che ispira la giovane cooperante e le ragioni del diritto, che non autorizzano chi compie un gesto umanitario a commettere reati. E non c’entrano nulla con Salvini che chiede arresti e condanne come se fosse il padrone dei magistrati e passa dalla parte del torto annunciando che i 42 migranti “possono restare in mare fino a Natale”. Parole e condotte che vanno censurate duramente, senza per questo tacere le illegalità della Sea Watch. Chi volesse ragionare saprebbe distinguere fra l’apprezzamento per il coraggio di una donna che sfida le legittime leggi di un Paese che legittimamente non condivide con un atto di disobbedienza civile di cui si assume le conseguenze senza scappare né piagnucolare, opposta alla viltà di Salvini che dal suo processo è scappato grazie all’impunità parlamentare, e i doveri di uno Stato di diritto che non può farsi dettare la politica migratoria da un’Ong tedesca di bandiera olandese. Chi volesse ragionare saprebbe distinguere fra le leggi di uno Stato democratico come il nostro e quelle di regimi totalitari o autoritari come l’Italia fascista, la Germania nazista, il Sudafrica dell’apartheid e l’India colonia britannica. Ed evitare paragoni impropri fra la capitana e i partigiani della Resistenza, Mandela e Gandhi. Il governo italiano non è frutto di un golpe militare né di un’invasione: è espresso dalla maggioranza del Parlamento regolarmente eletto un anno e mezzo fa, appena plebiscitata da consensi persino superiori alle Europee del mese scorso. Dunque le leggi italiane, giuste o sbagliate che siano, sono perfettamente legittime e conformi alla Costituzione, a meno di non accusare di alto tradimento i presidenti della Repubblica che le hanno promulgate (incluso Mattarella) e di incostituzionalità la Corte costituzionale che, quando interpellata, le ha validate. Oltretutto i reati contestati alla capitana (resistenza a nave da guerra, tentato naufragio e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) non li ha inventati questo governo, ma esistono nei codici dell’Italia e di tutti gli Stati degni di questo nome da tempo immemorabile. Certo, per battersi contro una legge c’è sempre la disobbedienza civile. Purché non venga spacciata per la nuova Resistenza, specie da chi, anziché salire sulle montagne, la combatte comodamente assiso sul suo bel sofà. Chi volesse ragionare vedrebbe che le due propagande, opposte ma speculari, della Sea Watch e di Salvini hanno motivazioni diverse, ma si alimentano a vicenda. La Sea Watch schiva i porti più vicini per puntare sempre solo sull’Italia perché sa di trovarvi il nemico perfetto: Salvini. E Salvini ha bisogno di una Sea Watch al giorno perché è il nemico perfetto per dirottare l’attenzione generale dalle vere emergenze a quella fasulla, ma elettoralmente più lucrosa: l’immigrazione che, purtroppo per lui, ormai scarseggia. Altrimenti gli toccherebbe spiegare se vuole votare o no, perché non espelle un solo clandestino, dove prende i soldi per la Flat Tax, dove sono finiti i 49 milioni rubati dalla Lega, cosa deve ad Arata&Siri, perché difende a spada tratta i Benetton, Arcelor Mittal e gli affaristi delle grandi opere inutili. Cioè, quel che per lui è peggio, gli toccherebbe governare.
Caso Sea Watch/Così si mettono in difficoltà le forze dell’ordine. Walter Verini il 7 luglio 2019 su Il Dubbio. Al netto di strumentalizzazioni e di usi politici delle polemiche, credo sarebbe sbagliato e miope sottovalutare fenomeni di disagio, frustrazione che qua e là vivono le forze di polizia e gli operatori della sicurezza. Svolgono un lavoro fondamentale, in condizioni spesso difficilissime. Le retribuzioni non sono certamente proporzionate ai rischi, alla durezza del lavoro, al valore civile e sociale dell’impegno per garantire la sicurezza dei cittadini. E spesso mancano perfino i mezzi necessari a svolgere questo lavoro. Ma questi sentimenti, comprensibili, non possono, non debbono far venire meno il rispetto di principi e regole – sostanziali, prima che formali – che informano la convivenza civile. Se un ministro dell’Interno spicca via tweet dei mandati di cattura, viola fondamentali principi di elementare correttezza istituzionale e divisione dei poteri. Se dai social emette sentenze di colpevolezza preventiva, condanne senza processi, pene carcerarie di fine pena mai, si comporta come un dittatorello di uno staterello satrapico. Se attacca i giudici che applicano e interpretano leggi ( quelli che indagano la Lega sui 49 milioni sottratti, o quelli che liberano Carola Rackete con un opinione giuridica diversa da quella della Procura, o quelli che lo indagano sulla Diciotti….) colpisce un fondamentale presidio: quello dell’indipendenza della magistratura. Ed è incredibile, poi, che un ministro ( dell’Interno! ) decida di farsi salvare politicamente per sfuggire ai processi, come quello sulla vicenda Diciotti. O che violi con atti, gesti e parole, principi elementari di umanità, diritto del mare, diritto internazionale… Quando dovrebbe dare l’esempio, come ministro dell’Interno. In molti probabilmente hanno pensato che il provvedimento restrittivo del Procuratore Patronaggio di Agrigento nei confronti della capitana della Sea Watch potesse essere eccessivo. Ma nessuno, che ha a cuore principi fondamentali dello Stato di Diritto, si è sognato di delegittimare il Procuratore. La differenza tra i sostenitori della democrazia e gli amici di modelli pericolosamente autoritari sta tutta qui. Nel rispetto delle prerogative dei poteri e dei corpi dello Stato. Noi stiamo dalla parte dei finanzieri, che tanto impegno rivolgono al contrasto di alcune piaghe di questo Paese: corruzione, evasione ed elusione fiscale, lotta al caporalato, tanto per citarne alcune. E comprendiamo anche certi sentimenti di questi giorni, di queste ore. Ma rispettiamo anche chi applica e interpreta le leggi, come i magistrati. Specialmente quelli che lavorano nelle trincee giudiziarie ( che sono la stragrande maggioranza) e non trafficano nomine e carriere. Leggi che esistono. E finché esistono vanno rispettate. Magari qualcuna, verso la direzione di una sempre più chiara certezza della pena, potrebbe anche essere aggiornata ( parlo di certezza di pena, ma pena che rieduchi, recuperi, risocializzi chi ha sbagliato, anche per non farlo tornare a delinquere. Anche così si difende la sicurezza: altro che armi a gogò e “buttare via la chiave”…). Ecco, con tutta la solidarietà e la gratitudine sincera che si deve alle Forze di Polizia ( che attendono ancora il contratto, tra l’altro), non bisognerebbe sbagliare bersaglio e magari sarebbe utile rivolgere critiche a chi, usando un alto presidio unificante del Paese, come il Viminale, come set per i suoi tweet in felpa, mina la convivenza civile, erode caposaldi della democrazia e della coesione sociale.
Caso Sea Watch/Io sto con i finanzieri che difendono il nostro Paese. Stefano Paoloni, Segretario Generale Sindacato Autonomo di Polizia (Sap), 7 luglio 2019 2019 su Il Dubbio. Non è mia intenzione entrare nel merito della diatriba politica, né sindacare sulla natura della decisione assunta dalla Gip di Agrigento che ha disposto la scarcerazione della comandante della Sea Watch Carola Rackete. Sulla questione, però, sono doverose alcune riflessioni. Per la Gip di Agrigento, a scriminare la condotta della Rackete sarebbe stato “l’adempimento del dovere”, ai sensi dell’art. 51 del Codice Penale. Dunque, la comandante non sarebbe punibile poiché avrebbe agito adempiendo ad un dovere che, pur non essendo stato imposto dall’Autorità dello Stato, sarebbe stato dettato da uno stato di necessità. Anche la guardia di Finanza a bordo della motovedetta, in quel momento, stava adempiendo un dovere, nel pieno rispetto della legge e senza infrangere regola alcuna. A questo punto dei due comportamenti solo uno può essere legittimo. Dobbiamo pensare che quello illegittimo sia stato quello dei colleghi della Guardia di Finanza? Hanno rischiato la vita per violare la legge? Ma a quale scopo? Se il loro natante si fosse danneggiato o distrutto a questo punto avrebbero dovuto risponderne anche patrimonialmente? Questo è un paese che sembra andare alla rovescia. I tutori della legge delegittimati anche da chi ha responsabilità istituzionali e, chi attenta alla loro vita, “osannato”. Con buona pace della politica la violenza va condannata in quanto tale e non in base al colore di bandiera. Il messaggio che resterà dopo questa vicenda è devastante. Da oggi sarà possibile opporsi alle forze dell’ordine, mettendo a rischio anche la loro incolumità, in nome di una ragione o di uno stato di necessità dimostrabile a posteriori. Nessuno più di coloro che vestono una divisa potrà sentirsi tutelato dal proprio paese e agirà nel timore. Non credo sia questo il modello di sicurezza che il nostro paese desidera. Come troppe volte è già accaduto quando la politica non ha la capacità di affrontare e gestire le varie criticità, il “cerino” resta in mano alle forze dell’ordine. Troppo facile e troppo comodo. Dal primo giorno di giugno ad oggi, abbiamo contiamo 78 feriti in ben 46 episodi di aggressioni alle forze dell’ordine. Una conta interminabile e che potrà solo crescere se si continuerà a delegittimare chi veste una divisa e tutti i giorni serve il nostro paese per consentire una convivenza civile nel rispetto delle leggi. Per questo motivo abbiamo lanciato l’hashtag # IOSTOCONIFINANZIERI. Perché i cittadini in divisa non siano lasciati soli.
Che c’è di vero nell’articolo di Marco Travaglio sulle ong. Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale l'11 luglio 2018. Il 10 luglio sulla prima pagina del Fatto quotidiano il direttore Marco Travaglio ha firmato un editoriale dal titolo “Sotto la maglietta” su una delle questioni più delicate e più strumentalizzate dalla politica italiana degli ultimi anni: l’immigrazione lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Travaglio torna a parlare del ruolo delle ong preoccupato che “decine di amici” del suo giornale abbiano deciso d’indossare una maglietta rossa per aderire all’iniziativa lanciata con lo slogan “Fermare l’emorragia di umanità” dal fondatore di Libera don Luigi Ciotti, dopo la chiusura dei porti alle navi delle ong e la morte di centinaia di persone davanti alla Libia. Travaglio sostiene che ci sia un legame “ormai acclarato” e “rivendicato” tra le ong e i trafficanti libici, ma questa affermazione ha suscitato molto sconcerto in giornalisti ed esperti della materia. “Per interesse personale e professionale avrei bisogno di sapere nel dettaglio ‘acclarato’ da chi e ‘rivendicato’ da chi”, ha chiesto su Twitter il giornalista e conduttore televisivo Diego Bianchi, interpretando i dubbi di molti. La domanda è legittima visto che le numerose indagini che sono state aperte dalle procure siciliane su presunti contatti tra scafisti (e non trafficanti) e navi umanitarie non hanno portato a nessun rinvio a giudizio. Anzi la procura di Palermo ha recentemente archiviato un’indagine su presunte connivenze tra due ong (Sea Watch e Open Arms) e gli scafisti. La notizia è stata riportata anche dal Fatto.
Per il direttore del Fatto l’indagine ha già dimostrato che le ong hanno avuto contatti con i trafficanti. Travaglio ha risposto a Bianchi in un altro editoriale citando come prova “acclarata” alcune intercettazioni che sono state acquisite dalla procura di Trapani nell’ambito di un’indagine contro l’ong tedesca Jugend Rettet. L’indagine, in corso da un anno, non ha ancora portato all’apertura di alcun processo e dunque a nessun dibattimento e a nessuna condanna. Ma per il direttore del Fatto l’indagine ha già dimostrato che le ong hanno avuto contatti con i trafficanti per delle “consegne pattuite” di migranti, come sostenuto dall’accusa. La tesi della procura di Trapani è stata messa in discussione, inoltre, dal gruppo di oceanografia forense Forensic Architecture della Goldsmiths sulla base dei video e degli audio raccolti dall’equipaggio, delle informazioni registrate nel diario di bordo della Iuventa di Jugend Rettet, delle comunicazioni con la centrale operativa della guardia costiera italiana e delle immagini scattate dai giornalisti a bordo della nave tedesca e di altre imbarcazioni impegnate nei soccorsi. Il giornalista Andrea Palladino ripercorre tutti i punti oscuri dell’indagine della procura di Trapani, mossa dalla denuncia di due agenti della sicurezza privata imbarcati sulla nave Vos Hestia di Save the children. Avevamo parlato delle accuse contro la Jugend Rettet qui e dei video di Forensic Architecture qui. Un’altra affermazione fatta da Travaglio è che le navi delle ong siano un incentivo per le partenze di migranti. “Le ong agiscono anche con le migliori intenzioni come pull factor (fattore di attrazione) che rende i viaggi meno costosi e rischiosi”. Ma questa accusa (già rivolta anche alla missione militare del governo italiano Mare nostrum nel 2013) è stata smentita da più di uno studio. Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), aveva spiegato che un’attenta e approfondita analisi dei dati aveva fatto emergere la fallacia di questa suggestiva affermazione: “I dati mostrano che tra il 2015 e oggi le attività delle ong non hanno fatto da pull factor e non sono correlate con l’aumento dei flussi. Che le ong operassero in mare o meno, i flussi non ne erano influenzati”.
Il numero degli arrivi è aumentato prima che le ong lanciassero le loro missioni di soccorso. Un’analisi simile era stata pubblicata nel giugno del 2017 da Lorenzo Pezzani e Charles Heller della Forensic oceanography del Goldsmiths college dell’università di Londra. L’analisi di Heller e Pezzani ha dimostrato che un aumento degli arrivi era già stato registrato nel biennio 2014-2015, quando ancora non c’erano navi delle organizzazioni umanitarie davanti alle coste libiche. Questo elemento è stato in parte riconosciuto dalla stessa Frontex, che nel documento Annual risk analysis 2017 aveva scritto: “Il Mediterraneo centrale è diventato la rotta principale dei migranti africani verso l’Europa e per lungo tempo sarà così”. Secondo Pezzani e Heller, il numero degli arrivi era aumentato prima che le ong lanciassero le loro missioni di soccorso e questo dimostra l’assenza di un nesso di causalità tra i due eventi. Nel 2017, inoltre, sono aumentate del 46 per cento le traversate verso l’Europa dal Marocco, in un tratto di mare che non è pattugliato da navi umanitarie. Le principali cause dell’aumento delle traversate verso l’Europa sarebbero l’aggravarsi del conflitto in Libia e in generale la presenza di forti fattori di spinta (push factor) come conflitti, dittature, cambiamenti climatici, pressione demografica. Infine, quando la missione militare di ricerca e soccorso Mare nostrum è stata interrotta, alla fine del 2014, non si sono fermati gli arrivi, anzi nei primi mesi del 2015 sono aumentati, anche se non c’erano imbarcazioni di soccorso in quel tratto di mare.
I morti e gli sbarchi. “L’equazione ‘più ong, meno morti’ è falsa: è vera invece quella ‘meno sbarchi, meno morti’”, afferma ancora Travaglio nel suo editoriale. La questione in realtà è ben più complicata. Innanzitutto bisognerebbe parlare di partenze e non di sbarchi, nel senso che la mortalità deve essere calcolata in relazione alle persone partite e non a quelle arrivate. Inoltre i dati dell’ultimo mese farebbero pensare il contrario. Nel primo weekend in cui Tripoli ha coordinato i soccorsi in mare e le ong si sono ritirate in seguito alla chiusura dei porti italiani, ci sono stati tre naufragi che hanno portato il numero complessivo dei morti e dei dispersi nel solo mese di giugno a 679. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), il dato in meno di un mese è più che raddoppiato. Matteo Villa ha elaborato i dati dell’Unhcr e dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) sulle morti registrate in relazione alle partenze dalla Libia e ha stabilito che dal 1 giugno la rotta del Mediterraneo è diventata la più pericolosa al mondo: “Muore una persona ogni dieci”. Un dato allarmante che riporta il tasso di mortalità e il numero assoluto dei morti ai livelli di quelli registrati prima della riduzione delle partenze nel luglio del 2017. “Dopo la repentina diminuzione delle partenze dal 16 luglio 2017, il numero assoluto dei morti e dei dispersi si è ridotto, ma ora siamo tornati incredibilmente ai livelli di prima”, afferma Villa. Secondo il ricercatore, questo fattore è legato a tre elementi: “Le ong sono coinvolte sempre di meno nei salvataggi, i mercantili non intervengono perché temono di essere bloccati per giorni in attesa di avere indicazioni sul porto di sbarco (come è successo al cargo danese Maersk) e la guardia costiera libica non ha né i mezzi né la competenza per occuparsi dei salvataggi”.
La distruzione dei barconi. Travaglio inoltre afferma che la presenza delle ong avrebbe indotto i trafficanti a cambiare il tipo di imbarcazioni usate per la traversata: “A parte appunto gli scafisti, che negli ultimi anni, grazie al progressivo avvicinarsi delle navi delle Ong alle acque territoriali libiche, hanno impiegato natanti sempre più pericolanti, proprio perché sicuri di dover percorrere un tratto di mare molto limitato prima della ‘consegna’ sincronizzata (il ‘salvataggio’ è tutt’altra cosa) del carico umano alle imbarcazioni private”. In realtà sappiamo che la tipologia delle imbarcazioni è cambiata in parte in concomitanza del lancio della missione Sophia di EunavforMed che aveva l’obiettivo di distruggere proprio i barconi di legno. Inoltre non è vero come dice Travaglio in un secondo editoriale pubblicato l’11 luglio “che i barconi devono essere distrutti per legge”. Nessuna legge impone alle ong di distruggere i gommoni vuoti. Nonostante questo molti soccorritori dopo aver trasferito al sicuro i migranti avevano l’abitudine di affondarli o distruggerli per evitare che i trafficanti li recuperassero. Il codice di condotta imposto dal governo alle ong nel luglio del 2017 chiedeva alle organizzazioni di recuperare ove possibile le imbarcazioni e i motori e di consegnarle o segnalarle alle navi militari nella zona. Ma il codice di condotta ha un valore pattizio, non è una legge dello stato.
La Libia e il traffico di esseri umani. Infine Travaglio sostiene che “ora in Libia premono per partire chi dice 700mila, chi dice 1 milione di persone”. La giornalista Francesca Mannocchi, esperta di Libia, ha fatto notare che non tutti i migranti che si trovano nel paese in questo momento sono pronti a partire, perché la Libia è anche un paese di destinazione e non solo di transito per i migranti. Inoltre citare delle stime ufficiali dei migranti richiusi nei centri di detenzione non ufficiali gestiti dai trafficanti è rischioso, perché questi luoghi sono inaccessibili alle autorità libiche e internazionali e non conosciamo esattamente quante persone sono nei centri di detenzione. “In Libia l’Oim stima la presenza di 700mila migranti, presenza non significa pronti-a-partire, dato che semplicemente non esiste. Come il direttore Travaglio può facilmente verificare sulle statistiche di Unhcr le persone presenti nei centri di detenzione ufficiali – cioè gestiti dall’ufficio anti immigrazione clandestina del ministero dell’interno libico – sono circa 30mila”, ha scritto Mannocchi su Facebook. Nel suo editoriale infine Travaglio dice che comunque la priorità dovrebbe essere quella della lotta ai trafficanti di esseri umani, che definisce “i veri responsabili”. A questo proposito il giornalista Lorenzo Bagnoli, che è esperto di questi temi e ha scritto molti pezzi proprio per il Fatto, ha contestato il direttore definendo “pietoso che in tutta questa retorica della lotta ai trafficanti non si ricordi mai che l’unico ‘boss’ che si pensa in carcere, Yedahego Medhanie Mered, in realtà sia ancora libero”. Bagnoli ha argomentato dicendo che “non sappiamo ancora niente dei trafficanti. Non sappiamo nemmeno se esiste una ‘cupola’ davvero oppure no. Siamo maledettamente indietro su questa tipologia d’indagini. Il potere dei trafficanti non è come quello delle mafie italiane. Non è così ancestrale, è cambiato con il mutare delle migrazioni. Non c’è l’ideologia dell’anti-stato contro lo stato. Forse bisogna dirselo quando si paragonano le mafie italiane con quelle libiche”. Di questo ha scritto approfonditamente il giornalista Lorenzo Tondo sul Guardian e il giornalista Ben Taub sul New Yorker.
Marco Travaglio: “Sotto la maglietta”. Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano del 10 luglio 2018 – Fra i testimonial in maglietta rossa della campagna lanciata da don Luigi Ciotti, trovo decine di amici che hanno partecipato a tante battaglie del Fatto. E, se hanno aderito all’appello per non dimenticare – come scrive il fondatore del Gruppo Abele e di Libera – “il colore dei vestiti e delle magliette dei bambini che muoiono in mare e che a volte il mare riversa sulle spiagge del Mediterraneo” e “per fermare l’emorragia di umanità”, mi sento solidale con loro. Del resto, il Fatto è stato pressoché l’unico quotidiano a pubblicare in prima pagina fin dal primo giorno la foto choccante dei bambini morti vestiti di rosso. Un’immagine che strideva con le parole disumane e miserabili del cosiddetto ministro Salvini sulla “pacchia” e le “crociere” dei migranti. Se però alcune “magliette rosse” collegano quell’ultimo naufragio alle politiche del governo italiano, avverto un rischio: quello che una bella iniziativa per non dimenticare una tragedia quotidiana che dura da anni diventi non tanto uno strumento di propaganda politica (sempre legittimo), ma un’arma di distrazione di massa dai veri responsabili. Che – se vogliamo provare a ragionare sui fatti, andando oltre le commemorazioni dei defunti e il derby fra tifoserie buoniste e cattiviste – non sono questo o quel governo, ma i trafficanti di esseri umani. Quelli che prelevano i disperati nei villaggi dell’Africa nera e subsahariana, spesso convincendoli a partire con false promesse, li maltrattano durante il viaggio nel deserto, li depredano dei pochi averi o addirittura li costringono a indebitare le proprie famiglie, e gli scafisti che rilevano le carovane in Libia per organizzare le traversate nel Mediterraneo verso l’Italia, dopo avere spogliato i migranti degli ultimi spiccioli. Parliamo di organizzazioni malavitose gigantesche, potentissime, ricchissime e attrezzatissime, che fanno, disfanno e ricattano i governi locali, dispongono di milizie armate e l’anno scorso, in pochi giorni, riuscirono a organizzare un ponte aereo dal Bangladesh alla Libia per traghettare quasi 10mila cittadini bengalesi da Dacca a Tripoli e poi, via mare, alla Sicilia. Sono loro i responsabili del traffico, degli imbarchi e dei naufragi. Anche di quello che ha commosso il mondo per le foto dei tre bambini vestiti di rosso, che una certa disinformatija alimentata da un’Ong sta provando a imputare al governo italiano e/o a quello di Tripoli. Da quel poco che si sa, quella tragedia con i 114 dispersi è avvenuta a 6 km dalla costa, cioè dentro le acque territoriali della Libia, dove le navi delle Ong non sono mai potute entrare. E, se l’han fatto, hanno violato il diritto internazionale (o vogliamo tornare alle colonie e ai protettorati di “Tripoli bel suol d’amore”?). E operato assolutamente fuori dal coordinamento della Guardia costiera italiana, che ovviamente non può sconfinare in acque altrui. Insomma, purtroppo esistono anche le tragedie inevitabili, senza colpevoli. A parte appunto gli scafisti, che negli ultimi anni, grazie al progressivo avvicinarsi delle navi delle Ong alle acque territoriali libiche, hanno impiegato natanti sempre più pericolanti, proprio perché sicuri di dover percorrere un tratto di mare molto limitato prima della “consegna” sincronizzata (il “salvataggio” è tutt’altra cosa) del carico umano alle imbarcazioni private. Così, non mettendo più piede in acque internazionali e tantomeno in quelle italiane, gli scafisti hanno ridotto a quasi zero non solo il rischio di (turpe) impresa, ma anche quello giudiziario: se nessuno li vede, li intercetta, li identifica, è impossibile incriminarli e arrestarli. È ciò che segnala da due anni il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che poi si vede imputare il fallimento delle indagini, come se non fosse stato lui a segnalare al Parlamento il meccanismo infernale che impedisce ai giudici di colpire i trafficanti di esseri umani. Il legame fra alcune Ong e gli scafisti, ormai acclarato e addirittura rivendicato dalle interessate, non è di tipo economico, ma fattuale: le Ong agiscono, anche con le migliori intenzioni, come “pull factor” che rende i viaggi meno costosi e rischiosi, dunque più appetibili e redditizi. E questa non è necessariamente materia penale, perché i reati presuppongono il dolo, cioè l’intenzione di sostenere i trafficanti, che non è il movente delle Ong. Ma, se un fatto non è reato, non vuol dire che non sia vero. Per questo non Matteo Salvini, ma il suo predecessore Marco Minniti impose alle Ong un codice di condotta che alcune firmarono, altre respinsero con orrore, altre ancora accettarono e poi tradirono. E, come per incanto, le partenze diminuirono, e con esse gli affogati. Quello che molte “magliette rosse”, in buona fede ma vittime di cattiva informazione, non capiscono è che nessuno ha delegato in esclusiva ai libici i salvataggi (quelli veri, dai naufragi) in mare, vietandoli a tutti gli altri. Il governo Conte – al netto delle sparate di Salvini, sempre più spesso zittito dai suoi colleghi Moavero, Toninelli e Trenta – sta tentando di delegare ai libici le operazioni nella loro zona Sar (ricerca e soccorso), fermo restando che tutte le navi (Ong incluse) che trovano profughi su barconi li possono e anzi li devono salvare e tutte le navi militari (in missione per l’Ue o per l’Italia) che contrastano i trafficanti salvano pure i migranti nelle acque di rispettiva competenza (dunque non in quelle libiche). La nuova sfida, difficile e faticosa nel campo minato libico, ma un po’ più praticabile dopo il recente accordicchio al Consiglio d’Europa, è aiutare il governo di Tripoli ad affermare e perimetrare la sua sovranità, unica premessa per operazioni efficaci di controllo del mare e dei flussi. Ora in Libia premono per partire chi dice 700 mila, chi dice 1 milione di persone, di cui già sappiamo due cose: solo 1 su 10 avrà diritto di asilo in Europa e le altre 9 dovranno (sulla carta) essere rimpatriate; l’Italia non può accogliere 700mila o un milione di nuovi migranti, e nemmeno un quinto di essi, pena conseguenze sociali e politiche che potrebbero addirittura farci rimpiangere Salvini. Indossare magliette rosse è bellissimo: ma chi governa deve anche tentare di risolvere i problemi, e i teorici dell’“accoglienza-e-basta” non hanno mai proposto una soluzione seria e praticabile. Convinti che sia sufficiente lavarsi la coscienza strillando “porti aperti a tutti” e lavarsi le mani dimenticando quel che accade subito dopo: il destino di quei disperati fra le gabbie dei Cie, le grinfie dei ladroni della solidarietà (finta) che intascano 35 euro a migrante in cambio di pasti da fame, le spire della criminalità più o meno organizzata e le zanne dei nuovi schiavisti tipo Rosarno. Se la storia dei migranti si potesse dividere in un’èra paradisiaca “avanti Salvini” (o Minniti) e in un girone infernale “dopo Salvini” (o Minniti), sarebbe tutto più semplice. Ma i fatti dicono che non è così. Quando le navi delle Ong scorrazzavano nel “Mar West” Mediterraneo e i porti italiani (e solo quelli) erano sempre aperti e tutti, si registrò il triste record di 35mila affogati in 15 anni. I morti cominciarono a calare, e di parecchio, quando Minniti smise di ululare all’egoismo dell’Europa e si rimboccò le maniche: impose quelle regole alle Ong e provò a stabilizzare la Libia, aiutando Tripoli a riaffermare uno straccio di sovranità sul suo territorio e le sue acque. Il governo Conte prosegue su quella strada, vedi la missione di Moavero a Tripoli per rinnovare un patto che era vergognoso col tiranno Gheddafi, ma potrebbe essere proficuo col governo al-Sarraj. L’equazione “più Ong, meno morti” è falsa: è vera invece quella “meno sbarchi, meno morti”. E questa passa da due strettoie obbligate. 1) Un ruolo più attivo e autonomo delle autorità libiche, per terra e per mare, con l’aiuto di Italia e Ue e una stretta vigilanza sui campi profughi spesso ridotti a lager. 2) Una campagna di controinformazione nei paesi di partenza sui rischi che i migranti corrono nell’attuale situazione: come ha scritto Antonio Padellaro, “informiamoli a casa loro” contro le false promesse dei trafficanti. Sarà meno affascinante e consolatorio che indossare una maglietta rossa, ma potrebbe essere persino più utile.
· Una scarica elettrica per renderci pro accoglienza.
Una scarica elettrica per renderci pro accoglienza. Michael Sfaradi il 26 agosto 2019 su Nicola Porro.it. L’Aktion T4 è il nome convenzionale con cui gli storici chiamano il Programma nazista di eutanasia che, sotto responsabilità medica, prevedeva nella Germania hitleriana la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili e da portatori di handicap mentali. Cioè delle cosiddette “vite indegne di essere vissute”. La ricerca dell’uomo perfetto è sempre stata la prerogativa di tutte le dittature, di destra o di sinistra, atte a perseguire l’eliminazione di chi, secondo il regime, era un peso per la nazione. Modus operandi tipico del regime nazista o fascista, oppure di quelli comunisti con i Laogai, i famigerati campi di rieducazione cinesi, o con i Gulag sovietici. Metodi diversi per raggiungere lo stesso fine. Vi chiederete perché alla fine estate del 2019 stia scrivendo di cose che dovrebbero essere relegate nel capitolo degli orrori di tutti i libri di storia, la risposta è semplice: troppi sono i segnali che qualcosa si stia nuovamente muovendo, anche se con mezzi moderni ed estremamente tecnologici, verso lo stesso fine. Cioè creare l’uomo perfetto che pensi in maniera corretta secondo degli standard condivisi da chi ne sa di più. Sui mezzi di comunicazione, giornali o televisioni, ma anche durante seminari di giornalismo e comunicazione, ho sentito più volte ripetere che in futuro bisognerebbe dare la possibilità di votare solamente a coloro che hanno una certa cultura o titolo di studio, perché i più ignoranti non hanno, secondo alcune “menti eccelse”, una visione di insieme di come si governa il mondo. Ho sentito anche dire, soprattutto dopo il referendum britannico per la Brexit, che le persone anziane, quelle che in maggioranza si sono espressi per staccare la Gran Bretagna dalla palude europea, non dovevano votare perché non avrebbero avuto tanto futuro da vivere, mettendo fine, di fatto, non solo alla democrazia ma anche alla divina provvidenza. Alcuni mesi fa il quotidiano La Verità di Maurizio Belpietro ha dedicato un articolo a Gilberto Corbellini, dirigente del C.N.R. che in un proprio articolo pubblicato da Wired aveva proposto l’uso della ossitocina (si tratta di un ormone) per rendere gli italiani più inclini all’accoglienza e meno salviniani. Inutile dire che insulti e derisioni hanno subissato la redazione del giornale che però, non aveva poi sbagliato tanto visto che il 16 agosto, con gli italiani in ferie occupati solo a riposarsi, l’Huffingtonpost ha ospitato un articolo blog di Maddalena Marini, ricercatrice dell’Istituto Italiano di Tecnologia intitolato: “La stimolazione cerebrale non invasiva contro pregiudizi e stereotipi sociali”. La dottoressa Marini nel suo articolo ci dice: “Nel corso degli ultimi decenni, la globalizzazione ha portato a un’intensificazione degli scambi internazionali nella nostra società, favorendo su una scala senza precedenti il crescere dell’economia mondiale e la coesistenza di differenti gruppi socioculturali. Tale processo, però, oltre ad avere certamente aspetti positivi molto rilevanti per l’evoluzione della società moderna come il superamento dei confini spazio-temporali, la velocità e la circolazione delle comunicazioni, e l’arricchimento culturale, ha portato a ripercussioni e scontri a livello sociale dovuti allo scambio culturale tra civiltà e culture molto diverse tra di loro. Infatti, nonostante la nostra società sia ora popolata da individui appartenenti a diverse culture, la nostra mente riflette ancora le tracce di un’eredità evoluzionistica dove gli esseri umani vivevano in piccoli gruppi composti da individui con caratteristiche genetiche e sociali simili tra loro, portandoci tuttora a preferire le persone che sono socialmente e culturalmente “simili a noi” rispetto a quelle che “differiscono da noi”. A conferma di ciò, la ricerca scientifica ha mostrato che la nostra mente contiene stereotipi e pregiudizi che sono legati alle diverse caratteristiche sociali degli individui, quali ad esempio l’etnia, il colore della pelle, il peso, il genere, l’età, l’orientamento sessuale, politico o religioso, la disabilità e la malattia fisica o mentale”. Diciamo che questa premessa è abbastanza riduttiva della realtà, ma il problema riguarda principalmente l’idea che questa dottoressa vorrebbe realizzare, e qui c’è di che far gelare i polsi: “L’idea che sto portando avanti con la mia ricerca presso l’Istituto Italiano di Tecnologia è che questi stereotipi siano così instillati nella nostra mente che l’unico modo per cambiarli sia modificare i meccanismi biologici del cervello responsabili della generazione e controllo di tali stereotipi. In particolare, i miei studi sono volti all’utilizzo di una procedura, chiamata stimolazione cerebrale non invasiva: tecnica appartenente al campo scientifico delle neuroscienze. Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva sono delle procedure considerate sicure che permettono, inducendo delle piccole correnti elettriche o magnetiche, di modulare i meccanismi attraverso i quali il cervello regola il nostro comportamento”. In tutta sostanza la dottoressa Marini vorrebbe indurci a cambiare il nostro comportamento usando stimolazioni cerebrali eseguite con delle procedure non invasive e, secondo lei, sicure. Si tratterebbe soltanto di piccole scariche elettriche o magnetiche a cui il popolo bue dovrebbe sottoporsi per smettere rapidamente di essere razzista, antisemita, islamofobo o altro ancora. Una scarica elettrica e il mondo sarà tutto rose e fiori, peace and love. Ma non è tutto perché nel suo pezzo la dottoressa Marini ci dice anche che: “Per far fronte a questo problema, i ricercatori negli ultimi 20 anni hanno cercato di creare degli interventi che siano in grado di modificare tali stereotipi e pregiudizi. Per esempio, è stato scoperto che è possibile ridurre il pregiudizio etnico/razziale, fornendo delle informazioni che vanno contro lo stesso pregiudizio, come per esempio presentare uno scenario relativo a un’aggressione, in cui un uomo bianco interpreta il ruolo dell’aggressore e un uomo di colore interpreta il ruolo del soccorritore. Questi interventi però, nonostante si siano mostrati efficaci hanno prodotto solo risultati limitati, soprattutto, in termini temporali. I loro effetti infatti non sono più presenti dopo qualche ora o giorno”.
Praticamente ci sta confermando che i problemi di oggi hanno radici lontane e che sono più di venti anni che si porta avanti una sorta di lavaggio del cervello di massa sui media di ogni tipo, per arrivare a un risultato che sarebbe invece più logico ottenere combattendo l’ignoranza con una sana istruzione. Ma non è ancora tutto visto che la dottoressa continua dicendoci che: “Studi che hanno iniziato a utilizzare queste tecniche nel campo degli stereotipi hanno permesso di definire una rete di regioni cerebrali causalmente coinvolte in questi processi e di dimostrare che aumentando o diminuendo l’attività di alcune di queste aree è possibile ridurre la forza degli stereotipi inconsci, come quello di genere in ambito scientifico e del pregiudizio che porta ad associare atti di terrorismo all’essere di origine araba rispetto al non esserlo. L’uguaglianza è un diritto fondamentale di ogni cittadino e un dovere della nostra società. Le pari opportunità non rappresentano solamente una caratteristica indispensabile per una società democratica, ma anche un fondamento cruciale per l’innovazione, l’economia e il benessere generale di una nazione”. Bene ha fatto Riccardo Torrescura il 20 agosto scorso sempre sul quotidiano La Verità a denunciare il tentativo di tornare al peggiore dei passati possibili, denunciare come voglio fare anche io con questo mio articolo, una ricerca che vorrebbe raggiungere una tecnologia che in mano a pochi potrebbe far sì che la popolazione umana, in un prossimo futuro, possa essere comandata tramite chip e scariche elettriche come in un pessimo film di fantascienza. Per non permettere che nel giro di un numero di anni queste persone possano decidere per noi ciò che noi stessi vogliamo essere, perché se si può cambiare in meglio lo si può fare anche in peggio, in un metodo che ricorda molto ciò che risulta dalle notizie che filtrano sull’indagine dei bambini di Bibbiano: scariche elettriche per immettere nella memoria ricordi di cose mai accadute. È impossibile al momento quantificare in quanto tempo queste folli ricerche possano avere applicazione pratica, ma vista la velocità con la quale la tecnologia si evolve quel momento potrebbe essere dietro l’angolo e per questo dico che tutto ciò deve essere fermato e deve essere fatto subito, con ogni mezzo, senza perdere tempo, prima che sia troppo tardi. Michael Sfaradi, 26 agosto 2019
· Jerry Masslo, 30 anni fa la morte del primo bracciante d’Italia.
Jerry Masslo, 30 anni fa la morte del primo bracciante d’Italia. Il suo omicidio commosse l’Italia e spinse il governo a emanare i primi provvedimenti per i migranti. Pubblicato sabato, 24 agosto 2019 da Fausta Chiesa su Corriere.it. Esattamente 30 anni fa moriva ucciso nella baracca dove abitava Jerry Essan Masslo, il profugo sudafricano arrivato in Italia per fuggire alla violenza dell’Apartheid che fu ucciso per rapina nel casertano, dove si trovava per la raccolta dei pomodori. La sua morte allora non passò nell’indifferenza generale, anzi. Commosse l’Italia e diede il via alle prime grandi manifestazioni antirazziste nazionali e all’approvazione di leggi sulla protezione dei rifugiati e al riconoscimento e alla tutela dei diritti dei lavoratori stranieri. La Comunità di Sant’Egidio che lo accolse a Roma ha invitto a ricordare degnamente Masslo. Oggi, sabato 24 agosto alle 17, al cimitero di Villa Literno è in programma un omaggio alla sua tomba. Jerry Masslo era fuggito dal Sudafrica lasciando due figli vivi dopo che gli avevano ucciso il padre e un figlio di 7 anni. Arrivato a Fiumicino il 20 marzo 1988 chiede asilo, ma in quel periodo l’Italia riconosce lo status di rifugiato solo a chi arriva dall’Europa dell’Est. Jerry chiede aiuto ad Amnesty International e dopo quattro settimane passate in aeroporto ottiene il permesso di entrare in Italia. Amnesty International contatta la Comunità di Sant’Egidio e Jerry è accolto nella Tenda di Abramo, la prima casa di accoglienza della Comunità a Roma. Jerry vuole lavorare e con altri quattro compagni va nl casertano e alloggia in una baracca. Ogni mattina all’alba è nella «rotonda degli schiavi» ad aspettare la chiamata. La notte tra il 24 e il 25 agosto arrivano in quattro con lo scooter per rubare ai neri i soldi della misera paga. Jerry e i suoi amici sono aggrediti da alcuni giovani del luogo che volevano rubargli i soldi. Jerry si oppone e gli sparano: avrebbe dovuto compiere 30 anni in dicembre. La sua morte sconvolge l’Italia. Per la prima volta i funerali di un nero sono trasmessi dalla Rai: alle esequie è presente anche il vicepresidente del Consiglio dei ministri Claudio Martelli e altre autorità. «Grazie» alla morte di Jerry Masslo nacque la legge Martelli, che eliminò la clausola geografica: da quel momento in Italia si poté chiedere asilo provenendo da qualsiasi Paese del mondo. Allo stesso tempo si regolarizzarono i lavoratori stranieri presenti, da cui emersero dalla clandestinità circa 220mila immigrati, quasi tutti africani. In suo nome nacquero in Italia e soprattutto in Campania varie associazioni.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Stalin e l’ebraismo: il grande eccidio.
Carlo Angela. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Carlo Angela (Olcenengo, 9 gennaio 1875 – Torino, 3 giugno 1949) è stato un medico, politico e antifascista italiano. Il 29 agosto 2001 gli fu conferita da Yad Vashem l'onorificenza di Giusti tra le nazioni per aver aiutato, a rischio della propria vita, molti ebrei durante la Shoah. Figlio di Pietro, Carlo Angela si laureò in medicina nel 1899 all'Università di Torino. A Parigi frequentò i corsi di neuropsichiatria di Babinski. Durante la Grande Guerra fu ufficiale medico della Croce Rossa Italiana presso l'Ospedale Territoriale "Vittorio Emanuele III" di Torino. Entrò in politica dopo la prima guerra mondiale, aderendo al movimento Democrazia Sociale, un movimento politico nato dalle ceneri del Partito Radicale Italiano. All'interno del partito vi erano molte contraddizioni: insieme con parlamentari di sinistra ve n'erano altri che divennero ministri nel primo governo Mussolini, formato dopo la marcia su Roma. Angela abbandonò allora il partito e si alleò con i socialisti riformisti di Ivanoe Bonomi, con i quali si presentò alle elezioni del 6 aprile 1924, senza essere eletto. Dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti, nel giugno del 1924, Carlo Angela accusò esplicitamente i fascisti sul settimanale Tempi Nuovi «per il nefando delitto che ha macchiato indelebilmente l'onore nazionale». Dopo alcuni anni passati come medico condotto del piccolo paese di Bognanco, nell'Ossolano, durante il periodo della dittatura fascista Angela rinunciò ad incarichi politici e si trasferì a San Maurizio Canavese, con l'incarico di direttore sanitario della casa di cura per malattie mentali "Villa Turina Amione". Fu qui che durante l'occupazione tedesca e la Repubblica Sociale Italiana Carlo offrì rifugio a numerosi antifascisti ed ebrei, falsificando le cartelle cliniche per giustificarne il ricovero. Nella sua opera di soccorso agli ebrei Angela fu aiutato dal suo vice Brun, da madre Tecla e dagli infermieri Fiore De Stefanis, Carlo e Sante Simionato. Sospettato dalla polizia fascista, Angela fu convocato e interrogato a Torino e rischiò anche la fucilazione durante una rappresaglia. Durante la Liberazione, Carlo Angela fu nominato sindaco di San Maurizio Canavese. In seguito si presentò alle prime elezioni democratiche dopo oltre vent'anni, nella stessa lista di Norberto Bobbio, Massimo Mila e Ada Gobetti Marchesini, quella del Partito d'Azione, in cui militò dopo aver fatto parte di Giustizia e libertà. Divenne anche presidente dell'ospedale Molinette di Torino. È il padre del giornalista televisivo e scrittore Piero Angela e nonno del divulgatore Alberto Angela.
L'onorificenza di "Giusti tra le nazioni". Le condizioni indispensabili per riconoscere un «giusto» sono tre: aver salvato ebrei, averli salvati sotto la minaccia di un grave pericolo per la propria vita, non aver mai percepito alcun compenso. Le azioni compiute da Angela rimasero sconosciute per oltre mezzo secolo, a causa della discrezione della sua famiglia, e vennero alla luce soltanto nel 1995, quando Anna Segre decise di pubblicare il diario del padre Renzo, scritto durante il periodo in cui era scampato ai campi di sterminio, con la moglie Nella, nella clinica "Villa Turina Amione". Sulla base delle prove e delle testimonianze raccolte e che gli sono state presentate, il 29 agosto 2001 una commissione israeliana ha conferito al professor Angela l'onorificenza di Giusti tra le nazioni inserendo il suo nome nel Giardino dei giusti di Yad Vashem di Gerusalemme: la cerimonia è avvenuta a San Maurizio Canavese il 25 aprile 2002. Il consigliere dell'ambasciata d'Israele a Roma Tibor Schlosser, a nome di tutta la comunità ebraica mondiale, ha consegnato il riconoscimento a Sandra e Piero, i figli di Carlo Angela. Dal 3 giugno 2000, una strada porta il nome di Carlo Angela a San Maurizio Canavese e una targa è stata apposta all'ingresso della clinica di fronte al Palazzo Comunale. Dal maggio 2017 gli è stata inoltre dedicata la scuola elementare di Ceretta, una fazione di San Maurizio.
Il Partito Comunista contro Alberto Angela: "Sull'Urss e la Shoah dice il falso". L'attacco via Twitter dopo la puntata di "Ulisse" di sabato scorso: "L'Urss non deportò mai propri cittadini ebrei verso la Germania nazista", scrive Ivan Francese, Mercoledì 17/10/2018, su Il Giornale. Fra tanti elogi dopo la puntata di "Ulisse" sul 75esimo anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma e sulla Shoah, per Alberto Angela arriva anche qualche critica. Isolata ma durissima. A mettere nel mirino il famoso giornalista e divulgatore scientifico è il Partito Comunista di Marco Rizzo, irriducibile bolscevico. A scatenare le ire dei comunisti un passaggio dedicato da Angela alle presunte deportazioni di ebrei russi verso la Germania nazista con la complicità delle autorità sovietiche. "Nel caso della Russia di Stalin, prima della guerra furono i russi a consegnare ai nazisti migliaia e migliaia di ebrei in omaggio al patto Molotov-Ribbentropp", ha spiegato il giornalista durante la puntata di sabato. Piccata la replica del partito di Rizzo, pubblicata a stretto giro sui social network. “Nella scorsa puntata di Ulisse si afferma che l’URSS consegnò ebrei ai tedeschi. FALSO. L’URRS fu rifugio per migliaia di ebrei e liberò gran parte dei campi di concentramento nazisti. Basta equiparazioni e falsificazioni storiche anticomuniste”, si legge in un tweet del Partito Comunista. Che poi su Facebook rincara la dose: "La discriminazione razziale in Unione Sovietica non è mai esistita, basti ricordare che una parte rilevante dei dirigenti bolscevichi erano di origine ebraica, anche tra i più stretti collaboratori di Stalin." Per il momento, però, non si ha ancora notizia di alcuna replica da parte di Angela.
Da Dagospia 18 ottobre 2018:
Duccio Trombadori su Facebook: "Alberto Angela, con la sua faccia di cazzo, si è permesso di infamare il popolo russo e l'Armata Rossa di concorso in genocidio degli ebrei. È un mascalzone in libertà. Deve essere messo in condizione di non nuocere. E così sarà."
La redazione di TPI: Duro attacco ad Alberto Angela da parte del Partito Comunista di Marco Rizzo. Il celebre conduttore televisivo, nella scorsa puntata della trasmissione Ulisse, si è occupato tra le altre cose delle presunte deportazioni di ebrei russi in Germania durante la seconda guerra mondiale. Angela ha sostenuto che l’Unione Sovietica consegnò i propri cittadini ebrei ai nazisti. Per il Partito Comunista si tratta di una falsificazione storica bella e buona. Questo il tweet: “Nella scorsa puntata di Ulisse si afferma che l’URSS consegnò ebrei ai tedeschi. FALSO. L’URRS u rifugio per migliaia di ebrei e liberò gran parte dei campi di concentramento nazisti. Basta equiparazioni e falsificazioni storiche anticomuniste”. Sulla puntata si era espresso, in questo caso favorevolmente, anche Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, in riferimento al 75esimo anniversario della deportazione degli ebrei dalla capitale. “Una delle cose che più ho apprezzato è il grande coraggio di Alberto Angela e degli autori della trasmissione di realizzare un prodotto di questo tipo per la prima serata del sabato sera”, le sue parole riportate da La Repubblica. “Parlare di memoria e far comprendere quanto è accaduto è un esercizio difficile i cui risultati sono però visibili per chi guarda la puntata”. “Dobbiamo parlare di queste cose – aveva sottolineato Angela prima della puntata – perché non vengano dimenticate. Dalla ex Yugoslavia al Ruanda i genocidi hanno continuato a esistere. Chi si occupa di Storia sa che con il passare delle generazioni i fatti si stemperano ma non deve succedere. Quel che è accaduto ai tempi dei nostri nonni, non lontanissimi, può accadere di nuovo. Ricordare è un vaccino, significa creare anticorpi affinché non accada mai più”.
Le difficoltà di riassumere la storia senza esser imprecisi e presi (bipartisan) per la collotta, scrive il 19 ottobre 2018 Luca Grisolini su Casentinopiu. Alberto Angela non ha sproloquiato, o per lo meno non lo ha fatto del tutto, quando sabato sera, davanti a 3,5 milioni di spettatori, ha affermato: «Nel caso della Russia di Stalin prima dello scoppio della guerra erano proprio i russi a consegnare ai tedeschi, ai nazisti, migliaia e migliaia di ebrei in omaggio a un accordo, che la Germania e la Russia avevano fatto, l’accordo Molotov-Ribbentrop che aveva stabilito una specie di pace tra le due nazioni». In effetti è documentato che in seguito agli accordi del Patto Molotov-Ribbentrop ci fu effettivamente una ri-consegna a Hitler di prigionieri tedeschi “ospitati” nei gulag, principalmente ebrei e comunisti teutonici. Da dove nasca il “migliaia e migliaia” non lo so, ma una cosa è certa. Esiste una fonte altamente accreditata che dimostra come per lo meno alcune centinaia di ebrei furono consegnati, unitamente ad altri comunisti “pericolosi oppressori” già incarcerati, dall’NKVD alla Gestapo. Questa fonte si chiama Margarete Bauber Neumann, ex deputata del Partito Comunista Tedesco riparata in URSS nel 1935 a Mosca insieme al secondo marito Heinz Neumann, membro del buro del KPD e collaboratore del Comintern fatto sopprimere nel 1937 da Stalin. E’ questa donna a raccontare l’epopea propria e di altri ex ospiti dell’Hotel Lux di Mosca, tutti comunisti espatriati ben presto diventati temuti da Stalin e dunque imprigionati, come lei, nei gulag quali “soggetti socialmente pericolosi”. Nel 1940, unitamente ad un altro migliaio di persone tra comunisti e ebrei di origini tedesca, fu consegnata a Brest Litovsk ai tedeschi, che la imprigionarono per cinque anni a Revensbruck. Racconterà questa esperienza in un libro dal titolo emblematico uscito nel 1948: “Prigioniera di Stalin e Hitler”. Ora, che l’URSS avesse, in questi anni, una doppia faccia sulla questione ebraica è di fatto tangibile. Basti pensare al ruolo avuto dagli ebrei nella rivoluzione russa e nella costruzione della macchina dei gulag. Genrikh Yagoda, primo fondatore dell’NKVD era ebreo, così come lo erano, nel 1934, circa il 35% degli alti funzionari degli apparati di sicurezza dell’Unione Sovietica. Molti dei quali successivamente eliminati quali personaggi scomodi dalle purghe staliniani, non certo come ebrei. Eppure la lotta antisionista legata a ragioni economiche fu portata avanti sin dal 1918 con la creazione di uffici appositi (come la Yevsktsii) che fagocitassero dentro il partito le istituzioni ebraiche e alimentassero popolarmente l’odio contro gli ebrei interni quali detentori di privilegi al pari dei kulaki. Lotte portate avanti in nome di ateismo e collettivizzazione: si pensi che durante la NEP oltre 1 milione di ebrei furono costretti a chiudere le proprie attività, sostenuti da una campagna mediatica che riprendeva i temi classici dell”ebreo ricco e manipolatore”. Motivazioni economiche e diplomatiche, prima che razziali: le stesse che portarono Stalin, nel 1941, a lanciare un’appello “ai nostri fratelli ebrei di tutto il mondo”. Due anni dopo aver pragmaticamente espulso, quale regalo a Hitler (non richiesto) gli ebrei dall’esercito, dall’insegnamento e dalla carriera diplomatica. Non è un caso se proprio nelle zone di occupazione tedesca sorsero le prime brigate partigiane ebraiche, autonome nell’azione, mal tollerate dalla popolazione locale (ricordiamoci che il popolo russo è pur sempre figlio dei pogrom) e slegate rispetto all’Armata Rossa. Fu allora il regime staliniano un regime antisemita? Mancano ancora troppi dati per dirlo con sicurezza e una certa omertà impedisce di acclarare ulteriori dettagli. Di certo fu un regime double face, capace di servirsi e buttar via, come aveva fatto con tanti altri figli della rivoluzione russa e delle sue idee, essere umani in base a pragmatiche questioni di comodo. Detto questo: sicuramente non ci furono le responsabilità di genocidio simili per numeri e cause a quelle della Germania. Ma sicuramente, come ci racconta Margherete Bauber Neumann (non una revisionista, non una sionista ma una comunista e una testimone) ci furono ebrei tedeschi riconsegnati alla Germania in nome di logiche diplomatiche, nonostante fosse palese la sorte alla quale si affidavano. Furono mille, migliaia? Furono solo tedeschi o anche polacchi, in seguito alla spartizione del 1939? E gli ebrei deportati da Brest Litovsk insieme alla Bauber Neumann, furono consegnati come regalo in nome di un comune odio antisemita o forse perché, come tanti altri, oltre ad essere giudei erano anche comunisti oramai divenuti scomodi? Mi piacerebbe che Alberto Angela indicasse fonti più precise, come certo saprebbe fare, per giustizia e per cercare davvero di cambiare questo modo di far storia. Un modo fatto di revisionismi e falsificazioni cinematografiche e televisive, come quelle che omettono il ruolo decisivo dell’Armata Rossa (ben più impattante rispetto a quello dell’esercito angloamericano) nella liberazione dei campi di sterminio nazisti, peraltro realtà conosciute dagli americani già dal dicembre 1942 senza reagire in alcun modo. Ma un mondo fatto anche di negazioni dell’evidenza, come quello di Rizzo e dall’attuale Partito Comunista che invece di affrontare la realtà e anzi voler essi stessa scoprirla, ancora si trincerano verso logiche astoriche e difensive prive di senso e altamente autolesioniste. Mi scuso per la lungaggine, ma la storia e il suo studio purtroppo non si possono esaurire a un programma del sabato sera.
Stalin e l’ebraismo: il grande eccidio, scrive Gabriele Rèpaci il 23/10/2018 su dasandere.it. A fianco ai numerosi elogi per la puntata di “Ulisse – Il piacere della scoperta”, il programma diretto da Alberto Angela, dedicata al 75esimo anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma e sulla Shoah, al conduttore è giunta anche qualche critica. Nel corso della trasmissione è stato affermato che «nel caso della Russia di Stalin, prima della guerra furono i russi a consegnare ai nazisti migliaia e migliaia di ebrei in omaggio al patto Molotov-Ribbentropp». Subito pronta è stata la replica di Marco Rizzo segretario del Partito Comunista che dalla sua pagina facebook ha puntualmente ribattuto: «La discriminazione razziale in Unione Sovietica non è mai esistita, basti ricordare che una parte rilevante dei dirigenti bolscevichi erano di origine ebraica, anche tra i più stretti collaboratori di Stalin». Purtroppo i dati storici contraddicono le affermazioni di Rizzo. La perdita della prospettiva internazionalista e la conseguente “nazionalizzazione” del bolscevismo sotto Stalin, ha fatto riemergere in Unione Sovietica alcuni dei tratti più deteriori dello sciovinismo grande-russo come l’antisemitismo. Al centro dello scatto Iosif Vissarionovič Džugašvili (1878 – 1953) è stato un rivoluzionario, politico e militare sovietico. Conosciuto anche come Iosif Stalin, fu segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e, in tale ruolo, assumendo sempre più potere, a partire dal 1924, instaurò progressivamente una dittatura nel proprio Paese (l’Unione Sovietica), fino alla morte, avvenuta nel 1953. Di ritorno dall’Unione Sovietica, dove aveva condotto un’inchiesta sulla demografia ebraica, lo scrittore Joël Cang valutava che gli ebrei viventi nelle quindici repubbliche dell’URSS ammontassero, nel 1959, a una cifra pari a quella dell’anteguerra, vale a dire ad una cifra che si attestava sui tre milioni e mezzo: più del doppio della popolazione d’Israele. Il censimento del 1939 aveva stabilito una minoranza ebraica di 3.100.000 su una popolazione totale di circa 200 milioni. A questa cifra (che evidentemente non comprendeva i 300.000 ebrei assimilati o che tali si consideravano) bisogna aggiungere i due milioni di ebrei che vivevano sui territori annessi della Polonia orientale, dei tre paesi baltici, della Bucovina e della Bessarabia. Il censimento del 1959 parla di 2.268.000 ebrei, dei quali il 20,8% ha dichiarato che lo yiddish era la propria lingua materna. Numero degli ebrei per repubblica: 875.000 nella Repubblica Federativa Russa, 840.000 in Ucraina, 15.000 in Bielorussia, 94.000 in Uzbekistan, 52.000 in Georgia, 25.000 in Lituania, 95.000 in Moldavia (Bessarabia), 37.000 in Lettonia, 5.000 in Estonia. Il censimento non indica il numero degli ebrei nelle repubbliche del Kazakhstan, Azerbaigian, Kirghisistan, Tagikistan, Armenia, Turkmenistan, per il motivo che il numero degli ebrei in queste repubbliche non raggiungeva la soglia minima perché la minoranza sia menzionata. La maggior parte degli ebrei sovietici era concentrata nelle grandi città. Così, secondo Cang, circa 700.000 ebrei vivevano a Mosca, 300.000 a Leningrado, 250.000 a Kiev, 250.000 a Odessa, 70-80.000 a Dnepropetrovsk e a Cernovits; 40-50.000 in ciascuna delle seguenti città: Minsk, Bobrojsk, Riga, Vilna, Kishinev, Lvov e Alma Ata. Per quanto riguarda le attività lavorative degli ebrei dell’Unione Sovietica, nel 1939 il 70% avrebbe lavorato come operai o impiegati nelle aziende dello Stato; il 20% erano artigiani (specialmente sarti), il 6% agricoltori (220.000 famiglie che coltivavano, soprattutto in Crimea e nel Birobidžan, 1.500.000 acri di terra). Dopo il 1939 le colonie agricole ebraiche sono scomparse e, nell’insieme, il numero degli ebrei che esercitano un lavoro manuale è diminuito in favore di quelli che esercitano un lavoro non manuale. Così si ebbero 30.000 scienziati ebrei, 2.000 architetti, numerosi musicisti (un quarto dei musicisti dell’orchestra del Bol’šoj), artisti cinematografici e tecnici dell’industria chimica. Durante il Grande Terrore (1936-1938), tra i dieci milioni di vittime delle purghe, fu eliminato circa mezzo milione di ebrei. Tra i più rilevanti, fu ucciso Lev Borisovic Kamenev (1883 – 1936), uno dei cinque massimi dirigenti bolscevichi, cognato di Lev Trockij (1879 – 1940), che dopo la morte di Lenin aveva fatto parte con Stalin della trojka al governo. Assieme a lui, dopo un grande processo pubblico, fu giustiziato l’ex capo del Comintern Grigorij Evseevic Zinov’ev (1883 – 1936), il cui vero cognome era Radomyl’skij, anche lui ex membro della trojka. Nikolaj Ivanovic Bucharin (1888 – 1938), il “beniamino di tutto il Partito” leninista, che aveva appoggiato Stalin contro Zinov’ev e Kamenev, come già lo aveva appoggiato contro Trockij, per ironia della sorte fu accusato di trotzkismo e giustiziato nel 1938. Questa operazione continuò anche negli anni Quaranta: «un’intera generazione di sionisti ha trovato la morte nelle prigioni sovietiche, nei campi, in esilio», ha scritto il dottor Julius Margolin (1900 – 1971), che venne detenuto in vari campi di concentramento nella regione del Baltico e del Mar Bianco dal 1940 in poi. Margolin ha anche detto che nel mondo esterno nessuno, nemmeno i sionisti, hanno fatto alcunché per salvarli. Il fatto che gli ebrei epurati fossero così numerosi non passò inosservato nell’Unione Sovietica. Un vecchio ufficiale zarista avrebbe detto al suo compagno di cella: «finalmente i sogni del nostro amato Nicola II, che egli era personalmente troppo debole per tradurre in realtà, si sono realizzati. Le prigioni sono piene di ebrei e bolscevichi».
Un anno prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, il direttore dei campi di concentramento sovietici, Genrich Jagoda (1891 – 1938), venne giustiziato assieme a Nikolaj Ivanovic Bucharin, a Alexei Ivanovich Rykov (1881 -1938), a Lev Grigor’evic Levin (1870 – 1938) e agli altri imputati degli ultimi processi pubblici della purga. Erano quasi tutti ebrei. A Jagoda succedette Nikolai Ivanovich Yezhov (1895 – 1940), che gestì il terrore per quattro anni.
A Ezhov succedette Lavrentij Pavlovic Berija (1899 – 1953). Quando Berija assunse l’incarico di capo della polizia segreta, che contava un milione e mezzo di agenti, erano ormai pochi gli ebrei di rilievo che rimanevano nelle gerarchie del partito, delle forze armate e degli organi di sicurezza. Tra costoro, Berija ebbe il compito di liquidare Béla Kun (1886 – 1938), il capo della rivoluzione comunista ungherese del 1919. Il magiaro, che era in prigione dal 1937, fu ucciso il 30 novembre 1939. Stalin epurò anche tutti i capi delle sezioni ebraiche che si erano adoperati sotto la sua direzione per cancellare la vita ebraica organizzata. Quasi tutte le istituzioni culturali ebraiche che rimanevano in vita – comprese 750 scuole in cui si insegnava in yiddish – furono chiuse tra il 1934 e il 1939. Il principale strumento di Stalin in tale operazione fu Samuel Agurskij, già anarchico e membro del Bund ebraico, che aveva diretto la prima campagna di Stalin contro le organizzazioni politiche, religiose e culturali ebraiche. Costui venne gettato in una cella e accusato di far parte della «clandestinità ebraica fascista», alcuni membri della quale, come Moishe Litvakov (1875 – 1938) e Esther Fromkin, furono giustiziati. Il 3 maggio 1939 Stalin licenziò improvvisamente il ministro degli esteri Maksim Litvinov (1876 – 1951), un ebreo che aveva ricoperto questa carica per dieci anni, e lo sostituì con Vjačeslav Michajlovič Molotov (1890 – 1986), che firmò di lì a poco il patto di non aggressione tra l’URSS e il Terzo Reich. Subito dopo, a Brest Litovsk (1918), Stalin fece consegnare alla Germania circa seicento membri del partito comunista tedesco, per lo più ebrei. Uno di costoro era Hans David, il compositore di “musica degenerata” (Entartete Musik in tedesco). Dal settembre 1939 al luglio successivo, in seguito alle annessioni sovietiche, due milioni di ebrei dei tre stati baltici, della Polonia orientale, della Bessarabia e della Bucovina passarono sotto l’URSS. I dirigenti delle società ebraiche attive presso queste comunità furono mandati in Siberia; tutte le organizzazioni e le istituzioni sioniste furono chiuse. Nella zona polacca occupata dai Sovietici, a partire dal febbraio 1940 l’NKVD di Berija arrestò e deportò circa mezzo milione di ebrei. Molti morirono durante il viaggio per la Siberia. Arthur Koestler (1905 – 1983) avrebbe definito questa azione di Stalin e Berija «deportazioni in massa su una scala finora non riscontrata nella storia, [deportazioni che] furono i principali metodi amministrativi di sovietizzazione». Julius Margolin, che si trovava a Leopoli nell’Ucraina occidentale, riferisce che nella primavera del 1940 «gli ebrei preferivano il ghetto tedesco all’uguaglianza sovietica». Le liste di Berija erano divise in varie categorie, una delle quali era la “controrivoluzione nazionale ebraica”, che comprendeva sia i sionisti sia i bundisti antisionisti. Uno degli ebrei polacchi arrestati era Menachem Begin (1913 – 1992), giovane dirigente sionista; furono arrestati anche Henryk Ehrlich (1882 – 1942) e Viktor Alter (1890 – 1943), fondatori del Bund polacco, il partito ebraico più importante del paese. Nel 1941, dati i legami dei due dirigenti del Bund con i sindacati americani, Berija approvò in linea di principio che essi organizzassero un comitato ebraico antinazista con base nell’URSS; ma Stalin scrisse sulla richiesta che gli era pervenuta in relazione a tale progetto: «Rasstrelijat oboich» (Fucilarli tutti e due). La loro fucilazione scatenò una tempesta nell’ebraismo statunitense. Per controbilanciare questo scandalo, nel 1943 furono inviati in missione negli USA l’attore e regista teatrale Solomon Mikhoels (1890 – 1948), alias Vovsi (fondatore del Teatro Yiddish di Mosca) e il noto poeta yiddish Icik Solomonovic Feffer, in qualità di rappresentanti del Comitato Antifascista Ebraico. Quando giunsero in America, furono accolti da Nahum Goldmann (1895 – 1982), Albert Einstein (1879 – 1955), Chaim Weizmann (1874 – 1952), Marc Chagall (1887 – 1985) e altre celebrità del mondo ebraico. In settembre, i due conclusero un accordo di assistenza coi funzionari del Joint Distribution Committee of American Funds for the Relief of the Jewish War Sufferers, la potente organizzazione ebraica nata il 27 novembre 1914 per iniziativa di banchieri quali i Warburg (Felix M. Warburg ne fu appunto il presidente), gli Schiff, i Kuhn, i Loeb, i Lehmann e i Marshall, i Rosenwald. Quando i due fecero ritorno nell’URSS, nel febbraio 1944, Mikhoels pensò di poter estendere e sviluppare le attività del Comitato antifascista ebraico e sollevò presso Molotov la questione dell’aiuto del Joint per la costituzione di un insediamento di ebrei nella penisola di Crimea. Nel marzo 1944 il Comitato indisse un’assemblea di massa, alla quale tremila ebrei intervennero per ascoltare Solomon Mikhoels, Icik Feffer e Il’ja Erenburg (1891 – 1967). Quest’ultimo, in particolare, aveva preparato assieme allo scrittore e giornalista ebreo Vasilij Grossman (1905 – 1964) ex membro del Comitato Antifascista Ebraico) un Libro nero in cui si affermava che erano stati sterminati un milione e mezzo di ebrei sovietici. Il libro era pronto in bozze, ma il governo, allarmato per l’intensa attività ebraica, ne proibì la pubblicazione. Erenburg, comunque, ne pubblicò alcuni estratti sulla rivista yiddish “Znamja” (La bandiera), sotto il titolo “Assassini di popoli”. Il titolo si riferiva ai Tedeschi, ma in esso veniva anche vista un’allusione ai Sovietici. Quanto a Solomon Mikhoels, la sua ultima impresa fu la celebrazione della nascita del defunto scrittore yiddish Mendele Mocher Sforim (1836 – 1917), che terminò con una fragorosa manifestazione di appoggio all’istituzione dello Stato ebraico in Palestina. Mikhoels morì a Minsk qualche giorno dopo, il 12 gennaio 1948. Il suo cadavere, assieme a quello di un altro ebreo, fu trovato il giorno dopo accanto alla stazione ferroviaria; «vittime di un incidente», disse la polizia. Vent’anni dopo Svetlana Alliluyeva (1926 – 2011), la figlia prediletta di Stalin, accuserà suo padre del duplice omicidio: «Mikhoels era stato assassinato: non c’era stato nessun incidente […]. Conoscevo fin troppo bene l’ossessione di mio padre, che vedeva complotti “sionisti” in ogni angolo». Ai funerali di Mikhoels, il poeta, drammaturgo e romanziere yiddish Perec D. Markis (1895 – 1952) recitò una lunga trenodia, nella quale faceva di Mikhoels una delle tante vittime dell’Olocausto. Un anno dopo fu arrestato anche lui. Fu dunque la nascita di uno Stato ebraico in Palestina a ridestare l’entusiasmo degli ebrei sovietici. Il sostegno dato dal governo dell’URSS a Israele e il voto favorevole espresso dall’URSS alle Nazioni Unite, vennero interpretati dagli ebrei sovietici come un’autorizzazione ad esprimere solidarietà all’entità politica sionista. «Per tutte queste ragioni, negli anni 1947-1948, fra gli ebrei sovietici si levarono onde di commozione che giunsero al culmine (nei giorni più neri di Stalin) quando nelle strade adiacenti alla Sinagoga di Mosca, migliaia di persone si radunarono, per singola iniziativa di ognuno, per accogliere la prima ambasciatrice d’Israele, Golda Meir (1898 – 1978), mentre il canto di Ha-Tikvà esplodeva tra il pubblico e grida di “Am Israel chai” (il popolo d’Israele vive) echeggiavano nell’aria. Oggi sappiamo pure che ci furono ebrei tanto ingenui da presentare alle autorità sovietiche la domanda di potersi arruolare nell’esercito di difesa di Israele per servire quali artiglieri, carristi, marinai o aviatori, nelle sue unità combattenti. Questo avvenimento straordinario venne a conoscenza del dittatore e radicò in lui il terribile sospetto che in trent’anni, il regime comunista non era riuscito a staccare, né intellettualmente né sentimentalmente la massa degli ebrei, e neppure una notevole parte di essi, dall’attaccamento alle proprie origini e dalla sensibilità agli avvenimenti drammatici del mondo ebraico fuori dell’Unione Sovietica. Allora il dittatore decise che, per spegnere la fiamma ebraica che cominciava a riaccendersi era necessario versare sugli ebrei, e particolarmente sulla loro cultura, e sui loro sentimenti, torrenti di acqua gelata. Anzitutto, bisognava impedire ogni contatto tra gli ebrei sovietici e quelli dell’Occidente». Il 21 novembre 1948 il Comitato Antifascista Ebraico venne sciolto d’autorità, perché era diventato un «centro di propaganda antisovietica». Le pubblicazioni edite dal Comitato furono proibite, in particolare il giornale yiddish “Einikai”, al quale collaborava l’élite intellettuale dell’ebraismo sovietico. Nelle settimane successive, tutti quanti i membri del Comitato Ebraico Antifascista furono arrestati. Nel febbraio del 1949 la stampa lanciò una vasta campagna anti-cosmopolita. I critici teatrali ebrei furono denunciati per la loro «incapacità di capire il carattere nazionale russo». «Quale idea possono avere un Gurvic o uno Juzovskij del carattere nazionale dell’uomo russo sovietico?» si chiedeva la “Pravda” del 2 febbraio 1949. Nei primi mesi del 1949 centinaia di ebrei furono arrestati, soprattutto a Leningrado e a Mosca. Il 7 luglio 1949 il tribunale di Leningrado condannò a dieci anni di internamento nei Gulag Akila Grigor’evic Leniton, Il’ja Zejlkovic Serman e Rul’f Aleksandrovna Zevina. Gli imputati furono riconosciuti colpevoli di aver «lodato gli scrittori cosmopoliti» e di aver «calunniato la politica governativa sovietica sulla questione delle nazionalità». In appello, gli imputati furono condannati a venticinque anni dalla Corte Suprema, che riconobbe gli imputati colpevoli di aver «condotto agitazione controrivoluzionaria basandosi su pregiudizi nazionalistici e affermando la superiorità di una nazione sulle altre nazioni dell’Unione Sovietica». Il siluramento degli ebrei fu eseguito in maniera sistematica, soprattutto negli ambienti della cultura, della stampa, della medicina. Ma gli arresti ebbero luogo anche in altri settori: nel complesso industriale metallurgico fu arrestato un gruppo di “ingegneri sabotatori”, che furono condannati a morte e quindi giustiziati il 12 agosto 1952. Il 21 gennaio 1949 venne arrestata e internata nel Gulag la moglie di Molotov, Pavlina Zemcuzina, dirigente superiore nell’industria tessile. Nel luglio 1952 fu arrestata per spionaggio e quindi fucilata la moglie di Aleksandr Poskrebysev (1891 – 1965), segretario personale di Stalin. Il 1948 vide l’inizio della fine dell’attività del Joint in varie democrazie popolari. In Unione Sovietica il Joint non operava più dal 1938; solo fra il 1943 e il 1945 era stato consentito l’invio di pacchi in territorio sovietico. Nel 1949 la Polonia espulse i rappresentanti del Joint e la Cecoslovacchia fece lo stesso. L’Ungheria permise solo la somministrazione di aiuti attraverso la Comunità ebraica locale; anzi, nel 1949 il capo del Joint in Ungheria, Israel Jakobson, venne arrestato. In quel medesimo anno, in Ungheria veniva condannato e giustiziato, assieme ad altri, l’ex ministro degli Esteri László Rajk (1909 – 1949).
Nel 1951 c’erano in URSS 215.000 medici. Circa 35.000 erano ebrei. Al grado supremo della categoria dei medici sovietici si trovava il gruppo dei medici del Cremlino. L’élite della medicina sovietica lavorava nell’ospedale del Cremlino, dove venivano curati i dignitari del PCUS e dei partiti comunisti “fratelli”. Alla fine dell’agosto 1948 morì, nell’ospedale del Cremlino, Andrej Aleksandrovic Zdanov (1896 – 1948), che aveva diretto la campagna ufficiale contro la cultura formalista e cosmopolita. Un rapporto stilato per gli organi di sicurezza affermò, sulla base degli elettrocardiogrammi di Zdanov, che la malattia di quest’ultimo non era stata diagnosticata correttamente. Il reparto elettrocardiografico era diretto da un’ebrea, Sofija Karpaj. Fu solo nel 1951, però, che venne arrestato il primo medico del Cremlino, il professor Jacov Etinger (1929 – 2014), membro del Comitato antifascista ebraico. Il secondo arresto fu quello dell’elettrocardiologa Sofija Karpaj. Sia Etinger sia la Karpaj erano accusati di avere deliberatamente falsificato la diagnosi dell’elettrocardiogramma di Zdanov. Nei diciotto mesi successivi furono arrestati il cardiologo Binijamin Nezlin, suo fratello il dottor Solomon Nezlin e altri celebri medici ebrei. Il complotto dei medici sarebbe stato denunciato pubblicamente il 13 gennaio 1953. Nell’ottobre 1952, Stalin convocò il XIX Congresso del PCUS. Circa milletrecento delegati, in rappresentanza di sette milioni di iscritti, registrarono il proprio nome sotto trentasette nazionalità, tra le quali non figuravano gli ebrei. (Kaganovic e Mechlis erano semipensionati). Si realizzò così una battuta che già circolava: «Mosè ha fatto uscire gli ebrei dall’Egitto, Stalin li ha fatti uscire dal Comitato Centrale».
Al congresso, Malenkov disse che agenti stranieri stavano tentando di «sfruttare elementi instabili della società sovietica per i propri obiettivi infami». Poskrebysev collegò i crimini economici, come quelli denunciati a Kiev o nell’organizzazione del partito in Ucraina, con lo spionaggio e l’accerchiamento capitalistico. Tutti sapevano che i funzionari economici e politici epurati in Ucraina erano ebrei ormai in procinto di essere giustiziati. (Nota1). Dopo la fine del XIX Congresso, si intensificarono le nuove purghe, con una campagna mirante al rafforzamento della disciplina di partito e con una serie di condanne a morte emesse contro funzionari dell’industria tessile ucraina: H.A. Khain, J.E. Jaroseckij, D.I. Gerson, tutti ebrei. Nel medesimo periodo in cui gli ebrei del partito comunista ucraino venivano epurati, molti dei più importanti dirigenti comunisti dei paesi dell’Europa orientale – per la maggior parte ebrei – erano in carcere e stavano per essere giustiziati. A Mosca, circa una dozzina di medici del Cremlino andò a raggiungere i dottori Etinger, Kogan e Karpaj. Nel frattempo, veniva allestito a Praga il processo Slansky, «un modello pilota della purga ai vertici moscoviti che Stalin andava preparando». Alla fine del 1951 Stalin aveva ordinato al presidente cecoslovacco Klement Gottwald di arrestare il presidente di quel partito comunista, Rudolf Slansky, come agente di Israele e del sionismo. Tra il 20 e il 27 novembre 1952, quattordici dirigenti di primo piano del partito comunista e del governo cecoslovacchi, undici dei quali ebrei, furono processati con l’imputazione di aver tentato di complottare con i sionisti per assassinare il presidente Gottwald, rovesciare il governo popolare e restaurare il capitalismo. L’atto d’accusa letto dal pubblico ministero puntava il dito contro il Joint, «gli avventuristi sionisti», «Israele e l’America», i «cosmopoliti», i «nazionalisti borghesi ebrei», i «trotzkisti, i lacchè della borghesia e altri nemici del popolo ceco». Appena ebbe inizio il processo, su case e negozi di ebrei apparvero scritte di questo tenore: «Via gli ebrei!», «Abbasso gli ebrei capitalisti»! Si continuavano ad arrestare ebrei di spicco, tra i quali Eduard Goldsucker (1913 – 2000), ministro plenipotenziario cecoslovacco in Israele. Nella prima giornata del processo, Slansky confessò tutto: i rapporti coi Rothschild, con Ben Gurion, con Bernard Baruch, con Henry Morgenthau. Avevano orchestrato un complotto sionista per distruggere la Cecoslovacchia: «Il movimento sionista del mondo intero – disse alla corte – è di fatto il mondo degli imperialisti, soprattutto di quelli americani». Le accuse contro il Joint, che fin dal 1950 era impegnato in interventi in Cecoslovacchia, sarebbero state ripetute a Mosca sei settimane più tardi, nel contesto del complotto dei medici. Gli accusatori dissero che il Joint era un «ramo segreto del servizio di spionaggio americano», che operava sotto la copertura dell’organizzazione assistenziale. Dissero che «lo spregevole traditore Slansky» (nato Salzman) era sempre rimasto «un lacchè della borghesia» e del sionismo internazionale e che aveva legami diretti con il diplomatico israeliano Ehud Avriel. «Rude Pravo» (quotidiano del PC cecoslovacco) descrisse gli «occhi insolenti e perfidi» e la «faccia da Giuda» di Slansky e scrisse che era un «serpente calpestato», un «cannibale» che sarebbe stato ripagato con la sua stessa moneta. Slansky fu accusato di aver cercato di assassinare il presidente servendosi di medici come «il massone dottor Haskovec». Slansky ammise che lui e il medico massone avevano effettivamente tramato per far morire Gottwald, al quale sarebbe dovuto subentrare Slansky stesso. Al processo testimoniarono due cittadini israeliani che si trovavano in carcere da un anno: i cugini Mordechai Oren (1905 – 1985) e Shimon Ohrenstein. Oren era un dirigente del partito comunista israeliano, il Mapam, mentre Ohrenstein era stato un funzionario dell’ufficio commerciale della legazione israeliana a Praga. Oren confessò di essere stato in Russia e di avervi incontrato dei medici ebrei, nonché il defunto Solomon Mikhoels. Il 4 dicembre 1952, qualche giorno dopo la fine del processo, undici condannati furono impiccati. I loro cadaveri furono cremati nel carcere di Ruzyn e le ceneri furono raccolte in un sacco di patate. Un autista, con due agenti della polizia segreta, portò il sacco alla periferia di Praga, dove le ceneri furono disperse sulla strada ghiacciata. Tre imputati, tra cui l’ex sottosegretario agli esteri, Arthur London (1915 – 1986), furono condannati all’ergastolo. I giornali israeliani e statunitensi, come “New Republic” del 27 novembre 1952, collegarono le accuse formulate nel corso del processo ai Protocolli dei Savi di Sion. Il “New York Times” del 23 novembre 1952 scrisse che la vasta cospirazione ebraica evocata dal processo di Praga riecheggiava «ancora una volta gli infami Protocolli dei Savi di Sion (…), ma in una versione stalinista alla quale il terreno fu preparato quattro anni or sono dalla campagna contro il “cosmopolitismo” scatenata nella stessa Russia sovietica […] le cui vittime furono prevalentemente ebrei». L’affare Slansky, concludeva il “New York Times”, «può segnare l’inizio di una grande tragedia, mentre il Cremlino tende sempre di più verso un antisemitismo mascherato da antisionismo». In Romania, dove la popolazione ebraica assommava a 400.000 individui (i quali avevano accolto entusiasticamente l’Armata Rossa e in moltissimi casi avevano aderito al partito comunista, entrando così nell’amministrazione statale e accedendo rapidamente agli uffici dei ministeri, della polizia e dei quadri dirigenti del Partito) l’eliminazione degli ebrei dall’amministrazione statale e soprattutto dalla polizia cominciò nel 1947. Furono anche epurati i quadri superiori del Partito, perché non si volevano indisporre gli elementi cristiani che vi si trovavano e che già avanzavano riserve sulla presenza di Anna Pauker (1893 – 1960) e di altri ebrei alla testa del movimento. Le sedi delle organizzazioni sioniste di Bucarest furono assaltate da militanti comunisti. Ma questi ultimi trovarono gli ebrei muniti di armi bianche e preparati a difendersi. Fu il solo caso di resistenza attiva dell’ebraismo est-europeo negli anni del socialismo reale. Alla fine, tra gli ebrei arrestati vi fu la stessa Pauker, figlia di un rabbino, diventata dirigente del Komintern e ministro degli esteri di Romania nonché eminente pensatrice marxista-leninista. Radio Bucarest annunciò: «Anche tra noi ci sono criminali, agenti sionisti e agenti del capitale internazionale ebraico. Li smaschereremo ed è nostro dovere distruggerli».
Secondo un dossier che fu consegnato a un emissario di Berija, Anna Rabinsohn Pauker, «figlia di un piccolo borghese, era istitutrice in una scuola ebrea di Bucarest e insegnava lingua ebraica. Si innamorò del suo direttore e ne divenne l’amante […]. Conobbe Marcel Pauker, traditore della classe operaia e che doveva poco dopo sposare. Introdotta da lui nel movimento socialista, ella nutriva per il proletariato la stessa ostilità del marito, ma seppe meglio nascondere il proprio gioco. Ritornò in Romania, dove le condizioni di lotta erano tali ch’ella poté usurpare un posto direttivo nel partito, dopo aver denunciato alla polizia i militanti che si erano opposti alla sua ascesa. Dopo il 1930, Anna lascia il paese e si stabilisce dapprima a Parigi, dove conduce una vita poco conforme alle regole della morale comunista e del semplice buonsenso. Al suo ritorno, la polizia l’arresta in condizioni che non abbiamo ancora potuto chiarire. Comunque il suo arresto fu seguito da quello di numerosi membri del partito, allora clandestino. In prigione Pauker ebbe una vita facile: era, tra l’altro, rifornita di viveri da suo zio, proprietario d’un giornale borghese di Bucarest, mentre gli altri prigionieri morivan di fame». Abbiamo visto che dopo il XIX Congresso del Pcus fu arrestata una quindicina di medici ebrei, tra i quali il dottor Boris B. Kogan. Questo suo cugino, cardiologo e internista, aveva avuto in cura sia Dimitrov e Zdanov, che erano morti entrambi: la dottoressa Lidija Timasuk sosteneva che la morte di Zdanov era un caso di omicidio medico. Boris Kogan era l’aiuto di Vladimir N. Vinogradov (1955 – 2008), direttore dell’ospedale del Cremlino e medico personale di Stalin. Questi fu arrestato il 9 novembre 1952, con l’accusa di aver deliberatamente prescritto cure sbagliate a dirigenti del partito e del governo e di avere «svolto azione di spionaggio per conto della Gran Bretagna». Due giorni dopo fu arrestato uno stretto collaboratore di Vinogradov: Miron Semionovic Vovsi (1897 – 1960), consulente del consiglio terapeutico e sanitario del Cremlino, cugino di Solomon Mikhoels, col quale aveva lavorato nell’ormai disciolto Comitato Antifascista Ebraico. Dopo Vovsi e Vinogradov, nella seconda settimana di novembre furono arrestati altri nove medici del Cremlino, tra i quali Boris B. Kogan. Poco dopo gli arresti dei medici, il maresciallo Ivan Stepanovich Konev (1897 – 1977), comandante in capo delle forze di terra nonché ispettore generale dell’Armata Rossa, scrisse a Stalin una lettera in cui lo avvertiva che stavano avvelenando anche lui, con «le stesse medicine usate per ammazzare Zdanov». Il 13 gennaio 1953 la “Pravda” uscì con un titolo a tutta pagina: «Arrestato un gruppo di medici sabotatori», sotto il quale veniva riportato un comunicato della Tass di dieci capoversi. L’editoriale che accompagnava l’annuncio era intitolato: «Miserabili spie e assassini con la maschera di professori e medici». Il comunicato menzionava nove medici che avevano partecipato al complotto terroristico, i cognomi dei quali rivelavano l’appartenenza ebraica: Miron Vovsi (1897 – 1960), Ivan Matveevich Vinogradov (1891 – 1983), Egorov, Feldman, Yakov Gilyarievich Etinger (1887 – 1951), Grinstein, Majorov, M. B. Kogan, B.B. Kogan. Costoro, secondo la “Pravda”, erano «collegati con l’organizzazione nazionalista borghese ebraica internazionale Joint, creata dallo spionaggio americano col falso scopo di fornire aiuti materiali a ebrei di altri paesi». Vovsi, in particolare, aveva confessato di aver ricevuto dagli Stati Uniti, tramite il Joint e «il noto nazionalista borghese ebreo Mikhoels, l’ordine di eliminare i massimi quadri dell’URSS». Il comunicato aggiungeva che i tre erano «agenti di vecchia data dello spionaggio inglese». I criminali avevano confessato di avere ucciso Zdanov «diagnosticando scorrettamente la sua malattia, nascondendo che aveva avuto un infarto al miocardio» e prescrivendo «un regime controindicato per la sua grave malattia». Allo stesso modo, i criminali avevano fatto morire anche il compagno A.S. Scerbakov: «gli hanno prescritto un regime che per lui era mortale e così lo hanno portato alla morte». Inoltre, il gruppo dei medici ebrei, «questa banda di criminali antropoidi», cercava di «compromettere la salute di comandanti militari sovietici, per ridurli all’inattività e indebolire la difesa del Paese». Le vittime designate erano tre marescialli, un ammiraglio e un generale. Tutta la stampa sovietica partecipò alla campagna contro la “banda criminale”. La rivista sindacale “Trud” affermava che l’imperialismo anglo-statunitense agiva a stretto contatto con il sionismo e in particolare con l’organizzazione ebraica dello Joint. La “Literaturnaja Gazeta” smascherò una cellula sovversiva, annidata nel comitato scientifico dell’Istituto della Biblioteca di Mosca, che era guidata dagli ebrei Abramov, Levin, Fried e Eikenvolts. “Medicinski Rabotnik” pubblicò un lungo elenco di ebrei che lavoravano alla Clinica centrale di psichiatria legale. I medici di quella clinica avevano anche propagato le teorie di Bergson e di Freud e avevano rifiutato di applicare ai pazienti la psichiatria russa, optando per i metodi di derivazione psicanalitica. Il quotidiano della Lituania metteva in guardia contro gli «elementi nemici, nazionalisti borghesi e sionisti ebrei» che svolgevano mansioni importanti nel ministero della carne e del latte e che potevano avvelenare tali alimenti. “Krokodil”, la rivista satirica, scriveva: «Il nero odio per il nostro paese ha unito in un solo campo i banchieri americani e inglesi, i colonialisti, i re degli armamenti, i generali di Hitler che sognano la rivincita, i rappresentanti del Vaticano e i fedeli membri del Kahal sionista». I medici ebrei, «personificazione della bassezza e dell’abominio, come Giuda Iscariota», avevano tutti quanti frequentato una nota scuola: quella «diretta dall’ipocrita Mikhoels, per il quale nulla era sacro e che aveva venduto l’anima per trenta denari». Secondo le “Izvestija”, i processi contro i sionisti che venivano celebrati in Ungheria, Bulgaria, Polonia e Albania costituivano la prova dell’esistenza di un piano spionistico americano di ampia portata, un piano che vedeva sionisti e americani collaborare in maniera solidale. In Ucraina, a Zitomir, furono arrestati venti medici ebrei, definiti dai giornali ucraini «assassini di bambini». La “Pravda Ukrainij” dedicò a tre sabotatori giustiziati a Kiev un editoriale in cui si leggeva: «Tutti questi Kohain e Jarosecki e Grinstein […], i Kaplan e i Poljakov […] suscitano l’odio profondo del popolo». Quattro informatori degli americani nella Germania occidentale dissero che le accuse contro i medici erano il segnale di una purga imminente. L’economista Konstantin Krylov diceva da anni che Stalin si sarebbe servito dell’antisemitismo per una purga su vasta scala. Vjaceslav Artem’ev, ex poliziotto della polizia segreta, disse che forse il 25% dell’MGB erano ebrei e che certamente sarebbero stati radiati; questo comunque sarebbe stato solo l’inizio di una vasta epurazione. Effettivamente gli ebrei dell’MGB furono epurati e alcuni di loro, come ad esempio il tenente generale Raichman, furono arrestati. Frattanto Berija mandò i suoi uomini ad arrestare il medico di Mao Tse Tung, che era un ebreo proveniente dall’URSS.
S. Eliashiv, diplomatico israeliano a Mosca, in un messaggio del 10 febbraio 1953 disse: «L’elemento principale comune a tutti questi articoli e discorsi è l’accerchiamento da parte di potenti nemici stranieri e la costruzione di una quinta colonna all’interno»; tuttavia «lo Stato d’Israele non è ancora un bersaglio primario, diretto», come lo era stato nelle «esplicite accuse della Cecoslovacchia e della Polonia. […] Ciononostante, esiste una collera grave e violenta contro i sionisti e il sionismo». Eliashiv esprimeva inoltre una grave preoccupazione per il proliferare di denunce contro criminali ebrei, specialmente in Ucraina, Bielorussia e Moldavia, dove vivevano numerose comunità ebraiche. In Israele, quando la notizia del complotto dei medici giunse via radio, il rabbino Jacob Kolmess, che aveva lasciato Mosca nel 1933, si portò la mano al petto e morì per una crisi cardiaca. Il 19 gennaio, il ministro degli Esteri Moshe Sharett denunciò come calunniosa la campagna sovietica. I sovietologi israeliani indicavano, tra i fattori della campagna antiebraica, il tentativo dell’URSS di avvicinarsi al mondo islamico. Intanto in Unione Sovietica la campagna di stampa dava i suoi frutti: Uljanovsk, ventisei insegnanti, per lo più ebrei, furono espulsi dalla scuola magistrale in cui insegnava la vedova di Mandel’stam. Duecento ebrei furono licenziati dall’università di Odessa; tutti i laureati ebrei della facoltà di medicina furono mandati nelle zone orientali più remote della Siberia, come la Kamcatka e la Jacutia. Fuori dall’URSS, è da notare che nella Repubblica Democratica Tedesca i capi delle comunità ebraiche furono sottoposti ad interrogatorio da parte delle forze di sicurezza. A Berlino Est, mille ebrei chiesero il visto per gli Stati Uniti. Il 15 gennaio, quattro esponenti di primo piano della comunità ebraica tedesco-orientale, tra cui Julius Meyer, fuggirono a Berlino Ovest. In Ungheria, “Szabad Nép” scrisse, il 15 gennaio, che il Joint era solito «nascondere veleno e pugnali» tra i «vestiti usati» che spediva agli ebrei. In Cecoslovacchia, il 16 gennaio “Rude Pravo” affermò che i «doni inviati dal Joint» erano in realtà «ordini di uccidere». Dmitrij I. Cesnokov, da poco condirettore del “Bolshevik”, capo di una nuova sezione del Comitato Centrale e nuovo membro del Presidium, redasse un opuscolo per spiegare perché gli ebrei dovevano essere deportati. L’opuscolo, stampato dalla casa editrice del MVD in un milione di esemplari, era intitolato “Perché gli ebrei devono essere trasferiti dalle regioni industriali del paese”. Contemporaneamente veniva stilato il testo di una “Dichiarazione Ebraica”, destinata a essere pubblicata sulla prima pagina della “Pravda” dopo la celebrazione del processo contro i medici e la loro esecuzione sulla Piazza Rossa. La “Dichiarazione Ebraica”, che avrebbe recato in calce le firme di qualche decina di ebrei “leali”, sarebbe stata adoperata, se Stalin non fosse provvidenzialmente morto nel frattempo, per giustificare la deportazione di quasi tutti gli ebrei sovietici nel Kazakhstan e nel Birobidzan. La “Dichiarazione”, secondo la ricostruzione che ne è stata fatta in base alle testimonianze di Ilja Erenburg, sarebbe stata formulata più o meno nei termini seguenti: «ci appelliamo al governo dell’URSS, e al compagno Stalin personalmente, perché salvino la popolazione ebraica da possibili violenze conseguenti alle rivelazioni sui medici-avvelenatori e sul coinvolgimento di cittadini sovietici rinnegati di origine ebraica, colti in flagrante a partecipare a un complotto americano-sionista per destabilizzare il governo sovietico. Ci uniamo al plauso di tutti i popoli sovietici per la punizione dei medici assassini, i cui crimini esigevano la pena capitale. I sovietici sono naturalmente indignati di fronte al continuo ampliarsi delle trame del tradimento e al fatto che, e ciò ci addolora, molti ebrei hanno aiutato i nostri nemici a costituire in mezzo a noi una quinta colonna. Cittadini semplici, fuorviati, possono essere spinti a reagire colpendo indiscriminatamente gli ebrei. Per questa ragione, vi imploriamo di proteggere il popolo ebraico mandandolo nei territori orientali in via di sviluppo, dove sarà impiegato in un lavoro di utilità nazionale e sfuggirà alla comprensibile collera suscitata dai medici-traditori. Noi, in quanto personalità di spicco tra gli ebrei fedeli all’Unione Sovietica, respingiamo totalmente la propaganda americana e sionista che afferma che in questo paese c’è antisemitismo. Si tratta soltanto di una cortina fumogena per nascondere il loro tentativo fallito di assassinare dirigenti sovietici e deviare le critiche del mondo dalla questione dell’antisemitismo americano del caso Rosenberg e degli intenti genocidi americani contro la popolazione nera statunitense. Nell’Unione Sovietica, invece, il razzismo è vietato dalla costituzione e non esiste affatto». Tra i firmatari della “Dichiarazione Ebraica” vi furono il già citato lo scrittore Grossman, l’accademico Isaac Mints (1896 – 1991), il fisico Lev Davidovic Landau (1908 – 1968) Premio Nobel nel 1962), il violinista David Ojstrach (1908 – 1974), il compositore Matveij Blanter (1903 – 1990) e altri ebrei di una certa fama. A quanto si è detto, il piano di Stalin prevedeva che i medici dovevano essere giustiziati subito dopo l’emissione della condanna. Sarebbero stati impiccati nella Piazza Rossa, sulla Lobnoe mesto, una piattaforma di pietra circolare accanto al Cremlino, adoperata nel Medioevo per le esecuzioni. Poi sarebbero scoppiati degli incidenti: violenze contro ebrei, pubblicazione della “Dichiarazione Ebraica”, pubblicazione di lettere che chiedevano l’adozione di provvedimenti. Allora gli ebrei dell’URSS (l’87% dei quali era concentrato nelle grandi città: Mosca, Leningrado, Kiev, Odessa, Riga, Kharkov) sarebbero stati trasferiti in campi a est degli Urali. Nel periodo di sei settimane intercorso tra l’annuncio del 13 gennaio e la morte di Stalin, si diffuse la notizia che si stavano approntando mezzi di trasporto sufficienti a spostare intere masse di persone. Tra i pochi ebrei che rimanevano nei gradi elevati degli organi di polizia, dei ministeri e dell’esercito, alcuni erano a conoscenza di particolari specifici relativi a vagoni merci vuoti che restavano fermi, in attesa, sui binari di raccordo. Un medico di rango elevato, che durante la deportazione delle otto nazionalità sovietiche era stato responsabile del controllo delle condizioni sanitarie sui treni utilizzati per le evacuazioni, nel 1952 venne a conoscenza dei piani per la deportazione degli ebrei. Il trasporto sarebbe stato organizzato con gli stessi criteri seguiti per le deportazioni del periodo bellico. Comunque, lo stesso sistema dei trasporti sarebbe stato ben presto depurato dalla presenza ebraica. Si dice che Stalin avesse ordinato di preparare nei maggiori nodi ferroviari per il febbraio 1953 un grande numero di carri bestiame; in realtà, data la complessità dell’operazione, le deportazioni non potevano avere inizio prima di aprile o maggio. Tra l’altro, erano state mobilitate squadre di funzionari dell’MGB per inventariare i beni che gli ebrei avrebbero abbandonato. Secondo gli ebrei che videro i campi dopo il periodo di Stalin, erano stati costruiti baraccamenti appositi, puliti e nuovi. Vladimir Lifshitz, un tecnico ebreo che lavorò per la marina russa nella Siberia occidentale dieci anni dopo il complotto dei medici, il 9 novembre 1987 raccontò a Louis Rapoport di aver visto un campo mai utilizzato con file e file di baracche. Questo campo si trovava sugli altipiani non lontani da Barnaul, una cittadina nella regione del Kuzbass, a nordest del Kazakhstan e a sud di Novosibirsk e della zona petrolifera della Siberia occidentale. Quest’area, il doppio dell’Italia, era costellata da centinaia di campi di concentramento. Il campo che il tecnico e i suoi uomini avrebbero visitato era una città fantasma di baracche fatiscenti, che si estendeva su un paio di chilometri quadrati. Nel 1956 furono trovati nel Birobidžan altri due campi simili a questo; altri baraccamenti, situati sull’isola di Novaja Zemlja, a nordest di Arcangelo, erano stati costruiti per diretto ordine di Stalin. Si parlò anche di un grandioso piano di sviluppo per trasformare la Siberia in un impero industriale. Alle schiere di lavoratori in condizioni di schiavitù si sarebbero aggiunti circa due milioni di ebrei e altri due o tre milioni di nuovi prigionieri politici. Tra le centinaia di migliaia di ebrei che già si trovavano nel Gulag c’era anche Iosif Berger (1904 – 1978), uno dei fondatori del partito comunista in Palestina, che all’inizio degli anni Trenta era tornato nell’Unione Sovietica dove era incappato nei rigori della Grande Purga. Berger si convinse che si stava progettando la liquidazione degli ebrei. In ogni caso, erano già cominciati gli arresti e le retate. Alcuni ebrei, come il dottor Jakov Rapoport (1898 – 1996), che era stato arrestato a metà gennaio 1953, venivano coinvolti direttamente nel caso dei medici del Cremlino. Altri, come il dottor Solomon Nezlin, arrestato verso la fine di gennaio, furono collegati indirettamente al complotto attraverso un parente: il fratello era uno dei medici che avevano visto nel 1948 le cartelle cliniche di Zdanov. Anche i familiari di ebrei giustiziati, come Perec D. Markis (1895 – 1952, il letterato che aveva eseguito la lamentazione funebre ai funerali di Mikhoels), furono arrestati in seguito all’annuncio del 13 gennaio. La polizia segreta arrestò tutta quanta la famiglia Markish: David, la madre Esther, la sorella Olga, il fratello Simon, il cugino Juri. Condannati a dieci anni di confino, furono spediti nel Kazakhstan settentrionale su un vagone piombato. Sul medesimo vagone viaggiava anche Marija Iusefovic, moglie di un funzionario sindacale che aveva svolto attività nel Comitato Antifascista Ebraico. Il 30 e il 31 gennaio furono arrestati i familiari di altre personalità del Comitato Antifascista Ebraico: l’attore e condirettore del Teatro Yiddish di Mosca Benjamin Zuskin, sua moglie (l’attrice Eda) e la loro figlia; la famiglia di Leib Kvitko (1890 – 1952), scrittore ebreo, già membro del Comitato Antifascista Ebraico; la famiglia di David Bergelson (1884 – 1952), il poeta yiddish che era stato membro del Comitato Antifascista Ebraico. Furono arrestate anche le mogli dei medici del Cremlino. Secondo Roy Medvedev (1925), Stalin progettava di deportare la maggior parte degli ebrei non in Siberia o nel Birobidžan , ma nelle regioni settentrionali del Kazakhstan, dove lo spazio per i due milioni di ebrei sovietici era più che sufficiente. Il solo campo di Karaganda, che si estendeva per più di 450 chilometri, poteva accoglierne una gran parte. Nella zona intorno al villaggio di Karmacij, dove arrivò la famiglia Markis, c’erano già molti altri ebrei. Oltre a un’intera colonia di ebrei della Bessarabia, deportati dopo l’annessione della Bessarabia all’URSS, c’erano ebrei provenienti da Bukhara, da Kiev, da Odessa e da altre città. Dopo l’annuncio del 13 febbraio, la campagna della stampa e della radio contro i “medici stranieri” e i “cani arrabbiati di Tel Aviv” proseguì ininterrotta. Un lungo saggio di Ladislao Carbajal, intitolato “La questione ebraica non esiste nella società socialista”, accusava il primo ministro israeliano Ben Gurion (1886 – 1973), il ministro degli esteri Moshe Sharett (1894 – 1965) e l’ambasciatore all’ONU Abba Eban (1915 – 2002) di essere ispiratori di un’attività spionistica che veniva sviluppata per conto degli USA e dell’Inghilterra. La “Pravda” del 6 febbraio diede la notizia dell’arresto degli ebrei S.D. Gurevic e J.A. Taratuta. Fu arrestato anche il direttore del Teatro dell’Arte di Mosca, Igor Neznij, un vecchio amico di Mikhoels accusato di far parte del centro sionista diretto dal pianista Grigorij Ginzburg (1904 – 1961). Tutto ciò indusse l’ebraismo statunitense a mobilitarsi in difesa degli ebrei dell’URSS. I dirigenti del B’nai B’rith (Nota 2) andarono al Dipartimento di Stato a esprimere i loro timori per la situazione dell’ebraismo sovietico. Un gruppo di quarantanove personalità ebreo-americane di grande rilievo il 12 febbraio rivolse un appello a Eisenhower affinché parlasse pubblicamente dei milioni di ebrei del blocco sovietico che si trovavano esposti a «una nuova epidemia di pogrom, ad aggressioni istigate dai comunisti»; il presidente americano veniva invitato a pronunciare una «solenne condanna pubblica e l’avvertimento che questo attacco contro il popolo ebraico costituisce un incitamento al massacro». Il 16 febbraio il senatore Robert C. Hendrickson (1898 – 1964) presentò la risoluzione numero 71 del Senato, firmata da lui e da altri due senatori, che paragonava “l’antisionismo” comunista all’antisemitismo nazista. Alle parole si accompagnarono i fatti. Il 9 febbraio una violenta esplosione scosse il centro di Tel Aviv: un attentato distrusse la legazione dell’URSS, sicché rimasero feriti tre cittadini sovietici. L’attentato terroristico era opera della vecchia Banda Stern di Yitzhak Shamir. Tre giorni dopo, l’URSS ruppe le relazioni diplomatiche con Israele. Ben Gurion dichiarò alla Knesset che la rottura diplomatica faceva parte di una massiccia campagna diffamatoria sovietica, nuovo atto di una storia di quattromila anni di odio, calunnie, torture, distruzioni e massacri subiti dal popolo eletto. Il 14 febbraio le “Izvestija” spiegavano che il funzionario del Dipartimento di Stato americano William Draper, aiutato dal Joint e dagli istituti bancari Dillon, Read e Harriman Bros., stava realizzando il piano segreto dell’ex ministro del tesoro Henry Morgenthau, del deputato Emanuel Celler e del senatore Jacob Javits, che consisteva nel fare di Israele la principale base antisovietica del Vicino Oriente. Tra gli uomini del Joint e Tel Aviv, diceva l’articolo, c’era «la feccia della società, trotzkisti, nazionalisti borghesi e cosmopoliti sradicati d’ogni sorta, che per un pugno di dollari hanno venduto il loro onore, il loro popolo e il loro paese». «Ciò che provocò la collera di Stalin contro Israele – scrive François Fejtö (1909 – 2008) – non fu tanto il naturale filo-americanismo d’Israele, quanto le tumultuose simpatie filoisraeliane della popolazione ebraica dell’Unione Sovietica, quella passione per Israele che si espresse in maniera così significativa nell’accoglienza trionfale tributata al primo inviato del nuovo stato, la signora Golda Meir. Questo stato d’Israele, non era forse il coronamento dei lunghi e pazienti sforzi dei pionieri di Sion, tra i quali gli ebrei russi avevano avuto un ruolo di primo piano? Il giudaismo russo poteva giustamente considerare Israele come la realizzazione dei propri sogni, come una creatura del suo spirito e della sua carne. Agli occhi di Stalin, invece, questo entusiasmo, questa solidarietà senza riserve erano una sfida intollerabile al sovietismo, incompatibile sia con l’internazionalismo dottrinale che con la ragione di stato dell’Unione Sovietica, tesa da quel momento allo sfruttamento delle animosità arabe contro l’occidente, protettore d’Israele». Il 30 febbraio il “Manchester Guardian” riferì che il ministro degli esteri sovietico Visinskij aveva invitato a Mosca uno dei peggiori nemici d’Israele, il Gran Muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Husseyni (1895 – 1974), che si era rifugiato al Cairo dopo essere stato condannato per crimini contro l’umanità. L’invito venne formulato proprio il primo giorno della festa ebraica dei Purim. Il regime di Tito organizzò il 27 febbraio a Belgrado una grande manifestazione di protesta contro l’antisemitismo sovietico. Gli oratori condannarono i sovietici perché calpestavano i diritti dell’uomo e accusarono il Cremlino di far incombere sugli ebrei dell’Europa orientale le «identiche possibili conseguenze estreme» già verificatesi sotto il dominio nazista. A parte Lazar Moiseevic Kaganovic (1893 – 1991), che era l’ebreo sovietico di rango più elevato, il generale dell’NKVD (Nota 3) Lev Zacharovic Mechlis (1889 – 1953) era l’ultimo dirigente sovietico di origine ebraica che ancora fosse presente nelle gerarchie del regime. Mechlis aveva arrestato il proprio padre, un impiegato ebreo di Odessa, e aveva testimoniato contro di lui davanti ad un tribunale della polizia segreta. Secondo le memorie di Nikita Sergeyevich Khrushchev (1894 – 1971) assieme a Kaganovic aveva organizzato la morte di centinaia di migliaia, forse milioni di persone. In particolare, aveva epurato il corpo ufficiali. Nell’ottobre del 1950 era stato sollevato dal suo ultimo incarico, quello di ministro del controllo statale. Nell’ottobre del 1952, al XIX Congresso del PCUS (Nota 4), fu eletto nel comitato centrale. Dopo l’annuncio del complotto dei medici, Mechlis si allontanò di soppiatto da Mosca e andò a Saratov, dove si ammalò. Portato a Mosca per essere curato nell’infermeria dell’MVD (Nota 5) nel carcere di Lefortovo, vi morì, stando alla “Pravda”, venerdì 13 febbraio, per un attacco di cuore conseguente alla degenerazione del cervello e dei vasi del cuore e del sistema nervoso. Il cadavere di Mechlis venne cremato e le sue ceneri furono collocate nel muro del Cremlino. Nel periodo del complotto dei medici, tutti i funzionari sovietici di alto rango che erano sposati con donne ebree furono sottoposti a pressione affinché divorziassero. Vi furono anche casi di divorzi fittizi, attuati allo scopo di passare indenni attraverso la tempesta. Il maresciallo Kliment Efremovic Vorosilov (1881 – 1969, già nel 1940 sollevato dall’incarico di commissario per la difesa), che era sposato anche lui con un’ebrea, Ekaterina, si rifiutò di divorziare. Nel febbraio 1953 scacciò con la pistola alla mano quattro agenti dell’MGB che si erano presentati a casa sua (la più imponente e sontuosa tra le dacie dei grandi della Rivoluzione) per arrestare Ekaterina.
Alla fine di febbraio, Vorosilov fu invitato a una riunione del Presidium in cui si sarebbe dovuto discutere del trasferimento degli ebrei. Alla riunione, Stalin rivelò i particolari del suo piano per combattere il “complotto imperialista e sionista” contro l’Unione Sovietica e disse che si rendeva necessaria l’immediata deportazione in massa nell’Asia centrale e nel Birobidžan. Quando ebbe terminato di parlare, tra la ventina di persone sedute intorno al tavolo delle riunioni cadde un silenzio totale. A un certo punto Kaganovic domandò con voce esitante se sarebbero stati deportati tutti gli ebrei sovietici senza eccezioni. Stalin rispose: «Un certo settore». Kaganovic non replicò. Molotov, la cui moglie era già scomparsa in territori lontani, osò dire che il trasferimento degli ebrei avrebbe avuto un impatto negativo sull’opinione pubblica mondiale; Mikojan annuiva. Intervenne allora Vorosilov, il quale affermò che un’azione del genere avrebbe destato nel mondo la medesima reazione che già c’era stata contro Hitler. Poi, con gesto teatrale, gettò la tessera del PCUS sul tavolo, dicendo che il piano di trasferimento violava l’onore del Partito e che lui non voleva appartenere a un’organizzazione come quella. Stalin gli gridò: «Compagno Kliment, deciderò io quando non sarai più autorizzato a tenere la tessera del Partito»! E si infuriò a tal punto, che ebbe una crisi e crollò al suolo. Il 22 e il 23 febbraio la campagna contro i nemici del sistema sovietico rallentò improvvisamente. Dopo il 25 febbraio non si ebbero più notizie di arresti di elementi ebraici. La campagna si interruppe il 1 marzo; il 2 marzo, per la prima volta dal 13 gennaio, la “Pravda” non parlava più dei medici avvelenatori. Non meno di trentasei ore dopo che il cuore di Stalin aveva cessato di battere, alle 7 del mattino del 4 marzo Radio Mosca annunciò al mondo che il Padre dei popoli dell’URSS era gravemente malato. «Il Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e il Consiglio dei ministri dell’Unione Sovietica annunciano la disgrazia che ha colpito il nostro Partito e il nostro popolo: la grave malattia del compagno Iosif Visarionovic Stalin». La guerra di Stalin contro gli ebrei era finita.
Note:
1: La prima moglie di Poskrebysev era un’ebrea e nel 1949 Stalin lo aveva invitato a divorziare. Una notte, tornato a casa, non trovò più la moglie. Si rivolse a Stalin, il quale gli disse: «Hai bisogno di una moglie? Ne avrai una nuova». Rientrato a casa quella sera, Poskrebysev aveva trovato ad attenderlo quella che sarebbe diventata la sua seconda moglie, una russa autentica.
2: L’Ordine Indipendente B’nai B’rith (in ebraico: בני ברית, “figli dell’alleanza”) è una loggia ebraica nata nel 1843 durante la presidenza di John Tyler ed ancora esistente ed attiva. La sua missione è quella di fare beneficenza verso i poveri.
3: Il Commissariato del popolo per gli affari interni, noto anche con l’acronimo NKVD fu un dicastero attivo nella Russa sovietica dal 1917 al 1930 e poi, riorganizzato a livello centrale, in Unione Sovietica dal 1934 al 1946.
4: Il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, noto anche con l’acronimo PCUS è stato un partito politico di orientamento marxista.
5: Il Ministero degli Affari Interni era un ministero del governo nell’Unione Sovietica. La MVD, un’agenzia succeduta al NKVD, fu istituita nel marzo 1946. A differenza del NKVD, ad eccezione di un periodo di circa 12 mesi, da metà marzo 1953 fino a metà marzo 1954, il MVD non includeva le unità (agenzie) interessate attività segreta (politica), quella funzione assegnata al Ministero della Sicurezza dello Stato (MGB), dal marzo 1954 al KGB.
Per approfondimenti:
_Soviet Jewry: A new Estimate, “Jewish Chronicle”, 23 ottobre;
_David Dallin e Boris Nikolaevskij, Il lavoro forzato nella Russia sovietica, Sapi, Roma, 1949;
_Roy A. Medvedev, Lo stalinismo, Mondadori, Milano 1972;
_Svetlana Alliluyeva, Soltanto un anno, Mondadori, Milano 1969;
_Ariè Eliav, Tra il martello e la falce, Barulli, Roma 1970;
_Robert Conquest, Power and Policy in the USSR. The Study of Soviet Dynastics, Phaeton, New York 1975;
_Meir Cotic, The Prague Trial: The First Anti-Zionist Show Trial in the Communist Bloc, Herzl Press, New York 1987;
_Camil Ring, Stalin le aveva detto, ma…, Mondadori, Milano 1953;
_B. Z. Goldberg, The Jewish Problem in the Soviet Union: Analysis and Solution, Crown, New York 1961;
_Louis Rapoport, Stalin’s War against the Jews, The Free Press, New York 1990;
_J. Berger, Shipwreck of a Generation, Harvill Press, London 1971;
_François Fejtö, Gli ebrei e l’antisemitismo nei paesi comunisti, Sugar, Milano 1962;
_Arthur Koestler, Lo yogi e il commissario, Liberal Libri, 2002.
25 aprile, la Comunità ebraica litiga con l'Anpi. E salta la manifestazione unitaria. La Comunità palestinese in piazza con kefieh e bandiere per protestare contro Israele. L'Anpi non si dissocia e la Brigata Ebraica diserta il corteo, scrive Sergio Rame, Martedì 24/04/2018, su Il Giornale. È scontro totale sul 25 aprile. La Comunità ebraica di Roma non sarà al corteo unitario promosso dall'Anpi. La rottura è stata scatenata dalla presenza della rappresentanza palestinese che, come comunicato ieri, scenderà in piazza vi parteciperà "con kefieh e bandiere". "Non basta una nota ambigua in cui si invitano tutti a partecipare - si legge nel comunicato diramato dalla Comunità ebraica - perché in questa giornata bisogna portare rispetto alla Storia e ai suoi protagonisti". Lo rottura è insanabile, salvo colpi di scena all'ultimo momento. Domani la Comunità ebraica sarà prima alle Fosse Ardeatine e successivamente in via Tasso per un momento pubblico di raccoglimento per "ricordare la Liberazione dell'Italia dal nazifascismo". Non andrà, dunque, al corte promosso dall'Anpi. A spingerla a un passo indietro è stata la decisione della Comunità palestinese di Roma e del Lazio di scendere in piazza "con kefieh, sciarpe e bandiere palestinesi e di tutti i popoli che resistono". In un comunicato diffuso ieri, i palestinesi romani hanno colto l'occasione per tornare ad attaccare duramente Israele: "Respingiamo, denunciamo e condanniamo la politica criminale dei governanti israeliani, dell'assassinio e del ricatto, che viola e nega ogni diritto al popolo palestinese e rifiuta ogni soluzione pacifica, basata sulle risoluzioni dell'Onu e della legalità internazionale, del conflitto mediorientale". La mossa della Comunità palestinese e il silenzio dell'Anpi ha spinto la Comunità ebraica a boicottare il corteo unitario. "Nonostante gli accordi, l'Anpi non ha voluto prendere una posizione ufficiale e definitiva - si legge nella nota diramata oggi - non basta una nota ambigua in cui si invitano tutti a partecipare, perché in questa giornata bisogna portare rispetto alla Storia e ai suoi protagonisti". "L'equidistanza tra i simboli di chi combatteva con i nazisti e quelli della Brigata Ebraica è inaccettabile e antistorica - conclude - e se l'Anpi non ha la forza e la volontà di delegittimare la presenza di questi gruppi viene meno il senso di una manifestazione unitaria".
Perché la sinistra italiana odia Israele? Scrive Veromedioriente. Premessa: questo articolo è volutamente riassuntivo e tratta di un tema già noto agli addetti ai lavori. Esiste una fortissima ostilità contro Israele, causata da una fortissima propaganda fatta di odio e disinformazione che si concretizza in un vero e proprio lavaggio del cervello di massa per indurre la gente ad odiare Israele e stare dalla parte dei terroristi palestinesi. Per la questione della disinformazione e della manipolazione delle persone, si rimanda in altre sedi visto che anni ed anni di propaganda hanno creato una vasta letteratura disinformativa che richiede un'altrettanta vasta letteratura di risposta per essere smontata. Quello che interessa a noi è chi sono i principali attori di questa propaganda disinformativa: sono 4 e sono gli estremisti islamici, gli antisemiti, l'estrema destra...e la sinistra. Di questi quattro attori, ce ne è uno che ha molto più potere di loro in Europa ed in Italia, ed è la sinistra. Essa è capace di convincere facilmente grandi masse, di piegare alla propria ideologia molti media influenti, e quindi con la falsa informazione crea l'opinione. Perfino il campo dell'attivismo ne viene fortemente influenzato. In Italia questo meccanismo è estremamente forte e la sinistra ha creato di fatto l'opinione su Israele, sui Palestinesi e su cosa sta accadendo in quelle zone. Ed ovviamente ha praticamente imposto la parte con cui stare. È inutile dire che ha avuto grande successo, le persone sono facilmente manipolabili su questi argomenti e credono quello che viene detto loro di credere, soprattutto se si hanno i mezzi della sinistra. Siccome la disinformazione e l'odio cieco contro Israele da parte della sinistra sono noti, quello che a noi interessa spiegare è perché la sinistra ha scelto di odiare Israele, di fare propaganda disinformativa nei suoi confronti e di stare di fatto dalla parte dei terroristi palestinesi che sostiene senza vergogna spacciandoli per "popolo palestinese". Oltre una presenza millenaria degli ebrei in Palestina, nell'800 incominciarono ad arrivare gli ebrei dall'Europa fuggendo dalle persecuzioni zariste e dai pogrom e "quella Terra" si trasformò, fondarono Petah Tikva nel 1878, Rishon le Zion nel 1882, Rehovot nel 1880 e incominciarono a sviluppare la terra, a lavorare la sabbia sassosa del deserto israeliano che all'epoca copriva tutto il Paese. Questa nuova situazione e la creazione di posti di lavoro portò verso Sion gli arabi egiziani, siriani e di tutto il circondario pronti ad accettare il lavoro che gli ebrei offrivano. Fino al 1948 quando fu fondato Israele con i voti delle Nazioni Unite, tutto il mondo occidentale riconosceva gli ebrei come legittimi abitanti di Israele, tutto il mondo occidentale sapeva che da quella Terra gli ebrei furono ingiustamente scacciati e che da 2000 anni ad ogni fine di festività ebraica il Popolo gridava "L'anno prossimo a Gerusalemme". Il mondo occidentale sapeva anche che fino al 1948, quando cambiarono il nome in israeliani, gli ebrei erano i veri palestinesi, riconosciuti come tali. Solo nel 1967, quando gli ebrei liberarono Gerusalemme e i territori ebraici (Giudea e Samaria) occupati dalla Giordania per 20 anni, gli arabi si rassegnarono al fatto che non potevano vincere Israele con una guerra diretta ed adottarono una nuova tattica guidata da Arafat, quella di inventare il popolo palestinese da usare come arma contro Israele, prima di allora inesistente. Nessuno sopportò la vittoria israeliana sui paesi arabi e il risultato fu che nel 1967 il mondo dimenticò tutto quello che aveva conosciuto e riconosciuto per secoli, la Storia fu rinnegata e ne riscrissero una nuova con un popolo inventato e " martire" e un altro descritto come occupante, assassino, discendente dei nazisti. Si, Il mondo dimenticò tutto, si assoggettò ad Arafat, si vendette agli arabi, ondate di violenza antiebraica scossero tutta Europa, quello che rimase inalterato fu l'odio ancestrale che sentiva per l'ebreo e ne fece ancora una volta il capro espiatorio dei suoi umori. La grande menzogna divenne storia, politici e intellettuali si fecero comprare, imbrogliare, lavare il cervello dalla propaganda araba, i pacifisti, sempre violenti e pieni di odio antiebraico, divennero eroi, i terroristi divennero martiri, gli assassini furono ricevuti dai grandi del mondo come capi di stato. Incominciò così il periodo più terribile per Israele, incominciarono gli anni del TERRORE. Ebbe inizio l'incubo del terrorismo quotidiano, 10, 20 attentati al giorno per le strade di Israele, cinema. pizzerie, ristoranti, autobus saltavano per aria portando con se civili israeliani, bambini, donne, famiglie intere che morivano tra le fiamme colpiti da migliaia di pallini di acciaio con cui i terroristi riempivano le loro bombe. Nessuno in Israele può dire di non avere un parente o un amico morto a causa del terrore palestinese. Nessuno. Il mondo ha distolto lo sguardo dalle sinagoghe brucianti di Gaza, dalle pizzerie di Haifa e dai banchetti nuziali di Netanya sventrati dagli shahid e dai mullah che considerano gli ebrei armenti da olocausto. Non ha voluto leggerle le piccole grandi storie degli ebrei uccisi perché ebrei. Non hanno visto che l’embrione statuale palestinese è stato trasformato nel retroterra di faide, fltne e lanci di missili sugli asili nido di Sderot.
E la sinistra? La nascita dello Stato di Israele fu salutata dalla sinistra europea (l'allora URSS votò a favore alla società delle Nazioni) come una "doverosa presenza di una democrazia in un mare di nazioni dominate da un tribalismo medioevale". Ricordo, qualora fosse necessario, lo spirito genuinamente socialista e collettivista che attraversò almeno i primi due decenni della società israeliana. Insomma c'erano tutte le premesse per una duratura luna di miele. Pier Paolo Pasolini, su Nuovi argomenti del giugno 1967 paragonava l’invasione nazista dell’Italia all’invasione araba del nascente stato ebraico. “Nel Lago di Tiberiade e sulle rive del Mar Morto ho passato ore simili soltanto a quelle del 1944 ho capito, per mimesi, cos’è il terrore dell’essere massacrati in massa. Ma ho capito anche che gli israeliani non si erano affatto arresi a tale destino”. L'idillio si è interrotto allorché nella sinistra è apparso un forte sentimento anti-americano (erano gli anni della guerra in Vietnam) e, la resistenza e la conseguente vittoria israeliana della "Guerra dei sei giorni" del 1967, cui tutti assistemmo con trepidante preoccupazione anche a sinistra, e ci svelò un Israele forte come una superpotenza. Per la sinistra sembrava quasi intollerabile stare dalla parte del più forte anche se Israele doveva fronteggiare l'odio di feroci eserciti che volevano distruggerlo. Tanto più che nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni l’Unione Sovietica, tanto amata dalla sinistra, ruppe i rapporti diplomatici con Israele e si schierò definitivamente con gli Stati arabi. I palestinesi - termine che fino ad allora non aveva una connotazione "nazionale" ma designava gli abitanti arabi al di qua del fiume Giordano, frutto di una spartizione britannica sbrigativa e insolente -, fino allora residenti in quella terra che avevano conteso e perduto a seguito della guerra, si rifugiarono presso gli stati arabi confinanti (e furono organizzati dagli Stati perdenti come una nuova arma da usare contro Israele). E volete a questo punto che la sinistra non accolga e faccia proprie le "istanze" di un popolo "allontanato" dalla sua terra? E se c'è persino un nascente movimento pronto a coagulare a sé una specie di Risorgimento arabo contro l'aggressore, la sinistra non è invitata a nozze? A questo aggiungiamoci la sempiterna amicizia americana per Israele tanto odiata dai comunisti dell'epoca, e abbiamo tutti gli elementi. Elementi il cui pregiudizio non è cessato fino adesso. Da noi la questione palestinese è stata per decenni il cavallo di battaglia di una sinistra pretestuosamente anti israeliana. E di una stampa devotamente allineata. Vittima di una sorta di complesso pavloviano la nostra stampa persevera nelle vecchie abitudini. La manifestazione più grave di questo cronico riflesso condizionato è l'incapacità, talvolta, di distinguere la causa palestinese da quella di Hamas ritrovandosi così al servizio della propaganda fondamentalista. A differenza dei giornali stranieri molte testate nostrane continuano a raccontarci un'inesistente guerra di Israele ai palestinesi anziché lo scontro con una fazione che ha fatto del terrorismo la sua principale arma. Una fazione che ha attuato violenze di ogni tipo contro il popolo palestinese e contro i civili ebrei. Ogni volta che i terroristi attaccano Israele costringendolo a rispondere per difendersi, la sinistra italiana, quasi tutta, parlo di quella politica, di quella mediatica e di quella delle persone comuni, non riesce a liberarsi di preconcetti, pregiudizi, terzomondismo di maniera e ottusità nell'analizzare e commentare la guerra in atto fra Israele e la sanguinaria organizzazione terroristica di Hamas. Dopo i crolli dei muri e di un sistema politico che esiste e persiste, nel suo aspetto più deteriore, esclusivamente, in Corea del Nord, la sinistra, orfana di riferimenti ideologici, spiazzata dall'attivismo dei movimenti, impreparata a cogliere e governare le mutazioni economiche e sociali, che la globalità produce, incapace di intercettare le nuove istanze e problematiche dei cittadini, cerca ancora di più rifugio e consenso con un abbraccio mortale con i presunti oppressi : I palestinesi, ovverosia con l'organizzazione terroristica di Hamas, non essendo, neanche in grado, di distinguere gli uni dagli altri (totale ignoranza della storia mediorientale, Hamas sono dei criminali che schiavizzano ed opprimono i palestinesi). Si sono bevute tutte le bufale contro Israele, in un delirio crescente di omissioni, falsità e immoralità. La sinistra, ogni qual volta ci sia di mezzo Israele, perde lucidità e razionalità, con una buona dose di malafede e nel tentativo, maldestro, di cercare di far credere di stare dalla parte giusta, che giusta non è.......!!!
PS: nel libro di Valentino Baldacci " 1967. Comunisti e socialisti di fronte alla guerra dei Sei giorni ", è documento quello che accadde in quel momento alla sinistra italiana, riportiamo qui di seguito una beve presentazione tratta da La Stampa. Lo strappo dell’Unità, le accuse di Rinascita e il cambiamento di posizione dell’Espresso ma anche le risposte dell’Avanti! e i dubbi di Mondo Operaio: Valentino Baldacci descrive Comunisti e socialisti davanti alla guerra dei Sei Giorni in uno studio di 638 pagine che ricostruisce la svolta della sinistra italiana che davanti al conflitto del 1967 si lacerò su Israele a causa dell’influenza dell’Urss sul Pci. Il valore del libro sta nella mole di documenti raccolti, non solo sui giornali ma sui leader politici, da Giancarlo Pajetta a Enrico Berlinguer, che consentono di rivivere un terremoto di posizioni che cambiò l’identità della sinistra italiana. Protagonista e erede della resistenza antifascista che si era battuta contro le persecuzioni degli ebrei e per la nascita di Israele, il Pci voltò le spalle allo Stato ebraico facendo proprie le posizioni dell’Urss che nel 1967 sposò il rifiuto totale dei Paesi arabi nei confronti di Israele. Il leader socialista Pietro Nenni e l’Avanti!, con gli articoli di Aldo Garosci, si opposero alla svolta filo-Urss in Medio Oriente del Pci, mostrando però incertezze e venature - a cominciare dalle pagine di Mondo Operaio - che vent’anni più tardi avrebbero portato Bettino Craxi a convergere con il Partito Comunista. Lo strappo avvenne facendo debuttare in Italia, in maniera quasi istantanea, le tesi sovietiche su «razzismo», «espansionismo» e «imperialismo» del sionismo per delegittimare le fondamenta dell’esistenza di Israele, occidentale e dunque nemico.
Perché l'ideologia di sinistra è errata ed immorale, continua Veromedioriente. Premessa: tratto da informazione corretta. Nell'anti-israelismo e nell'antisionismo c'è spesso una base tradizionalmente antisemita, questo è chiaro. Israele non è solo lo stato degli ebrei, è l'ebreo degli stati e viene trattato come gli ebrei venivano trattati durante l'esilio: ghettizzato, discriminato, boicottato, sospettato di crimini ridicoli e spesso infamanti, come “ammazzare bambini”. Grazie a un millennio e mezzo e passa di martellante antigiudaismo cristiano, gli ebrei sono il gruppo che viene facile odiare e il loro stato, che non doveva mai essere costituito secondo la sensibilità cristiana (perché l'esilio dell'ebreo errante faceva parte della punizione del “popolo deicida”) segue la stessa sorte, unico fra gli stati del mondo. Ma oltre a questa radice teologico-politica, nello schieramento istintivo da parte di molta sinistra a favore del terrorismo arabo vi è qualcosa di più generale, che si ripercuote anche contro Israele: l'idea che bisogna schierarsi con loro, anche se usano metodi di lotta atroci e inumani, perché sono i “più deboli”, “gli oppressi”, e dunque i nuovi proletari, la “moltitudine” di cui parlava Toni Negri nel suo best seller internazionale “Impero”. E' un atteggiamento così diffuso e irriflesso che non si può non farci i conti. Ma bisogna dire che esso è radicalmente sbagliato. E' sbagliato sul piano etico, naturalmente. Il drone o l'aereo che cerca di uccidere il terrorista può sbagliare, naturalmente e coinvolgere persone che non c'entrano. In guerra è sempre successo, purtroppo, e questo è un buon motivo per cercare di evitare le guerre, per tentare di risolvere le dispute sul piano pacifico. Ma il colpo mira a un bersaglio preciso, a un combattente nemico. Il terrorista suicida che si fa saltare nella metropolitana, o come è successo spesso in Israele negli autobus nei caffè nei supermercati nei ristoranti non cerca neanche di distinguere, non si dà obiettivi militari, se la prende con la gente qualunque dall'altra parte della barricata. Lo stesso fanno i razzi di Hamas, le molotov e i sassi sulle macchine, gli accoltellamenti casuali, le stragi di civili di altra religione, magari dopo aver marcato la loro casa con un segno infamante come facevano i nazisti. C'è in questo modo di combattere l'idea, tipicamente razzista, che tutto l'altro popolo sia non solo nemico, ma degno di morire in massa, salvo che eventualmente si sottometta e si converta. Questo modo di combattere senza distinzione fra civili e militari è tipico dell'Islam, è all'origine del genocidio armeno e assiro, della distruzione dei greci che abitavano e avevano fondato le città della costa asiatica dell'Egeo che oggi si dicono turche, delle conquiste islamiche antiche della Spagna, dell'Africa del nord, della Mesopotamia. Ma in questo modo di vedere le cose vi sono anche degli errori di fatto. Non è vero che gli arabi siano gli “umili”, i “deboli”. Loro non si vedono affatto così. Storicamente hanno sempre pensato a se stessi come i signori e si battono per riconquistare questo ruolo, che considerano oggi provvisoriamente usurpato. Sono stati storicamente i più grandi colonialisti: partiti dalla penisola arabica deserta e spopolata, hanno conquistato e arabizzato mezzo mondo, accumulando ricchezze gigantesche depredate ai popoli che conquistavano e opprimevano, distruggendo la loro cultura e la loro economia. L'Africa del Nord era il granaio dell'Impero Romano, abitata da popolazioni berbere; la conquista araba le ha rese spopolate, incolte… e arabe; la Mesopotamia era abitata dai babilonesi, la Siria dagli assiri, che parlavano l'aramaico, ora virtualmente estinto. L'Africa nera fu depredata dai mercanti di schiavi arabi, che per un certo periodo fornirono gli inglesi di carne umana per le colonie americane, ma molto più a lungo servirono il mercato domestico arabo. Le regole del Corano sono tipicamente coloniali: gli indigeni conquistati sono inferiori, se non si convertono devono riscattare la loro sopravvivenza con umiliazioni legali e fiscali senza fine. Anche il territorio dell'antica Giudea e dell'attuale Israele è stato sottoposto a queste pratiche di arabizzazione forzata e anche di immigrazione islamica dall'Egitto, dall'Arabia Saudita, perfino dall'Anatolia e dal Caucaso. La “questione palestinese” in buona parte deriva da queste pratiche coloniali. E' facile mostrare che la “Nakbah” palestinese consiste esattamente in questa condizione di non essere più i padroni coloniali del Medio Oriente. Quanto alla miseria, essa è essenzialmente autoinflitta: non c'è regione al mondo che abbia guadagnato tanto senza sforzo nell'ultimo secolo, quanto i paesi arabi del Medio Oriente col petrolio. Quel che non ha funzionato è il meccanismo di redistribuzione, di diversificazione, di investimento. I ceti dominanti arabi hanno usato questo denaro per godere di un lusso illimitato e non hanno pensato affatto a far vivere un'economia produttiva, a elevare la condizione di vita dei loro ceti popolari. I poveri arabi sono stati sfruttati, sì, ma dai loro capi, non dall'Occidente o da Israele. Con gli ebrei è accaduto l'opposto. Oppressi per secoli in terra di Israele dai loro colonizzatori arabi, trattati come gli ultimi, oppressi spesso sterminati sia nel mondo islamico sia in quello cristiano, quando hanno potuto liberarsi hanno cercato di arrivare in Israele. Ci sono riusciti finalmente in massa a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, arrivando per lo più poverissimi, armati solo delle loro braccia, della loro intelligenza e del loro amore per la terra, aiutati in parte da donazioni degli ebrei europei più benestanti a comprare della terra che hanno sviluppato con straordinario successo. La creazione di Israele è un atto di decolonizzazione sia dagli occupanti britannici sia dai colonialisti arabi. Il benessere attuale di Israele è la dimostrazione che un territorio desertico e desolato può essere reso fruttuoso col lavoro e che il fattore umano è almeno altrettanto importante per l'economia della ricchezza delle materie prime. L'odio arabo per Israele è in buona parte invidia, volontà predonesca di prendersi i beni che sono stati accumulati con la fatica di generazioni – invece di rimboccarsi le maniche e costruirli a propria volta. Gli ebrei sono odiati dagli arabi perché erano oppressi erano schiavi e si sono emancipati. I progressisti dovrebbero stare dalla parte di una società di schiavi liberati (come già Israele fu all'uscita dall'Egitto). Ma la miopia ideologica impedisce di vedere le radici storiche dei problemi e ne coglie solo gli aspetti superficiali: i “poveri” palestinesi che rivendicano una terra “loro” (cioè che una volta occupavano come colonialisti, o piuttosto emanazione locali dei colonialisti turchi) e dato che l'esercito israeliano ha il torto di impedire loro di ammazzare liberamente gli ebrei, si danno, poverini, al terrorismo. I palestinesi hanno fatto un ottimo affare prendendo di mira Israele, specialmente negli anni ‘70. Praticare il terrorismo contro lo stato ebraico ha innescato decenni di accuse contro le vittime di quel terrorismo e di giustificazioni per i colpevoli. L’ostilità antisemita che tanti occidentali nutrono nei confronti di Israele, l’ebreo fra gli stati, rafforzò il diffondersi della cultura post-anni ‘60 della colpa occidentale, dell’abiura, della condiscendenza e della legittimazione verso qualunque nemico violento a patto che si potesse dipingere come gente del terzo mondo. Il democratico Israele, costretto a difendersi, venne dipinto come una potenza imperiale e non uno stato assediato, mentre i terroristi palestinesi vennero rappresentati come combattenti per la libertà e non come assassini invasati. Anziché considerare quanto siano pochi i popoli, molto più sofferenti dei palestinesi, che si danno al terrorismo; anziché domandarsi come mai i palestinesi prendono di mira sistematicamente donne, bambini e anziani innocenti, i portabandiera del “dare sempre la colpa a Israele” ribaltavano la colpa sulla vittima: Israele deve essere reo di chissà quale atroce oppressione per tirarsi addosso un odio tanto spietato, sostenevano i campioni del politicamente corretto invece di analizzare il culto della morte palestinese che alimentava antisemitismo e fondamentalismo islamico. La condiscendenza occidentale verso il terrorismo palestinese ha dimostrato che lo slogan “il terrorismo non paga” è pura farneticazione: in realtà il terrorismo funziona grazie alla arrendevolezza dell’Occidente. La violenza terroristica impose i palestinesi all’attenzione internazionale, facendoli diventare le vittime per eccellenza agli occhi di tanti terzomondisti totalitari che oggi ne ingigantiscono i patimenti, la debolezza e la centralità.
Appendice: cosa successe nel 1967, quando il mondo dimenticò tutto e cominciò ad odiare ciecamente Israele? Bisogna fare un passo indietro. Nel 1955 l’Unione Sovietica decise di “cambiare cavallo”: dall’appoggio politico dato a Israele nel 1948, passò ad appoggiare, politicamente e militarmente, l’Egitto, fino a rompere pretestuosa-mente le relazioni diplomatiche con Israele. L’Egitto di Nasser voleva prendersi la rivincita della sconfitta subita nel 1948 e 1949, e incominciò ad ammassare nel Sinai truppe e mezzi corazzati forniti dall’URSS. Nel 1956 Israele prevenne l’attacco egiziano e travolgendo i mediocri mezzi motorizzati forniti dall’URSS, occupò tutto il Sinai, giungendo fino al Canale di Suez. Le pressioni e le garanzie americane persuasero pochi mesi dopo Israele a ritirarsi da tutti i territori egiziani occupati. A partire dai primi anni Sessanta l’Egitto ricominciò a preparare una seconda rivincita, con l’aiuto ormai tanto scoperto quanto massiccio, dell’Unione Sovietica, che mirava a sostituire l’influenza americana nella regione con ogni mezzo. I raid di terroristi palestinesi e di commando egiziani contro kibbutz israeliani si moltiplicavano, partendo dalle basi di Gaza. In perfetta sintonia si muovevano dal fronte opposto i siriani, i quali dalle alture del Golan sparavano con le loro artiglierie sui sottostanti insediamenti e kibbutz ebraici di Galilea. Dopo alcuni mesi di tensione, il 7 aprile 1967 artiglierie e carri armati siriani attaccano pesantemente villaggi ebraici di frontiera. Damasco fa alzare in volo i suoi caccia, ma quelli israeliani ne abbattono sei. L’umiliazione di Damasco è cocente. L’URSS riprende massicciamente i suoi rifornimenti di armi alla Siria e all’Egitto. Poi a maggio i suoi servizi segreti forniscono a siriani ed egiziani un’informazione falsa. Dicono cioè che Israele ha ammassato truppe e mezzi corazzati ai confini con la Siria. Il Segretario Generale dell’ONU, Sithu U Thant, smentisce: “I rapporti degli osservatori delle Nazioni Unite hanno confermato l’assenza di concentramenti di truppe o movimenti di truppe di qualche rilievo su ambo i lati della linea armistiziale “. Il 14 maggio è l’Egitto che fa sbarcare numerose unità oltre il Canale per rinforzare il suo già massiccio schieramento nel Sinai. 1116 maggio il Presidente egiziano Gamal Abdel Nasser intima al comandante delle forze dell’ONU nel Sinai e a Gaza, generale Rikhye, di sgombrare le truppe presenti nel Sinai dal 1957, all’indomani del conflitto che aveva visto Israele arrivare al Canale di Suez. Poi Nasser proclama il 22 maggio il blocco dello Stretto di Tiran: nessuna nave, di nessuna nazionalità, che si rechi al porto di Eilat, in Israele, o che da Eilat parta, potrà più passare. Secondo il diritto internazionale è “atto di guerra”. Le dodici potenze marittime non onorano le garanzie che nel 1956 avevano offerto a Israele per la libertà di navigazione, e non mandano le loro navi da guerra a proteggere la libertà di navigazione. Il 30 maggio re Hussein di Giordania mette le sue truppe sotto il comando egiziano. Truppe egiziane, saudite, irachene affluiscono in Giordania. Truppe irachene, algerine e kuwaitiane raggiungono invece l’Egitto. Il 3 giugno il generale Murtaji, capo delle forze egiziane nel Sinai, dirama un ordine del giorno alle truppe, nel quale invoca “la Guerra Santa con cui voi ristabilirete i diritti degli arabi conculcati in Palestina e riconquisterete il suolo derubato della Palestina “. (Da notare che il generale parla di arabi e di Palestina, ma non di palestinesi, che nessun paese arabo nel 1967 conosceva e riconosceva, tanto è vero che quando la Cisgiordania era parte della Giordania non si sentiva neanche parlare di sovranità palestinese). Il 5 giugno 1967, all’alba, Israele risponde. Israele vince la guerra e tutto il mondo lo odierà per aver vinto. Da allora diventerà una nazione da diffamare e perseguitare. Potere della stupidità umana. Come ben ricordato qui, da cui si trae quello che segue, i propagandisti filopalestinesi parlano oggi di “confini del '67” per definire le linee armistiziali stabilite dopo la guerra di indipendenza del '49 e lo fanno perché è stato nel '67, con la guerra “dei sei giorni” che Israele ha liberato Giudea, Samaria, Gaza e il Golan. Di qui parte tutta la problematica attuale di questi territori, secondo loro: la “colonizzazione” e tutto il resto. Sapete che cosa accadde subito dopo? “Il 19 giugno del 1967, il governo di unità nazionale [di Israele] votò all'unanimità di restituire il Sinai all'Egitto e le alture del Golan alla Siria in cambio di accordi di pace. Il Golan avrebbe dovuto essere smilitarizzato e un regime speciale sarebbe stato negoziato per lo Stretto di Tiran. Il governo deliberò inoltre di avviare i negoziati con il re Hussein di Giordania per quanto riguarda il confine orientale.” Sapete chi ha scritto queste righe? Chaim Herzog, il padre dell'attuale leader della sinistra, uomo di tutt'altra tempra rispetto a lui (la citazione viene da Herzog, Chaim (1982). “The Arab-Israeli Wars”. Arms & Armour Press).
Insomma, immediatamente dopo la guerra trionfale, Israele era disposto a rinunciare a Sinai e Golan e forse anche a buona parte di Giudea e Samaria in cambio della pace: una grandissima occasione per risolvere il conflitto. E sapete che cosa accadde allora? Ci fu una conferenza a Khartoum, un mese e mezzo dopo, cui parteciparono i capi di stato dei più importanti paesi arabi e anche l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina che decisero una politica che divenne famosa sotto il nome di “I tre no”: No alla pace, no al riconoscimento di Israele, no alle trattative. Un'altra occasione perduta, forse la più importante di tutte, anche se prima c'era stata la risoluzione dell'Onu nel '47 e poi ci sarebbero state le trattative del '99 e del 2000, e poi quella con Omert. Poi le cose sono un po' cambiate, il mondo arabo ha delegato all'OLP e all'Autorità Palestinese la guerra a Israele, avendo altro di cui occuparsi, lo stato ebraico si è radicato profondamente e non appare così facile da eliminare di colpo, la strategia si è trasformata in un'impresa a tappe, di lunga durata. E molta acqua è passata sotto i ponti. Israele ha offerto di nuovo possibilità di pace, ma i palestinisti hanno sempre detto di no, perché pensavano che il tempo lavorasse per loro. E ancora lo pensano, grazie all'appoggio della sinistra mondiale, che ormai ha l'egemonia sugli Stati Uniti e l'Europa. Molte trattative si sono aperte, molte si sono rotte a seguito dei no palestinesi. E' importante ricordarlo, perché di solito non se ne parla.
E gli ebrei rifiutarono il ricatto antisionista, scrive su Il Corriere della Sera Paolo Mieli il 15 maggio 2012. La deflagrazione tra Israele e il Partito comunista italiano avvenne tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno del 1967. A fare da detonatore per l’esplosione, fu la «guerra dei Sei giorni» con cui lo Stato ebraico reagì ad una minaccia di distruzione e sconfisse il fronte arabo, che rappresentava una popolazione venticinque volte superiore a quella israeliana. Già la sera del 28 maggio – pochi giorni prima del conflitto – si tenne a Roma, al portico d’Ottavia, una veglia per Israele nel corso della quale l’architetto Bruno Zevi, il quale fino a pochi anni prima si definiva «azionista-comunista», disse: «Io non desidero polemizzare con i comunisti più del dovuto, perché noi tutti sappiamo che i comunisti sono stati in molte occasioni a fianco della minoranza ebraica italiana, perché sappiamo che ogni volta che, nel passato, questo quartiere ha subito offese antisemite, i comunisti sono stati tra i primi a venire qui e a portarci l’aiuto della loro solidarietà». Poi, con un crescendo di voce, («senza rancore, senza astio ma con chiarezza», precisò), puntando l’indice verso le Botteghe Oscure, aggiunse: visto che, come dite, «c’è il pericolo che gli Stati Uniti sostengano Israele, perché, per evitare che tale pericolo si concretizzi, non premete sull’Unione Sovietica affinché sia l’Unione Sovietica ad aiutare Israele?» Domanda fintamente ingenua, dal momento che Zevi quella sera sa benissimo (e lo dice apertamente) che «l’Unione Sovietica, oltre a non aiutare Israele, istiga e arma i Paesi arabi che vogliono distruggerlo». E racconta di «molti comunisti che si trovano in uno stato drammatico di imbarazzo». A quel punto alcuni militanti del Pci chiedono di poter prendere la parola. Ma l’intellettuale ex azionista Aldo Garosci pone la condizione che essi strappino in pubblico la tessera del loro partito.
Furono, quelli, giorni effettivamente di grande imbarazzo per quei pochi, pochissimi, intellettuali e dirigenti del Pci che, pur tra dubbi e cautele, vollero schierarsi dalla parte di Israele. Il direttore del quotidiano filocomunista «Paese Sera», Fausto Coen, fu costretto a dimettersi dopo che il capo della sezione esteri dell’«Unità», Alberto Jacoviello, era andato a rimproverare il «giornale fratello» per la linea eccessivamente benevola nei confronti di Israele e, in un’esplosione d’ira, aveva distrutto le matrici pronte per le, rotative. Jacoviello godeva del pieno sostegno dell’allora direttore dell’«Unità» Gian Carlo Pajetta, che si era schierato senza esitazioni dalla parte dell’egiziano Nasser. E Pajetta divenne bersaglio di lettere oltremodo polemiche da parte di ebrei. Scrisse Mario Pontecorvo: «Io non credo che lei nell’animo possa veramente appoggiare Nasser che, è noto, distribuisce il Mein Kampf tra i suoi ufficiali». Vittorio Da Rodi fu ancora più diretto: tra i soldati di Israele, «che tu oggi accusi di aggressione, vi sono coloro che combatterono in Italia per la liberazione della tua e mia patria dal fascismo, prima ancora che tu, Pajetta, potessi fare il partigiano». Gli autori di queste e moltissime altre missive, però, più che gli esponenti del Pci prendevano a bersaglio gli «ebrei comunisti», accusati dì essere simili ai loro correligionari de «La Nostra Bandiera», il foglio israelita che negli anni Trenta si era schierato con il regime fascista. Bersaglio privilegiato di questa offensiva fu il senatore comunista (ebreo) Umberto Terracini, definito dalla rivista «Shalom» «associato alla campagna antisemita dei suoi compagni di Polonia». Altro bersaglio fu Franco Fortini (ebreo solo da parte di padre, che nel 1940 aveva lasciato il cognome originario, Lattes, per prendere quello della madre) per aver dato alle stampe un libro, I cani del Sinai (De Donato), nel quale si accusavano le «dirigenze politiche israeliane» di essere «compartecipi» degli «interessi economico-militari americani e, subordinatamente, inglesi» in Medio Oriente. Ma l’uomo dello scandalo, se così si può dire, fu il senatore comunista Emilio Sereni, fratello di Enzo, grande esponente del sionismo italiano morto a Dachau nel 1944. Emilio (Mimino) Sereni disapprovò «certe affermazioni» dei leader arabi, ma esortò a non dimenticare «la responsabilità che Israele porta per aver discriminato e cacciato un milione e trecentomila arabi e per aver partecipato all’aggressione del 1956, quando sarebbe stata una scelta lungimirante la solidarietà con Nasser che nazionalizzava la compagnia di Suez». Anche a lui giunse una pioggia di lettere da parte di correligionari. Dario Navarra: «Vede senatore, certe volte il nome che si porta può essere un peso, soprattutto se è un nome bello, legato ad una tradizione, ad un’idea; forse è una delle tragedie della civiltà moderna quando i figli rinnegano i padri ed i fratelli si tradiscono a vicenda». Renato Salmoni (reduce da Buchenwald, tiene a precisare di non essere «un accanito sionista»): «Trovo che per una questione di opportunità e diciamo di buon gusto, lei farebbe meglio a tacere». Suo cugino, il succitato Mario Pontecorvo, accusò Sereni di «servilismo fazioso» nei confronti del Pci e si spinse a chiedere che venisse «espulso da ogni forma di manifestazione ebraica».
Questo genere di persone, scriveva ancora «Shalom», «devono solamente decidere se, in quanto uomini e in quanto ebrei, debbano appoggiare un gruppo ebraico minacciato di sterminio, oppure se valga per loro la pena, come comunisti, di accettare il sacrificio dei loro fratelli sull’altare dell’ideologia». E quando Arturo Schwarz, uno di questi israeliti difensori delle ragioni degli arabi, aveva avuto l’auto sfregiata da una svastica e da una scritta inneggiante ai palestinesi, «Shalom» aveva dedicato all’accaduto un articolo irridente fin dal titolo (Le piace Schwarz?) in cui si scriveva: «Forse qualcuno lo aveva preso per un ebreo vero». A questi tormenti del 1967 sono dedicate le pagine centrali del libro di un brillante allievo di Salvatore Lupo, Matteo Di Figlia, Israele e la sinistra, pubblicato da Donzelli. Correttamente, però, il volume fa risalire la prima rottura tra ebrei e mondo comunista non già al 1967, bensì al 1952. Ed era stata una rottura dolorosa, dal momento che fino ad allora il rapporto tra socialisti, comunisti ed ebrei era stato molto stretto. Il 7 gennaio del 1946, quando partì da Vado Ligure la nave «Enzo Sereni» piena di israeliti che emigravano in Palestina, c’era un gruppo di ex partigiani rossi a vigilare sulle operazioni di imbarco. E nell’ottobre dello stesso 1946, dopo l’attentato dell’Irgun (organizzazione militare della destra sionista) all’ambasciata britannica di Roma, carabinieri e polizia sospettarono – è scritto in rapporti di due anni dopo – il coinvolgimento di persone del Pci «che mirerebbero a far tramontare definitivamente l’influenza inglese in quella regione». Anche 11 Partito socialista italiano, in particolare Pietro Nenni, fu in prima linea nel difendere le ragioni di Israele e a esaltare i kibbutz come un modello di socialismo. Molti ragazzi di sinistra, anche non ebrei, decisero di trascorrere un periodo in Israele a lavorare in qualche kibbutz. Il futuro leader di Potere operaio Toni Negri, all’epoca giovane socialista, scelse («inseguendo una gentile fanciulla») di trascorrere un anno in un kibbutz del Mapam e lì in Israele (ne ha scritto in Pipe-line. Lettere da Rebibbia, edito da Einaudi nel 1983 e riproposto da Derive Approdi nel 2009) gli parve di poter finalmente vivere «pratiche tanto elementari, quanto radicali di comunismo»: «C’era, mordeva il reale quest’utopia; era concreta», fu la sua impressione. Socialisti e comunisti sostennero sui loro giornali l’emigrazione ebraica (è stato ritrovato un manifesto del Pci raffigurante una nave che fa rotta verso la Palestina, in cui si invitano militanti e simpatizzanti a raccogliere fondi a favore degli ebrei) e, nel 1948, dopo la nascita di Israele, Umberto Terracini ne chiese immediatamente – a nome del Pci – il riconoscimento. Nel mondo ebraico era nato nel 1945, su iniziativa di Joel Barromi e, poi, Marcello Savaldi, il Centro giovanile italiano del movimento sionista pionieristico «Hechalutz», che non nascondeva le proprie simpatie per il comunismo. Nella mozione di un congresso di «Hechalutz» (1947), l’organizzazione dichiarava di unirsi «ai lavoratori italiani nello sdegno per l’eccidio del Primo maggio a Portella della Ginestra, riaffermando in questa occasione la solidarietà con i partiti progressisti d’Italia». In un articolo del loro giornale si poteva leggere: «Disgraziatamente per noi, impariamo a nostre spese che l’ebraismo della diaspora non conosce proletariato». E ancora: «Mancano quei tipi quadrati di operai delle grandi officine, minatori, muratori, che nascono con l’istinto della lotta di classe e della solidarietà operaia; gli operai dalle schiene piegate che lavorano e studiano, vogliono conoscere e si ribellano al mondo che li fa lavorare, non li abbiamo mai visti tra noi ebrei; l’ebreo ricco che vende tappeti in un negozio di lusso e l’ebreo povero che vende cartoline su una bancarella non sono così lontani». Di passo in passo «Hechalutz» giunse ad auspicare «che il nostro Primo maggio non si limiti a richiedere l’unità dei lavoratori ebrei, ma miri ad una unità sempre più stretta coi lavoratori arabi». Ma venne, come dicevamo, il 1952. In molti paesi dell’Est europeo, ricostruisce Di Figlia, si tennero «una serie di processi sommari a imputati ebrei, tra cui spiccò quello a Rudolf Slansky, ex leader del Partito comunista cecoslovacco, impiccato lo stesso anno». Poi fu il 1953, quando a Mosca furono arrestati i «camici bianchi», medici ebrei accusati di aver complottato contro Stalin, e solo la morte del dittatore evitò l’avvio di una persecuzione antisemita per la quale si stava creando un clima adatto. In quegli stessi mesi un misterioso attentato all’ambasciata sovietica a Tel Aviv provocò la momentanea rottura delle relazioni diplomatiche tra Urss e Israele. In Italia socialisti e comunisti si schierarono senza esitazione dalla parte dell’Urss: «Il processo contro la banda Slansky», scrisse «l’Unità», «ha dimostrato come i dirigenti dello Stato d’Israele avessero posto il loro Stato e le loro rappresentanze diplomatiche all’estero, in particolare in Europa orientale, al servizio dei servizi di spionaggio americani». Ma qualche ebreo, come Amos Luzzatto, che nel dopoguerra si era iscritto al Pci, cominciò ad avere dei dubbi e, pur restando a sinistra, lasciò il partito. Non così Guido Valabrega, un israelita di Torino che nel 1950 si era trasferito in Israele in un kibbutz di Ruchama e da lì scriveva ai suoi familiari che la rottura dei rapporti diplomatici tra Urss e Israele era tutta da imputare al governo di Tel Aviv, «anticomunista quale non lo è nemmeno De Gasperi» (nell’agosto del ’53 Valabrega fu espulso dal kibbutz e raccontò poi di esserne uscito «cantando l’Internazionale e l’inno sovietico»). E neanche «Hechalutz», che accusò l’ebraismo italiano di «strumentalizzare i processi d’oltrecortina in chiave anticomunista». Quando poi, dopo la morte di Stalin, i «camici bianchi» furono prosciolti, «Hechalutz» ironizzò: «Era così comodo poter puntare sull’Idra sovietica all’attacco, la campagna antisemita era così utile agli stessi ebrei occidentali per la loro politica che oggi, sotto la patina di una sostenuta soddisfazione, si sente il rimpianto per un’occasione che va in fumo». E tutto proseguì come prima. Nel 1955, in occasione dell’anniversario della rivoluzione d’Ottobre, il giornale di «Hechalutz» pubblicò un appello inneggiante alla patria del socialismo che si concludeva con queste parole: «W l’Urss! W lo Stato di Israele! W l’amicizia eterna tra Israele e l’Urss». Poi però fu il 1956, con la guerra per il canale di Suez: l’Urss (impegnata a reprimere la rivoluzione ungherese) si schierò con decisione dalla parte di Nasser contro Israele. Il Pci prese le stesse posizioni. Anche se, ha notato Marco Paganoni in un bel libro, Dimenticare Amalek (La Giuntina), «l’Unità» all’epoca di, fendeva ancora lo Stato ebraico «scindendo recisamente le sue responsabilità da quelle di Francia e Gran Bretagna». Stavolta a sinistra si distinse il Partito repubblicano. Ugo La Malfa criticò l’intervento militare di Gran Bretagna e Francia, ma difese Israele contro Nasser. E in Parlamento l’ex ministro repubblicano della Difesa, Randolfo Pacciardi, puntò l’indice contro i comunisti: «Là, in Israele, avete un popolo che si è svenato per la sua libertà. In Egitto avete un dittatore che voleva consolidare la sua potenza proprio con le armi del- l’Unione Sovietica. E da ieri che quel dittatore andava predicando lo sterminio del popolo ebraico. Ma anche il popolo ebraico, se non siete diventati persino razzisti, ha diritto alla vita come tutti gli altri». Tra i comunisti la simpatia per Israele cominciò ad attenuarsi. Ha notato sempre Paganoni che già nel febbraio del ’57 sull’«Unità» si cominciò a parlare di «mire espansionistiche» dello Stato israeliano. E, all’epoca del processo contro Adolf Eichmann (1961), «l’Unità» scelse di mettere in risalto le connivenze con il nazismo degli imprenditori tedeschi (Dietro i Lager di Adolf Eichmann stavano i trust dei Krupp e dei Farben, fu il titolo del 22 marzo 1961; L’eccidio in massa degli ebrei fu anche un affare economico, proseguiva l’8 aprile); stabilì poi un paragone tra l’operato di Eichmann e quello delle potenze occidentali in Africa e accusò il cancelliere tedesco dell’epoca, Konrad Adenauer, di aver favorito il reinserimento nei ranghi istituzionali di molti ex nazisti. Così, quando si giunse alla «guerra dei Sei giorni», a difendere – da sinistra – Israele (repubblicani a parte) restò quasi solo il socialista Pietro Nenni, che si spinse ad accusare due importanti leader democristiani, Amintore Fanfani e Aldo Moro, di aver assunto, per via delle loro cautele in merito a ragioni e torti di quel conflitto, «posizioni tecniciste» che rispondevano a «un certo vuoto morale». Sull’«Avanti!» un esponente dell’ebraismo romano, Jacob Schwartz, lodò pubblicamente la «coerenza» mostrata da Nenni. Dalle colonne dell’«Unità» un leader allora in ascesa, Enrico Berlinguer, accusò Nenni di essere un epigono di «quel vecchio filone di interventismo sedicente di sinistra che ha finito sempre per colludere con quello reazionario». In quegli stessi giorni si consumò una divisione nel settimanale «L’Espresso», dove il direttore Eugenio Scalfari – pur con una grande attenzione all’uso delle parole – decise di prendere le distanze da Israele provocando una crisi con alcuni importanti collaboratori, tra cui Bruno Zevi e Leo Valiani. «Se gli anticomunisti sbagliano e sbagliano gli americani, è nostro obbligo dirlo con tanta maggiore fermezza in quanto si tratta non di errori degli avversari ma di errori nostri», scrisse Scalfari il 16 giugno del 1967 in una lettera personale a Valiani. Stesso genere di argomentazione – ma a parti invertite – fu quello usato da Pier Paolo Pasolini che in una lettera su «Nuovi Argomenti» scrisse: «L’unico modo di essere veracemente amici dei popoli arabi in questo momento non è forse aiutarli a capire la politica folle di Nasser, che non dico la storia, ma il più elementare senso comune ha già giudicato e condannato? O quella dei comunisti è una sete insaziabile di autolesionismo? Un bisogno invincibile dì perdersi, imboccando sempre la strada più ovvia e disperata? Così che il vuoto che divide gli intellettuali marxisti dal Partito comunista debba farsi sempre più incolmabile?» Ma Pasolini sbagliava previsione. Quelli che lui definiva «intellettuali marxisti» – ad eccezione dei radicali ricostituiti sotto la guida di Marco Pannella – si schierarono pressoché all’unanimità su posizioni simili a quelle di Scalfari. Persino ebrei comunisti (come il già citato Valabrega e, a Roma, il consigliere comunale Piero Della Seta) sostennero, racconta Di Figlia, la validità della posizione filoaraba dell’Urss e di altri Paesi socialisti, affermando che Israele «aveva attaccato per risolvere una crisi economica ormai evidente». Tra le poche eccezioni, quelle pur sorvegliatissime del giurista Luciano Ascoli e di Umberto Terracini, entrambi convocati «privatamente» dai vertici del Pci per rendere conto delle loro posizioni. Opportunamente Di Figlia tiene a precisare che è improprio ricondurre per intero al Pci questo contenzioso. Così come non si può «adottare l’unico canone interpretativo della cieca obbedienza a Mosca, abbastanza valido per gli anni Cinquanta, ma non per il periodo successivo». Il Pci «fu anti-israeliano mentre era impegnato in un farraginoso ma progressivo allontanamento dall’Urss, e molti gruppi nati dopo il ’68 che espressero giudizi durissimi verso Israele, osteggiavano apertamente il Pci e il modello sovietico». La scelta di Israele di mantenere i territori occupati nel 1967 fu avversata anche da molti esponenti del Partito socialista. A questo proposito, scrive Di Figlia, «è rilevantissimo il caso del Psi negli anni della segreteria di Beffino Craxi: questi non permise il prevalere di una corrente massimalista, scommise tutto su una svolta socialdemocratica e finalmente libera da ogni retaggio marxista; nello stesso periodo il Psi accentuò la vocazione filopalestinese». Non ci fu, dunque, «un’automatica correlazione tra critica a Israele e ortodossia comunista, né tra quest’ultima e l’antisemitismo di sinistra, che, nato da posizioni antisioniste, non va letto come il cangiante lascito di quello nazifascista, di quello sovietico, o dell’antigiudaismo cattolico». Ciò detto, dopo il 1967 i rapporti tra Israele e sinistra italiana – eccezion fatta per Pietro Nenni, Ugo La Malfa, dopo di lui Giovanni Spadolini, Giorgio La Malfa e l’intero gruppo dirigente repubblicano, intellettuali d’area inclusi – andarono sempre più peggiorando. Le linee dell’esposizione sono quelle già tracciate da Maurizio Molinari in La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993) edito da Corbaccio. La sinistra quasi per intero sposò la causa palestinese. Quella extraparlamentare, all’epoca influente, appoggiò i fedayn più radicali. Giorgio Israel ha così raccontato una cena estiva con un gruppo di amici: «A un certo punto, tra una chiacchiera e l’altra, un "compagno" toscano prorompe in un’invettiva violentissima contro gli ebrei: capitalisti, sanguisughe, imperialisti, assassini del proletariato e chi più ne ha più ne metta. Reagisco indignato, definendo il suo linguaggio come fascista e razzista, cerco di trovare ampia solidarietà e … sorpresa, mi ritrovo nell’isolamento più assoluto. Nessuno mi difende, nemmeno i più cari amici». Ai tempi dell’attentato di Settembre nero all’Olimpiade di Monaco (1972)1a solidarietà per gli atleti israeliani trucidati fu assai trattenuta. Stefano Jesurum, all’epoca militante del. Movimento studentesco, riferisce nel libro Israele nonostante tutto (Longanesi) di essere corso quel giorno dalla sua «fami, glia» politica, ma di essere stato gelato con queste parole: «Su questi temi voi compagni ebrei è meglio che stiate zitti». Nel volgere di pochi anni non valse più, mai, neanche l’evidenza dei fatti. Israele aveva sempre torto. Sempre. Nel 1973, in occasione della guerra dello Yom Kippur, dopo l’attacco dell’Egitto «l’Unità» sostenne che il «vero aggressore» era Israele per il fatto che non aveva ancora «restituito i territori occupati nel ’67». Anche se, con il passare del tempo, i dirigenti del Pci – in privato, però – cominciarono a prendere le distanze dai regimi arabi. In un libro di memorie (Con Arafat in Palestina. La sinistra italiana e la questione mediorientale, Editori Riuniti) l’allora responsabile della commissione esteri del Pci, Antonio Rubbi, ha raccontato che, negli anni Ottanta, dopo un viaggio in Libano, Siria e Iraq, Giancarlo Pajetta gli confidò di aver incontrato «una massa di imbroglioni e ipocriti». «Il Pajetta che ancora all’inizio degli anni Settanta parlava di "nazione araba" e di "socialismo arabo"», fu l’impressione di Rubbi, «semplicemente non esisteva più». Certo, qualcosa iniziava a cambiare. Giorgina Arian Levi, nipote acquisita di Palmiro Togliatti (in quanto figlia di una sorella di Rita Montagnana, prima moglie del segretario del Pci) passa da posizioni decisamente filosovietiche e anti-israeliane alla denuncia, ne11977, della propaganda contro Israele in Unione Sovietica, propaganda che, scrive, «sorprende per l’assenza di concrete argomentazioni politiche e per lo sconfinamento dall’antisionismo all’antisemitismo». «La sedimentazione antisemita che risale alla Russia zarista», prosegue, «non è del tutto morta, anche sessant’anni dopo la gloriosa rivoluzione d’Ottobre». Discorso a parte merita poi un’altra ribellione allo spirito dei tempi, alla quale Di Figlia dedica pagine molto interessanti. È quella del Partito radicale di Pannella. E di Gianfranco Spadaccia che, in un congresso, polemizza apertamente con quanti hanno la tentazione di sposare le iniziative filopalestinesi dell’ultrasinistra: «Vogliamo costruire una politica che abbia come bussola di orientamento… i diritti umani, la democrazia; basta battersi romanticamente per le lotte di liberazione che poi producono oppressioni più atroci». I radicali, osserva Di Figlia «non furono i neocon italiani, ma furono i primi a difendere le ragioni israeliane usando un tassello centrale della proposta neocon, cioè quello dei diritti umani». Su questa base, «il sostegno a Israele divenne un tratto distintivo del Pr negli anni di Pannella molto più di quanto non lo fosse stato in quelli di Mario Pannunzio». Bruno Zevi, in dissenso con la politica di Craxi tutta a favore di Arafat, prendeva la tessera del Partito radicale, di cui sarebbe divenuto presidente onorario. Ma il clima generale in Italia restava quello di cui si è detto prima. Per la sinistra, quasi tutta, gli israeliani dovevano sempre essere criticati e agli ebrei toccava il bizzarro (bizzarro?) compito di recitare in pubblico il «mea culpa» per quel che si decideva a Gerusalemme e a Tel Aviv. Nel 1982, quando Israele invade il Libano, scatta immediata e unanime la condanna da parte dell’intera sinistra. Un gruppo nutrito di ebrei italiani si affretta a sottoscrivere un manifesto, Perché Israele si ritiri, che reca in testa la firma di Primo Levi. Dopo il massacro di palestinesi a Sabra e Chatila (da parte dei falangisti libanesi che agiscono indisturbati per l’omesso controllo degli israeliani), i toni nei confronti di Israele si fanno più violenti. Per una strana (strana?) proprietà transitiva tali «critiche» vengono estese a tutti gli ebrei. Un corteo sindacale depone una bara sui gradini del Tempio di Roma. Poco tempo dopo, un attentato alla stessa sinagoga della capitale provoca la morte di un bambino: Stefano Taché. Questo orribile delitto provoca un soprassalto: da quel momento cambia qualcosa di importante, di molto importante. Viene allo scoperto un sentimento – fino ad allora quasi nascosto – di «appartenenza» orgogliosa al popolo ebraico: Natalia Ginzburg, Furio Colombo, Anna Rossi Doria, Fiamma Nirenstein (che pure aveva firmato l’appello di cui si è appena detto, criticato da suo padre, Alberto Nirenstein), Mario Pirani, Anna Foa, Janiki Cingoli, Clara Sereni, Gabriele Eschenazi rifiutano una volta per tutte – quanto meno chi fino a poco prima si era prestato – di recitare la parte degli «ebrei buoni» chiamati sul palco quando c’è da accusare Gerusalemme. Un ruolo fondamentale nell’accompagnare questa presa di coscienza lo svolge un intellettuale torinese, Angelo Pezzana (che stranamente nel libro di Matteo Di Figlia non è neanche citato). Ancor più importante, nel favorire questo risveglio di coscienza tra gli ebrei di sinistra, la rivista «Shalom» sotto la direzione di Luciano Tas. Dalle colonne di «Repubblica» Rosellina Balbi, con un coraggioso articolo, incita gli ebrei di sinistra a non sentirsi più in dovere di «discolparsi» per quel che ha fatto Israele. Piero Passino imprime al Pci una svolta nella politica estera che implica l’eliminazione del pregiudizio, una maggiore attenzione (di volta in volta) alle ragioni di Israele e ai torti del modo arabo: «Non si è posta sufficientemente in rilievo la centralità della questione della democrazia e dei diritti umani nei paesi mediorientali», riconosce, echeggiando le antiche posizioni del Partito radicale, in un’intervista ad Antonio Carioti che significativamente compare su «La Voce Repubblicana».
Il resto è storia recente, ben ripercorsa nelle pagine conclusive del libro di Matteo Di Figlia. Storia di anni in cui si è continuato, da sinistra, a criticare questo o quell’atto del governo israeliano, pur con toni duri, ma con una minore indulgenza a quel genere di antisionismo che per decenni aveva coperto vere e proprie forme di antisemitismo. Anche se il tic di chiedere ai «compagni ebrei» di essere in prima fila quando c’è da attaccare Israele è ben lungi dall’essere scomparso del tutto.
"Shoah causata da comportamento ebrei". Ed è bufera su Abu Mazen. Il leader palestinese: "L'odio verso gli ebrei non è causato della loro identità religiosa, ma dalle loro funzioni sociali". E cita l'usura e le banche, scrive Sergio Rame, Mercoledì 02/05/2018, su Il Giornale. Il presidente palestinese Abu Mazen è finito al centro di una bufera politica senza precedenti. Nella riunione del Consiglio nazionale palestinese, secondo quanto riferito dalla Bbc, avrebbe affermato che l'Olocausto è stato il risultato delle attività finanziarie e dai "comportamenti sociali" degli ebrei europei, come "l'usura, le banche e cose del genere". Queste dichiarazioni hanno subito scatenato l'ira dei politici israeliani e degli attivisti per i diritti umani che adesso lo accusano di antisemitismo. "In Europa orientale e occidentale gli ebrei sono stati periodicamente massacrati nei secoli, fino all'Olocausto", avrebbe detto Abu Mazen durante la riunione del Consiglio nazionale palestinese. "Ma perché è accaduto?", si sarebbe poi chiesto. "Loro dicono: 'È perchè siamo ebrei'. Vi porterò tre ebrei, con tre libri, che dicono che l'odio verso gli ebrei non è causato della loro identità religiosa, ma dalle loro funzioni sociali". Per Abu Mazen, insomma, il problema sarebbe "differente". "La 'questione ebraica', che era diffusa in tutta Europa, non era diretta contro la loro religione - avrebbe, poi, continuato - ma le loro funzioni sociali, legate all'usura, all'attività bancaria e simili". "Si tratta di osservazioni antisemite e patetiche", ha commentato un portavoce del premier israeliano Benjamin Netanyahu. "Abu Mazen dice che gli ebrei che prestano denaro hanno provocato l'Olocausto - ha twittato il viceministro per gli Affari diplomatici Michael Oren - ora c'è un partner per la pace". Una netta condanna per le dichiarazioni "antisemite" è stata espressa anche dalla Anti-Defamation League.
Ancora antisemitismo militante per Abu Mazen. Per il presidente dell’Autorità palestinese gli ebrei sono stati massacrati a causa del loro "comportamento sociale legato all'usura e alle banche", scrive il 2 Maggio 2018 Il Foglio. Mahmoud Abbas nell'ultima riunione del Consiglio nazionale palestinese di lunedì ha dichiarato che gli ebrei in Europa sono stati massacrati per secoli a causa del loro "comportamento sociale legato all'usura e alle banche". Per Abu Mazen la religione non c'entra nulla con lo sterminio della popolazione ebraica in quanto "dall'undicesimo secolo sino all'Olocausto in Germania, gli ebrei in Europa occidentale e orientale furono sottoposti a un massacro ogni 10 o 15 anni" e questo a causa dei "loro comportamenti all'interno delle comunità nelle quali vivevano". Nel suo discorso, Abbas ha più volte ribadito che Israele è "un progetto coloniale" europeo e che gli ebrei non avevano alcun diritto di rivendicare quei luoghi. "Ora si parla di questa terra come della patria degli ebrei", ha detto nella sua "lezione di storia" a Ramallah. "Dicono rivolevano Sion, ma la storia dimostra quanto questo sia infondato. La prova è che la prima persona a chiedere uno stato ebraico fu Oliver Cromwell nel 1653", riporta il Jerusalem Post. "Napoleone Bonaparte venne dopo di lui e disse la stessa cosa. E dopo arrivò Churchill. Tutti chiedevano uno stato ebraico, tutti a eccezione degli ebrei. La volontà di costruire uno stato nazionale è sempre stata una prerogativa degli stati coloniali". E questo perché "i leader europei hanno voluto piantare un popolo straniero in Palestina per favorire il conflitto e la divisione negli stati arabi e quindi mantenere il controllo su di loro e, quindi, continuare a sfruttarli". Il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, ha commentato queste dichiarazioni sottolineando come Abbas si sia dimostrato ancora una volta un "antisemita e patetico" e ciò dimostra come l'Olp continui a essere un problema per Israele. "Questo sì che è un partner per la pace", ha scritto in un tweet il vicepremier israeliano Michael Oren.
I Savi di Sion: storia della menzogna che giustificò l'Olocausto. Elio Lannutti ha ritirato fuori una della bufale più assurde della storia, che risale addirittura ai tempi dello Zar Nicola II, scrive globalist il 21 gennaio 2019. Lannutti del M5s ha ritirato fuori una delle bufale più antiche del mondo, che ha l'incredibile capacità di risbucare fuori qui e là nella storia recente. Le origini dei mitologici "Protocolli dei Savi Anziani di Sion" - che sarebbero un rapporto delle riunioni che i savi di Sion appunto terrebbero ogni 100 anni nel Cimitero di Praga, per decidere il destino del mondo - risalgono a un libello francese del 1864 di Maurice Joly, intitolato "Dialogo agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu". In realtà, nel testo di Joly non si fa alcun riferimento agli ebrei, ma solo a un gruppo di cospiratori (a loro volta ispirati a un fantomatico complotto gesuita immaginato da Eugene Sue nel romanzo I Misteri del Popolo). Da questo libello si scatenò l'immaginazione di un agente della polizia segreta russa, tale Pytor Ivanovich Rachovsky, che riprese l'opera di Joly e ideò per la prima volta i Savi di Sion. L'obiettivo di Rachovsky era minare il movimento bolscevico che puntava alla rivoluzione, collegandolo al forte antisemitismo già presente in Russia. Nel 1911, Serge Nilus, uno scrittore religioso e consigliere dello Zar Nicola II, diede alle stampe parecchie edizioni dei 'Protocolli', inventando che li aveva recuperati da una base sionista francese. Dopo il successo della Rivoluzione russa, molti nobili russi furono costretti a fuggire all'estero, dove conservarono molte copie dei protocolli, che rimasero nascosti fino al 1920 quando, in Inghilterra, sulla pagine del Morning Post, comparve un estratto dei Protocolli, recuperati da due cronisti antisemiti. Sempre nel 1920, una copia dei Protocolli comparve in Polonia e l'anno seguente, in Palestina e in Siria, gli arabi cominciarono a utilizzare i Protocolli per delegittimare l'occupazione ebrea, sostenendo che fosse parte del piano per conquistare il mondo. Nel frattempo, i Protocolli sbarcarono negli Stati Uniti: Boris Bastrol, un editore che era stato al servizio dello Zar ed era scappato per la Rivoluzione, pubblicò i Protocolli in inglese. Una copia del libro finì nelle mani nientemeno che di Henry Ford, magnate delle auto, che possedeva anche un giornale: nel 1920 il Dearborn Independent pubblicava una serie di articoli chiamati "L'Internazionale Ebrea: il Principale Problema del Mondo". Anni dopo Ford si scusò per l'errore, ma il danno ormai era fatto. I Protocolli raggiunsero la Germania nel 1918 per mano di Alfred Rosemberg, futuro ideologo del partito nazista, che ne sentì parlare quando era uno studente a Mosca. Rosemberg era estone e lasciò la sua città natale a causa della Rivoluzione russa. Rosemberg era solito tenere letture pubbliche dei Protocolli. E chi se non Adolf Hitler, nel 1925, fa parte del suo pubblico? Dopo il Mein Kampf, il libro di Rosemberg Il Mito del 20° Secolo, è stato il più influente testo nazista della storia, utilizzato per giustificare l'odio verso gli ebrei. Entro il 1944 aveva venduto più di un milione di copie. È incredibile vedere come la bufala dei Protocolli continui a spuntare fuori, anche in tempi recentissimi: in Egitto, una serie tv intitolata Faris bila Gawad (Cavallo senza cavaliere) è basata sugli immaginari protocolli ed è stata un successo in patria. Una copia dei Protocolli è stata pubblicata nel 2005 in Siria, da una casa editrice vicina al regime. E oggi, il giornalista Elio Lannutti, in un delirio antisemita, rimette in circolo una bufala che, tra le sue conseguenze, annovera anche l'Olocausto. È troppo persino per dei bufalari di professione.
Giornata della memoria, un monito contro l'indifferenza. Arriva in Italia "Il viaggiatore", un romanzo scritto nel 1938 dal giovane scrittore Ulrich Boschwitz. Una potente denuncia contro chi si volta dall'altra parte, scrive Wlodek Goldkorn il 25 gennaio 2019 su "L'Espresso". Per Anton Cechov, medico di campagna e autore di racconti che tutto ci dicono dei nostri cuori, l’indifferenza significa «la paralisi dell’anima e la morte prematura». E con questa frase si potrebbe riassumere quello che un altro grande scrittore e nostro contemporaneo, David Grossman definisce come «il male della nostra epoca». In un intervento a Milano Grossman disse: «È difficile scegliere di soffrire». Intendeva: l’empatia comporta assumersi una parte del dolore della vittima; e alzi la mano chi non fugge da una simile esperienza; scagli la prima pietra chi non è mai stato indifferente. Indifferente è la borghesia, priva di ogni etica, descritta da Alberto Moravia, giusto novant’anni fa. E contro l’indifferenza hanno parlato Sartre e Camus e tanti altri. Poi c’è la versione delle vittime. Marek Edelman, uno dei comandanti della rivolta nel ghetto di Varsavia e pure lui medico, quindi persona che con la morte e la sofferenza umana aveva dimestichezza, raccontava spesso la storia che segue. Fattorino dell’ospedale del ghetto, tra le sue mansioni c’era quella di portare documenti all’ufficio igiene del municipio, dalla parte ariana della città. Usciva quindi dal varco custodito dai soldati tedeschi e saliva su un tram per gli ariani, la fascia con la stella di David sul braccio. Diceva Edelman: «Guardavo le persone voltare lo sguardo altrove; l’indifferenza era, dal mio punto di vista, peggio della volontà dei nazisti di uccidermi». E dell’indifferenza parla la senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, persona che più di tutte si è adoperata perché a Milano sorgesse il memoriale alla deportazione degli ebrei, Binario 21, e una delle ultime testimoni della parte più preziosa e più in pericolo a causa dell’atmosfera che oggi si respira in Europa, della nostra memoria.
Dell’indifferenza, ora, parla un romanzo, “Il viaggiatore” di Ulrich Alexander Boschwitz, (traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli) che sta per uscire in Italia con Rizzoli. Pubblicato in Germania l’anno scorso, vero capolavoro del Novecento, scritto ottant’anni fa, il libro sebbene racconti la vicenda di una vittima dell’antisemitismo ai tempi di Hitler, in realtà narra di noi: non noi italiani o polacchi o tedeschi, ma noi europei, abitatori del vecchio e stanco continente, incapaci di assumerci il dolore dell’Altro, chiusi nel nostro ruolo di ottimi padri e madri di famiglia, attenti solo a non perdere il nostro benessere e la nostra, e dei nostri figli, presunta serenità. Ma procediamo con ordine. “Il viaggiatore” (in Germania il libro ha avuto un grande successo) è una storia che si svolge in pochi giorni, all’indomani della Notte dei cristalli, nel novembre 1938, quando i nazisti, con la partecipazione della popolazione, distrussero e incendiarono abitazioni, negozi, sinagoghe, luoghi di ritrovo degli ebrei e arrestarono migliaia di uomini. Al centro del racconto c’è un ricco commerciante, Otto Silbermann, un ebreo completamente assimilato, che pure nell’aspetto esteriore non assomiglia a un ebreo. Ha la moglie “ariana”, ha combattuto con valore ed eroismo nelle trincee della prima guerra mondiale, ha come soci in affari persone che non sono ebree e di cui si fida. Costretto alla fuga da casa sua a Berlino, comincia a vagare per tutta la Germania. Ogni giorno, o più volte al giorno, sale un treno che lo porta in una diversa città, con in mano una valigetta piena di banconote. Silbermann è un viandante nella paura e nell’indifferenza. Sta sempre sui treni, perché da ebreo non può stabilirsi in un albergo (se non per pochissime ore, prima che il proprietario si accorga della sua identità). I soldi dovrebbero dargli la sicurezza e forse la salvezza, ma non è così. Le persone che il protagonista di “Il viaggio” incontra in genere non sono cattive, sono solo troppo pavide per aiutarlo, oppure non vogliono vedere la sua sofferenza, non intendono condividere niente con un uomo che, per parafrasare Hannah Arendt, è ormai una non persona, un paria, un escluso dal consesso degli umani. Nel libro, un’opera che per molti versi ricorda il modo di scrivere e la profondità dello scavo psicologico di Albert Camus e di Franz Kafka (con citazioni e rimandi espliciti), c’è l’atmosfera dell’ambiente in cui era cresciuto lo stesso autore; e anche la sua vicenda ha qualcosa di romanzesco.
Boschwitz era nato, nel 1915, da un padre ebreo, benestante e assimilato, caduto in guerra mentre la madre, Martha Wolgast, era incinta. Martha Wolgast era a sua volta discendente di un’antica famiglia di fede protestante: senatori, facoltosa borghesia di Lubecca, un po’ come i Buddenbrook di Thomas Mann. Il ragazzo e la mamma fuggirono dalla Germania verso la Norvegia e poi la Svezia, nel 1935, due anni dopo la salita di Hitler al potere. Avevano i mezzi per capire l’avvenire e agire di conseguenza. Poi, dopo peregrinazioni tra Francia e Belgio, approdarono a Londra. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, i due in quanto cittadini tedeschi, quindi “nemici” della Gran Bretagna, vennero internati; il giovane Ulrich caricato sulla nave Dunera e spedito al confino in Australia; durante la traversata, gli internati, nazisti, anti-nazisti, ebrei, subirono ogni sorta di angheria (il comandante fu in seguito condannato da una corte marziale). Nel 1942 Boschwitz ottenne il permesso di tornare in Inghilterra, ma la nave che lo portava dall’Australia fu affondata da un siluro di un U-Boot tedesco, sull’Atlantico. Finiva così, all’età di 27 anni, la vita di uno scrittore geniale. “Il viaggiatore”, pubblicato in inglese nel 1939, con uno pseudonimo e un altro titolo, in Germania è stato scoperto appunto l’anno scorso dal curatore e autore della postfazione Peter Graf. Ecco, dunque che troviamo il signor Silbermann, che assomiglia idealmente al padre di Boschwitz, trattare la vendita al ribasso del suo palazzo, mentre i nazisti stanno sfondando la porta dell’appartamento. La controparte di Silbermann è un suo amico (ma lo è ancora?), Findler, che cerca di pagare pochi marchi per l’immobile. E quando la vittima ebrea rimprovera al tedesco la totale mancanza di empatia, per risposta sente le seguenti parole: «Amo mia moglie e la mia bambina. Con il resto dell’umanità faccio solo affari». Un ottimo padre di famiglia appunto.
Silbermann quindi va in un albergo e chiede una stanza, ma il direttore gli dice di andarsene, e aggiunge: «Non è colpa mia», mentre un cameriere ribadisce che le ordinanze contro gli ebrei «Non sono affare mio». Così comincia l’odissea sui treni, l’unico possibile e provvisorio rifugio. A un certo punto il nostro protagonista attraversa, clandestinamente, il confine con il Belgio. Catturato dai gendarmi, quando dice di essere un perseguitato, gli viene risposto: «Mica tutti possono venire in Belgio». Respinto verso la Germania, un poliziotto tedesco gli dice: «In questi tempi non ci vuole molto per recitare la parte della belva feroce davanti a un ebreo». Silbermann capisce di essere un fuorilegge non per le azioni che compie, o per quello che fa, ma perché così ha deciso il potere, mentre l’ex socio diventato nazista gli spiega che finalmente al potere è la maggioranza, il popolo, e non i pochi eletti che avevano disprezzato e reso vittime le persone comuni. Attenzione: le evidenti assonanze con i tempi nostri non riguardano la situazione “oggettiva” delle vittime. Non è in corso un’azione di sterminio dei diversi, dei non conformi. Semplicemente, oggi non si vuole vedere la miseria a il dolore degli Altri perché si pensa che quel dolore e quella miseria non parlino a noi e di noi. In altre parole, le assonanze stanno nella nostra indifferenza, nel nostro volgere lo sguardo altrui. Non è un’attenuante. Karl Jaspers parlava di quattro specie di colpa: quella penale, quella politica, quella morale (e che riguarda la coscienza di ciascuno di noi) e infine la colpa metafisica, ossia la violazione del principio di solidarietà tra gli esseri umani. La mancanza di empatia, insomma, come colpa che, essendo metafisica, riguarda pure il nostro rapporto con la trascendenza e con l’assoluto.
Ecco, tra Cechov e Jaspers, si capisce quanto l’indifferenza ci renda meno umani. E anche a questo proposito vale la pena di citare “Il viaggiatore”. Il protagonista Silbermann cerca l’aiuto di suo cognato, non ebreo, ma l’uomo gli dice che dargli una mano (ospitarlo per una notte) lo avrebbe messo in difficoltà. Qualche pagina dopo, le stesse parole Silbermann le ripete a un suo conoscente ebreo, colpevole di essere troppo marcatamente ebreo. Le vittime non sono buone, spesso sono egoiste come lo siamo un po’ tutti, ma non per questo non meritano la solidarietà. E infine, nel romanzo il protagonista si innamora di una donna intelligente, ribelle, bella, incontrata sul treno; che ricambia, perché nella vittima vede l’ideale di un’umanità in rivolta e redenta. Suggerisce l’autore: la donna commette un errore etico. Le vittime raramente sono portatrici della redenzione. Sono solo umane come lo siamo noi, gli indifferenti.
Giornata della memoria, i libri della testimonianza. Molte le uscite in libreria dedicate alla Shoah, scrive Sabina Minardi il 23 gennaio 2019 su "L'Espresso". Una storia che parte dalla Germania nazista e arriva fino al Sudamerica, intrecciando una delle più atroci verità della “soluzione finale”: gli esperimenti medici effettuati nei campi di concentramento, con i prigionieri utilizzati come cavie. Del Kommando del maggiore delle SS Hans Lichtblau, scelto dal gerarca Reinhard Heydrich, ci sono anche i due protagonisti del libro: «topi da laboratorio», insignificanti «scimmie ammaestrate». Che sopravvivono alla guerra, però, e diventano due testimoni scomodi. Decisi a scovare Lichtblau, uno per conto di ricchi israeliani cacciatori di nazisti, l’altro costretto dal Kgb. Lo ritrovano in Sudamerica, a combattere i sandinisti. La vendetta sarà impietosa, inevitabile. L’attesa da spy-story.
STELLA Takis Würger Feltrinelli, pp. 182, € 16. Nella Berlino del 1942, l’anno delle grandi deportazioni, una donna si aggira crudele, consegnando gli ebrei clandestini al regime di Hitler: Stella Goldschlag, nata da famiglia ebraica, sfuggita alla cattura nazista e, per preservare la sua famiglia, collaborazionista della Gestapo. A questa storia vera si ispira il romanzo del giornalista investigativo e corrispondente di guerra per Der Spiegel Würger, che ne ricostruisce con rigore il destino, attraverso le parole di un ingenuo giovanotto svizzero innamorato. Stella che non solo non riuscirà a mettere al riparo i suoi cari, ma alla fine della guerra sarà arrestata dai sovietici e condannata a dieci anni di detenzione. Morirà suicida. Traduzione di Nicoletta Giacon.
PRIMA DEL BUIO Hans Joachim Schädlich Guanda, pp. 188, € 18. Dal grande autore tedesco, la ricostruzione dell’odissea di due artisti in fuga dalla furia nazista. La prima scena è in Italia, tra bottiglie di vino e i pini di Villa Massimo: è qui che Felix Nussbaum, borsista con la moglie, la pittrice polacca Felka Platek, subisce un’aggressione per le sue origini ebraiche. Costretti ad andar via, comincia la peregrinazione, scandita da un linguaggio asciutto, via via sempre più essenziale: la Riviera italiana, Parigi, Ostenda, Bruxelles. Con un senso di precarietà che li attanaglia; circondati da incontri che raccontano lo stesso destino di fuga - scrittori, altri artisti, famiglie in cammino, l’incubo di passaporti perduti - insieme, fino alla fine. Traduzione di Silvia Albesano.
NOI BAMBINE AD AUSCHWITZ Andra e Tatiana Bucci Mondadori, pp. 160, € 17. I colpi della polizia alla porta. La violenza della separazione. La casualità che salva. Ci sono tutti gli ingredienti di storie tristemente analoghe in questo struggente racconto di due sopravvissute tra gli oltre 230 mila bambini deportati ad Auschwitz-Birkenau. Due sorelline di 4 e 6 anni nate a Fiume che, dopo una breve sosta nella Risiera di San Sabba a Trieste, vengono internate in un Kinderblock del campo nazista, il blocco dei bambini. L’Olocausto visto dai più piccoli: le due sorelle raccontano ciò che hanno vissuto in nove mesi di inferno, e poi nel lungo girovagare tra orfanotrofi e centri di recupero, prima di ritrovare la loro famiglia. Dalla loro storia è stato realizzato il film di animazione “La Stella di Andra e Tati”.
PICCOLA AUTOBIOGRAFIA DI MIO PADRE Daniel Vogelmann La Giuntina, pp. 42, € 5. FIglio della Shoah, fondatore nel 1980 della preziosa casa editrice promotrice di cultura ebraica, editore de “La notte” di Elie Wiesel, Daniel Vogelmann mette insieme ciò che sa del padre Schulim, deportato ad Auschwitz, sopravvissuto al campo, ma senza la moglie Annetta e la figlia Sissel: il poco che gli ha raccontato; il molto che ha ricostruito dopo la sua morte. Per esempio, che c’era anche lui, unico italiano salvato, nella lista di Oskar Schindler. E se l’autore dice di scrivere «per le mie nipotine. Ma non solo per loro», il libro è un’emozione per tutti, proprio per i buchi, i vuoti, i silenzi. Quel pudore dei molti che hanno scelto di non raccontare: l’orrore indicibile da cui sfuggire solo con nuova vita.
I GOLDBAUM Natasha Solomons Neri Pozza, pp. 448, € 18. La famiglia ebrea più famosa del Novecento, influenti e potenti banchieri, narrati in una saga che mette al centro un affascinante personaggio femminile: la giovane e anticonformista Greta Goldbaum. Ci sono i suoi amori, i tentativi di ribellione contro la tradizione di sposare un membro della famiglia, per non dissipare patrimonio e autorevolezza. La felicità inaspettata, un giardino segreto che è strada di libertà e sensualità. E la prima guerra mondiale, la corsa agli armamenti, l’inevitabile scelta di stare da una parte o dall’altra. In definitiva, la complessità dell’identità ebraica, in questa storia che oscilla di continuo tra amore e dovere: tra unicità della vita, e le pressioni della Grande Storia. Traduzione di Laura Prandino.
Giornata della memoria, 10 film da vedere (o rivedere). Documentari che hanno ancora qualcosa di nuovo da raccontare, drammatiche storie vere, ma anche thriller e tragicommedie, scrive Simona Santoni il 24 gennaio 2019 su Panorama. Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche arrivavano per prime nella città polacca di Oświęcim, più famosa con il nome tedesco di Auschwitz, e scoprivano l'orrore del campo di concentramento lì vicino, liberando i superstiti. Dal 2005 il 27 gennaio è stato scelto come Giorno della Memoria, per ricordare le vittime dell'Olocausto. Per questa ricorrenza, ecco 5 film in uscita al cinema o già in sala, per non dimenticare.
La douleur di Emmanuel Finkiel. Film tratto dal romanzo autobiografico omonimo di Marguerite Duras, è il diario di un'attesa, il racconto di una lacerante assenza. Durante l'occupazione nazista in Francia, la scrittrice francese è stata membro attivo della Resistenza, così come suo marito Robert Antelme, che nel 1944 fu deportato nel campo di concentramento di Dachau. Il libro, e ora il film, racconta il viaggio interiore di una donna che attraversa la violenza della Storia e dei sentimenti. Al cinema la interpreta Mélanie Thierry. La douleur ha ricevuto otto candidature ai Premi César, gli Oscar francesi. Uscita: 17 gennaio, distribuito da Valmyn e Wanted.
Chi scriverà la nostra storia di Roberta Grossman. Docufilm narrato dalle voci degli attori Adrien Brody (premio Oscar proprio per un film sull'Olocausto, Il pianista) e Joan Allen. Tratto dall'omonimo libro dello storico Samuel Kassov sull'archivio segreto del ghetto di Varsavia, intreccia immagini d'archivio e rari filmati con nuove interviste e ricostruzioni storiche, che trasportano all'interno del ghetto di Varsavia e nelle vite dei combattenti della Resistenza che sfidarono i loro aguzzini con la verità, rischiando tutto per garantire che il loro archivio segreto sopravvivesse alla guerra e alla loro stessa fine. Nel novembre del 1940 i nazisti rinchiusero 450 mila ebrei nel ghetto di Varsavia. Una compagnia segreta composta da giornalisti, ricercatori e capi della comunità, guidata dallo storico Emanuel Ringelblum e conosciuta con il nome in codice Oyneg Shabes ("La gioia del Sabato" in yiddish), decise di combattere le menzogne e la propaganda dei nazisti non con le armi e con la violenza, ma con carta e penna. Uscita: 27 gennaio, distribuito da Wanted Cinema e Feltrinelli Real Cinema, con oltre 300 proiezioni in contemporanea in tutta Europa.
L'uomo dal cuore di ferro di Cedric Jimenez. Con Jason Clarke, Rosamund Pike, Mia Wasikowska, Jack O'Connell e Jack Reynor. Dal romanzo HHhH, l'incredibile storia vera del "Macellaio di Praga" Reinhard Heydrich, crudele gerarca nazista del Terzo Reich. La storia dell'ascesa di Heydrich (Clarke) e del suo assassinio. Freddo e implacabile, Heydrich fu uno dei più potenti gerarchi del regime nazista e principale artefice della "soluzione finale". Accanto a lui sua moglie Lina (Pike,) che lo introdusse all'ideologia nazista. Tuttavia, un piccolo gruppo di combattenti della Resistenza ceca in esilio, addestrati dagli inglesi e guidati dal governo cecoslovacco, tentò di fermare "l'inarrestabile". Heydrich fu ferito a morte durante un'azione dei paracadutisti capitanata da Jan Kubis e Jozef Gabcik, mentre con la colonna di mezzi militari stava attraversando Praga. Reinhard Heydrich fu il più alto ufficiale nazista a essere ucciso durante la seconda guerra mondiale. Uscita: 24 gennaio, distribuito da Videa.
I bambini di Rue Saint-Maur 209 di Ruth Zylberman. Documentario francese. La regista Ruth Zylberman ha scelto un edificio parigino di cui non sapeva nulla, il 209 di Rue Saint-Maur. Per diversi anni ha indagato con l'obiettivo di ritrovare i vecchi inquilini del palazzo, per poter ricostruire la storia di quella che era stata una piccola comunità ebrea durante l'occupazione nazista. Ha ritrovato gli ex abitanti del 209 nelle periferie di Parigi, a Melbourne, New York e Tel Aviv. Li ha filmati insieme all'edificio e alle sue pietre, riprendendoli come un organismo vivente, per poter comprendere che cosa resta delle loro vite "interrotte". Uscita: 24 gennaio, distribuito da Lab 80 Film.
Schindler's List (1993) di Steven Spielberg. Torna in sala il grande classico di Spielberg, vincitore di due Oscar, per il miglior film e la regia. La storia vera dell'industriale tedesco Oskar Schindler (interpretato da Lian Neeson), che durante la seconda guerra mondiale salvò centinaia di ebrei dallo sterminio. In affari con i nazisti tedeschi, utilizzò la manodopera ebrea nelle sue fabbriche per arricchirsi. Pian piano però diventò il loro salvatore: prima costruì un campo per i suoi operai, dove le milizie non potevano entrare senza la sua autorizzazione. Poi, quando ormai l'annientamento si era scatenato, diede fondo a tutte le sue risorse finanziarie per costruire una fabbrica di pentole. Con l'aiuto dell'inseparabile Itzhak Stern (Ben Kingsley), il contabile ebreo, compilò una lista di 1.100 persone ebree perché gli venissero affidate come operai. E salvò così loro la vita. Uscita: 24 gennaio, distribuito da Universal Pictures. Domenica 27 gennaio è in onda su Premium Cinema Emotion (canale 316 di Sky e canale 332 sul digitale terrestre) alle 21.
Qui, invece, 5 film da vedere (o rivedere) a casa. Uno sguardo diverso sul genocidio nazista.
Train de vie - Un treno per vivere (1998) di Radu Mihăileanu. La barbarie nazista può essere raccontata anche con ironia, strappando sorrisi rispettosi. Ci riesce questo grande piccolo film di Mihăileanu, ebreo rumeno naturalizzato francese. Divertente tragicommedia dai toni surreali, racconta la storia di un villaggio ebraico dell'Europa dell'Est durante la seconda guerra mondiale. Per sfuggire ai rastrellamenti nazisti, i suoi abitanti inscenano la loro deportazione a bordo di un treno, nel tentativo di fuggire in Unione Sovietica e poi, da lì, in Palestina.
Remember (2015) di Atom Egoyan. In maniera insolita, i segni lasciati dall'Olocausto assumono atmosfere da thriller. Un ottimo Christopher Plummer è Zev (in ebraico "lupo"), un anziano in fuga da una casa di riposo degli Stati Uniti, affetto da demenza senile, che vuole vendicare la sua famiglia sterminata ad Auschwitz. Barcollante e con lo sguardo smarrito, impugna la pistola, sul filo della suspence. Fino un finale con colpo di scena.
Il giardino dei Finzi Contini (1970) di Vittorio De Sica. Premiato con l'Oscar al miglior film straniero - il quarto Oscar per De Sica - e l'Orso d'Oro a Berlino, è l'adattamento cinematografico del libro di Giorgio Bassani. La storia di un'altolocata famiglia ebrea di Ferrara, incredula - come il resto della borghesia ebrea italiana - di poter essere perseguitata nel proprio Paese, finché non viene prelevata in casa dai repubblichini.
Bastardi senza gloria (2009) di Quentin Tarantino. Sarebbe bello poter riscrivere la Storia. E Tarantino lo fa. Brad Pitt è il capo di una banda di soldati ebrei "bastardi" che seminano il terrore tra i nazisti in Europa, uccidendoli e prelevando il loro scalpo. Mélanie Laurent è un'ebrea a cui è stata massacrata la famiglia che si vendica facendo esplodere il cinema in cui è bellamente seduto Hitler. Evviva! Oscar a Christoph Waltz.
Il figlio di Saul (2015) di László Nemes. Oscar come miglior film in lingua straniera. Il regista ungherese fa rivivere la fabbrica della morte di Auschwitz in tutta la sua "normale" e abitudinaria brutalità. La inquadra da un punto di vista inusuale ma non meno scioccante, quello dei Sonderkommando (i "portatori di segreti"), gruppi di ebrei costretti dai nazisti ad assisterli nello sterminio degli altri prigionieri. L'orrore è mostrato di sbieco, quasi mai frontalmente. Corpi nudi e senza vita affastellati, oltraggiati, trascinati, ma quasi mai messi a fuoco, a margine di fotogrammi intensi.
Mezza Europa tollera l’intolleranza: ecco i dati su chi nega l'Olocausto. Giornata della memoria. Una ricerca commissionata dalla Commissione europea su un campione di 27mila intervistati ha rivelato una realtà sconfortante, scrive Monica La Torre domenica 27 gennaio 2019 su lacnews24.it. L’Europa è negazionista. Milioni di persone pensano che l’Olocausto sia una semplice bufala. Ancora più ampie le fila di quanti sottostimano la portata dello sterminio, quantificando in uno o due milioni di ebrei il numero delle persone effettivamente trucidate dai nazisti, a fronte degli oltre sei milioni di ebrei scomparsi. Convinzioni imbarazzanti, tanto più gravi quanto più tollerate e diffuse, specchio di un progressivo allontanamento da valori che si credevano condivisi, ogni giorno più flebili e rarefatti. Del resto, bastava fare un giro per le periferie e per gli stadi italiani, per accorgersi di quanto lo sdoganamento del razzismo avesse riportato in auge slogan, insulti e atti vandalici che la storia avrebbe dovuto seppellire per sempre.
Dati preoccupanti. Una ricerca commissionata dalla Commissione europea per mezzo del servizio di statistica Eurobarometro, presentata nel dicembre scorso al museo ebraico di Bruxelles, e condotta su un campione di 27mila intervistati, ha rivelato dati sconfortanti. Se difatti, la maggioranza dei cittadini dell’Ue stigmatizza il negazionismo (53%), reato in tutti i paesi dell’Unione, tranne la Gran Bretagna, sono preoccupanti le percentuali di quanti credono che negare la Shoah non costituisca un fatto negativo: quasi il 38% dei cittadini Ue. Troppi anche quanti, semplicemente, non sanno cosa pensare al riguardo: il 9%. C’è un problema di ignoranza di fondo, a giudicare dai dati raccolti dall’istituto di statistica. E soprattutto, il montare dell’antisemitismo dal 2014 ad oggi, avvertito dall’89% degli ebrei intervistati, viene percepito solo dal 36% della popolazione non ebrea oggetto d’indagine. Solo un terzo del campione, in sostanza, pensa che il fenomeno sia in crescita. Per il 39%, i rischi sono stabili. Per il 10% sono diminuiti. Nel dettaglio, il 50% degli europei ritiene che l’antisemitismo sia un problema anche nel proprio paese: Svezia (81%), Francia (72%), Germania (66%), Olanda (65%), Regno Unito (62%), Italia (58%), Belgio (50%) e Austria (47%). Il restante 49% non lo ritiene minimamente un problema, ed in 20 paesi la maggioranza dell’opinione pubblica pensa addirittura non sia un tema preoccupante. Su tutti, l’Estonia (solo il 6% percepisce un rischio, a fronte dell’86%) e la Bulgaria (10% vs 64%) (fonte: Repubblica).
Educare per non dimenticare. La necessità di non dimenticare, di formare i giovani alla consapevolezza storica, viene percepito in modo netto: solo il 43 % degli europei ritiene che la scuola abbia affrontato il problema in modo esaustivo (44%, in Italia). Il 51% degli intervistati (59% in Italia) ritiene preoccupanti i messaggi di odio sul web, le scritte sui muri, gli atti vandalici (60% in Italia). C’è in sostanza mezza Europa che tollera l’intolleranza. In generale, c’è una correlazione strettissima tra ceto sociale, educazione, tasso di scolarizzazione e antisemitismo. Più basso è il livello di istruzione, minore è la consapevolezza. Per il 54% di quanti hanno terminato gli studi, il fenomeno è preoccupante, ma il numero scende al 44% tra coloro che hanno smesso di frequentare la scuola a 15 anni o a 19 (49%). Le donne, in generale, sono più attente degli uomini. Il 52% considera l’antisemitismo un problema, a fronte del 48% degli uomini. E la sensibilità varia aumenta anche in base al dato anagrafico. Per il 52% dei più maturi, è un problema. Il dato scende al 46%, nella fascia tra i 15 ed i 24 anni. Interessante anche la correlazione tra amicizie e convinzioni: il 64% di quanti hanno amici ebrei percepisce negazionismo ed antisemitismo come un problema. Il dato scende al 59%, tra quanti frequentano musulmani. Chi invece ha rapporti solo con persone della propria religione o etnia, si ferma al 42%.
Fino a sei anni per negazionismo. I rigurgiti razzisti non devono farci dimenticare che per chi nega la Shoah o incita al genocidio, sono previste le manette. In sostanza, il negazionismo è un’aggravante aggiunta nel 2016 alla legge Mancino rispetto ai reati di discriminazione razziale e di stampo xenofobo. È prevista la reclusione fino a un anno e sei mesi o la multa fino a 6.000 euro per chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, o istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La reclusione andrà da sei mesi a quattro anni per chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. È altresì vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo che abbia tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi: chi vi parteciperà rischierà sei mesi a quattro anni di prigione, che aumenteranno da uno a sei anni per chi quelle associazioni promuove o dirige. Reclusione da 2 a 6 anni, nei casi in cui la propaganda, l’istigazione e l’incitamento si fondino «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra» come vengono definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale.
NEGAZIONISMO, ECCO COME FUNZIONA LA LEGGE ITALIANA, scrive Elisa Chiari il 24/01/2019 su Famiglia Cristiana. E' reato anche in Italia dal 2016, in ottemperanza alle direttive europee, ma gli addetti ai lavori riconoscono che su questi temi la repressione penale è complessa, servono programmi di prevenzione. Anche per questo Liliana Segre propone una Commissione bicamerale.
Il negazionismo in Italia è reato dal 2016, da quando cioè il legislatore ha aggiunto con la legge 116/2016 un comma (3-bis) alla legge 654/1975. Da quel momento comportamenti di discriminazione e odio, istigazione di reati a sfondo razziale già puniti con la legge previgente trovano un sanzione aggravata: «da due a sei anni di reclusione» - scrive Giacomo Galeazzo in Giurisprudenza Penale (2016) «quando si fondino in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale. Presupposto della punibilità è che dal comportamento derivi un “concreto pericolo di diffusione”». La legge approvata nel 2016 applica la decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio dell'Unione europea che si propone di armonizzare le legislazioni nazionali europee in tema di razzismo e xenofobia individuando come condotte che meritino una sanzione di natura penale: «L'apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana in pubblico dei crimini di genocidio o contro l'umanità, i crimini di guerra, quali sono definiti nello Statuto della Corte penale internazionale (articoli 6, 7 e 8) e i crimini di cui all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro». Nella relazione per l’attuazione del provvedimento europeo l’Italia era oggetto di una “tiratina d’orecchie”, inserita tra i sette Paesi che non menzionavano espressamente questi comportamenti nelle loro leggi penali, limitandosi all’apologia di reato (Italia, Francia, Polonia, Spagna) o ad apologia e negazione (Portogallo, Lettonia e Romania). Proprio per meglio aderire al dettato comunitario la norma italiana del 2016 è stata modificata nel 2017 introducendo il passaggio sulla "minimizzazione in modo grave" che ancora mancava. In questo modo la norma italiana configura una punibilità più estesa di quella di altri Paesi perché non si limita a sanzionare la negazione o la minimizzazione della Shoah ma estende l’aggravante a tutti i crimini di genocidio, contro l’umanità e di guerra. La storia di questa legge è stata, però, forse inevitabilmente, complicata da un iter parlamentare complesso e dal dibattito che sempre accompagna, come è normale che sia, norme che devono entrare in bilanciamento con principi fondamentali costituzionali quale quello della libera manifestazione del pensiero: un problema che i legislatori si sono posti e che hanno risolto facendo riferimento a una sentenza della Corte costituzionale (N. 87/1966) in tema di propaganda, in cui si spiega che «il diritto di libertà della manifestazione del pensiero non può ritenersi leso da una limitazione posta a tutela del metodo democratico». Altra questione, rilevano gli esperti, può sorgere in merito all’applicabilità effettiva della norma nelle aule di giustizia: in questi casi infatti, dal momento che l’accertamento della verità processuale poggia su prove diverse da quelle su cui si fonda l’evidenza della ricerca storica, può esser complesso circoscrivere la fattispecie del reato nella legge e conseguentemente dimostrare la colpevolezza in giudizio, cosa che spinge alcuni esperti a ragionare – senza per questo mettere minimamente in discussione la stigmatizzazione dei comportamenti - sull’adeguatezza dello strumento penale a contrastare fenomeni di questo tipo. Forse anche per questo ha una matrice diversa, più cultural-preventiva, il disegno di legge firmato da Liliana Segre – non ancora esaminato - che propone una commissione bicamerale di indirizzo e controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche. La funzione, accanto al controllo di un’adeguata rispondenza della normativa al dettato europeo, ma comprende nelle intenzioni anche studi e interventi propositivi che agiscano sulla prevenzione. A questo proposito, «Oltre al disegno di legge per istituire una commissione ad hoc per contrastare le parole di odio, razzismo, intolleranza, anche nella politica – ha spiegato a senatrice a vita a Famiglia Cristiana -, vorrei presentarne altri due: uno per ripristinare l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole dalla scuola primaria e l’altro sul bullismo».
Ma a quanto pare non tutti i negazionismi sono uguali.
· Così vennero sterminati gli italiani di Mogadiscio.
Così vennero sterminati gli italiani di Mogadiscio. Un saggio racconta quella terribile domenica del '48 in cui la città, ancora sotto mandato inglese, esplose, scrive Matteo Sacchi, Domenica 24/02/2019, su Il Giornale. I morti non sanno di essere somali o italiani. I morti non sanno di essere (ex) colonizzatori o (ex) colonizzati. I morti sanno una cosa sola, che preferivano essere vivi. Da qua potrebbe partire la riflessione su uno dei passaggi dimenticati della storia italo-somala: l'eccidio di Mogadiscio, avvenuto domenica 11 gennaio 1948. Quel giorno, dopo una violenta caccia all'uomo, strada per strada, casa per casa, morirono 54 italiani e 14 somali e ne rimasero feriti rispettivamente 55 e 43. Mentre le forze di polizia britanniche restavano essenzialmente inattive, per insipienza o impotenza, i membri dell'associazione dei Giovani Somali, filo-britannica, infuriarono contro gli italiani e contro i somali che volevano restare sotto mandato, post coloniale, italiano. Come racconta il saggio di Annalisa Urbano e Antonio Varsori, Mogadiscio 1948 (Il Mulino, pagg. 292, euro 27), le tensioni nella Somalia italiana, occupata dalle forze britanniche sin dal 1941, avevano iniziato a salire da mesi. Si stava, infatti, decidendo del futuro di quel territorio. Gli inglesi, decisi a smobilitare ogni presenza e influenza italiana nella regione, avevano favorito l'idea della nascita di una Grande Somalia che sarebbe rimasta sotto influenza britannica. Il movimento politico somalo più vicino a questa idea era, appunto, la Lega dei giovani somali, disposta ad accettare, pro tempore, un mandato britannico prima di andare verso l'indipendenza. I coloni italiani e altri partiti somali, ovviamente foraggiati da Roma e legati a funzionari del ministero dell'Africa Italiana (che continuò a operare sino al 1953), peroravano una continuità con la precedente amministrazione e un percorso verso l'indipendenza che non passasse da un controllo inglese. Nei primi giorni del gennaio 1948 questo braccio di ferro politico stava per giungere a una svolta fondamentale. Era arrivata a Mogadiscio la Commissione Onu composta da membri delle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Unione sovietica, informalmente nota come «Commissione Quadripartita». La delegazione aveva l'incarico di verificare la volontà della popolazione locale e di trovare una mediazione ragionevole. In caso di insuccesso la palla sarebbe passata all'assemblea generale dell'Onu. Al loro arrivo i delegati erano stati accolti da numerose manifestazioni, ben orchestrate dai coloni e dai nostri diplomatici, di somali favorevoli a un ritorno, sia pur temporaneo, di un governo italiano. Ovviamente questo destò notevole sorpresa sia nell'ambito della Bma - la British Military Administration - che negli ambienti più «pansomali» come la Lega dei Giovani Somali. La Lega, quindi, organizzò un'imponente manifestazione proprio per quella domenica. I filo-italiani prepararono delle contro-manifestazioni. Che vennero prima scoraggiate, poi vietate, poi permesse. Italiani e inglesi iniziarono una complessa negoziazione, portata avanti con l'irresponsabile e irrealistica presunzione di controllare alla perfezione gli umori dei propri sostenitori tra la popolazione locale. L'agente del ministero dell'Africa Italiana, Vincenzo Calza, e il colonnello britannico Thorne recitavano un minuetto diplomatico di tensione calcolata, nel tentativo di volgere la situazione a favore dei propri governi. Ma la faccenda non era affatto così liscia, anche perché i somali filo-italiani (ma forse sarebbe meglio dire ostili alla Lega) accusavano i loro avversari di aver introdotto a Mogadiscio un gran numero di forestieri violenti, e si sentivano minacciati. Del resto in città erano circolati, sin dal dicembre 1947, anche volantini minacciosi contro gli italiani e i loro sostenitori. La mattina dell'11 gennaio 1948 la violenza esplose, la sede della Lega dei giovani somali venne attaccata. L'entità di quell'attacco non è completamente chiara. Ma di certo poi i sostenitori della Lega sciamarono per la città. A caccia di italiani che, come testimoniò persino uno dei membri della stessa Lega: «Del tutto ignari di ciò che stava succedendo, circolavano liberamente nella città vestiti a festa e troppo tardi corsero ai ripari». Fu vera macelleria, riferisce la stessa fonte: «Intere famiglie furono massacrate, ciò contrariamente all'usanza somala secondo la quale nei casi di conflitto le donne e i bambini devono essere risparmiati». Gli italiani, colti alla sprovvista, raramente riuscirono a difendersi, anche perché non molte erano le armi a loro disposizione sotto l'occupazione inglese. Ci fu chi ci riuscì, come il maresciallo Gerardo Cian che coprì, con la sua pistola d'ordinanza, la fuga di molte persone. Forse altri colpi partirono dal presidio italiano a difesa della centrale elettrica di proprietà di Cosmo De Vincenzi. Non è certo. Invece è certo che, proprio in virtù dei presunti spari la polizia britannica pensò di schierarsi a difesa dei membri della Lega. E che questo li fece sentire ancora più autorizzati a proseguire nella loro aggressione. Tutto questo per non parlare delle carenze dei soccorsi a scontri terminati. Il giorno dopo su una città devastata si concentrò l'attenzione del mondo e partì una ridda di accuse incrociate tra Londra, Roma e i nascenti partiti somali. Poi pian piano, mentre la situazione diplomatica si chiariva e si sedimentava, i contrasti vennero messi sotto il tappeto. A seguito dell'eccidio, Londra ordinò l'istituzione di una commissione d'inchiesta presieduta dal maggiore Flaxman, cui partecipò, a titolo di osservatore, il console italiano a Nairobi, Della Chiesa. Il Rapporto Flaxman però non ebbe conseguenze ufficiali e nessuno venne ritenuto responsabile per l'eccidio. Anzi, il suo contenuto fu subito reso top secret e declassificato solo pochi anni fa. Del resto erano tempi di Guerra fredda e l'amministrazione italiana, che poi si rivelò piuttosto affidabile, venne alla fine considerata la soluzione migliore. Così anche il nostro governo finì per cooperare alla cancellazione della memoria, nonostante il putiferio iniziale scatenato, come spesso accade, dalla stampa italiana e nonostante la fuga disperata di molti connazionali da Mogadiscio. Ora per fortuna il saggio di Urbano e Varsori consente di rivisitare quei fatti tragici con obiettività, prendendo atto delle mancanze inglesi, ma anche degli errori degli italiani e del substrato di violenza che si stava sviluppando all'interno della società somala.
· Foibe la coscienza sporca di chi vuol far dimenticare.
"L'Italia non vuole risarcire noi esuli giuliano-dalmati". Ghergetta, presidente milanese dell'Associazione, chiede giustizia per chi ha subito l'immane tragedia. Michelangelo Bonessa, Mercoledì 28/08/2019 su Il Giornale. L'Italia non paga i suoi debiti a più di trentamila italiani. Dopo settant'anni, infatti, gli esuli giuliano-dalmati ancora aspettano che lo Stato li risarcisca per i beni perduti a causa dello spostamento dei confini dopo la Seconda Guerra Mondiale. Quelli che ne avrebbero diritto, secondo l'Associazione nazionale Venezia Giulia-Dalmazia, sarebbero infatti 36mila. «L'Italia ha perso la guerra, noi abbiamo perso tutto attacca Matteo Gherghetta, presidente del Comitato Milano della Anvdg . Le nostre radici secolari, ma abbiamo perso anche i nostri beni materiali e da italiani abbiamo dovuto chiedere di nuova la cittadinanza italiana». In una recente riunione del comitato milanese, è emersa tutta la delusione per l'ultima proposta di legge, datata 11 febbraio 2019, che proponeva un sistema per risarcire gli esuli: conferirgli la proprietà di quote di beni immobiliari dello Stato per non gravare sui bilanci pubblici. «Non sono un economista ha precisato Gherghetta ma mi sembra più semplice se lo Stato vende i suoi immobili e con il ricavato salda i suoi debiti nei nostri confronti». Come sottolinea Marzio Nava, vicepresidente del Municipio 2 in quota Forza Italia, «la vicenda del risarcimento agli esuli delle foibe e delle loro famiglie, se non fosse dolorosa sarebbe grottesca per come è stata gestita. Il trattato di Osimo, firmato nel '75 tra Roma e Belgrado, sanciva questo diritto, mentre ora la questione è caduta nel dimenticatoio. Non ci si può ricordare di questa vicenda, in modo spesso opportunistico, solo il 10 febbraio di ogni anno (Giorno del Ricordo). Il governo del nostro Paese non può non guardare in faccia quegli eventi troppo a lungo rimossi dalla memoria nazionale, sarebbe imperdonabile». Alcuni indennizzi, seguendo le indicazioni dei trattati internazionali firmati dall'Italia, sono stati riconosciuti agli esuli: nel 1956, 1968, 1985 e nel 2001. Ma sono solo una minima parte di quanto sarebbe dovuto. E gli «italiani due volte», come sono stati definiti, constatano i due pesi usati nei loro confronti: «Mi sembra che i nostri connazionali rientrati da Eritrea, Libia e Tunisia siano stati inizialmente risarciti con coefficienti decisamente più importanti rispetto ai nostri ricorda Gherghetta E forse oggi sono stati già indennizzati totalmente. Ancora una diversità nel trattamento riservato ai propri cittadini». Il diritto negato a un equo risarcimento dall'Italia, secondo i calcoli dell'associazione, vale tra i 2 e i 4 miliardi di euro. Una cifra molto onerosa per i già dissestati conti dello Stato, anche se nei panni di vicepremier Luigi Di Maio ha recentemente confermato che ci sono molti soldi avanzati nel tesoretto stanziato per il Reddito di cittadinanza. Forse anche per ristabilire l'equità nei confronti degli esuli, lo Stato potrebbe decidere di iniziare a usare quei fondi per ripianare i debiti. Almeno quelli con i suoi cittadini che vittime di un'immane tragedia, meriterebbero forse più attenzione. E più rispetto.
Croazia, dalla fossa comune emergono i corpi dei soldati della X Mas. Grazie alla collaborazione tra il governo italiano e quello croato, ad Ossero, sono stati riesumati i corpi probabilmente appartenenti ad un manipolo di soldati della X Mas trucidati dai titini. Elena Barlozzari, Venerdì 17/05/2019, su Il Giornale. Riportati alla luce, dopo settantaquattro anni oblio, dalla fossa comune che li aveva inghiottiti, senza gloria né onori, senza scarpe né uniformi. Erano lì, dietro al cimitero di Ossero, sull’isola di Lussino, quando ancora non era Croazia, e tutti sapevano. C’è comunque voluto più di mezzo secolo perchè si avverassero le condizioni necessarie al loro recupero. Erano gli uomini della Decima flottiglia Mas, inviati dal principe Borghese come ultimo disperato argine all’avanzata dell’esercito Jugoslavo. Una quarantina in tutto quelli di stanza a Lussino, a difesa delle località di Zabodaschi e Neresine. A Zabodaschi si arresero e vennero deportati nei gulag. Neppure una manciata furono quelli che poi riuscirono a tornare a casa. A Neresine invece provarono a resistere, asserragliati in un’ex caserma dei carabinieri e in netta inferiorità numerica, fino all’ultima pallottola. Chi sopravvisse alle scariche dei partigiani e non decise di usare l’ultimo proiettile per sé, venne condotto ad Ossero. Costretto a scavarsi la fossa, scalzo, venne fucilato e ricoperto di terra. Era il 21 aprile del 1945. A dare la notizia della riesumazione di una trentina di corpi non ancora identificati è la FederEsuli che nel 2008, in quel luogo, già aveva apposto una lapide con l’elenco dei caduti. “Anche se quei poveri resti, a tutt’oggi, risultano essere ufficialmente di persone ignote, per tutto il mondo dell’esodo lo scavo della fossa di Ossero rappresenta un successo, seppure amaro, conseguito a decenni di distanza ed ottenuto grazie all’insistenza delle associazioni che hanno da sempre richiesto di onorare i propri caduti”. Gli scavi, spiegano ancora dalla FederEsuli, effettuati in collaborazione con il governo croato, “rappresentano l’attuazione dell’accordo stipulato sulle sepolture di guerra da una apposita Commissione mista italo-croata e sottoscritto a Zagabria il 6 maggio 2000”. Quell’accordo ha rappresentato un punto di svolta per la FederEsuli che, “sin dalla sua costituzione, ha continuamente svolto un’azione di interlocuzione con le istituzioni italiane, affinché si facessero carico di dialogare con le omologhe autorità croate, al fine di ottenere un semplice gesto di pietà umana. Per questo ringrazia sentitamente il Commissariato per le Onoranze ai Caduti in Guerra (Onorcaduti), il Ministero degli Esteri e la Presidenza del Consiglio dei ministri, così come le autorità croate che hanno reso possibile l’esumazione”. La notizia conferma l’ottima salute dei rapporti bilaterali tra Italia e Croazia che, lo scorso luglio, avevano già portato all’esumazione dei “martiri di Castua”. “Ancora una volta – concludono dalla FederEsuli – chiediamo che una tale pietà verso le vittime dell’insensata violenza scatenatasi dopo la fine della Seconda guerra mondiale, possa manifestarsi apponendo lapidi multilingue nei luoghi accertati che hanno visto gli orrori dei massacri, affinché la memoria non vada perduta e possa essere monito per le generazioni future liberate, una volta per sempre, dalle pulsioni nefaste dei nazionalismi così come dall’insensata ideologia”.
Quelle bandiere titine in corteo con i sindacati. A Trieste i vessilli dei partigiani jugoslavi che massacrarono migliaia di italiani. Francesco Giubilei, venerdì 03/05/2019, su Il Giornale. Il primo maggio 1945 i partigiani jugoslavi di Tito entravano a Trieste iniziando l'occupazione della città durata quaranta giorni, in quel periodo e nei mesi precedenti, furono uccisi nelle foibe circa 14.000 italiani. I titini si macchiarono di crimini indicibili verso migliaia di persone colpevoli solo di essere nate in Italia, perciò colpisce che ancora oggi nel nostro paese vi sia chi celebri i partigiani jugoslavi. Sarebbe già molto grave quanto denunciato dall'associazione Dalmati italiani che ha espresso la propria indignazione per la presenza nel corteo dei sindacati del primo maggio a Trieste di bandiere jugoslave e italiane con la stella rossa e di «titovize», il copricapo partigiano jugoslavo, ma l'utilizzo delle bandiere dei partigiani comunisti diventa sconcertante se ad esporla è un comune italiano. È quanto avvenuto nella sede del Municipio di San Dorligo della Valle, paese di quasi seimila abitanti al confine con la Slovenia, dove proprio il primo maggio, insieme al tricolore italiano, alla bandiera del comune e a quella europea, è stata esposta la bandiera dei partigiani sloveni di Jugoslavia in cui campeggia la stella rossa. A denunciare l'accaduto è Francesco Clun, responsabile provinciale di CasaPound e figlio di esuli istriani, ma l'indignazione tra i cittadini è diffusa nonostante il sindaco Sandy Klun, eletto con una coalizione di sinistra sostenuta dal Pd, cerchi di minimizzare l'accaduto. Raggiunto telefonicamente, ci tiene a sottolineare di essere di madrelingua slovena e afferma di aver esposto la bandiera perché rappresenta «la lotta per la liberazione da parte degli sloveni» e, quando gli domandiamo perché non esponga la bandiera dei partigiani italiani, la sua risposta da rappresentante delle istituzioni della Repubblica italiana lascia di stucco: «Non abbiamo nulla contro gli italiani, si convive da sempre». La scelta di esporre la bandiera dei partigiani titini rappresenta già di per sé una decisione controversa e divisiva nonostante le giustificazioni del sindaco ma diventa una vera e propria provocazione e una presa di posizione di carattere politico e non istituzionale se avviene in una data simbolica come il primo maggio. Non a caso il Senatore Luca Ciriani, capogruppo di Fratelli d'Italia al Senato, esprime la propria indignazione e chiede le dimissioni del primo cittadino auspicando l'intervento del prefetto e del ministro dell'Interno e sottolineando come un sindaco italiano dovrebbe onorare la memoria della propria nazione. L'utilizzo delle bandiere titine non è una novità da queste parti, già da un po' di anni durante la manifestazione dei sindacati del primo maggio, sventolano nelle strade di Trieste senza che gli organizzatori intervengano per isolare chi inneggia ai partigiani titini, sorge il dubbio che chi a parole dice di volere una pacificazione, nei fatti continui a fomentare l'odio ricordando uno dei periodi più bui per la storia triestina e italiana.
Foibe, le indifendibili scuse di Tajani e la coscienza sporca di chi dimentica. Il “Viva l’Istria italiana, viva la Dalmazia italiana" del Presidente dell'Europarlamento aveva fatto infuriare Slovenia e Croazia Libera, scrive Elisabetta de Dominis su La Voce di New York il 15 Febbraio 2019. Tajani con quel “viva” ha intaccato l’onorabilità pubblica di queste vicine Repubbliche, a cui esse tengono in modo viscerale. Offendendosi come se i fatti storici fossero invenzione italiana, hanno dimostrato che in fondo alle viscere sta la loro coscienza sporca, di cui si vergognano in patria, davanti alle nuove generazioni le quali sentono il bisogno di conoscere la propria storia e ne ricercano le inesistenti radici. Ognuno è eroe di se stesso e patria è dove è nato. Mi sono svegliata nel cuore della notte con questa frase. Ero andata a dormire pensando a tutta la pretestuosa polemica sorta in Slovenia e Croazia contro la frase “Viva l’Istria italiana, viva la Dalmazia italiana, viva gli esuli, evviva i valori della nostra Patria!”, pronunciata dal presidente dell’Unione europea, Antonio Tajani, a Trieste, davanti alla foiba di Basovizza, domenica scorsa. Si celebrava il giorno del ricordo dell’esodo di 350 mila esuli giuliano-dalmati che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, fuggirono davanti ai comunisti jugoslavi che razziavano e rubavano nelle loro case seviziando, torturando e uccidendo in modo efferato. La loro colpa era di essere italiani e benestanti. Non difendo Tajani, che non è stato in grado di difendere se stesso, ma ero presente e il suo “Viva” è stato rivolto all’Istria e a parte della Dalmazia di allora perché erano terre d’Italia e le loro popolazioni erano di origine e cultura italiane; scapparono pertanto dall’Italia, non dalla Jugoslavia. La sua esclamazione è stata un plauso al coraggio di quegli italiani, eroi che hanno lasciato tutto per non rinnegare la propria italianità e dichiararsi slavi. Questo pretendevano i comunisti jugoslavi, vietando a chi rimaneva di parlare in italiano. Molti, per avvalorare la tesi e salvare casa e pelle, denunciarono parenti e amici come italiani. Rimasero i vecchi, i vili e i più poveri che non avevano nulla da perdere e tutto da guadagnare rubando al vicino. Invece Tajani “ha calato le brache” con i presidenti di Slovenia e Croazia, dimostrando che non è responsabile delle proprie opinioni, scaturite dal suo cervello. Si è comportato da uomo senza dignità e da ignorante della storia, perciò non ha potuto difendersi. Ne deduciamo sia venuto alla foiba per fare campagna elettorale per Forza Italia tra gli esuli che votano notoriamente a destra, odiando il comunismo. Sarebbe bastato obiettare a quei due presidenti slavi: ho applaudito quella che è stata la Costa Orientale d’Italia e i suoi eroici abitanti. Il presidente croato Andrej Plenkovic ha dichiarato di aver accettato le scuse di Tajani. La Croazia è un paese che non raggiunge i 4 milioni abitanti e sta in piedi solo perché ha usufruito dei finanziamenti europei; la Slovenia non ha nemmeno 2 milioni abitanti. E noi italiani dobbiamo chinare il capo? Eppoi come si permettono questi slavi di protestare su quello che viene detto a casa nostra? Noi siamo una nazione sovrana. Il presidente sloveno Borut Pahor ha lamentato “gli eccessi di alcuni politici italiani” e prontamente il presidente Mattarella si è giustificando spiegando che il governo italiano ha voluto “onorare le vittime ed essere vicino alle famiglie per recuperare un clima di solidarietà che l’Italia dei primi anni del dopoguerra non assicurò loro”. Tajani con quel “viva” ha intaccato l’onorabilità pubblica di queste vicine Repubbliche, a cui esse tengono in modo viscerale. Offendendosi come se i fatti storici fossero invenzione italiana, hanno dimostrato che in fondo alle viscere sta la loro coscienza sporca, di cui si vergognano in patria, davanti alle nuove generazioni le quali sentono il bisogno di conoscere la propria storia e ne ricercano le inesistenti radici. I loro figli vengono tenuti all’oscuro dei 500 anni di storia veneziana e italiana: nelle scuole dal primo medioevo si passa all’impero austroungarico. E molti ragazzi non sanno che abitano case insanguinate dal sangue dei proprietari italiani. Cosa siano state le foibe in Istria si comincia a sapere, ma ancora non si sa cosa siano state le foibe azzurre. Lo scrive Stefano Zecchi nel suo ultimo romanzo ambientato in Dalmazia: L’amore nel fuoco della guerra (Mondadori): “Foibe azzurre erano chiamati gli scogli nel mare intorno a Zara dove fu trovato annegato Edmondo, con le mani e i piedi mozzati”. Buttavano gli italiani vivi in mare con una pietra al collo, me l’aveva già raccontato lo stilista zaratino Ottavio Missoni anni fa, ma che pure li mutilassero affinché non cercassero di riaffiorare, è stata una indicibile crudeltà. Nel 1944 In Friuli alle Cave del Predil, i partigiani jugoslavi fecero ingoiare un pasto con soda caustica a 12 carabinieri ventenni, poi li torturarono appendendoli come pezzi di carne e cominciarono a tagliarli a pezzi… Cosa è successo sul confine orientale d’Italia si deve sapere. Elisabetta de Dominis
Infangano una rosa per Norma Cossetto. Il Giornale Off l'08/10/2019. Norma Cossetto è la giovane studentessa istriana che nel 1943 venne sequestrata, seviziata, violentata e gettata ancora viva in una foiba dai partigiani di Tito. Alla giovane donna è stata conferita la medaglia d’oro al valore civile dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e il suo martirio è stato raccontato nel film “Red Land”, di cui vi abbiamo parlato qui. In tutta Italia il Comitato 10 Febbraio ha commemorato la giovane studentessa istriana con la manifestazione “Una rosa per Norma”, una deposizione di fiori collettiva da parte di tutti i cittadini. Ma questa manifestazione non è piaciuta ad alcuni signori, come racconta Il Secolo d’Italia. Da Il secolo d’Italia: Sembra di essere a Cuba dei bei tempi andati e l’assessore Giovanni Berrino della regione Liguria un pericoloso dissidente. Aver aderito alla giornata in memoria del sacrificio di Norma Cossetto il 5 ottobre costa caro al rappresentante di Fratelli d’Italia nella giunta Toti. L’assessore aveva espresso il suo consenso in merito all’impegno preso in questi giorni da Giorgia Meloni, con l’ausilio del Comitato 10 febbraio nato per il ricordo delle vittime delle foibe. Questo al fine di istituire una data nazionale che ricordi le donne vittime della violenza partigiana durante e dopo la seconda guerra mondiale.Non l’avesse mai fatto. E si è così scoperto che il PCI ligure se l’è presa con lui e Giampaolo Pansa, anch’egli puntuale bersaglio degli attacchi dell’estrema sinistra […] (“becero tentativo di revisionismo filo fascista facendo leva sulle menzogne di Pansa, definito da storici ed autori autorevoli come Giorgio Bocca al pari di “un pazzo, un mascalzone, un falsario, un mentitore” e su ricostruzioni storiche senza fondamento”). Negano la triste storia “relativa a Giuseppina Ghersi per cui si parla di stupro nel tentativo di demonizzare i partigiani senza che esista la ben che minima prova”, un crimine che persino l’Anpi dovette ammettere. La replica di Berrino: “Le loro affermazioni si commentano da sole, continuano a perseguire quella doppia morale che li ha contraddistinti da sempre e che li continua a contraddistinguere”. Norma Cossetto, ricordiamo, fu nel ’43 uccisa da alcuni partigiani jugoslavi. Per questa proposta, Berrino il PCI ligure lo attacca. “Io sono una persona di destra e sono sempre stato di destra. Ci sono centinaia di migliaia di italiani che hanno reso omaggio a Norma Cossetto come ce ne sono volontariamente tutti gli anni, sono ragazzi, anziani, donne, bambini. Se fossero tutti fascisti quelli che parlano delle foibe e delle stragi fatte dai partigiani comunisti dopo la fine della guerra, vorrebbe dire che il fascismo non è stato sconfitto. Un conto è essere di destra, un conto amare la verità storica e un conto è continuare a nascondere nefandezze solo perché sono state compiute da una parte politica”.
Dramma ed emozioni nelle foibe di Rosso Istria. Alessandro Savoia il 09/02/2019 su Il Giornale Off. Dal mensile #CulturaIdentità. Ieri sera, malgrado il festival di Sanremo, quasi un milione di persone ha seguito il film sulle foibe Red Land andato in onda su Rai 3 con uno share che ha sfiorato il 4%. Il film ha finalmente fatto luce su una pagina buia della nostra storia che per più di cinquant’anni la sinistra italiana ha cercato di nascondere. Così grazie anche all’appello, lanciato dalle nostre pagine, dal presidente di #CulturaIdentità Edoardo Sylos Labini, al quesito presentato dai deputati di Fratelli D’Italia Federico Mollicone e Paola Frassinetti , all’impegno del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, la pellicola è arrivata in prima serata per celebrare la Giornata del Ricordo per volere del Cda Rai Giampaolo Rossi. Una storia che al cinema non era stata mai raccontata. Eppure i Massacri delle Foibe sono una pagina triste del nostro Paese che merita una memoria. A pensarci è stato un regista italo argentino Maximiliano Hernando Bruno con Red Land – Rosso Istria prodotto da Venice Film con Rai Cinema. Ci troviamo in piena Seconda Guerra Mondiale, nel settembre del 1943, e in alcuni territori già martoriati dai conflitti scoppia il caos. Le popolazioni istriane, fiumane, giuliane e dalmate, si trovano ad affrontare un nuovo nemico: i partigiani di Tito che avanzano in quelle terre, spinti da una furia anti-italiana. Alla fine si contarono ben 7.000 vittime tra donne, vecchi, bambini, partigiani italiani, intellettuali e contadini, militari e civili. Circa 350.000 gli italiani che dovettero abbandonare le loro case e la loro terra. Un’operazione di vera e propria pulizia etnica. In questo contesto drammatico e crudele emerge la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa dell’Università di Padova, violentata, uccisa e gettata in una foiba. Prima di morire, stava ultimando la sua tesi in Lettere dal titolo Rosso Istria, per il colore della sua terra ricca di bauxite. Da qui il titolo della pellicola che si apre con Geraldine Chaplin, figlia del grande Charlie, nei panni di Giulia Visantrin che ai giorni nostri porta la nipote al Magazzino 18 del porto di Trieste, dove sono custodite le masserie degli esuli. Ai tempi era amica d’infanzia della povera Norma (Selene Gandini). Un racconto corale che si arricchisce della magistrale interpretazione di Franco Nero, influente professore di italiano e veterano della prima guerra mondiale, che non arretra davanti alle minacce dei partigiani, non si lascia intimorire dagli schizzi di sangue sulla parete della stanza dove viene trascinato, anzi li sfida. Completano il cast Romeo Grebenseck (Mate, capo dei Titini), Vincenzo Bocciarelli (l’ufficiale Mario Bellini), Sandra Ceccarelli (madre di Giulia Visantrin) e Eleonora Bolla (la partigiana Adria Visantrin). Grazie all’ottimo montaggio di Marco Spoletini (Gomorra, Dogman), le circa 2 ore e mezza scorrono via veloci, un lasso di tempo durante il quale si resta in silenzio, inchiodati a questa vicenda resa cruda e realistica, fedele e non faziosa.
Foibe. Chi se ne fotte dell’Anpi. Un fumetto e un film per ripartire dalla memoria e dalle scuole. Scrive l'8 febbraio 2019 Emanuele Ricucci su Il Giornale. Ogni anno bisogna scongelare il presidente Mattarella, sperando che dica qualcosa di pienamente sentito e rappresentativo per l’occasione. Come ogni anno, bisogna sperare che il parlamento italiano ricordi di aver varato, nella sue galeoniche movenze, una legge nazionale nel 2004 che tutela e riconosce un giorno di celebrazione comune delle “vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato secondo dopoguerra (1943-1945)”. Ogni anno bisogna sperare che la pacchiana italianità, ancor più maleodorantemente virtuale, ci eviti la gara a chi ce l’ha più grosso, a quali morti pesano di più, come se la morte di una madre per mano di un assassino, valga di meno di quella di un’altra. Come ogni anno, bisogna sperare che una pagina Facebook realizzi meno meme dell’anno precedente, colta dalla consueta frigidità digitale che intercorre, caprona e banale, tra i Marò, le foibe e il Duce appiccato per le gambe. Di anno in anno, bisogna sperare che qualche studente di terza media sia riuscito a sentir pronunciare, anche solo per sbaglio, la parola “foiba”. Anno dopo anno, bisogna constatare che l’Anpi continua a manifestare la propria inutilità alla crescita del Paese, pur gradendone i fondi per la sussistenza, ora in discussione, anteponendo la direttiva di una continua resistenza, anche in assenza di fascismo storico e tangibile – poiché chiamare fascisti i leghisti non corrisponde, di certo, a reale minaccia per l’incolumità del Paese, né a una forma di accrescimento e superiorità culturale -, come di partigiani comunisti, socialisti e democristiani, ormai mobilia polverosa di una stanza del museo di ciò che fummo, al rispetto della memoria collettiva. L’Anpi che, proprio di anno in anno, dopo anno, annualmente, come ogni anno, non perde occasione per dare prova della propria trinariciutesca volontà di ferro di dimostrarsi forzatamente rispettosa del Giorno del Ricordo, ma zitta, zitta, prova a instillare nel sistema, insinuazioni di negazionismo (le foibe sono un’invenzione, vedasi Basovizza), giustificazionismo (i massacri delle foibe furono una reazione a vent’anni di regime fascista), relativizzando, sminuendo, o circoscrivendo le urla di dolore dei morti ammazzati, violentati, torturati, e poi infoibati, che fossero italiani, fascisti, antifascisti, serbi o croati. Per verificare questo, occorre solo fare una ricerca su google, o poco più. Non ultima l’Anpi di Rovigo, secondo cui le foibe sono un’invenzione (dei fascisti). Santa resistenza martire, unica e assoluta patrona della democrazia in Italia, culto sostitutivo laico di Stato. Tutto il resto è fandonia.
Non c’è pace. Prendiamoci la pace. E non prendiamoci in giro: l’Italia non ha affatto memoria delle vittime delle foibe. Ancora no, o, quantomeno, non sufficiente. Troppi sono, infatti, coloro i quali vorrebbero relegare quei morti a una dimensione privata. A una cappella in fondo al cimitero. Vorrebbero scrivere col sangue una frase da poster con cui arredare il nostro ghetto. Il nostro, poi, di chi? Che pretenderebbero di ridimensionare la storia a una questione ideologica di parte. E questo accade perché pur essendosi invertita la rotta politica di questo Paese, almeno al momento e almeno in apparenza, la strada della generazione della cultura di massa è pienamente tortuosa, primato dell’egemonia pensante che fa capo alla sinistra. La prima generazione al governo, anticonformista rispetto alla sinistra, gettò le basi per il riconoscimento ufficiale del dramma delle foibe; la seconda, ora, ha il dovere di cristallizzare la memoria. Per questo ogni strillo di dolore, ogni pianto disgraziato di Norma Cossetto tenuta ferma e stuprata dai suoi aguzzini slavi (poi costretti a vegliare la salma, una volta catturati, fino ad impazzire), e poi buttata in una foiba, si sentono ancora poco. I nostri giovani sentono ancora poco, i nostri studenti, gli italiani. Sordi, ciechi. Per questo bisogna esultare di ogni vittoria della memoria e smettere di inseguire la rabbia e la viltà della negazione, della riduzione, del disturbo alla storia, agendo in via istituzionale affinché esso non si ripeta. Ma il cuore del Paese, deve pensare ad altro. Far festa, nella solennità, contribuendo a costruire la memoria civile di questa terra puttana – che è contemporaneamente edificazione della maturità nazionale nella trista constatazione di una “pacificazione” impossibile -, ancora fortemente rinchiusa nella propria pustolosa adolescenza. Scansare, rifiutare come droghe in discoteca, le avances decostruttive, la ansie giustificazioniste, le paranoie negazioniste, la riduzione della grande storia, i calci alla memoria degli uomini, delle donne, dei bambini, crepati nelle foibe. NO! Preferisco andare avanti e ignorare quello sguardo di sospetto, le scritte sui muri inneggianti all’odio, le targhe distrutte, i monumenti per ricordare il dramma imbrattati, l’abitudine alla circostanza, la superficialità di certi italiani, che dovrebbero essere miei fratelli, nel dire: “dopo la Shoah, anche voi (ma voi chi?) volevate la vostra ricorrenza, vero? E ti pareva…”. Preferisco ignorare, per non impazzire da solo nella mia stanza, chiunque giustifichi oltre diecimila morti e trecentocinquanta mila esuli, con ventanni di fascismo. Sempre loro, abituati a dire che l’infrazione della legge è ben accetta se in nome di un ordine ideologico superiore. Superiore a cosa? Sub Lege Libertas. Come quella 30 marzo 2004, n.92. La legge è inferiore allo spirito fintanto che non li tange. E allora sappiate che questa sera, su Rai 3, andrà in onda il film di Maximiliano Hernando Bruno, Red Land. Rosso Istria, sulla storia di Norma Cossetto – il cui nome ancora non si può dire senza sprofondare nella censura -, ventitrenne istriana torturata, stuprata e infoibata dai partigiani rossi del Maresciallo Broz nell’ottobre del 1943, medaglia d’oro al valor civile, dal 2005, dopo sessant’anni dalla sua morte. Un film definito, addirittura, «un’iniziativa propagandistica del governo gialloverde» dal presidente dell’Anpi di Napoli. E sappiate che nelle scuole secondarie di primo grado del Veneto, grazie a un’iniziativa ufficiale della Regione e all’assessore alla Scuola, Elena Donazzan – in collaborazione con l’Ufficio scolastico regionale, l’associazione Venezia Giulia e Dalmazia e la federazione delle associazioni degli esuli -, verrà distribuito agli studenti il fumetto “Foiba Rossa. Norma Cossetto, storia di un’italiana” (Ferrogallico), scritto da Emanuele Merlino, con disegni di Beniamino Delvecchio, che racconta con delicatezza e onestà storiografica la vita e il martirio della povera studentessa. Stuprata due volte, dai titini e dalla storia recente che ne vuole negare il nome e la fine, ella viene presa per mano e condotta nella verginità della vita nuova dell’esempio, tra le pagine di una graphic novel che è candore, giustizia e verità. Non un passo di più. Un fumetto che, ad oggi, è stato stampato in più di quaranta mila copie. Come il film di Bruno, che da settimane, è proiettato nei cinema di tutta Italia. Un’iniziativa, quella della Regione Veneto, che dovrebbe essere replicata anche in altre regioni italiane, così come ci auguriamo, lanciando un appello che è stato già confermato anche da Gianni Plinio, portavoce di Casa Pound Italia Genova, e Andrea Lombardi, editore e agitatore culturale, per la Regione Liguria, e perché possa svilupparsi in tutto il Paese.
Dal cinema, al fumetto. L’arte, come pulsione ulteriore della vita, sta scegliendo di costruire la memoria nazionale, senza timore alcuno, senza alcun senso di inferiorità, come un antidoto alla negazione, come un dinamismo che parli un linguaggio universale, capace di cristallizzare ed elevare il ricordo, generando eredità. Che sia nei versi del goriziano Marco Martinolli, o in quelli di Armando Bettozzi (“Càrsici bàratri profondi e scuri custodi involontari di abominevoli vergogne e di voluti silenzi decennali […] Qual è la differenza, deh! -se mai sapete tra un pozzo… ed un forno?”), negli sforzi eroici, avamposti di purezza, della cultura popolare; che sia nelle impressioni del dramma scolpite da Paolo Menon, nel trittico di Rocco Cerchiara e Andrea Cardia, “Foibe”, o nelle pennellate scure, gotiche e opprimenti di Renzo Gentili ne Il supplizio di Norma Cossetto. Così, nell’epoca dell’adolescenza antifascista, i racconti d’onestà di grandi artisti come Gino Paoli, – «parte della famiglia di mia madre morì infoibata. I miei parenti non erano fascisti. Ma la caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito. I partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte […] senza lasciare dietro di sé un corpo, una tomba, una memoria. Peggio: una memoria negata» – o Umberto Smaila, Nino Benvenuti e molti altri. La miniserie Il cuore nel pozzo, o il film Rosso Istria. Le pagine de Sul ciglio della foiba (Ed. Il Borghese, pp.220, Euro 18) di Lorenzo Salimbeni, o de L’esodo (Mondadori, pp.202, 10 Euro) di Arrigo Petacco, che porta lo stesso nome del nuovo spettacolo di Simone Cristicchi (L’esodo – Racconto per voce, parole e immagini, ndr), già autore di Magazzino 18 – ispirato al libro “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani. Istriani, fiumani e dalmati: storie di esuli e rimasti” di Jan Bernas (Mursia, pp.192, 16 Euro) che porta a teatro il pellegrinaggio e la sofferenza degli esuli istriani, fiumani e dalmati -, tra le tante. Opere che rafforzano la coscienza di un popolo a cui fa male la memoria. E la lista potrebbe continuare a lungo.
Ripartire dalle scuole. La sinistra d’ogni porzione di modernità insegna il senso della costruzione del sentire comune, dell’accettazione del pubblico sentire, di temi e idee, della strutturazione della cultura di massa. E che i suoi adepti, discepoli e santi, in ogni forma, fossero tanti o pochi in quel momento storico, fossero capaci di trainare o meno, di vincere o di perdere le elezioni, comprendono, comunque, bene la necessità di continuare a contaminare la storiografia ufficiale, di coltivare – genesi della parola cultura – il consenso in fasce. Di farlo per eternarsi. Nel sottoscala preparano le rivoluzioni. Non sul palcoscenico. Per questo, come vedete, la battaglia politica di contrasto all’ideologizzazione del reale, da parte dell’egemonia culturale imperante e sinistra, è in atto. E al momento vincente. Ma culturalmente la società italiana risente ancora troppo dei suoi influssi, come passaporto necessario per la civiltà. Vietato pensare, vietato dissentire, vietato raziocinare se si vuole vedere riconosciuto lo status di “umani”, e non di barbari. E dunque, la memoria trovi forma nella sensibilizzazione degli uomini futuri, proprio nel percorso di costruzione della loro cultura, da intendersi come coltivazione di se stessi, capace, tramite lo studio, la conoscenza, e il ragionamento sopra le cose, via via in sviluppo, di edificare il pensiero critico con cui leggere il reale, e saper distinguere il reale dalla sua narrazione. Solo così la memoria sarà iniziativa primordiale ed essenziale di continuità, e non continua iniziativa necessaria a non dimenticare. Il ruolo delle scuole viene, per altro, sottolineato dal Ministro dell’Istruzione, Bussetti, che afferma che parlare di foibe negli istituti, «non è propaganda», aggiungendo che «Il negazionismo va sempre rigettato. Nel caso delle foibe e delle persecuzioni anti-italiane sul confine orientale, abbiamo il dovere di ricordare una vicenda particolarmente dolorosa e cruenta del Novecento. Migliaia di persone furono uccise in quanto italiane, senza colpa. Per lo stesso motivo, centinaia di migliaia di uomini e di donne hanno dovuto abbandonare quelle terre e tutto quello che avevano per rifugiarsi all’interno dei nuovi confini nazionali. Una catastrofe. Cancellare o minimizzare questa vicenda storica significa oltraggiare nuovamente le vittime di allora e i loro discendenti. Non sarebbe giusto». Che si fotta il resto: esultiamo della costruzione della memoria, per quanto inspiegabilmente faticosa in un Paese che celebra e ricorda, per legge, le vittime di un assassino decorato dallo Stato, come Josip Tito Broz, dal 1969, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Nino Benvenuti, 81 anni di un mito. Scrive Giusy Federici il 26/04/2019 su Il Giornale Off. Il campione del mondo Nino Benvenuti compie oggi 81 anni; esattamente lo scorso anno è andato in ko per un forte malore, da cui poi si è ripreso. Oggi lo festeggiamo proponendovi questa intervista, incentrata sulla sua figura di esule, uno di quei 350mila fiumani, istriani, giuliano dalmati che dal 1947 hanno dovuto lasciare la terra, le case e i beni ai partigiani comunisti del maresciallo Josip Broz Tito (Redazione). “La mia è stata un’infanzia felice. Poi abbiamo dovuto lasciare Isola. C’è stato l’esodo. Ma ho imparato a non odiare”. Poche parole, di grande dignità, che riassumono una vita. Nino Benvenuti è un grande italiano e una leggenda dello sport, un pugile che i colpi li ha assestati solo all’interno del ring, equilibrato come pochi nella sua disciplina. Ed è un esule, uno di quei 350mila fiumani, istriani, giuliano dalmati che dal 1947 hanno dovuto lasciare la terra, le case e i beni ai partigiani comunisti del maresciallo Josip Broz Tito. Quel dolore, di quando sei costretto ad andartene dalla terra che ti ha partorito e che ami visceralmente, noi che esuli non siamo, dovremmo almeno cercare di immaginarlo, di fare mente locale a quando, in qualche modo, siamo stati cacciati, rifiutati, umiliati. E moltiplicarlo all’infinito, perché il tentativo di genocidio e quell’esodo dal confine orientale tutto, è ancora oggi una storia dolorosa e una vergogna aperta per l’Italia, che non ha saputo né voluto occuparsi di connazionali che avevano la sola colpa di scappare dal comunismo jugoslavo, che evidentemente tanto paradisiaco non era. Sappiamo quel che è successo, però ci manca il momento prima, le ore felici dei bambini che giocano in strada, gli schiamazzi e le risate, i rimproveri dei genitori, le coccole dei nonni. E poi gli odori, i sapori, quel mare dolce che segue le curve delle sue rive, due amanti complementari che si corteggiano e si amano. Si appartiene alla terra in cui si nasce. Dal cordone ombelicale, dalle radici più profonde questi italiani fieri e generosi sono statistrappati via, in un attimo che è stato subito di orrore, quello dell’annegamento con una pietra al collo, dell’essere gettati nelle foibe spesso vivi, le violenze gratuite. E nessuno a curarla, quella ferita, piuttosto è come se ci avessero aggiunto il sale, per farla bruciare di più. Accade da settant’anni. È importante, invece, conoscere quell’attimo prima, per capire meglio la tragedia del subito dopo. Giovanni detto Nino, Benvenuti, classe 1938, è nato a Isola d’Istria. Qualche anno fa ha scritto un libro con Mauro Grimaldi, L’Isola che non c’è. Il mio esodo dall’Istria, che è unamemoria ma anche un inno d’amore per la sua terra, probabilmente la pacificazione completa con il passato, sicuramente il monito a non dimenticare, ma senza odiare. Stare seduti con Nino Benvenuti al tavolo di una bar del quartiere giuliano dalmata di Roma, chiacchierare come due vecchi amici quando invece si ha di fronte uno dei più illustri campioni di tutti i tempi, è un grande onore. Non parla subito dell’esodo, ma della sua prima medaglia d’oro, vinta durante il servizio militare con i vigili del fuoco, 27esimo corso a Capannelle, lo stesso dell’attore Giuliano Gemma. “Era il 1960, avevo ventidue anni ed era un periodo importante della mia vita perché a Roma si sarebbero svolte le Olimpiadi. Essere un vigile del fuoco che vince la medaglia d’oro mi ha onorato due volte”. E poi campione mondiale, prima come Pesi superwelter e poi Pesi medi, capace di battere sul ring due leggende come Emile Griffith e Carlos Monzon. È diventato loro amico, come con Muhammad Alì, quando era ancora Cassius Clay. Nel 1947 giocava felice al porto della sua Isola.
Nato a Isola d’Istria. Com’erano l’infanzia, i giochi, i sapori di bambino?
“Eravamo una famiglia stupenda: papà Fernando, mamma Dora e cinque figli: Eliano il più grande di diciassette anni, Alfio, io in mezzo, Dario e poi Mariella, che significava tanto per noi, perché la mamma voleva una bambina, che non arrivava mai. Avrebbe potuto farne a meno, anche per salvaguardare la sua salute visto che soffriva di cuore, una stenosi all’aorta che le ha creato difficoltà nelle gravidanze. Quello era stato l’ultimo tentativo ed era nata una bambina, festeggiata non solo in famiglia ma da tutto il paese perché tutti ci conoscevano. Economicamente non stavamo male, papà lavorava nella pescheria centrale di Trieste, tutta la famiglia era di pescatori, mio nonno e il mio bisnonno, poi padre e mio zio. E quello con il mare, per me, è stato sempre un grande rapporto. Avevamo anche una barca da pesca, che usavamo più per diletto che per bisogno. A casa, si mangiava pesce in abbondanza. Ancora oggi, nei miei ricordi di bambino, se penso a un odore di cibo prevale quello del pesce, cucinato in ogni modo”.
Poi sono arrivati i partigiani di Tito.
“Sì, i comunisti slavi, che da noi hanno voluto la casa dove abitavamo. La polizia politica dell’Ozna l’ha praticamente assediata e siamo dovuti partire, caricando quel che si poteva, quel che ti permettevano di mettere su un camion e portare tutto a Trieste. E’ stato un grande dolore, i nonni piangevano disperati, erano vecchi e sapevano che non sarebbero più tornati. La fortuna per noi è stata che con la città avevamo rapporti diretti perché papà lavorava lì e avevamo anche un appartamento a Trieste, in via della Madonna del Mare, dove siamo andati ad abitare. È stato un obbligo, a Isola non si poteva più stare. Anche per quello che era successo a Eliano, un’esperienza terrificante. È stato sei mesi in carcere, per tre mesi non abbiamo saputo dove fosse, temevamo che fosse finito in una foiba”.
L’accusa qual era?
“L’accusa? Nessuna. Eliano era un giovane che, tra l’altro, aveva contratto la poliomielite a 10 anni, per cui era innocuo, oltre ad essere l’esempio per noi fratelli. Era bravo a scuola, nel lavoro, era un ragazzo solare. La mamma è morta a 46 anni, di crepacuore, anche in conseguenza di questi fatti. Stava male ma non dava molto a vederlo. Era anche una donna intelligente, di cultura, aveva frequentato il liceo classico a Capodistria e all’epoca studiare così a lungo era raro”.
Le donne di una volta, forti, capaci di fare mille cose insieme senza lamentarsi…
“La famiglia era al primo posto. In casa avevo nonni e bisnonni, il nostro era un nucleo patriarcale e tutti abitavamo nella casa di via Contesini, una villa di tre piani nel centro del paese, ci stavamo in tredici. Solo in seguito, anche perché la mamma aveva bisogno della sua privacy e, per via del cuore, di non avere tanto da fare, siamo andati ad abitare in quella bella casetta di Isola che, dipinta, chiamavamo la villa rosa”.
Fino all’arrivo dei comunisti, italiani e slavi eravate due popoli che convivevano. Che rapporto avevate?
“Ognuno a sé stante ma tranquilli. Poi, quando nel ’47 hanno portato via Eliano, è cambiato tutto, si può immaginare. È certo che non si poteva voler bene a quelli lì (ai titini, ndr). Ma ci è stato insegnato a perdonare. L’educazione che abbiamo avuto, i miei fratelli ed io, è stata straordinaria, abbiamo imparato a esser tolleranti. Nonostante l’arresto di Eliano e il dolore, la preoccupazione di non sapere cosa sarebbe successo. Perché c’erano stati molti casi in cui gli arrestati non erano più tornati”.
Forse hanno voluto farvi uno sfregio in quanto italiani e benestanti?
“Non si sa. Abbiamo pensato, tra le ipotesi, che magari avesse avuto qualche amico con rapporti compromettenti per le forze slave. Ma è stata una nostra supposizione. Noi volevamo sapere perché l’avessero preso, di cosa lo accusavano. Ma non c’era niente e ancora oggi non capiamo il motivo, visto che non si occupava di politica. Avessero arrestato un altro dei fratelli, come Alfio ad esempio, che era più vivace, si poteva dire qualcosa, ma di Eliano no, lui era il buono della famiglia. Dopo tre mesi abbiamo saputo che era in carcere a Capodistria, a sei chilometri da Isola. Ogni due giorni io gli portavo da mangiare, così ha potuto sostenersi. Dopo sei mesi è stato liberato, l’avevano anche torturato, per tanto tempo non ha voluto parlare. Però, quando ci penso, dico che sono stato fortunato perché, anche se ho vissuto momenti terribili, non sono finito in uno dei campi profughi riservati agli esuli e sono riuscito a non provare odio, come invece è accaduto ad altri. Perché l’odio ti corrode e a lungo andare diventi il carnefice di te stesso”.
L’odio no. Ma la rabbia?
“Quella sì, tanta, ma solo fra te e te potevi dire “maledetti slavi” (lo dice in dialetto istriano, ndr), guai a farsi sentire in casa. E, devo aggiungere, la nostra famiglia ha lasciato un gran bel ricordo a Isola”.
Tempo fa ha scritto un libro, L’Isola che non c’è, il racconto della vita di esule. Ci torna, ogni tanto, nella piccola patria?
“Ogni tanto un salto lo faccio. Ma non sono felice di starci. Perché non è più il mio paese. È l’Isola che non c’è più, è un’altra cosa. È cambiato tutto, non è quello che io ho vissuto e che sento dentro di me quando penso alla mia terra, non si parla più italiano, sono cambiati usi e costumi”.
E anche il clima intellettuale raffinato, che era una costante di voi italiani del confine orientale, tra l’estensione della cultura veneta e l’italianità della Mitteleuropa…
“Noi avevamo il contatto costante con Trieste, quindi vivevamo una realtà diversa. È giusto parlare di cultura veneta in senso ampio e di Mitteleuropa, ma in quel che siamo c’è anche una reminiscenza che viene dall’impero asburgico e da un apporto culturale di alto livello, dall’Austria come anche dall’Ungheria. Per me l’essere cresciuto in quella zona e in quel periodo è una ricchezza non da poco perché, aldilà di una tragedia che mi ha colpito, ho capito quali sono le cose importanti di cui farsi portavoce. Ho girato il mondo ma essere nato a Isola, l’avere avuto una famiglia come la mia, è stato il mio valore principale. Ho goduto di così tanti vantaggi che mi chiedo spesso perché a me tanto e ad altri così poco”.
Chi si impegna a fondo merita il successo…
“È vero, l’ho voluto e l’ho rispettato, più che meritato. Ho preso il seme e l’ho coltivato. Ho attinto a tutto quello che erano i pensieri, la cultura, la saggezza, le cose belle di quel periodo, di quel posto. Sono argomenti di cui non si vuole parlare ed è un peccato, mentre quelle località, di quell’epoca, dovrebbero essere studiate. Perché è importante capire anche come hanno vissuto gli abitanti del luogo, come hanno interagito con gli austroungarici prima e con gli slavi dopo. Perché gli slavi erano i “gregari”, non erano di grande cultura e a noi italiani ci odiavano, perché notavano che eravamo diversi, che avevamo qualcosa che, culturalmente, loro sapevano di non possedere. E ne soffrivano, odiandoci ancora di più”.
Col senno di poi, nell’impegno per emergere nello sport e in una disciplina come la boxe, c’era anche la rabbia per quello che è successo, per la condizione di esule?
“Ho riflettuto se ci sia stata e se c’è ancora questa rabbia. Devo dire di no e sempre per l’insegnamento di mia madre. Di un compagno di scuola che rubava una matita, ad esempio, o che faceva un dispetto, a casa mamma Dora dava una spiegazione per il suo gesto, magari perché era povero. Queste piccole cose, che ricordo, per me sono di un’importanza infinita, perché insegnano a gestire i grandi dolori che possono capitare nella vita. È così che si impara a non odiare. Perché l’odio non arriva solo in conseguenza di grandi dolori, ma anche per piccoli fatti. Noi abbiamo imparato dalla base, ci siamo comportati bene anche con chi non lo meritava. E, tornando alla domanda, oggi dico che l’odio non ha avuto niente a che fare con quella che era la mia educazione, né con il mio impegno sportivo, la mia voglia di farcela. E neanche la rabbia. Avrei potuto prendere qualche slavo e picchiarlo, invece niente, era talmente pulita e chiara l’educazione che abbiamo ricevuto, i miei fratelli ed io, che non potevo sentire non solo odio, ma nemmeno astio. Anche quello, pur se veniale, era un peccato. Ora ne sto parlando, in genere non lo faccio, ma questi pensieri sono dentro di me. E insisto, sono nato molto fortunato”.
Possiamo dire che è pace fatta con il passato?
“Assolutamente sì. Anche perché mi è stato insegnato che si deve perdonare, perché il perdono crea beneficio, ti fa star bene. Se tu odi, stai male tu, non la persona a cui vuoi male, che non sente niente. Evidentemente tutto questo mi ha aiutato anche a diventare un campione del pugilato. Che non è uno sport facile, è una disciplina dove bisogna stringere i pugni e picchiare. Ma senza avere il minimo astio”.
Anche quest’anno il 10 febbraio, ormai è legge istitutiva, commemora l’esodo forzato e le vittime. E come sempre ci sono polemiche politiche. Quanto è importante, invece, il ricordo?
“Si può non odiare ma non si può dimenticare. Non ci si deve alzare ogni mattina maledicendo chi ti ha portato via tutto. Si deve ignorarlo, non pensarci con astio, ma è impossibile dimenticare, perché mia madre è morta a 46 anni anche in conseguenza di quello che abbiamo vissuto, prima con Eliano e poi cacciati da casa nostra da quei “maledetti slavi”, che però sono altra cosa rispetto agli slavi di oggi. È importante tramandare, raccontare la propria storia soprattutto se altri chiedono di farlo”.
Nino Benvenuti con il suo vissuto è un esempio. Certe cose, dette da chi è rispettato perché è credibile, in questo caso un esule ma anche un grande campione, hanno uno spessore diverso, arrivano prima a destinazione. Qual è il messaggio?
“Il mio messaggio, che spero faccia bene, è quello di non odiare, anche se non si riesce a essere indifferenti verso chi ci fa del male. Si può ricordare e, anzi, si deve fare, ma senza necessariamente rodersi dall’interno. Perché odiare fa male a chi odia. E importante è non dimenticare, dobbiamo continuare a parlarne, perché non succeda più. E perché non accada ancora, bisogna conoscere i fatti”.
Le amnesie dei governi e le Gran Croci mai tolte agli "sgherri di Tito". Le onorificenze della Repubblica date nel '69 da Saragat a tre fedelissimi del "Maresciallo", scrive Fausto Biloslavo, Domenica 10/03/2019, su Il Giornale. Nell’aprile 2013, ultimi giorni del governo Monti dopo le elezioni, si scopre che la presidenza del Consiglio aveva incaricato il ministero degli Esteri di indagare su tre sgherri di Tito per accertare se siano ancora in vita. Il maresciallo jugoslavo che fece infoibare gli italiani si è portato la più alta onorificenza della nostra Repubblica nella tomba. E nessuno potrà cancellarla fino a quando non cambierà la norma che permette la revoca solo ai vivi. Nel 2013, però, almeno due fedelissimi di Tito, Cavalieri di Gran Croce al Merito della Repubblica italiana, erano ancora vivi. Uno, Marko Vrhunec, commissario politico della brigata Lubiana e dopo la guerra segretario di Tito e ambasciatore sarebbe fra noi ancora oggi, anche se malato, nella capitale della vicina Slovenia. Peccato che il ministero degli Esteri del governo Letta, che è succeduto a Monti e quelli dopo non abbiano mai fatto nulla. In pratica continuando ad avallare la vergogna dei più alti riconoscimenti italiani concessi dal Quirinale agli uomini di Tito boia degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia. Nonostante Vhrunec almeno fino al 2016 rilasciasse interviste su You Tube e sui media sloveni difendendo il maresciallo, la Jugoslavia socialista e mostrando le sue numerose onorificenze. Oggi la Farnesina ammette, dopo un mese di ricerche, che “non troviamo traccia della richiesta di accertare l’esistenza in vita dei decorati di Tito”. Nella migliore delle ipotesi si è perso tutto nei meandri governativi. Nella peggiore la richiesta è stata insabbiata per motivi politici. La brutta storia inizia il 16 aprile 2013 con una lettera dell’allora prefetto di Belluno, Maria Luisa Simonetti, oggi a Lucca, in risposta alla richiesta degli esuli dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e del sindaco di Calalzo, Luca de Carlo, di togliere le onorificenze italiane a Tito e ai suoi sgherri consegnate dal presidente Saragat nel 1969. Il prefetto risponde (LEGGI IL DOCUMENTO) che per Tito non si può fare nulla essendo morto, ma rivela uno spiraglio sugli altri. “La Presidenza del Consiglio dei Ministri (…) - si legge nella lettera - ha reso noto di aver richiesto al Ministero degli Affari Esteri di riscontrare l’esistenza in vita di Mitja Ribicic, Franjo Rustja, e Marko Vrhunec, stretti collaboratori del Presidente Tito, anch’essi insigniti di onorificenze dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” e di effettuare gli opportuni accertamenti sulla situazione giudiziaria di ciascuno riguardo ai crimini commessi durante il periodo bellico di cui fossero stati ritenuti responsabili”. Rustja, braccio destro del comandante del IX Corpus titino che occupò Trieste nel maggio 1945 facendo sparire diversi italiani, era già morto nel 2005 a Lubiana, ma nessuno ha indagato. Ribicic era in vita, anche se per poco. Originario di Trieste, al vertice della repressione titina in Slovenia dal 1945 al 1957 è poi diventato primo ministro jugoslavo. Nel 2005 venne accusato di crimini di guerra, ma dopo 60 anni le prove erano sparite. Ribicic si è portato la Gran Croce al Merito della Repubblica italiana nella tomba il 28 novembre 2013. Impossibile che la nostra ambasciata non sapesse chi fossero questi personaggi, ma nessuno sembra aver fatto nulla per provare “l’esistenza in vita” come chiesto dal governo Monti. Ancora più clamoroso il caso di Vrhunec, commissario politico di Tito e dopo la guerra suo segretario dal 1967 al 1973. Non solo: il titino decorato da Saragat il 25 settembre 1969 è stato ambasciatore jugoslavo alle Nazioni Unite e Ginevra. Fino allo scorso anno era sicuramente vivo, anche se malato. E ha sempre difeso Tito, i suoi massacri e il socialismo jugoslavo con interviste nelle casa di Lubiana del 2016, che si trovano su You Tube o sui media sloveni. Probabilmente è ancora in vita, ma nessuno l’ha mai appurato per ritirargli l’alta decorazione italiana. Il ministero degli Esteri non trova traccia di niente del genere, come annunciato nero su bianco nel 2013, dal prefetto di Belluno. Una inaccettabile dimenticanza o un vergognoso insabbiamento dei governi Letta, Renzi, Gentiloni, che adesso riguarda anche l’esecutivo attuale. L’ennesimo schiaffo, dopo le belle parole del capo dello Stato, Sergio Mattarella, lo scorso 10 febbraio giorno del Ricordo delle foibe. Gli esuli continueranno a leggere sul sito del Quirinale i nomi di Tito e dei suoi sgherri come alti decorati della Repubblica italiana.
Stefano Zecchi: “Vi racconto la mia Accademia del Bello”, scrive Marco Lomonaco il 22/02/2019 su Il Giornale OFF. Stefano Zecchi, 74 anni, scrittore, filosofo, giornalista, già professore ordinario di Estetica presso l’Università degli Studi di Milano, si racconta in esclusiva a OFF.
Professore ci racconti del suo ultimo libro. L’amore nel fuoco della guerra chiude una trilogia incominciata dieci anni fa…
«Sì, questo romanzo chiude una trilogia che da più di dieci anni sto dedicando al periodo tra la caduta del regime di Mussolini e l’avvento di quello di Tito: un periodo mistificato e non conosciuto. Il primo romanzo è ambientato a Pola, il secondo a Fiume e il terzo, quest’ultimo, a Zara. Non sono uno storico, ma so bene che la storia, per quanto utile per lo studio, è fredda dal punto di vista della comunicazione dei sentimenti. Ho raccolto dunque l’impegno di raccontare quel periodo storico attraverso piccole storie di gente comune inserite in una gigantesca storia drammatica come quella delle cessione delle terra italiane dell’Adriatico orientale ai comunisti di Tito».
Lei ha insegnato per anni Estetica alla Statale di Milano. Com’è cambiata l’accademia da quando ha iniziato lei?
«E’ cambiato il mondo da quando ho iniziato io e con esso l’accademia. Il contesto accademico in cui ho cominciato io era molto più vicino a quello degli anni 30 che a quello di oggi. I miei maestri erano Paci, Dal Pra, Geymonat, grandi filosofi rispetto a quelli che l’università offre oggi. Allora c’era una visione dell’università che, nel bene e nel male, rappresentava la formazione elitaria di una possibile classe dirigente del domani. Oggi un professore universitario è quello che è: un impiegato dello Stato. Tutto questo toglie quel qualcosa di particolare, quel mistico che aleggiava intorno ai docenti universitari e al mondo accademico».
Il mese scorso è uscito, in allegato con Il Giornale, il primo numero del mensile #CulturaIdentità. Tra pochi giorni uscirà il secondo numero interamente dedicato alla bellezza. Per lei che ha insegnato Estetica, che cosa vuol dire educare alla bellezza?
«Dopo la fine del mio lavoro come docente in università, sono riuscito a costituire una mia fondazione chiamata Fondazione Stefano Zecchi – Accademia internazionale di scienze della bellezza, una vera e propria accademia del bello dove faccio formazione a 360 gradi sul concetto di bellezza: a partire dalla medicina, passando per l’architettura, fino alla scrittura. Educare alla bellezza vuol dire costruire un modello di pensiero. Un modello di pensiero sempre propositivo, progettuale, utopico, mai regressivo o distruttivo o, peggio, nichilista. Questo è insegnare la bellezza e io, con la mia fondazione, mi sto impegnando per farlo».
In questi giorni si è iscritto a Instagram; come mai? Trova una qualche bellezza da indagare anche nei social?
«Colpa di mio figlio, che ha preteso che mi iscrivessi. Trovo che Instagram mostri una totale assenza di educazione estetica: la bellezza, come dicevo prima, è infatti una forma di apprendimento e non un istinto. C’è sicuramente un sentimento e un’emotività che porta a comprendere la bellezza ma, fondamentalmente, deve essere un’educazione. Instagram non fa altro che mostrare la potenza di un’immagine che “si vorrebbe bella”; su questo social infatti gli utenti cercano di mostrare delle immagini “belle”. E’ paradossale notare che, se nel mondo delle arti visive si tende ad una trasgressività in cui la bellezza viene sbeffeggiata, il sentimento pubblico rimane saldamente quello di far vedere delle cose belle agli altri. Instagram è l’incapacità culturale di cogliere e trasformare un desiderio in realtà».
Ci racconta un episodio OFF della sua carriera?
«L’incontro con Enzo Paci ha cambiato la mia vita e dato inizio alla mia carriera; con lui ho studiato, mi sono laureato e ho capito cos’era la filosofia. A quei tempi stavo al Collegio universitario di Sesto San Giovanni e, a Filosofia, eravamo una decina di studenti iscritti per corso. Le esercitazioni che facevamo venivano quindi corrette direttamente dal professore. Una domenica Paci telefona al collegio per parlare con me e mi dà appuntamento alle tre a casa sua per discutere di un lavoro che avevo fatto. Il professore abitava in via Burlamacchi a Milano e, siccome io sono un ritardatario cronico, quel giorno mi sono presentato sotto casa sua alle 11 di mattina, in modo da essere certo di essere puntuale. Paci voleva capire se l’esercitazione firmata col mio nome che, evidentemente, aveva trovato particolarmente interessante, era veramente farina de mio sacco. Da lì è nato un rapporto che per me e per la mia carriera è risultato decisivo: casa sua era un via vai di personalità brillanti, intellettuali e filosofi del calibro di Sartre e Ricoeur».
Per finire. Perché i giovani oggi dovrebbero continuare a studiare filosofia?
«Io vedo che chi ha studiato filosofia, se ha la mente sveglia e duttile, si infila professionalmente da tutte le parti con ottimi risultati. Senza contare che gente come Marchionne e Ciampi era laureata in filosofia, come molti altri del resto. La facoltà di filosofia non è “la facoltà della disoccupazione” ma quella della duttilità e dell’apertura mentale. Quando iniziavo i corsi in università dicevo sempre agli studenti che immaginavo quanto avessero faticato per convincere le famiglie a far studiare loro filosofia. Poi gli dicevo questo: adesso andate a casa e dite ai vostri genitori che il Prof. Zecchi ha detto che tutto sommato si vive meglio da filosofi disoccupati che da ingegneri, medici o architetti disoccupati. Si studia ciò che piace, appassiona e apre la mente e non qualcosa in previsione della professione che si andrà a fare».
"Il Colle faccia un esule istriano senatore a vita". La proposta di Toni Capuozzo al capo dello Stato, scrive Giannino della Frattina, Domenica 24/02/2019, su Il Giornale. Nominare senatore a vita un esule istriano vittima dell'epurazione etnica ordinata dall'odio comunista e dalla ferocia del maresciallo Tito. Lo si è già fatto per la superstite di un altro genocidio come Liliana Segre, sfuggita ai campi di concentramento nazisti, non si capisce perché non lo si dovrebbe fare anche per i martiri dell'altra spietata dittatura che ha funestato non solo il secolo scorso, ma che ancora oggi tortura e uccide i suoi oppositori. A proporlo la mente lucida di uno straordinario giornalista e di un grande inviato di guerra come Toni Capuozzo durante il convegno su foibe ed esuli fiumani, istriani e dalmati organizzato a Milano dall'assessore alla Cultura del Municipio 2 Marzio Nava che mette sul tavolo «Italiani due volte» di Dino Messina e «I testimoni muti» di Diego Zandel allegato al Giornale, i due volumi oggi pubblicati dopo i tanti decenni in cui quella tragedia fu infoibata anche nei libri di storia. Perché la convinzione dei relatori, tra cui anche il presidente dell'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia Matteo Gherghetta, è che se da un lato per la prima volta il Giorno del ricordo è stato celebrato con tutta la dignità istituzionale che merita, mai come quest'anno è cresciuta la richiesta di convegni se non negazionisti, quantomeno revisionisti sul genocidio e la pulizia etnica operata dai comunisti di Tito e dai partigiani italiani. Anche a firma di quell'Anpi che campa con i contributi sottratti alle nostre tasse. Un riconoscimento culminato nel discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha finalmente detto chiaramente che quelle stragi non furono «una ritorsione contro i torti del fascismo, come qualche storico ha provato a insinuare», ma piuttosto il «frutto di un odio che era insieme ideologico, etnico e sociale». Finalmente la verità per quei morti massacrati perché italiani e non perché fascisti. «A me piacciono i fatti più che le parole» taglia corto Capuozzo sulle parole di Mattarella, raccontando una biografia che con quei tragici fatti intreccia anni di vita e vicende familiari. «Soprattutto in questi giorni si sente tanto parlare di profughi, ebbene nessuno di loro ha mai trasformato l'essere esuli in una professione. E per nessuno di loro ho mai sentito parlare di diritto al ritorno in patria, come si è fatto e si continua a fare per tanti altri esiliati». Di qui l'invito a Mattarella perché dimostri il compiuto riconoscimento di quel genocidio con la nomina di un esule senatore a vita. Lo si è fatto per la Segre, lo ha fatto Napolitano per Mario Monti e Claudio Abbado, ma anche per Renzo Piano e per la scienziata Elena Cattaneo, difficile spiegare perché non lo si dovrebbe fare con uno di quei martiri, anche etimologicamente testimoni della barbarie che fu (e che ancora oggi è) il comunismo.
Foibe, guai per l'Anpi. Gli esuli denunciano il post negazionista in procura. Gli esuli giuliano-dalmati denunciano in procura il post negazionista apparso sulla pagina Facebook dell'Anpi di Rovigo, scrive Elena Barlozzari, Venerdì 01/03/2019, su Il Giornale. “Sarebbe bello spiegare ai ragazzi delle medie che le foibe le hanno inventate i fascisti, sia come sistema per far sparire i partigiani jugoslavi, che come invenzione storica. Tipo la vergognosa fandonia della foiba di Basovizza”. Quel post, apparso a gennaio scorso sulla pagina Facebook dell’Anpi Rovigo e scritto con la presunzione di chi pensa di avere la verità in tasca, alla fine si è rivelato un boomerang. Se fino a qualche anno fa, infatti, mistificare, ridurre, annacquare, quando non addirittura negare il martirio di migliaia di nostri connazionali infoibati era una pratica comune e tollerata, oggi non è più così. E allora bisogna rispondere delle parole dette, o scritte. Non solo di fronte all’opinione pubblica, ma anche ad un giudice perché, è ora che tutti se lo mettano in testa, anche negare le foibe è un reato. Si chiama “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa”. Ecco perché il presidente della Federazione Associazioni Esuli Istriani Fiumani e Dalmanti, Antonio Ballarin, e quello dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Renzo Coderin, hanno deciso di denunciare l’autore di quel post. L’ipotesi di reato formulata nell’atto che l’avvocato Luca Tirapelle ha depositato presso la procura di Rovigo, e che IlGiornale.it ha avuto modo di visionare in esclusiva, è quella prevista dal terzo comma dell’articolo 604 bis del codice penale. La disposizione in questione, infatti, punisce chiunque si renda responsabile di atti di propaganda che si fondino in tutto o in parte sulla negazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, tra cui vanno certamente annoverati gli eccidi delle foibe. “La semplice lettura del post riportato – si legge nella denuncia – appare di assoluta eloquenza poiché, da un lato, sostiene l’inesistenza delle foibe (definendo una ‘vergognosa fandonia’ la foiba di Basovizza) mentre, dall’altro, incita gli insegnati delle scuole medie alla diffusione di tali teorie tra gli studenti”. “Il tenore negazionista” è quindi “palese”, e il pericolo che queste idee possano prendere piede è “concreto”, considerando “la rapidissima diffusione dei messaggi che vengono veicolati attraverso i social network”. C’è poi un altro ragionamento da fare, ed è quello che riguarda “la qualità della fonte del messaggio”. Non una qualsiasi, ma l’Anpi. Un’associazione alla quale è stato riconosciuto lo status di ente morale, che conta più di 120mila iscritti e, in virtù di un protocollo firmato con il Miur, promuove anche numerose iniziative nelle scuole. “La responsabilità penale – ricorda Tirapelle – è personale perciò, qualora il pubblico ministero avvalori il contenuto della denuncia, il primo passo sarà quello di identificare il responsabile del post, ma non è escluso che emergano dei profili di responsabilità civile da parte dell’associazione”. “Quello che ci aspetterebbe da un’istituzione come l’Anpi – spiega Ballarin – è che sia partecipe alla costruzione di una memoria condivisa che trasferisca dei valori positivi all’interno della società, senza negare le nefandezze che sono state commesse da entrambi i lati”. Insomma, propone il numero uno della FederEsuli, “stemperiamo ogni violenza verbale e mettiamoci attorno ad un tavolo, assieme a storici di provata caratura, e scriviamo assieme quel periodo storico perché a noi la verità non fa paura”.
Foibe, Anpi contro la mostra che ricorda Norma Cossetto. Partigiani all'attacco del Municipio 5 per "Foiba rossa". Fidanza: "Si accaniscono sulla memoria delle vittime", scrive Alberto Giannoni, Sabato 02/03/2019, su Il Giornale. L'Anpi si scaglia contro la mostra dedicata alle foibe nel Municipio 5. E Fratelli d'Italia risponde accusando di negazionismo l'Associazione dei partigiani italiani. Nonostante il messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ancora una volta la storia divide. O forse qualcuno vuole che ci si divida anche nel ricordo degli italiani che furono perseguitati, cacciati e massacrati nel fronte orientale, durante la Seconda guerra mondiale e dopo, a conflitto finito, negli anni in cui si compì il drammatico esodo dall'Istria, dalla Dalmazia, dalla Venezia Giulia, sottoposte alle atrocità dei titini. Le tre sezioni dell'Anpi del Municipio 5 hanno indirizzato al presidente del Municipio una lettera di protesta, definendo «grave e preoccupante» l'esposizione nei locali del Municipio del fumetto «foiba rossa», «per le calunnie - dicono - che insinua sulla lotta partigiana nel suo complesso». Per l'Anpi, il fumetto esposto è tratto da una pubblicazione di un editore legato a «Forza Nuova» e l'iniziativa viene definita «un'operazione di pura propaganda fascista, violenta e totalmente distorsiva della storia». Dal Municipio si smentisce un legame fra l'editore e una qualche formazione di estrema destra. È Carlo Serini, consigliere municipale e presidente di commissione a farsi carico di una risposta. «Sono sempre stato io a proporre iniziative dedicate al tema in Zona 5 - spiega - e sono sempre state accolte perché ispirate a ragionevolezza. Anche stavolta, ho proposto questa mostra che racconta con mezzi diversi la storia di Norma Cossetto (la studentessa universitaria uccisa selvaggiamente nel 1943, ndr). Una storia a lungo negata, come tutta questa vicenda». «Questo vuoto, questo silenzio - dice Serini - è stato riempito con la legge. Io ricordo quel che disse il presidente Napolitano, e ho ascoltato l'attuale presidente, che ha descritto una vera e propria pulizia etnica anti-italiana, mentre la mistificazione consiste nell'affermare che si sia trattato di pulizia politica contro i fascisti». «L'Anpi non conosce la storia, c'è chi tende a ridurre tutto a questioni di bandiera e non sono io, sono loro che vorrebbero raccontarci come i titini si siano vendicati dei fascisti. La storia di Norma prova che non è così, Norma è un simbolo ma come lei ce ne sono state tante». «Avrebbero potuto confrontarsi - conclude Serini - invece di pretendere di stabilire cosa si possa dire e cosa no». E sul caso di Zona 5 interviene il deputato di Fdi Carlo Fidanza: «Ancora una volta - attacca - l'Anpi, che ormai abitualmente si esercita nel negazionismo e nel giustificazionismo, cerca di censurare il doveroso ricordo dei martiri delle foibe. Peggio dei carnefici ci sono solo gli aguzzini, come quelli che a distanza di decenni ancora non si rassegnano e si accaniscono contro la memoria di italiani innocenti».
Rovigo, Anpi choc: «Le foibe sono un’invenzione storica». Salvini: «Fate schifo». L’uscita su Facebook nella Giornata della Memoria. FdI: «Intervenga il governo». Lega furiosa. In serata la controreplica: «Mai negato il fenomeno, il problema è la narrazione di una certa destra», scrive il 28 gennaio 2019 Natascia Celeghin su "Il Corriere del Veneto". «Le foibe sono un’invenzione storica». E anche in Veneto esplode il caso in cui viene negato all’eccidio degli italiani e della Dalmazia durante e al termine della Seconda Guerra Mondiale. A negare l’esistenza delle foibe in Polesine è l’Anpi Rovigo, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Le polemiche sono scoppiate sui social network poco prima del Giorno della Memoria, domenica 27 gennaio, giornata dedicata alla commemorazione delle vittime dell’olocausto durante il secondo conflitto mondiale (Il 10 febbraio è invece la data nazionale del Giorno del ricordo per le vittime delle foibe).
Politici sotto choc. «Sarebbe bello spiegare ai ragazzi delle medie che le foibe le hanno inventate i fascisti, sia come sistema per far sparirei partigiani jugoslavi, che come invenzione storica. Tipo la vergognosa fandonia della foiba di Bassovizza» ha scritto l’Anpi di Rovigo su Facebook. Questo è bastato a sollevare l’indignazione dal mondo della politica. «Trovo vergognoso e inaccettabile il post Facebook dal sapore negazionista pubblicato alla vigilia del Giorno del Ricordo dall’Anpi di Rovigo secondo il quale le foibe sono una invenzione dei fascisti». Lo dichiara Luca De Carlo, deputato bellunese di Fratelli d’Italia annunciando una interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e per conoscenza ai ministri dell’Interno, della Difesa e dei Beni culturali. «Vogliamo sapere – aggiunge De Carlo – come possa una sezione di un’associazione che riceve centinaia di migliaia di euro di finanziamenti statali e locali permettersi di insultare le tante vittime del regime di Tito e i loro parenti. Il Presidente Conte spieghi come vengono spesi i finanziamenti accordati all’Anpi e soprattutto se non sia il caso di rivederli in virtù di queste e altre dichiarazioni di pessimo gusto rilasciate». De Luca prosegue: «Si deve appurare se questo post non sia in contrasto con la legge sul negazionismo - con tutto ciò che ne consegue - e se il presidente del Consiglio non ritiene, per impedire che casi del genere non si ripetano, di organizzare insieme alle associazioni degli esuli, iniziative straordinarie per diffondere la verità storica, in particolare tra le giovani generazioni». In serata la notizia è stata rilanciata su Facebook anche dal vicepremier Matteo Salvini: «Fate schifo», scrive il ministro dell'Interno indirizzato all'Anpi.
Lega furiosa. Anche dal mondo leghista veneto si sollevano voci di protesta. «È sconcertante e allarmante vedere come un’associazione che si vanta di tramandare la storia e la memoria neghi pubblicamente, attraverso i social, una tragedia immane come quella delle foibe in nome di un’ideologia seguita ormai da pochi nostalgici bolscevichi». Così Luciano Sandonà, consigliere regionale del gruppo Zaia Presidente, risponde tramite una nota «alle polemiche sollevate da post su Facebook pubblicato dalla sezione Anpi di Rovigo. «L’Anpi di Rovigo ha citato la foiba di Basovizza, parlandone come di una `vergognosa fandonia´ - continua Sandona’ - non solo quindi ha negato una tragedia ancora oggi troppo poco conosciuta e condannata, ma ha calpestato in modo vergognoso la memoria delle vittime innocenti barbaramente trucidate negli inghiottitoi carsici e di tutti quei cittadini di origine italiana del Venezia Giulia, Istria e Dalmazia costretti a lasciare le loro case per evitare l’atroce persecuzione delle truppe del maresciallo Josip Broz Tito».
La difesa. «L'Anpi non ha mai negato l'esistenza delle foibe, né ha neanche di sfuggita accennato alla vicenda dei profughi istriani. Il nostro riferimento era all'esistenza delle foibe come descritte dalla vulgata di destra». Afferma in una nota il comitato provinciale dell'Anpi di Rovigo, dopo le polemiche per un post sulla pagina Facebook nel quale le foibe venivano definite «un'invenzione storica». L'Anpi aggiunge che in un post successivo era stato pubblicato un link al sito dell'Associazione «La Nuova Alabarda» dove, sulla base di documenti, «se ci si prende la briga di leggerli, si potrà scoprire che il numero degli infoibati a Basovizza è infinitamente inferiore a quelli propagandati; tanto che abbiamo invitato a leggere il dossier prima di commentare, ma è evidente ciò non è avvenuto». L'Anpi rimanda quindi alla posizione ufficiale sulle foibe dall'associazione nazionale nel congresso nel 2016, e ribadisce di «non volersi prestare a polemiche o strumentalizzazioni sulle Foibe, ritenendo che i documenti degli storici abbiano chiarito ruoli e responsabilità».
L'Anpi:«Le foibe sono un'invenzione dei fascisti, Basovizza è fandonia», scrive il Il Gazzettino Lunedì 28 Gennaio 2019. «Eh sarebbe bello spiegare ai ragazzi delle medie che le foibe le hanno inventate i fascisti, sia come sistema per far sparire i partigiani jugoslavi, che come invenzione storica. Tipo la vergognosa fandonia della foiba di Basovizza...». Sono le parole-choc di un post pubblicato su Facebook da Anpi Rovigo, l'associazione partigiani. Il post di Anpi Rovigo, però, è stato subito contestato dai naviganti di Fb, e ben presto è stato oggetto di dure reazioni politiche, nelle quali tra l'altro si chiede se non sia arrivato il momento di tagliare i fondi pubblici di cui godono queste associazioni.
LA MEZZA "RETROMARCIA". «L'Anpi non ha mai negato l'esistenza delle foibe, né ha neanche di sfuggita accennato alla vicenda dei profughi istriani. Il nostro riferimento era all'esistenza delle foibe come descritte dalla vulgata di destra». Lo afferma una nota del comitato provinciale dell'Anpi di Rovigo, dopo le polemiche per un post sulla pagina Facebook nel quale le foibe venivano definite «un'invenzione storica». L'Anpi aggiunge che in un post successivo era stato pubblicato un link al sito dell'Associazione «La Nuova Alabarda» dove, sulla base di documenti, «se ci si prende la briga di leggerli, si potrà scoprire che il numero degli infoibati a Basovizza èinfinitamente inferiore a quelli propagandati; tanto che abbiamo invitato a leggere il dossier prima di commentare, ma è evidente ciò non è avvenuto».
LUCIANO SANDONÀ (GRUPPO ZAIA PRESIDENTE). «È sconcertante e allarmante vedere come un’associazione che si vanta di tramandare la storia e la memoria neghi pubblicamente, attraverso i social, una tragedia immane come quella delle foibe in nome di un’ideologia seguita ormai da pochi nostalgici bolscevichi”. Così Luciano Sandonà, Consigliere regionale del gruppo Zaia Presidente, risponde tramite una nota “alle polemiche sollevate da un post su Facebook pubblicato dalla sezione Anpi di Rovigo, in cui l’associazione dei partigiani rodigina ha parlato delle foibe come "un’invenzione’" dei fascisti utilizzata per far sparire i partigiani jugoslavi. L’Anpi di Rovigo ha citato lafoiba di Basovizza, parlandone come di una "vergognosa fandonia" - continua Sandonà -. Preoccupa vedere come il negazionismo sia ancora così forte - conclude il Consigliere di Zaia Presidente - e che, pur di proteggere un’ideologia politica, non ci si faccia scrupolo di passare sopra le 11mila persone che hanno trovato la morte in quelle foibe da loro definite “invenzione storica”».
LUCA DE CARLO (FdI). «Trovo vergognoso e inaccettabile il post Facebook dal sapore negazionista pubblicato alla vigilia del Giorno del Ricordo dall'ANPI di Rovigo secondo il quale le foibe sono una invenzione dei fascisti». Lo afferma Luca De Carlo, deputato veneto di Fratelli d'Italia, annunciando una interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e per conoscenza ai ministri dell'Interno, della Difesa e dei Beni culturali. «Vogliamo sapere - aggiunge De Carlo - come possa una sezione di un'associazione che riceve centinaia di migliaia di euro di finanziamenti statali e locali permettersi di insultare le tante vittime del regime di Tito e i loro parenti. Il Presidente Conte spieghi come vengono spesi i finanziamenti accordati all'ANPI e soprattutto se non sia il caso di rivederli in virtù di queste e altre dichiarazioni di pessimo gusto rilasciate sempre dalle varie sezioni dell'ANPI.
ROBERTO NOVELLI (FI). Anche Roberto Novelli, deputato di Forza Italia, accusa l'Anpi di Rovigo: «E’ inaccettabile che l’Anpi - ultima la sezione di Rovigo con un indegno post sul proprio profilo facebook, poi cancellato - prosegua imperterrita a minimizzare e talvolta negare, come in quest’ultimo caso, la tragedia delle Foibe, una drammatica pagina di storia che ha già subito per troppi anni una vergognosa opera di rimozione. Ho dato mandato ai legali di presentare denuncia contro l’Anpi Rovigo ai sensi dell’articolo 604 bis del Codice penale, che prevede la pena da due a sei anni per chi minimizza in modo grave e pubblico la Shoah o i crimini di genocidio, di guerra o contro l’umanità”.
MATTEO SALVINI (LEGA). «L'Associazione partigiani di Rovigo nega l'esistenza delle foibe, definendole fandonie. FATE SCHIFO. La sinistra che tanto ama e coccola i clandestini non si fa problemi a calpestare la memoria dei nostri connazionali massacrati per la sola colpa di essere ITALIANI» scrive il ministro dell'Interno Matteo Salvini in un post su facebook.
EMANUELE FIANO (PD). «Trovo molto grave che l'Anpi di Rovigo cancelli la vicenda delle Foibe, i crimini contro l'umanità vanno ricordati tutti, e quello fu esattamente questo». Lo scrive su Facebook Emanuele Fiano, della presidenza del gruppo Pd alla Camera.
Foibe, fuori dalle scuole di Roma i negazionisti. La destra all’attacco dell’Anpi e della Raggi, scrive mercoledì 23 gennaio 2019 secoloditalia.it. "Ho presentato una interrogazione al ministro dell’Istruzione sollevando il caso dell’iniziativa promossa dall’Anpi di Roma e patrocinata dal Campidoglio in occasione delle celebrazioni per il Giorno del Ricordo, il 10 febbraio. Il progetto destinato alle scuole, infatti, invece di ricordare i tragici fatti del confine orientale che portarono all’esodo di migliaia di italiani e ad un vero e proprio eccidio culminato con le torture e gli infoibamenti dei nostri connazionali, si pone su tesi giustificazioniste”. Lo dichiara Maurizio Gasparri (Forza Italia). “Le vicende delle Foibe e del confine orientale -aggiunge- rappresentano una triste pagina di storia italiana dimenticata per molti anni e che soltanto da poco, grazie al lavoro delle associazioni e di una parte politica, è stata finalmente portata alla luce arrivando, appunto, all’istituzione di una giornata commemorativa”. “Ma a quanto pare - continua Gasparri - non è così per tutti e l’Anpi, che evidentemente guarda ancora con nostalgia alle efferate gesta del compagno Tito, riprende una vergognosa prassi antistorica che purtroppo ha dominato per gran parte del secolo scorso e che finalmente sembrava estinta, così come il comunismo che l’aveva alimentata”.
No alle teorie negazioniste. “Esigiamo quindi l’intervento immediato del ministero - prosegue Gasparri - affinché vieti qualsiasi incontro di questo genere e ci auguriamo che anche la Raggi ascolti l’appello che arriva dalle famiglie di chi ha sofferto sulla propria pelle quei tragici fatti e cancelli il proprio sostegno ad un vero e proprio incontro negazionista”. Sempre sul tema delle foibe è stata approvata alla Camera in commissione cultura la mozione di Fratelli d’Italia che vincola i soli testimoni diretti e le associazioni degli esuli istriani, giuliani e dalmati a parlare nelle scuole della tragedia delle foibe. Federico Mollicone e Paola Frassinetti, deputati di Fratelli d’Italia e firmatari della mozione, spiegano: “Si evidenzia come sia necessario impedire che tali eventi vengano minimizzati o che siano oggetto di teorie negazioniste non corrispondenti alla realtà storica di quei tragici fatti. Il governo, pur nel rispetto dell’autonomia scolastica, ha anche accolto la richiesta che vengano proiettati nelle scuole, documentari e filmati come "Rosso Istria". Fdi ringrazia tutti i gruppi parlamentari per la sensibilità dimostrata”.
Foibe, la vergogna e il ricordo: "No ai negazionisti nelle scuole". Dopo le scritte deliranti, gli eventi: il film in Zona 7 e alla Camera la mozione FdI, scrive Alberto Giannoni, Lunedì 04/02/2019, su Il Giornale. Ricordare è doveroso. Lo confermano le scritte deliranti apparse l'altro giorno a Milano, sul muro di una scuola media in via Tabacchi. Di fronte al dilagare dell'ignoranza e dell'odio politico, è necessario tenere viva la memoria di quella tragedia, la tragedia delle migliaia di italiani che furono perseguitati, cacciati e massacrati nelle cavità carsiche del fronte orientale, durante la Seconda guerra mondiale e anche nell'immediato dopoguerra. Diverse iniziative sono in programma a Milano, in vista del giorno del ricordo, che si celebra il 10 febbraio come stabilisce una legge del 2004. E per combattere negazionismi e propaganda, la deputata milanese di Fratelli d'Italia, Paola Frassinetti, ha presentato in commissione Cultura una mozione, approvata all'unanimità, che impegna il governo a intervenire per fare in modo che nelle scuole vadano a parlare delle foibe solo figure qualificate. Il governo dovrà emanare delle circolari coerenti con questo impegno, impedendo il ripetersi di casi - come quelli recenti con l'Anpi - di iniziative ispirate o condizionate da un approccio negazionista. «È importante - spiega Frassinetti - che nel giorno nel ricordo gli studenti siano informati in modo corretto e che vadano nelle scuole dei testimoni oculari o le associazioni di esuli istriani, dalmati, giuliani e fiumani. Figure competenti e non chi va a fare propagandare o a minimizzare, perché questo è offensivo verso i martiri». Con lo stesso spirito la Zona 7 ha organizzato (sabato alle 17 al cinema Gloria in corso Vercelli 18) la proiezione di Red Land. «L'idea è della presidente del Consiglio - spiega il presidente Marco Bestetti - e l'abbiamo portata avanti per due ragioni: sappiamo che una parte del nostro Paese non ha ancora fatto i conti con una pagina nera della sua storia. Molti ragazzi non sanno niente delle foibe e della tragedia di quegli italiani che erano colpevoli solo di non essere comunisti». «Molti ragazzi - prosegue il presidente Bestetti - non ne sanno nulla e di fronte a questo silenzio che ci siamo portati dietro per 60 anni, questa storia dobbiamo guardarla negli occhi, senza nascondere nulla e senza mistificare». Red Land racconta la vicenda di Norma Cossetto, studentessa universitaria uccisa dai titini nel 1943 (e insignita della medaglia d`oro al merito civile dal presidente Carlo Azeglio Ciampi nel 2005). «Quando è uscito - prosegue Bestetti - abbiamo letto che c'era il classico boicottaggio di una certa sinistra, che mal digerisce il racconto una pagina fastidiosa: abbiamo deciso di dare quanta più visibilità possibile non solo e non tanto al film, quando alla vicenda. Se la sinistra lo boicotta, noi portiamo il film in un cinema di Milano, e lo facciamo - unica istituzione - gratuitamente, per tutti i cittadini, facendoci carico dei costi e in collaborazione con l'associazione Venezia-Giulia Dalmazia». Ci sarà anche l'attrice che interpreta Norma. Il Municipio 2, con il vicepresidente e assessore alla Cultura Marzio Nava, sta lavorando alla presentazione di un libro. E il Municipio 5 a una mostra, che sarà inaugurata il 9 febbraio alle 16 in via Tibaldi. «Presentiamo questa mostra che racconta con mezzi diversi la storia di Norma Cossetto - spiega il consigliere Carlo Serini - una storia a lungo negata dal mainstream della sinistra, anche se nota da sempre». «Ci sono dati e documenti, ma si sta affermando una lettura negazionista. Stupisce sentir parlare i negazionisti e stupisce che non ci sia, quando parlano, la stessa reazione che c'è, giustamente, quando viene negata la Shoah. In quella scritta in via Tabacchi, per esempio, c'è l'ignoranza catastrofica di chi pensa che le foibe siano una roba di fascisti quando invece fu una strage di italiani. Perciò è fondamentale il giorno del ricordo». E il presidente di Zona 4 Paolo Bassi nota: «I manifesti affissi vicino a queste scritte terribili sono una firma. Sono comparsi anche in zona Corvetto insieme a insulti alla Polizia, bestemmie e appelli alla rivolta. Nella discussione di una documento di condanna in Consiglio di Municipio il centrosinistra ha polemizzato per ore su come definirli. A me colpisce sempre il silenzio'. Insulti beceri come questi, non suscitano mai una presa di distanze o una condanna tempestiva di chi governa Palazzo Marino».
Il Pd non vuol far proiettare il film sull'orrore delle foibe. Polemiche dall'opposizione in Zona 7. "Preferibile fare un evento sopra le parti", scrive Alberto Giannoni, Martedì 05/02/2019, su Il Giornale. Non piace a tutti la decisione del Municipio 7, che ha deciso di far proiettare al cinema il film «Red Land. Rosso Istria». L'evento costa, secondo un consigliere del Pd: 2mila euro che secondo lui avrebbero potuto essere spesi per «un convegno storico sulle foibe con esperti al di sopra delle parti». Si accende una polemica imprevista dunque, in Zona 7, sull'iniziativa deliberata in occasione della Giornata del ricordo, la ricorrenza dedicata alle vittime delle foibe. Il presidente del Municipio, Marco Bestetti, con la sua maggioranza ha deciso alcune settimane fa di promuovere la proiezione in un cinema milanese del film «Red Land», che ricostruisce la vicenda di Norma Cossetto, studentessa universitaria uccisa dai titini nel 1943. La proiezione è stata organizzata dal Municipio per sabato al cinema Gloria di corso Vercelli 18. E il consigliere Lorenzo Zacchetti (Pd) ha criticato l'iniziativa e il biglietto pagato ai cittadini dal Municipio. «Un biglietto decisamente caro - ha scritto - visto che si spendono 2mila euro (+ Iva) per far vedere un film che la sera prima va in onda su Rai3, ovviamente gratis. Complimenti per la capacità organizzativa! Con quei soldi non sarebbe stato meglio organizzare un convegno storico sulle foibe con esperti al di sopra delle parti?». In effetti la Rai nei giorni scorsi ha deciso di mandare in onda il film. Ma proiezioni simili sono state organizzate anche in altre città: a Lodi per esempio, stasera al cinema Moderno col vicesindaco Lorenzo Maggi. E a Montichiari, stasera. O a Seveso, dopodomani, o a Bergamo, o a Gallarate, sempre giovedì. Alle critiche che arrivano dalla sinistra il presidente Bestetti replica così: «Non mi stupiscono, anzi confermano quello che ho detto, che parlare di foibe fa ancora paura a qualcuno. Per l'importo, posso dire che la giunta fissa tetti massimi, poi sono gli uffici a trattare il prezzo migliore. Ma vorrei parlare dell'aspetto storico, culturale: sono proprio reazioni simili, da parte di un Pd sempre più spostato a sinistra, che ci fanno capire quanto ancora ci sia da lavorare, per parlare di episodi così bui, che qualcuno vorrebbe ancora sotto silenzio». «Non si capisce in base a cosa il film debba essere considerato di parte, e come la sinistra possa decidere cosa far vedere e cosa no». Intanto un altro appuntamento si segnala nel Municipio 4 del presidente Paolo Bassi, che ospita quello che attualmente è l'unico monumento in città dedicato alle vittime delle foibe. Giovedì sarà inaugurata l'illuminazione della stele e sarà aperta l'esposizione del fumetto «Foiba rossa», dedicato alla Cossetto, con interventi di Luciano Garibaldi, Giuseppe Manzoni di Chiosca e Claudio Giraldi, oltre che dello stesso Bassi. E in Zona 5, sono state finalmente cancellate le odiose scritte pro-foibe apparse nei giorni scorsi. Prima con l'intervento estemporaneo da alcuni militanti di destra, poi grazie al presidente della commissione Ambiente Alessandro Giacomazzi (Lega), che col collega Carlo Serini (Fdi) ha chiesto al Niur del Comune di intervenire. «Ringrazio il reparto che, come sempre, interviene celermente per ripristinare l'ordine - ha dichiarato Giacomazzi - Questa è un'azione che concretizza l'importanza del Municipio e di chi lavora capillarmente per il bene e decoro del suo territorio», mentre Serini ha sottolineato «l'assordante silenzio del sindaco e della maggioranza di sinistra del Comune».
Matteo Salvini non fa sconti all'Anpi, scrive il 4 febbraio 2019 Quotidiano.net. "È necessario rivedere i contributi alle associazioni, come l'Anpi, che negano le stragi fatte dai comunisti nel dopoguerra", dice il ministro dell'Interno a proposito delle polemiche per il convegno “Foibe e fascismo”, organizzato dall'Associazione nazionale dei partigiani il 10 febbraio a Parma. L'attacco di Salvini è l'ultimo di una lunga serie: critiche sono giunte nelle ultime ore sia da destra, sia da sinistra. Prima il post negazionista dell'Anpi di Rovigo, poi il caso Parma. Il logo dell'associazione compare sulla locandina del convegno revisionista "Foibe e Fascismo 2019", la "Quattordicesima edizione della contromanifestazione cittadina in occasione del Giorno del Ricordo" in programma il 10 febbraio alle 10.30 al Cinema Astra nella città ducale. Con l'Anpi ci sono anche l'Anppia, l'associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti, e il Comitato antifascista antimperialista e per la memoria storica a patrocinare l'evento, che vede gli interventi di alcuni storici già finiti al centro delle polemiche per le loro posizioni revisioniste. A Parma parlerà innanzitutto Sandi Volk, durante una conferenza dal titolo "I morti delle foibe riconosciuti dalla legge: 354, quasi tutti delle forze armate dell'Italia fascista". Nel programma anche una serie di letture di "testimonianze di antifascisti e partigiani". Ma sono soprattutto i due video, che verranno proiettati alla conferenza, a scatenare la polemica e le accuse di negazionismo. Il primo è ''La foiba di Basovizza: un falso storico'' di Alessandra Kersevan, l'altro è ''Norma Cossetto: un caso tutt'altro che chiaro'' di Claudia Cernigoi. Entrambi sonoi autori del sito 'giustificazionista' '10 febbraio 1947', sul quale tra l'altro si legge che il convegno in questione è "a cura del Comitato Antifascista Antimperialista e per la Memoria Storica con l'adesione di Anpi e Anppia". Duri attacchi all'associazione, oltre che dalla Lega, sono arrivati da Fratelli d'Italia e da alcuni esponenti di Forza Italia. Ma a prendere le distanze è stata anche la deputata Pd Debora Serracchiani. "Esiste una legge dello Stato approvata a grandissima maggioranza dal Parlamento che istituisce il Giorno del Ricordo - ha dichiarato l'ex governatrice del Friuli Venezia e Giulia -: il giustificazionismo o peggio il negazionismo delle Foibe non sono accettabili, da qualunque parte vengano e a prescindere da un film su cui ognuno puo' avere la sua opinione". Con il termine Foibe si intendono gli eccidi compiuti dai partigiani jugoslavi ai danni della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia durante la Seconda Guerra Mondiale e nell'immediato dopoguerra. I massacri si concentrarono nell'Istria meridionale (oggi territorio croato): secondo alcuni storici si trattò di una sorta di rivolta spontanea delle popolazione rurali, in parte slave. Una vendetta delle violenze e dei torti subiti durante il dominio fascista. Secondo altri storici, invece, gli eccidi furono l'inizio di una pulizia etnica nei confronti della popolazione italiana. Si stima che nelle foibe morirono tra i 250mila e i 350mila
Partigiani con i soldi pubblici: ecco gli incassi di Anpi & Co. Le iniziative dell'Anpi contro le foibe. Scoppia la polemica. Salvini vuole tagliargli i fondi: ecco tutti i contributi statali, scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 05/02/2019, su Il Giornale. Per l'Anpi le Foibe sono solo "fandonie fasciste". La guerra civile italiana sembra non finire mai e la totale riconciliazione in una memoria unica e condivisa resta un miraggio, nonostante i (pochi) passi in avanti. La prossima settimana si celebrerà la Giornata del ricordo degli infoibati dalmati e istriani, donne e uomini con l'unica colpa di essere italiani. E invece di cercare confronto e memoria, l'Anpi che fa? A Parma sponsorizza il convegno in cui si proietterà il video dal titolo "La foiba di Basovizza: un falso storico"; in Veneto critica la proiezione del film "Red Land"; e a Rovigo nega l'esistenza delle fosse carsiche. Non proprio il massimo. E così è esploso lo scandalo che rischia di compromettere uno dei "tesori" dei partigiani d'oggi: le sovvezioni statali. Certo, con un comunicato l'Associazione ha preso le distanze dalle sue sezioni locali, ma lo ha fatto lasciando spalancato il portone dei "dubbi". Per i nipoti dei combattenti, le foibe sono state sì "una tragedia nazionale", ma che va "affrontata senza alcuna ambiguità, contestualizzando i fatti". Una supercazzola, insomma. "Contestualizzare" sembra infatti un modo per giustificare gli orrori titini trasformandoli in una semplice "reazione" alle occupazioni naziste e fasciste di quelle terre. Un'ambiguità che rende comprensibile le ire della Lega e dell'intero centrodestra: mentre l'assessore veneto Elena Donazzan chiede a Mattarella di "valutare lo scioglimento" dell'Anpi, il Carroccio punta a togliergli i (generosi) finanziamenti statali. "È necessario rivedere i contributi alle associazioni che negano le stragi fatte dai comunisti nel dopoguerra", ha detto il ministro dell'Interno. Apriti cielo. Quello dei fondi governativi è tabù mai affrontato prima da nessuno. Per capirne la portata basta andare sul sito del Senato e affidarsi alla relazione (del 2018) sul riparto dei versamenti alle associazioni combattentistiche. I trasferimenti provengono da due voci di bilancio: da una parte, ci sono 1,9 milioni di euro riservati dal ministero dell'Interno e altri 1,6 milioni elargiti dal ministero della Difesa. La maggior parte dei soldi (che l'Anpi tiene a precisare vengano assegnati "non a fondo perduto", ma sulla base di "progetti di ricerca") finisce a associazioni che si riconoscono a vario titolo nell'esperienza dei partigiani. Una galassia antifascista davvero variegata. I fondi della Difesa sono stati così ripartiti: un milione di euro è destinato alle associazioni combattentistiche e partigiane e appena 693mila euro a quelle d'Arma. I bonifici sono sostanziosi: 81.500 euro sono finiti all'Associazione Nazionale tra le Famiglie Italiane dei Martiri Caduti per la Libertà della Patria, 32mila all'Associazione Nazionale Veterani Reduci Garibaldini, 40mila all'Associazione nazionale partigiani cristiani e 90.100 all'Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall'Internamento e dalla Guerra di Liberazione. Senza dimenticare chi le raduna: alla Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane mettiamo a disposizione altri 50.000 euro; mentre alla Federazione italiana volontari della Libertà altri 85mila. Infine c'è l'Anpi. Per la più grande delle organizzazioni della Liberazione, la Difesa riserva 100.000 euro, appena 7mila in meno del 2017. Dal 2013 ad oggi, ha incassato qualcosa come 607mila euro. A questi, ovviamente, va aggiunto il 5x1000, che dal 2014 ad oggi ha fruttato 1 milione e 200mila euro. Totale: 1,8 milioni di euro abbondanti. Mica male. Senza contare le decine di finanziamenti elargiti dagli Enti locali per iniziative di vario genere. Il fatto è che tecnicamente il ministero dell'Interno, cioè Salvini, non potrebbe tagliare i fondi dell'Anpi. Non è di sua competenza. Il Viminale infatti versa 232mila euro ad un altro ente antifascista, l'Anpia, che non sembra aver messo in dubbio le foibe. Dunque può dormire sogni tranquilli. Diverso il discorso per l'Anpi. Nonostante le rassicurazioni del presidente Carla Nespolo, il rapporto dei partigiani con le ombre della loro storia è quantomeno equivoco. Lo dimostra il "comune sentire" delle sezioni locali al di là delle dichiarazioni ufficiali del coordinamento nazionale. Ecco spiegato, allora, il perché delle reazioni politiche: invece di gridare alle "minacce" e all'"aggressiva dichiarazione" di Salvini, all'Anpi sarebbe bastato evitare le ambiguità. Senza "se" e senza "ma".
Libero, l’Anpi e i soldi dello Stato. Il paradosso di “Libero” che chiede che siano tolti i finanziamenti all’Anpi, scrive Piero Sansonetti il 6 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Libero chiede che siano tolti i finanziamenti dello Stato all’Anpi, perché la sezione di Parma dell’Anpi ha aderito ad una iniziativa negazionista sulle Foibe. L’Anpi di Parma evidentemente ha fatto una grande sciocchezza. Ma anche Libero, spesso, ne fa. E prende un finanziamento circa 40 volte superiore a quello dell’Anpi… Il giornale “Libero” (ma anche diversi esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia) chiedono al governo di sospendere i finanziamenti all’Anpi. Cioè all’associazione nazionale dei partigiani. Su questo giornale mi è capitato talvolta di scrivere anche cose molto critiche sull’Anpi. Ricordo di averlo fatto in occasione di una polemica che fu sollevata dall’Anpi di Savona, che si era opposta alla decisione del sindaco di un paese della provincia, Noli, di dedicare una targa alla memoria di una ragazzina di 13 anni uccisa, probabilmente da un gruppo di partigiani sciagurati, pochi giorni dopo la Liberazione, nel 1945. Polemizzai aspramente, e chiesi anche la chiusura dell’Anpi di Savona, che aveva definito questa ragazzina – si chiamava Giuseppina Ghersi – “una brigatista nera e fascista” e aveva giustificato la sua eliminazione. L’Anpi nazionale si dissociò dall’Anpi di Savona ma io giudicai troppo poco drastica quella dissociazione. Vorrei essere chiaro: non ho una simpatia particolare per l’Anpi, che oggi non raccoglie più i vecchi partigiani che combatterono con coraggio e sacrifici enormi per contribuire alla liberazione dell’Italia dall’orrore nazista e fascista. La grande maggioranza di quei partigiani – che furono guidati da gente come Pertini, Longo, Parri, Mattei – oggi non c’è più. I pochi rimasti hanno superato i novanta anni. Evidentemente l’Anpi è diventata una associazione libera di persone che conservano il mito della Resistenza e vogliono difenderne l’eredità politica e l’onore. Niente di male, naturalmente. La Resistenza è stata uno dei fenomeni politici e militari più gloriosi della storia italiana del novecento, e ha avuto un ruolo fondamentale nella fondazione della Repubblica democratica e nella spettacolare ripresa – economica e civile – del nostro paese, che era stato raso al suolo dal fascismo. Quello che non ho mai sopportato dell’Anpi è la pretesa di essere, quasi per diritto divino, l’unica e insindacabile interprete e custode dei valori e delle idee dell’antifascismo. E anche, spesso, di confondere queste idee grandiose con la semplice retorica e con la rivendicazione di appartenenza e bandiere. Per me l’antifascismo è un’altra cosa: è religione della libertà e della tolleranza. E’ l’opposto dell’odio, del dogma, dell’autoritarismo. Ora però non capisco proprio perché un’associazione che comunque difende e rappresenta il ricordo della Resistenza debba essere punita, e perché dovrebbero esserle tolti i finanziamenti che riceve, sporadicamente, dallo Stato. La presidente dell’Anpi, Carla Nespolo, ha peraltro spiegato che questi finanziamenti non sono all’Anpi ma solo ad alcune iniziative dell’Anpi, di volta in volta vagliate dal governo. A quanto ammontano? A centomila euro all’anno. Si: avete capito bene: centomila euro, tutto qui. Così riporta ieri Libero in un articolo indignato del suo vice direttore Fausto Carioti, nel quale si chiede, appunto, la revoca dello stanziamento, perché l’Anpi di Parma ha dato il suo placet – molto discusso peraltro ad una iniziativa negazionista sulle Foibe. Io penso che se davvero l’Anpi di Parma ha dato il suo assenso ad una iniziativa negazionista sulle Foibe ha fatto una grandissima sciocchezza. Cosa oltretutto affermata in modo solenne, proprio ieri, dalla presidente nazionale dell’Anpi. Ma cosa c’entrano le sciocchezze dell’Anpi di Parma con la punizione governativa contro una associazione partigiana? Il governo – secondo Libero – ha il compito di punire economicamente chi dice stupidaggini? Cioè – è questo che davvero mi stupisce, proprio perché scritto da Libero – deve stabilire cos’è politically correct e custodire questo politically correct stroncando ogni idea che vada fuori dal tracciato? La cosa, capirete, stupisce ancora di più proprio perchè Libero di stupidaggini ne scrive parecchie ( come quasi tutti i giornali, del resto, compreso, forse, il nostro) e in genere le rivendica le idiozie che scrive, e di politically correct non vuole sentirne parlare: eppure anche Libero, in quanto giornale di cooperativa, riceve un bel finanziamento dalla Stato ( circa quaranta volte superiore a quello ricevuto dall’Anpi) e – credo giustamente – rivendica anche il suo diritto al finanziamento. Non c’è una clamorosa incoerenza nel chiedere che sia colpita l’Anpi perché la sua sezione di Parma è fuori controllo? A me pare di si. Mi pare soprattutto che questa richiesta sia da considerare una delle tante espressioni del nuovo populismo Cinquestelle, al quale ogni tanto Libero si oppone, ma più spesso si accoda. “Basta soldi pubblici sprecati in iniziative culturali o editoriali, o raba del genere”. Sarebbe la parola d’ordine del rinnovamento. Però non è nuova nuova: qualche anno fa c’era un ministro che diceva che con la cultura non si mangia. E prima ancora uno che parlava di culturame. E poi, all’origine di tutti questi populismi, c’era addirittura Goebbels, che pronunciò la frase epica (che oggi ha tanti, tanti seguaci…): «Quando sento parlare di cultura metto mano alla pistol». Cosa c’entra l’Anpi con la cultura? C’entra molto. La memoria, la storia, sono il cuore della cultura. Cosa c’entra Libero con la cultura? C’entra, come tutti i giornali: il giornalismo – buono o cattivo, discreto o mediocre – è la spina dorsale della cultura di un popolo. Si, lo è ancora oggi, anche se cerca di dimenticarlo e di farlo dimenticare. Non solo credo che vada mantenuto il finanziamento all’Anpi. Credo che vada aumentato. Credo che vada tenuto anche il finanziamento a Libero e agli altri giornali, e alle radio, che oggi è sotto attacco, e questo attacco è un attacco terribile ad alcune colonne portanti della democrazia. Anzi, credo che anche questi finanziamenti vadano allargati e aumentati. E credo che debbano tornare i finanziamenti pubblici ai partiti, che non ci sono più, e la loro abolizione ha contribuito in modo decisivo alla demolizione dei partiti, al crescere del liderismo puro, all’indebolimento, fortissimo indebolimento della democrazia politica. Mi piacerebbe poter archiviare questo attacco all’Anpi come un errore di Libero. Uno dei tanti errori che si fanno nel nostro mestiere.
Il generale della Folgore scrive a Pinotti contro l'Anpi. La lettera del generale Bertolini dell'Associazione dei Parà contro le proteste dell'Anpi per la stele in memoria dei paracadutisti tedeschi, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 21/03/2018, su "Il Giornale". Non si ferma la polemica a Cassino tra paracadutisti e partigiani. La querelle della stele per i "parà nazisti", aspramente contrastata dall'Anpi, è diventata un vero e proprio caso istituzionale. Che ha coinvolto anche il ministro della Difesa, Roberta Pinotti. Il Generale Marco Bertolini della Folgore, presidente dell'Assciazione Nazionale Paracadutisti d'Italia, infatti, ha scritto una lettera al ministro per chiedere spiegazioni riguardo la "frittata" partigiana e suggerendo di togliere i fondi ai nipoti dei partigiani.
Fondi statali per i partigiani: ecco il tesoretto antifascista. "Alcuni giorni - si legge nella missiva - fa il Generale di Corpo d'Armata Hans-Werner Fritz, Presidente dell'associazione paracadutisti tedesca, mi aveva avvertito che stava venendo in Italia con un gruppo di associati per una cerimonia a Cassino in memoria dei valorosi paracadutisti tedeschi che caddero durante la Seconda Guerra Mondiale. Il generale Fritz era il mio corrispettivo presso il Coiu tedesco di Potzdam quando io ero in servizio con lui vennero affrontati molti problemi comuni, tra cui il coordinamento dei nostri sforzi per l'ormai dimenticato ripiegamento dell'Afghanistan, l'alternarsi italo-tedesco al Comando della Task Force a Erbil, ed altre cosette del genere. Ovvio quindi che tra lui e me si creasse una certa familiarità sfociata in amicizia nel corso del Congresso delle Associazioni Paracadutisti Europee del 2017, durante il quale ci siamo reincontrati, seppur in vesti differenti da quelle con le quali ci eravamo salutati un anno prima a Erbil". Dopo la protesta dell'Anpi e la cancellazione della cerimonia, il generale Bertolini ha esoposto al collega "i miei sentimenti. Che sono di vergogna profonda". E così ha deciso di prendere carta e penna e scrivere alla Pinotti "per metterla a parte della frustrazione di tutta l'Anpd'I e per suggerirle di prendere qualche misura per ribadire ai nostri commilitoni tedeschi, ma non solo, che gli appelli alla sbandierata "difesa comune" europea non sono parole vuote. E che non abbiamo dimenticato i doveri che ci derivano dalla nostra ppartenenza alla civiltà cristiana, che ha nel culto dei morti, di tutti i morti, e soprattutto dei Caduti, di tutti i Caduti, uno dei suoi più radicati appigli". Infine, l'accusa contro l'associazione dei partigiani: "Le chiedo - scrive Bertolini - anche di valutare se un'associazione come l'Anpi, protagonista di questa bella frittata oltre che di tutt'altro che edificanti manifestazioni di carattere virulentemente politico come quello che ci ha proposto la cronaca degli ultimi mesi, possa essere confusa con le associazioni d'Arma, avendo anzi contributi finanziati dal Suo Ministero che le altre non possono neppure immaginare". Finanziamenti che Giuseppe De Lorenzo e Marco Vassallo avevano svelato in un'inchiesta sul Giornale.
Fondi statali per i partigiani: ecco il tesoretto antifascista. Crescono le sovvenzioni per i gruppi partigiani. Dai garibaldini ai combattenti in Spagna: 4 milioni di euro in 6 anni, scrivono Giuseppe De Lorenzo e Marco Vassallo, Giovedì 26/10/2017 su "Il Giornale". Ogni anno decine di associazioni aspettano l’autunno con ansia. Le attende una sorta di rito: la perpetua elargizione di fondi (statali) che in buona parte dei casi significa sopravvivenza. Anche quest’anno il Governo, approvando la legge di bilancio 2017, provvederà a sovvenzionare con quasi tre milioni di euro una pletora di organizzazioni combattentistiche dalle più disparate sigle. Dai garibaldini all’Arma di Cavalleria, passando - ovviamente - per i partigiani.
Dai Mille alla Resistenza. Ecco: i partigiani. I fondi per le associazioni combattentistiche provengono da due voci di bilancio: da una parte il ministero della Difesa mette a disposizione 1,7 milioni di euro da dividere tra 47 raggruppamenti; dall’altra il ministero dell’Interno, in collaborazione con quello delle Finanze, elargisce altri 1,6 milioni. Mica bruscolini. Buona parte di questi proventi finisce nelle tasche di organizzazioni che in un modo o nell’altro si riconoscono nell’esperienza delle varie brigate antifasciste. Per esempio, la Difesa si appresta a versare 23.500 euro all’Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti in Spagna. E qui vi chiederete: cosa fa il comitato? Sul sito si trova lo statuto del gruppo costituito da "superstiti ex volontari che hanno partecipato alla guerra di Spagna nelle formazioni anti-franchiste ed i loro familiari e discendenti". Ma se qualcuno è interessato e ne condivide i principi, può iscriversi lo stesso. Le iniziative riguardano soprattutto la pubblicazione di memorie e biografie di comunisti, anarchici e antifascisti vari che presero la via della penisola iberica per combattere contro Francisco Franco. Per dire, sabato scorso si sono visti a Tolmezzo (Udine) per ricordare i volontari internazionalisti antifascisti "che dalla Carnia e dall'alto Friuli" parteciparono alla guerra spagnola "al fianco delle istituzioni democratiche". Saluti, convegni, targhe e concerto. Nella colonna delle uscite del bilancio del Governo ci sono poi 55mila euro finiti alla Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane, 115.000 euro all’Associazione nazionale Reduci della Prigionia dell’Internamento e della Guerra di Liberazione, 84mila per la Federazione Italiana Volontari della Libertà e altri 41.800 euro all’Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione Inquadrati nei Reparti Regolari delle Forze Armate, che solo a pronunciare il nome serve una riga. E infine l’Anpi: alla più famosa organizzazione partigiana finiranno ben 107mila euro tondi tondi. Ognuno si è fatto il suo comitato: i partigiani, i militari, i deportati, i volontari all'estero e chi più ne ha più ne metta. Spesso i vari Enti stampano riviste, sostengono siti internet e in alcuni casi pubblicano pure libri sulla sempreverde resistenza antifascista. C’è anche il caso dell’Associazione Nazionale tra le famiglie italiane dei Martiri Caduti per la Libertà della Patria, che quest’anno incasserà 102mila euro. Voi direte: impossibile non essere d’accordo con chi rappresenta i martiri per la libertà. Certo. Il fatto è che riguarda solamente gli “antifascisti, partigiani, semplici civili” morti durante l’occupazione nazi-fascista del Centro e del Nord Italia. In particolare l’attenzione dell’ANFIM si concentra sulla strage delle Fosse Ardeatine (nacque proprio dal desiderio dei parenti delle vittime di ottenere verità) e si allarga a Marzabotto, Forte Bravetta, Leonessa e al reatino. L’obiettivo? “Mantenere viva la Memoria” e promuovere i “principi di libertà e democrazia”. Due cose - in realtà - che già fa egregiamente l’Anpi. Non potevano allora unire le forze, riducendo così le elargizioni statali? A quanto pare no, visto che la Memoria delle Fosse Ardeatine se la “contendono” l’ANFIM e la sezione locale dell'ANPI di Roma. Doppi fondi, più festa per tutti. Un piccolo inciso lo merita pure l’Associazione Nazionale Veterani Reduci Garibaldini, che “deriva direttamente” - come si legge nel sito - dalla “Società di Mutuo Soccorso fra garibaldini che fu fondata dallo stesso Generale Garibaldi nel 1871”. Visto che ormai dei Mille - per motivi anagrafici - non ne è rimasto in vita neppure uno, quando alla fine della Guerra si decise di ripristinare il sodalizio “su base democratica ed antifascista”, furono ammessi come iscritti i “reduci della Divisione italiana partigiana Garibaldi che aveva combattuto in Jugoslavia” perché “continuatori della tradizione garibaldina”. Oggi i soci sono di fatto solo ex partigiani e alcuni simpatizzanti (dal 1993), a cui non dispiaceranno certo i 23mila euro donati dal ministero.
Lievitati gli incassi. A conti fatti alle organizzazioni partigiane vanno 467mila euro l’anno, un terzo del totale. A questi però vanno aggiunti anche i fondi stanziati dal Viminale: Marco Minniti si appresta infatti a versare 202.071 euro all’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti (ANPPIA), un ente da 3.643 soci nato nel 1954 e che ora fa appelli “alle forze democratiche” (tra cui il Pd) per fare da “argine nel modo più unitario e largo possibile, alla recrudescenza fascista”. In totale negli ultimi 6 anni l’intera galassia dei gruppi partigiani ha drenato 4 milioni di euro dalle casse dello Stato. Negli ultimi anni gli stanziamenti hanno avuto un andamento ondivago: cresciuti fino al 2014, si sono contratti nel 2015 per poi tornare a crescere. Nel 2017 la Pinotti ha registrato un incremento di 164.349 euro rispetto all’anno precedente, mentre quello del ministero dell’Interno si è ridotto di soli 77mila euro. Per molto tempo le sovvenzioni sono state elargite a pioggia, con metodi di ripartizione dei contributi slegati dalle reali attività svolte e senza trasparenza: per cinque anni la Commissione Difesa ha chiesto i rendiconti annuali degli enti beneficiari, ma li ha ottenuti solo quest’anno e solo per 27 associazioni su 47. Per carità: quale correttivo è stato fatto. Dal 2014 per ottenere i fondi bisogna presentare dei progetti precisi, altrimenti ci si deve accontentare del “contributo per i costi fissi di funzionamento” e di una decurtazione del 20% per ogni anno in cui non si elaborano programmi meritevoli di essere finanziati. Comunque vada, un po' di soldi non vengono mai fatti mancare. Non sia mai che la lotta partigiana finisca (finalmente) sugli scaffali della storia.
Ecco tutti i soldi ai nuovi partigiani. Gli esborsi alle 179 associazioni di reduci, rifinanziati dal Governo Fondi anche ai «garibaldini» che combatterono dal ’43 al ’45 in Jugoslavia, scrive il 25 Aprile 2016 "Il Tempo". Centosettantanove sfumature di partigiano. E il Governo le finanzia tutte: dai reduci garibaldini agli antifascisti. Ecco le associazioni che lo Stato foraggia e di cui si sente parlare solo il 25 Aprile. Anpi, Anvrg, Aicvas, Anvcg, Aned, Anppia, solo per citarne alcune. Con molta probabilità solo gli iscritti, vedendo queste sigle, sapranno riconoscere le associazioni di cui stiamo parlando: "Associazione Nazionale Partigiani Italiani", "Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti", "Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra", "Associazione Nazionale Ex Deportati", "Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti". C’è chi strabuzzerà gli occhi quando leggerà che il primo acronimo sta per "Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini". Ovviamente non si tratta di un’associazione di mummie del 1861, bensì dei reduci della divisione italiana in trincea dal ’43 al ’45 con i partigiani in Jugoslavia. I suddetti acronimi appartengono all’immensa galassia delle associazioni combattentistiche che godono di stanziamenti pubblici annuali predisposti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dai ministeri della Difesa, dell’Interno e dell’Economia. La crisi non tocca le tante associazioni rosse che possono dormire sonni tranquilli. A mettere in cassaforte il tesoretto ci ha pensato lo Stato inserendole nella legge di stabilità del 2014: «Per il sostegno delle attività di promozione sociale e di tutela degli associati svolte dalle Associazioni combattentistiche - si legge nel testo - è autorizzata la spesa di euro 1.000.000 annui per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016». E stiamo parlando solo di quelle sottoposte alla vigilanza della Difesa. Al milione di euro stanziato da questo ministero, infatti, se ne aggiungono altri due disposti dal Viminale di concerto con il ministero dell’Economia. Totale: tre milioni di euro circa per sostenere associazioni combattentistiche e d’arma. Nella maggior parte dei casi non si tratta di cifre stellari. Eppure, sommando tutti i contributi diretti alle varie associazioni, l’esborso da parte dello Stato non è trascurabile. Il Viminale, nel dicembre 2014, ha previsto un contributo di 1,892 milioni di euro per tre sole associazioni: l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra a cui andrà la fetta più grossa (quasi un milione e mezzo), seguita da altre due per le quali, almeno stando ai nomi, è difficile dire in cosa divergano: ANPPIA, Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (227 mila euro), e l’ANED, Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei Campi Nazisti (189 mila euro). Il rischio è di avere decine e decine di associazioni tra le quali è assai difficile cogliere distinzioni tra ambiti e finalità. Tra i tanti finanziamenti a pioggia destinati alle associazioni spicca anche quello di 34 mila euro del 24 marzo 2016 stanziato dal Governo a favore dello spettacolo teatrale "Tante facce nella memoria", di Francesca Comencini. Si tratta di sei storie di donne partigiane e non che nel ’44 vissero l’eccidio delle Fosse Ardeatine, feroce rappresaglia per l’attentato di via Rasella: una sorta di oratorio sulla memoria in scena a Roma. La regista, madre del Viceministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda, fa l’en plein garantendosi anche un ulteriore finanziamento da 20 mila euro concesso dalla Regione Lazio. Insomma sui soldi i partigiani non fanno resistenza.
L'esodo giuliano-dalmata e quegli italiani in fuga che nacquero due volte. Un'inchiesta sulle vittime della violenza titina e su chi fu costretto ad abbandonare la Patria, scrive Eugenio Di Rienzo, martedì 05/02/2019, su Il Giornale. L'appartenenza a una comunità nazionale - sostenne il filosofo francese Ernest Renan in una conferenza pronunciata alla Sorbona nel 1882 - non deriva unicamente dalla legge del sangue, ma discende anche da una scelta consapevole che si rinnova con un «plebiscito di tutti i giorni». E nessuno più dei nostri trecentomila compatrioti del confine orientale seppero onorare questo comandamento nel tragico periodo della storia del nostro Paese che va dal 1943 al 1954. Quegli uomini e quelle donne furono, infatti, Italiani che decisero di «nascere Italiani due volte», come scrive Dino Messina in un volume appassionante: Italiani due volte. Dalle foibe all'esodo: una ferita aperta della nostra storia (Solferino, pagg. 304, euro 16,50), e che riaffermarono la loro identità, in nome di una scelta etnica che fu soprattutto una scelta culturale. Da cittadini divenuti profughi, affrontarono l'odissea di un esilio senza ritorno che li portò a lasciare Istria, Fiume, Zara, Pola per una patria che si rivelò troppo spesso matrigna o per terre lontane: Australia, Canada, Argentina, Sudafrica, Rhodesia. Il saggio di Messina, commosso e partecipe perché si basa sulle testimonianze dei pochi sopravvissuti e dei tanti che hanno mutuato il ricordo dell'esodo dalla memoria familiare, ha l'andamento di una tragedia greca che si dipana in tre atti. Il primo iniziò, dopo il settembre 1943, quando Hitler costituì la Zona d'operazioni del Litorale Adriatico, una suddivisione territoriale comprendente la Venezia Giulia e le province di Trieste, Pola, Fiume, sottoposta alla diretta amministrazione militare del Reich, dove le forze d'occupazione cercarono, con largo successo, di esasperare l'ostilità dell'elemento slavo contro quello italiano. Poi venne, dall'autunno 1944 alla primavera del 1945, il «democidio» sapientemente pianificato - e scatenato contro la nostra gente - dal IX Korpus Sloveno di Tito. Il terzo atto si compì dal 10 febbraio 1947 con la firma del trattato di Parigi (con cui furono cedute a Belgrado Fiume, Pola, le isole del Quarnaro, la quasi totalità dell'Istria e gli altopiani carsici limitrofi a Gorizia), all'ottobre 1954, con il Memorandum di Londra che restituì Trieste all'Italia, concedendo, però, alla Iugoslavia un'ulteriore porzione dell'Istria e tracciando una linea di confine che fu definitivamente riconosciuta col Trattato di Osimo del novembre 1975. Di tanto disastro si volle allora rendere responsabile De Gasperi, accusato di essersi presentato al tavolo delle trattative «col capo cosparso di cenere e il rosario in mano». Era un'accusa totalmente ingiustificata. Nell'agosto del 1946, l'esponente democristiano, infatti, aveva pronunciato dinanzi ai rappresentanti delle Potenze alleate un discorso in cui respingeva il carattere punitivo del trattato di pace, affermando che i vincitori, non solo volevano compiere una spartizione del nostro territorio, in spregio alla «Carta atlantica» che riconosce alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali. Essi, infatti, intendevano stabilire che «gli Italiani, passati sotto sovranità slava, i quali opteranno per conservare la loro cittadinanza, dovranno entro un anno essere espulsi e trasferirsi in Italia abbandonando la loro terra, la loro casa, i loro averi». Contro quello, che fu poi definito il diktat di Parigi, si mobilitò un fronte esteso di politici e intellettuali. Luigi Sturzo propose che non fossero inviati plenipotenziari per firma del trattato di pace, in segno di protesta. Benedetto Croce, Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando, il fiumano Leo Valiani rifiutarono sdegnosamente di votare alla Costituente la ratifica degli accordi siglati nella capitale francese. Lo storico Federico Chabod, partigiano in Val d'Aosta, che aveva sventato in quella regione un progetto annessionistico fomentato dalla Francia, alla fine del luglio 1945, suggerì al governo De Gasperi di utilizzare lo strumento dell'autonomia regionale per preservare l'italianità del confine orientale. Infine, il filosofo Carlo Antoni e un altro storico Ernesto Sestan (l'uno triestino, l'altro istriano) redassero, sempre per De Gasperi, due memoriali in cui si esponevano le ragioni etniche, storiche, culturali che militavano a favore della conservazione all'Italia di Trieste e di parte del goriziano e dell'Istria e dove si suggeriva di regolare il contenzioso territoriale in base al principio dell'autodeterminazione, per cui Slavi e Italiani avrebbero dovuto scegliere la loro nazionalità attraverso liberi referendum. Questa proposta divenne il cavallo di battaglia di Gaetano Salvemini, che già dal 1944 aveva denunciato la politica espansionistica di Tito e il coinvolgimento di Togliatti a suo sostegno. Nel febbraio 1945, in replica a un articolo comparso sull'Unità, smaccatamente favorevole all'annessione iugoslava di Gorizia, Trieste e dell'Istria occidentale, Salvemini accusava gli «stalinisti italiani» di voler «buttare a mare» i propri compatrioti, e di costringere gli italiani, che da sempre erano maggioranza in alcune zone miste italo-slave, ad «andarsene a casa del diavolo». Era una fin troppo facile profezia. Di lì a due anni, dai porti dell'Istria e della Dalmazia sarebbero partite navi carica di un'umanità dolente, verso una patria che si sarebbe dimostrata ingiusta e impietosa, oltre ogni misura. A essi il Pci, i suoi dirigenti, le sue organizzazioni, i suoi sindacati, i suoi militanti riservarono la qualifica di «fascisti», a causa della «vergognosa fuga dal paradiso dell'eguaglianza e della fraternità socialista». E quei «due volte Italiani» iniziarono a subire, allora, l'oltraggio del più crudele genocidio: quello della memoria.
Foibe, Pansa: «L’Anpi è un club di trinariciuti comunisti che dicono solo falsità», scrive martedì 5 febbraio 2019 Desiree Ragazzi su Secolo fd’Italia. «Quelli dell’Anpi non contano un cazzo. Straparlano. Sono un club di trinariciuti comunisti». Giampaolo Pansa proprio non ci sta a sentire le fandonie e le falsità che in questi giorni circolano sulle foibe. Prima il post revisionista dell’Anpi di Rovigo, poi la sponsorizzazione e partecipazione dei partigiani a una conferenza negazionista a Parma. La Giornata del Ricordo si avvicina e lo scontro con l’Anpi si fa sempre più forte. «Vogliono negare che Tito era un dittatore comunista – dice Pansa – Ma non possono farlo perché è storia. Vogliono negare che le squadre comuniste gettavano la gente che non amava Tito dentro le foibe. Ma non possono farlo perché è storia. Quelli dell’Anpi dicono e fanno delle cose che sono di un’assurdità totale». Dell’Anpi ne parla anche nel suo ultimo libro Quel fascista di Pansa (Ed. Rizzoli) dove racconta le accuse e gli insulti che accompagnarono la pubblicazione nel 2003 del Sangue dei vinti. «Quel libro era dedicato alle vendette compiute dai partigiani trionfanti sui fascisti repubblicani sconfitti – scrive il giornalista nella sinossi del libro – Segnò l’inizio di una serie di vicende che in qualche modo riflettono l’Italia entrata nei nevrotici anni Duemila. Prima di tutto non sono stato ritenuto un rosso come credevo di essere, bensì un nero: Pansa il fascista ha gettato la maschera. Questo accese la rabbia di una serie di eccellenze presunte democratiche, più ridicole che tragiche. Venni aggredito e messo all’indice da parrocchie politiche che prima stravedevano per me e volevano eleggermi in Parlamento». Nel nuovo libro c’è un capitolo intitolato I nemici dell’Anpi…È un libraccio che racconta la verità su questa Italia del cazzo. Ai comunisti dico: attaccatemi. E più mi attaccherete, più copie venderò. Nel libro scrivo che dopo molti anni si vede con chiarezza l’assurdità paradossale della sinistra italiana nella Prima Repubblica. C’erano il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito socialdemocratico. Poi esisteva un quarto partito: l’Anpi. Che cosa sapevano gli italiani dell’Anpi? Quasi niente, anche i suoi dirigenti erano pressoché ignoti. E soprattutto nessuno di loro poteva essere sottoposto a una valutazione dell’opinione pubblica…Lei scrive che la crisi della sinistra italiana non è un guaio del 2019 perché risale nell’immediato dopoguerra. I comunisti e tutta la sinistra non hanno più voce in capitolo. Sono in rotta di collisione con la verità e la storia. Ecco perché parlare oggi di Anpi è anacronistico. In un certo modo è come parlare dei superstiti di Garibaldi che cento anni dopo parlano dello sbarco dei garibaldini…La sinistra quando deve ricordare i crimini commessi dai comunisti ha sempre l’orticaria…Si vergogna di essere nata da una costola del comunismo internazionale. E, quindi, si ostina a negare, negare, negare. E a dire che non è assolutamente vero che furono commessi crimini atroci. Oggi negano le foibe, ma qualcuno dentro c’è morto ed era gente che non piegava la testa ai soldati di Tito.
"Quel fascista di Pansa" racconta la sua storia. L'autore stesso svela come il suo «Il sangue dei vinti» mandò in tilt la sinistra, che lo censurò e rinnegò, scrive Roberto Chiarini, Martedì 05/02/2019, su Il Giornale. Era inevitabile che Giampaolo Pansa, l'autore del «libro infame», Il sangue dei vinti, ritornasse sul luogo del delitto: il delitto storiografico, politico, morale (mai condonato) di aver attentato al mito fondante della Repubblica nata dalla Resistenza togliendo il velo alla sequela di violenze, assassini, esecuzioni sommarie di ex fascisti - talora solo presunti - che hanno insanguinato il nostro dopoguerra. Era il 2003 quando una delle più popolari e stimate firme del giornalismo di sinistra osò dare alle stampe il libro incriminato: una lunga, sconvolgente sequela di delitti costati la vita a molti italiani colpevoli - non sempre in modo comprovato - di essersi macchiati di gravi misfatti, talora semplicemente di essersi schierati dalla parte sbagliata nel Ventennio o nei fatidici seicento giorni della Rsi. Fu subito un'esplosione di polemiche, di attacchi, di scontri che implacabilmente accompagnarono il lungo tour di presentazione del libro in giro per l'Italia, per non dire delle intimidazioni subite dall'autore quando osò metter piede in partibus infidelium, dove vigeva il bando del politicamente e storiograficamente scorretto. Era inevitabile che Pansa tornasse su quella tormentata stagione di polemiche. Per più di un motivo. Perché il libro, subito incriminato di lesa maestà alla Resistenza, gli aveva fatto toccare l'acme della popolarità, con ristampe sfornate a tambur battente fino a raggiungere il milione di copie vendute. Perché fu un caso storiografico unico nella storia repubblicana. Perché infine, a distanza di anni, sarà pur venuto il momento di storicizzare quella polemica, di fare cioè un bilancio delle ragioni pro e contro che portarono allora l'Italia a schierarsi in due fazioni l'una contro l'altra armarla. Il primo, non solo titolato a esprimere un parere al riguardo, ma che ha sentito l'urgente bisogno di riparlarne, è stato appunto il protagonista o, meglio (per i suoi avversari) l'imputato numero uno. Lo ha fatto al suo solito modo: diretto, polemico, provocatorio. Già dal titolo: Quel fascista di Pansa (Rizzoli, pagg. 240, euro 20; in libreria da oggi). Avvalendosi di aneddoti, curiosità e testimonianze di molte vittime della lunga guerra civile post 25 aprile e di loro familiari, che dopo l'uscita del libro inondarono letteralmente di lettere accorate l'autore, nonché delle requisitorie sviluppate dai suoi, non meno numerosi, critici, Pansa conduce per mano il lettore a rivisitare quell'infuocata kermesse politico-storiografica che si innestò all'apparizione del libro, in qualche caso addirittura al solo annuncio. Kermesse fu e non poteva non essere. Il sangue dei vinti era il libro giusto uscito al momento giusto, per i suoi denigratori il libro sbagliato nel momento sbagliato. Sono gli anni infatti del gran ritorno in auge della destra. Impera Berlusconi, il Cavaliere nero, macchiatosi dell'onta di aver non solo sdoganato, ma addirittura portato al governo il partito sospettato di perpetuare sotto mentite spoglie cultura, valori, tradizione del mai debellato neofascismo. Ci voleva solo che, dopo lo sdoganamento politico della destra, uscisse un libro che completasse l'opera attuandone anche lo sdoganamento storico. A questo punto, sarebbe caduto anche l'ultimo argine al suo dilagamento. Ai custodi della memoria mitizzata della Resistenza era proprio questo il ruolo svolto dall'operazione editoriale di Pansa. Al di là delle specifiche vicende luttuose rievocate nel libro, l'addebito principe lanciato contro il libro dai denigratori fu che non era lecito né storiograficamente né moralmente, tanto meno politicamente, illuminare «il lato oscuro della guerra civile». Esattamente l'opposto di quel che invece da mezzo secolo si aspettavano le vittime della guerra civile: un popolo di «esuli in patria», dimenticati, cittadini dimezzati perché gravati da una colpa inespiabile, familiari di fascisti che per non vedersi rinnovare il bando dalla cittadella democratica avevano preferito rifugiarsi in «una torre di silenzio», stretti nella morsa «della paura, della vergogna». Non conta se quanto rievocato nel libro di Pansa fosse veritiero, documentato, non smentibile. Il sangue dei vinti era «un libro infame» che «danneggiava i valori della Resistenza». Di più: portando alle estreme conseguenze il revisionismo, quella denuncia di violenze perpetrate a danno dei vinti avrebbe attuato una sorta di rovescismo. Dipingendo i partigiani come criminali e i fascisti come vittime o eroi, si era finito col ribaltare le conquiste storiografiche e coll'abbattere il patrimonio di valori su cui si è fondata la democrazia repubblicana. Pansa richiama, uno a uno, i capi di imputazione avanzati a suo carico, per demolirli e rivendicare la validità dell'operazione editoriale da lui condotta. Non accetta l'accusa di essere «un falsario» e nemmeno uno storico poco scrupoloso nel documentare le sue affermazioni. La pretestuosità di tali accuse è comprovata - non manca di rimarcare dal fatto che i suoi accusatori finirono col contraddirsi avanzando l'imputazione opposta, e cioè che egli si limitava a narrare «vicende già note». Resta il rilievo dell'inopportunità dell'iniziativa. Se inopportuna è stata l'iniziativa, non di meno si deve convenire che inopportuno era il rilievo. Come scrive Pansa: «In una società democratica, nata dalla vittoria contro una dittatura, imbavagliare chi ha perso contraddice un principio che tutti dovremmo avere caro». Da ultimo, ci sia consentito l'impertinenza. Siamo così sicuri che sia stato un buon servizio alla democrazia costringere al silenziamento indistintamente tutto il sommerso dei vinti, impedendo di «riacquistare il diritto di esistere» anche a chi, come si lamenta l'orfana di una vittima dei partigiani, pur nutrendo «idee di sinistra», s'era vista costretta a «stare zitta» per mezzo secolo, senza nemmeno poter dar voce pubblica al suo lacerante dolore?
Elisabetta Gardini, si cambia la storia: schiaffo ai comunisti a Bruxelles. Foibe, la verità sugli orrori, scrive il 3 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. L'azzurra Elisabetta Gardini guida "l'operazione verità" su Foibe, esuli italiani in Istria e gli orrori dei comunisti jugoslavi di Tito. Il 5 febbraio a Bruxelles la capogruppo di Forza Italia al Parlamento Europeo organizza una mostra e un convegno dedicato alla tragedia della Seconda Guerra mondiale troppo spesso dimenticata dagli storici italiani e potrebbe essere l'occasione giusta per chiedere ai vertici delle repubbliche dell'ex Jugoslavia accesso agli archivi. L'obiettivo, spiega al Giornale Vito Comencini, segretario della Commissione esteri della Camera, è quello di creare una Commissione parlamentare d'inchiesta per far luce sui crimini commessi da Tito "a cominciare dalla strage di Vergarolla, che provocò la fuga degli italiani da Pola del 1947". Le vittime italiane di quella campagna sanguinaria di eliminazione fisica "non erano solo fascisti o collaborazionisti, ma anche di antifascisti, democratici e patrioti che, dopo aver combattuto nella Liberazione, si opponevano alle mire del regime comunista di Belgrado". Una verità scomoda per decenni ignorata consapevolmente da politici e storici di sinistra.
"Il Parlamento indaghi sulle stragi del boia Tito". Alla Camera la proposta degli esuli: «Partiamo da Vergarolla, primo eccidio della storia repubblicana», scrive Fausto Biloslavo, Domenica 03/02/2019, su Il Giornale. Una commissione parlamentare d'inchiesta per fare luce sui crimini commessi dai boia di Tito. A cominciare dalla strage di Vergarolla, che provocò la fuga degli italiani da Pola del 1947. La richiesta della Federazione degli esuli è stata inviata in questi giorni al segretario della Commissione esteri della Camera, Vito Comencini, alla vigilia del 10 febbraio, giorno del Ricordo dell'esodo e delle foibe. Ma verranno coinvolti tutti i partiti. L'obiettivo è «l'istituzione di una commissione parlamentare per la strage di Vergarolla e i crimini commessi al confine orientale». Il testo inviato a Comencini ricorda che la «Repubblica è nata con un profondo vulnus (ferita, ndr) () nelle province di Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Zara. () L'occupazione titina segnò pagine luttuose per la comunità italiana». La proposta sottolinea come «la guerra di liberazione nazionale jugoslava aveva assunto caratteristiche annessioniste e gli oppositori del progetto andavano eliminati». E si ricordano i «quaranta giorni di occupazione» a guerra finita, nel maggio-giugno 1945, di città come Trieste oltre alle deportazioni di 600 italiani da Gorizia. Le stragi delle foibe sono iniziate in Istria nel 1943, dopo il vuoto dell'8 settembre e continuate a guerra finita. «Non si trattava solamente di fascisti o collaborazionisti, ma anche di antifascisti, democratici e patrioti che, dopo aver combattuto nella Liberazione, si opponevano alle mire del regime comunista di Belgrado» si legge nel testo. «La proposta è nata dalla Federazione degli esuli per caratterizzare il Giorno del ricordo di quest'anno. Auspichiamo che aderiscano tutte le forze politiche» spiega a il Giornale il vicepresidente Davide Rossi, che rappresenta il grosso delle associazioni dei 250mila istriani, fiumani e dalmati costretti ad abbandonare le loro case dalle violenze di Tito. «Il 18 agosto 1946 a Pola, città ancora formalmente italiana, un attentato provocò una carneficina con un numero di morti che, a seconda delle diverse fonti, oscilla tra le 70 e le 110 unità a cui sommare un centinaio di feriti tra i bagnanti che in località Vergarolla assistevano ad una manifestazione sportiva - si legge nella proposta - Si trattò della prima strage della storia dell'Italia repubblicana, con un numero di vittime impressionante e paragonabile alle ben più note stragi degli anni di piombo». In occasione di una gara di nuoto che aveva attirato la popolazione italiana sulla spiaggia, saltarono in aria delle mine anti-nave abbandonate. Le vittime identificate furono 64, ma altri resti erano sparsi in mille pezzi sulla spiaggia. Pola era formalmente ancora italiana e in mano agli inglesi. Sul primo momento si accreditò la tesi dell'incidente. In realtà sarebbero stati agenti dell'Ozna, la polizia segreta di Tito, ad organizzare l'attentato. Il clima di paura che seguì alla strage portò all'esodo, l'anno dopo, del 90% degli italiani dalla città. «Ho ricevuto la proposta e sono più che disponibile a portarla avanti - conferma Comencini al Giornale - Non l'ho ancora presentata perché devo coordinarmi prima con gli uffici e parlare con gli altri membri della Commissione, ma è indubbio che i crimini compiuti nei confronti degli italiani siano rimasti sepolti per troppi anni». La commissione dovrebbe fare luce non solo su Vergarolla, ma pure su altre stragi dei partigiani di Tito. «L'approfondimento di queste ricerche e l'impostazione di sinergie con Lubiana, Zagabria e Belgrado (ove sono ancora conservati archivi della ex Repubblica Socialista Federale Jugoslava) - spiega la proposta - () necessitano di un adeguato sostegno istituzionale». A Bruxelles il 5 febbraio Elisabetta Gardini, capogruppo di Forza Italia al Parlamento Europeo, organizza una mostra e un convegno dedicato alla tragedia dell'esodo e delle foibe. Rossi, invitato a parlare a nome degli esuli, sottolinea che «ci saranno anche rappresentanti delle repubbliche dell'ex Jugoslavia. Un'ottima occasione per chiedere collaborazione e l'accesso agli archivi». Anche Comencini ribadisce che «una Commissione può far luce chiedendo collaborazione ai Paesi vicini, che hanno i documenti. Per una volta l'Unione europea può essere uno strumento di aiuto». E aggiunge: «Spesso la storia è scritta dai vincitori. Finalmente si è cominciato ad affrontarla anche da un altro punto di vista». Non a caso la parte finale della proposta puntualizza che «una Commissione d'inchiesta parlamentare dedicata a ricostruire queste pagine ancora oscure del dopoguerra sanerebbe parzialmente la ferita e contribuirebbe a fare chiarezza su eventi che ancora oggi risultano oggetto di polemiche, giustificazionismi, interpretazioni fuorvianti e strumentali».
Dossier sulle foibe "imbarazzo" rosso....Il processo sui crimini in Istria e Dalmazia: dalla voragine di Basovizza ad oggi 50 anni di silenzio. Dossier sulle Foibe, “imbarazzo” rosso. Fare giustizia si ridurrà nel tentativo di punire un “boia” sloveno di 85 anni, scrive Dimitri Buffa il 7 febbraio 2002. Da tempo a Roma è in svolgimento davanti alla prima corte d’assise un processo per crimini compiuti tra la fine della seconda guerra mondiale e l’immediato dopoguerra nelle terre di Istria e Dalmazia. Viene chiamato il processo delle foibe e rischia di rivelarsi del tutto inutile per chi si illude di potere punire a tanti anni di distanza un solo uomo per tutti: il cittadino sloveno Oscar Piskulic, un ex boia di ormai 85 anni che non corre alcun rischio di venire arrestato nei territori sloveni dove risiede. Il processo sulle foibe venne istruito da un magistrato molto scomodo, il pm Giuseppe Pititto che si vide sottratta la possibilità di seguirlo in aula. Venerdì scorso il “Corsera” parlava di un documento ufficiale recentemente scritto insieme da storici italiani e sloveni che finalmente ammette la tragica verità delle tante denuncie susseguitesi dal dopoguerra ad oggi. Niente di trascendentale a leggerne le anticipazioni, ma abbastanza imbarazzante da tenerlo in un cassetto in attesa che si svolgano le elezioni del 13 maggio. Prima di Pititto nell’inchiesta sui crimini delle foibe carsiche aveva lavorato anche il pm romano Gianfranco Mantelli il quale fece fare una serie di interrogatori di testi dell’epoca o di loro discendenti. Il 22 novembre ’94 venne ad esempio sentito padre Flaminio Rocchi, Antonio da laico, nato a Neresine (Pola) il 3 luglio ’13, residente a Roma e direttore dell’ufficio assistenza dell’Associazione nazionale Venezia Giulia Dalmazia, e autore del libro: “L’esodo dei 350 mila giuliani, fiumani e dalmati”. Altro libro da lui curato: “Innocenza di 10mila infoibati in Istria, Fiume e Zara”. Secondo il prelato fu a causa di un’interpretazione fin troppo estensiva dell’articolo 7 del trattato di pace del 10 febbraio ’47 tra Italia e Yugoslavia se certi crimini non vennero perseguiti in tempo utile. Recita tale articolo: «L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguirà quei cittadini italiani compresi gli appartenenti alle forze alleate (dopo il 1946 vi era compresa anche la Yugoslavia) per avere agito in favore delle resistenze alleate e associate dal 10 giugno 1940 fino all’entrata in vigore del presente trattato» (16 settembre ’47). Praticamente tale articolo ha funzionato poi da foglia di fico per le atrocità commesse dai partigiani slavi e dai loro collaborazionisti comunisti italiani. Il 3 gennaio ’95 veniva sentito l’avvocato Lucio Di Priamo. Riferiva che un suo cliente a nome Stefano Potaro aveva rinvenuto nella cantina di uno zio defunto alcune vecchie pellicole sulle foibe che poi vennero restaurate dall’Istituto Luce di Roma, dal dottor Guido Cace, presidente dell’Associazione dalmati. Tali immagini vennero poi usate in una puntata di Combat film. Il 30 gennaio ’95 veniva sentito Achille D’Amelia, giornalista del TG2 Rai. Riferiva dell’archivio militare della Rsi e di quello della Marina Italiana. Faceva il nome di una sua fonte, il professor Paolo Simoncelli ordinario di Storia Moderna all’Università La Sapienza di Roma. D’Amelia aveva curato il 19 gennaio ’95 il “Dossier Istria” sul TG2 in cui si parlava di documenti che comprovavano accordi segreti tra il comandante della X Mas Borghese e Badoglio insieme anche ai partigiani bianchi per impedire le stragi in Istria tra ’44 e ’45. Anche Oskar Piskulic veniva rintracciato da D’Amelia a Rijeka in Slovenia, rilasciando un’intervista per il periodico “Globus” in cui si discolpava così:«Con il denaro con cui bisognava pagare i nostri agenti all’estero, Krajacic (all’epoca ministro dell’Interno, ndr) acquistava oggetti personali». E ancora: «Nel ’43 gli italiani mi hanno arrestato e condannato a morte, ma i miei mi hanno liberato con un’azione quasi spettacolare. Poi sono finito a Rijeka come commissario cittadino. Mio padre è morto nel ’30 come lavoratore portuale, mia madre che faceva la donna delle pulizie in una banca di Rijeka era stata denunciata da una nostra vicina italiana perché non iscritta al partito fascista, a causa di ciò mia madre perse il lavoro che fu poi assegnato a quella vicina. Dopo di ciò le autorità italiane ci hanno mandato via da Rijeka, all’inizio del’occupazione subito aderii al nostro movimento, come tutti i fiumani che odiavano il fascismo. Sono stato in un’unità in Istria che si chiamava Gorsky Kotar. Una volta vicino a Trabnik gli italiani ci attaccarono la mattina e la sera quattro nostri partigiani che erano stati fatti prigionieri vennero uccisi con le estremità tagliate e gli occhi cavati. Ho anche lavorato in diverse organizzazioni partigiane prima di finire a Rijeka come commissario cittadino. In Istria nel 1944 aveva cominciato ad organizzarsi il corpo dei volontari serbi composto dai cetnici di Nedic. Aspettavano lo sbarco degli inglesi e dovevano essere il loro supporto. Allora abbiamo fondato una speciale unità partigiana formata dagli uomini più fedeli che non sarebbero caduti sotto l’influenza degli inglesi. Compito di tale unità era la liquidazione del corpo cetnico. Ho assistito in quel periodo all’arresto, alla deportazione e alla fucilazione di molti nostri uomini da parte delle formazioni militari italiane...». Oggi non sarà di certo un processo penale a un vecchio pieno di scheletri nei propri armadi o un documento congiunto di storici dei due paesi interessati a questo dramma dire la parola fine su questi crimini che continueranno a non avere alcuna giustizia. Sul ciglione carsico, a 9 chilometri da Trieste, sorge la borgata di Basovizza. Nei pressi si apriva il “Pozzo della miniera”, oggi meglio conosciuto come “Foiba di Basovizza“, divenuta simbolo di tutte le foibe del Carso e dell’Istria, e di tutti i luoghi che videro il martirio e la morte atroce di italiani, sia per il numero delle vittime che ha inghiottito, sia tragicità delle vicende connesse alla strage colà perpetrata. Occorre precisare che questa tristemente famosa voragine non è una foiba naturale, ma, appunto come si accennato sopra, il pozzo di una miniera scavato all’inizio del secolo fino alla profondità di 256 metri, nella speranza di trovarvi il carbone. La speranza andò delusa e l’impresa venne abbandonata. Nessuno allora si curò di coprire l’imboccatura e così, nel ’45, il pozzo si trasformò in orrida tomba. Un documento allegato a un dossier sul comportamento delle truppe jugoslave nella Venezia Giulia durante l’invasione, dossier presentato dalla delegazione italiana alla conferenza di Parigi nel ’41, descrive la tremenda via-crucis delle vittime destinate ad essere precipitate nella voragine di Basovizza, dopo essere state prelevate nelle case di Trieste, durante alcuni giorni di un rigido coprifuoco. Lassù arrivavano gli autocarri della morte con il loro carico di disgraziati. Questi, con le mani straziate dal filo di ferro e spesso avvinti fra loro a catena, venivano sospinti a gruppi verso l’orlo dell’abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro.
LA RAI SI SVEGLIA...
INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/03335 presentata da STORACE FRANCESCO (ALLEANZA NAZIONALE) in data 18 settembre 1996. Al Ministro delle poste e delle telecomunicazioni. - Per sapere - premesso che: dopo cinquant'anni di oblio il genocidio delle foibe e' approdato in RAI; gli italiani, grazie a TG2 Dossier di venerdì 6 settembre 1996, in seconda serata, sono riusciti a conoscere una tragedia assolutamente ignota alla maggior parte dei nostri connazionali; dalla trasmissione e' stata letteralmente "tranciata" l'intervista a Luigi Papo, vice presidente dell'Unione istriana, scrittore e storico che ha dedicato la vita a ricostruire fin nei dettagli la vicenda delle foibe, fino a censirne ad una ad una le vittime; Papo aveva rilasciato ad uno degli autori, Roberto Olla, una lunga e documentata intervista nella quale tra l'altro parlava di oltre diecimila italiani assassinati dai titini; l'argomento era introdotto, nel montaggio televisivo, da una specifica domanda in proposito: "ma quante sono le vittime delle foibe?"; i telespettatori non hanno potuto pero' ascoltare la risposta: infatti al posto di Papo e' comparso il giornalista Michele Cucuzza, che ha parlato di tutt'altro, e di Papo si e' persa ogni traccia; la cancellazione della voce degli istriani non e' stato l'unico "incidente" che ha turbato la trasmissione: in tutta l'Emilia Romagna, singolarmente, proprio in coincidenza con il TG2 Dossier, il segnale del secondo canale e' stato disturbato da un ronzio che ha disturbato l'audio ed ha cancellato le immagini con una sorta di "effetto pioggia"; oltre duecento sono state le telefonate di protesta che hanno mandato in tilt i centralini della televisione pubblica, mentre qualcuno ha anche avvisato la polizia e i carabinieri; la RAI ha risposto, a chi ha telefonato, che la causa era da attribuire ad un calo di tensione; un analogo caso di calo di tensione si era verificato nell'unica altra occasione in cui su Rai tre era andato in onda un servizio sulle foibe, cioe' il 25 aprile del 1995, alle 11.00, e proprio in un'altra zona calda, la provincia di Gorizia -: se corrisponda a verita' quanto sopra esposto e, in caso positivo, se non ritenga opportuno "sensibilizzare" i vertici RAI sull'accaduto; se non esistano i requisiti necessari e sufficienti per aprire un'inchiesta sulla vicenda sopra descritta; se esistano solo motivi tecnici per il calo di tensione e dell'effetto pioggia verificatesi oppure esistono dei motivi politici. (4-03335)
Arcipelago Foibe. St 1997 Istria - Il diritto alla memoria. L'inchiesta di Anna Maria Mori sulla storia sociale e politica dell'Istria negli ultimi cinquant'anni è condotta attraverso numerose interviste e filmati di repertorio. Fra gli altri contributi, quello di Claudio Magris, degli storici Elio Apih e Roberto Spazzali, di Nelida Milani, di Bianca Stella Zanini e di profughi istriani. Preziose e drammatiche le immagini dell'esodo della popolazione fra il 1945 e il 1947 e del ritrovamento delle vittime della pulizia etnica nelle foibe.
Arcipelago Foibe. St 2004 Enigma - Le foibe. In questa puntata di Enigma, condotta da Andrea Vianello, il tema della strage delle foibe viene sviscerato attraverso un ampio dibattito fra il pubblico presente in studio: Paolo Mieli, giornalista e storico, Riccardo Illy, presidente del Friuli Venezia Giulia, Lucio Toth, presidente della Federazione Esuli, Amleto Ballarini, presidente della Società Studi Fiumani, Nevencka Troha, storica.
Arcipelago Foibe. St 2005 I ricordi e le speranze - Le foibe. In questa puntata de I ricordi e le speranze, Stefano Tomassini racconta delle foibe insieme con gli ospiti Silvio Delbello, presidente dell'Unione degli Istriani, Fulvio Molinari, giornalista e autore del libro "Istria contesa", Maurizio Tremul, Presidente Unioni Italiani d'Istria e di Fiume, e Giuseppe Parlato, storico. La puntata ripercorre la storia delle foibe, cominciando dall'annuncio radiofonico dell'armistizio del 1943, che trasforma il confine Nord-Est dell'Italia in una terra di nessuno.
Arcipelago Foibe. St 2005 Porta a porta - Foibe: tragedia italiana. In occasione della celebrazione del primo "Giorno del ricordo", Bruno Vespa dedica uno speciale di "Porta a porta" alla tragedia delle foibe, con interviste a superstiti ed esuli giuliano-dalmati, nonché agli interpreti della fiction "Il cuore nel pozzo". Tra gli ospiti in studio anche Alessandro Curzi e Maurizio Gasparri.
Arcipelago Foibe. St 2008 Tg2 Dossier Storie - Le foibe. La storia delle foibe viene raccontata qui attraverso servizi e testimonianze. Fra queste, la storia di Ornela, cugina di Perlasca, che racconta delle rocambolesche vicende per salvare il marito dalle foibe, dopo il suo sequestro da parte dei partigiani slavi. O quella della Signora Mafalda Codan, che ha raccontato nei suoi diari degli anni della guerra, durante i quali, dopo esser stata costretta a scappare dall'Istria, è stata catturata a Trieste, seviziata e imprigionata.
Arcipelago Foibe. St 2012 La Storia siamo noi - Le foibe. La puntata del programma di Giovanni Minoli dedicata al "Giorno del ricordo" vede le testimonianze del sindaco di Trieste Roberto Dipiazza e dello storico Gianni Oliva. Particolarmente toccante, tra i materiali riproposti da un precedente speciale di "Mixer", l'intervista a Graziano Udivisi, unico superstite degli eccidi.
Arcipelago Foibe. St 2014 Correva l'anno - Speciale foibe. A dieci anni dall'approvazione della legge che istituisce il "Giorno del ricordo", Paolo Mieli ricostruisce i tragici fatti avvenuti sul confine orientale italiano tra la fine dell'ultimo conflitto e il dopoguerra, fra l'altro soffermandosi sulle ragioni della loro rimozione pluridecennale dalla memoria collettiva del nostro Paese.
Arcipelago Foibe. St 2015 Il tempo e la storia - Intervista a Raoul Pupo. Insieme allo storico Raoul Pupo, Massimo Bernardini rievoca i massacri delle foibe ed il dramma dei 250.000 mila esuli italiani dall'Istria e dalla Dalmazia, costretti a lasciare le terre dei propri padri dopo l'ultima guerra. Una vicenda di violenze e vendette troppo a lungo dimenticata in Italia.
Arcipelago Foibe. St 2016 Il tempo e la storia - Intervista ad Ernesto Galli della Loggia. Il professor Ernesto Galli della Loggia rilegge con Massimo Bernardini il tragico capitolo delle foibe: un orrore, per molti anni confinato nell'oblio nel nostro Paese, che ha segnato gli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale nonché l'immediato dopoguerra nei territori di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia.
Arcipelago Foibe. TG2 Dossier. FOIBE, LA VERITÀ NEGATA di Anna Mazzone Andato in onda:03/02/2019. Gli eccidi delle foibe, almeno diecimila italiani massacrati e uccisi dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito dal 1943 al 1947. La storia simbolo di Norma. Aveva appena ventidue anni. L’esodo forzato dall’Istria e dalla Dalmazia di oltre trecentomila innocenti con l’unica colpa di essere italiani diventati profughi nel loro stesso Paese. Una pagina drammatica della nostra storia a lungo negata e dimenticata.
Giorno del Ricordo, ecco quale sarà la programmazione della Rai, scrive mercoledì 7 febbraio 2019 la Redazione di Secolo D’Italia. Anche quest’anno, in occasione del Giorno del Ricordo, la Rai ha messo a punto un ampio palinsesto in tv e alla radio, su Reti, Testate e Web per ricordare le vittime delle Foibe e il dramma dei tanti italiani, spogliati di tutti i loro averi, in fuga dall’Istria, Dalmazia e Friuli Venezia Giulia, sul finire della seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. In particolare alla vigilia della ricorrenza, venerdì 9 febbraio alle 17, Rai2trasmetterà in diretta dall’Aula di Palazzo Madama, a cura di Rai Parlamento, la cerimonia di commemorazione, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Uno spot istituzionale prodotto da Rai per il Giorno del Ricordo sarà proposto fino a sabato 10 su tutte le Reti. La programmazione dedicata, che ha preso il via lunedì 5 febbraio su Rai3 con La Grande storia – Foibe nei luoghi della memoria, con il commento di Paolo Mieli, proseguirà giovedì 8 su Rai2, alle 11, con il programma I Fatti vostri che dedicherà uno spazio di approfondimento al ricordo della tragedia e delle persecuzioni perpetrate in quei drammatici giorni. In seconda serata Rai3 trasmetterà, alle 23.05, il documentario L’ultima spiaggia. Mola fra la Strage di Vergarolla e l’Esodo di Alessandro Quadretti. Il regista ricostruisce e racconta, insieme con Domenico Guzzo, storico esperto di terrorismo e co-sceneggiatore, una tragedia rimasta per decenni ai margini della memoria collettiva italiana. La giornata di venerdì si aprirà su Rai1 con lo spazio di approfondimento di Unomattina, mentre il Tg1 trasmetterà servizi nelle varie edizioni. In diretta dal Senato Rainews effettuerà, a partire dalle 17, collegamenti per seguire la cerimonia del Giorno del Ricordo. Alle 23.50 verrà proposta una puntata speciale della rubrica del Tg2 Punto di vista. Rai3 trasmetterà alle 13.15 Passato e Presente – Il dramma Giuliano-Dalmata. Dalle Foibe all’esodo, con il commento del prof. Raoul Pupo. Nella giornata di sabato 10 Rainews seguirà in diretta la cerimonia alla Foiba di Basovizza (Trieste), luogo riconosciuto come monumento nazionale, con collegamenti dal campo profughi di Padriciano che per oltre vent’anni accolse gli esuli istriani, fiumani e dalmati, cacciati dalle proprie case. Saranno trasmessi anche servizi e approfondimenti, fra cui la testimonianza di Erminia Bernobi, cugina e oggi unica parente in vita di Norma Cossetto. A questa si unirà anche la testimonianza di Giacomo Crosilla (il padre fu gettato in foiba e sua sorella è morta nella strage di Vergarolla) che ha ricevuto la medaglia d’onore del Presidente della Repubblica. Tanti i servizi di Rainews con dettagliate ricostruzioni storiche degli eventi. Rai2 proporrà un approfondimento nel programma Sulla Via di Damasco, dalle 7.45. Servizi e testimonianze in tutte le edizioni dei tg Rai. Rai Premium trasmetterà poi alle 21.20 una delle fiction Rai di maggior successo e impatto emotivo, Il cuore nel pozzo, per la regia di Alberto Negrin, con Leo Gullotta, Beppe Fiorello, Anna Liskova, trasmessa per la prima volta nel 2005. Ricca la programmazione di Rai Storia: alle ore 8.50 (replica alle 14:00, 20:30, 00:30) andrà in onda Passato e Presente – Il dramma Giuliano-Dalmata. Il giorno e la Storia verrà trasmesso alle ore 00.10 (replica alle 5:30, 8:30, 11:30, 14:00, 20:10). Alle 16 Rai Storia proporrà Mille Papaveri Rossi-TG2 Dossier, Orrore dimenticato e alle 21:10 il documentario L’ultima spiaggia. Pola fra la Strage di Vergarolla e l’Esodo. Infine alle 22.10 sarà trasmesso il docufilm Trieste, la contesa. Rai Scuola proporrà alle 18.30 lo speciale Le foibe: il dolore e l’esilio. Oltre ai diversi programmi sulle sue reti, Rai Cultura commemora il Giorno del Ricordo con uno Speciale Web sul portale di Rai Storia: online i commenti di vari storici, da Giovanni Sabbatici (che si concentra sull’ istituzione del Giorno del Ricordo) a Raoul Pupo ed Ernesto Galli della Loggia. Radio Rai seguirà la ricorrenza del Giorno del Ricordo con servizi nelle maggiori edizioni dei Giornali Radio: dall’appuntamento istituzionale del venerdì al Senato della Repubblica fino alle iniziative organizzate per la giornata di sabato 10 febbraio. Gli account social promuoveranno tutta la programmazione.
Vittime del Foibe, il giorno della ricordo: la programmazione Rai, scrive Giuseppe Ino il 07/02/2015 su Teleblog. Sarà ampia e articolata l’offerta Rai, televisiva e radiofonica, dedicata al Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle Foibe, che si celebra il 10 febbraio di ogni anno. Una solennità civile nazionale, istituita con la legge 30 marzo 2004 per commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. La giornata più intensa sarà ovviamente quella del 10 febbraio. Si prosegue con Rai5 che venerdì 6 febbraio, alle 21.15, presenta il film documentario “Il viaggio della signorina Vila”. Liberamente ispirato a due testi che nel 2012 hanno compiuto 100 anni, “Il mio Carso” di Scipio Slataper e “Irridentismo adriatico” di Angelo Vivante, il film racconta, attraverso la voce narrante di Toni Servillo e Lucka Pocka, la storia d’amore nella Trieste di oggi di un uomo e una donna caduti da un altro tempo. A seguire, nella stessa serata, “Trieste la contesa”: Trieste nasce come luogo dello scambio e conferma la sua inclinazione particolare dal 1719, quando Carlo VI la dichiara porto franco. Da quella data, la città è luogo di comunicazione e commercio tra l’Europa centro-orientale (ovvero l’Impero asburgico) e il Mediterraneo. Repliche previste: sabato 7 febbraio alle 18.30, domenica 8 febbraio alle 7.25, lunedì 9 febbraio alle 15.45 e venerdì 13 febbraio alle 9.35. Sabato 7 febbraio TG2 Storie dedicherà l’apertura della puntata al Giorno del Ricordo. Domenica 8 febbraio, la trasmissione di Rai1 “Domenica In”, alle 16.35, ricorderà, con un approfondimento, le vittime delle foibe. Rai Premium, lunedì 9 febbraio alle 23.30, trasmetterà la fiction “Il cuore nel pozzo”. Nel giorno della ricorrenza, martedì 10 febbraio, il palinsesto dedicato si apre con “Unomattina”, dalle 06.45 alle 11.00 su Rai1, che dedicherà uno spazio al ricordo delle vittime e al dramma dell’esodo forzato di tanti italiani dalle loro case. A seguire, su Rai2, il programma “I Fatti Vostri”, in onda alle 12.00, si occuperà dell’anniversario con un approfondimento. Poi sempre sulla stessa rete, alle 16.30, in diretta dalla Camera dei Deputati, la Celebrazione del Giorno del Ricordo. Rai3 e Rai Cultura, sempre il 10 febbraio, alle 13.15, presentano una puntata de “Il Tempo e la Storia” dedicata al racconto delle stragi di italiani avvenute nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 ad opera del movimento di liberazione e delle istituzioni dello stato jugoslavo nei territori dell’allora Venezia Giulia. Ospite della puntata è il Professor Raoul Pupo, storico contemporaneista dell’Università di Trieste tra i massimi studiosi e conoscitori del fenomeno delle foibe. Ripercorrendo passo dopo passo i tragici eventi che hanno caratterizzato il biennio ’43-’45 e avvalendosi anche di testimonianze e documenti inediti, la puntata intende dare una chiave di lettura obiettiva ed equilibrata su una vicenda che ancora oggi è oggetto di divisione ed accese polemiche. In replica su Rai Storia alle 14.20 – 20,50 – 23.30) e mercoledì 11 febbraio alle 6.00 e alle 8.30. Su Rai5, martedì 10 febbraio, alle 16.10, andrà in onda lo spettacolo teatrale di Simone Cristicchi “Magazzino 18: l’esodo degli Italiani”. Ancora, su Rai Storia alle 16.00 e alle 00.30 “Mille Papaveri Rossi” – Orrore dimenticato, un approfondimento del Tg2 Dossier sulla giornata del Ricordo per onorare il sacrificio di migliaia di morti, gettati nelle foibe del Carso. La Testata Giornalistica Regionale, attraverso la TGR Friuli Venezia Giulia, coprirà la ricorrenza con diverse iniziative editoriali. La redazione in lingua italiana realizzerà servizi ed interviste per le quattro edizioni dei giornali radio, per i due telegiornali e per Buongiorno Regione. Quella in lingua slovena garantirà la copertura informativa delle principali cerimonie pubbliche in programma per la giornata, anche con dirette radiofoniche e, in particolare, domenica 8 febbraio saranno trasmesse le riprese dello spettacolo “Magazzino 18”. La rubrica Est-Ovest, in onda domenica 8 febbraio alle 10.45 proporrà un servizio dedicato alla ricorrenza. Rainews24 ha in programma dirette e reportage con l’inviata Daiana Paoli che sarà a Trieste e in Istria già a partire dall’8 febbraio. La testata seguirà in diretta le Cerimonie ufficiali sia in Italia che in Croazia, da Basovizza e da Umago, con interviste a rappresentanti della minoranza di origine italiana ma anche croati per raccontare l’integrazione oggi, con uno sguardo al futuro e uno, doveroso, al passato. Ancora, il viaggio nei luoghi dell’esodo, la visita alle foibe disseminate nel Carso e all’unico museo dedicato alla storia dell’esodo. La visita in questi luoghi sarà accompagnata dallo storico Raoul Pupo, uno dei massimi esperti delle vicende del confine orientale. Tra le numerose interviste, a molti testimoni diretti, quella ad un esule 94enne di Visinada che racconta la sua storia e gli anni durissimi in un campo profughi; a Fiore Filippaz, la cui sorella è morta di freddo a un anno a Padriciano in un campo profughi; a Luciana Melon, autrice di un volume dedicato al dialetto istriano (che spiega il legame con Venezia e l’italianità di quei luoghi). Inoltre, il 10 febbraio, la testata trasmetterà uno speciale a cura di Fausto Pellegrini con un’intervista a Simone Cristicchi – autore di Magazzino 18 – e una selezione di brani di questo appassionato lavoro dedicato all’esodo istriano-fiumano-dalmata. Su RadioRai, martedì 10 febbraio, “Radio anch’io”, in onda su Radio1 dalle 8.30 alle 10.00, dedica la puntata alla ricorrenza; nel pomeriggio la trasmissione “Restate scomodi”, in onda dalle 15:40 alle 17:00, si collegherà con Trieste. Servizi sono poi previsti nelle principali edizioni del Gr1. Su Radio2 “Pezzi da 90” ha realizzato una puntata in memoria delle vittime della foibe, dal titolo L’Inghiottitoio, che verrà inserita sul web il 10 febbraio. Tutte le testate della Rai daranno adeguata copertura informativa al Giorno del Ricordo.
I DOCUMENTARI...
"Checkpoint Trieste", il dramma degli atleti fuggiti dalla furia di Tito. Da Mario Andretti a Abdon Pamich, un documentario per il Giorno del ricordo, scrive Tony Damascelli, Giovedì 07/02/2019, su Il Giornale. Il giorno del ricordo ha smarrito il ricordo. Il dieci di febbraio del Quarantasette è un'immagine opaca, lontana, anche fastidiosa per una fetta di italiani, comunisti e affini, che non ha voglia di ricordare. Perché non conosce nemmeno la vergogna. Sky Sport ha messo assieme le immagini e le parole di quell'epoca cattiva che ha lasciato il segno sui nostri profughi, in fuga dalla loro terra rubata dal regime di Tito. Il lavoro di Matteo Marani, che sullo studio della storia ha raggiunto la laurea e di quel tempo maligno ha scritto libri e raccolto testimonianze, si riassume sotto il titolo di Checkpoint Trieste, un documentario all'interno del quale trova spazio forte e profondo il 10 febbraio, il ricordo, in onda domani su SkySport SerieA (ore 23,15). Qui l'esodo giuliano-dalmata trova voci e immagini degli uomini di sport che da quei luoghi furono costretti, con le loro famiglie, a scappare per non finire nella trappola della falsa libertà socialcomunista. Dunque Fiume (qualche ignorantello tra i miei colleghi, in occasione di una partita di coppa europea tra una squadra italiana e il Rijeka, scrisse «oggi la sfida contro il Rjeka di Fiume»), Montona, San Pancrazio, San Bortolo, Pola, svuotate dai nostri connazionali, senza un presente, in assenza di futuro. Sul muro di rustiche pietre di una dimora a Montona c'è una lapide a ricordo «in questa casa è nato il 28 02 1940 Mario Andretti campione del mondo di Formula 1 1978. Oldtimer Klub Pula Ruote del passato Pordenone». Andretti aveva sette anni e, nell'intervista di Sky Sport, ha ricordo vivo e grigio di quei giorni. «Arrivò il momento in cui i miei genitori dovevano decidere, rimaniamo cittadini italiani o restiamo nella zona comunista e poi pensare all'arrivo in Italia come profughi del nostro Paese; vedevo l'emozione dei nonni, dei genitori, dello zio, era davvero triste avendo vissuto lì tutta la vita, coltivato la terra e costretti ad abbandonare tutto senza sapere quello che ci attendeva». Gli Andretti raccolsero panni e affetti, viaggiarono verso la Toscana, si trasferirono a Lucca, poi l'America, per Mario la Formula 1, dodici gran premi vinti, la Ferrari, il mondiale con la Lotus Ford, mai, però, l'abbandono dell'affetto per quel pezzo di infanzia strappata via. Come lui altri futuri protagonisti del nostro sport, Ottavio Missoni, artista della moda, sesto ai Giochi di Londra del 1948 nei 400 ostacoli, i fratelli Vatta, Antonio e Sergio, maestri di football, Orlando Sirola, vincitore nel doppio con Nicola Pietrangeli agli Internazionali di Francia del '59, Agostino Straulino leggendario velista, oro alle Olimpiadi di Helsinki, quattro volte campione del mondo, Nino Benvenuti, campione del mondo dei pesi medi, da Isola d'Istria, due volte alla settimana superava in bicicletta il confine per andare ad allenarsi a Trieste, e Abdon Pamich che della nostra marcia è stato il monumento, oro a Tokyo e quaranta titoli tra italiani e europei. Pamich viene da Fiume, ricorda che lo sport era una questione culturale non semplicemente ludica. Lui è la memoria potente di quei giorni, vive a Roma nella zona dell'Eur, nel quartiere giuliano-dalmata destinato gli esuli. Altri trovarono rifugio nei centonove campi di raccolta sparsi su tutto il territorio italiano. La motonave «Toscana» trasportava da Pola a Venezia o al porto di Ancona migliaia di profughi disperati, non c'erano televisioni a inquadrare quei volti di cera o gommoni di politicanti alla ricerca dell'applauso elettorale. Abdon Pamich non avrebbe voglia di riaprire il diario di quelle espressioni cattive, di quelle voci acide, di quegli sputi miserabili, il repertorio che i comunisti e i loro fiancheggiatori riservarono agli esuli, accusati di essere fascisti e comunque conniventi con il regime, colpevoli di non avere accettato il paradiso socialista. Era quella l'accoglienza di cui parlano e scrivono oggi gli eredi ideologici di quei giorni, gli stessi che a Bologna portarono allo sciopero dei ferrovieri il diciotto febbraio del Quarantasette. Era mezzogiorno quando il merci che veniva da Trieste destinato al sud, carico di uomini, donne e bambini, pigiati tra la paglia nei vari vagoni, si sarebbe fermato. La Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa avevano preparato pasti e coperte. Nella memoria di Pamich e degli altri esuli restano gli strilli che uscivano metallici dai microfoni con i quali i sindacalisti della Cgil e gli iscritti del Partito Comunista Italiano impedirono l'assistenza, «Se i profughi si fermano per mangiare lo sciopero bloccherà la stazione», e furono sassi contro il convoglio e sputi e lancio di pomodori e uova e ancora il latte destinato agli infanti venne versato sulle rotaie, lo spregio massimo, il più vigliacco. La voce di Pamich, il suo volto di rughe che ha affrontato, superato e vinto la fatica della marcia verso la gloria, tornano a esprimere la malinconica rabbia e la rassegnazione a un tempo nemmeno dimenticato ma evitato da coloro che oggi sventolano la bandiera dell'accoglienza: «Noi fummo trattati molto peggio di quelli che oggi dicono di essere trattati male. Non ci fu accoglienza ma diffidenza, dicevano che eravamo fascisti che scappavamo dal paradiso comunista cui loro aspiravano». Nello sport avrebbero riscattato la violenza e il disprezzo. La storia non continua. La storia si è fermata.
I FILM…
Il Laboratorio “Teatro e Cultura” dell’Oratorio Sant’Antonio di Avetrana ha organizzato, per venerdì 8 febbraio, la proiezione del film “Red Land-rosso Istria”; un evento per ricordare le vittime delle Foibe. A seguire un dibattito sul tema “Foibe”, al termine della serata, sarà offerto con un piccolo rinfresco ai presenti, scrive il 7 Febbraio 2019 La Voce di Maruggio.
Trama. Siamo nel settembre del 1943, nei giorni in cui nei territori italiani martoriati dalla guerra scoppia il caos: il maresciallo Badoglio, capo del governo italiano, chiede ed ottiene l’armistizio da parte degli anglo–americani e unitamente al Re fugge da Roma, lasciando l’Italia allo sbando. L’esercito non sa più chi è il nemico e chi l’alleato. Il dramma si trasforma in tragedia per i soldati abbandonati a se stessi nei teatri di guerra ma anche e soprattutto per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, che si trovano ad affrontare un nuovo nemico: i partigiani di Tito che avanzano in quelle terre, spinti da una furia anti-italiana. In questo drammatico contesto storico, avrà risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, laureanda all’Università di Padova, barbaramente violentata e uccisa dai partigiani titini, per la sola colpa di essere Italiana. Nel film, diretto dal regista italo-argentino Maximiliano Hernando Bruno, gli interpreti danno vita in modo intenso ai vari personaggi, ricreando la complessità di quei giorni di confusione e tragedia: Selene Gandini è Norma, Geraldine Chaplin un’esule sopravvissuta, Franco Nero l’intellettuale, Romeo Grebenseck il capo dei Titini, Vincenzo Bocciarelli un ufficiale italiano, Sandra Ceccarelli una madre, Eleonora Bolla una partigiana.
“Red Land”, “Rosso Istria”: dopo le polemiche arriva su RAI3 l’8 febbraio il film di Maximiliano Hernando Bruno, scrive la Redazione di Trieste All News il 22 gennaio 2019. “Red Land” (“Rosso Istria”), il film di Maximiliano Hernando Bruno incentrato sulle vicende dell’Istria, su Norma Cossetto e sull’esodo italiano, dopo le polemiche sulla sua scarsa distribuzione nelle sale cinematografiche e sul boicottaggio dovuto ai temi trattati arriva in televisione su RAI 3, sabato 8 febbraio, in prossimità del Giorno del Ricordo. Il film, che ha ricevuto un ottimo riscontro di pubblico con valutazioni elevate come quelle su “Coming Soon” e “IMDb”, era stato presentato, non in primo piano, a Venezia, e aveva ricevuto da subito il sostegno politico di “Fratelli d’Italia”, battutosi per incrementare le proiezioni e per favorire la sua visione scolastica come documento rappresentante – per quanto rivestito della drammatizzazione cinematografica – l’altra verità non raccontata dai testi storici che parlano della Seconda Guerra Mondiale nei territori fra il Friuli Venezia Giulia, Trieste e l’Istria divenuta poi jugoslava. “Dopo decenni di colpevoli silenzi e di coperture politiche e mediatiche, per la prima volta un film su Norma Cossetto e la tragedia delle foibe sarà trasmesso in prima serata sulla RAI. È il regalo più bello che si potesse fare agli esuli e ai loro familiari”; così in una nota congiunta i deputati di Fratelli d’Italia Federico Mollicone e Paola Frassinetti.
Che tristezza il boicottaggio di "Rosso Istria". Ma non è una novità, scrivono Luciano Toncetti e Matteo Sacchi, Sabato 24/11/2018, su Il Giornale.
Come esule istriano, sono profondamente amareggiato e deluso per il vergognoso trattamento che il film Rosso Istria sta subendo, dopo la presentazione dello stesso alla Mostra del cinema di Venezia, dove ha suscitato interesse e curiosità. Oggi lo stesso, trova difficoltà in gran parte d'Italia nell'esser proiettato, per la reticenza dei titolari delle sale cinematografiche, timorosi di subire ritorsioni e danni da parte di frange di una certa parte politica, che ancora dopo 70 anni non si rassegna alle sentenze decretare dalla Storia. Ma ciò che fa più male, è il silenzio della nostra tanto decantata democrazia, impersonata dalle TV, da autorevoli giornalisti, da politici, nonché da personaggi dei Salotti bene. Pertanto, se questa è la risposta al Niet dei nostalgici nostrani pro Tito, possiamo affermare che la Giornata del Ricordo celebrata a livello nazionale il 10 di febbraio, mi spiace di cuore constatarlo, (vista la situazione), ma è pura e semplice Ipocrisia, in quanto la si celebra perché obbligati da una legge di Stato. Tutto ciò è vergognoso e umiliante per la Gente giuliano-dalmata, che per restare orgogliosamente e ferventemente italiana, volontariamente ha perduto tutto, salvo l'onore e la dignità. Ringrazio per l'attenzione. Luciano Toncetti (Venezia-Mestre)
Gentile Toncetti, che dirle? La politica, dopo mille ritardi è arrivata ad istituire, nel 2004, il Giorno del Ricordo. Persino per arrivare all'istituzione di questo presidio minimo della memoria è stato necessario un processo lungo e accidentato (vennero presentate proposte di legge senza esito nel 1995, nel 1996 e nel 2000). Che il ricordare le vittime italiane della brutalità titina fosse ancora difficile lo hanno dimostrato le contro manifestazioni messe in scena, già nel 2005, da alcune organizzazioni di estrema sinistra e le reazioni scomposte al discorso del Presidente Napolitano (non certo accusabile di accondiscendenze al fascismo) nel 2007. Alcune frasi di Napolitano difficilmente contestabili -«Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo... e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica»- scatenarono un pandemonio. Il presidente della Croazia Stipe Mesich, definì il discorso razzista, revisionista e revanscista. E questa è solo la punta dell'iceberg. Negli anni in molte località italiane si sono verificate decine di atti di vandalismo contro vari simboli dell'esodo e delle foibe, spesso proprio in prossimità delle celebrazioni del 10 febbraio. Anche la Casa del Ricordo di Roma è stata presa di mira ed imbrattata dai vandali. E si ricorda lo spettacolo di Simone Cristicchi? Cristicchi in Magazzino 18 ha cercato di mettere in scena il dramma dell'esodo dall'Istria e dalla Dalmazia. Un percorso tutto poetico e struggente a partire dagli oggetti che queste persone sono state costrette ad abbandonare. Un Musical senza un'ombra di politica. Cristicchi è stato perseguitato dai duri e puri del negazionismo. Prima una raccolta di firme per far espellere Cristicchi dall'Anpi poi spettacoli interrotti, come a Scandicci, dove il palco è stato invaso dai centri sociali. Le difficoltà di Rosso Istria quindi non possono stupire. Però teniamocelo stretto il Giorno del Ricordo, sarà istituzionale e obbligatorio ma è la pietra angolare su cui poggiarsi per cambiare le cose. Matteo Sacchi
“Norma Cossetto era fascista”: il blitz dei comunisti contro Rosso Istria, scrive Valerio Benedetti su ilprimatonazionale.it il 17 Dicembre 2018. Abbiamo avuto occasione di parlare più volte di Red Land – Rosso Istria, la coraggiosa pellicola sulle foibe realizzata del regista Maximiliano Hernando Bruno. Un film che narra la tragica vicenda di Norma Cossetto, la giovane istriana di soli 22 anni che, nel 1943, fu stuprata, seviziata e infine infoibata da partigiani italiani e iugoslavi. Se Rosso Istria era già andato incontro a una semi-censura, con la proiezione in poche sale e per periodi di tempo assai limitati, ora arriva anche lo sfregio. A Pordenone, infatti, all’uscita dal cinema gli spettatori hanno ricevuto dei volantini negazionisti distribuiti da alcuni comunisti nostalgici di Tito. A denunciare l’accaduto è stato Alessandro Basso, consigliere regionale di Fratelli d’Italia in Friuli-Venezia Giulia: «In occasione della proiezione di Red Land – ha scritto Basso su Facebook – il sedicente Partito Comunista si è macchiato dell’infamia di consegnare un volantino che riporta falsità storiche innegabili». Nel volantino distribuito al termine della proiezione di Rosso Istria veniva specificato che Norma Cossetto «era una fascista, esponente della gioventù universitaria fascista e figlia di Giuseppe Cossetto segretario del Fascio del Comune di Santa Domenica di Visinada e già podestà di quel Comune». In pratica – questo è il senso – la giovane ragazza non merita, in quanto fascista, di essere ricordata. Oltre ai soliti argomenti negazionisti, diffusi da storici dilettanti e ultra-ideologizzati come Sandi Volk e Alessandra Kersevan, il volantino giustifica l’assassinio di Norma Cossetto come atto di ritorsione contro italiani e tedeschi: «È tanto strano se poi ci furono alcune vendette?». Insomma, si tratta della solita «bufala storica» delle foibe come risposta alle «atrocità italiane in Iugoslavia». Di più: quello che i membri di tale Partito comunista non riescono a mandar giù è il fatto che nel film «l’immagine dei partigiani viene denigrata». Ovvio: gli aguzzini di Norma dovrebbero essere non solo giustificati, ma altresì additati ad esempio. Torturatori e stupratori: ecco gli «eroi» di certi anti-italiani impenitenti. Valerio Benedetti
· Un Cristo di filo spinato per ricordare anche i rom vittime dei campi nazisti.
Un Cristo di filo spinato per ricordare anche i rom vittime dei campi nazisti. Lo sterminio dei sinti nei campi di concentramento è stato dimenticato per anni. E l'attuale segregazione nei campi rom è figlia anche di questa amnesia. Ne parliamo con l'artista rom Bruno Morelli, scrive Floriana Bulfon il 25 gennaio 2019 su "L'Espresso". Porrajmos significa "messo nella pancia" ed è la parola con cui rom e sinti indicano lo sterminio, il ‘divoramento’ del proprio popolo da parte dell’Europa nazista e fascista tra il 1934 e il 1945. «Ci hanno mangiati e ci hanno dimenticati», spiega l’artista rom Bruno Morelli. Perché per molto tempo l'Olocausto degli zingari, il Porrajmos, è stato lasciato nel silenzio e si è trasformato in una dimenticanza. Bambini, donne, uomini perseguitati, deportati, seviziati, uccisi e rimossi dalla memoria. Nei processi ai colpevoli di crimini contro l'umanità che seguirono la liberazione, rom e sinti non ebbero spazio, non gli fu concesso alcun indennizzo. «Come se le loro sofferenze non fossero accadute» constata Morelli. È seduto al tavolo del suo atelier alle porte di Roma accanto a una scultura di filo spinato. L’ha chiamata ‘crocifissione ad Auschwitz’ e rappresenta il peso di essere umiliato senza motivo, il dolore di una ferita aperta «perché ciò che è stato colpito in quei campi è l’umanità, perché è necessario che non si ripeta e oggi assistiamo a un momento di regressione con i moderni campi dell’orrore e i rom e sinti visti come i mostri da cacciare».
L’arte come custode della memoria?
«È importante ricordare, ma serve anche un intervento pedagogico perché non accada di nuovo. Perché basta guardarci incontro per capire che le cose si ripetono. Quest’opera è un filo-rovo che divide, che punge, che recinta, ma è anche una condivisione, identificando tutte le vittime dell'ingiustizia terrena. Ho realizzato un Cristo che potesse rappresentare non una categoria colpita, ma tutti. Per questo ho scelto il simbolo dei simboli della sofferenza. Il filo spinato usato è identico a quello usato dai nazisti per le recinzioni dei campi di sterminio. È un Cristo che rappresenta i grovigli metallici di un’umana follia e che rinasce dalle macerie. È un antidoto ai veleni sociali del razzismo».
Perché il Porrajmos è stato dimenticato?
«Solo nel 1980 il governo tedesco riconobbe ufficialmente che i rom e i sinti durante la guerra avevano subito una persecuzione su base razziale. E siamo dovuti arrivare al 1994 per la prima giornata di commemorazione delle vittime. Una memoria rimossa, sfilacciata, senza traccia. È stato assimilato alle feroci persecuzioni di "asociali", ma i nazisti consideravano l'asocialità zingara non un comportamento deviante ma un dato genetico. Il gas Zyklon B usato per lo sterminio di massa è stato testato per la prima volta sui bambini rom e sinti e questo la dice lunga sulla considerazione che ne avevano».
Quanti furono i morti nei campi di sterminio?
«Ecco il primo punto è proprio questo. Persino il numero dei morti non è chiaro. Il dato ufficiale rilevato dagli archivi nazisti parla di 500mila, ma come ha evidenziato il professor Ian Hancock, uno dei pochi storici ad occuparsi dell’olocausto zingaro, è una stima per difetto. Perché la maggior parte delle persone uccise non aveva documenti. Si ritiene siano un milione e mezzo, il 75 per cento della popolazione rom e sinti all’epoca in Europa. Uno sterminio».
Un oblio e un’indifferenza nella coscienza sociale che arrivano ad oggi.
«Con l’oblio si rischia di cancellare quello che è successo, di rimanere indifferenti. Ciò che accade oggi alle popolazioni rom e sinti è anche il risultato di questo oblio. In Italia c’è un grande problema, non sono mai stati inseriti tra le minoranze che la Costituzione tutela. Non si è mai voluto parlare dello sterminio. I campi nomadi di oggi sono paragonabili metaforicamente ai campi di sterminio. Non è possibile che ci siano ancora campi dell’orrore. Invece di sprecare milioni di euro in assistenza, perché non li investono in soluzioni abitative? Continuiamo a essere relegati in una vergogna pubblica alle periferie della città, lontano, distanti. Nei paesi evoluti, questo problema è stato risolto da tanto tempo. I campi aumentano la possibilità di delinquere e la segregazione».
Come valuta le politiche intraprese dal nuovo governo?
Il decreto sicurezza ci mette sempre più all’angolo. Sono molto preoccupato, la situazione sta degenerando e apre le porte a un futuro in declino. Assistiamo a un momento di regressione, un atteggiamento xenofobo che avanza. I rom e i sinti sono per antonomasia i diversi tra i diversi, vanno colpiti più degli altri, i mostri da cacciare. Sono tutti ladri, tutti delinquenti. Come se dicessimo che tutti i siciliani o gli italiani sono mafiosi. Sono il capro espiatorio per eccellenza, hanno una storia di persecuzione alle spalle. Oggi si cerca di annullare la ricchezza delle presenze umane che è la base della società.
· Nazionalisti ad Auschwitz: "Cerimonia non inclusiva, ricordare anche i polacchi".
Nazionalisti ad Auschwitz: "Cerimonia non inclusiva, ricordare anche i polacchi". Un gruppo guidato da Piotr Rybak, leader delle formazioni ultranazionaliste, sfila in occasione della Giornata della memoria, scrive Gioele Anni, Domenica 27/01/2019, su "Il Giornale". "Auschwitz-Birkenau - Made in Germany", i campi di concentramento sono colpa della Germania. Questo e altri cartelli sono stati esposti davanti ai cancelli di Auschwitz questa mattina da un gruppo di militanti di estrema destra polacchi che volevano entrare nel lager mentre è in corso la cerimonia per la Giornata della memoria. Il gruppo, formato da circa 45 persone che sventolano bandiere polacche, è guidato da Piotr Rybak, uno dei leader storici dei movimenti ultranazionalisti. Rybak in passato ha anche bruciato in piazza il manichino di un uomo raffigurante un ebreo, e ha scontato una condanna di 10 mesi per incitamento pubblico all'odio. Secondo i manifestanti, il governo polacco (guidato dal partito di destra "Giustizia e libertà") celebra solo la memoria delle vittime ebree dell'Olocausot e non farebbe abbastanza per ricordare i polacchi, rom e prigionieri sovietici morti a causa dell'occupazione nazista. "Le cerimonie non sono inclusive", sostengono Rybak e gli altri militanti, che cantano slogan come: "La Polonia per i polacchi". Il lager simbolo dello sterminio nazista si trova nella cittadina polacca di Auschwitz-Oświęcim. Durante la seconda guerra mondiale, la regione era stata invasa dalla Germania di Hitler. La presenza dei campi sul territorio polacco, tuttavia, rimane una ferita profonda per l'intera nazione.
· Certo, ricordiamo pure la Shoah. Ma gli altri eccidi?
OLOCAUSTO SENZA CIRCO. Carlo Nordio per “il Messaggero” il 5 febbraio 2019. Alla fine della settimana della Memoria, sarà bene ricordare l'inizio delle tribolazioni del popolo ebraico: quella Diaspora che ne costituì la definitiva privazione della Patria e di cui, ahinoi, reca la colpa l' Impero Romano. Perché gli ebrei avevano già subito deportazioni e massacri: con la caduta della Samaria, da parte degli Assiri, e quindi della Giudea da parte di Nebukadnezzar. Ma per grazia di Dio, o di Ciro il grande, erano ritornati a casa loro: delusi e decimati sì, ma pronti alla ricostruzione. Il colpo fatale fu invece inferto da Tito, il clemente, con l'assedio e la distruzione di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo.
L'ASSEDIO DI GERUSALEMME DEL 70 D.C. Roma governava, o comunque dominava la Palestina da quando Pompeo aveva detronizzato la dinastia asmonea. Erode il Grande aveva abilmente ottenuto una certa autonomia, fino a ricostruire il Tempio precariamente rifatto da Zorobabele dopo la distruzione di quello di Salomone. Quando Erode, «dopo aver rubato il trono come una volpe e averlo tenuto come una tigre, morì come un cane» il popolo cominciò a mugugnare contro la dominazione romana. Gli estremisti zeloti predicavano la rivolta; i sicari, armati di coltelli, ammazzavano indifferentemente soldati e collaborazionisti suscitando rappresaglie feroci che alimentavano l'odio. Uno degli apostoli di Gesù, Simone Cananeo, era uno zelota. Samuel G.F. Brandon sostiene che addirittura il Maestro avesse simpatie rivoluzionarie, e sia stato crocifisso proprio per questo. Per i credenti, ma anche per i laici, questa tesi non regge. Resta comunque il fatto che in quel periodo vi era una fervente attesa di un avvento messianico, sia religioso che politico. Gli ebrei ne avevano ben motivo, perché i governatori erano crudeli e rapaci: il peggio di tutti, Felice, governò - ci dice Tacito - «con l'autorità di un re e l'anima di uno schiavo». Esasperati, i giudei si ribellarono, e presto la rivolta divenne rivoluzione. Noi ne conosciamo i dettagli attraverso la minuziosa ricostruzione di Giuseppe Flavio, un dignitario ebreo catturato dai romani, salvatosi per aver predetto a Vespasiano la sua prossima investitura imperiale. Giuseppe vuol dimostrare che si trattò di una guerra intestina tra l'aristocratica classe sacerdotale, accomodante verso Roma, e gli estremisti che desideravano cacciare l' invasore. In effetti i primi disordini scoppiarono a Gerusalemme tra queste due fazioni che si massacrarono con coscienziosa imparzialità, ma Giuseppe, preoccupato di accattivarsi la benevolenza dei suoi nuovi protettori, non è del tutto credibile. I disordini interni furono in realtà l'inizio della guerra per sottrarsi al crudele, e spesso ottuso, dominio romano. Sulle prime la rivolta parve avere successo. Gli ebrei circondarono la fortezza di Masada, allora tenuta da una guarnigione imperiale che si arrese pur di aver salva la vita. Gli zeloti non tennero fede ai patti e la sterminarono. Roma ne aveva abbastanza: inviò il suo miglior condottiero, Vespasiano, per domare l'insurrezione. Poco dopo il Generale fu nominato Imperatore, e lasciò il compito al figlio Tito. Tito circondò Gerusalemme con un muro, e invitò più volte gli assediati alla resa: questi risposero combattendo, e talvolta simulando trattative poi non mantenute. Dopo qualche assalto sanguinoso, Tito lasciò fare alla fame. Senza rifornimenti, senza cibo e senza speranza, i gerosolimitani mangiarono cani, gatti, topi e persino escrementi. Alla fine disseppellirono i morti e divorarono i cadaveri: una madre arrostì il suo lattante e ne mangiò la metà. Quelli che proposero la resa furono scaraventati giù dalle mura, e lasciati imputridire. Tito, nauseato da tanta brutalità, chiamò a testimonianza gli dei che non era colpa sua. Tuttavia i suoi soldati, accortisi che alcuni disperati scappavano dopo aver ingoiato i gioielli per sottrarli alle perquisizioni, cominciarono a sventrare i prigionieri. Alla fine, dopo ripetuti assalti, le disciplinate ed esperte legioni fecero breccia, ed entrarono a Gerusalemme. Esasperati dalla durata dell'assedio, dalla gravità delle perdite e dalle doppiezze degli assediati, i Romani si abbandonarono al saccheggio e alle crudeltà. Giuseppe Flavio usa i più astuti artifizi retorici per mitigare le loro nefandezze, e insiste in modo sospetto sulla riluttanza di Tito a ogni forma di vendetta e sui suoi tentativi di frenare il furore dei soldati. Ma se il potente generale, ora figlio dell'Imperatore, avesse promulgato l'ordine vincolante di evitare brutalità, sarebbe stato certamente ubbidito. In realtà Tito fece quello che avevano tutti i governatori precedenti: usò in modo spietato la forza del vincitore. La città fu rasa al suolo: furono salvate alcune torri, ma il resto, a cominciare dal Tempio, fu distrutto. Il bottino fu immenso: i superstiti più validi furono spediti a combattere nei circhi o a farsi divorare dalle belve. Donne e bambini furono deportati e venduti come schiavi, con grave disappunto dei commercianti che videro diminuire il prezzo della mercanzia. Tito tornò a Roma in trionfo, e dopo qualche anno succedette al padre. I Cristiani di Gerusalemme - avvertiti dal Padreterno, secondo Eusebio di Cesarea, o dalle spie secondo altre fonti - si erano già allontanati dalla città assediata e videro nel massacro e nel saccheggio la giusta punizione per i colpevoli della morte di Cristo, alimentando così la leggenda del deicidio. Una favola sciagurata, perché Gesù era stato giustiziato dai Romani secondo la legge romana e con una pena romana; ma una favola che ebbe effetti funesti per il popolo ebraico nei secoli a venire. Il bilancio finale fu spaventoso. Un milione e centomila morti secondo Giuseppe Flavio, la metà secondo Tacito. Un numero impressionante, tenuto conto della popolazione di allora. Un Olocausto, paragonabile a quello che duemila anno dopo sarebbe stato inflitto da Hitler con una pianificazione più accurata e un'esecuzione industriale. Eppure anche allora questo popolo indomito seppe risollevarsi. Con pazienza e fede mantenne alti i suoi ideali e intatta la sua identità culturale e religiosa. Sopravvivendo a persecuzioni, calunnie, e discriminazioni, raggiunse le vette della filosofia con Maimonide e Spinoza, della letteratura con Heine fino a Philip Roth, della musica con Mendelssohn e Mahler fino a Leonard Bernstein, e della scienza con centinaia di geni, fino a Einstein, il più grande di tutti. La perenne incertezza che ne rese così precaria la stabilità e la sopravvivenza fu anche lo stimolo per la loro inventiva, l'ingegno e la fantasia. Da sempre, nove tra i primi dieci violinisti del mondo sono ebrei. A chi gli chiese il perché di tale caratteristica, uno di loro rispose con la tipica malinconica ironia: «Provate voi a scappare da un Pogrom con un pianoforte!».
Certo, ricordiamo pure la Shoah. Ma gli altri eccidi? Scrive su "Il Fatto Quotidiano" il 26 Gennaio 2013 Fabio Balocco, Scrittore in campo ambientale e sociale. L’ambientalismo oggi si concentra sul degrado e sulla distruzione dell’ambiente naturale che toccano purtroppo ogni angolo del globo, ma spesso si dimentica di ciò che è successo a monte. Ed invece non bisogna dimenticare. Si dice che occorre agire localmente e pensare globalmente. Io direi che occorre invece “pensare globalmente e storicamente”, per “scoprire” che la storia della distruzione della natura, è andata di pari passo con la distruzione dei nostri simili che si opponevano all’avanzata della cosiddetta “civiltà”. Questo non lo possiamo né dobbiamo dimenticare. Così come non possiamo né dobbiamo dimenticare che questi popoli quasi sempre vivevano in comunione con la natura. Questo, da un lato ci può servire per comprendere che l’uomo forse non è poi il cancro dell’universo, ma semmai solo un tipo di uomo lo è, e da un certo periodo storico in poi. E può anche servire per relativizzare la gravità di altri eccidi che si sono perpetrati. E quando dico questo penso soprattutto alla Shoah, all’eccidio perpetrato contro gli ebrei dal Terzo Reich. Giustissimo ricordare questo immane massacro di una moltitudine che va dai cinque ai sei milioni di ebrei, ma è stato forse meno grave l’eccidio dei pellerossa, per il quale si calcola che i morti furono circa sette/otto milioni? Questo a tacere del fatto che gli ebrei oggi hanno una nazione propria (ne sanno qualcosa i Palestinesi), mentre i pellerossa continuano ad essere trattati come uomini di serie B, rinchiusi nei ghetti delle riserve. E che dire di un altro popolo che viveva in comunione con la natura come quello Tibetano, sterminato dall’esercito cinese (qui si parla “solo” di un milione di vittime) per soddisfare il capitalismo camuffato da imperialismo comunista? Quello che noi chiamiamo “sviluppo” è una strada lastricata di eccidi, di stragi, che non finiscono neppure oggi (l’Amazzonia insegna). Almeno abbiamo il coraggio di ammetterlo. Domani è la giornata della memoria. Perché non dedicarla a tutte le stragi che l’uomo ha perpetrato sui suoi simili? Non ci sono stragi di serie A e stragi di serie B.
I più grandi massacri della storia, scrive Adimba il 6 gennaio 2017 in mienewsblog.
Il libro nero dell’umanità. Leggendo il libro nero dell’umanità scritto da Matthew White possiamo leggere i più grandi delitti, genocidi, massacri, olocausti della storia, partendo dai più conosciuti fino a quelli meno conosciuti.
Sì avete capito bene, non è esistita solo la Seconda Guerra Mondiale e non solo gli ebrei sono morti e quasi estinti. Ne conosceremo si e no 3 o 4 ma i Genocidi della storia del mondo sono ben 12. Ecco la lista dei 12 Genocidi della storia.
Shoah o Olocausto, lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti perché considerati “nemici della nazione tedesca” e non furono gli unici, furono sterminati anche zingari, omosessuali, oppositori politici e tanti altri. Si contano circa 15/20 milioni di morti.
Aborigeni Australiani, è forse uno dei più crudeli e dimenticati genocidi della storia perché era una popolazione prettamente pacifica. Fu un massacro talmente grande che i pochissimi Aborigeni rimasti hanno dimenticato la loro cultura, tradizioni, radici e lingua, insomma fu uno scempio.
Indiani del Nord e Sud America un altro genocidio “perfetto” insieme a quello sopra citato, perché furono tutti massacrati dal primo all’ultimo senza pietà, oggi non ci sono più le loro tradizioni, lingue, insomma le loro radici, anche se loro sono ancora ricordati tutt’oggi in film, giornali e piazze per ricordare al mondo intero per sempre quello che è stato capace di fare.
Il genocidio dei Catari, fatto dalla Chiesa cattolica (pensavate che la chiesa non facesse nulla eh?), gli ultimi catari donne e bambini furono massacrati per ordine del vicario Vaticano che ordinò ai soldati: “Uccideteli tutti, poi quando saranno morti, sarà Dio a giudicare se sono eretici o no”. Insomma anche questo evento fu una vergogna per la popolazione mondiale.
Il genocidio del Ruanda, avvenuto solo pochi anni fa, milioni di morti a colpi di machete, solo per una differenza etnica.
Genocidio Ucraino, il genocidio ricordato perché fu per opera di Stalin forse è stato un enorme errore di giudizio economico dal dittatore sovietico, che tolse il cibo agli ucraini per mandarlo in altre destinazioni, furono milioni i morti a causa della fame. Errore molto grossolano sul quale ci sarebbe molto da discutere.
Genocidio armeno: fatto dai turchi, che consideravano gli armeni "nemici della patria".
Genocidio dei Greci fatto sempre per opera dei turchi sui greci abitanti in Turchia.
Genocidio Rom gli zingari da sempre sono stati perseguitati in quanto "popolo nomade" quindi diverso dai popoli europei, ma fu nel XX° secolo che vennero considerati dai nazisti inferiori agli esseri umani, quindi un problema da risolvere e che fu risolto mettendoli in campi di concentramento e di sterminio. Ne morirono centinaia di migliaia.
Olocausto nero, è così che viene chiamata la deportazione e lo sterminio di 10 milioni di schiavi neri, strappati dalla loro terra e portati in America.
Pol Pot in Cambogia: 3 milioni di morti in un paese che ne conteneva 20 milioni, un orrore senza fine preparato all’inizio per ragioni politiche, poi in un susseguirsi di atrocità sempre maggiori e dalla follia di un capo comunista.
Genocidio in Congo: fatto dai Belgi – o meglio – per opera di Re Leopoldo di Belgio che aveva degli enormi possedimenti di terra di sua proprietà. Qui migliaia di persone vennero torturate ed uccise per scopi commerciali.
Per non dimenticare la stessa Italia o meglio impero Romano che uccise circa 2 milioni di Galli, la distruzione di Cartagine che si estinse e ricomparse solo dopo secoli, e i sopravvissuti divennero schiavi.
Se è vero che la Shoah fu il genocidio per eccellenza, quello per cui è stato inventato questo termine, gli altri furono meno famosi, meno scientifici e con un numero minore di morti, ma avevano sempre il fine ultimo di cancellare dalla faccia della terra il nemico, o presunto tale.
Gli eventi più sanguinosi della storia dell'umanità, scrive Focus. La triste e vergognosa classifica degli accadimenti più sanguinosi della nostra Storia: ecco quello che gli storici non amano raccontare e perché è difficile farlo. In cima alla classifica dei periodi più cupi dell'umanità mettiamo, senza paura di sbagliare, la Seconda Guerra mondiale, con qualcosa come 70 milioni di morti. La lista delle atrocità umane è però lunga, e soprattutto controversa. Un appassionato di storia, Matthew White, si è preso la briga di classificare le guerre e i crimini più efferati compiuti nel corso della Storia nel suo Libro nero dell'Umanità (Ponte alle Grazie), facendo quello che nessuno storico osa fare: raccontare le guerre partendo dal numero dei morti.
LA CONTA DEI MORTI. Oltre che ingrata, la questione è controversa. Occorrono infatti criteri condivisi perché, non sorprendetevi, non basta essere "morti ammazzati" per essere contati. Un esempio: uno dei "dati" più discussi è il numero dei morti del comunismo. Alcuni storici parlano di 100 milioni complessivi (sommando tutti i regimi), altri ne conteggiano molti meno (circa la metà). I primi contano anche chi è morto nella Seconda guerra mondiale e chi è deceduto per fame, carestia o malattia nei campi di lavoro. I secondi ritengono invece che quelle morti non siano direttamente imputabili al regime. L'impero fondato da Gengis Khan nel 1206 è stato il più grande di tutti i tempi. Dopo avere unificato le tribù mongole, le condusse alla conquista della maggior parte dell'Asia centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio Oriente e di parte dell'Europa orientale. LISTA NERA. Per sua stessa ammissione, il metodo di Matthew White per conteggiare i decessi è approssimativo: si è basato su dati raccolti anche da fonti non ufficiali e ha calcolato la mediana tra i valori più alti e quelli più bassi. La sua classifica degli eventi più atroci della Storia vede dunque al primo posto la Seconda guerra mondiale. Al secondo posto le invasioni mongole di Gengis Khan, che nel Medioevo avrebbero lasciato sul campo 40 milioni di morti - a pari merito con la collettivizzazione forzata cinese (1949-76) voluta da Mao Zedong, fondatore della Repubblica Popolare cinese. A seguire c'è la carestia indiana causata a più riprese (1769-70, 1876-79, 1896-1900) dalle politiche economiche e amministrative britanniche, che costò la vita a 27 milioni di cittadini del vastissimo impero del Regno Unito. E, quasi a pari merito, il collasso della dinastia Ming (1635-1662) che lasciò sul campo 25 milioni di cinesi. A seguire: la guerra civile dei Taiping (1850-64), in Cina, nata come insurrezione contro la dinastia Qing e degenerata in scontro civile, fu un'ecatombe da 20 milioni di morti, e subito dopo (nella classifica) l'epoca buia di Stalin, che in Unione Sovietica, dal 1928 al 1954 costarono la vita, sempre secondo White, ad almeno 16 milioni di persone. A chiudere la lista dei 10 crimini storici più efferati c'è la tratta araba degli schiavi (VII-XIX secolo) con 18 milioni di morti, le campagne del re turco-mongolo Tamerlano (XV secolo) con 17 milioni di morti e il commercio degli schiavi verso le Americhe che causò 16 milioni di morti: "appena" un milione in più di morti rispetto a quelli provocati dalla conquista delle Americhe. Il numero dei morti causati dai Conquistadores è difficile da accertare perché non sappiamo quanti fossero gli indigeni all'arrivo degli spagnoli.
I DITTATORI PEGGIORI. Non è facile nemmeno stabilire quali siano stati i dittatori più efferati del Novecento. Comunemente si ritiene che la palma d'oro di criminale del secolo vada a Mao Zedong, che si stima abbia causato con le sue collettivizzazioni forzate 40 milioni di morti (e c'è chi ne stima anche di più). Tragiche furono anche le politiche di Stalin (1928-54) con milioni di civili uccisi da carestie, purghe, campi di lavoro, trasferimenti forzati, deportazioni e massacri. Lo storico degli anni della Guerra Fredda Robert Conquest, autore del libro Il grande terrore, fece una stima di 30 milioni, "abbassandola" alcuni anni dopo a 20 milioni (3 milioni in più dell'Olocausto). Ma il numero è stato recentemente rivisto alla luce dei dati emersi dall'apertura degli archivi dell'Europa orientale, negli Anni'90. Iosif Vissarionovic Džugašvili, in arte "Stalin", non si fece mai scrupoli a eliminare i suoi avversari politici. Durante il periodo delle purghe, nella seconda metà degli anni ‘30, era solito chiamare a colloquio i dirigenti e funzionari che lavoravano con lui e di cui non si fidava. Quando li aveva davanti, li fissava negli occhi senza dire una parola: chi non reggeva lo sguardo veniva fucilato, perché evidentemente aveva qualcosa da nascondere...
HITLER & STALIN. Lo storico americano contemporaneo Timothy Snyder, che insegna alla Yale Univerity, dopo aver consultato quegli archivi ha provato a stendere un nuovo bilancio rispondendo così anche a una stupida domanda che incomprensibilmente continua a circolare (chi era peggio tra Stalin e Hitler). «Il numero totale di civili uccisi dai tedeschi - circa 11 milioni - è all'incirca quello che pensavamo», ha scritto Snyderin un articolo pubblicato sul The New York Review of books. «Il numero totale di civili uccisi dai sovietici è invece considerevolmente inferiore a quello che avevamo creduto.» Secondo Snyder il numero dei morti dello stalinismo si aggira tra i 6 e i 9 milioni. Di questi un milione morì nei gulag (1933-1945) e più di 5 milioni persero la vita nella carestia provocata dalle sue politiche economiche (1930-1933). Anche Snyder però, come tutti gli storici, sostiene che in questi macabri conti rimane una zona grigia. Per fare un esempio: nei gulag di Stalin, tra il 1941 e il 1943 morirono circa 517.000 persone, condannate dai sovietici ai lavori forzati, ma... "tecnicamente" uccise per fame con l'interruzione dei collegamenti a seguito dell'invasione tedesca. A chi attribuire i morti? A Stalin, a Hitler o un po' per uno?
Con genocidio, secondo la definizione adottata dall'ONU, si intendono «gli atti commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Scrive wikipedia.
Origine ed etimologia. Il termine "genocidio" è una parola d'autore coniata da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, studioso ed esperto del genocidio armeno, introdotta per la prima volta nel 1944, nel suo libro Axis Rule In Occupied Europe, opera dedicata all'Europa sotto la dominazione delle forze dell'Asse L'autore vide la necessità di un neologismo per poter descrivere l'Olocausto, pur facendo anche riferimento al genocidio armeno. Con tale termine, volle dare un nome autonomo a uno dei peggiori crimini che l'uomo possa commettere. Comportando la morte di migliaia, a volte milioni, di persone, e la perdita di patrimoni culturali immensi, il genocidio è definito dalla giurisprudenza un crimine contro l'umanità. La parola, derivante dal greco γένος (ghénos razza, stirpe) e dal latino caedo (uccidere), è entrata nell'uso comune e ha iniziato ad essere considerata come indicatrice di un crimine specifico, recepito nel diritto internazionale e nel diritto interno di molti paesi.
Definizione ufficiale delle Nazioni Unite. L'11 dicembre 1946, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite riconobbe il crimine di genocidio con la risoluzione 96 come "Una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte". Il 9 dicembre 1948 fu adottata, con la risoluzione 260 A (III), la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio che, all'articolo II, definisce: «Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
uccisione di membri del gruppo;
lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo;
trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.»
I genocidi nella storia. Dato il problema di definizione, stilare un elenco di genocidi o presunti tali è complesso, in quanto subordinato alla scelta della definizione o all'opinione dei diversi autori. È tuttavia possibile elencare, senza garanzia di completezza, alcuni dei più noti eventi storici che rientrano in qualche modo nell'ambito del dibattito.
Periodo coloniale (fino al XIX secolo). Nei territori interessati dalla colonizzazione, numerosi popoli indigeni hanno subito una forte diminuzione numerica e alcuni sono quasi scomparsi o scomparsi del tutto. Nel complesso, diversi fattori agirono sinergicamente: azioni di guerra bilaterali o unilaterali, lavoro forzato e condizioni di sfruttamento, carestie naturali o provocate, epidemie causate da nuovi agenti patogeni introdotti dai coloni e, più genericamente, cambiamenti socio-economici radicali prodotti dal violento confronto fra i dominatori occidentali e i popoli colonizzati. Il dibattito è spesso ancora aperto sia per quanto riguarda il numero di vittime che per l'attribuzione di colpe e responsabilità. Se alcuni autori parlano di "genocidi coloniali", ponendo l'accento sugli atti di sterminio deliberato, altri ritengono che le principali cause siano non intenzionali, per esempio le epidemie. Anche le grandi carestie del periodo 1870-1890, che fecero da 30 a 50 milioni di morti, sono state attribuite ad una concomitanza di cause naturali e profondi cambiamenti economici dovuti all'imperialismo e allo sfruttamento capitalista. È stato fatto notare che, nell'ambito della distinzione fra il concetto di guerra (bilaterale - si riconoscono due entità combattenti) e quello di genocidio (unilaterale - si distinguono per loro natura un aggressore e una vittima), le guerre coloniali sono fortemente sbilanciate a favore degli aggressori, soprattutto per il numero di vittime (il 90% sono indigeni), a causa della notevole disparità tecnologica. Esempi sono le guerre di conquista a Giava (dal 1825 al 1830 gli olandesi fanno 200.000 vittime), in Mozambico (i portoghesi uccidono 100.000 persone) o in Africa Orientale (i tedeschi fanno 145.000 morti). Il 90% dei Tahitiani, il 70% dei Canachi e i due terzi dei Māori è scomparso nel periodo coloniale, mentre i Tasmaniani si sono estinti completamente.
Genocidio dei nativi americani. Durante la colonizzazione europea delle Americhe i popoli nativi americani, che contavano all'origine circa più di 80 milioni di individui, vennero ridotti del 90%, anche se la maggioranza delle morti sono dovute alle malattie importate dagli europei nel caso soprattutto del Nord America ci furono numerosi casi di eliminazione sistematica. Le varie etnie, genericamente denominate indiani d'America, Pellerossa, Amerindi, Amerindiani, Prime Nazioni, Aborigeni americani, Indios, popolanti il sud e nord del continente, vennero soppiantate quasi ovunque dagli europei, e dai discendenti delle popolazioni forzatamente prelevate dall'Africa tra il 1500 e i primi anni del 1900. Patagonia - negli anni settanta del 1800 il governo argentino, principalmente per mano del generale Julio Argentino Roca, intraprese la cosiddetta conquista del deserto per strappare la Patagonia al controllo delle popolazioni indigene. Che tale campagna possa essere considerata un genocidio, è recentemente materia di dibattito.
Genocidio dei popoli d'Africa.
Congo - la politica del re belga Leopoldo II, avrebbe provocato la morte di 10 milioni di persone (metà della popolazione) attraverso la militarizzazione del lavoro forzato (con donne e bambini presi in ostaggio) e un duro sistema di quote di produzione e crudeli punizioni (amputazione delle mani).
Costa d'avorio - tra il 1900 e il 1911, la popolazione si è ridotta da 1,5 milioni a 160.000.
Sudan - sotto il dominio inglese (1882 - 1903) la popolazione si è ridotta da 9 a 3 milioni.
Herero - fra il 1904 e il 1906 i tedeschi sono stati responsabili, nella regione dell'attuale Namibia, di uno sterminio che è oggi considerato da molti come un vero e proprio genocidio: dal 50 all'80% degli Herero e il 50% dei Nama sono stati uccisi o fatti morire, per un totale che varia da 24.000 a 75.000 vittime.
Genocidio dei popoli asiatici. Afghanistan - in seguito all'opposizione del popolo Hazara alla dittatura di Abdullah Mankan, l'emiro decise di dare il via libera al loro sterminio. Il 60% degli Hazara (circa 2,5 milioni) che abitavano l'Afghanistan perse la vita.
Razzismo scientifico occidentale. Con riferimento alla questione dell'intenzione genocida, il comportamento dei colonizzatori è stato influenzato da forme di razzismo diffuso, giustificato sia moralmente che scientificamente dalla dottrina del darwinismo sociale di Herbert Spencer, dal famoso libro La lotta delle razze di Ludwig Gumplowicz, dalle teorie eugenetiche di Francis Galton e dalla Gerarchia delle razze umane di Ernst Haeckel. Tali dottrine hanno alimentato l'idea di una missione colonizzatrice dell'"uomo bianco", destinato dalle leggi naturali a sottomettere e sostituire le "razze inferiori" e, si esprimeranno in modo estremo nell'ideologia nazista (interi brani di La lotta delle razze sono presenti nel Mein Kampf di Adolf Hitler).
XX secolo. Il XX secolo è stato definito "il secolo dei genocidi" o "il secolo dei totalitarismi" ed è in genere considerato come un periodo in cui la violenza, lo sterminio di massa e la guerra raggiungono livelli senza precedenti. Lo stesso termine genocidio è stato pensato da Lemkin per descrivere la nuova realtà dell'Olocausto. Il secolo si apre all'insegna dell'etnocentrismo nazionalista. Ormai tutti, dai nazionalisti ai socialisti, pensano in termini di "nazione", "etnia", "diritto di autodeterminazione" dei popoli. Con la Prima guerra mondiale (1914-1918) l'Europa viene riorganizzata su basi etniche, sia all'interno che all'esterno dei confini nazionali. Fu poi con la Conferenza di pace di Parigi del 1919, successiva alla guerra mondiale, che il principio di avere stati nazionali etnicamente omogenei, tanto caro al presidente degli Stati Uniti d'America Woodrow Wilson (autore dei famosi Quattordici punti), prese il sopravvento, aprendo - secondo lo storico britannico di origini ebraiche Eric Hobsbawm - la via alle pulizie e ai genocidi etnici del XX secolo.
Il genocidio degli Armeni del 1915 è forse il primo e sicuramente più famoso genocidio etnico del Novecento. Il genocidio dei Cristiani di Rito Assiro-Caldeo-Siriaco, avvenuto nello stesso periodo, assieme a quello contro i greci rimasero in ombra. L'Impero Ottomano, tradizionalmente abituato ad azioni di dura repressione (vedi, per esempio, gli atti di sterminio contro il popolo armeno degli anni 1896-1897, cfr. massacri hamidiani), raggiunge così livelli inediti di estremismo.
Le guerre mondiali sono espressione di un nuovo tipo di "guerra totale" in cui "tutto è permesso" e in cui il maggior numero di vittime si conta fra i civili, che subiscono massicci bombardamenti e sono considerati come parte integrante del "nemico" da distruggere.
I grandi sistemi totalitari (il Terzo Reich e i regimi comunisti) concepiscono il nemico come un'entità demonizzata e in quanto tale destinata all'eliminazione da leggi naturali o storiche, che fanno da sfondo ad un'ideologia totalitaria basata su distinzioni razziali, economiche o sociali: L'Olocausto è riconosciuto come genocidio all'unanimità e da alcuni come una forma estrema di genocidio o addirittura come un fenomeno unico nella storia (soprattutto perché tutti gli elementi che caratterizzano il genocidio sono presenti contemporaneamente e in forma estrema).
Nel regime sovietico si possono riconoscere "comportamenti genocidiari" già ai tempi di Lenin; l'Holodomor è considerato da molti come un genocidio vero e proprio; si possono individuare parallelismi fra l'uso che Hitler e Stalin fanno dei concetti di "razza" e "classe", "razza ariana" e "popolo", "sub-umani" (o "Ebrei") e "nemici del popolo".
Cina: Mao Tse-tung. Le stime del numero di vittime totali del periodo 1949-1976 sono molto discordanti fra loro e variano da 20 a 80 milioni: comprendono da 2 a 5 milioni di contadini durante il terrore della riforma agraria nel 1951-1952, da 20 a 40 milioni per la carestia del 1959, alcuni milioni per i laogai e da 1 a 3 milioni per la Rivoluzione Culturale.
Europa.
Olocausto - certamente il genocidio più noto, fu metodicamente condotto dal Regime Nazista tedesco in buona parte dell'Europa prima e durante la seconda guerra mondiale, e portò all'annientamento di almeno 6 milioni di ebrei (oltre la metà degli ebrei in Europa), colpendo anche gruppi etnici Rom e Sinti (i cosiddetti zingari), comunisti, omosessuali, prigionieri di guerra, malati di mente, Testimoni di Geova, Russi, Polacchi e altri Slavi, per un totale di vittime stimabile tra 13 e 20 milioni. Le forze armate della Germania nazista compirono sistematicamente massacri di civili in Polonia ed in Russia volti alla eliminazione delle classi intellettuali degli slavi e alla riduzione del loro numero complessivo nei territori orientali che dovevano divenire terreno di colonizzazione germanica. La cifra delle vittime solo nei territori occupati in Unione Sovietica ammonta a circa 27 milioni. In Italia, i nazisti, appoggiati dalle milizie fasciste italiane, deportarono e uccisero circa 7.000 ebrei italiani.
Secondo genocidio armeno - negli anni 1915-1916, il governo turco, guidato dai Giovani Turchi, condusse deportazioni ed eliminazioni sistematiche della minoranza armena. Il numero di morti è molto incerto e valutato da 200.000 a oltre 2 milioni; la cifra più accettata è di 1.500.000. È possibile identificare una prima fase del genocidio nei massacri hamidiani, che negli anni 1896-1897 fecero da 80.000 a 300.000 vittime.
Unione Sovietica - durante il regime bolscevico e lo stalinismo, furono compiuti gravi massacri.
Holodomor - nel 1932, il popolo ucraino fu sterminato per carestia indotta; il numero di vittime è molto incerto e varia da 1,5 a 10 milioni. Diverse parti (fra cui l'Ucraina, l'Italia e gli USA) riconoscono l'Holodomor come genocidio a causa dell'aggressione specifica del popolo ucraino volta a spezzarne le aspirazioni indipendentiste.
I Kulaki furono deportati a milioni in Siberia e nei gulag e si stima che circa 600.000 (un terzo) morì o fu ucciso. Nonostante esistano diversi elementi a favore (eliminazione dei Kulak in quanto tali, azione unilaterale e pianificata burocraticamente), lo sterminio dei kulaki non può essere definito genocidio a causa dell'incertezza e della variabilità con cui le vittime venivano classificate come Kulaki e a causa del fatto che l'eliminazione, non era considerata un fine ma un mezzo. Per motivi analoghi (non un fine ma un mezzo), anche la deportazione di milioni di persone appartenenti a diversi gruppi etnici (soprattutto ai confini dell'URSS), che ha prodotto centinaia di migliaia di vittime, non può essere definita genocidio. Analogamente, le "purghe" del partito e le deportazioni nei gulag degli anni trenta, che videro la morte di centinaia di migliaia di prigionieri politici, non possono essere definite genocidio in quanto colpirono un gruppo politico.
Massacro di Katyn' - il 22 marzo 2005, il Camera dei deputati della Polonia (parlamento) polacco ha approvato all'unanimità un atto con il quale si richiede alla Russia di classificare il massacro di Katyn come genocidio. Il massacro, infatti, era volto a indebolire la Polonia, in quanto venne eliminata una parte importante dell'intellighentsja polacca, poiché il sistema di coscrizione prevedeva che ogni laureato divenisse un ufficiale della riserva.
Una pulizia etnica era stata tentata anche dalle autorità militari italiane durante la seconda guerra mondiale ai danni degli sloveni nelle zone conquistate in Jugoslavia dall'esercito italiano. L'attuazione di tale progetto portò alla deportazione di circa 35.000 civili sloveni, di cui circa 3.500 persero la vita nei campi di concentramento allestiti a tale scopo dall'esercito italiano. Le istruzioni di attuazione della bonifica etnica venivano impartite, su istruzioni di Benito Mussolini, direttamente dal comandante dell'esercito italiano nella provincia di Lubiana generale Mario Roatta e dal comandante dell'XI Corpo d'Armata, generale Mario Robotti.
Italia - Il massacro delle foibe ad opera dei partigiani di Tito contro gli italiani in Istria, Venezia Giulia e Dalmazia nel 1943 e nel 1945 viene da taluni considerato genocidio, in quanto il suo fine era quello di far scomparire la componente etnica italiana di queste due regioni. Il numero delle vittime varia da mille a tremila.
Pulizia etnica ai danni dei serbi durante la seconda guerra mondiale - Durante la seconda guerra mondiale il regime fascista croato organizzò il massacro sistematico delle minoranze etniche (soprattutto serbi, ebrei e zingari) provocando circa mezzo milione di vittime.
Romania - Nicolae Ceaușescu e la moglie furono condannati a morte il 25 dicembre 1989, dopo tre giorni di prigionia, da un "tribunale volante" militare con l'accusa principale di genocidio per la strage di Timișoara e con l'aggravante di aver condotto la popolazione rumena alla povertà. Successive ricerche giornalistiche mostrarono come il numero dei morti riportato inizialmente dai media (decine di migliaia in Romania di cui diverse migliaia solo a Timisoara), oltre che alcune immagini riprese dalla televisione, fossero in realtà dei falsi, costringendo anche alcuni quotidiani (tra cui Liberation) a scusarsi con i lettori per l'acriticità con cui erano state riportate le notizie. Al termine della rivoluzione, secondo i dati del ministero della Salute rumeno, i morti saranno 1104 (di cui solo 93 a Timisoara, 20 dei quali avvenuti dopo il giorno della cattura di Ceaușescu) e 3321 i feriti. Complessivamente la maggior parte delle vittime si avranno comunque a Bucarest con 564 morti (di cui 515 dopo il 22 dicembre, data in cui Ceaușescu fu catturato).
Bosnia - la guerra in Jugoslavia, successiva alla proclamazione di indipendenza della Slovenia e della Croazia, provoca 250.000 vittime, due terzi delle quali civili. Nonostante le atrocità caratterizzino tutte le parti belligeanti, solo i dirigenti comunisti serbi si rendono aggressori e colpevoli di pulizia etnica ed alcuni di loro: Ratko Mladić, Radovan Karadžić, Radislav Krstic, Slobodan Milošević e Momčilo Krajišnik) vengono incriminati di genocidio nei confronti dei musulmani bosniaci. Il 18 dicembre 1992, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite parla di una "politica esecrabile di pulizia etnica che è una forma di genocidio".
Massacro di Srebrenica - nel corso della guerra in Bosnia (1992-1995), la città di Srebrenica venne occupata l'11 luglio 1995 e le truppe serbo-bosniache deportarono e massacrarono la popolazione. Morirono circa 8.000 uomini e ragazzi bosniaci. Il massacro è stato definito come genocidio dal Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia il 19 aprile 2004.
Georgiani in Abkhazia - Alcuni usano il termine genocidio per descrivere i massacri e le espulsioni forzate di migliaia di abitanti di etnia georgiana dell'Abkhazia durante la guerra abkhazo-georgiana (1991-1993). Tra i 10.000 e i 30.000 georgiani furono uccisi dai separatisti abkhazi, dai mercenari stranieri e dalle forze della Federazione russa. Tra le vittime si ebbero anche alcuni greci, estoni, russi e abkhazi moderati.
Kosovo - Negli anni compresi tra 1996 e 1999, gli atti di violenza (inclusi massacri, rapimenti, stupri e altro) sono considerati un genocidio, Slobodan Milosevic causò la deportazione forzata di oltre 800.000 civili kosovari di etnia albanese. Il numero di vittime del genocidio condotto da Miloŝeviĉ e Mercenari come Arkan, si stima intorno alle 10.000 persone.
Africa.
Zanzibar - nel gennaio 1964, furono sterminati da 5.000 a 12.000 arabi (su un totale di 22.000), con modalità che assunsero i tratti del genocidio.
Nigeria - nel 1966, il governo centrale nigeriano reagì duramente ai tentativi secessionisti del popolo Igbo, che aveva proclamato la nascita della Repubblica del Biafra. La guerra civile (e la conseguente carestia) ha causato migliaia di morti ed è stata considerata da diverse parti, fra cui i leader del Biafra, come un genocidio.
Burundi - nel 1972, nel teatro dei conflitti etnici della regione intorno al Ruanda, 150.000 Hutu furono massacrati dal governo Tutsi.
Etiopia - tra il 1977 e il 1991, il governo di Mengistu Haile Mariam uccise da 500.000 a 2 milioni di oppositori politici.
Ruanda - il peggiore genocidio africano avvenne nel 1994 in Ruanda da parte di milizie e bande Hutu contro la minoranza Tutsi e tutti coloro che erano sospettati di favorirli. Le vittime, circa un milione, furono spesso uccise barbaramente con armi rudimentali. Nel 1962, 100.000 Tutsi erano già stati massacrati per gli stessi motivi che avrebbero portato al genocidio del 1994, inoltre, massacri occasionali si verificarono per tutta la seconda metà del Novecento, anche dopo il 1994. La storia spesso si dimentica di citare le vittime del genocidio perpetuato dalle armate Tutsi nella riconquista del Rwanda verso la popolazione Hutu nelle fasi finali della guerra del 1994. Tuttora la popolazione Hutu viene vessata tramite Gacaca, tribunale popolare allestito per giudicare i crimini della guerra del 1994, in cui l'accusato deve smentire le accuse mosse portando prova di innocenza, mentre l'accusa non necessita di provare la colpevolezza dell'accusato.
La regione del Darfur (nel Sudan occidentale) dal 2003 è teatro di un conflitto che gli Stati Uniti e alcuni media e studiosi considerano come genocidio. I Janjawid, gruppo di miliziani appoggiati dal governo, uccidono sistematicamente i gruppi etnici Fur, Zaghawa e Masalit. Le diverse fonti riferiscono di un numero di morti che varia da 200.000 a 400.000 e di 2 milioni di profughi.
Asia.
Indonesia - nel 1965 e nel 1966, il regime di Suharto attuò una repressione anti-comunista per annientare il partito comunista, in cui furono sterminate da 500.000 a un milione di persone.
Bangladesh - nel 1971, il regime di Yahya Khan condusse una sanguinosa operazione militare contro il Pakistan dell'est, in cui furono uccisi da alcune centinaia di migliaia a 3 milioni di civili.
Cambogia - tra il 1975 ed il 1979 i Khmer rossi, sostenuti ed armati dalla Cina, massacrarono o fecero morire nei cosiddetti campi di rieducazione o Killing Fields (campi della morte) da 1 a 2,2 milioni di persone (su una popolazione totale di 7,5). Il termine genocidio fu usato per la prima volta dal filosovietico Vietnam, il cui esercito nel 1979 occupò la Cambogia, sconfiggendo i Khmer Rossi. Solo nel dicembre 1997, l'ONU parlò di "atti di genocidio"[28]. Fra le vittime, furono colpiti soprattutto cattolici, musulmani Cham, cinesi e vietnamiti, perseguitati in quanto tali o in quanto abitanti delle città o commercianti. La popolazione fu classificata in categorie come "popolo nuovo" (da rieducare), "sotto-popolo" e "traditori" (da eliminare).
Timor Est - nel 1975 l'occupazione indonesiana provocò la morte di 60.000 - 200.000 persone.
Iraq - tra il 1973 e il 2003 il regime di Saddam Hussein condusse uccisioni di massa contro la popolazione dei Curdi.
America Latina.
Guatemala - a partire dal 1960, il regime militare di Carlos Castillo Armas causò trenta anni di guerra civile e la morte di 200.000 civili. La Commissione per la verità, sponsorizzata dall'ONU, ha concluso che in certe aree (come Baja Verapaz) il governo avviò intenzionalmente una politica di genocidio contro determinati gruppi etnici, soprattutto Maya.
· Il Ruanda di Adama Dieng e Carla Del Ponte: così partì il genocidio.
Il Ruanda di Adama Dieng e Carla Del Ponte: così partì il genocidio. Pubblicato sabato, 06 aprile 2019 da Michele Farina su Corriere.it. «Ero là, due giorni prima che cominciasse. E onestamente ammetto che non lo vidi arrivare». Adama Dieng, 68 anni, senegalese, dal 2012 è l’uomo dell’Onu per la prevenzione dei genocidi. Una funzione istituita nel 2004 dall’allora Segretario Generale Kofi Annan, nel decimo anniversario dell’ecatombe in Ruanda. Sono già passati 25 anni: il 6 aprile 1994 l’aereo con a bordo il presidente ruandese Juvenal Habyarimana fu abbattuto da due missili mentre atterrava a Kigali. I responsabili sono rimasti ignoti. E’ noto quanto successe nei 100 giorni seguenti. Il governo degli oltranzisti hutu sfruttò la situazione per scatenare il massacro più veloce della storia: 800 mila morti, il genocidio dei tutsi, il massacro degli oppositori hutu. Il mondo? Rimase a guardare. L’Onu ritirò gran parte dei Caschi Blu, anziché dare loro mandato di proteggere i civili: un’immobilità favorita dall’allora presidente americano Bill Clinton. Uomo di legge e diritti umani, in quei primi giorni di aprile Dieng era in Ruanda per l’International Commission of Jurists. Incontrò Habyarimana, e nella boscaglia pranzò con i capi ribelli del Fronte Patriottico Ruandese, compreso quel Paul Kagame che oggi e da 25 anni è l’inamovibile presidente di un Paese post-genocidio, dipinto di volta in volta come un regime autoritario e come un miracolo di riconciliazione. «Ero là. Si percepivano le tensioni, ma era difficile immaginare quanto sarebbe successo». Il mondo ha le sue colpe. Dieng sostiene che allora «mancava un sistema per inquadrare i segnali di allarme». Oggi ce l’abbiamo, almeno sulla carta. «Il lavoro che faccio è il risultato di quel fallimento collettivo. Dal grido “mai più” sono nate molte cose, per esempio la Corte Penale Internazionale, la giurisdizione sulla “responsabilità di proteggere”». Oggi cogliamo meglio di allora i segnali di violenza di massa, «ma stiamo fallendo in termini di early action». Azione rapida. «Paesi che parlano di prevenzione ma poi non fanno corrispondere i fatti alle parole». Dieng cita i Rohingya in Myanmar, gli Yazidi, come le ultime ferite aperte. «Un’iniziativa che vorrei fosse realtà»: la proposta firmata da oltre 100 Paesi (Italia compresa) per impedire ai Cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza «di usare il diritto di veto su un intervento dell’Onu quando c’è il rischio di genocidio o di violenze contro l’umanità». Dieng non è un burocrate chiuso in ufficio. Tra i suoi successi cita «la Tanzania, dove abbiamo fermato le violenze tra cristiani e musulmani». La spina più dolorosa: «I Rohingya. Per oltre sei anni abbiamo lanciato l’allarme. La signora di Rangoon, Aung San Suu Kyi, ha preferito evitare la via scelta da Nelson Mandela». Già: sono passati giusto 25 anni anche dalla fine dell’apartheid in Sudafrica. «E io credo che ci fosse davvero la possibilità di un genocidio perpetrato dai neri ai danni dei bianchi, se Mandela non avesse cercato la strada della riconciliazione».
Le parole sono importanti. Il mantra di Dieng è «gestione costruttiva delle diversità». Le parole «possono essere pericolose come le pallottole». «Le parole possono uccidere» come le lame dei machete, come dimostra la stessa esperienza del Ruanda, dove per mesi e mesi la radio filo-governativa Mille Colline ha vomitato odio contro «gli scarafaggi» tutsi preparando il terreno per i massacri. Ed è cruciale che i crimini non restino impuniti». Anche se i tribunali non bastano certo a impedire il riaffacciarsi dei mostri. Giustizia e riconciliazione. Dieng cita la Bosnia, dove ha riscontrato «un enorme deficit di riconciliazione. Un piccolo segnale: a Monstar ho visto due scuole sotto lo stesso tetto. Una per i bosniaci e una per i serbi. Questo non è accettabile. Srebrenica può accadere ancora». L’Europa, secondo l’uomo-cassandra per la prevenzione delle violenze, «deve essere più coraggiosa nel denunciare l’ideologia ultra-nazionalista che sfrutta le paure per piccoli guadagni elettorali. Demonizzare o de-umanizzare gli altri, che siano migranti o minoranze etniche, religiose, sessuali, è una deriva che va fermata». Anche in Africa, dove i Paesi più a rischio in questo momento «sono Camerun e alla Costa D’Avorio». Chi previene e chi indaga. Carla Del Ponte, 72 anni, svizzera, ha lavorato come procuratore al Tribunale per l’ex Jugoslavia così come a quello del Ruanda. «Genocidi che potevano essere evitati — dice al Corriere —. C’erano i rapporti dei Caschi Blu. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu avrebbe dovuto e potuto intervenire». Del Ponte valuta come un successo il lavoro dei Tribunali: «Pensavamo che quei processi avrebbero avuto anche un effetto preventivo. E invece no. Basta guardarsi attorno. Birmania, Yemen. E la Siria, che secondo me resta l’esempio chiaro della totale impunità attuale per chi commette crimini contro l’umanità». Del Ponte si dipinge come «assolutamente frustrata. Abbiamo lavorato tutta una vita per questa giustizia, che adesso sembra sparita. Rimango ottimista perché voglio esserlo, ma la situazione è molto, molto grave». Pensando al Ruanda, il primo ricordo della magistrata svizzera è il caldo pazzesco al tribunale un po’ fatiscente di Arusha. A un certo punto, le hanno tolto l’incarico. «E’ stato quando ho cominciato ad aprire le inchieste sui tutsi, per crimini di guerra e contro l’umanità. Da Kigali hanno smesso di mandarci i testimoni per i processi sul genocidio. Avevamo elementi per indagare su tredici episodi di violenze di massa, dove i sospettati erano quelli del Fronte Patriottico Ruandese. C’erano le fosse comuni, le testimonianze. Ne parlai con il presidente Kagame, e da quel giorno è stato il gelo. Lui è volato in America, è andato dal presidente Bush, e così il Consiglio di Sicurezza dell’Onu mi ha tolto l’incarico. Ecco che cosa mi ricordo». E l’aereo abbattuto del presidente? «Avevamo cominciato a indagare anche su quello. Avevo formato un team di investigatori molto bravi. C’erano elementi che facevano pensare al coinvolgimento dei ribelli. Ma quando me ne sono andata, il Tribunale ha fermato tutto. Sia l’inchiesta sull’aereo che sulle tredici fosse comuni».
· Il genocidio armeno.
Usa: la Camera riconosce il genocidio armeno, ira della Turchia. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. Doppio schiaffo della Camera Usa ad Ankara, a due settimane dalla visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan alla Casa Bianca: i deputati hanno approvato in modo bipartisan quasi all’unanimità una risoluzione che riconosce il genocidio armeno e un’altra che chiede al presidente Donald Trump di imporre sanzioni e altre restrizioni alla Turchia e ai dirigenti di quel Paese per l’offensiva nella Siria settentrionale. Immediata la reazione di Ankara, che «rifiuta» la risoluzione sul genocidio armeno, bollandola come una decisione «ad uso interno, priva di qualunque base storica e giuridica». «È un passo politico insignificante - ha detto il capo della diplomazia di Ankara Mevlut Cavusoglu - indirizzato solo alla lobby armena e ai gruppi anti-Turchia». Il ministero degli esteri turco ha condannato fortemente anche la risoluzione sulle sanzioni, sottolineando che la decisione non è consona all’ alleanza Nato tra i due Paesi e all’accordo tra Usa e Ankara sulla tregua in Siria, e ammonendo Washington a prendere misure per evitare passi che danneggino ulteriormente le relazioni bilaterali. La Camera Usa ha riconosciuto formalmente il «genocidio armeno» con una maggioranza schiacciante (405 sì su 435 voti, di cui 11 contrari). Il testo, non vincolante, invita a «commemorare il genocidio armeno» e a «rifiutare i tentativi di associare il governo americano alla sua negazione», nonché a educare sulla vicenda. L’approvazione è stata salutata con un lungo applauso in aula. Il genocidio armeno è stato riconosciuto da una trentina di Paesi, tra cui l’Italia. Secondo le stime tra 1,2 e 1,5 milioni di armeni sono stati uccisi durante la prima guerra mondiale dalle truppe dell’impero ottomano, all’epoca alleato di Germania e Regno austro-ungarico. Ma Ankara rifiuta il termine genocidio sostenendo che vi furono massacri reciproci sullo sfondo di una guerra civile e di una carestia che fecero migliaia di morti da entrambe le parti. Nell’aprile 2017, pochi mesi dopo l’insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump aveva definito il massacro degli armeni nel 2015 «una delle peggiori atrocità di massa del XX secolo», senza però usare il termine genocidio. Ma bastò a suscitare l’ira della Turchia. Barack Obama, prima di essere eletto nel 2008, si era impegnato ad riconoscere il genocidio armeno ma non lo fece. La risoluzione sulle sanzioni è stata approvata con 403 sì e 11 no. Ora deve pronunciarsi il Senato. Il doppio schiaffo arriva dopo che Trump ha ritirato le truppe Usa dalla Siria abbandonando gli alleati curdi all’ offensiva turca. Incalzato dal Congresso, il tycoon ha imposto alcune sanzioni modeste, revocandole non appena è stata annunciata la tregua. Ma Capitol Hill è ancora irritata, in un raro momento di unità bipartisan sullo sfondo della battaglia per l’impeachment.
Usa, doppio schiaffo alla Turchia: sì alle sanzioni e riconosciuto il genocidio armeno. L'ira di Ankara dopo il voto della Camera: "Una decisione priva di qualunque base storica e giuridica". La Repubblica il 30 ottobre 2019. Doppio schiaffo della Camera Usa ad Ankara, a due settimane dalla visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan alla Casa Bianca: i deputati hanno approvato in modo bipartisan quasi all'unanimità una risoluzione che riconosce il genocidio armeno e un'altra che chiede al presidente Donald Trump di imporre sanzioni e altre restrizioni alla Turchia e ai dirigenti di quel Paese per l'offensiva nella Siria settentrionale. Immediata la reazione di Ankara, che "rifiuta" la risoluzione sul genocidio armeno, bollandola come una decisione "ad uso interno, priva di qualunque base storica e giuridica". "E' un passo politico insignificante - ha detto il capo della diplomazia di Ankara Mevlut Cavusoglu - indirizzato solo alla lobby armena e ai gruppi anti-Turchia". Il ministero degli esteri turco ha condannato fortemente anche la risoluzione sulle sanzioni, sottolineando che la decisione non è consona all' alleanza Nato tra i due Paesi e all'accordo tra Usa e Ankara sulla tregua in Siria, e ammonendo Washington a prendere misure per evitare passi che danneggino ulteriormente le relazioni bilaterali. La Camera Usa ha riconosciuto formalmente il "genocidio armeno" con una maggioranza schiacciante (405 sì su 435 voti, di cui 11 contrari). Il testo, non vincolante, invita a "commemorare il genocidio armeno" e a "rifiutare i tentativi di associare il governo americano alla sua negazione", nonché a educare sulla vicenda. L'approvazione è stata salutata con un lungo applauso in aula. Il genocidio armeno è stato riconosciuto da una trentina di Paesi, tra cui l'Italia. Secondo le stime tra 1,2 e 1,5 milioni di armeni sono stati uccisi durante la prima guerra mondiale dalle truppe dell'impero ottomano, all'epoca alleato di Germania e Regno austro-ungarico. Ma Ankara rifiuta il termine genocidio sostenendo che vi furono massacri reciproci sullo sfondo di una guerra civile e di una carestia che fecero migliaia di morti da entrambe le parti. Nell'aprile 2017, pochi mesi dopo l'insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump aveva definito il massacro degli armeni nel 2015 "una delle peggiori atrocità di massa del XX secolo", senza però usare il termine genocidio. Ma bastò a suscitare l'ira della Turchia. Barack Obama, prima di essere eletto nel 2008, si era impegnato ad riconoscere il genocidio armeno ma non lo fece. La risoluzione sulle sanzioni è stata approvata con 403 sì e 11 no. Ora deve pronunciarsi il Senato. Il doppio schiaffo arriva dopo che Trump ha ritirato le truppe Usa dalla Siria abbandonando gli alleati curdi all' offensiva turca. Incalzato dal Congresso, il tycoon ha imposto alcune sanzioni modeste, revocandole non appena è stata annunciata la tregua. Ma Capitol Hill è ancora irritata, in un raro momento di unità bipartisan sullo sfondo della battaglia per l'impeachment.
Il genocidio degli armeni, «Noi nipoti dei sopravvissuti e il dolore che non passa». Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 su Corriere.it da Antonia Arslan. La storia e il dovere della memoria. Un genocidio non consiste solo nel sangue e nella violenza. Prosegue col negazionismo. Ultima domenica di aprile, anno 2005, Times Square, New York. Una pioggerellina fitta e noiosa scendeva sulle cinquemila persone radunate ordinatamente intorno a un palco pavesato di bandiere rosso-blu-arancione, i colori della Repubblica d’Armenia. Sul palco, due sedie, un paio di microfoni, due persone che si davano da fare coi fili e uno schermo. Io arrivai puntuale, per assistere alla cerimonia che ogni anno si svolge nella famosa piazza, cuore pulsante della metropoli, per commemorare l’inizio del genocidio armeno, la «grande retata» che iniziò il 24 aprile 1915, e che in tre giorni portò via dalle loro case nella capitale Costantinopoli tutta l’élite della minoranza armena all’interno dell’Impero Ottomano. Gli interventi si susseguirono, portando il ricordo e la partecipazione di uomini politici americani, leader religiosi, armeni della diaspora e della madrepatria, icone del coraggio degli armeni come Charles Aznavour, e la folla si riscaldava sempre di più, man mano che venivano citati i nomi delle regioni perdute dell’Anatolia Orientale: Van, Erzerum, Mush, Kharpert, come luoghi della sofferenza di un’intera nazione sui quali era calata la coltre di un pesante oblio. Quando toccò a me, salii sul palco preparata a dire qualche frase di memoria e di amicizia, ricordando la mia appartenenza all’esigua comunità degli armeni d’Italia. Presi in mano il microfono e guardai giù, verso la folla. Ma allora mi accorsi che in prima fila sotto il palco, ciascuno seduto nella sua carrozzella guidata da un giovane, c’erano gli ultimi sopravvissuti. Uomini e donne che orgogliosamente si tenevano diritti, e ciascuno reggeva una bandierina e un cartello col nome del paese da cui proveniva. Nomi che evocavano un’antica civiltà scomparsa nel fuoco e nel sangue da novant’anni, la cui memoria reale era conservata dai quei vecchi visi con le palpebre pesanti e lo sguardo affaticato. Guardandoli negli occhi, io dimenticai le frasi che avevo preparato. Vedevo solo loro, e parlai a loro, trasmettendo l’emozione che mi aveva preso e il bisogno di abbracciarli, così esili e antichi nelle loro carrozzelle. E quando finii scesi dal palco e andai da loro, stringendo mani e chiedendo notizie, finché arrivai presso l’ultimo, che sembrava il più vecchio e veniva dal paese di mio nonno. Ma lui rifiutò la mia stretta di mano, mi guardò un po’ torvo e disse: «Ho 98 anni. Avevo otto anni quando tutto è successo, e mi ricordo tutto. Ogni anno mi portano a Washington e qualche personaggio importante mi dice che bisogna avere pazienza, che non è ancora il momento. Ma qual è il momento per la giustizia? Quanto pensano che io possa resistere? Io non potrò aspettare ancora a lungo...». Come uno schiaffo mi colpirono le sue parole. Capii improvvisamente che un genocidio non consiste solo negli eventi terribili del momento in cui è perpetrato, nel sangue e nelle violenze che mirano a distruggere un popolo intero; prosegue col negazionismo. Negazionismo: non sono solo parole, sono atti ben precisi, calcolati e studiati per spargere sale su ferite appena rimarginate, per creare confusione in menti abitate dal ricordo di violenze inaudite che vengono minimizzate o negate, col preciso scopo di venire infine dimenticate. Per gli armeni, ci fu una logica perversa in questo meccanismo diabolico, che li schiacciò. Dopo il trattato di Losanna del 1923, con la complicità delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, la stessa parola «armeni» scomparve, le centinaia di testimonianze pubblicate fra il 1915 e il 1921 furono consegnate all’oblio, i monumenti sparsi nell’intera Anatolia distrutti, i nomi dei luoghi cambiati. Le ombre del popolo perduto vagavano invano per l’Armenia storica, nessuno le vedeva...Ed è solo con noi, i nipoti di terza e quarta generazione, che un po’ alla volta la memoria è stata ristabilita. Passo dopo passo la realtà della piccola Armenia del Caucaso, tornata indipendente dopo la caduta dell’Unione Sovietica, si è imposta come una nazione fra le altre, e si è ricominciato a parlare e a discutere del genocidio. Questa parola fu coniata dall’ebreo polacco Raphael Lemkin nel 1944, come testimoniò lui stesso in una celebre intervista televisiva, pensando agli armeni — della cui tragedia si occupava da vent’anni — prima che agli ebrei. Molti parlamenti, uno dopo l’altro, hanno cominciato a riconoscere il genocidio degli armeni: e ieri è stato il momento della Camera degli Stati Uniti. È un atto che diffonde una verità storica, non ha conseguenze pratiche: e vorrebbe aiutare il popolo turco ad affrontare finalmente questo immenso «scheletro nell’armadio» che avvelena il Paese e lo priva della sua stessa memoria, come ha scritto molto bene Hasan Djemal, nipote di uno dei maggiori responsabili della tragedia, che ha scritto un commovente libro sull’argomento.*Antonia Arslan è una scrittrice e saggista di origine armena.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Che cosa s’intende per migranti irregolari, richiedenti asilo o rifugiati.
Che cosa s’intende per migranti irregolari, richiedenti asilo o rifugiati. Alcune definizioni per fare chiarezza sulle parole che caratterizzano il dibattito sui flussi migratori. Openpolis martedì 18 Giugno 2019. Per capire un fenomeno, prima ancora dei dati, sono importanti le parole. A volte infatti vengono fornite cifre esatte abbinate a termini sbagliati, rendendo così l’informazione non corretta. Vediamo quindi alcune parole da tenere presenti quando parliamo di fenomeno migratorio. Consulta il glossario sulle migrazioni dell'Oim.
Migrante irregolare. Si tratta di una persona che entrata nel paese senza un regolare controllo alla frontiera, oppure che è arrivata regolarmente ma a cui è scaduto il visto o il permesso di soggiorno.
Richiedente asilo. Si definisce così una persona che ha richiesto di essere riconosciuto come rifugiato (o altra forma di protezione) e che è in attesa del responso. I richiedenti asilo solitamente entrano nel territorio in modo irregolare, ma dal momento in cui presentano la richiesta sono regolarmente soggiornanti, e quindi non possono essere definiti clandestini.
Profugo. Un profugo è una persona scappata per ragioni di sopravvivenza, solitamente a causa di guerre o conflitti, ma che non rientra nella categoria di rifugiato. Spesso il profugo è interno, ovvero nel suo stesso paese.
Rifugiato (Unhcr). In termini generici il rifugiato è una persona che è scappata dal proprio paese per cercare protezione in un altro. L’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite (Unhcr) riconosce come rifugiati coloro che rientrano nei criteri stabiliti dal loro statuto. Questi sono dunque titolari della protezione che l’agenzia Onu può offrirgli. Altra cosa è il riconoscimento dello status di rifugiato da parte di un paese membro della convenzione di Ginevra del 1951.
Status di rifugiato. È la prima e più importante forma di protezione internazionale, e può essere riconosciuta a un richiedente asilo da uno stato membro della convenzione di Ginevra del 1951. La convenzione definisce il rifugiato come:
[…] chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato;
- Art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951. Consulta il volume dell’Unhcr: La tutela dei richiedenti asilo. Protezione sussidiaria. È anche questa una forma di protezione internazionale, prevista dal diritto dell’Unione europea e di conseguenza da quello Italiano. Si tratta di una protezione aggiuntiva che viene riconosciuta a chi non rientri nella definizione di rifugiato. Il decreto legislativo 251/07 definisce il titolare di protezione sussidiaria come una persona: [···] nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, […] correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese.
- Decreto legislativo 251/2007. Il danno grave definito dal decreto si configura nel caso in cui il richiedente abbia subito una condanna a morte, sia stato vittima di tortura o altra forma di pena o trattamento inumano, abbia subito la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato.
Protezione umanitaria. Questa era una forma di protezione nazionale, prevista dall’ordinamento italiano nel testo unico sull’immigrazione. Veniva concessa nel caso in cui, pur in assenza di requisiti per accedere alla protezione internazionale, fossero comunque presenti seri motivi umanitari tali da rendere la persona meritevole di tutela. Questa forma di protezione è stata abrogata con il decreto sicurezza a ottobre del 2018, ed è stata sostituita con nuove ipotesi di rilascio di permessi di soggiorno per protezione speciale o casi speciali.
Clandestini. Il termine non esiste né nelle definizioni internazionali né nel Diritto dell’Unione europea. Si è diffuso in Italia da quando la legge Bossi-Fini introdusse alcune disposizioni contro le immigrazioni clandestine. Si distingue dalla migrazione irregolare in quanto riguarda solo coloro che abbiano violato le regole sull’ingresso nel territorio e non abbiano alcun titolo legale per rimanervi. Dunque non riguarda né i richiedenti asilo né chi l’asilo l’ha ottenuto.
Migrante economico. È una persona che si è spostata dal suo paese di origine per migliorare le sue condizioni di vita, cercando un lavoro. Il termine viene spesso usato per distinguerli dai rifugiati.
200 milioni i migranti climatici entro il 2050, secondo alcune stime
Migrante Ambientale-Climatico. Migrazione forzata. Si tratta di una migrazione che deriva da una minaccia alla propria sopravvivenza, indipendentemente che sia causata dall’uomo o da fenomeni naturali. Il migrante forzato oggi non è riconosciuto internazionalmente alla stregua di un rifugiato, tuttavia il tema è sempre più all’ordine del giorno, soprattutto a causa del cambiamento climatico. Lo studio più noto parla di 200 milioni di “migranti ambientali” entro il 2050, ma l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) considera stime che variano dai 25 milioni a 1 miliardo di potenziali migranti ambientali.
Non migranti economici ma profughi climatici: una questione di stile (di vita). Articolo1 MDP il 9 luglio 2019. Uno degli effetti dei cambiamenti climatici, oltre allo scioglimento dei ghiacci polari, è il processo di desertificazione di ampie aree del pianeta. Tra le zone più interessate ai processi di desertificazione c’è l’Africa sub-sahariana, da dove provengono la gran parte dei migranti che bussano alle porte dell’Europa. Un suolo desertificato, infatti, perde quasi completamente la propria biodiversità, perde la possibilità di essere coltivato e viene perciò abbandonato. Il degrado delle terre aride, semi-aride e sub-umide si manifesta con la diminuzione o la scomparsa della produttività e complessità biologica o economica delle terre coltivate, sia irrigate che non, delle praterie, dei pascoli, delle foreste o delle superfici boschive. L’Organizzazione mondiale per le migrazioni ha definito il fenomeno come “persone o gruppi di persone che, principalmente perché colpiti negativamente dal cambiamento, improvviso o progressivo, nell’ambiente, sono costrette ad abbandonare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si spostano all’interno del proprio paese o all’estero”. È il caso dei migranti provenienti da vari paesi del Sahel (Senegal, Gambia, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Ciad, Sudan ed Eritrea), a sud del deserto del Sahara, che vengono considerati dall’Unione Europea come “migranti economici” ma la cui definizione non tiene conto delle attività poste in essere anche dagli altri paesi cosiddetti sviluppati, compresi quelli dell’Unione Europea. E’ proprio da questo lembo di terra che attualmente arriva il 90 per cento dei migranti che sbarcano in Italia. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: accanto alle migliaia di profughi politici che scappano dalle guerre e dai totalitarismi, ci sono i cosiddetti “profughi climatici” che scappano dalla fame. Fuggono dalla terra arida che non produce più cibo a sufficienza per sfamarli, da temperature sempre più alte e frequenti ondate di calore a cui umani e animali non riescono a far fronte. Il riscaldamento climatico è strettamente legato al nostro stile di vita, alla deforestazione e alle emissioni di anidride carbonica in atmosfera. Si potrebbe affermare che le migrazioni “climatiche” sono la diretta conseguenza dei comportamenti predatori del paesi occidentali nei confronti della natura. La questione ambientale, quindi, dovrebbe essere il “tema dei temi” anche per contenere il fenomeno migratorio ed invece resta ai margini della discussione politica, soprattutto in Italia. Non conviene parlare di queste cose, evidentemente, perché saremmo costretti a mettere in discussione il modo pazzoide in cui viviamo e sfruttiamo le risorse della Terra.
Convenzioni sui profughi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Nel diritto internazionale esistono ancora gravi lacune riguardanti il tema dei rifugiati e lo svolgimento delle procedure da attuare nei casi di domanda di asilo e di protezione internazionale. Si tratta di una problematica sempre più viva e pressante che coinvolge tutti i paesi del mondo, in particolar modo quelli dell’Unione europea che sono da sempre interessati dai maggiori flussi di migrazione. Una prima consapevolezza si è presa dopo la seconda guerra mondiale e da quel momento in tutti gli Stati membri si sono avviate procedure ben organizzate e sicure a favore sia dei profughi che degli Stati stessi. Allo stesso tempo sono state approvate convenzioni che hanno reso possibile disciplinare meglio la materia in esame.
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo fu firmata a Parigi il 10 dicembre 1948 da tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite con lo scopo di mettere in luce, per la prima volta, i diritti della singola persona. In particolare, si prende in esame l’articolo 14, composto da due commi, nel quale si specificano le caratteristiche e i limiti per determinare la richiesta di asilo:
“Ogni individuo ha il diritto di godere e cercare asilo in altri paesi a causa di persecuzioni.”
“Questo diritto non potrà essere invocato qualora l'individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.”
Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Tra le convenzioni e accordi internazionali delle Nazioni Unite che sono state firmate a Ginevra vi è la cosiddetta Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati o Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Conclusa a Ginevra il 28 luglio 1951, la Convenzione fu approvata dall’Assemblea federale il 14 dicembre 1954. Con tale Convenzione, gli Stati si assunsero le responsabilità derivanti dal problema dei rifugiati e si impegnarono ad evitare divenisse causa di tensioni fra di essi. Nei 46 articoli che la formano vengono esplicitate le caratteristiche per la definizione del termine rifugiato, gli obblighi e i diritti dei rifugiati nell’ordine: Disposizioni generali, Condizione giuridica, Attività lavorativa lucrativa, Benessere sociale e le condizioni di vita, Provvedimenti amministrativi. L’organo che si occupa di vigilare sull’applicazione delle Convenzioni internazionali per la protezione dei rifugiati è l’Alto commissariato delle Nazioni Unite (UNHCR).
Dichiarazione del Cairo sulla protezione dei rifugiati e profughi nel mondo arabo. La Dichiarazione fu firmata a Il Cairo nel 1992 da un gruppo di esperti di varie nazionalità che si riunirono per un seminario condotto dall’Istituto internazionale di diritto umanitario in collaborazione con la facoltà di giurisprudenza dell’Università del Cairo e l’UNHCR. La tavola rotonda riconobbe la necessità di un nuovo approccio più umanitario per la soluzione dei problemi dei rifugiati e dei profughi. La dichiarazione è suddivisa in undici articoli:
Articolo 1: si riafferma il diritto di ogni persona di muoversi liberamente all’interno del proprio paese, di lasciarlo per un altro e di ritornarvi quando lo desidera.
Articolo 2: si vieta l’espulsione di un rifugiato verso un paese nel quale la sua vita e la sua libertà possano essere messi a rischio.
Articolo 3: la concessione di asilo non deve essere vista come un atto non amichevole verso un altro Stato.
Articolo 4: si auspica che gli Stati arabi che ancora non abbiano aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 e al protocollo del 1967 riguardante lo status di rifugiato provvedano al più presto.
Articolo 5: i rifugiati sono comunque protetti, anche se non esiste una normativa completa ed efficiente.
Articolo 6: in attesa di un’elaborazione di una Convenzione araba che ne determini le specifiche modalità, gli Stati arabi devono adottare un ampio concetto di status di profugo e rifugiato oltre che a provvedere allo standard del loro trattamento stabilito dai diritti umani delle Nazioni Unite.
Articolo 7: si auspica che gli Stati si impegnino sempre con costanza per arrivare alla stipulazione di una Convenzione araba che determini nello specifico le modalità del tema dei profughi.
Articolo 8: si chiede che ogni Stato membro della Lega degli Stati arabi fornisca al Segretariato della stessa le informazioni e i dati statistici riguardanti la condizione dei rifugiati e dei profughi nei propri territori, il livello di applicazione degli strumenti internazionali per la protezione dei profughi e tutta la legislazione (decreti e anche regolamenti) in vigore.
Articolo 9: si assicura protezione internazionale ai rifugiati palestinesi.
Articolo 10: si sottolinea la necessità di adottare una speciale protezione a donne e bambini che costituiscono la più grande categoria dei rifugiati e profughi oltre che quella più esposta a sofferenze.
Articolo 11: emerge la necessità di una più grande diffusione del diritto dei rifugiati con la conseguente consapevolezza che dovrebbe svilupparsi nel mondo arabo.
Dichiarazione di principio sulla protezione dei rifugiati. Nel 1989 gli Stati, preoccupati per la grave situazione dovuta dall’alto numero di rifugiati e profughi e in mancanza di una completa legislazione sullo status e per la protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, hanno partecipato ad una tavola rotonda. Da tale incontro fu firmata la Dichiarazione di principio, la quale sanciva: “Nelle situazioni non completate dai vigenti accordi internazionali sullo status e sulla protezione dei rifugiati, le persone richiedenti asilo e i profughi restano comunque sotto la protezione dei principi generali del diritto internazionale, derivanti dalla tradizione consolidata, dai principi di umanità e dei diritti umani fondamentali, oltre che dai dettati della coscienza pubblica.”
Dichiarazione di Manila sulla protezione internazionale dei rifugiati e dei profughi in Asia. Nel 1980 si tenne una tavola rotonda, con la partecipazione dell’UNHCR, dell’Università delle Filippine e dell’Istituto internazionale di diritto umanitario, nel quale si presero in esame i problemi riguardanti la protezione dei profughi: “Ogni persona ha diritto di godere dei diritti umani e delle libertà senza discriminazioni, evidenziando il carattere umanitario dei principi inerenti alla protezione dei rifugiati e dei profughi.” Emerse l’esigenza di rafforzare le attività dell’UNHCR che promuovevano il rispetto dei principi fondamentali dei profughi e la necessità di diffondere il diritto internazionale dei rifugiati. Si faceva appello agli Stati asiatici affinché continuassero a sostenere l’UNHCR nello svolgimento della sua attività e venissero riconosciuti i doveri del rifugiato all’interno dello Stato ospitante, come per esempio quello di conformarsi alle sue leggi e alle regole imposte per il mantenimento dell’ordine pubblico. Inoltre, si assicurava che le persone richiedenti asilo non sarebbero state sottoposte a giudizio o pena per il loro ingresso nel paese.
Iniziative dell'Unione europea per affrontare la problematica dei rifugiati. Dagli anni successivi al secondo conflitto mondiale si sono registrati grandi afflussi di migranti negli Stati dell’UE. Tali flussi hanno causato incertezze non solo nella gestione e nel controllo delle persone, ma anche all’interno e all’esterno dei paesi ospitanti e di origine, che devono farsi carico dei problemi di controllo alle frontiere, dei sistemi di accoglienza e delle eventuali domande di asilo e protezione. Molti di questi episodi si sono anche trasformati in tragedie nel quale molti hanno perso la vita. Per questo motivo, l’UE a partire dal maggio del 2015 con l’Agenda europea si è adoperata con nuove iniziative per la gestione delle frontiere, la protezione e il controllo dell’immigrazione irregolare. Da questo momento viene fatta una differenziazione tra i migranti che giungono in Europa: migranti economici e richiedenti asilo. La differenza è fondamentale per il tipo di approccio normativo che si deve tenere dato che diverse risultano anche le loro esigenze e problematiche. Tuttavia l’attuazione delle normative vigenti ha incontrato delle difficoltà: gli Stati hanno spesso respinto indiscriminatamente i migranti alzando muri e fili spinati. Ciò nonostante nel 2015 e nel 2016 l’UE destinò risorse finanziarie agli Stati membri per affrontare la crisi dei rifugiati in un’ottica di solidarietà. Inoltre, con la decisione 2016/253[3] l’UE attribuì lo “strumento di flessibilità”: si tratta di nuovi importi destinati agli Stati per sostenere le misure stabilite nel settore della migrazione e dei rifugiati per un totale di 1,5 miliardi di euro.
Il metodo “hotspot”. Il termine hotspot indica le “zone di crisi”, ossia quelle aree situate esternamente alle frontiere dell’UE che sono interessate da uno sproporzionato flusso migratorio. In questi punti, i funzionari nazionali sono affiancati da “squadre di sostegno per la gestione della migrazione”, a loro volta composte da personale proveniente da varie Agenzie dell’UE. Nello specifico si tratta:
dell’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri UE (Frontex) che ha il compito di registrare i migranti in arrivo, rilevare le loro impronte digitali, interrogarli per comprendere le loro motivazioni, le rotte percorse e applicare lo screening per il loro smistamento;
dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO) che collabora nelle procedure per il riconoscimento di protezione, di asilo e di ricollocazione;
dell’Ufficio europeo di polizia (Europol) che investiga sulle reti e le tratte dei traffici di migranti.
La valutazione per la definizione di tale termine spetta allo Stato membro interessato che si deve rivolgere alla Commissione europea per un’analisi. Nell’eventualità che ci si trovi in una situazione critica, se lo Stato non fa richiesta alla Commissione, quest’ultima può solo proporre di avviare il procedimento di valutazione. In ogni caso, la decisione di creare un hotspot è solo temporanea, fino al momento in cui non cessa il carattere sproporzionato della pressione migratoria. La gestione dei Centri di accoglienza rimane sempre di competenza degli Stati ospitati, responsabili direttamente del rispetto dei diritti dei migranti e devono perciò assicurare un efficiente trattamento. Nel 2015 furono previsti hotspot in Italia e in Grecia.
In particolare, in Italia presso: Lampedusa, Pozzallo, Porto Empedocle, Augusta, Taranto, Trapani.
Mentre in Grecia sono stati istituiti hotspot sulle isole di: Lesbo, Chio, Samo, Lero, Kos.
Non è detto che il metodo costituisca sempre una soluzione efficace: da una simulazione del 2015 emerse che nel caso in cui nel 2016 si fossero presentati gli stessi numeri di arrivi dell’anno precedente, i centri in Italia sarebbero stati in grado di sostenere l’afflusso solo se la permanenza delle persone nelle strutture fosse stata di sole 24 ore, mentre in quelli greci si sarebbe verificata un’emergenza umanitaria già nel luglio 2016. Inoltre in molti hotspot funzionanti si registrarono registrati errori e violazioni riguardanti il diritto di informazione dei migranti, le condizioni di accoglienza e lo smistamento in fase di pre-identificazione, ritardi nelle presentazioni delle domande di protezione e forme di trattenimento.
Il Resettlement e l'ammissione umanitaria. Nel 2015 il governo italiano avviò un programma di concessione di visti a circa un migliaio di profughi provenienti da Siria, Marocco ed Etiopia. La raccomandazione dell’UE 2015/914 metteva in luce due particolari procedimenti di ingresso: il reinserimento e l’ammissione umanitaria.
Il primo venne definito nella raccomandazione dell'UE 2015/914 come: “il trasferimento di singoli profughi con evidente bisogno di protezione internazionale, effettuato su richiesta dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, da un paese terzo in uno Stato membro consenziente con finalità di proteggerli dal respingimento e di riconoscere loro il diritto di soggiorno e tutti gli altri diritti analoghi a quelli riconosciuti ai beneficiari di protezione internazionale.” Si trattava di una procedura che si rivolgeva direttamente ai richiedenti asilo presenti sul territorio degli Stati membri e aveva lo scopo di trasferire nei paesi dell’UE persone che avevano evidentemente bisogno di protezione. La Commissione europea chiese agli Stati membri il reinsendiamento di 20000 persone bisognose (successivamente arrivate a 22504) nell’arco di due anni e provenienti da paesi prioritari: Paesi del Nordafrica, del Medio Oriente, e del Corno d’Africa. A tale merito, nel 2007 con il programma comune di reinserimento del 2012 si era previsto di portare risorse sul Fondo europeo per i rifugiati (FER) per sostenere programmi di reinserimento da parte degli Stati. Ciò fu poi confermato nel regolamento 516/2014 con l’istituzione di un nuovo fondo: il Fondo asilo, migrazione e integrazione (FAMI) che prevedeva sia il sostegno finanziario a tutte le azioni relative ai reinserimenti dei cittadini provenienti da paesi terzi, sia l’offerta di un contributo agli Stati a seconda della provenienza e della condizione del beneficiario. Secondo la raccomandazione del 2015/914 agli Stati che avessero deciso di aderire al programma sarebbe stato assegnato un sostegno finanziario di circa 50 milioni di euro da parte del FAMI per il periodo 2015-2016. Una volta avviato il procedimento di ammissione si passò al riconoscimento dello stato di protezione internazionale e poi alla garanzia dei diritti derivanti dallo status di protezione attribuito ai singoli candidati. Quest’ultimi hanno anche il diritto di ricevere le informazioni sui loro diritti e obblighi prima del loro trasferimento in uno degli Stati membri.
Nel secondo caso, si trattava invece di un programma gestito con la Turchia a favore degli sfollati siriani. Il termine ammissione umanitaria voleva designare il “processo accelerato in cui gli Stati partecipanti, sulla base di una raccomandazione dell’UNHCR a seguito di una richiesta della Turchia, ammettono persone bisognose di protezione internazionale sfollate a causa del conflitto in Siria che sono state registrate dalla autorità turche prima del 29 novembre 2015.”, come citato nella raccomandazione UE 2015/914. Si trattava di un’iniziativa solidale cosicché si potessero alleviare gli oneri gravanti sulla Turchia a causa della presenza di oltre due milioni di sfollati provenienti dalla Siria. Il programma ha sempre carattere volontario, come il resettlement, e come esso avrebbe dovuto concludersi nel minor tempo possibile e non oltre sei mesi. In realtà hanno avuto un processo molto a rilento: alla fine del 2015 si è registrato l’effettivo spostamento di 3.358 reinsediati, una cifra molto inferiore rispetto a quella prevista. Inoltre, il fatto di considerare beneficiari solo gli sfollati dalla Siria, da una parte permetteva di mettere dei paletti per evitare che appaia come un incentivo di ingresso nell’UE, ma d’altra parte sfavorire altri richiedenti asilo presenti in Turchia, come gli afgani e gli iracheni.
Gli elenchi europei dei Paesi d'origine sicuri. Per paesi d'origine sicuri si intende quelli considerati idonei ad assicurare la tutela dei diritti dei cittadini. Tale terminologia viene impiegata nel diritto UE per poter dichiarare velocemente inammissibili le domande di protezione presentate. L’allegato I alla direttiva 2013/32[6] definiva POS (Paesi di origine sicuri) quelli nel quale “sulla base dello status giuridico si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE[7], né tortura, o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armano interno o internazionale.” Ne consegue che le domande presentate dai richiedenti saranno considerate infondate e ciò inciderà sull’esame della domanda di asilo. La vecchia direttiva “procedure” attribuiva al Consiglio europeo la competenza di stipulare un elenco comune di POS, permettendo però agli Stati di mantenere in contemporanea proprie liste. La Commissione, con l’articolo 4 della proposta prevedeva di considerare POS: Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia e Turchia, ma poiché la presunzione di sicurezza può variare nel tempo, la proposta obbligava la Commissione ad un riesame periodico delle situazioni interne dei Paesi dell’elenco. Gli aspetti presi in considerazione per l'inserimento di nuovi POS erano:
la presenza di un’adeguata protezione contro maltrattamenti e persecuzioni;
una bassa percentuale di violazioni della CEDU nell’anno precedente;
la bassa percentuale di domande di protezione ritenute fondate.
Tuttavia, con l’annullamento dei paragrafi 1 e 2 dell’articolo 29 è rimasta attiva solo l’applicazione delle liste nazionali che creeranno sempre delle difformità tra Stato e Stato.
Le iniziative dell'UE per la cooperazione con paesi terzi. Fortemente incoraggiata è la cooperazione con i paesi terzi. L’Unione ritiene fondamentale affiancare agli strumenti per la gestione dei flussi migratori anche appropriate misure di controllo e gestione all’origine del problema, agendo direttamente sulle regioni di transito o in cui nascono tali movimenti. Il Consiglio europeo durante una riunione svoltasi il 25-26 giugno 2015[8] ha stabilito tre obbiettivi fondamentali:
sviluppare una collaborazione con i paesi del continente africano;
rafforzare la collaborazione con la Turchia e i paesi del Medio Oriente, per limitare soprattutto le conseguenze della crisi in Siria;
affrontare le problematiche della cosiddetta “rotta balcanica”.
Come diretta conseguenza, già dal 2016 la collaborazione con i paesi africani sembrava aver prodotto un buon dialogo sia a livello continentale che bilaterale. A livello continentale, nel novembre 2015 al vertice della Valletta si ribadì la necessità di migliorare le condizione dei rifugiati e di incentivare la loro integrazione all’interno delle comunità ospitanti. In tale occasione fu anche istituito un Fondo fiduciario d’emergenza dell’Unione europea per la stabilità e la lotto contro le cause profonde dell'immigrazione irregolare, il cosiddetto Emergency Trust Fund for Africa, con una dotazione di circa 1,8 miliardi di euro. A livello bilaterale l’UE contribuisce alle riforme istituzionali e legislative, per creare e valorizzare le capacità nei paesi membri: fondamentali sono stati i partenariati con Marocco, Tunisia e Capo Verde. Per quanto riguarda la regione meridionale, l’UE è fortemente impegnata a risolvere le problematiche derivanti dalla crisi dei rifugiati siriani: si registrano ogni anno circa 7.6 milioni di sfollati interni e più di 4 milioni di rifugiati siriani in Libano, Giordania e Turchia. La situazione è ulteriormente peggiorata dal 2015 a causa dell’incapacità di accoglienza di questi paesi. Fu anche istituito un "Fondo fiduciario regionale dell’UE in risposta alla crisi siriana", Madad Fund o EUTF Madad, di circa 1 miliardo di euro ripartito tra UE e membri con lo scopo di fornire sostegno ai paesi limitrofi di accoglienza dei rifugiati siriani. Alla Turchia furono destinati circa 7 miliardi di euro in qualità di Stato attraversato dai maggiori flussi migratori verso l’UE e ricevente il più alto numero di arrivi al mondo: circa 2 milioni all’anno. Durante il vertice a La Valletta dell’11/12 novembre 2015 fu istituito uno “Strumento per la Turchia a favore dei rifugiati”, successivamente rinominato “Strumento per i rifugiati in Turchia” nel 2016. Esso assegnava un importo di circa 3 miliardi di euro dal 1º gennaio 2016 alla Turchia per il sostegno ai siriani beneficiari di protezione temporanea e alle comunità di accoglienza. Inoltre, l’UE ha intensificato il sostegno ai paesi terzi dei Balcani occidentali, in quanto rotta utilizzata per l’ingresso dei migranti provenienti dalla Turchia: nel 2015 circa 88000 persone hanno raggiunto la Grecia per proseguire verso i paesi centrali dell’UE.
L’istituto di Sanremo. L’Istituto internazionale di diritto umanitario che fa sede a Sanremo, precisamente a Villa Nobel, fu creato nel 1970. Si tratta di un’istituzione considerata a livello internazionale come centro di eccellenza per la formazione e la ricerca nel campo del diritto internazionale. Il suo scopo primario è quello di tutelare i diritti fondamentali e la dignità della persona nelle situazioni di conflitto armato. L’istituto ha lavorato in stretta collaborazione con molti enti governativi e non governativi come il Comitato internazionale della Croce Rossa, l’UNHCR, l’OIM, il Consiglio d’Europa, l’UE, l’UNESCO, la NATO ecc. Il 26 settembre 1970 venne istituito formalmente l’Istituto internazionale di diritto umanitario avente come primo presidente Paolo Rossi e tredici paesi fondatori: Austria, Belgio, Francia, Germania, India, Iran, Italia, Jugoslavia, Principato di Monaco, Romania, Regno Unito, Stati Uniti e Svezia.
L'Istituto e la collaborazione con il Consiglio d'Europa. L’Istituto ha sin dall’inizio goduto dell’appoggio di molte organizzazioni internazionali interessate alla promozione e protezione dei diritti dell’uomo. Dal luglio 1972 iniziò una stretta collaborazione con il Consiglio d’Europa che affidò all’Istituto il compito di redigere un rapporto su “l’azione internazionale recente per lo sviluppo del diritto umanitario” in vista dell’aggiornamento delle Convenzioni di Ginevra, sotto la visione del professor Patrnogic. Il Consiglio affidò anche modiche sovvenzioni all’Istituto.
L'Istituto e la collaborazione con l’ONU. Nel luglio 1972 il direttore della divisione diritti umani, Mark Schreiber fece visita all’Istituto e si colse l’occasione per organizzare a Sanremo un seminario su “I giovani e diritti dell’uomo” nel quale vennero proposti modelli educativi per coinvolgere meglio e sensibilizzare i giovani. La partecipazione fu mondiale con 31 governi e rappresentanti dell’UNESCO, del Consiglio d’Europa, della Lega degli Stati Arabi, dell’Organizzazione dell’Unità Africana e molte altre organizzazioni internazionali non governative.
L'Istituto e la collaborazione con la Comunità europea. Una forte collaborazione sin dalla metà degli anni ottanta si ebbe con la Comunità europea anche se sempre di tipo formale (inviti a convegni, scambio di informazioni, trasmissione di documenti ecc.) Tali rapporti si sono intensificati a partire dal 1990 soprattutto grazie al sostegno economico fornito dalla Comunità europea in molte attività e programmi dell’Istituto.
Il problema dei rifugiati e i piani d'azione dell'Istituto. Dopo la seconda guerra mondiale il problema dei rifugiati ha iniziato ad assumere dimensioni sconcertanti in diverse aree del pianeta. Si tratta della dolorosa esperienza di tutti coloro che sono costretti ad abbandonare la propria terra per sfuggire a guerre, persecuzioni ideologiche o razziali che caratterizzano sempre di più la nostra epoca. Dal 1978 l’Istituto iniziò a seguire le problematiche derivanti da questi flussi migratori massicci, soprattutto nel sud-est asiatico. Nel 1980, quando la situazione si stava notevolmente aggravando, si svolse a Manila una conferenza di esperti organizzata dall’Istituto in collaborazione con l’Università delle Filippine e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Nel 1981 si tenne un colloquio a Sanremo che prese in esame le questioni giuridiche, sociali e organizzative inerenti all’assistenza e ai programmi di integrazione dei profughi, focalizzando l’attenzione sulla quantità degli esodi attivi nel mondo. Nel 1981 sempre a Sanremo fu convocata una riunione per discutere dei grandi problemi derivanti dall’alto numero di richieste di asilo e sugli aspetti antecedenti gli esodi di massa. Si individuarono tre cause principali di fuga:
la violazione sistematica del diritto umanitario e dei diritti umani;
i conflitti armati;
le occupazioni straniere.
Inoltre, l’Istituto individuò la frammentaria situazione della normativa esistente in materia di espulsioni di massa di stranieri, perciò si tenne una nuova riunione sempre a Sanremo dove si stabilì che le espulsioni anche se motivate non devono recare sofferenza immotivata alle persone coinvolte. L’esodo se necessario deve verificarsi in modo umano ed equo. L’Istituto tenne anche quattro seminari sull’asilo e sull’applicazione del diritto dei rifugiati nei Paesi arabi tra il 1984 e il 1992 con la collaborazione dell’UNHCR e la partecipazione di esperti provenienti da quindici paesi arabi. Constatando che la maggioranza dei rifugiati provenisse proprio da paesi islamici si sollecitarono i governi arabi all’adesione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 in attesa di una nuova Convenzione araba in materia. Nel 1982 a Sanremo si diede il via ad un'altra iniziativa: la diffusione di corsi concentrati sul diritto internazionale dei rifugiati nel quale si approfondivano le problematiche relative allo status di rifugiato e riguardanti l’asilo. Tali corsi erano indirizzati a funzionari governativi, personale degli organismi internazionali e delle ONG operanti nel settore. Alla fine del 2008 risultavano attivi 49 corsi a carattere generale e altri quattro avanzati sul diritto dei rifugiati, con oltre 2000 partecipanti provenienti da 161 paesi. Infine, dagli anni ottanta si è venuta a delineare una nuova minaccia, quella del terrorismo internazionale che insieme alle problematiche umanitarie legate al sottosviluppo (fame, malattie endemiche, l’AIDS ecc.) e alla conservazione dell’ecosistema mondiale costituiscono i nuovi temi fondamentali dell’Istituto.
L’Italia. In Italia, secondo l'articolo 10 della Costituzione il rifugiato è definito: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.” Successivamente sono stati approvate nuove leggi e decreti in materia di migrazione e profughi. Tra i più importanti meritano un riconoscimento il decreto legislativo n. 142 del 18 agosto 2015 e il decreto legislativo n. 25 del 28 gennaio 2008. Quest'ultimo pone in Italia l’attuazione delle direttive poste dall'UE allo scopo di riconoscere e revocare lo status di rifugiato. Il decreto, entrato in vigore il 2 marzo 2008, passa in rassegna la procedura per esaminare le domande di protezione internazionale presentate nel territorio. Esso è costituito da 40 articoli suddivisi in sei capi:
Capo I: Le disposizioni generali
Capo II: I principi fondamentali
Capo III: Le procedure di primo grado
Capo IV: La revoca, la cessazione o la rinuncia della protezione internazionale
Capo V: Le procedure di impugnazione
Capo VI: Le disposizioni finali
L’entrata in vigore del D.Lgs. n. 142/2015. In Italia si è proceduto con l’attuazione alla direttiva 2013/33/UE con il decreto legislativo del n. 142 del 18 agosto 2015. Tale intervento si è dimostrato significativo per uniformare le norme al sistema europeo di asilo con la possibilità di intervenire grazie l’attuazione dell’Agenda europea sull’immigrazione e l’asilo.
Il sistema di accoglienza generale. Il sistema generale di accoglienza definito nell’articolo 8 si suddivide in tre fasi: Soccorso-Identificazione, Prima accoglienza, Seconda accoglienza.
Le prime due fasi insieme all’identificazione degli stranieri può verificarsi nei centri di primo soccorso e assistenza (CPSA) istituiti nei luoghi maggiormente interessati dagli arrivi. Tuttavia il decreto non specifica nulla su ciò che riguarda tempi, modalità e tipologia di servizi che devono essere resi disponibili nei centri. A causa di queste gravi lacune della normativa sono facilmente presenti errori nella gestione: i centri infatti si trasformano spesso in vere opere di detenzione di migranti, violando i diritti e le tutele previste dalla Costituzione italiana. Il regolamento UE prevede che, dopo la fase di soccorso, siano rilevate le impronte digitali di tutte le dita di ogni richiedente protezione internazionale di età non inferiore ai 14 anni nell’arco delle prime 72 ore dalla presentazione della domanda. Infine si passa al sistema di accoglienza per richiedenti protezione internazionale che si articola in due fasi:
Una prima fase di accoglienza presso le strutture previste dall’articolo 9 (centri governativi di accoglienza per richiedenti asilo) in cui si svolgono le operazione di identificazione, verbalizzazione della domanda e accertamento delle condizioni di salute. Se la disponibilità dei posti è insufficiente si può accedere ad una sistemazione temporanea di emergenza presso i centri governativi previsti dall’articolo 11;
Una seconda fase di accoglienza in cui il richiedente, che sia già stato identificato, abbia formalizzato la domanda e che sia privo di mezzi per la sussistenza, venga condotto in una delle strutture di accoglienza predisposte dagli enti locali e finanziata dal Ministero dell’interno, come da articolo 14.
Il sistema di accoglienza territoriale. Il sistema di protezione istituito ai sensi dell’articolo 1 del decreto legislativo del 30 dicembre 1989 n. 416 è concepito come l’unico sistema di accoglienza che si deve occupare sotto ogni aspetto (accoglienza materiale, legale, socio-culturale ecc.) di tutti i richiedenti asilo presenti nel territorio nazionale. L’articolo 14 sancisce che il richiedente che non dispone di mezzi di sussistenza che gli garantiscano una qualità di vita adeguata ha accesso, con i propri famigliari, alle misure di accoglienza del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Nel caso di mancata disponibilità dei posti nel sistema territoriale SPRAR il richiedente sarà ospitato in un centro per il tempo necessario. Le strutture previste nell’articolo 9 sono finalizzate alla sola prima accoglienza, mentre quelle dello SPRAR hanno il compito di soddisfare le esigenze essenziali dell’accoglienza (tutela legale, scolarizzazione dei minori, assistenza formativa e sanitaria ecc.). Nell’articolo 10 del decreto legislativo 142/2015 si è stabilito che nei centri provvisori deve essere assicurato: il rispetto della sfera privata (es. le differenze di genere), le esigenze dell’età, la tutela della salute, l’unità famigliare. Inoltre, si assicura anche la possibilità di comunicare con amici, parenti e enti di protezione.
La procedura per l'esame della domanda di protezione internazionale. Con il decreto legislativo 142/2015 vengono introdotte una serie di modifiche sulle modalità di svolgimento e nella verbalizzazione del colloquio con il richiedente protezione internazionale. Alla fine di tale colloquio sarà redatto un verbale che dovrà essere letto con interprete in modo che il richiedente possa far valere osservazioni o eventuali errori di traduzione o trascrizione. In caso di domanda presentata da un minore è prevista la presenza di un genitore o tutore durante il colloquio (o dell’eventuale personale di sostegno previsto) e solo in casi eccezionali e giustificati la Commissione territoriale può richiedere un secondo colloquio senza la presenza del genitore o tutore. Uno dei maggiori problemi riscontrati è sicuramente la lunga durata del procedimento di esame della domanda che comporta di conseguenza anche un aumento dei costi della procedura. Con il decreto legislativo 142/2015 viene introdotto un termine massimo per il completamento della procedura di esame fissato a sei mesi dal momento della consegna della domanda che può essere prorogato di altri nove mesi, nel caso in cui ci sia un intasamento per più richieste simultanee. Infine, solo in casi eccezionali e motivati il termine può ancora essere prorogato di altri tre mesi.
· Samos. Le Colpe dei buonisti UE sulla Migrazione dei profughi di guerra. Frontiere colabrodo e campi indegni.
La rotta orientale dei migranti per arrivare in Italia. Mauro Indelicato su it.insideover.com il 13 Novembre 2019. Lunedì ad Aosta sono stati spiccati sei mandati d’arresto per sei iracheni dediti all’organizzazione del traffico di esseri umani verso la Francia e altri Paesi europei. Non a caso, la polizia ha denominato il blitz “Connecting Europe”. I sei arrestati altro non erano che “passeur“, il nome che da queste parti si dà a coloro che favoriscono il passaggio dall’Italia verso il nord Europa di cittadini sbarcati nel nostro paese. L’operazione condotta ad Aosta, ha permesso di svelare un’altra trama dell’intricata rotta cosiddetta “orientale”, quella cioè che parte dai porti della Turchia.
I dettagli dell’operazione. Questa volta, nel mirino degli investigatori italiani, è finita l’immigrazione che avviene via terra, sfruttando cioè i confini terrestri e non marittimi del nostro Paese. I sei iracheni sono risultati ben ramificati nel nord Italia e non solo ad Aosta, tanto che alcuni degli arrestati sono stati scovati in Piemonte e in provincia di Venezia. Ognuno aveva un ruolo ben definito: chi procurava i soldi, chi i documenti, chi gli alloggi dove nascondersi, chi guidava i tir. Quest’ultimo aspetto, poi, è apparso agli inquirenti drammaticamente simile a quello riscontrato nei giorni scorsi in altre parti d’Europa, in primis in Gran Bretagna. Qui, come si sa, ha fatto scalpore il ritrovamento di 39 cadaveri di cittadini vietnamiti morti asfissiati mentre provavano ad arrivare nel Vecchio continente a bordo di un camion. L’organizzazione formata da cittadini iracheni, permetteva per l’appunto l’attraversamento delle frontiere grazie a tir e mezzi simili in cui i migranti venivano stipati. Senza aria, con solo qualche bottiglia a disposizione per espletare i bisogni fisici, le persone venivano caricate in camion di solito usati per trasportare frutta e, attraversando sia il traforo del Monte Bianco che quello del Frejus, oltre che altri passi secondari, giungevano in Francia. Da qui poi o raggiungevano le più importanti città francesi oppure proseguivano verso il nord Europa. Ogni viaggio costava in media più di mille dollari, negli ultimi mesi i sei trafficanti di esseri umani erano riusciti a mettere illecitamente di lato grosse somme.
Il collegamento con la rotta orientale. I migranti trasportati in tal modo verso il nord Europa erano quasi sempre cittadini del Medio Oriente: iracheni, iraniani, siriani, afghani, bengalesi o pakistani. Ed è qui che ad emergere è un primo collegamento con la rotta orientale. Da diversi anni, con un aumento significativo nell’ultimo, tra Calabria ionica e Puglia si notano sbarchi effettuati con barche a vela o con veri e propri yacht di cittadini provenienti dal Medio Oriente. Si tratta di approdi autonomi, che non sempre vengono scoperti. In alcuni casi le forze dell’ordine intercettano migranti e scafisti, in altri invece chi arriva in Italia non lascia traccia. Andando a confrontare il fenomeno della rotta orientale con i dettagli dell’operazione di lunedì, gli elementi sembrano incastrarsi perfettamente. Evidentemente, chi sbarca in Calabria ed in Puglia riesce poi a risalire la penisola, servendosi di organizzazioni composte, come in questo caso, da altri cittadini originari del medio oriente per andare verso il nord Europa. C’è quindi un lungo filo che unisce i porti turchi da dove partono le imbarcazioni dirette nel sud Italia, con i corridoi viari che conducono in Francia e nei paesi settentrionali del vecchio continente. Con la chiusura nel 2016 della rotta balcanica, a seguito degli accordi tra Bruxelles ed Ankara, chi vuole provare ad andare nel nord Europa potrebbe scegliere nella maggior parte dei casi la via della rotta orientale del Mediterraneo. Si percorre cioè il tratto di mare tra Turchia e Calabria per sperare poi, via terra, di risalire la nostra penisola ed arrivare almeno in Francia. La rotta orientale del Mediterraneo, si conferma dunque canale di sblocco della rotta balcanica. Quest’ultima, sbarrata anche grazie ai maggiori controlli in vigore in molti paesi dell’est Europa, non è del tutto azzerata ma appare comunque ridimensionata rispetto agli anni del boom che hanno portato, solo in Germania, più di mezzo milione di siriani.
Un nuovo fronte migratorio. Mauro Indelicato su it.insideover.com il 6 novembre 2019. Un gruppo di migranti scovato in Grecia ed arrivato dalla Turchia non fa notizia: nel Paese ellenico, soprattutto da questa estate, il numero degli sbarchi è aumentato e si è nuovamente iniziato a parlare di vera e propria emergenza. Questa volta però non c’è stato alcuno sbarco: i migranti sono stati rintracciati all’interno di un tir nella cittadina di Xanthi, non lontano dal confine con la Turchia. È il segno di come oramai gli occhi sul fenomeno migratorio in Grecia non debbano più essere rivolti verso le isole dell’Egeo, bensì anche verso i confini terrestri con la Turchia.
Un allarme per tutta l’Europa. La notizia del ritrovamento di un tir con all’interno dei migranti è arrivata a pochi giorni dalla tragica scoperta, nel sud dell’Inghilterra, di 39 cadaveri dentro un camion frigo partito verosimilmente dalla Bulgaria. E alcune assonanze con il caso greco sono ben rintracciabili: anche il tir fermato a Xanthi infatti aveva targhe bulgare, anche se non è possibile al momento ricostruire l’intero tragitto fatto dal mezzo. Il sospetto delle autorità elleniche è che il camion possa essere arrivato dalla Turchia. Al suo interno i migranti erano in condizioni quasi disperate: in un minuscolo spazio infatti, ben 41 persone attendevano in silenzio di arrivare a destinazione ma sarebbero bastate poche ore di viaggio in più per rischiare di morire soffocati. I migranti erano tutti afghani, eccezion fatta per un iraniano e un siriano. Il conducente del mezzo, arrestato dalla Polizia greca, era invece di nazionalità georgiana. L’episodio sta a dimostrare come la rotta turca stia sempre più prendendo piede anche via terra. Non solo quindi barconi e gommoni diretti verso Lesbo e le altre isole dell’Egeo, le organizzazioni di trafficanti di esseri umani hanno iniziato a sfruttare anche gli attraversamenti del confine terrestre tra Turchia e Grecia. Un percorso che, come dimostrato da quanto scoperto a Xanthi, non è meno pericoloso di quello marittimo. E questo vale sia per la sicurezza dei migranti, così come per l’Europa: l’apertura di un nuovo fronte ai confini orientali dell’Ue, potrebbe dare sempre più linfa alla rotta balcanica. Quest’ultima, che tra il 2015 ed il 2016 ha generato non poche tensioni politiche nell’est e nel nord Europa, è stata parzialmente interrotta con gli accordi che Bruxelles ha sottoscritto con Ankara, al cui governo vanno ogni anno tre miliardi di Euro. Ma da questa estate, complici gli aumenti degli approdi in Grecia, la rotta ha fatto registrare nuovamente numeri importanti. E Paesi quali Bosnia e Slovenia sono alle prese, oramai da mesi, con il contrasto ad un’immigrazione che ha ripreso a sfruttare il corridoio balcanico. Un problema da cui non è esente nemmeno l’Italia: in Friuli sono stati diversi, in questo 2019, gli episodi contraddistinti dall’attraversamento del confine con la Slovenia da parte di alcuni gruppi di migranti.
Lo spettro di Erdogan. Ogni qualvolta si nota un episodio che ben testimonia l’aumento degli arrivi dalla Turchia, il pensiero non può non andare alle minacce del presidente turco Recep Tayyip Erdogan sia delle ultime settimane, ma anche dell’estate appena trascorsa. Più volte da Ankara, sia in relazione alla questione relativa alle tensioni sul gas cipriota che su quella inerente la propria iniziativa militare contro i curdi, il capo dello Stato turco ha minacciato il vecchio continente di riaprire i corridoi dell’immigrazione. Se è vero che al momento non sono stati registrati comunque gli stessi dati del periodo nero compreso tra il 2015 ed il 2016, è altrettanto vero però che l’aumento degli arrivi dalla Turchia non è frutto di una casualità. E le autorità di Atene, dal canto loro, adesso temono di dover gestire una doppia emergenza: la prima che riguarda il mai chiuso canale migratorio dell’Egeo, l’altra invece relativa all’apertura della nuova rotta terrestre. Una situazione inedita che allarma e non poco. E la sensazione è che l’episodio sopra descritto di Xanthi non sia destinato a rimanere isolato.
La Turchia minaccia l'Ue, che non trova soluzioni. Così l'Europa buonista abbandona i migranti in condizioni indegne nei campi profughi in Grecia. Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Mercoledì 09/10/2019, su Il Giornale. Dalla strada che corre intorno all'isola, la Turchia è visibile a occhio nudo. Il regno di Erdogan dista solo qualche chilometro e così ogni notte nella piccola isola dell'Egeo orientale sbarcano centinaia di migranti. È l'effetto del ricatto del sultano all'Europa. Quest’estate, da giugno a fine settembre, sono arrivati in Grecia 31.252 migranti rispetto ai 17.791 del 2018. Il Paese è al collasso. Negli hotspot di Lesbo, Samos, Leros, Kos e Chios sono stipati più di 30mila migranti a fronte di una capacità massima di 6.300 persone. Vivono in condizioni precarie, accampati in tende e baracche, senza acqua né luce, tra serpenti e ratti. A Samos il campo profughi si trova sulla collina che sovrasta la cittadina di Vathy. L'hotspot, costruito dal governo greco con i finanziamenti dell’Unione europea, può ospitare solo 648 persone: oggi però sull'isola si contano oltre 5mila migranti che vivono nell'enorme tendopoli sorta nella foresta che circonda il campo ufficiale. IlGiornale.it è stato sull'isola greca per raccontarvi gli effetti del ricatto di Erdogan, le mancate promesse dell'Ue, il dramma di donne e bambini abbandonati tra gli animali. Per capire come le politiche migratorie di Bruxelles e l'incapacità di trovare una linea comune euroopea abbiano prodotto effetti nefasti che scontentano cittadini, profughi e migranti. Un buco nell'acqua confermato dal mancato accordo di Malta (sbandierato dal ministro italiano Lamorgese), che lascerà di nuovo Italia e Grecia in balia dei flussi migratori.
Migranti, Erdogan ricatta l'Ue. E la Bulgaria schiera l'esercito. Sale la tensione sull'accordo Ue-Turchia. Sofia avverte Istanbul: "Se aumentano i migranti, pronti a reagire. Duemila soldati nell'area". Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Lunedì 16/09/2019, su Il Giornale. Samos, Grecia - Le baracche dei migranti sovrastano Vathy. Centinaia di tende colorate padroneggiano la baia spingendosi sempre più a ridosso alla cittadina greca. Nella "giungla" dei migranti, il formicaio costruito intorno all'hotspot dell'isola di Samos, migliaia di immigrati vivono ammassati tra i ratti. È questo il vero simbolo della nuova crisi che sta per invadere l'Europa, di nuovo vittima del ricatto della Turchia. Il presidente turco nei giorni scorsi ha avvertito Bruxelles: le frontiere con Grecia e Bulgaria saranno riaperte a breve se l'accordo non sarà rinegoziato. Intanto il cordone che per anni ha tenuto chiusi i confini comicia a sgretolarsi. Da Istanbul il flusso è rincominciato, come un avvertimento. Quest'anno nelle isole greche sono approdati oltre 36mila migranti, contro i 32mila del 2018. Negli hotspot di Lesbo, Samos, Kos e Chios ne sono stipati oltre 20mila. Lo stesso vale per la Bulgaria, dove il "muro" sorto al confine con la Turchia scricchiola sotto i colpi dei quasi mille migranti che sono riusciti a oltrepassare la frontiera aggirando le difese. Il controllo dei flussi migratori a Est, in fondo, è tutto nelle mani di Erdogan. Qualora Istanbul decidesse di aprire i rubinetti, l'Europa rischierebbe uno tsunami simile a quello del 2015. Nei giorni scorsi il sultano e Angela Merkel si sono sentiti al telefono per evitare una nuova crisi sull'immigrazione. Senza un accordo, a farne le spese saranno Grecia e Bulgaria. E poi tutta l'Europa. Per questo sia Atene che Sofia si sono scagliate duramente contro il "ricatto" di Erdogan. Il premier greco, Kyriakos Mitsotakis, ha ammonito il presidente turco di non "minacciare la Grecia e l'Europa sui migranti, nel tentativo di ottenere più soldi". Più duro il ministro della Difesa bulgaro, Krasimir Karakachanov, che oggi ha evocato l'uso della forza per contrastare l'ingresso illegale di clandestini dalla Turchia all'Ue. "Le forze armate sono pronte a reagire se aumenterà la pressione dei rifugiati sul confine - ha detto - Attualmente, la situazione al confine è normale, ma se la pressione migratoria aumenta, è possibile inviare immediatamente fino a duemila militari nella regione. Avranno attrezzature militari, compresi recinzioni mobili". La tensione è alle stelle. IlGiornale.it nei prossimi giorni vi racconterà gli effetti del ricatto di Erdogan, le mancate promesse dell'Ue, il dramma dei bambini abbandonati tra i serpenti. Perché le isole della Grecia, così come la Bulgaria, saranno le prime a dover fronteggiare un'eventuale rottura della diga. E in parte lo stanno già facendo. Dalla strada che corre intorno all'isola di Samos, la Turchia è visibile a occhio nudo. Il regno di Erdogan è lì a un passo, distante quel chilometro e mezzo di mare che divide le due coste. "Sono partito da Smirne a bordo di un gommone. E così hanno fatto i miei amici", ci racconta un giovane siriano. Ogni notte nella piccola isola dell'Egeo orientale ne arrivano a centinaia. I numeri sono scritti in rosso sulla lavagna appesa nell'ufficio della polizia all'interno dell'hotspot: 230, 145, 95, 172 immigrati sbarcati ogni giorno. Il campo profughi di Samos può ospitare solo 648 migranti. Oggi ce ne sono oltre 5mila. Il risultato è che i turisti si allontanano, i commercianti si lamentano e la polizia occupa il 40% del suo personale per controllare gli stranieri ammassati nelle baracche. "Prima o poi esploderà una rivolta", assicura un negoziante. L'immigrazione può destabilizzare l'intera regione. Erdogan lo sa e vuole sfruttare la paura a suo favore.
In migliaia sbarcano in Ue: Erdogan sgancia la bomba immigrati. La Turchia manovra il flusso migratorio. "Il sultano vuole più soldi dall'Europa". Nelle isole della Grecia la situazione è al collasso. Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Lunedì 30/09/2019, su Il Giornale. "Il mio nome non ve lo dico, so che userete queste informazioni". Lo sguardo del poliziotto greco è deciso, forse duro, ma desideroso di parlare. Capisce l'italiano, eppure usa l'inglese come a mantenere un po' di distanza. "La Turchia dovrebbe occuparsi dei clandestini, gli abbiamo versato sei miliardi di euro per chiudere le frontiere. E invece i migranti continuano a sbarcare tutte le notti". Samos, stazione di polizia nell'isola greca nell'Egeo. Il regno di Erdogan è molto vicino, troppo in un periodo in cui il flusso migratorio torna a crescere fino a raggiungere livelli preoccupanti. Secondo i dati ufficiali quest'anno sono arrivati 38.598 migranti rispetto ai 29.718 del 2017 e ai 32.494 del 2018. Non siamo ai livelli del 2015, quando le isole Egee accolsero 800mila immigrati. Ma Ankara è tornata ad essere un colabrodo, nonostante il patto miliardario stilato con l'Unione Europea. Da qualche settimana Erdogan utilizza il ricatto migratorio alla ricerca di un nuovo accordo (economico) sulla gestione dei flussi all'inizio della rotta balcanica. Il sultano e Angela Merkel si sono sentiti al telefono, ma non si è ancora arrivati alla stretta di mano definitiva. Atene accusa Erdogan di voler "ottenere più soldi". Ankara sostiene che Bruxelles non abbia rispettato i patti. La ragione è come sempre nel mezzo. "La Turchia ha preso i soldi dall'Ue e li spende per comprare armi - dice il poliziotto greco - sono tutti fondi neri che regaliamo a Erdogan. Ne ha incassati 6 miliardi e ora tornerà a chiederne altrettanti". Intanto a farne le spese sono la Bulgaria e la Grecia. Il vice ministro greco della Protezione civile, Giorgos Koumoutsakos, ha fatto notare che "migliaia di migranti ammassati a Smirne sono pronti alla traversata". Una bomba pronta a esplodere. "Ogni notte arrivano 150 o 200 persone", lamenta Themos, che con il suo negozio di souvenir a Samos non fa più grossi affari. "In Turchia ce ne sono almeno 10mila in attesa di trovare un modo per approdare", gli fa eco Aziz dalla sua tenda nel campo profughi. Sulle isole greche la situazione è al collasso e il business dei trafficanti è tornato a fiorire da quando Ankara ha chiuso un occhio. "Se andate lì - racconta Hassan - ne troverete tantissimi disposti a portare i migranti ovunque". La base di partenza è Smirne, sulla costa turca dell'Egeo. Trafficanti e disperati entrano in contatto via social network. Asif ci mostra uno dei tanti gruppi Facebook attivi: "Ce ne sono molti - spiega - ma questo è il migliore". Centinaia di immigrati, da Siria, Afghanistan e Paesi africani pubblicano annunci dicendosi disposti a "pagare molti soldi" pur di raggiungere Samos, Lesbo, Kos, Chios o Leros. E soprattutto per abbandonare l'inferno turco.
Ivan indica le cicatrici su braccio, testa e collo frutto dei pestaggi degli agenti di Erdogan. Faris brandisce una mazza: "La polizia ci ha picchiati con un bastone come questo". Anche i minorenni sono finiti nelle grinfie dei poliziotti di Ankara, sopportati (e supportati) dall'Ue che tanto parla di accoglienza. "Mi servirebbero cento ore per raccontare cosa è successo lì", sussurra Asif. Nel volto un misto di rabbia e dolore: "In Siria c'è la guerra, ma è meglio che in Turchia". Chi riesce a raggiungere Samos o le altre isole finisce in quei buchi neri chiamati hotspot. I campi profughi nell'Egeo potrebbero contenere solo 6.300 persone: ad aprile ce n'erano 14mila, ora siamo già a 30mila. Gli immigrati attendono anche due anni (sei mesi le famiglie con bambini) nelle isole prima di essere trasferiti ad Atene. Nel frattempo si accampano nella "giungla", gettati in tende, baracche, container. "Mio padre è malato", piange Waleed. Apre la porta della sua baracca: un uomo anziano è steso inerme su alcuni cartoni. Muove solo una mano. "Dal campo - sussurra il figlio - non ci forniscono aiuti". A Samos l'hotspot era stato pensato per 648 persone, ma nell'accampamento che lo circonda vivono oltre 5mila migranti. I bambini giocano tra i ratti, le donne incinte dormono in tende surriscaldate dal sole, i serpenti insidiano i ragazzi. "Questa è la nostra casa", dice un siriano mostrandoci la baracca di legno e teli impermeabili. Sono appena sei miseri metri quadri. Dentro ci vivono in venti, tra cui diversi bambini. L'ondata migratoria genera crisi umanitaria, certo. Ma scontenta anche gli abitanti delle isole. Negozianti e cittadini sono allo stremo. Nel 2015 aiutarono i profughi in fuga dalla Siria, oggi sono stufi. "La Ue deve fare qualcosa per tutto questo. Ha un accordo con la Turchia per non far venire più migranti, eppure continuano ad arrivare". Senza un nuovo patto, la Grecia rischia il collasso.
La Merkel ora ha paura: blitz anti-migranti in Turchia. La Grecia è al collasso. Si riapre la rotta balcanica. Berlino incrementa i controlli ai confini e tratta con Erdogan. Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. La Germania ora ha paura. Teme che le rotte possano tornare a impensierire l'Europa del Nord e non più, o non solo, l'Italia e la Spagna. Il patto per chiudere le frontiere turche stipulato nel 2016 con Recep Tayyip Erdogan ormai scricchiola e i continui sbarchi di immigrati sulle isole dell'Egeo fanno pensare ad una nuova ondata migratoria sulla rotta balcanica. Con destinazione Berlino. Il ministro dell'Interno tedesco è in missione in Turchia per convincere il presidente turco a mantenere gli impegni presi con l'Ue. L'obiettivo è "discutere la situazione in Grecia e la cooperazione nella gestione delle migrazioni con la Turchia". Erdogan infatti minaccia di riaprire le maglie dei confini allo scopo di ottenere nuovi impegni economici da parte di Bruxelles o almeno di incassare tutti quelli promessi (fino ad ora sono stati erogati solo 2,4 miliardi). I sei miliardi di euro assicurati entro il 2022 potrebbero quindi aumentare ed è questo che il commissario agli Affari interni Ue, Dimitris Avramopoulos, e il ministri tedesco, Horst Seehofer, cercheranno di contrattare in queste ore. Se non si dovesse trovare un accordo, la Grecia rischia di esplodere. Si stima che il Paese ospiti 80mila tra migranti economici e rifugiati arrivati via mare dal 2015 ad oggi. Gli sbarchi sono tornati ad aumentare negli ultimi mesi, con le isole dell'Egeo ormai allo stremo. I campi di Lesbos, Chios, Kos, Samos e Leros sono sovraffollati e l'incendio dei giorni scorsi nell'hotspot di Moria ne è l'esempio. Le rivolte dei migranti sono all'ordine del giorno, Atene fatica a tenere le redini di un sistema che non è più in grado di assorbile la presenza di così tante persone. Le richieste di asilo da licenziare sono attualmente 67 mila ed è possibile gestirne soltanto 2.400 al mese: un migrante che sbarca oggi sarà chiamato per il primo colloquio solo nel febbraio del 2021. Nel frattempo è bloccato in Grecia. Atene sta cercando di mettere in campo dei correttivi. Il piano del premier Kyriakos Mitsotakis prevede un maggiore pattugliamento lungo il confine turco e in mare, la creazione di nuove strutture "recintate" per chi non ha lo status di rifugiato e la ricollocazione di 40mila richiedenti asilo nella Grecia continentale o in "altre destinazioni" (forse in Ue). Senza contare la creazione di una lista di Paesi sicuri in modo da raggiungere i 10mila rimpatri entro il 2020 e la presentazione all'Ue di un piano per ridurre il numero di migranti che arrivano sulle coste comunitarie. La Commissione Ue "sostiene" questi sforzi, così come la Germania. Ma non per spirito di solidarietà. Le isole egee sono infatti solo il primo approdo. Nessuno, o pochi, dei migranti intendono rimanere ad Atene. La maggior parte sogna un futuro in Europa, spesso in Germania. È per questo che l'incremento degli sbarchi in Grecia sono per Angela Merkel un campanello di allarme: chi arriva a Samos e Lesbo un giorno o l'altro prenderà la via della rotta balcanica per puntare verso Berlino. E a quel punto diventerà "il vero pericolo" per la Cancelliera. Non è un caso se, per garantire "un migliore contrasto all'immigrazione secondaria", la Germania sta pensando di rafforzare i controlli ai confini: Seehofer ha ordinato alla polizia federale di "aumentare i controlli senza una causa o un sospetto specifico su tutte le frontiere interne". E non importa se l'intera Europa ha passato un anno a bacchettare l'Italia con la retorica dell'"orrore dei porti chiusi". Se a controllare le frontiere è Frau Merkel la questione ha tutto un altro sapore. Ad Ankara invece il ministro tedesco chiederà a Erdogan quali sono i punti del patto che considera "non adempiuti", in quel caso potrebbe assicurare il versamento dei fondi ancora dovuti e poi comunicherà la disponibilità della Germania a fornire assistenza alla polizia di frontiera turca. Alla Grecia, invece, garantirà il suo aiuto "sulle procedura di asilo, oltre ad assistenza nella registrazione dei profughi e nella preparazione dei campi di accoglienza per l’inverno". Non è detto che la missione di Seehofer e Avramopoulos porti ad un risultato. Ma è quasi sicuro che, se questo avverrà, sarà probabilmente l'Europa intera ad essere chiamata a pagare l'ennesimo conto a Ankara. Perché se è Berlino a "contrastare l’immigrazione" va sostenuta. Non si tratta mica dell'Italia.
Migranti, il campo ignobile pagato dall'Ue. "Frontex non difende i confini. Così ci porta tutti i migranti". Boom di migranti nell'Egeo. L'Ue schiera l'agenzia per proteggere le frontiere. Ma la missione rischia di essere un boomerang per le operazioni di ricerca e soccorso. Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Martedì 01/10/2019, su Il Giornale. Samos, Grecia - La bandiera greca sventola insieme a quella tedesca su alcune navi attraccate al porto di Samos. Sono le imbarcazioni di Frontex, l’Agenzia Europea della Guardia di Frontiera e Costiera che nell’Egeo pattuglia il tratto di mare tra Grecia e Turchia. Un corridoio d’acqua largo pochi chilometri che ogni notte centinaia di migranti cercano di attraversare illegalmente. Quest'anno nel Paese sono arrivati oltre 40mila profughi, contro i 37mila dello stesso periodo del 2018. Le isole prese d’assalto e i campi profughi affollati sono il simbolo della nuova crisi migratoria che si sta già riversando sull’Europa. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha minacciato Bruxelles: in mancanza di una rinegoziazione dell’accordo sui migranti firmato nel 2016, il sultano si è detto pronto a riaprire le frontiere con Grecia e Bulgaria e far ripartire così il flusso verso il cuore dell’Europa. Negli hotspot di Lesbo, Samos, Leros, Kos e Chios ne sono già stipati più di 30mila in condizioni precarie. "Non c’è acqua né cibo. Siamo costretti a vivere nelle tende tra ratti e serpenti", raccontano alcuni ragazzi del Mali arrivati da pochi giorni a Samos. Per fronteggiare la crisi migratoria, negli ultimi anni l’Europa ha schierato Frontex lungo i suoi confini. Nel Mediterraneo, oltre alle missioni in Italia e Spagna, l’Agenzia europea è attiva in Grecia dal 2006 con l’operazione Poseidon: navi prestate dai governi europei, sotto il coordinamento greco, sorvegliano il tratto di mare tra Atene e Ankara. Dal 2016 il budget è salito notevolmente e l'anno scorso sono stati spesi 43,3 milioni di euro, più altri 2,7 per le attività di riammissione. Il report di Frontex sostiene che tra gli obiettivi dell'operazione Poseidon ci sia anche quello di "prevenire l'attraversamento illegale delle frontiere". Eppure ogni notte sulle cinque isole dell’Egeo arrivano centinaia di immigrati: se alcuni di loro sbarcano direttamente sulle spiagge, la maggior parte viene invece recuperata in mare proprio dalle navi dell'Agenzia europea. "A 37 chilometri da Samos, la benzina della nostra barca è finita - spiega un giovane siriano che vive ora accampato nella giunga -. Un’imbarcazione di Frontex è venuta a prenderci e ci ha accompagnato qui" (guarda qui il video). L’idea che i soldi dell’Unione europea vengano spesi male si è diffusa da tempo fra commercianti e cittadini. "Frontex dovrebbe proteggere i confini, ma non lo fa", tuona un negoziante di Vathy, la cittadina più grande dell’isola. "Gli agenti lavorano poche ore al giorno, poi li vedi che bevono caffè al bar e passeggiano per i negozi. Se sorvegliassero il tratto di mare prima delle partenze, i migranti sarebbero costretti a tornare indietro, in Turchia. Ma non lo fanno". Il problema è che tra gli "obiettivi specifici" dell’Agenzia non c’è solo il controllo delle frontiere, ma anche l’attività di ricerca e soccorso. E così la difesa dei confini si trasforma spesso in un servizio di recupero degli immigrati. "Ho nuotato per circa 11 ore dalla Turchia verso l’Europa - racconta un uomo siriano di mezz’età -. Quando sono entrato nelle acque greche la polizia mi ha visto e mi ha portato subito a Samos". A dimostrare che Frontex ha accompagnato in Grecia più stranieri di quanti ne abbia bloccati, ci sono i dati del 2018. Lo scorso anno, infatti, l’Agenzia europea ha intercettato imbarcazioni nelle acque turche solo in 126 casi, prevenendo la partenza di appena 5.600 persone. Nello stesso periodo però ha partecipato a 503 operazioni di soccorso durante le quali sono stati salvati e portati sulle isole ben 19.031 stranieri: "Il 92% di tutti i migranti - si legge nel rapporto - è stato salvato da risorse cofinanziate da Frontex". E pensare che in teoria l'Agenzia potrebbe tranquillamente intercettare i clandestini, riportarli direttamente in Turchia o trasbordarli nelle imbarcazioni di Erdogan. Ma nel 2018 non l'ha mai fatto perché "non vi sono stati migranti intercettati o salvati da attività di Frontex nelle acque turche nelle Mar Egeo". Questo significa che l'Agenzia, di fatto, li intercetta solo nelle acque greche o nell'area operativa di Poseidon: a quel punto, in base all'accordo con Atene, è autorizzata a farli sbarcare sulle isole. L'operazione che dovrebbe contrastare gli arrivi illegali in Grecia, si è trasformata così in un vero e proprio boomerang. "Frontex porta tutti i migranti sulle isole - spiega con amarezza un agente di polizia di Samos -. Le navi di Francia e Germania attraccate qui da noi sono ben felici di recuperare gli immigrati. Dicono: 'Benvenuti in Europa'. E poi li lasciano da noi”.
La città che sovrasta la città dove c'è un migrante ogni cittadino. A Samos centinaia di sbarchi al giorno. L'hotspot è al collasso e i cittadini si ribellano: "L'Europa ci ha lasciati soli". Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Mercoledì 02/10/2019, su Il Giornale. Samos, Grecia - È un’enorme accampamento ad accogliere chi arriva a Samos dal mare. Centinaia di tende colorate si stagliano sulla collina alle spalle di Vathy, la cittadina più grande dell’isola. Le hanno montate i migranti che ogni notte sbarcano sulle coste greche in arrivo dalla vicina Turchia. Nel campo profughi non c’è spazio per loro. L’hotspot, finanziato dall’Unione europea, può infatti ospitare solo 648 persone: oggi però a Samos si contano oltre 5mila migranti. E così, giorno dopo giorno, la tendopoli che sovrasta la cittadina si fa sempre più grande. "Si è creata una città sopra la città", tuonano gli abitanti, sempre più allo stremo. I numeri evidenziano una situazione esplosiva: a Vathy, dove vivono circa 7mila perone, si conta quasi un migrante per ogni cittadino. "Il numero dei residenti è pari a quello degli stranieri nella ‘giungla’ - spiega Rebecca Holst Fredslund, operatrice di Samos Volunteers -. Questo spaventa gli abitanti, anche per via della vicinanza del campo alla città". A dividere i due volti dell’isola, c’è solo una breve salita. Ai suoi piedi sosta ogni giorno un bus pieno di poliziotti in tenuta antisommossa. Per fronteggiare la crisi, Atene ha inviato rinforzi e ora il 40% delle forze dell’ordine di Samos è impiegato per controllare gli immigrati ed evitare disordini. "Nell’ultimo periodo sono aumentate le rapine nei negozi e nelle abitazioni - rivela un poliziotto -. E ora in quasi ogni casa c’è un cane da guardia". I continui arrivi sulle spiagge greche creano ostilità: "Sono dei razzisti - tuona un giovane afghano sbarcato da pochi giorni -. Ci trattano male e non vogliono vederci girare per le vie della città". La tensione nel centro abitato è palpabile, soprattutto quando i migranti si riversano nelle viette e sul lungomare. "Non fanno niente tutto il giorno, bevono e stanno seduti sulle panchine del porto", sospira Themos, giovane proprietario di un piccolo negozio di souvenir che non attira più tanti turisti come un tempo. "Molti stranieri che vivono nell’hotspot non hanno alcun motivo per stare qui: sono giovani ragazzi che non scappano dalla guerra. E siamo noi residenti a pagarne le spese". Il sovraffollamento influenza anche l’economia di Samos. "Ci sono di sicuro altre mete meno costose, ma qui in città il turismo è calato anche a causa dei migranti", spiega con amarezza il commerciante. Su internet sono numerosi i forum in cui i vacanzieri si scambiano informazioni sulla piccola isola: sono tutti preoccupati per la massiccia presenza degli immigrati e tra i negozianti c’è chi dà loro ragione. "Le persone quando vengono in vacanza vogliono rilassarsi - afferma la proprietaria di un negozio di vestiti -, non vedere i migranti che affollano le strade". A scappare però non sono solo i turisti: anche molti abitanti hanno lasciato Vathy come dimostrano le numerose case abbandonate e i negozi con le serrande abbassate. È lontano il 2015 quando furono proprio i cittadini i primi ad aiutare i profughi in fuga dalla Siria. Ora i residenti si dicono stanchi della situazione. "Nell’ultimo periodo è cresciuta la frustrazione tra gli abitanti - continua Rebecca -. Anni fa scendevano al porto per soccorrere gli immigrati, adesso invece sono esausti". Quest’estate, da giugno a settembre, sono arrivati in Grecia 27.595 migranti rispetto ai 17.791 del 2018. Ben 10mila persone in più. Il Paese è al collasso. Negli hotspot di Lesbo, Samos, Leros, Kos e Chios sono stipati più di 30mila migranti a fronte di una capacità massima di 6.300 persone. Vivono in condizioni precarie, accampati in tende e baracche, senza acqua né luce, tra serpenti e ratti. Le difficoltà della "giungla" si riversano sulla città. "Dentro e fuori dal campo sono aumentate la prostituzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti", sussurra il poliziotto. La situazione, sempre più ingestibile, alimenta la frustrazione nella maggior parte dei residenti. "Sono clandestini, non migranti. In tutta la Grecia ci sono famiglie greche in condizioni peggiori, eppure non hanno gli stessi vantaggi di questi stranieri". Il riferimento è al pocker money che ricevono i migranti: 90 euro al mese a persona che aumentano per le famiglie con bambini piccoli. "A loro non interessa trovare un lavoro, basta avere da magiare e i soldi a fine mese". La tensione tra le due città continua così a salire mentre sotto la baraccopoli, negozianti e cittadini puntano il dito contro l’Unione europea: "Ci ha lasciato da soli, così come tutte le organizzazioni che ruotano attorno al campo. A Bruxelles devono trovare subito una soluzione".
L'indegno campo migranti finanziato dalla buonista Ue. L'Unione Europea bacchetta l'Italia sui migranti, ma sopporta i sovraffollati hotspot in Grecia. Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Giovedì 03/10/2019, su Il Giornale. Samos, Grecia - L’odore del campo te lo porti addosso. Non lo dimentichi. È l’odore del poco, dei tanti problemi, della sporcizia. È il ricordo delle tende bucate, delle baracche improvvisate, delle cinquemila persone ammassate tra i ratti e insidiate dai serpenti. Quell’odore ti resta impresso come la convinzione che le isole greche siano la prova lampante dell’ipocrisia dell’Unione Europea, che investe milioni di euro, avanza promesse, parla di migrazioni-che-arricchiscono e poi in silenzio osserva crescere indegni accampamenti profughi. A Samos Jala è arrivata, come tutti gli altri, con un barcone partito dalla Turchia. I pochi chilometri di mare l’hanno consegnata a una tenda da due persone in cui vivono in tre: lei, la madre e la sorellina più piccola. "Mia mamma era incinta, aspettava un altro figlio. Oggi ha perso il bambino". Jala piange. Quando è sbarcata in Grecia le autorità l’hanno registrata, le hanno fornito un primo documento e poi le hanno consigliato di trovarsi un posto dove accamparsi perché nell’hotspot ufficiale non c’era spazio. Né per lei né per tanti altri. Il campo profughi si trova sulla collina che sovrasta la cittadina di Vathy. All’interno sorgono la stazione di polizia, gli uffici di Frontex, dell’Unhcr e del governo greco. A gestire l’hotspot è Atene, ma gran parte dei finanziamenti arrivano dall’Unione Europa. "Si tratta di un’ex caserma militare costruita per ospitare 648 persone - spiega Rebecca Holst Fredslund, di Samos Volunteers - ma oggi è così sovraffollato che intorno è sorta una baraccopoli immensa popolata da oltre 5mila persone". Qui i migranti restano anche due anni: un timbro rosso sui documenti impedisce loro di lasciare l’isola in attesa dell'intervista per la richiesta di asilo. Umar il suo appuntamento lo ha nel 2021, fino a quel giorno è bloccato nella giungla. Bilal ci mostra la casa di una famiglia afghana: padre, madre, due figli e il nonno. Una parte della baracca l’hanno acquistata dagli africani, l’altra da un connazionale che ha avuto la fortuna di essere trasferito ad Atene. Le costruzioni di fortuna sono ammassate una vicina all’altra. Crescono senza regole. Quando piove il terreno diventa poltiglia, le tende si bagnano e dalla collina scendono rivoli di fango che le trascina via. Di notte cala un buio pesto, rotto solo dalle luci del campo ufficiale. "Non c’è alcuna protezione nella giungla", grida Ivan. "Ogni giorno uccido serpenti". Bilal ne ha ammazzato uno "lungo oltre due metri" insieme ad un altro adolescente. Mostra soddisfatto la foto sul cellulare. "Uno di questi, una volta, ha morso un africano che poi è morto”. Tutti i migranti registrati nel campo, anche quelli che vivono nella "giungla", hanno diritto a tre pasti al giorno e 90 euro al mese per le spese extra. "Ci mettiamo in fila la mattina per la colazione e appena finisce dobbiamo ricominciare quella per il pranzo", racconta Zayd. La sera il ritornello è lo stesso. Cibo e acqua scarseggiano: "Ci forniscono solo una bottiglia di acqua a testa al giorno". Le docce dell’hotspot sono malmesse, per il proprio turno possono passare ore e per le donne non è consigliabile andarci senza essere accompagnate da un uomo. È sconsigliato pure ammalarsi: "Ci sono solo due dottori per 5mila persone - spiega Nicolò Govoni, fondatore di Sill I Rise - quindi per vedere un medico devi essere in punto di morte". Diciamolo: Samos non sembra l’Europa. La Commissione Ue si dice "preoccupata" dalle condizioni degli hotspot nell’Egeo, sa che sono sovraffollati e al limite, ma non produce un reale miglioramento. Tante parole e fatti insufficienti. "Tutti gli enti che sono coinvolti nella gestione dell’hotspot hanno fatto troppo poco, troppo tardi e poi si sono messi a guardare", denuncia Nicolò che con la sua onlus dà una scuola alle centinaia di bimbi che sopravvivono nell’accampamento. Still I Rise non accetta i finanziamenti dell’Ue né tantomeno dall’Unhcr e dell’Onu, considerate "corresponsabili" del disastro greco. Dal 2015 Atene ha ricevuto 2,21 miliardi di euro di finanziamenti dall’Ue per la gestione dei flussi migratori. Molti più di quanti ne abbia incassati l’Italia, per intenderci. Osservando l’hotspot di Samos, però, ci si chiede che fine abbiano fatto i milioni versati da Bruxelles per garantire una "risposta immediata" alla crisi, fornendo ai migranti "riparo, alloggio, vitto, assistenza sanitaria" e "condizioni di vita sane e sicure". E soprattutto ci si domanda come possa l’Ue predicare accoglienza, magari attaccando l’Italia e le sue politiche, se poi permette tutto questo. "Questa non è l'Europa che immaginavo", dice Azibo. "Qui viviamo come animali".
Migranti, l'inferno sotto gli occhi dell'Ue: "Bimbi trattati da subumani". A Samos oltre 1500 bimbi vivono senza acqua tra ratti e serpenti. Bruxelles sotto accusa: "Permette tutto questo". Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. Samos, Grecia - Giocano con le loro biglie verdi lungo la strada che porta all’hotspot. Corrono, ridono e scherzano in gruppo. C’è chi viene dall’Afghanistan, chi dal Pakistan, altri sono invece siriani e africani. Per loro il campo è anche divertimento. Sono i bambini che vivono accampati nelle tende intorno all’hotspot di Samos. Il campo profughi, finanziato dall’Unione europea, può ospitare solo 648 persone, ma oggi sull’isola se ne contano oltre 5mila e più del 50% sono donne e bambini. "Viviamo in pessime condizioni, senza cibo né acqua", racconta tra le lacrime la madre di due bambine piccole. Loro hanno due e tre anni e da qualche settimana la loro casa è una tenda montata nel bosco all’esterno dell’hotspot. "Le mie figlie hanno solo questi vestiti. Non posso neanche lavarli perché non c’è un posto dove fare il bucato". E questo è solo uno dei tanti problemi. Nel campo sovraffollato le code per il cibo richiedono ore, si stima esista una doccia ogni 200 persone e ci sono solo due medici per tutta la popolazione. I bimbi sono costretti a vivere tra rifiuti e animali, senza protezione e nel completo disinteresse dell’Unione Europea. "Questi bambini sono trattati come dei subumani", denuncia Nicolò Govoni, fondatore della Ong italo-greca Still I Rise che da oltre un anno si occupa di dare un’istruzione ai minori profughi sull’isola. Negli hotspot di Lesbo, Samos, Leros, Kos e Chios sono oggi stipati più di 30mila migranti a fronte di una capacità massima di 6.300 persone. I bambini rappresentano il 35% della popolazione straniera sbarcata sulle cinque isole e circa 6 su 10 hanno meno di 12 anni. "Questo non è un posto adatto per i più piccoli - afferma un giovane afghano che abita nella "giungla" di Samos -. Qui ci sono ratti, serpenti e altri animali molto pericolosi soprattutto per loro". Ma in quella foresta i minori sono costretti a restare almeno sei mesi prima di ottenere, con le loro famiglie, il lasciapassare verso Atene. E intanto la vita scorre nel campo. In inverno le temperature si abbassano e le piogge allagano le tende. D’estate si superano i 40° e nelle baracche il caldo è soffocante. "Dall’hotspot non ci forniscono niente, alcun vestito o coperta. Di notte fa molto freddo e dobbiamo arrangiarci come possiamo", spiega con un filo di voce una donna siriana incinta. Vive insieme agli altri due figli e a 17 persone in una tenda costruita nella foresta, senza luce né acqua. "Ci arrampichiamo su questa collina per riempiere le bottiglie e avere qualcosa da bere", raccontano alcuni bambini mentre affrontano la ripida discesa portando recipienti più grandi di loro. Tra le rocce sgorga una piccola fonte di acqua, non potabile. "Alcune persone sono state male, ma non abbiamo altro per dissetarci", spiegano alcuni giovani. Anche il cibo scarseggia e per recuperare qualcosa da mangiare, i migranti devono mettersi in fila per ore. "Ho cinque figli e questa mattina mi hanno dato solo tre bottiglie di acqua e tre pezzi di pane. Come faccio a sfamarli?", chiede disperato un padre di famiglia. Spesso vittime di violenze e abusi, per i bambini la vita nella foresta diventa ogni giorno più difficile. Tra i circa 1.500 minori che vivono nel campo, circa 300 sono non accompagnati, senza mamma o papà. "Molti di loro stanno nella giungla perché nella safe zone, l’area dell’hotspot dedicata a loro, non c’è posto", denuncia Nicolò Govoni. "Questa zona dovrebbe essere presidiata, invece gli adulti entrano ed escono, spesso con alcool e droga. A volte mettono 20 ragazzi in un container quando dovrebbero starcene al massimo 12. Dormono per terra, senza materassi, nella sporcizia. È veramente una condizione grave". E l'Europa sta a guardare. Per questo Still I Rise ha denunciato le autorità che gestiscono l’hotspot. "Abbiamo avviato questa causa per crimini contro l’umanità - spiega Nicolò - e siamo riusciti a portarla al Parlamento europeo. Ora aspettiamo una risposta". Ogni giorno nello spiazzo a pochi passi dall’ingresso dell’hotspot alcune associazioni radunano i bimbi per farli divertire e distrarre dalla realtà. I loro occhi pieni di speranza e malinconia si accendono anche solo con un saluto. "Giochiamo con le biglie, così - spiega un bambino afghano lanciano le piccole sfere per terra -. Finito! Ho vinto!", esulta. Alcuni suoi amici corrono per il campo con una corona di cartone in testa: l’hanno costruita con i volontari. Oggi a Samos loro si sentono dei re.
"Bimbi abbandonati": Onlus denuncia le autorità del campo profughi. Nell'hotspot di Samos i bambini "sono trattati come dei subumani". La onlus italo-greca Still I Rise ha deciso di denunciare le autorità che lo amministrano: "Siamo arrivati al Parlamento europeo. Ora aspettiamo una risposta". Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. Samos, Grecia - "Avete dato un miliardo e mezzo di euro alla Grecia per la gestione di questa crisi migratoria, perché c'è un hotspot dove a dicembre i bambini vanno in giro con le ciabattine sotto la pioggia?". Sono parole forti quelle con cui Nicolò Govoni, fondatore della onlus italo-greca Still I Rise, si scaglia contro l'Europa. Nel campo profughi di Samos, costruito dal governo greco con i fondi dell'Ue, i minori sono costretti a vivere tra rifiuti e animali, senza le necessarie protezioni e tutele. "Questi bambini sono trattati come dei subumani", denuncia Nicolò Govoni che da oltre un anno si occupa di dare un'istruzione ai minori profughi sull'isola. Negli hotspot di Lesbo, Samos, Leros, Kos e Chios sono oggi stipati più di 30mila migranti a fronte di una capacità massima di 6.300 persone. I bambini rappresentano il 35% della popolazione straniera sbarcata sulle cinque isole e circa 6 su 10 hanno meno di 12 anni. Spesso questi piccoli sono vittime di violenze e abusi. E alla già tragica situazione, si aggiunge un altro dato: tra i circa 1.500 minori che vivono nel campo di Samos, circa 300 sono non accompagnati, senza mamma o papà. "Molti di loro stanno nella 'giungla' che circonda il campo ufficiale perché nella safe zone, l'area dell'hotspot dedicata a loro, non c'è posto", denuncia Nicolò. "Questa zona dovrebbe essere sempre presidiata, invece gli adulti entrano ed escono, spesso con alcool e droga. A volte ci sono 20 ragazzi in un container quando dovrebbero starcene al massimo 12. Dormono per terra, senza materassi, nella sporcizia. È veramente una condizione grave" (guarda qui il video). Lasciati senza vestiti né acqua calda per lavarsi, i bambini sono spesso vittime di animali e della violenza di altri ospiti del campo. "Non di rado scoppiano liti tra adulti in cui rimangono coinvolti anche i minori, nell'indifferenza delle autorità", spiega Nicolò. Il cibo è insufficiente, come testimoniano dalla "giungla": "Consegnano solo una bottiglia d’acqua al giorno e qualcosa da mangiare". Così i piccoli risultano malnutriti e stanchi. "La condizione quotidiana in cui vivono questi bambini ha un effetto deleterio sulla loro salute mentale - si legge nei documenti della onlus -. Alcuni fanno autolesionismo, hanno tendenze suicide, altri mostrano comportamenti depressivi". Mentre l'Europa sta a guardare, Still I Rise ha deciso di denunciare le autorità che amministrano l'hotspot. Lo scorso giugno è stata infatti depositata una denuncia penale alla procura di Samos contro la gestione del Centro di accoglienza e identificazione, a tutela dei minori non accompagnati. "Si tratta di un gruppo speciale di rifugiati richiedenti asilo a cui lo Stato ospitante dovrebbe fornire adeguata tutela giuridica e sociale e un trattamento speciale che nasce dalla loro estrema vulnerabilità sociale e psicologica", si legge nel testo (guarda qui la denuncia). Lo stesso esposto è stato presentato anche alla procura di Roma. Una denuncia che però non è piaciuta all'amministrazione del campo che "ha avviato una controdenuncia per diffamazione nei confronti della onlus. L'avvocato di Still I Rise ha riportato la volontà degli agenti di polizia di sottoporre il presidente, Nicolò Govoni, a custodia cautelare e processo per direttissima. In quel giorno, però, Nicolò si trovava in Italia, per cui le autorità non hanno potuto procedere". A luglio, l'On. Pietro Bartolo, Vicepresidente della Commissione LIBE, ha presentato al Parlamento europeo un'interrogazione sulla situazione a Samos. "Abbiamo avviato questa causa per crimini contro l’umanità - spiega Nicolò - e siamo riusciti a portarla al Parlamento europeo. Ora aspettiamo una risposta adeguata". Dopo una lunga attesa, pochi giorni fa è stata presentata, dal gruppo dei Non Iscritti, una seconda interrogazione parlamentare alla Commissione europea in cui vengono richiesti chiarimenti sui fatti denunciati. "Ci sono foto e testimonianze, non si può più fare finta di niente - continua Nicolò -. Per molto tempo tutti gli enti coinvolti nella gestione dell'hotspot hanno fatto troppo poco, troppo tardi e poi si sono messi a guardare".
Violenze e abusi sulle donne. Ecco l'orrore nei campi migranti. Donne e bambine vittime di abusi. Nell'hotspot di Samos non possono uscire da sole di notte: "Così viviamo nella paura". Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Domenica 06/10/2019, su Il Giornale. Samos, Grecia - "Mia mamma ha perso il suo bambino. Oggi". Le parole di Jala sono interrotte dal pianto. Nel silenzio del campo, le lacrime scorrono veloci sulle sue guance rosse fino a bagnare il terreno. Poi, con un gesto repentino, si asciuga il volto e continua a parlare: "Viviamo nella 'giungla', qui non siamo al sicuro. Abbiamo tanta paura". Jala ha solo 14 anni e con la sorella minore e la madre è arrivata da pochi giorni a Samos. Un viaggio lungo mesi che dall'Iraq le ha fatte sbarcare alle porte dell'Europa. Quella che dovrebbe proteggerle, ma che invece le lascia sole in una foresta. E come loro sono abbandonate a sé stesse altre 5mila persone. Nel campo profughi, costruito dal governo greco con i finanziamenti dell'Ue, non c'è spazio per tutti. Ci sono solo 648 posti. Tutti gli altri migranti hanno così costruito un enorme accampamento nella foresta intorno all'hotspot. Una distesa di tende colorate e baracche improvvisate dove giovani, donne e bambini vivono in pessime condizioni. "Nella 'giungla' non c'è elettricità né acqua corrente, nessun bagno o posto dove lavarsi", denuncia Rebecca Holst Fredslund, operatrice di Samos Volunteer. In questo stato i migranti restano bloccati anche due anni, fino a quando l'intervista per la richiesta d'asilo non permette loro di raggiungere Atene. Così non resta altro che aspettare, cercando di sopravvivere a fame, freddo e maltrattamenti (guarda qui il video). "Essere una donna in un luogo del genere è molto pericoloso", afferma Nicolò Govoni, fondatore della Ong italo-greca Still I Rise. "Diverse ragazzine sono venute a confidarci di aver subito molestie all'interno del campo". Vittime di uomini spietati, le donne vivono costantemente nel terrore. "Rappresentano un quarto della popolazione del campo - spiega Rebecca - per loro le condizioni qui sono davvero estreme. Appena cala il sole si chiudono nelle tende, hanno paura a camminare da sole la sera e ad andare ai bagni senza un accompagnatore". Gli unici servizi (si stima una doccia ogni 200 persone e i bagni insufficienti e spesso impraticabili) sono all'interno del campo ufficiale, distanti dalle tende. "Le docce sono lontane da qui. Ci sono sempre molte persone in fila che bussano alla porta intimando di uscire. Ci dicono: 'Voi vivete nella giungla, perché state qui?'", racconta una 14enne afghana.per loro le condizioni qui sono davvero estreme, le fa eco l'amica appena maggiorenne. La paura è il sentimento più grande che donne e ragazze sono costrette a vivere. "Durante il giorno vado al mare per allontanarmi da qui. Mi spaventa tutto del campo, vorrei scappare", sussurra Zahraa, giovane ragazza irachena. Negli hotspot sulle altre isole dell'Egeo la situazione con cambia. A fronte di una capienza di 6.300 posti, oggi ci sono oltre 30mila migranti di cui il 22% sono donne. Molte di loro incinta. "C'è una ragazza laggiù che può partorire da un momento all'altro - spiega Aziz indicando una tenda blu tra gli alberi -. Nessuno è venuto ad aiutarla o a fare qualcosa". Raniya ha 18 anni e nel suo grembo porta due gemelli. È distesa per terra, su un sacco a pelo, e lì non può far altro che aspettare. "Sono stanca e malata - spiega -. Le condizioni sono al limite qui. Non posso muovermi dalla tenda dove di giorno fa tanto caldo e la notte si gela. Il medico mi ha dato appuntamento tra due mesi". Due mesi. Oltre 5mila persone hanno infatti a disposizione solo due medici. "La lista d'attesa è lunghissima. Si deve aspettare come minimo un mese prima di essere visitati", racconta Aziz. E così uomini che portano addosso i segni della guerra, donne incinte e bambini piccoli devono solo attendere il loro turno. "Sono malata e il dottore non mi ha dato alcuna medicina. Mi ha solo detto di bere acqua e che tutto sarebbe andato bene", denuncia Jala. Ma dopo alcuni giorni le sue condizioni sono peggiorate. Chi ha urgenza si reca dai volontari: in città, a pochi passi dall'hotspot, associazioni come Med'EqualiTeam forniscono assistenza di base agli abitanti della "giungla". La fila all'esterno dell'ambulatorio si perde a vista d'occhio e di ora in ora i pazienti aumentano. Intanto tra i migranti cresce la frustrazione. Le donne si chiedono quando arriverà il loro momento per lasciare l'isola. "Qui non c'è alcuna possibilità - mormora malinconica Zahraa -. Sento che sto perdendo la mia gioventù senza potermi realizzare".
Il dramma dei profughi siriani: "Gli africani ci rubano il cibo". A Samos i siriani sono costretti a vivere fuori dal campo ufficiale. "Afghani e africani ci tolgono acqua e docce". Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Lunedì 07/10/2019, su Il Giornale. Samos, Grecia - "La situazione qui è molto difficile per noi siriani". Aziz si arrampica sulla salita che divide la "giungla" di Samos dal piccolo accampamento di tende che i siriani si sono costruiti per separarsi un po' dalle altre nazionalità. Vivere sull'isola greca dove 5mila persone affollano un hotspot pensato per 648 non è facile. E i siriani, quelli che "scappiamo davvero da una guerra", si trovano ancor più in difficoltà: non sono stati inclusi nel campo ufficiale, dormono nelle tende e devono combattere contro le altre comunità. "Quando siamo arrivati qui a Samos", spiega Aziz, "non c'era nessun posto in cui stare. La polizia ci ha detto: 'Andate da quella parte e trovate un posto in cui dormire'". E il "posto" non è altro che una fetta della foresta che circonda il campo ufficiale di Samos, una delle isole greche più vicine alla Turchia che in questi giorni sta subendo l'arrivo di migliaia di immigrati. Aziz ci mostra una distesa di tende pensate per l'estate che difficilmente potranno reggere all'arrivo dell'inverno. I più fortunati si sono costruiti con qualche legno e alcuni teli impermeabili una baracca improvvisata. "Qui dentro dormono in venti, molti sono bambini. La madre è costretta a usare le poche giacche che hanno per coprire i figli durante la notte: non ci sono le coperte e quando il sole tramonta qui fa molto freddo". A rifornire di tende gli immigrati è un piccolo negozio cinese al centro di Vathy, la cittadina più grande dell'isola che sorge a poche centinaia di metri dall'immenso campo profughi. Gli abitanti protestano, si lamentano per la gestione di un flusso incapace di contrastare il continuo ingresso di nuovi stranieri. "Quando nel 2015 arrivarono i profughi dalla Siria, siamo stati i primi ad aiutarli con coperte, vestiti e tutto l’occorrente", racconta una negoziante. "Andavamo sulla spiaggia a cucinare per loro. Ora siamo esausti". A modificare il comune sentire è stato anche, o soprattutto, il cambiamento intercorso nella rotta migratoria. Ad approdare non sono più soltanto i siriani, ma anche migranti da altre parti del globo. Le tre nazionalità più rappresentate a Samos sono quella afghana, quella siriana e quella congolese. Poi ci sono iracheni, palestinesi e altre nazionalità. Soprattutto provenienti dal Continente nero. "Nel 2017 i siriani erano la stragrande maggioranza e gli africani erano una rarità", spiega Nicolò Govoni, fondatore di Still I Rise. Oggi le cose sono diverse e il cambiamento "è stato nettissimo". Anche nella percezione degli abitanti. "Sono migranti economici", lamenta senza mezzi termini il proprietario di un negozio di souvenir. "Stanno qui, ricevono 90 euro al mese, non fanno altro che bere e dormire". A sentire cittadini, poliziotti e negozianti il sentimento condiviso sembra essere questo: che la Grecia accolga i profughi in fuga dalla guerra come i siriani è giusto, ma tutti gli altri no. "All'interno del campo ufficiale ci sono pochi siriani, forse cinquanta. Tutti gli altri vivono nella giungla", attacca Aziz. "Nell'hotspot vediamo solo africani afghani e pakistani". Quello dei siriani diventa così anche un problema di convivenza: "Non ci sono abbastanza docce - dice Asif -. Noi andiamo nel campo e gli africani ci dicono che quel bagno è loro e noi non possiamo lavarci". Lo stesso si verifica durante la coda per ricevere i tre pasti al giorno distribuiti a tutti i richiedenti asilo, sia quelli che occupano l'hotspot che quelli ammassati nella giungla. "Ci sono sempre tantissimi afghani e africani in fila per prendere acqua e cibo - racconta Aziz -. Ci dicono: 'Non potete stare qui, dovete andare in fondo alla coda'. E così quando arriva il nostro turno non troviamo più nulla". Giorno dopo giorno, la frustrazione di chi sperava di abbandonare una guerra e si ritrova in un inferno aumenta. "Noi siamo siriani", scandisce Aziz. "Scappiamo da un conflitto. Moriamo ogni giorno. Le persone di altre nazionalità che sono qui, non scappano da nessuna guerra e non hanno alcun problema nel loro Paese".
L'inganno sugli hotspot vuoti. Ecco il trucchetto del governo. I dati del Viminale mostrano come gran parte dei migranti che arriva via mare viene ospitata nelle regioni più popolose, soprattutto a nord: il 14% va in Lombardia, il 10% in Emilia Romagna, il 9% in Piemonte e nel Lazio. Ecco la mappa della ricollocazione interna dei migranti. Mauro Indelicato, Mercoledì 02/10/2019, su Il Giornale. Hotspot, centri di accoglienza, strutture per richiedenti asilo: oramai da anni gli italiani hanno dimestichezza con questo tipo di strutture, al cui interno finiscono quei migranti che arrivano soprattutto via mare nel nostro Paese. Non tutti sanno però quello che accade dopo lo sbarco: la prima accoglienza ed il primo soccorso vengono svolti nel luogo dell'approdo. Dunque, tra Lampedusa, la Sicilia, ma anche la Calabria ed in minima parte la Puglia. L’Italia, anche se adesso assiste anche al fenomeno degli ingressi via terra di migranti irregolari dalla Slovenia, vede arrivare dal mare gran parte delle persone che provano ad entrare nel Paese (Il reportage di InsideOver sulla rotta balcanica).
Ma subito dopo il primo soccorso, la “geografia” del nostro Paese cambia repentinamente. Quali sono le regioni che accolgono più migranti. C’è differenza tra "hotspot" e centro d'accoglienza. Nel primo caso si fa riferimento a strutture di primo ricovero, dove i migranti ricevono la prima assistenza ma dove difficilmente stanno più di una settimana. Famoso è quello di Lampedusa, situato in contrada Imbriacola: si tratta della struttura che più risente della situazione dei flussi migratori nel nostro Paese e che funge quasi da vero e proprio “termometro”. Quando l'isola rischia un vero e proprio collasso dal punto di vista della gestione, vuol dire che stiamo assistendo a un'impennata degli sbarchi nel nostro Paese, essendo Lampedusa porta d’Italia e d’Europa. In questi giorni l’hotspot di contrada Imbriacola ospita in media almeno il triplo delle persone che potrebbe contenere. Nei mesi scorsi è difficile rintracciare giornate in cui questa struttura appare del tutto vuota, visto che gli sbarchi autonomi sull’isola non si sono mai fermati, ma la situazione è di più facile gestione. Da questo mese di settembre, invece, tutto appare decisamente più difficile. Da Lampedusa, poi, i migranti vengono portati con il traghetto di linea o con i ponti aerei verso la Sicilia. Una volta sbarcati a Porto Empedocle, gli autobus che attendono nel porto agrigentino smistano i migranti in altre strutture dell’isola. A pochi chilometri da Agrigento, ad esempio, c'è il Villa Sikania. Si tratta di un ex albergo convertito nel giro di pochi giorni in un centro volto ad ospitare i migranti in attesa di ulteriori trasferimenti. In Sicilia sono diverse le strutture del genere, tra Pozzallo, Trapani, Messina ed alcuni centri del palermitano. Fin qui dunque la prima accoglienza. Successivamente si passa ai centri di accoglienza veri e propri: non ci sono più i Cara, oramai molte di queste strutture risultano chiuse, questo perché la linea dell’ex ministro dell’interno Matteo Salvini è stata quella di dire addio ai grandi centri individuati negli anni delle emergenze migratorie. Gran parte delle strutture di accoglienza sono tra Lombardia ed Emilia Romagna. Secondo gli ultimi dati del ministero dell’Interno, attualmente in tutta Italia ci sono 74.438 migranti ospitati nei centri di accoglienza. Di questi, 11.701 sono in Lombardia, 7.514 invece in Emilia Romagna, il podio di questa speciale classifica viene chiuso quindi dal Piemonte, con 7.198 ospiti all’interno dei vari centri. Tre le regioni che invece sforano quota 6mila: si tratta di Lazio, Veneto e Campania, seguite poi dalla Toscana che ha attualmente 5.742 migranti ospitati all’interno del proprio territorio. In Sicilia in media rimane circa il 7% di coloro che sbarcano, il resto viene redistribuito in tutte le altre regioni italiane secondo un principio che tiene conto anche del numero dei residenti nei vari territori. Traducendo in termini percentuali le cifre prima elencate, in Lombardia va il 14% dei migranti sbarcati, in Emilia Romagna il 10%, in Piemonte e Lazio il 9%, in Campania l’8%, in Veneto il 7%, stessa percentuale osservata per la Sicilia. Chiude questa classifica la Valle d’Aosta, con lo 0.2% di migranti ospitati pari a 161 persone all’interno dei propri centri di accoglienza.
Dove vanno i migranti dopo essere usciti dai centri di accoglienza. Fino a qualche mese fa la gestione dell’immigrazione prevede i centri noti come “Spar”, ma che adesso, dopo la riforma voluta da Salvini, vengono chiamati “Siproimi”. Con questo termine si intendono quelle strutture che valgono come “Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati”. Qui vanno coloro che ottengono le domande di asilo, così come i minori non accompagnati: attualmente, al 30 settembre 2019, in tutta Italia ci sono complessivamente 24.674 migranti all’interno dei Siproimi. La loro distribuzione capovolge nuovamente la geografia: la maggior parte di queste strutture sono infatti al sud Italia, in particolare in Sicilia. Sull’isola ci sono 3.018 migranti ospitati nei Siproimi, gran parte eredi dei centri Spar sorti nelle nove province siciliane soprattutto negli anni passati. I migranti qui presenti hanno accesso a programmi di integrazione e, all’interno di queste strutture, rimangono in un tempo ben superiore a quello trascorso nei centri di accoglienza. Dietro la Sicilia, si posiziona il Lazio con 2.806 ospiti dentro i Siproimi, al terzo posto vi è invece l’Emilia Romagna con 2.250 migranti nelle strutture della regione. Lombardia, Puglia e Calabria ospitano invece poco più di 2.000 persone all’interno dei Siproimi. Anche in questo caso a chiudere questa speciale classifica è la Valle d’Aosta, con appena 25 migranti ospitati.
Tra persone all’interno dei centri d’accoglienza e dei Siproimi, al 30 settembre 2019 in Italia risultano complessivamente presenti 99.599 migranti.
Redistribuzione dei profughi: la narrazione e la realtà. Natale Forlani il 16 settembre 2019 su Vita. I quattro governi, l'attuale compreso, che si sono alternati nella guida della nazione hanno compiuto lo stesso errore: chiedere alla UE interventi che le istituzioni europee non possono fare. Ancora un'intesa non esiste. Semplicemente sono stati creati i presupposti per farne una, temporanea e su base volontaria, tra alcuni paesi europei - Francia, Germania, Portogallo, Luxemburgo, Malta e Italia -per redistribuire in tempi rapidi le quote di profughi che sbarcheranno sulle coste italiane e maltesi. Le ipotesi riguardano esclusivamente la redistribuzione degli immigrati aventi diritto ai permessi di soggiorno per motivi di protezione internazionale, secondo due modalità alternative ancora da definire. Una prima modalità prevede che tale riconoscimento avvenga entro breve tempo sui luoghi di sbarco preventivamente alla redistribuzione, cosa assai complicata perché le procedure sono complesse e comunque soggette a legittimi ricorsi da parte dei richiedenti. Una seconda modalità, più realistica, prevede che la redistribuzione avvenga con meccanismi di compensazione e cioè redistribuendo quote di migranti che hanno precedentemente ricevuto tale riconoscimento nei paesi dove sono sbarcati, sino alla saturazione del numero dei nuovi ingressi. In entrambi i casi i migranti per motivi economici e che non hanno ottenuto il permesso di soggiorno rimarranno in capo ai paesi di prima accoglienza che dovranno farsi carico anche di attivare le espulsioni e i rimpatri. Negli intenti dei paesi promotori di questa intesa, la UE dovrebbe prevedere interventi di sostegno finanziario e strumentale verso i paesi che aderiscono alla stessa, e sanzioni per quelli che si rifiutano di collaborare. Se dovessimo dar retta alle reazioni entusiastiche degli esponenti della nuova maggioranza parlamentare, il governo giallo rosso avrebbe realizzato un altro miracolo. In una settimana di lavoro e di relazioni si sarebbero conseguiti gli obiettivi mancati dal precedente ministro dell'Interno, e cioè: la redistribuzione automatica dei migranti sbarcati e la creazione delle condizioni per la revisione della intesa di Dublino.
Ma è davvero così? Queste ipotesi circolavano da tempo e, in particolare, erano state oggetto di verifica in un recente incontro convocato da Macron, assenti le nostre rappresentanze politiche e con la sola presenza di tecnici italiani perché l'incontro non era stato formalmente convocato dalle autorità della UE. In realtà il dissenso verteva sulla condizione posta dai francesi e dai tedeschi di delimitare la redistribuzione esclusivamente i profughi riconosciuti. Una condizione affatto marginale, dato che statisticamente questi rappresentano una minoranza dei migranti storicamente sbarcati.
Condizione confermata nelle ipotesi d'intesa che circolano. Poste le basi per il superamento di Dublino 3 ? Per niente. L'intesa va collocata nell'ambito delle cose possibili previste da Dublino 3, e cioè per le iniziative promosse su base volontaria tra paesi aderenti per regolare la circolazione degli immigrati in possesso di regolare permesso di soggiorno. Profughi compresi, e che già adesso potrebbero dopo 3 anni trasferirsi in altri paesi per motivi di lavoro o familiari alle condizioni previste dalle legislazioni dei paesi che dovrebbero accoglierli. I meccanismi premiali per accompagnare le intese su base volontaria sono possibili tramite l'utilizzo dei fondi europei dedicati a queste politiche ammesso che ci siano le risorse che al momento sono in gran parte già impegnate. Le sanzioni per quelli che non collaborano no. Perché la materia non è di diretta competenza delle autorità della UE . E su questo si è già pronunciato chiaramente il parlamento europeo. I quattro governi, l'attuale compreso, che si sono alternati nella guida della nazione hanno compiuto lo stesso errore: chiedere alla UE interventi che le istituzioni europee non possono fare. Nell'ottica delle cose da fare possibili su base volontaria, le nuove ipotesi di intesa possono essere viste come un passo in avanti. Per lo specifico dei flussi di migrazione irregolare verso l'Italia, caratterizzati da una rilevante quota di migranti economici rischiano invece di produrre un messaggio sbagliato verso i paesi di origine e per gli organizzatori delle tratte. Come ampiamente documentato dai nostri servizi di intelligence, l'Italia viene percepito come una sorta di "ventre molle" per gli ingressi in Europa. Del tutto evidente l'esigenza che vengano implementati, anche con il sostegno di risorse della UE, gli accordi con i paesi di origine per il contrasto dei flussi irregolari e per sostenere lo sviluppo locale. Il precedente governo ha commesso due gravi errori: non aver implementato le iniziative intraprese dal ministro Minniti con i paesi di origine e quello di cercare di forzare le strategie europee cavalcando i paesi dell'est Europa palesemente ostili a qualsiasi ipotesi di collaborazione. L' errore che sta riproponendo l'attuale governo è quello di riprendere una narrazione sbagliata sulla natura dei flussi migratori irregolari verso il nostro Paese, adottando strategie di accoglienza basate sul presupposto, sbagliato, che il mercato del lavoro italiano manifesti un fabbisogno di nuovi migranti per svolgere mansioni a bassa qualificazione. Errori che ripropongono il tema di fondo: le buone politiche per l'immigrazione non possono essere costruite su un immaginario ideale, o peggio sul calcolo politico, a prescindere da una corretta analisi dei fenomeni. Ma questo è un messaggio che fatica ad entrare nel dibattito politico sulla materia.
· I Falsi Rifugiati.
Dal Kenya falsi rifugiati in Europa e negli Stati Uniti. Federico Giuliani il 12 ottobre 2019 su it.insideover.com. Dalla fine degli anni ’90 al 2016 un numero elevatissimo di falsi rifugiati si è stabilito negli Stati Uniti e in altre parti del mondo, Europa compresa, senza avere alcun diritto per farlo. Lo ha denunciato la Cnn in un lungo reportage che ha fatto luce su un meccanismo perverso che ha consentito a tantissimi kenioti di farsi una vita a New York piuttosto che in una capitale europea, senza avere gli estremi per essere considerati rifugiati. Prima di tutto dobbiamo spiegare la differenza legale tra migranti e rifugiati: i primi sono costituiti dal flusso di persone che lasciano volontariamente il proprio Paese d’origine per cercare altrove migliori condizioni di vita, mentre il secondo termine indica uno status giuridico da attribuire a coloro che non possono tornare nella loro terra di origine perché per loro sarebbe troppo pericoloso. La Convenzione di Ginevra del 1951 sancisce che il rifugiato è colui che “nel giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”. Lo status di rifugiato dovrebbe insomma essere riservato solo alle persone che fuggono da persecuzioni o guerre.
I falsi rifugiati kenioti. Il Kenya è uno dei Paesi che ospita la più grande popolazione di rifugiati del pianeta, ma decine di migliaia di loro non sono affatto dei veri rifugiati. E sono gli stessi che riescono, in barba a chi veramente avrebbe il diritto, ad approdare negli Stati Uniti o in Europa. “Abbiamo colto l’occasione che avevamo di fronte. Abbiamo seguito il sogno americano, siamo andati tutti a scuola e adesso siamo tutti laureati”: questa è la testimonianza anonima di una famiglia keniota di sette persone arrivate nel territorio americano nelle vesti di falsi rifugiati somali. Come loro, molti altri hanno seguito lo stesso percorso.
La situazione del Kenya. La situazione del Kenya è delicata, perché l’instabilità della vicina Somalia ha spinto ondate di rifugiati oltre confine. Il problema è che il numero di questi disperati è aumentato a dismisura, passando in breve tempo da migliaia a centinaia di migliaia. Loro, i somali, hanno tutto il diritto di essere considerati rifugiati, a differenza dei kenioti, che tuttavia hanno approfittato della confusione per infiltrarsi tra i veri bisognosi. Mohamed Dahiye, un parlamentare keniota della città di Dadaab, ha denunciato il fatto che molti cittadini del Kenya, vedendo i servizi gratuiti e il cibo concesso ai rifugiati somali, hanno deciso di registrarsi sotto falso nome nei campi della disperazione. Secondo i numeri del governo locale, ci sarebbero almeno 40 mila kenioti registrati illegalmente come rifugiati nei campi di Dadaab.
Una beffa nella beffa. I rifugiati somali vengono poi ridistribuiti tra Stati Uniti, Europa e Canada. La beffa è che molti di quelli che davvero sono rifugiati e avrebbero diritto al cosiddetto reinsediamento sono scavalcati dai falsi rifugiati kenioti. Fathiaa Abdalla, rappresentante in Kenya dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha dichiarato di non essere a conoscenza del problema perché sicuro che il sistema avrebbe smascherato i furbetti: “Non sono a conoscenza del reinsediamento di kenioti come rifugiati. Il programma di reinsediamento passa attraverso diverse verifiche e diversi controlli”. Evidentemente, come ha dimostrato la Cnn, qualche falla nel sistema esiste eccome.
· Immigrazione o sostituzione?
UN PAESE DI SANTI, POETI ED EMIGRATI. Andrea Carli per Il Sole 24 ore il 10 ottobre 2019. Un paese che iscrive una pesante ipoteca sul suo futuro. L’Italia, sottolinea il nono Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa, presentato oggi, 8 ottobre a Palazzo Chigi, da circa un decennio è tornata a essere terra di emigrazione: in dieci anni ha perso quasi 500 mila italiani (saldo tra partenze e rientri di connazionali). Tra questi, quasi 250 mila giovani (15-34 anni). Considerando le caratteristiche lavorative dei giovani in Italia, la Fondazione stima che questa “fuga” ci sia costata 16 miliardi di euro (oltre 1 punto percentuale di Pil): è infatti questo il valore aggiunto che i giovani emigrati potrebbero realizzare se fossero occupati nel nostro paese.
È il paese più anziano d’Europa. Considerando anche la denatalità e l’allungamento della speranza di vita, il paese si ritrova a essere quello più anziano d’Europa, con ripercussioni sociali ed economiche di una certa entità. Secondo le stime Eurostat, da qui al 2050 l’Italia potrebbe perdere tra i 2 e i 10 milioni di abitanti, mentre gli anziani aumenterebbero di circa 6 milioni, arrivando a rappresentare oltre un terzo della popolazione (dall’attuale 22,4%, rappresenterebbero tra il 33,8% e il 37,9% nel 2050).
Lavoro motivo prevalente dell’emigrazione. Dall’analisi del tasso di occupazione (15-24 anni) emerge che il lavoro è il motivo prevalente dell’emigrazione. Se in Italia il tasso di occupazione dei giovani italiani si attesta al 16,9%, tra i giovani italiani all’estero sale al 50,8% (nel restante 50% sono inclusi anche gli studenti, sicuramente numerosi in quella fascia d’età).
I giovani partono da Lombardia, Sicilia e Veneto. Per quanto riguarda le regioni di provenienza, quasi un quinto dei giovani che hanno lasciato l’Italia negli ultimi dieci anni viene dalla Lombardia (18,3%). Seguono Sicilia, Veneto e Lazio, con oltre 20 mila emigrati ciascuno. Da notare che questo dato comprende solo i giovani emigrati all’estero e non le migrazioni “interne”, da Sud a Nord. In rapporto alla popolazione giovanile residente, negli ultimi dieci anni hanno lasciato l’Italia circa 20 giovani ogni 1.000 residenti della stessa fascia d’età. I picchi massimi in Trentino Alto Adige (38,2) e Friuli Venezia Giulia (28,7%), su cui probabilmente incide la posizione di confine. Sopra la media anche altre regioni del Nord come Lombardia, Veneto e Liguria. Come detto, per le regioni del Sud questo dato è probabilmente “mascherato” dal fatto che molti giovani si sono trasferiti in altre regioni d'Italia, generalmente al Nord.
Londra la meta più ambita. In attesa di capire se Brexit avrà un effetto dissuasivo sulle emigrazioni verso il Regno Unito, Londra è la meta più ambita dai nostri giovani (scelta dal 20,5% di chi è partito nel 2017 e dal 19,3% di chi è partito negli ultimi dieci anni). Al secondo posto la Germania, dove evidentemente i giovani trovano occasioni di formazione e lavoro. Molti anche coloro che scelgono di trasferirsi in Svizzera e Francia, agevolati evidentemente anche dalla vicinanza geografica. Tra le prime destinazioni compaiono però anche Paesi extra europei come Usa, Brasile o Australia, ma anche Canada e Emirati Arabi.
Il declino demografico. Al nodo della fuga dei giovani fa il paio un altro problema: il declino sempre più accentuato a livello demografico. La popolazione italiana sta infatti diminuendo: si fanno pochi figli (in media 1,32 per donna) e il saldo tra nati e morti è negativo da oltre 25 anni. Risultato: calano i giovani e aumentano gli anziani. L’Istat prevede che nel 2038 gli over 65 saranno un terzo della popolazione (31,3%). Ciò determinerà squilibri economici e finanziari, dato che proporzionalmente diminuiscono i lavoratori e aumentano i pensionati.
Presenza stabile: 5,2 milioni di stranieri residenti. Nell’ottica di una stabilità del sistema, soprattutto sotto il profilo finanziario, va la presenza di stranieri in Italia, stabile negli ultimi anni: 5,2 milioni di persone residenti a fine 2018 (8,7% della popolazione). Il saldo migratorio, ricorda il Rapporto, rimane positivo (+245 mila), anche se la composizione dei nuovi arrivi è molto diversa rispetto al passato: prevalgono i ricongiungimenti familiari, si stabilizzano gli arrivi per motivi umanitari, mentre sono quasi nulli gli ingressi per lavoro. Vi è nel complesso una lieve prevalenza di donne (52%) e una netta dominanza di paesi dell’Est Europa (oltre il 45% del totale). Le prime nazionalità (23% Romania, 8,4% Albania, 8% Marocco) evidenziano che la maggior parte degli immigrati è qui da oltre dieci anni.
L’Italia che non sente i suoi emigranti. E così perde un punto di Pil. Gli «Italians» espatriati dal 2009 sono mezzo milione: la metà sono giovani, che qui non trovano lavoro. Un’élite? No, ma perderli ci costa moltissimo. Beppe Severgnini il 29 ottobre 2019 su Il Corriere della Sera. Cinquecentomila italiani hanno lasciato l’Italia negli ultimi dieci anni; metà di questi sono giovani sotto i 34 anni. Una migrazione costata al Paese 16 miliardi di euro, più di un punto di Prodotto interno lordo. Numeri impressionanti, se fossimo ancora capaci di lasciarci impressionare. Ma abbiamo perso questa dote. I numeri scivolano tra gli urli della politica e le sorprese della cronaca quotidiana: questi nostri connazionali lontani sono diventate figure sfocate. Li ho conosciuti bene, ne ho scritto molto, ne ho incontrati moltissimi: almeno diecimila tra il 1999 e il 2010, nella stagione degli appuntamenti in giro per il mondo, legati al blog/forum Italians del Corriere. 104 occasioni, ogni volta una pizza e una serata insieme, da Shanghai a Buenos Aires, da Chicago a Melbourne, da Mosca a Lisbona: meet-up prima dei meet-up, per conoscersi. Ho incrociato tanti altri Italians da allora, in diversi continenti. Due o trecento anche negli ultimi dieci giorni, in Cina: Pechino, Guangzhou (Canton), Shenzhen, Hong Kong. L’occasione del viaggio era la XIX Settimana della lingua italiana. Ma in ogni città abbiamo fatto in modo di trovarci: gli italiani della nuova emigrazione e un giornalista meno nuovo, che li ha sempre ritenuti importanti. Perché vanno via, tanti giovani e meno giovani italiani? Ci sono tanti Marco Polo che esplorano, per fortuna. Ma ci sono tanti Montecristo che scappano da pratiche inaccettabili o faticose (retribuzioni inadeguate, meccanismi aziendali arrugginiti, professioni invecchiate male, pratiche opache nelle amministrazioni e nelle università) e da condizioni oggettivamente difficili (una per tutte: l’Alta velocità termina a Salerno, e con essa la possibilità di spostarsi facilmente per l’Italia). Scriveva giorni fa Corriere Economia, riportando un dato dal 9° Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa: «L’Italia è il Paese con il tasso di occupazione più basso nell’eurozona per la fascia dei 25-29enni. Solo il 54% ha un lavoro, contro il 75% della media europea». Ogni grande questione nazionale, se non viene risolta, finisce per diventare un rumore di fondo. Sta accadendo con la nostra nuova migrazione. Sia chiaro: non è sbagliato — anzi, è opportuno — che chi vuole esplorare professionalmente il mondo possa farlo, soprattutto quando si tratta di una scelta e non di una costrizione. È sbagliato, invece, che questa nuova modalità di vita e di lavoro venga tanto poco considerata nella narrazione nazionale. Chi lascia l’Italia se ne accorge. Come gli italiani in Argentina di una volta, nella canzone di Ivano Fossati, anche gli italiani nel mondo di oggi domandano, da lontano: «Ecco ci siamo. Ci sentite da lì?». Dall’Italia rispondono in pochi. Rispondono alcune università, quelle che hanno capito di doversi aprire all’estero (la Bocconi e i Politecnici di Milano e Torino, in Cina, sono attivi e noti). Rispondono tante aziende, che nell’export e nelle attività internazionali vedono possibilità di sviluppo (ho visitato STMicroelectronics a Shenzhen, ho incrociato rappresentanti di Fincantieri a Pechino, di Luxottica a Guangzhou, di Max Mara e della Juventus a Hong Kong, di piccole e medie imprese dovunque). Risponde, a onor del vero, il ministero degli Esteri: una nuova generazione di diplomatici ha compreso che la forza dell’Italia sono gli italiani. Con le nostre gambe hanno camminato le idee che hanno sfondato nel mondo (la cucina, la moda, la musica, l’architettura, la tecnologia); con le nostre facce, sorridenti nonostante tutto, le abbiamo presentate a ogni latitudine. Chi non risponde, allora? L’Italia, tutti noi, che di questa comunità diffusa parliamo poco. E, quando lo facciamo, diamo l’impressione di raccontare una élite distante: mentre gli Italians vengono da ogni regione, da ogni professione e da ogni condizione sociale ed economica. Se non vogliamo occuparci di loro per stima o per affetto, facciamolo per interesse: si tratta, ripetiamolo, di una risorsa formidabile, di cui non tutti i Paesi dispongono. Le amarezze e i dubbi sull’Italia che si percepiscono all’estero sono, in fondo, prove d’amore: non ci s’arrabbia con una patria di cui non importa più niente. Le furibonde discussioni degli ultimi anni — dal tramonto governativo di Berlusconi all’ascesa della Lega di Salvini, passando per l’ottovolante del Movimento 5 Stelle — ci hanno convinto che conta ormai solo la politica, e non è vero. Contano anche le prospettive di due nuove generazioni, cui non sembriamo, come collettività, molto interessati: ogni proposta e ogni spesa pubblica puntano al consenso immediato. Queste cose si percepiscono, anche dalla Cina, dagli Usa o dalla Germania. Gli Italians restano italiani, e sono perspicaci.
Quel prete che vuole fermare la fuga verso il Nord- Italia: «Lottiamo per la restanza». Lanfranco Caminiti il 26 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Sono decine i comuni, grandi e piccoli, che hanno approvato una delibera di orientamento, in cui la questione dell’emigrazione è posta come un problema enorme su cui intervenire. Dice Vito Teti, che insegna Antropologia Culturale all’università di Cosenza, che «fra vent’anni la Calabria avrà perso cinquecentomila abitanti e diventerà un deserto, come lo fu nel periodo aragonese». Per la verità, cinquecentomila abitanti li ha già persi la Sicilia, fra il 2002 e il 2017 – praticamente come se una città come Catania fosse stata inghiottita nel nulla, scomparsa dalla geografia. Teti ha scritto qualche anno fa Pietre di pane. Un’antropologia del restare – un titolo che veniva da Corrado Alvaro, il grande scrittore calabrese a cui le pietre di fiumara sembravano forme di pane e le pagnotte di pane duro sembravano pietre, dove si intrecciavano la fatica e il rito, il radicamento e l’asprezza – in cui si ragionava sulla restanza, un concetto preso in prestito da Derrida. Dice ancora Teti: «Restare non è un fatto di pigrizia, di debolezza: dev’essere considerato un fatto di coraggio. Una volta c’era il sacrificio dell’emigrante e adesso c’è il sacrificio di chi resta. Una volta si partiva per necessità ma c’era anche una tendenza a fuggire da un ambiente considerato ostile, chiuso, senza opportunità. Oggi i giovani sentono che possano esserci opportunità nuove, altri modelli e stili di vita, e che questi luoghi possono essere vivibili. L’etica della restanza è vista anche come una scommessa, una disponibilità a mettersi in gioco». Io non so se padre Garau della parrocchia di San Paolo Apostolo a Borgo Nuovo – il quartiere popolare conficcato nel cuore della città di Palermo – abbia mai sentito parlare di Vito Teti e in fondo poco conta, ma è attorno a lui che è cominciata la lotta per la restanza, la mobilitazione contro l’emigrazione, quella giovanile in particolare. Padre Garau con i suoi parrocchiani fa i flash- mob al Politeama o le fiaccolate di notte al teatro Massimo, nel cuore della movida, e ha messo in piedi il movimento delle “valigie di cartone”. Pian piano, le iniziative hanno raccolto l’attenzione e la partecipazione di decine di associazioni e centinaia di giovani – con mobilitazioni nelle università di Palermo, Catania, Messina e la sensibilizzazione delle istituzioni. Sono decine i comuni, grandi e piccoli, che hanno approvato una delibera di orientamento, in cui la questione dell’emigrazione è posta come un problema enorme su cui intervenire: Contessa Entellina, Balestrate, Giuliana, Salemi, Lercara Friddi, Palazzo Adriano, Santo Stefano Quisquina, Ciminna, Bolognetta, Milazzo, Cinisi, Bagheria, Corleone, Piana Degli Albanesi, Partanna, Santa Cristina Gela, Ventimiglia di Sicilia, Palermo, Messina – e l’AnciSicilia. E decine e decine sono state le iniziative di mobilitazione, che va coinvolgendo anche intellettuali, artisti. E ieri, a Palermo, s’è tenuta una nutrita manifestazione per le vie della città, da piazza Verdi fino alla cittadella universitaria di Viale delle Scienze. Sul sito di antudo, associazione per l’indipendenza che ha partecipato all’evento, si legge: «Prima del 1861 gli emigrati siciliani erano alcune decine: piccoli gruppi di contadini o di esiliati politici. I primi partivano alla ricerca di terre da coltivare, i secondi dovevano lasciare l’isola per sottrarsi alla repressione borbonica o perché condannati all’esilio. In quegli anni non esisteva l’emigrazione “economica”, come oggi si intende. I trasferimenti avvenivano solo all’interno dell’isola: ci si spostava dalla campagna ai centri urbani, dalle terre demaniali a quelle baronali o viceversa, dall’entroterra alle aree costiere. Lo scenario si capovolse nel 1861. Nel quadro mutato dei rapporti nazionali e internazionali un gran quantità di siciliani divenne merce di scambio tra le nuove potenze. Lo storico Renda parla di una “esplosione migratoria”, in considerazione dei numeri raggiunti e mai registrati prima del 1861. Nell’ultimo ventennio del secolo emigrarono in America oltre centomila siciliani. La migrazione si legava tanto alla crisi economica degli anni ’ 60 e ’ 70 del XIX secolo, quanto alla repressione seguita ai moti popolari, che continuarono anche dopo la cosiddetta “unificazione nazionale”. Come scrive Enrico Deaglio in Storia vera e terribile della Sicilia: “Avvenuta senza fanfare e poco compresa, allora come oggi, quella siciliana verso la Louisiana e il Mississipi fu una deportazione di esseri umani concepita tra governi, allo scopo di realizzare uno dei più foschi progetti dell’era moderna. La Sicilia aveva aumentato di un milione e mezzo i suoi abitanti dai tempi dell’Unità d’Italia. I siciliani erano troppi, tra loro circolavano strane idee, volevano la terra, si ribellavano. I padroni americani si trovavano alle prese con un problema analogo. La guerra aveva affrancato quattro milioni di schiavi che ora non volevano più lavorare sotto la frusta. Bisognava liberarsene, trovare nuovi schiavi”. Li trovarono in Sicilia». Oggi, ogni 12 mesi ventimila persone abbandonano la Sicilia. Il calo di residenti – come emerge dal rapporto La demografia delle aree interne della Sicilia a cura del Servizio Statistica e Analisi Economica della Regione Siciliana – riguarda principalmente cinque aree interne dell’Isola: Sicani, Madonie, Nebrodi, Calatino e Simeto- Etna. Queste aree contano un totale di 65 comuni. In essi dal 1951 a oggi la popolazione si è ridotta di 147.479 unità. Solo negli ultimi anni, dal 2011 al 2019, 14mila abitanti in meno. Sono numeri da esodo. Se si analizzano i grafici che tengono conto dell’età, al momento della partenza, di chi emigra, ci si rende facilmente conto che il fenomeno riguarda principalmente una popolazione giovane e qualificata. Ad esempio, all’interno delle anticipazioni del rapporto Svimez 2019 – che prende in esame non solo la Sicilia, ma tutto il Mezzogiorno – ritroviamo la seguente sintesi dei dati: nel periodo compreso tra il 2002 e il 2017 le persone emigrate dal Sud Italia verso il Nord sono state oltre 2 milioni, di cui 132.187 nel solo 2017. Di queste ultime 66.557 sono giovani ( 50,4%, di cui il 33,0% laureati, cioè 21.970). Il tessuto produttivo siciliano è inefficiente, l’economia in grande stallo, i settori principali per l’Isola, primo fra tutti quello agricolo, sono in crisi. La Sicilia è nelle primissime posizioni in Europa per tasso di disoccupazione giovanile con l’allarmante quota di 53,6 giovani ( di età compresa fra i 15 e i 24 anni) ogni cento in cerca di un’occupazione. C’è un detto antico in Sicilia: «Cu nesci, arrinesci» – per avere fortuna nel mondo, per arrinesciri, devi uscire, partire. Non so se si possa comprendere in questo “motto” l’emigrazione degli anni Cinquanta e Sessanta, quando dalla Sicilia, dal Sud, con le valigie di cartone, si partiva per le fabbriche del triangolo industriale – Miano, Torino, Genova – o verso il nord- Europa dove c’era bisogno di braccia per l’industria. Quel detto antico ora si ribalta: Si resti arrinesci – perché le cose cambino, per fermare l’emigrazione, per potere creare opportunità nuove, per continuare a amare e trasformare i luoghi delle proprie radici, bisogna restare. E lottare.
Lavoro e studio: nell’ultimo anno 128mila cittadini si sono trasferiti all’estero. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 da Corriere.it. Sono 5,2 milioni gli italiani residenti all’estero e nell’ultimo anno se ne sono andati 128mila connazionali, la maggior parte dei quali giovani alla ricerca di lavoro o per motivi di studio, soprattutto in Inghilterra. È quanto emerge dalle iscrizioni all’Aire (l’anagrafe degli italiani all’estero) i cui dati sono stati presentati oggi nel «Rapporto Italiani nel Mondo» curato da Fondazione Migrantes. In dati percentuali, gli italiani che vivono all’estero sono l’8,8% del totale. Secondo il rapporto, negli ultimi tredici anni la mobilità italiana è aumentata del 70,2% passando, in valore assoluto, da poco più di 3,1 milioni di iscritti all’Aire nel 2006 a quasi 5,3 milioni nel 2019. Seppure il dato degli espatri sia simile a quello dell’anno scorso, aumenta non poco la percentuale dei giovani che emigrano. «Se lo scorso anno sono stati registrati aumenti significativi per tutte le classi di età dai 50 anni e fino agli over 85enni, quest’anno è evidente un brusco arresto – è spiegato nel rapporto - . L’età di chi è partito nell’ultimo anno si è perciò significativamente abbassata». Quasi la metà degli italiani che vive stabilmente all’estero è originaria delle regioni del Sud Italia (48,9%, di cui il 32% Sud e il 16,9% Isole); il 35,5% proviene invece dal Nord (il 18% dal Nord-Ovest e il 17,5% dal Nord-Est) e il 15,6% dal Centro.
Italiani nel mondo: in 13 anni oltre 2 milioni in più si sono spostati all'estero. Nel Rapporto della Fondazione Migrantes i dati sulla nuova emigrazione. Si parte soprattutto dal Meridione, la meta più comune è la Gran Bretagna. Lascia l'Italia chi ha un livello di istruzione medio alta e cambia più volte destinazione. Cristina Nadotti il 25 ottobre 2019 su La Repubblica. Non siamo soltanto un Paese meta di migrazioni, siamo di nuovo una nazione di emigranti, che partono in prevalenza dal Meridione. Negli ultimi 13 anni, dal 2006 al 2019 il numero di chi se ne va dall'Italia è aumentato del 70,2 per cento e gli iscritti all'Aire, cioè l'anagrafe degli italiani residenti all'estero, sono passati da poco più di 3,1 milioni a quasi 5,3 milioni e quasi la metà (48,9 per cento) è partito dal Sud. I dati che analizzano l'emigrazione sono raccolti, come ogni anno, dalla Fondazione Migrantes, che ha presentato questa mattina a Roma il rapporto Italiani nel mondo, arrivato alla sua 14a edizione. Il rapporto sottolinea il fenomeno ormai noto dell'emigrazione dei giovani e, indicando il Regno Unito come meta privilegiata, obbliga a guardare con attenzione all'esito delle trattative per la Brexit, poiché a breve per chi si è trasferito in Inghilterra con le regole della libera circolazione dell'Unione Europea potrebbe essere necessario un percorso burocratico ben più complesso. Altro dato importante rilevato dal rapporto Migrantes anche l'aumento continuo degli iscritti per nascita, a riprova che molti italiani trasferiti all'estero trovano nel Paese in cui emigrano condizioni favorevoli a mettere su famiglia.
Le cifre. Su un totale di oltre 60 milioni di cittadini residenti in Italia a gennaio 2019, alla stessa data l'8,8 per cento è residente all'estero. In termini assoluti, gli iscritti all'Aire aggiornati all'1 gennaio 2019, sono 5.288.281. Il 48,9 per cento degli italiani iscritti all'Aire è originaria del Meridione d'Italia (di cui il 32 per cento Sud e il 16,9 per cento Isole); il 35,5 proviene proviene dal Nord Italia (il 18 per cento dal Nord-Ovest e il 17,5 per cento dal Nord-Est) e il 15,6 per cento dal Centro. Le italiane iscritte sono 2.544.260 (48,1 per cento). La classe di età più rappresentata è quella di coloro che hanno tra i 35 e i 49 anni (1.236.654, cioè il 23,4 per cento). A seguire chi ha tra i 18 e i 34 anni (1.178.717; 22,3 per cento), gli over 65 anni (1.068.784; 20,3 per cento) e chi ha tra i 50 e i 60 anni (1.009.659; 19,1 per cento). I minori sono 794.467 (15 per cento). Il 55,9 per cento è celibe o nubile mentre il 36,7 per cento è unito in matrimonio. Meno di mille, quindi irrilevanti dal punto di vista percentuale, sono le unioni civili. Più della metà (51,5 per cento) è iscritto all'Aire per espatrio, ma continua la crescita degli iscritti per nascita (39,7 per cento). Le acquisizioni di cittadinanza sono il 3,4 per cento, le reiscrizioni per irreperibilità il 4 per cento. Il 43,9 per cento è iscritto da oltre 15 anni, il 20,7 per cento da meno di 5 anni. Oltre 2,8 milioni (54,3 per cento) risiedono in Europa, oltre 2,1 milioni (40,2 per cento) in America. Nello specifico, però, sono l'Unione Europea (41,6 per cento) e l'America Centro-Meridionale (32,4 per cento), le due aree continentali maggiormente interessate dalla presenza dei residenti italiani. Le comunità più consistenti si trovano, nell'ordine, in Argentina (quasi 843 mila), in Germania (poco più di 764 mila), in Svizzera (623 mila), in Brasile (447 mila), in Francia (422 mila), nel Regno Unito (327 mila) e negli Stati Uniti d'America (272 mila).
Le motivazioni. Secondo il rapporto le storie di chi emigra sono spesso caratterizzate da progetti non ben definiti, con situazioni che mutano a velocità impensabili per i motivi più disparati: la nascita di un figlio, il sopraggiungere di un problema di salute, una promozione di carriera, una opportunità lavorativa, ecc. Le cause possono essere plurime e molto differenti tra loro. Ecco perché, sempre secondo la Fondazione Migrantes, "non vale più la strategia del 'per sempre' come quando si sfidava l'oceano e dopo infiniti giorni di navigazione si giungeva dall'altra parte del mondo e ci si rimaneva per lunghissimi anni (se non definitivamente) prima di ripercorrere faticosamente e rischiosamente la strada del ritorno in patria. Oggi, invece, si cambia più volte destinazione e Paese di residenza e non solo perché ci si muove liberamente in uno spazio più ampio, l'Unione Europea, ma anche e soprattutto per la maggiore libertà di movimento data dalla contrazione dei tempi degli spostamenti e dall'avvento dei mezzi di viaggio più veloci e meno costosi, che hanno aperto la possibilità dello spostamento per molte più persone e per una "fetta" di mondo più vasta".
L'impoverimento del Meridione. L'emigrazione consistente dal Sud Italia ne accresce i problemi perché, sottolinea il Rapporto, si tratta di persone con un livello di istruzione medio-alta, quindi persone sulle quali il nostro Paese ha investito in termini di educazione e formazione. "Se negli anni successivi al Secondo dopoguerra i flussi migratori verso le regioni centro settentrionali erano prevalentemente costituiti da manodopera, proveniente dalle aree rurali del Mezzogiorno, nell'ultimo decennio mediamente il 70 per cento delle migrazioni dalle regioni meridionali e insulari verso il Centro-Nord sono state caratterizzate da un livello di istruzione medio-alto - si legge nel report - Cedendo risorse qualificate il Mezzogiorno ha ridotto le proprie possibilità di sviluppo, alimentando ulteriormente i differenziali economici con il Centro-Nord".
Nuovi italiani ed emigrazione. Il rapporto analizza anche gli spostamenti degli stranieri che, arrivati in Italia e ottenuta la cittadinanza, si sono poi trasferiti altrove. Negli anni tra il 2012 e il 2017, degli oltre 744 mila stranieri divenuti italiani sono quasi 43 mila le persone che hanno poi trasferito la residenza all'estero; il 54,1 per cento (oltre 13 mila) di questi solo nel 2016. I nuovi italiani hanno una differente propensione all'emigrazione a seconda del paese di cui sono originar: è alta la quota di emigrati italiani di origine brasiliana, con oltre 28 emigrati ogni 100 acquisizioni, con uno squilibrio di genere a favore degli uomini (oltre 36 trasferimenti ogni 100 acquisizioni per gli uomini e poco più di 22 per le donne). Anche le comunità del subcontinente indiano sono particolarmente mobili e tra queste la prima è quella del Bangladesh, con più di 21 emigrazioni ogni 100 acquisizioni di cittadinanza, seguita dal Pakistan con quasi l'11 per cento e India con il 8,9 per cento. I paesi del subcontinente indiano si distinguono anche per una maggiore propensione delle donne rispetto agli uomini a emigrare successivamente all'acquisizione della cittadinanza.
Emigrati italiani e pregiudizi. Dopo aver dedicato le ultime edizioni ai territori regionali di partenza, alle città di approdo, ai principali paesi di destinazione della neo-mobilità giovanile italiana, quest'anno il Rapporto introduce una novità sostanziale con il tema dello Speciale 2019: "Quando brutti, sporchi e cattivi erano gli italiani: dai pregiudizi all'amore per il made in Italy". Per illustrare stereotipi e pregiudizi che hanno accompagnato il migrante italiano nel tempo e in ogni luogo si fa perciò riferimento ai termini spregiativi usati in passato per indicare gli italiani: da "Dago" (da dagger = pugnale) per indicare che attaccavano briga e risolvevano le questioni a colpi di coltello, a "WoP" (Without Papers) cioè illegali; ancora "Greaseball", palle di lardo perché mangioni e, ancora, Maccaroni, Rital, sfruttatori, mafiosi. Attraverso analisi sociologiche e linguistiche, aneddoti e storie, il Rapporto fa riferimento al tempo in cui erano gli italiani a essere discriminati, risvegliando "il ricordo di un passato ingiusto - spiega il testo - non per avere una rivalsa sui migranti di oggi che abitano strutturalmente i nostri territori o arrivano sulle nostre coste, ma per ravvivare la responsabilità di essere sempre dalla parte giusta come uomini e donne innanzitutto, nel rispetto di quel diritto alla vita (e, aggiungiamo, a una vita felice) che è intrinsecamente, profondamente, indubbiamente laico". La Fondazione Migrantes auspica che questo studio possa "aiutare al rispetto della diversità e di chi, italiano o cittadino del mondo, si trova a vivere in un Paese diverso da quello in cui è nato".
La presentazione. Alla presentazione del Rapporto sono intervenuti monsignor Guerino Di Tora, presidente della Fondazione Migrantes e la curatrice Delfina Licata. Interventi anche di Roberto Rossini, presidente ACLI; monsignor Stefano Russo, segretario generale della Conferenza episcopale italiana; Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud e la Coesione territoriale, con la moderazione di Paolo Pagliaro. Le conclusioni sono affidate a David Maria Sassoli, presidente del Parlamento Europeo.
Italiani nel mondo: in 13 anni oltre 2 milioni in più si sono spostati all'estero. Nel Rapporto della Fondazione Migrantes i dati sulla nuova emigrazione. Si parte soprattutto dal Meridione, la meta più comune è la Gran Bretagna. Lascia l'Italia chi ha un livello di istruzione medio alta e cambia più volte destinazione. Cristina Nadotti il 25 ottobre 2019 su La Repubblica. Non siamo soltanto un Paese meta di migrazioni, siamo di nuovo una nazione di emigranti, che partono in prevalenza dal Meridione. Negli ultimi 13 anni, dal 2006 al 2019 il numero di chi se ne va dall'Italia è aumentato del 70,2 per cento e gli iscritti all'Aire, cioè l'anagrafe degli italiani residenti all'estero, sono passati da poco più di 3,1 milioni a quasi 5,3 milioni e quasi la metà (48,9 per cento) è partito dal Sud. I dati che analizzano l'emigrazione sono raccolti, come ogni anno, dalla Fondazione Migrantes, che ha presentato questa mattina a Roma il rapporto Italiani nel mondo, arrivato alla sua 14a edizione. Il rapporto sottolinea il fenomeno ormai noto dell'emigrazione dei giovani e, indicando il Regno Unito come meta privilegiata, obbliga a guardare con attenzione all'esito delle trattative per la Brexit, poiché a breve per chi si è trasferito in Inghilterra con le regole della libera circolazione dell'Unione Europea potrebbe essere necessario un percorso burocratico ben più complesso. Altro dato importante rilevato dal rapporto Migrantes anche l'aumento continuo degli iscritti per nascita, a riprova che molti italiani trasferiti all'estero trovano nel Paese in cui emigrano condizioni favorevoli a mettere su famiglia.
Le cifre. Su un totale di oltre 60 milioni di cittadini residenti in Italia a gennaio 2019, alla stessa data l'8,8 per cento è residente all'estero. In termini assoluti, gli iscritti all'Aire aggiornati all'1 gennaio 2019, sono 5.288.281. Il 48,9 per cento degli italiani iscritti all'Aire è originaria del Meridione d'Italia (di cui il 32 per cento Sud e il 16,9 per cento Isole); il 35,5 proviene proviene dal Nord Italia (il 18 per cento dal Nord-Ovest e il 17,5 per cento dal Nord-Est) e il 15,6 per cento dal Centro. Le italiane iscritte sono 2.544.260 (48,1 per cento). La classe di età più rappresentata è quella di coloro che hanno tra i 35 e i 49 anni (1.236.654, cioè il 23,4 per cento). A seguire chi ha tra i 18 e i 34 anni (1.178.717; 22,3 per cento), gli over 65 anni (1.068.784; 20,3 per cento) e chi ha tra i 50 e i 60 anni (1.009.659; 19,1 per cento). I minori sono 794.467 (15 per cento). Il 55,9 per cento è celibe o nubile mentre il 36,7 per cento è unito in matrimonio. Meno di mille, quindi irrilevanti dal punto di vista percentuale, sono le unioni civili. Più della metà (51,5 per cento) è iscritto all'Aire per espatrio, ma continua la crescita degli iscritti per nascita (39,7 per cento). Le acquisizioni di cittadinanza sono il 3,4 per cento, le reiscrizioni per irreperibilità il 4 per cento. Il 43,9 per cento è iscritto da oltre 15 anni, il 20,7 per cento da meno di 5 anni. Oltre 2,8 milioni (54,3 per cento) risiedono in Europa, oltre 2,1 milioni (40,2 per cento) in America. Nello specifico, però, sono l'Unione Europea (41,6 per cento) e l'America Centro-Meridionale (32,4 per cento), le due aree continentali maggiormente interessate dalla presenza dei residenti italiani. Le comunità più consistenti si trovano, nell'ordine, in Argentina (quasi 843 mila), in Germania (poco più di 764 mila), in Svizzera (623 mila), in Brasile (447 mila), in Francia (422 mila), nel Regno Unito (327 mila) e negli Stati Uniti d'America (272 mila).
Le motivazioni. Secondo il rapporto le storie di chi emigra sono spesso caratterizzate da progetti non ben definiti, con situazioni che mutano a velocità impensabili per i motivi più disparati: la nascita di un figlio, il sopraggiungere di un problema di salute, una promozione di carriera, una opportunità lavorativa, ecc. Le cause possono essere plurime e molto differenti tra loro. Ecco perché, sempre secondo la Fondazione Migrantes, "non vale più la strategia del 'per sempre' come quando si sfidava l'oceano e dopo infiniti giorni di navigazione si giungeva dall'altra parte del mondo e ci si rimaneva per lunghissimi anni (se non definitivamente) prima di ripercorrere faticosamente e rischiosamente la strada del ritorno in patria. Oggi, invece, si cambia più volte destinazione e Paese di residenza e non solo perché ci si muove liberamente in uno spazio più ampio, l'Unione Europea, ma anche e soprattutto per la maggiore libertà di movimento data dalla contrazione dei tempi degli spostamenti e dall'avvento dei mezzi di viaggio più veloci e meno costosi, che hanno aperto la possibilità dello spostamento per molte più persone e per una "fetta" di mondo più vasta".
L'impoverimento del Meridione. L'emigrazione consistente dal Sud Italia ne accresce i problemi perché, sottolinea il Rapporto, si tratta di persone con un livello di istruzione medio-alta, quindi persone sulle quali il nostro Paese ha investito in termini di educazione e formazione. "Se negli anni successivi al Secondo dopoguerra i flussi migratori verso le regioni centro settentrionali erano prevalentemente costituiti da manodopera, proveniente dalle aree rurali del Mezzogiorno, nell'ultimo decennio mediamente il 70 per cento delle migrazioni dalle regioni meridionali e insulari verso il Centro-Nord sono state caratterizzate da un livello di istruzione medio-alto - si legge nel report - Cedendo risorse qualificate il Mezzogiorno ha ridotto le proprie possibilità di sviluppo, alimentando ulteriormente i differenziali economici con il Centro-Nord".
Nuovi italiani ed emigrazione. Il rapporto analizza anche gli spostamenti degli stranieri che, arrivati in Italia e ottenuta la cittadinanza, si sono poi trasferiti altrove. Negli anni tra il 2012 e il 2017, degli oltre 744 mila stranieri divenuti italiani sono quasi 43 mila le persone che hanno poi trasferito la residenza all'estero; il 54,1 per cento (oltre 13 mila) di questi solo nel 2016. I nuovi italiani hanno una differente propensione all'emigrazione a seconda del paese di cui sono originar: è alta la quota di emigrati italiani di origine brasiliana, con oltre 28 emigrati ogni 100 acquisizioni, con uno squilibrio di genere a favore degli uomini (oltre 36 trasferimenti ogni 100 acquisizioni per gli uomini e poco più di 22 per le donne). Anche le comunità del subcontinente indiano sono particolarmente mobili e tra queste la prima è quella del Bangladesh, con più di 21 emigrazioni ogni 100 acquisizioni di cittadinanza, seguita dal Pakistan con quasi l'11 per cento e India con il 8,9 per cento. I paesi del subcontinente indiano si distinguono anche per una maggiore propensione delle donne rispetto agli uomini a emigrare successivamente all'acquisizione della cittadinanza.
Emigrati italiani e pregiudizi. Dopo aver dedicato le ultime edizioni ai territori regionali di partenza, alle città di approdo, ai principali paesi di destinazione della neo-mobilità giovanile italiana, quest'anno il Rapporto introduce una novità sostanziale con il tema dello Speciale 2019: "Quando brutti, sporchi e cattivi erano gli italiani: dai pregiudizi all'amore per il made in Italy". Per illustrare stereotipi e pregiudizi che hanno accompagnato il migrante italiano nel tempo e in ogni luogo si fa perciò riferimento ai termini spregiativi usati in passato per indicare gli italiani: da "Dago" (da dagger = pugnale) per indicare che attaccavano briga e risolvevano le questioni a colpi di coltello, a "WoP" (Without Papers) cioè illegali; ancora "Greaseball", palle di lardo perché mangioni e, ancora, Maccaroni, Rital, sfruttatori, mafiosi. Attraverso analisi sociologiche e linguistiche, aneddoti e storie, il Rapporto fa riferimento al tempo in cui erano gli italiani a essere discriminati, risvegliando "il ricordo di un passato ingiusto - spiega il testo - non per avere una rivalsa sui migranti di oggi che abitano strutturalmente i nostri territori o arrivano sulle nostre coste, ma per ravvivare la responsabilità di essere sempre dalla parte giusta come uomini e donne innanzitutto, nel rispetto di quel diritto alla vita (e, aggiungiamo, a una vita felice) che è intrinsecamente, profondamente, indubbiamente laico". La Fondazione Migrantes auspica che questo studio possa "aiutare al rispetto della diversità e di chi, italiano o cittadino del mondo, si trova a vivere in un Paese diverso da quello in cui è nato".
La presentazione. Alla presentazione del Rapporto sono intervenuti monsignor Guerino Di Tora, presidente della Fondazione Migrantes e la curatrice Delfina Licata. Interventi anche di Roberto Rossini, presidente ACLI; monsignor Stefano Russo, segretario generale della Conferenza episcopale italiana; Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud e la Coesione territoriale, con la moderazione di Paolo Pagliaro. Le conclusioni sono affidate a David Maria Sassoli, presidente del Parlamento Europeo.
"L'islam vuole assoggettare l'Occidente E noi ci perdiamo a discutere del velo". Lo studioso: la politica fa troppi compromessi per avere un po' di voti. Francesco De Remigis, Martedì 29/10/2019, su Il Giornale. «La lotta contro l'Occidente, la necessità di assoggettare la società ai valori dell'islam sono il leit motiv di molte prediche salafite nelle moschee, ma in Francia assistiamo a un dibattito paradossale sui simboli religiosi». L'orientalista Gilles Kepel, tra i primi a riflettere sull'islamismo radicale, spiega al Giornale gli «errori» della Parigi post-giacobina. Macron parla del «dovere di vigilanza» da parte dei cittadini. «Ma è un lavoro da professionisti - dice Kepel - E il velo in strada, anche se a me non piace, è un diritto».
Oggi scuole islamiche salafite o vicine ai Fratelli musulmani non hanno bisogno di soldi pubblici: i denari vengono da un'altra parte, è questo il problema?
«Negli anni 2015 e 2017 la repressione era focalizzata sul bersaglio, il terrorista. Come si può catturare prima che agisca per incarceralo. Ora siamo in periodo post-Isis, dove per esempio i jihadisti in carcere hanno capito che il modello Daesh non funziona più ma hanno interesse a costruire un neo jihadismo dell'ambiente in cui si vive, più che far parte di un'organizzazione che da Raqqa si estendeva in Europa».
Macron dice che il velo non è affar suo, dovrebbe esserlo?
«No, perché il problema del presidente è la predicazione, che crea una rottura culturale nella società. Questa nuova fase jihadista, la quarta fase, è di rifiuto delle leggi della democrazia. Ecco cosa porta oggi all'atto terrorista. Gli strumenti della repressione statale non sono in grado di capire il fenomeno».
La Francia ha tentato una riabilitazione di ex jihadisti?
«Un fallimento totale. Dobbiamo parlare di islamizzazione della radicalizzazione. C'è chi pensa che sia un problema di relazioni personali: hanno perfino tentato di introdurre animali da compagnia nei penitenziari, a cui fare carezza. Una follia».
È più corretto parlare di territori perduti della Repubblica o conquistati dall'islamismo?
«Emergono compromessi di alcuni sindaci che si alleano con tale gruppo che gli promette 200 voti. Ma in cambio vogliono l'apertura di una moschea o far venire tale imam. È il prossimo tema da affrontare perché abbiamo elezioni comunali a marzo. Anche in Italia».
Può esserci una connivenza tra politica e islam radicale?
«Sì, assolutamente. È la prima volta che arriva nel dibattito pubblico. Dopo l'attacco alla prefettura si è scoperta una concatenazione».
Come se ne esce?
«La società deve adattarsi per non mettersi a rischio. Nel 2012 quando Mohammed Merah ha ucciso, le autorità l'hanno dichiarato lupo solitario ma lui era già nella proto-rete di Daesh. Lo abbiamo spiegato, ma non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire».
È uscito il suo libro «Uscire dal caos». Prossima sfida?
«Capire questa quarta fase del jihadismo, che inizia con l'attentato alla prefettura di Parigi. È un jihadismo d'ambiente, di enclave. Mikael Harpon, che il 3 ottobre ha ucciso lì, era sordo. Nelle associazioni di sordomuti esiste la predicazione jihadista da parte dei salafiti. Spiegano che per superare le difficoltà la soluzione può essere il jihad».
In Francia questi killer sono definiti squilibrati. Un problema?
«Certo. Una scuola di pensiero dice: ieri c'erano le Brigate rosse, oggi verdi ma bisogna qualificare quest'ideologia. Ammazzare una persona perché è un borghese o perché è un empio non è la stessa cosa. Per capire bisogna avere una cultura dell'islamismo politico contemporaneo. Forse il nostro culto dell'alta funzione pubblica onnipotente tende all'autodifesa perché non conosce l'arabo e non studia i testi. Ma abbiamo già pagato un prezzo altissimo per questo difetto».
Ma quali migranti? Sono invasori! Il Giornale Sabato, 21 settembre 2019 – senza santi in paradiso – da Casa Nino Spirlì, in Calabria. Senza Matteo Salvini al Viminale, l’invasione programmata dell’Italia è una pietanza servita calda a colazione, pranzo, merenda e cena! E a ordinarla ai nostri nuovi vecchi caporali, a danno della salute del Popolo Italiano tutto, sono Macron, che mente sui sondaggi/gradimento e fa finta di piacere ai francesi (che lo odiano), la Merkel, che manda a Roma il suo presidente di facciata mentre lei trama (e trema) nell’ombra, e quei buontemponi freschi di nomina di Brussèl e Strasburgo, che si impongono agli europei sommando, a posteriori e nelle stanze del potere, voti che, nelle urne, erano separati dalla volontà degli elettori. Il senza vergogna figlia governi. (Ma anche le puttane sono senza vergogna…) Non ha avuto il tempo, Salvini, di consumare il primo caffè da nonMinistro, che Lampedusa era già piena bussata di mori e saraceni 2.0! Altro che poveri profughi, questi sono invasori che rispondono ad un progetto preciso. Fare fuori (nel vero senso della parola) gli europei, e gli Italiani per primi, e occupare il continente, liberando della loro fastidiosa presenza l’Africa tutta, che si sta autosvendendo, nei palazzi dorati, ai cinesi. Follia di una vecchia checca che vuole seminare terrore? Maddechè??? A confermare che non son matto, tanto per dire, il grande numero di TUNISINI e magrebini in genere che non scappano da Paesi in guerra, ma, magari, solo da patrie galere. E, rimagari, dietro lauto compenso. E i nigeriani mafiosi e assassini da cosa scappano, se non dalle sbarre che dovrebbero ospitarli a vita? E i senegalesi, che pericolo corrono a Dakar? A dirla tutta, le guerre sono spalmate in tutti Paesi del mondo: siano guerre armate di fucili o di fame sociale. E, dunque, dovremmo salire tutti su quei barconi. A girare per il pianeta come i cavalli delle giostrine!!! E, invece, noi restiamo e lottiamo. Sperando di vincerla, questa nostra guerra contro massoni, mafiosi, tonache vergognose, politici venduti e/o senza coglioni! Mentre dall’Africa e dall’Asia scappano, stranamente, i più grassi e muscolosi. Mentre i derelitti che a vent’anni pesano dieci chili MUOIONO fra le braccia di missionari e volontari seri e silenziosi, nel menefottismo generale. Non ne vedo, di scheletrini, sui ponti delle navi delle ONG!!!!! Vedo chili e chili, quintali!, di muscoli e cellulite pronti a poltroneggiare o battere ai bordi delle nostre strade. O a rimpinguare le tasche di disonesti che li comprano un tot al chilo per, poi, farli schiattare fra gli aranci, i pomodori, i meloni, o sulle impalcature disoneste… No! Non migrano: sognano, anzi aspettano la nostra morte (a volte, molto a volte, la velocizzano), per fottersi oltre tremila anni di Storia e duemila di Illuminazione Religiosa. Scannano le pecore a mani nude, ma in tasca hanno già l’ultimo smartphone, che abbiamo inventato noi. Si schifano del prosciutto cotto, ma bevono alcool come se non ci fosse un domani, e gli piace, eccome se gli piace, accaparrarsi tutte le comodità che abbiamo fatto dal niente (col nostro ingegno e mentre loro se ne stavano col culo a ponte a pregare davanti a un meteorite), dalla tv all’aria condizionata, dai caloriferi alle Hogan… Falsi, bugiardi, fanno finta di difendere le proprie tradizioni, solo per costringerci ad abbandonare le nostre. E pretendono pure che ci rinunciamo con leggi dello Stato (nostro)! E noi (ri)apriamo i porti. E non solo quelli! Salvini, torna! Non so come e quando, ma devi tornare.
Dossier denatalità, perché in Italia ci sono 8.000 nati in meno rispetto al 2018? Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 da Corriere.it. Che l’Italia non faccia più figli è aldilà di ogni ragionevole dubbio. Siamo l’ultimi in Europa per nascite ogni mille donne, ultimi per l’età delle puerpere al primo parto (trentuno anni e due mesi), terzultimi per l’età media alla quale le madri mettono al mondo una bambina o un bambino in genere (quasi trentadue anni). Si contano più di 146 mila nascite all’anno in meno rispetto a undici fa, quando il Paese raggiunse l’apice di una pur timidissima ripresa. Con una popolazione comparabile nei due Paesi, i neonati di genitori entrambi italiani sono praticamente la metà dei neonati francesi. Tra l’altro l’onda lunga continua ad avanzare: l’Istat, l’istituto statistico, mostra che le nascite continuano a calare di circa il 2% e nel 2019 dovrebbero esserci ottomila neonati in meno rispetto al 2018. Ubriacarsi di cifre sulla recessione demografica è diventato così facile che essa entrata nelle coscienze persino dei politici. Non passa governo che non pensi a qualche misura perché gli italiani riprendano a riprodursi. I giallo-verdi al potere fino a due mesi fa offrivano un bucolico un appezzamento del demanio da coltivare, a partire dal terzo figlio in poi. I giallo-rossi al potere oggi, più vicini alle correnti europee, preferiscono più asili nido dove madri e padri possano lasciare i piccoli per andare al lavoro. Ogni cultura in Italia ha la sua certezza da vendere. C’è chi è convinto che le carriere femminili scoraggino la riproduzione; chi mostra invece come nei Paesi dove le donne lavorano di più, per esempio in Scandinavia, si facciano anche più figli. Eppure c’è qualcosa che nessuno fa, prima di spendere i soldi dei contribuenti per questa o quella misura: cercare di capire cosa succede esattamente, dando un’occhiata a come cambiano le nascite nei diversi territori d’Italia. Non ovunque l’andamento è uguale: nella provincia di Cagliari dal 2008 sono quasi dimezzate (contro un calo del 21% in media nazionale), in quella di Sassari sono salite di un quinto. Non ovunque si nota la stessa assenza di asili nido, pubblici o privati: a Caserta si trovano solo 5,7 posti ogni cento bambini fra gli zero e i trentasei mesi d’età, a Ravenna ce ne sono 46 e dunque più di quanto raccomandato dall’Unione europea. E non ovunque per una donna resta altrettanto difficile trovare lavoro come lo era dieci anni fa. In media nazionale l’occupazione femminile - sempre bassa - è salita del 3,9% in un decennio. Ma è cresciuta di un quarto nella provincia di Oristano, mentre si è quasi dimezzata in quella di Ascoli e stranamente a Milano è crollata del 16% (rispetto al 2007, nella capitale economica del Paese lavorano 120 mila donne in meno). Può essere che queste differenze incidano sulla scelta di fare figli? Se per esempio più posti disponibili nei nidi o più lavoro per le donne nei vari territori corrispondessero a una migliore dinamica delle nascite, o a una peggiore, allora sapremmo su quali tasti battere. E quali evitare. Ma è così? No. I dati su 103 provincie nell’ultimo decennio dicono che in Italia non c’è alcuna correlazione positiva fra l’offerta di asili-nido e l’evoluzione delle nascite. Non c’è correlazione neanche con l’aumento del lavoro femminile o con l’occupazione in genere. In 57 provincie l’offerta di posti nei nidi è superiore alla (scarsa) media nazionale di 24 posti ogni cento bambini; eppure fra queste province virtuose, ben trentacinque nell’ultimo decennio hanno visto un crollo delle nascite persino più drammatico della già terribile media nazionale di meno 21%. Non solo il livello è basso, ma la loro evoluzione è stata peggiore. È tutta l’Italia più ricca: Torino, Aosta, Bergamo, Pavia, Cremona, Mantova, Lecco, Vicenza, Venezia, Padova, Udine, Ancona. Neanche all’aumento del lavoro per le donne corrisponde necessariamente, come in Europa del Nord, un andamento un po’ migliore – o almeno meno peggio – della procreazione. Nelle 49 province in cui l’occupazione sale più che nella media nazionale nell’ultimo decennio, ben 23 registrano crolli delle nascite oltre la media nazionale. Questa è l’Italia ricca e non solo: Caltanissetta, Taranto e Brindisi, ma anche Livorno, Lucca, Alessandria e Treviso. C’è però un punto in comune fra tutte queste zone demograficamente più depresse, benché sulla carta più virtuose per le condizioni di sostegno alle famiglie. Dev’essere la chiave del mistero italiano, perché qui la correlazione è stretta. Quasi infallibile. Delle 35 aree del Paese con più nidi ma un crollo delle nascite peggiore della media, tutte meno una manciata presentano un elemento costante: in quei luoghi il numero delle donne in età fertile – formalmente fra i 15 e i 49 anni – è crollato più che nel resto del Paese negli ultimi anni. Invecchiano più in fretta. E così anche nelle 23 province dove il calo delle nascite è più rapido, benché il lavoro delle donne cresca più che altrove: in quasi tutte, invariabilmente, il numero di donne in età fertile sta scendendo più che nel resto d’Italia. In altri termini una delle grandi cause di questa recessione delle nascite è semplicemente che in Italia ci sono sempre meno donne in grado di procreare: quasi un milione in meno rispetto al 2008. Anche con la stessa propensione a fare figli di dieci anni fa, ne fanno meno. Ciò non significa che non occorrano più asili nido, più possibilità per le famiglie di poter contare su un doppio reddito e su un’assistenza. Luigi Guiso, un economista esperto (anche) di bilanci familiari, ricorda che questa ricetta è parte del successo scandinavo. Mario De Curtis, ordinario di pediatria alla Sapienza, sottolinea l’importanza del sostegno pubblico ai genitori meno abbienti. Ma oggi l’Italia paga un’incuria di decenni sulle politiche familiari. La prima recessione di nascite fra il 1975 e il 1995 sta riducendo oggi il numero di donne fertili e ciò accelera una seconda crisi e, in futuro, rischia di innescarne a catena altre più gravi. Una finestra biologica si sta chiudendo. Per riaprila, nessuno può escludere a priori che occorra dare uno sguardo nuovo anche a un’immigrazione gestita con ordine. (Ha collaborato Riccardo Antoniucci)
OGGI QUI, DOMANI ALLAH! "NEL 2100 I MUSULMANI SARANNO METÀ DELLA POPOLAZIONE ITALIANA". Franco Grilli per il Giornale l'11 settembre 2019. Oggi, i musulmani residenti in Italia sono 1,58 milioni, ma nel 2100 potranno diventare la metà della popolazione totale italiana. A sostenerlo, lanciando l'allarme demografico, è il "Primo rapporto sull'islamizzazione d'Europa" curato dalla Fondazione FareFuturo. Un report, realizzato con il supporto dell'Ufficio Studi di Fratelli d'Italia che sarà portato all'attenzione di Palazzo Madama. Al primo gennaio 2019, i musulmani rappresentano il 30,1% degli stranieri residenti in Italia, seguiti dai cristiani ortodossi il 29,7% (1 milione e 560mila unità). Dunque, sul terzo gradino del podio, ecco i cattolici (977mila, 18,6%). Nello studio si legge: "Gli stranieri musulmani residenti in Italia sono cresciut di 127mila unità rispetto al 2018 (quando erano 1,45 milioni), mentre i cristiani sono invece diminuiti di 145mila unità (nel 2018 erano poco meno di 3 milioni), pur mantenendo ancora il ruolo di principale religione professata dagli stranieri". E a seguire, il focus sui Paesi d'origine: "Per quanto riguarda la nazionalità, si stima che la maggior parte dei musulmani stranieri residenti in Italia provengano dal Marocco (440mila), Albania (226mila), Bangladesh (141mila), Egitto (111mila) e Pakistan (106mila)". Ecco perché, avverte il report, è seriamente ipotizzabile che a fine secolo, i musulmani potrebbero rappresentare addirittura la metà della popolazione italiana. I motivi? Presto detti: praticamente otto immigrati su dieci sono di religione musulmana e le loro donne fanno molti più figli di quelle italiane. Si stima infatti che il tasso di fertilità delle donne musulmane sia il doppio di quelle italiane. E il fatto che "gli italiani non facciano più figli", è cosa tristemente nota. Da anni. E il rischio (concreto) è quello di vedersi, fra un secolo, soverchiati dagli stranieri. Non è dunque un caso se nel popolo italiano è tuttora forte e maggioritaria la contrarietà allo ius soli tanto caro alla sinistra. La ricerca della fondazione racconta infine che, specialmente negli ultimi anni, "gli Italiani avvertono l'importanza di nuovi e più efficaci interventi sul fronte della sicurezza, della legalità e della tutela della cultura e dei nostri costumi, ma sono assolutamente scevri da atteggiamenti xenofobi, che condannano".
"Metà Italia musulmana nel 2100": le cose non stanno così. Le Iene il 12 settembre 2019. La tesi dell’“islamizzazione” è sostenuta dalla fondazione Farefuturo, vicina a Fratelli d’Italia. “È un improbabile esercizio d’immaginazione”, dice a Iene.it l’esperto di statistica e demografia Antonio Golini. “Metà della popolazione italiana potrebbe essere musulmana entro il 2100”. A lanciare la presunta notizia sul futuro dell’Italia è Farefuturo, una fondazione molto vicina al partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, che ha presentato ieri il “Primo rapporto sull’islamizzazione d’Europa”. Presunta però perché le cose non stanno proprio così. Secondo lo studio “questo scenario potrebbe verificarsi per due motivi: perché le immigrate musulmane hanno un tasso di fertilità che è il doppio di quello delle italiane e perché il 78% dei richiedenti asilo e degli immigrati irregolari che arrivano in Europa sono musulmani”. Uno scenario vagamente simile a quello immaginato, e temuto nel suo caso e in quello di Fdi, da Michel Houellebcq nel suo romanzo “Sottomissione”. Comunque la si veda, la notizia sarebbe clamorosa, da prima pagina per Il Giornale e La Verità. Peccato che le cose non stiano proprio così. A dirlo a Iene.it è Antonio Golini, accademico e statistico autore del libro “Italiani poca gente”: “Potrebbe anche succedere, ma ora è un improbabile esercizio d’immaginazione. Non è possibile sapere con certezza cosa accadrà da qui al 2100, se i tassi di fecondità resteranno uguali o meno, se ci saranno più immigrati o no”. “Gli studi mostrano delle tendenze, tendenze che potrebbero spingere il legislatore a intervenire sia finanziariamente sia culturalmente”, continua. “Tra l’altro, il timore di perdere la propria identità, anche se immotivato, potrebbe far crescere la fecondità del Paese”. A parlare sono i dati, anche all’interno degli immigrati che vivono in Italia. Secondo le più recenti stime della fondazione Ismu (iniziative e studi sulla multietnicità) gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2019 che professano la religione cristiana rimangono i più numerosi: sono due milioni e 815mila fedeli, pari al 53,6% del totale dei residenti stranieri. I musulmani sono in seconda posizione: un milione e 580mila fedeli pari al 30,1% degli immigrati presenti in Italia. In totale dunque i musulmani residenti in Italia sono circa il 2,6% della popolazione totale, un dato molto lontano dal 50% futuro di cui parla Farefuturo. “Siamo di fronte a una minoranza religiosa stabile, sempre meno legata al fenomeno della migrazione e sempre più italiana”, scrive il sociologo Fabrizio Ciocca. I conti non tornano forse anche perché gli italiani credono che gli immigrati in Italia siano molti di più di quanti sono realmente presenti nel nostro Paese. Secondo uno studio dell’Istituto Cattaneo, sono circa il 7% dei residenti, ma la maggioranza degli italiani crede che siano almeno il 25%: è il dato più distorto tra i cittadini di tutta l’Unione europea. Secondo l’istituto la differenza tra percezione e realtà non è dovuta solo alla scarsa informazione, ma anche a pregiudizi verso gli stranieri che sono profondamente radicati nella popolazione. Noi de Le Iene avevamo intervistato alcuni giovani italiani di fede musulmana, che ci hanno spiegato cosa significa essere fedeli all’Islam e vivere in Italia. Qui sopra potete vedere il loro racconto.
Parla il guru anti-immigrazione: "Tutti devono essere respinti". Lo scrittore e pensatore francese Renaud Camus, autore de "La grande sostituzione" parla di immigrazione e della linea di Matteo Salvini ed Emmanuel Macron. Pina Francone, Venerdì 09/08/2019, su Il Giornale. "Approvo la sensibilità di Matteo Salvini verso l'immigrazione, ma ho l'impressione che non sia realmente contro: vuole solo ripartirla in tutta l'Europa. Invece, secondo me, deve essere respinta", parla così Renaud Camus, scrittore francese autore de La grande sostituzione e per questo, oltre che per le sue vedute, considerato essere un punto di riferimento per i suprematisti di tutto il mondo. Nella sua opera più celebre, infatti, parla del fatto che il Vecchio Continente e altre zone del globo siano meta di nuove etnie. Il pensatore, intervistato da La Stampa, dice: "Si deve procedere a una rimigrazione di tutti coloro che si trovano qui da noi abusivamente. Serve un grande rimpatrio di questi nuovi colonizzatori, come avvenne per i coloni francesi in Algeria, al momento dell’indipendenza". E dopo aver parlato di Salvini, ecco il suo giudizio (pessimo) su Emmanuel Macron, che identifica come il prototipo ideale del "sostituzionismo globale": "Ne ha gli elementi tipici: i legami con le banche, la visione tecnocratica del mondo, l'eliminazione della politica. È partigiano dell'immigrazione". Nonostante le sue teorie, Camus si tiene a distanza dal concetto del "white man's burden" di Kipling e dalla considerazione che l'uomo bianco sia superiore: "No, non troverà una parola su questo in nessuno dei miei libri". E allora stesso modo non ci sta a essere avvicinato ai suprematisti bianchi: "Io non c'entro nulla con loro. Loro, invece, hanno qualcosa a che vedere con me, perché, al pari mio, protestano contro la grande sostituzione. Ma li disapprovo, tanto più quando diventano dei terroristi. Nel 2002 fondai il partito dell' in-nocenza, con il trattino dentro, inteso come la negazione di tutto quello che può nuocere, di ogni tipo di aggressività, dal mettere i piedi sui sedili di un treno di pendolari fino a uccidere. Io sono assolutamente non violento".
GRANDE MIGRAZIONE O GRANDE SOSTITUZIONE? Claudio Risé per “la Verità” il 30 luglio 2019. Basta con le frottole. Ormai svaporata l' arrogante sceneggiata della capitana da copertina, speronatrice di soldati nell'esercizio delle proprie funzioni, consola leggere finalmente un libro di un intellettuale di sinistra che non ne può più della retorica dell' accoglienza, e spiega accuratamente il perché. Si tratta del linguista e studioso di culture politiche Raffaele Simone, che ha scritto L' ospite e il nemico. La Grande Migrazione e l' Europa (Garzanti editore). Un caso editoriale alla rovescia perché (come ha fatto notare Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera), pur essendo il lavoro più documentato sull' ondata di migranti da anni in corso in Europa uscito nell' ambito della sinistra, è stato da questa accolto con glaciale silenzio. Tecnica peraltro nota in questa sinistra, che sempre diventa afasica quando si tratta di rispondere ad argomentazioni imbarazzanti, ripetuta anche nei primi 10 giorni del caso dei bambini rubati di Bibbiano. Snobbare gli argomenti di avversari come Belpietro e Borgonovo nella loro Islamofollia (Sperling & Kupfer) già non è elegante, però fingere di nulla anche con quelli degli amici è suicida. Il libro di Simone ha infatti il pregio di sottrarsi all'obbligatoria melassa dell'accoglienza, del tutto inadeguata ad affrontare una tragedia epocale come «la Grande Migrazione», come la chiama l' autore senza risparmiarsi maiuscole, utilizzate proprio per segnalare che di questo si tratta, e non di quattro gatti innocui e di facile assorbimento. Né si sottrae alla parola proibita ovunque (tranne che su questo giornale): Sostituzione, l' antico obiettivo di altre Grandi Migrazioni, attraverso cui popoli in cerca di nuovi territori prendevano il posto di quelli che c' erano prima, di solito in declino anche demografico, come l' Europa di oggi che dovrebbe accogliere la fortissima spinta dello sviluppo della popolazione africana. Né l'autore esita a paragonare i capi dell' Europa «accogliente» di oggi all' imperatore romano Valente che «manovrato da abili adulatori s' era convinto che i barbari, entrando in territorio romano, avrebbero fornito con poca spesa nuove reclute al suo esercito» (un po' come l' ex presidente Inps Tito Boeri, convinto che gli immigrati ci avrebbero pagato le pensioni). A questo scopo l'Impero organizzò sul Danubio i barconi dell' epoca «per traghettare quell' orda selvaggia», come racconta lo storico Ammiano Marcellino. Anche allora, infatti, «parecchi morirono annegati mentre cercavano di attraversare su navi, zattere. e tronchi scavati». L'effetto finale delle invasioni barbariche fu nientemeno che la dissoluzione dell' Impero. «L' universo romano crolla», scrisse San Gerolamo fuggendo da Roma.
Le ragioni del rimpiazzo. Molti sostengono che era giusto così, e fra i pochi che ammettono che potrebbe ripetersi oggi, alcuni dicono che ciò potrebbe fare «rinascere» l' Europa. Ma, obietta con buon senso Simone, l' Europa ha proprio bisogno di «rinascere»? O sarà questa la sua morte definitiva? E avverte comunque che ciò che sta accadendo è un sintomo «di quel Mondo Nuovo che la globalizzazione ci sta apparecchiando, se non addirittura il preannuncio di un nuovo ordine mondiale». Una diagnosi realista e nuova per la sinistra di ciò che sta accadendo sotto l' apparente distrazione dei politici europei e, fino a poco fa, dell' intera classe dirigente del continente, compresa l' Italia che ne ha fatto le spese maggiori. Se però nel frattempo il politico o opinion maker distratto è balzato da una condizione borghese alla ristretta élite delle persone con case a New York e Parigi vuol dire che la svista è stata molto remunerativa. Forse, anzi, più che distratto è un furbo, traditore dei suoi concittadini, un po' come gli «adulatori» interessati che imbrogliavano l' Imperatore romano sulle reali intenzioni degli invasori dell' epoca. Come è possibile, infatti, non aver visto quello che già tre anni fa il maestro della sinistra internazionale, Zygmunt Bauman, presentava (nel suo Stranieri alle porte, Laterza) come il conflitto tra «il mondo del business, che desidera ardentemente e accoglie con favore l'arrivo di manodopera a buon mercato» e «la maggioranza della popolazione» per la quale «quei fenomeni significano più concorrenza sul lavoro, più incertezza e meno speranze che le cose migliorino»? Tra le possibili spiegazioni del perché si sia rimasti inermi e senza risposte dinanzi a una Grande Migrazione già delineatasi da molti anni c'è appunto l'ipotesi - presentata da Simone - della Grande Sostituzione, «che punta a riversare in Europa milioni di persone povere e affamate per realizzare il graduale rimpiazzo della popolazione europea con i nuovi arrivati». Le ragioni di questa sostituzione potrebbero essere diverse, e una non esclude l'altra. Dal punto di vista del mondo islamico africano e asiatico si tratterebbe di una «rivalsa totale sull' Occidente, di cui cancelleranno a poco a poco ogni traccia». Ma è probabile che nel progetto c' entri anche il cinismo del capitalismo finanziario più spregiudicato, alla Soros, che agli attuali cittadini europei preferisce interlocutori tutto sommato più deboli e non ancora allenati all' attuale processo di sviluppo. E intanto far soldi e accumulare potere.
A distanza ravvicinata. Il cinismo è stata a mio parere l' arma, verniciata da mitezza e umanitarismo, con la quale la classe politica che ha governato in Europa negli ultimi trent'anni ha coperto la propria mancanza di idee e programmi di fronte alla fine del comunismo, al potere pervasivo delle multinazionali, alla perdita di efficacia delle burocrazie degli Stati, condizionati dalle richieste dell'Ue e psicologicamente distanti dai territori cui appartengono. Il mondo è cambiato, ma le parole per dirlo sono ancora quelle di ieri. È su questo terreno che «attorno al tema dell' immigrazione si creò uno spesso clima di ipocrisia e di falsità: l' unica posizione autorizzata al proposito fu quella positiva, perché altrimenti si correva il rischio di essere accusati di razzismo». Non si vide così l' enorme dimensione storica del fenomeno, che rovesciò sull' Europa milioni di persone e continuerà a farlo se glielo si consente. E si adottò «lo sguardo corto: la Grande Migrazione è stata vista solo a distanza ravvicinata, contando i morti, pubblicando fotografie strazianti di bambini in lacrime o morti nelle traversate, raccontando i soccorsi, i salvataggi e i naufragi. Ma lo sguardo corto, profondamente umano, non serve per capire i fenomeni né tantomeno dar loro un significato». Sarò malpensante, ma ho visto che di solito lo «sguardo corto» più che frutto di ingenuità è la scelta di chi di fronte a un impegno di lunga durata e esito incerto applica il motto «prendi i soldi e scappa». È del resto la linea della finanza globale: sfrutta i territori e vivi nelle oasi dorate del privilegio per pochi eletti, lasciando che gli sfruttati dell' ex Terzo mondo e i «piccoli bianchi» del primo se la vedano tra di loro e le rispettive miserie.
· Il Partito degli immigrati.
Così il movimento "Cara Italia" costruisce un Paese in cui nessuno è straniero. Prima una pagina Facebook, poi un’associazione culturale, ora il sogno di presentarsi alle elezioni. Per lo Ius Soli e la buona accoglienza, contro ogni discriminazione (non solo etnica). Ispirandosi al rapper Ghali. Floriana Bulfon il 25 ottobre 2019 su L'Espresso. I buonisti? «Non sono una minoranza e devono farsi sentire: questa deve essere una casa per chi subisce discriminazioni». Parte da qui la risposta per invertire la rotta di un Paese dove essere razzisti non è più un tabù e ci si vanta di non tollerare le diversità. È la “Cara Italia” che stanno costruendo insieme un gruppo di italiani e migranti perché, come canta il rapper Ghali, «quando-mi-dicon: “Vai-a-casa”- oh-eh-oh, rispondo: “Sono-già-qua!”». “Cara Italia” è un movimento di base spontaneo nato pochi mesi fa e che oggi, in una babele di origini, religioni e lingue, delinea programmi e strategie per arginare la deriva dell’ordinario razzismo e il fuoco dell’intolleranza. Quello che in nome del “prima gli italiani” certifica centinaia di aggressioni e il proliferare di gruppi nazi-fascisti. Un odio sdoganato dalla propaganda che ha determinato una profonda lacerazione democratica. «Politici come Matteo Salvini sono riusciti a far credere che chi ha la pelle nera è la causa di tutti i mali, a togliere diritti già acquisiti, a rendere accettabile discriminare donne, gay, transessuali e chi professa una diversa religione», dice il giornalista di origine keniana Stephen Ogongo, 44 anni. Storie quotidiane di dignità calpestata che si preferiva dimenticare e che invece Ogongo decide di raccogliere in un gruppo Facebook. In poche settimane gli iscritti sono migliaia: vittime che denunciano violenze e chiedono come difendersi, professionisti pronti ad aiutarle. Riuniti in assemblea, dentro a un palazzo nel centro di Roma, ora organizzano corsi di cultura italiana, educazione civica, formazione per decodificare le manipolazioni dei messaggi dei politici. Si confrontano su diritti e partecipazione «per creare un Paese basato sui valori umani». Obiettivi: «Lottare contro l’intolleranza, il razzismo e tutte le altre forme di discriminazione», «rendere le persone consapevoli dei loro doveri e dei loro diritti», «lottare per una legge di cittadinanza coerente con la realtà del Paese», «combattere contro tutti gli ostacoli che impediscono la partecipazione attiva degli immigrati», «promuovere le iniziative di buona accoglienza e di buona integrazione degli immigrati». Perché «l’Italia è di chi la ama e noi amiamo l’Italia», come recita il loro slogan. A conferma, sul tavolo, nella sede, una copia della Costituzione repubblicana. Questo Paese «è diventata casa mia e non mi sta bene che si respiri un clima di rabbia verso gli ultimi», ragiona Ogongo. È arrivato in Italia per frequentare l’università Pontificia Gregoriana nel lontano 1995. A sostenerlo negli studi, allora, c’erano quattro famiglie di Padova e «l’incontro con persone che avevano la curiosità di imparare dall’altro». Oggi invece, in un dibattito inquinato dagli slogan sull’invasione immaginata, si temono persino i bambini che vanno a scuola e sono integrati. Esclusi e considerati stranieri anche se nati e cresciuti in Italia, tanto che lo ius culturae sta già facendo aprire una crepa nella maggioranza giallo-rossa con il Pd che, pur con qualche frattura interna, spinge e il M5S che frena. «Questa riforma dovrebbe essere una priorità, continuare a escluderli è un atto d’ingiustizia»: a rimbombare nella stanza è la voce di Mauro Caruso, figlio di un italiano migrato in Africa e di una somala. Aveva solo tredici anni, quando alla sua famiglia venne espropriata un’azienda di 110 ettari, lui e i suoi fratelli deportati e spediti in diverse città italiane. Quella degli italiani figli di donne somale, tolti alle madri perché “simbolo della vergogna” è una storia rimossa dalla coscienza collettiva. A Roma non sapevano come gestirli, a Mogadiscio li chiamavano con disprezzo “mezzo sangue”, umiliati nel limbo tra il mondo dei colonizzatori e quello dei colonizzati. Caruso è categorico: «Questo è il periodo peggiore, nemmeno durante gli anni del terrorismo c’era il razzismo di oggi. Siamo stati rappresentati da fantocci che hanno sdoganato un sentimento represso in una guerra tra poveri». Elenca i danni provocati dai decreti sicurezza, l’incapacità di un Paese di riconoscere il valore di oltre 5 milioni di stranieri residenti che producono il 9 per cento del Pil, ma sono esclusi da ogni processo decisionale. E poi le politiche dei porti chiusi, la necessità di istituzionalizzare i corridoi umanitari. Insieme ragionano all’idea di presentarsi già alle prossime elezioni amministrative «non come “partito dei migranti”, ma di un’Italia multiculturale». Nascono così proposte politiche con comitati e incontri dalla Sardegna al Veneto. E per «coinvolgere i giovani, cittadini o meno, affinché possano diventare la futura classe dirigente del Paese o contribuiscano almeno a rafforzarla» hanno già dato il via a una scuola gratuita di formazione politica. A frequentarla sono ragazzi come Piera Cuccia, siciliana di Trapani trasferita a Roma per studiare. Si è iscritta per capire cosa significhi essere migranti dopo aver assistito a un episodio «apparentemente marginale. Prendo spesso i mezzi pubblici e quando vedo fermare persone senza biglietto anche io cado nella trappola di pensare che siano sempre stranieri. Poi un giorno un passeggero si è lamentato perché l’autista non ha fatto la fermata e si è sentito dire “brutto negro di merda”. Mi è tornata in mente mia nonna che raccontava di quando i siciliani andavano in America e li chiamavano mafiosi. Siamo un popolo di migranti e dobbiamo ricordarcelo». Piera si è seduta tra i banchi insieme a coetanei che arrivano dalla Moldavia, dalla Libia, dal Perù ma le abitano accanto. «Mi ha colpito un’antropologa che ci ha spiegato come la formica riesca ad essere solidale nel gruppo, un comportamento di fratellanza che si è perso», racconta. E così quando ha saputo che cercavano insegnanti di italiano ha deciso di mettersi in gioco e donare il suo tempo. Ogni domenica entra nel tempio Sikh incastrato tra i palazzoni popolari della periferia romana. La aspettano in tanti. Sono seduti a terra, in mano il quaderno a righe. «All’inizio erano solo uomini, alcuni anche analfabeti. Piano piano si sono unite alcune donne. C’è una ragazza di quattordici anni che è arrivata da un mese e non sa una parola di italiano, ma sta imparando in fretta». Una frase dopo l’altra per un’ora e mezza e alla fine anche Piera conosce un po’ di più della loro cultura: «Dopo la cerimonia di preghiera pranzano tutti insieme e gli uomini lavano i piatti. Mi hanno spiegato che è così perché è una giornata di riposo per le donne», sorride. E aggiunge: «Dovremmo impararlo anche noi». Un giorno è entrata a curiosare anche Dorota «per tutti Dorothy che è più facile da dire». È polacca, lavora in un ufficio turistico e vive in Italia da trent’anni. «Io non ho la pelle nera, ma se dico che sono dell’Est Europa avverto subito che alcuni non si fidano più. C’è una forma di superiorità verso quelli che vengono da Paesi più poveri», dice. Dorothy non conosceva i Sikh, non è mai stata in India ma ha scelto di «aprirsi a un mondo nuovo». E spiega: «È anche un modo per scoprire me stessa. Mi sento arricchita da questa mescolanza». Una bambina le siede accanto. Ha dieci anni e si è autoproclamata assistente. Dorothy parla rigorosamente in italiano, ma ogni tanto la bimba rompe le regole e aiuta gli adulti traducendo in punjabi. «Molti lavorano tutto il giorno e rimangono isolati», spiega Harvinder Singh Kapil. Quarantasette anni, esperto di formazione a distanza e documentarista è l’ideatore del corso. Racconta il suo arrivo in Italia per seguire l’amore «come uno shock. In India ero ben pagato, sono rimasto sconvolto che gli stipendi fossero così bassi. Da un giorno all’altro sono diventato povero». Kapil non aveva rapporti con i Sikh che vivono qui e solo dopo anni ha scoperto le campagne dell’Agro Pontino, il caporalato e i soprusi quotidiani. Quelli che provano «gli stranieri spaesati in un Paese che dovrebbe essere capace di attrarre sempre di più professionalità e non schiavitù». E invece l’anno scorso, stando al Rapporto sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Moressa, i permessi di lavoro rilasciati in Italia sono appena il 6 per cento. Dieci anni prima erano il 47. In fondo la “Cara Italia” che vorrebbero i “nuovi italiani” c’è già. È quella fondata sui principi democratici per cui hanno combattuto i nostri nonni, solo che accecati dall’odio per il diverso la stiamo dimenticando.
Rifugiati ed esuli: «È ora che sappiate chi siamo davvero». Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 da Corriere.it. Il presidente è Syed Hasnain, rifugiato originario dell’Afghanistan e residente a Roma. Attualmente è laureando in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all’Università La Sapienza. La vice-presidente è Ozlem Önder, rifugiata curda originaria della Turchia e residente a Milano. È studentessa presso la Facoltà di Scienze Politiche dove studia Scienze Sociali per la Globalizzazione e recentemente ha svolto un anno di servizio civile all’interno di una ong nel settore della cooperazione internazionale. Poi ci sono i consiglieri Lyas Laamari, rifugiato originario dell’Algeria e residente a Bologna, Genet W Keflay, rifugiata originaria dell’Eritrea residente a Cagliari. Presidente dell’ Associazione Anolf/Sardegna e Associazione Corno d’Africa in Sardegna onlus, da anni membro del consiglio territoriale per l’immigrazione di Prefettura di Cagliari. E tanti altri ancora. Insieme hanno fondato «Unire» (Unione Nazionale Italiana per i Rifugiati ed Esuli), associazione di promozione sociale nata con lo scopo di diventare la prima rete nazionale dei rifugiati che vivono in Italia. «Unire - si legge nella presentazione sul sito - è uno spazio condiviso per costruire e potenziare la rete delle associazioni promosse dai rifugiati e dei singoli attivisti. È la cassa di risonanza delle nostre voci dai territori. L’obiettivo finale è quello di restituire protagonismo, autorappresentazione e auto-narrazione. Vogliamo che tutte le persone come noi, rifugiate, donne e uomini, con diversi profili, Paesi d’origine, esperienze e competenze, siano soggetti attivi nella società italiana, inclusi anche nei tavoli di discussione dove vengono prese le decisioni politiche che hanno un impatto diretto o indiretto su di noi, sulle nostre vite». Ma lo scopo è anche un altro. «È ora che cambino le narrazioni e l’immaginario imposti sul ruolo dei rifugiati in ambito socio-politico, dove la percezione dell’opinione pubblica è spesso distorta e la voce dei protagonisti non trova spazio. Vogliamo proporre un’autorappresentazione e un auto-narrazione positiva, che metta in evidenza come attraverso la nostra partecipazione attiva possiamo contribuire allo sviluppo della società in cui viviamo». L’associazione è stata presentata ufficialmente sabato 26 ottobre nella sede della Cgil in Via Buonarroti a Roma. La piattaforma online ha alle spalle un lungo lavoro di ricerca, di studio e una vasta rete di contatti e collaborazioni con rifugiati ed ex rifugiati attivisti, residenti in diverse città italiane. Unire è una della 16 associazioni di rifugiati che quest’anno sono state considerate più meritevoli di partecipare al programma PartecipAzione-Azione per la protezione e la partecipazione dei rifugiati, un programma di capacity building ed empowerment realizzato da Intersos in partenariato con Unhcr.
· Contro lo Ius Culturae e lo Ius Soli.
Gli italiani divisi sulla cittadinanza ai migranti: per il 56% le urgenze sono altre. Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 su Corriere.it da Nando Pagnoncelli. Elettori più favorevoli allo ius culturae. Prevalgono sui contrari 53% a 39%, e anche in questo caso il dato mostra una crescita di 3 punti rispetto a marzo. Il tema del riconoscimento della cittadinanza degli stranieri è tornato d’attualità dopo l’intervento di Nicola Zingaretti all’assemblea del Pd della scorsa settimana a Bologna. Si tratta di un tema divisivo che è stato oggetto di molte polemiche, anche all’interno del centrosinistra. Il sondaggio odierno evidenzia un aumento dell’«apertura» da parte degli italiani, anche se la maggioranza degli intervistati è del parere le priorità in questo momento siano altre, complice il fatto che il segretario del Pd ha avanzato la sua proposta nei giorni in cui l’attenzione era dedicata prevalentemente ad altre vicende, dall’Ilva, al Mose, all’Alitalia. Infatti, il 56% concorda con Di Maio che nei giorni scorsi si è dichiarato sconcertato definendo la proposta del segretario dem «uno slogan», mentre il 27% dà ragione a Zingaretti il quale, sebbene vi siano temi più urgenti, ritiene sia giusto approvare entro la fine della legislatura una legge per estendere i diritti di cittadinanza. Le risposte degli elettori Pd e 5 Stelle sono diametralmente opposte: tra i primi il 74% è d’accordo con il segretario (ma quasi uno su cinque — il 19% — dissente); tra i secondi il 78% sta con il capo politico del Movimento, mentre il 16% è contrario. Tra tutti gli altri, con l’eccezione delle liste minori di sinistra e centrosinistra, prevale l’idea che oggi il governo si dovrebbe occupare di altro. In generale la normativa attuale — che prevede la concessione della cittadinanza a chi non è figlio di cittadini italiani solo in alcuni casi specifici (dopo il compimento della maggiore età e dopo 10 anni di permanenza ininterrotta nel nostro paese, oppure per matrimonio) e in assenza di procedimenti penali — è giudicata positivamente dal 56% degli italiani (in crescita di 3 punti rispetto allo scorso mese di marzo) e negativamente dal 34% (dato stabile). Lo ius soli, ossia la possibilità di estendere la cittadinanza ai figli di immigrati , se nati nel nostro Paese e con almeno un genitore che ha un permesso di soggiorno permanente in Italia, divide nettamente le opinioni 48% i favorevoli, 47% i contrari. Anche in questo caso si registra una crescita di 3 punti dei favorevoli. Diversi invece gli atteggiamenti nei confronti dell’ipotesi di concedere la cittadinanza a figli di immigrati, se nati in Italia (o arrivati entro i 12 anni), e abbiano frequentato regolarmente per almeno cinque anni le scuole nel nostro paese, cioè il cosiddetto ius culturae: i favorevoli prevalgono sui contrari 53% a 39%, e anche in questo caso il dato mostra una crescita di 3 punti rispetto a marzo. In termini di comportamento politico si conferma una sostanziale distanza tra le opinioni degli elettori di centrosinistra e quelli di centrodestra, mentre i pentastellati appaiono divisi al loro interno. L’atteggiamento di maggiore apertura va ricondotto a due aspetti: innanzitutto la minore importanza attribuita alla questione immigrazione, basti pensare che oggi il 28% menziona il tema degli stranieri tra le priorità del Paese mentre un anno fa era il 45%; in secondo luogo il consolidamento della distinzione tra gli stranieri presenti in Italia e quelli che potrebbero arrivare. Rispetto ai primi che, come sappiamo, si identificano con le persone frequentate quotidianamente (dalla badante, ai bambini che frequentano le scuole dei propri figli o nipoti), prevale un atteggiamento di inclusione. Al contrario, permane una diffusa inquietudine sui possibili nuovi flussi di stranieri. Da ultimo una riflessione sugli aspetti semantici connessi alla cittadinanza: parlare di ius soli e ius culturae può suonare ostico e rappresentare una sorta di spauracchio per i più. Al contrario, quando i concetti vengono declinati nella realtà quotidiana, le reazioni dei cittadini sono diverse. È sorprendente che in un’epoca nella quale non mancano consulenti per la comunicazione e spin doctor, si sottovaluti il rischio che alcuni termini, oltre ad essere poco familiari, possano produrre effetti esiziali.
Sergio Arcobelli per “il Giornale” il 24 novembre 2019. Tra la povertà assoluta e il diventare campione del mondo ci sono 15 giorni di viaggio al gelo dentro un tir. Aveva solo 13 anni Giorgio quando assieme al papà e al fratello nel 98 lasciò la natìa Yerevan e viaggiò nascosto in un autocarro per fuggire dalla miseria. Arrivato a Milano da clandestino, in quelle notti sulle panchine della stazione Centrale in cerca di un angolo dove dormire, Giorgio guardava in alto le stelle nella speranza di poter salire un giorno quel ring come nei film di Bruce Lee che tanto gli piacevano. Solo che la vita non è colori e petali rosa e Giorgio Petrosyan, in quel momento, doveva affrontare il peggiore degli avversari: la fame. Dopo essere finito alla Caritas di Gorizia con lo status di rifugiato politico, in attesa di un permesso di soggiorno, il sognatore Giorgio che si procurava da mangiare lavorando come lavavetri, alla fine su quel ring ci è salito, portando con sé la rabbia degli ultimi, dei disperati, dei miserabili. Finendo poi per alzare le braccia verso il cielo, da campione del mondo. Da clandestino a leggenda. Se solo fosse un film «Ed è proprio così. Infatti il film della mia vita uscirà il prossimo anno».
Dal nulla assoluto a leggenda della kickboxing. Di più: il primo nel suo sport a intascare un milione di solo premio. Poche settimane fa. Come è riuscito a cambiare la sua vita?
«A tredici anni sono partito dall' Armenia e una volta arrivato a Milano dormivo in stazione Centrale dove faceva un freddo allucinante. Io, mio fratello e mio papà non avevamo un posto dove dormire. Adesso proprio a Milano ho la mia casa, la mia attività, la mia palestra, la Team Petrosyan in via Sibari 15 (zona Ripamonti), dove insegniamo tutto, dalla disciplina al rispetto, cose che al giorno d' oggi sembrano mancare ai giovani».
Milano l' ha accolta e ora lei l' 1 febbraio difenderà il titolo.
«Mi aspetto tanta gente e molti tifosi qui a Milano, casa mia. Ci sarà spettacolo, musica, luci e vip. Bisogna assistere dal vivo per capirlo. Venite a vedermi».
Perché ha scelto la kickboxing?
«Perché da piccolo vedevo molti film di Bruce Lee e Van-Damme, con l' idea di combattere e diventare il numero uno. Alla fine ci sono riuscito».
Perché un giovane dovrebbe praticare la kick? C' è chi sostiene che sia pericolosa.
«No assolutamente. Anzi, in Italia la kickboxing si sta diffondendo sempre di più. Adesso è conosciuta tra i giovani. Quando ci sono eventi nei palazzetti, questi sono sempre pieni e ci sono tanti bambini. Come in Asia, dove è anche il primo sport e dove è nata questa disciplina (originaria del Giappone e poi diffusasi negli Usa, la kickboxing coniuga il calcio tipico delle arti marziali con i pugni della boxe, ndr)».
Il pugile Scardina è già diventato l'idolo dei giovani.
«Ci siamo conosciuti. Ma la differenza tra noi due è quella che puoi trovare tra una squadra di metà classifica di Serie A in confronto con il Barcellona. E io quando mi sono ritrovato ad affrontare gli otto atleti più forti dal mondo ho vinto».
Ma lei che rapporto ha con la boxe?
«Non l'ho mai praticata. Anche se a Gorizia mi allenavo nella palestra di Paolo Vidoz (bronzo a Sydney 2000 nei supermassimi e campione europeo tra i pro nei massimi, ndr), sotto casa dei suoi genitori. È stata la mia fortuna».
Perché il soprannome di «Il Dottore» come Valentino Rossi?
«No, questo soprannome me l'ha affibbiato un arbitro perché ho un sinistro chirurgico, che è il mio colpo preferito. Una volta ho messo ko un avversario con quattro colpi sulla coscia nello stesso punto e da allora sono il chirurgo. A proposito di dottori, ormai sono stato così tante volte sotto i ferri per interventi alla mia mano sinistra che ho perso il conto. Ringrazio il dottor Pegoli che mi ha rimesso le mani a posto».
Il suo amico Balotelli tra buu e prestazioni vive un momento no.
«Mario è un amico, ha un gran fisico e se la cava bene nella kick. Io però non seguo molto il calcio, ma quello che posso dire è che nel nostro mondo ci sono solo applausi e niente gestacci. Il nostro è uno sport sano dove ci sono delle regole da rispettare».
In tempi di ius culturae e ius solis, lei da che parte sta?
«La cittadinanza la deve ottenere chi la merita davvero. Io l'ho ottenuta nel 2014 dopo tanti sacrifici. In questo periodo si parla tanto di stranieri, ma non siamo tutti uguali: chi sbaglia deve pagare, punto. Perché ci sono stranieri che sono qui e lavorano e meritano la cittadinanza, e c' è chi ce l'ha e va in giro solo a fare casino?».
Ius Culturae, un'altra pessima idea. Pur non essendo una priorità del paese questa modifica delle norme sulla cittadinanza sembra un'emergenza nazionale del Governo Pd-M5S. Oriana Allegri il 2 ottobre 2019 su Panorama. Giovedì 3 ottobre la Commissione Affari Costituzionali della Camera riprenderà la discussione su due proposte di legge: lo “ius soli” (a firma di Laura Boldrini, ex LEU e oggi nel PD) e lo “ius culturae” (a firma di Renata Polverini di Forza Italia). Entrambe le proposte prevedono una riforma delle modalità di acquisizione della cittadinanza italiana, che attualmente è regolata da una legge che si basa esclusivamente sul principio dello “ius sanguinis”: si ha la cittadinanza italiana solo se si hanno genitori italiani. E' del tutto normale che, capovolgendo le priorità del Paese (ospedali e scuole da terzo se non quarto mondo, disoccupazione tra i giovani, corruzione, evasione ed elusione fiscale, mancanza di servizi e così via) il dibattito sul diritto di cittadinanza ai bambini figli di stranieri diventi la prima cosa su cui concentrarsi. Accantonato lo “ius soli”, che prevederebbe una cittadinanza automatica se si nasce sul territorio italiano (e che nel mondo esiste solo negli Stati Uniti), lo “ius culturae”, sul quale sembra abbiano trovato un punto di incontro il M5S e il PD, propone di dare la cittadinanza a minori che hanno compiuto almeno un ciclo di scuola in Italia, quindi già dopo le elementari. Oggi, i ragazzi figli di cittadini stranieri regolarmente residenti in Italia, possono avere la cittadinanza dopo i 18 anni, se hanno avuto qui la residenza per almeno 10 anni. Il meccanismo non è punitivo ed è adottato in quasi tutti gli altri Paesi europei. In Italia al momento ci sono circa 166.000 minori che – con lo ius culturae – potrebbero diventare italiani. Sì, ma i loro genitori resterebbero stranieri, e non è un piccolo particolare. La loro cultura non cambierebbe grazie alla cittadinanza dei loro figli. Così come è difficile credere che dei bambini, dopo cinque anni di elementari, si riconoscano in una cultura differente da quella dei loro genitori, pur frequentando scuole e bambini italiani. Lo sanno molto bene la Francia, il Belgio e il Regno Unito, che si ritrovano cittadini che hanno frequentato le loro scuole, ma che non ne vogliono sapere di abbracciare la cultura occidentale, e preferiscono tenersi il loro retaggio famigliare, con variazioni al limite dell'estremismo (se non oltre, come i tragici attentati degli ultimi anni a Parigi, Londra e Bruxelles ci hanno dimostrato). In più, basta parlare con una maestra dell'asilo o delle elementari e racconterà una realtà decisamente diverse da quella che descritta dalla Boldrini. Noi lo abbiamo fatto e ci è stato detto che non basta che i bambini studino o giochino insieme perché si crei l'integrazione. Ogni bambino tende a stringere amicizia con altri bambini vicini alla sua cultura di origine. Così, i cinesi tendono a preferire i cinesi, i marocchini e i tunisini idem. La Sinistra e il mondo del volontariato cattolico, ci vogliono convincere che è in atto uno scandalo di matrice razzista, e che in Italia ci sono bambini trattati diversamente solo perché stranieri. E' una colossale menzogna: tutti i bambini, stranieri e italiani, godono degli stessi diritti, da quello scolastico al diritto alla Salute. L'unica differenza è la cittadinanza, che permette loro di avere un passaporto e di votare per le elezioni nel nostro Paese. I padri costituenti ci avevano visto lungo: si è cittadini italiani se si nasce da genitori italiani, cosa che implica il crescere con una cultura italiana. Ma la cultura non si crea in 5 anni di elementari. E, a volte, non basta nemmeno l'università per far cambiare la propria struttura di pensiero, frutto dell'educazione, a una persona. Il vero scandalo, su cui sia la Boldrini che la Polverini sembrano non nutrire il minimo interesse, è semmai la condizione di migliaia di italiani nel mondo che non godono degli stessi diritti degli italiani che vivono qui. Come in Venezuela, dove ci sono più di 1 milione di oriundi e 250mila persone con il passaporto italiano, lasciati a fare la fame e a morire negli ospedali del regime di Nicolas Maduro. Se proprio dobbiamo spenderci per gli italiani, cominciamo a farlo con quelli che dimostrano di amare il nostro Paese, che si sentono italiani e che hanno realmente bisogno dell'Italia e sono in condizioni di estrema necessità. Se mai approveremo una proposta come lo “ius culturae”, è probabile che tra qualche anno saremmo noi italiani a dover chiedere la possibilità di essere riconosciuti in uno Stato diventato improvvisamente straniero. Dove la nostra cultura sarà in drammatica minoranza.
Trump: «Valutiamo di togliere lo Ius soli». Ma come funziona nel mondo? Pubblicato giovedì, 22 agosto 2019 da Francesco Giambertone su Corriere.it. Gli Stati Uniti concedono la cittadinanza ai figli di stranieri nati sul territorio, ma il presidente vorrebbe cancellarlo. Tra diritto «di suolo» (in Brasile e Canada) e «di sangue» in Italia e Giappone, esistono anche molte vie di mezzo. È uno dei capisaldi della storia americana, ma ora Donald Trump vuole abbatterlo. O almeno questa è l'idea del presidente sullo Ius soli, ossia il «diritto del suolo» vigente in alcuni Paesi che permette a chi vi nasce di ottenere la cittadinanza sin dalla nascita, indipendentemente da quella dei genitori: «Stiamo valutando seriamente di toglierlo — ha detto Trump ai giornalisti — questo diritto è una cosa ridicola».
Ma come funziona e quali sono i Paesi che lo applicano? Lo Ius soli è stato introdotto storicamente dal sistema giuridico britannico, al contrario dello Ius sanguinis, che deriva dall'ordinamento romano. Lo Ius soli incondizionato (senza restrizioni) esiste in quasi tutti i Paesi del continente americano, mentre è raro altrove. Quasi tutti gli Stati d'Europa, Asia, Africa e Oceania basano il diritto di cittadinanza sullo Ius sanguinis, secondo il quale viene trasmessa dai parenti e non dal luogo di nascita, oppure su versioni «temperate» dello Ius soli, che danno la cittadinanza alla nascita in modo automatico solo a determinate condizioni.
Lo Ius soli senza restrizioni è applicato - tra gli altri - in Argentina, Brasile, Canada, Cile, Ecuador, Messico, Pakistan, Perù, Uruguay, Venezuela, e appunto Stati Uniti, terra d'immigrati, dove lo Ius soli è un cardine storico. La «clausola sulla cittadinanza» nel 14esimo emendamento della costituzione Usa, approvato allo scopo di garantire i diritti degli ex schiavi, dice che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti (...) sono cittadini degli Stati Uniti». Una decisione della Corte Suprema permette al governo di negare la cittadinanza solo in caso in cui si tratti di figli di diplomatici o di bambini nati da genitori facenti parte di forze nemiche d'occupazione.
Sono molti i Paesi dove viene applicato uno Ius soli «ristretto», che richiede che almeno uno dei due genitori del neonato sia cittadino o abbia ottenuto la residenza permanente nello Stato in questione al momento della nascita del bambino. In Francia, ad esempio, serve che almeno un genitore sia cittadino oppure nato in Francia (o in un territorio d'oltremare), ma il figlio può acquisire la cittadinanza ai 18 anni se dagli 11 in poi ne ha vissuti almeno 5 nel Paese. In Germania, dove fino al 2000 vigeva un pieno Ius sanguinis, ora si può ottenere la cittadinanza alla nascita se almeno un genitore ha un permesso di soggiorno permanente. E funziona in modo simile (con molte varianti) in Spagna, Regno Unito, Portogallo, Irlanda, Grecia, Iran, Australia e altri Paesi. L'India e Malta, dove esisteva lo Ius soli, lo hanno entrambe abolito. Mentre Israele fa storia a sé: a Tel Aviv la cittadinanza, regolata da atti dei primi anni Cinquanta come la Legge del Ritorno, può essere ottenuta appunto per «ritorno» (per tutti gli ebrei stranieri intenzionati a trasferirsi), per residenza (per gli arabi dell'ex mandato britannico), per discendenza (Ius sanguinis) e anche per Ius soli (purché il bambino non abbia un'altra cittadinanza).
L'Italia, dove a lungo si è dibattuto sull'introduzione dello Ius soli, nell'articolo 1 della legge 91/92 stabilisce che è cittadino per nascita il figlio di padre o madre cittadini italiani. Si tratta dello Ius sanguinis, anche se in Italia esiste una forma particolare di Ius soli: uno straniero nato in Italia che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino ai 18 anni, può richiedere la cittadinanza italiana per naturalizzazione (ne è un esempio Mario Balotelli, nato a Palermo da genitori ghanesi, ma il cui affido non fu mai tramutato in adozione e perciò dovette aspettare). Lo Ius sanguinis è spesso applicato anche nei Paesi dove sono in vigore forme di Ius soli (i due diritti non si escludono) e anche per la nascita fuori dal territorio dello Stato. Il Regno Unito, ad esempio, li ha entrambi: un cittadino britannico (non per discendenza ma ad esempio naturalizzato) passa la cittadinanza al figlio nato all'estero, per una generazione. Lo applicano in via esclusiva — tra i tanti — il Giappone, la Corea del Sud, l'Austria e la Russia.
L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “...una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao
La Patria (dal latino = la terra dei padri) è il concetto di nazione e paese, natio interiorizzato e idealizzato. La patria è un topos prettamente letterario (concetto ricorrente) che è possibile ritrovare in tantissimi temi trattati e argomentati nelle scienze umane, con particolare frequenza nell'area umanistica.
La cittadinanza Veneziana. Scrive il3 maggio 2013 L’Inkiseta. In questi giorni si parla molto della cittadinanza italiana per i figli degli immigrati nati in Italia. Si vuole superare, ossia, il concetto di "ius sanguinis" che vige in tutt'Europa. Lungi da me entrare nell'argomento, per altro spinoso e irto di ostacoli etici e morali. Quello che voglio raccontare (anche se brevemente e concisamente), è, invece, il concetto di cittadinanza che vigeva nell'antica repubblica di San Marco.
Il cittadino. Chi era cittadino a Venezia? Ebbene si, esisteva la qualifica di cittadino nella città lagunare e rappresentava quel nucleo di persone che non facevano parte né della nobilità veneziana né del nucleo di resisenti esteri (ossia i foresti). Vale a dire la stragrande popolazione che comprendeva, anche se non questi termini moderni, quello che poteva essere la borghesia e il "popolino". Non si parla, invece, di sudditi. Cosa per altro unica nell'universo medievale.
Ma da dove veniva questa conquista? Già ai tempi in cui il ducato veneziano iniziava i suoi timidi passi nell'emancipazione bizantina, si erano creato dei gruppi di persone, chiamate liberi. Questi eleggevano il Dux, poi chiamato Doge, ossia il rappresentante politico e militare del ducato bizantino della Venetia et Histria. Man mano che Venezia si staccò da Bisanzio - per chi scrive questo avvenne attorno al XI secolo - si formò un'assemblea, poi chiamata Concio che eleggeva il capo del ducato. Il Concio era composto da cittadini e dal patriziato. Il suo compito, con alti e bassi, rimase pressoché intatto fino al 28 febbraio del 1297 (serrata del Maggior Consiglio), quando, con un colpo di mano, gli aristocratici esautorarono il potere dell'assemblea e la resero appannaggio della sola élite. Dal 1319 i cittadini furono esclusi completamente dall'elezione del Doge e da questa data in poi questo gruppo sociale fu diviso in due parti: Originarii e i cives de intus.
Chi erano gli Originarii. Come dice il nome, gli Originarii erano coloro che discendevano dalle famiglie dei liberi "originarie" della città di Venezia. Quindi i loro avi erano coloro che erano giunti in laguna nel tempo delle migrazioni e che avevano costruito la loro nuova patria. Oltre alle famiglie più antiche, vi erano quelle che erano riuscite ad entrare nel tessuto sociale venetico prima del 1297, e quindi, anch'esse, partecipanti alla costituzione del nuovo nucleo cittadino. Essi godevano della piena condizione di cittadinanza descritta dal motto latino intus et de extra ossia Venezianiani tout-court "dentro e fuori". Per raggruppare e per ordinare tutte le famiglie appartenenti a questa nuova classe sociale (utilizzando termini moderni) era stato istituito per legge nel 19 luglio del 1315, un "Libro d'Argento", che conteneva l'intera lista degli "orginarii". Lo stesso venne fatto per gli aristocratici, con il ben e più blasonato "Libro d'Oro della nobilità veneziana". Entrambi i libri erano mantenuti sicuri nel palazzo Ducale, precisamente nella sala dello scrigno.
Chi poteva iscriversi al libro d'argento?
- la discendenza onorevole (cioè legittima) da almeno tre generazioni di cittadini
- il non esercizio da almeno tre generazioni delle arti meccaniche
- il non comparire nel registro criminale, detto Raspa
- la contribuzione fiscale al Comune.
Quindi come si evince da queste regole, per altro non così dissimili dalle leggi moderne, l' "originario" doveva essere generato da un altro "originario", non doveva compiere un lavoro "manuale" (arti meccaniche), doveva avere una fedina penale pulita, ed infine doveva pagare le proprie tasse allo Stato. Se tutte queste regole venivano rispettate, ecco che il cittadino "originario" poteva ambire alle cariche più prestigiose che il suo ceto gli permetteva, come il cancelliere, l'avvocato, il segretario, il notaio all'interno dell'amministrazione comunale. Inoltre vi erano particolari spazi all'interno della marina mercantile e militare con relativi appannaggi di alto prestigio. Inoltre si poteva godere della possibilità di esercitare il commercio d'oltremare, ossia nelle colonie veneziane spare nel Mediterraneo, e di godere delle tutele a loro destinate in quei luoghi e da essere giudicati solamente dai Magistrati della Repubblica. Il massimo grado che un cittadino appartenente a questo gruppo era quello del Cancellier Grando, ossia il capo dell'intera burocrazia statale veneziana, secondo solamente al Doge (eletto dall'aristocrazia).
Chi erano i "Cives de intus tantum"? Essi costituivano una buona fetta della popolazione veneziana. Non godevano di tutti i diritti dei cittadini "originari", perché erano considerati Veneziani solamente all'interno della città. Si poteva divenire cittadino "de intus tantum" per grazia o per residenza. Pur con grosse limitazioni anche loro potevano partecipare al commercio oltremarino, ossia verso le colonie di proprietà della Serenissima. Essi non potevano ambire in alcun caso alle massime cariche della città, ma costituivano la massa lavoro che rendeva ricca e produttiva Venezia. Lavoravano nelle botteghe, nei cantieri, sulle galee e dove era richiesto il loro contributo. Questi cittadini, come gli "originarii" e i patrizi, erano tutelati dalle leggi della Repubblica e si costituivano, a loro tutela, nelle grandi e piccole Scuole. Queste istituzioni avevano ancora il potere di eleggere i gastaldi ducali, ossia dei rappresentanti del Duca (Doge). I cittadini, oltre ad essere raggruppati in arti e mestieri, venivano suddivisi in "sestieri", ossia le sei parti che compongono il tessuto urbano di Venezia. Per ogni sestiere era istituito un "caposestiere" che aveva dei compiti di sorveglianza e di polizia, tra cui il controllo delle persone residenti. Il governo veneziano, così, registrava quotidianamente la presenza dei cittadini e dei foresti. Quest'ultimi, erano gente di passaggio oppure residenti tenuti però fuori dalla politica della città. Molti foresti risiedevano nei loro fondaci (vedi quello dei Tedeschi o dei Turchi), oppure nei ghetti (quello ebraico di Venezia e primo al mondo).
Bersani: "Prima cosa che farei al governo? Ius soli, anche se gli italiani non vogliono". L'ex segretario del Partito democratico, a Stasera Italia, su Rete 4, torna a parlare di immigrazione. Difende l'operato di Minniti e invoca di nuovo lo ius soli, scrive Agostino Corneli, Mercoledì 27/02/2019, su Il Giornale. Pierluigi Bersani torna con le sue metafore. Questa volta, il tema è l'immigrazione e l'ex segretario del Partito democratico snocciola una delle sue mirabolanti figure retoriche a Stasera Italia, su Rete 4. Parlando del rischio sulla sicurezza legato all'rrivo dei barconi, Bersani ha detto: "Bisogna tirar via l'acqua buona, se c'è l'acqua cattiva vado con il badile". L'ennesima metafora di un leader politico da sempre noto per le sue frasi molto particolari, diventato poi un cavallo di battaglia delle imitazioni di Maurizio Crozza. La traduzione arriva qualche secondo dopo: "I barconi non ci sono già con Minniti, problema è che abbiamo 600mila irregolari, dove ci sono i buoni, i meno buoni e i cattivi". E il presidente di Articolo 1 ha continuato con un nuovo attacco a Matteo Salvini: "Citerò Berlusconi che ha detto Salvini dice 'ghe pensi mi' e i clandestini sono tutti qui". Già ieri, Bersani aveva attaccato il ministro dell'Interno durante la trasmissione Di Martedì, in cui il leader del partito di sinistra ha detto: "Tutte queste robe sui populismi sono sciocchezze. C'è una nuova realtà in Europa che può prendere una piega repressiva con qualche connotazione autoritaria". E questa sera è tornato con un altro suo cavallo di battaglia: lo ius soli. Aggiungendo anche se sarebbe la prima cosa che farebbe se tornasse al governo.
La sinistra torna alla carica: "Ius soli? Una battaglia di civiltà". Da Veltroni a Zingaretti: i dem di nuovo in campo per dare subito la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati, scrive Gianni Carotenuto, Domenica 24/03/2019, su Il Giornale. Non cambiare per non morire. Dicendo sì alla cittadinanza a chi nasce in Italia. Walter Veltroni e il neosegretario Pd, Nicola Zingaretti, insistono sulla necessità di battersi per i valori fondamentali della sinistra, compreso quello ius soli che era sparito temporaneamente dal dibattito politico prima di tornare in auge grazie all'ex ministro Graziano Delrio e alle sue parole sulla necessità di dare la cittadinanza ai figli degli immigrati dopo la polemica scoppiata tra il 13enne Ramy e Matteo Salvini. "Il Pd deve saper declinare i suoi valori in questo tempo della storia. Vengono oggi messi in discussione valori fondamentali, sociali, civili e umani. E questo vale, come dissi nel decimo anniversario del Pd, anche per lo ius soli", ha dichiarato oggi Veltroni a Repubblica. Secondo l'ex candidato della sinistra alle politiche 2008, su temi come lo ius soli "non bisogna avere paura di mettersi controcorrente. La sinistra non deve mai avere paura di essere se stessa". Ma Veltroni, fedele al suo "maanchismo", ha fatto alcune riflessioni sulla situazione politica generale italiana e in particolare sul Pd. "Ho votato Zingaretti, con convinzione. Non bisogna avere paura di mettersi controcorrente. La sinistra non deve mai avere paura di essere se stessa". Per quanto riguarda il futuro politico del Paese, secondo Veltroni il governo non durerà a lungo. "Reggerà fino alle europee e siccome non ci sono alternative possibili in Parlamento, si tornerà a votare". Poi scarica la "terza via" pentastellata: è il momento "di ricostruire in questo Paese un sano bipolarismo tra centrosinistra e destra. Già alle Europee si vedrà che ci sono solo due posizioni chiare", spiega Veltroni, che poi attacca la Lega. "È contro l'Europa. Noi siamo a favore e per quelli che stanno in mezzo, che vanno un giorno con i gilet gialli che assaltano Parigi e l'altro si ricordano di essere al governo, non c'è spazio", ironizza riferendosi ai 5 Stelle.
"C'è il rischio di una democrazia autoritaria". Quindi non poteva mancare la solita riflessione sull'involuzione autoritaria che starebbe subendo la democrazia italiana. "La democrazia ha bisogno di decisione e la decisione ha bisogno di controllo. Se non c'è equilibrio tra questi due elementi noi avremo la democrazia autoritaria, che può arrivare anche con il consenso popolare", la preoccupazione di Veltroni. Che poi scarica parzialmente Renzi: "Ha sbagliato molto ma non quando ha cercato di scrivere le regole del gioco insieme all'avversario. Poi quando l'arbitro fischia l'inizio della partita si è gli uni contro gli altri. Invece si fa spesso il contrario". Infine un commento sulle primarie e sul senso di essere di sinistra: "Il risultato delle primarie è importante: ha puntellato l'edificio pericolante. Ma non va sopravvalutato. Il grosso del lavoro deve ancora essere fatto. La sinistra è sempre esistita. Dai tempi di Spartaco, è stare dalla parte dei più deboli e dei diritti. Quando ha sposato la libertà, ha garantito prosperità e giustizia. Il vento spira dall'altra parte? E tu resisti e resisti, su quei valori. Sa quando si sparisce? Quando si ha paura di essere se stessi", la conclusione dell'ex leader Pd.
Zingaretti scrive a Repubblica: "Ius soli battaglia di civiltà". Oltre a Veltroni, anche Zingaretti è intervenuto sulla questione ius sanguinis.ius soli. In una lettera pubblicata su Repubblica, il segretario Pd scrive: "Non abbiamo bisogno di odio generato a volte dal rancore e dalla discriminazione, ma di un'Italia che dia opportunità a tutti e tutte. [...] La vicenda di Rami dimostra quanto questi ragazzi e ragazze si sentono pienamente e naturalmente parte della nostra comunità. Vivono, studiano e lavorano in Italia non possono e non devono rimanere nell’oblio. Solo così aiuteremo il nostro Paese a essere più forte, più coeso, e anche più sicuro", il commento di Zingaretti. Il quale, come Veltroni, lavora per spodestare Conte e Salvini: "Noi stiamo costruendo un’altra ipotesi di governo che, rispetto agli slogan e alla ricerca ossessiva del capro espiatorio, mira a mettere insieme tutte le forze migliori del Paese per rafforzare l’intera comunità, non per dividere. Serve un grande sforzo collettivo per realizzare un’idea di sviluppo fondata sulla sostenibilità ambientale e sociale".
I vescovi in campo a sostegno dello ius soli: "Chi nasce qui è italiano". La Chiesa e le associazioni si schierano con la sinistra e rilanciano la campagna sulla cittadinanza facile ai figli degli immigrati, scrive Francesca Bernasconi, Domenica 24/03/2019, su Il Giornale. "Una legge sullo ius soli è assolutamente necessaria perché è senza senso che un ragazzino che da anni vive in Italia debba fare l'eroe per avere riconosciuta la cittadinanza". Il riferimento è Rami Shehata, che ha salvato i compagni di classe, durante il sequestro del bus a San Donato Milanese. A parlare è Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento creato cardinale anche per l'impegno verso i migranti, che a Repubblica ha spiegato anche come sia "triste che il cantante Mahmood dopo aver vinto Sanremo, si sia sentito straniero nel suo Paese". I vescovi scendono in campo per la riforma sulla cittadinanza: "Lo ius soli offre al Paese maggiore sicurezza, perché significa far sentire parte delle nostre città chi in via formale ancora non lo è", sostiene monsignor Gian Carlo Perego. Anche Fausto Tardelli, vescovo di Pistoia, è sulla stessa linea dei "colleghi", schierandosi contro il decreto sicurezza e sostenendo che la privazione della cittadinanza "non può che essere sentita come una irragionevole discriminazione", anche nel caso in cui siano stati commessi reati. Sull'argomento ha speso parole anche l'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, che ha osservato come sia "assurdo che ci sia chi pensa di dare la cittadinanza a uno per toglierla ad un altro". Anche qui, il riferimento è al caso del bus dirottato a San Donato. Secondo Delpini, oggi più che mai, c'è bisogno di "gente che non vive calcolando il dare e l' avere", che non reagisca con l'odio e la rabbia, di fronte alla paura dell'altro. Oltre ai vescovi, a scendere in campo a sostegno della concessione della cittadinanza per chi nasce in Italia, sono anche diverse associazioni, che hanno deciso di mettersi al servizio degli "italiani senza cittadinanza", perché "i figli e le figlie degli immigrati non devono sentirsi più soli". Lo ius soli, che nella scorsa legislatura aveva fallito la presentazione in Senato, si è trovato davanti il "no" del nuovo governo. Ma i "cittadini italiani senza cittadinanza" si dichiarano pronti a battersi, perché "l'Italia - dicono - è il nostro Paese".
Il vescovo di Bologna difende l'immigrazione e rilancia lo ius soli. L'arcivescovo di Bologna, parlando a un gruppo di studenti, ha detto che l'immigrazione deve diventare "un'opportunità". C'è stato spazio pure per affrontare il tema della cittadinanza: "...i due ragazzini figli di immigrati del bus a San Donato Milanese. Sono italiani, anche se magari non è così burocraticamente", scrive Giuseppe Aloisi, Venerdì 05/04/2019, su Il Giornale. Avanti tutta con l'accoglienza dei migranti e con la promozione dello ius soli. L'arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Maria Zuppi, ci ha abituato a questo genere di dichiarazioni. Fa parte dei consacrati progressisti che si sono distinti per la critica alla gestione restrittiva dei fenomeni migratori. L'immigrazione, per il presule, deve diventare una "opportunità", mentre sul tema della cittadinanza basterebbe guardare al caso dell'attaccante della Juventus Moise Kean, che per il vescovo non può essere ritenuto un cittadino del Belpaese solo quando butta la palla in rete con la nazionale. Pure i "i due ragazzini figli di immigrati del bus a San Donato Milanese" per il monsignore sono già italiani. L'ecclesiastico ha avuto modo di pronunciarsi durante un'assemblea degli studenti dell'istituto Salvemini, così come riportato da Repubblica. Secondo la sua ottica, non sono tanto le procedure burocratiche a fare la differenza in materia d'integrazione, quanto la sostanza. C'è stato spazio pure per una ferma condanna degli episodi di razzismo. Matteo Maria Zuppi ha detto di provare "imbarazzo" nel vedere le scene in cui alcuni cittadini del quartiere romano di Torre Maura vengono ritratti mentre calpestano il pane destinato ai rom: "Ma è tutto sbagliato - ha sottolineato - , la vera lotta è alla povertà non ai poveri, per costruire il futuro. Ci sarà di più se le cose funzionano per tutti". Il presule non lo dice apertamente, ma c'è un chiaro riferimento all'estensione della cittadinanza. Quello, del resto, è uno degli strumenti individuati da buona parte della Chiesa cattolica per procedere con l'integrazione degli stranieri che risiedono in Italia. Pure perché "il prossimo" - ha insistito l'arcivescovo della diocesi dell'Emilia Romagna - deve essere considerato alla stregua di una "categoria umana".
Lo "Ius Soli" ed i soliti errori del Pd. La vicenda di Rami Shehata ha riportato d'attualità un tema in cui si concentrano tutte le problematiche della sinistra, scrive il 25 marzo 2019 Panorama. Si torna a parlare di Ius Soli, ovvero della norma che vorrebbe garantita ai giovani figli di extracomunitari nati nel nostro paese la cittadinanza italiana. Se ne torna a parlare dopo la vicenda della tentata strage sull'ormai famoso autobus di studenti della Paullese sventata proprio per l'eroica telefonata di un giovane, Ramy Shehata, figlio di marocchini ed in attesa ancora del nostro passaporto. "Cittadinanza subito" è stato l'immediato provvedimento stabilito dal Ministro dell'Interno, Salvini per il gesto eroico del giovane. Ma l'occasione era troppo ghiotta per la sinistra per non tornare sul tema. Da quel giorno non c'è occasione per ribadire e chiedere questo provvedimento per tutti, subito. Ovviamente Fazio ha subito invitato a "Che tempo che fa" il giovane sventolandolo come bandiera della sua ennesima battaglia politico culturale. Un ritornello già visto che però ci porta ad alcune riflessioni non tanto sul provvedimento in se (lo Ius Soli è una cosa seria e va pensata e gestita non per le emozioni di un gesto ma secondo una strategia politica e di accoglienza molto chiara) quanto sul comportamento del Pd e dei suoi uomini; comportamento dal quale emergono i soliti grandi errori che ha portato alla fine dell'epoca Renzi e alle sconfitte in ogni elezione degli ultimi 12 mesi. Il primo errore riguarda l'urgenza del provvedimento. Sentire adesso da Delrio a Zingaretti, da Fazio a Saviano, avanzare richieste pressanti sullo Ius Soli fa sorridere. Perché è fin troppo facile chiedere agli stessi richiedenti come mai non se ne siano occupati loro quando al Governo c'erano e ci sono stati, fino al 2018, per 5 anni e più. Il secondo errore riguarda la "lontananza" del Pd dalla gente. Si, perché nei bar come sui treni dei pendolari, in metropolitana come alle casse del supermercato, non ce ne vogliano Zingaretti e company, ma di cittadinanza non se ne parla. Si parla di pensioni, di lavoro (che non c'è), del fatto che "quest'estate o vado in vacanza o vado dal dentista, perché non ho i soldi per tutte e due le cose"; si parla di sicurezza, delle code negli ospedali. Un po' ci viene da arrossire pensando a queste problematiche banali, da gente comune, un po' rozza ed ignorante diranno loro rispetto alle "alte" questioni dei soliti (pochi e ricchi) radical chic. Ma questa è la stragrande maggioranza del paese che poi vota, di conseguenza (oggi Salvini si è portato a casa anche la Basilicata, dopo Abruzzo, Molise, Sardegna). Il terzo punto riguarda i mille volti di un partito di cui non si capisce la guida e la strada. Il primo infatti a parlare di Ius Soli è stato il sindaco di Milano, Beppe Sala. Che da tempo parla e si comporta come il vero volto nuovo del Pd senza però scendere in campo per davvero, magari alle recenti primarie. C'è poi un nuovo segretario, Zingaretti, fresco di elezione, che però deve fare i conti con mille divisioni. C'è Calenda che è dentro il partito ma intanto fa un movimento suo. E c'è sempre il fantasma di Renzi. Certo. E' facile prevedere che alle elezioni europee del 26 maggio il Partito Democratico arrivi vicino al 24% (da molti analisti definita quota fisiologica per la sinistra nel nostro paese). Un dato di crescita rispetto alle politiche del 2018 e che farà gridare alla vittoria e allo "stiamo tornando" tutti i dirigenti. Peccato che si tratti in realtà non della nascita di una nuova sinistra e di una nuova proposta ma del ritorno con la coda tra le gambe di migliaia di grillini scontenti. Per diventare davvero "proposta" in questo paese mancano molte cose al Pd. Tra queste di certo non c'è lo Ius Soli.
Sinistra come Tafazzi: pretende lo ius soli dal governo gialloverde. Il Pd prova a rompere l'asse M5s-Lega: sforzo vano. Salvini: non se ne parla, vedrò Ramy, scrive Francesca Angeli, Lunedì 25/03/2019, su Il Giornale. Ennesima scelta suicida del Pd. Incapace di far approvare la legge sullo Ius soli (il diritto alla cittadinanza per chi nasce in Italia) quando a Palazzo Chigi c'era Paolo Gentiloni, ora il Pd rilancia in modo del tutto pretestuoso la proposta con un governo a trazione leghista che del no allo Ius soli ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia. E infatti anche ieri Matteo Salvini lo ha ribadito. «Ius soli? Non se ne parla. L'Italia è già oggi il Paese che concede più cittadinanze ogni anno, non serve una nuova legge - ha scritto il vicepremier sulla sua pagina Facebook - La cittadinanza è una cosa seria e arriva alla fine di un percorso di integrazione, non è un biglietto per il Luna Park. In singoli casi eccezionali si può concedere anche prima del tempo, ma la legge non cambierà». Salvini però cambia tono nel rispondere al ragazzino eroe di San Donato Milanese, Ramy, che aveva espresso il desiderio di ottenere la cittadinanza anche per i suoi compagni di origine straniera. Dopo lo sfottò di due giorni fa, quando Salvini aveva ingiustificatamente schernito il ragazzino dicendo «se vuole lo ius soli si faccia eleggere in Parlamento», il vicepremier ieri ha scelto un registro diverso ed un tono più gentile: «Ramy? Stiamo proseguendo con tutte le verifiche del caso, spero di incontrarlo presto e ringraziarlo per il suo coraggio». La battuta di Salvini sul ragazzino egiziano non era piaciuta neppure al sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Per il sindaco, Salvini non deve «sfuggire» al dibattito sullo ius soli cavandosela con una battuta. Un tema complesso, aggiunge Sala, ma da affrontare perché «ci sono tanti ragazzi nati in Italia e che vivono la nostra cultura». A tentare di riportare il tema sul tavolo è anche il segretario del Pd , Nicola Zingaretti, che parla di «una questione di civiltà e diritti che si è riaffacciata prepotentemente nelle cronache politiche dopo la vicenda del bus e di ragazzi straordinari come Ramy». Intervento che segue quello di Graziano Delrio e Walter Veltroni. «Su temi come questo non bisogna avere paura di mettersi controcorrente», aveva detto l'ex sindaco di Roma. Ma dentro il Pd già volano gli stracci tra chi propone di rilanciare la battaglia e chi invece ricorda che quando la legge era a un passo dall'approvazione finale è mancata la spinta per farla passare anche al Senato, dopo il via libera alla Camera nel 2015 quando al governo c'era Matteo Renzi. Non crede ci sia alcuna possibilità pure Matteo Orfini. «Sappiamo benissimo che con i numeri di questa legislatura sarà quasi impossibile portarlo a casa (lo ius soli ndr). L'occasione l'abbiamo persa in quella precedente», osserva l'ex presidente del Pd. La speranza di una parte dei dem è sempre la stessa: cercare di infilare una zeppa nell'alleanza giallo verde con l'idea che i Cinquestelle, almeno la parte più vicina alle posizioni di Roberto Fico, possano sostenere lo ius soli e quindi trovare così una leva con la quale mettere in difficoltà l'asse Salvini - Di Maio. Strategia destinata a fare un buco nell'acqua visto che il vicepremier Luigi Di Maio e pure il premier Giuseppe Conte hanno ribadito che lo ius soli non è nell'agenda di governo. M5s non ha alcuna intenzione di scoprire il fianco per i diritti degli immigrati. Certo Salvini e Di Maio non faranno cadere il governo per l'affermazione dei diritti civili. E quando lo ius soli fu votato alla Camera tutto M5s si astenne.
Che tempo che fa, Fabio Fazio sfrutta i bimbi eroi: appello per la sinistra. Ma Salvini risponde: un massacro, scrive Tommaso Montesano il 25 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. Poteva mancare lui, Fabio Fazio, nella lista di coloro che approfittando del caso di Ramy e Adam tentano di rimettere in pista il carro dello "ius soli"? No che non poteva. Così il conduttore di Che tempo che fa, ieri sera, si è aggiunto di buon grado ai maggiorenti del Pd che dal 20 marzo - giorno della tragedia sfiorata sulla Paullese, con gli studenti Ramy Shehata e Adam El Hamami che con le loro telefonate sventano la strage e salvano i compagni di scuola - non fanno altro che (ri)parlare della legge per la riforma della cittadinanza. Come? Ospitando su Rai1 proprio i due ragazzi che hanno dato il via al nuovo tormentone sullo ius soli e Carlo Verdelli, direttore di Repubblica, il quotidiano che da tre giorni ha rilanciato in grande stile il tema della modifica delle norme sulla cittadinanza. E a occupare la scena, seppur assente, è stato quel cattivone di Matteo Salvini, reo di essersela cavata con una battuta - «questa è una scelta che potrà fare quando verrà eletto parlamentare» - di fronte al desiderio di Ramy di ottenere la cittadinanza italiana per sé e i suoi compagni. Fazio ha introdotto in studio i due ragazzi proprio facendo riferimento al dibattito politico di questi giorni: «Si sta parlando di dargli la cittadinanza. Speriamo...». Ramy e Adam hanno incontrato i due carabinieri protagonisti dell' azione che poi ha portato alla liberazione dei 51 studenti e all' arresto dell' autista Ouesseynou Sy: il militare che ha risposto alla telefonata al 112 e uno di coloro che hanno partecipato all' operazione. I due carabinieri hanno donato i berretti della loro divisa ai ragazzi, li hanno abbracciati e Fazio è andato in estasi: «È una foto bellissima». Il vero spot pro ius soli, però, è andato in scena dopo, quando è stato il turno di Verdelli. Il direttore di Repubblica, dopo aver ricordato che la riforma riguarderebbe «un milione di figli di stranieri nati e cresciuti in Italia», ha preso le distanze da Salvini rivendicando la battaglia per l' approvazione di una legge «che non è sentita solo dal centrosinistra, ma anche dai cattolici e da tante associazioni». Si tratta di scegliere, ha aggiunto, «tra la via dell' umanità e quella della paura. Mi auguro che prevalga la prima». Il capo del Viminale, dal canto suo, non ci pensa proprio ad aprire uno spiraglio sullo ius soli (con l' appoggio dell' alleato M5S). «Non se ne parla. L' Italia è già oggi il Paese che concede più cittadinanze ogni anno, non serve una nuova legge», ha sentenziato il ministro dell' Interno. Salvini ha però confermato che «in singoli casi eccezionali si può concedere anche prima del tempo». Parole il cui destinatario è naturalmente Ramy Shehata: «Stiamo proseguendo con tutte le verifiche del caso. Spero di incontrarlo presto e ringraziarlo per il suo coraggio, ma la legge non cambierà. La cittadinanza non è un biglietto per il Luna Park». Fatto sta che a sinistra da giorni non parlano d' altro che di ius soli. Ieri il Pd, pur di rimettere al centro dell' agenda politica la riforma della legge sulla cittadinanza, ha rispolverato nientemeno che Walter Veltroni. L' ex segretario, in un' intervista a Repubblica, si è detto d' accordo con la scelta del nuovo leader dem, Nicola Zingaretti, di riprendere in mano la bandiera della cittadinanza da concedere ai figli degli immigrati nati in Italia: «Il Pd deve saper declinare i suoi valori in questo tempo della storia. Vengono oggi messi in discussione valori fondamentali, sociali, civili e umani. E questo vale anche per lo ius soli». Parole che arrivano dopo quelle dei principali esponenti del Pd. A partire da Graziano Delrio, capogruppo alla Camera («con Zingaretti mi auguro che riprenderemo la battaglia»), cui lo stesso neosegretario democratico ha risposto a stretto giro di posta assicurando che proprio la riforma della cittadinanza sarà il fulcro di un «progetto di rinascita italiana». Ieri è salito sulle barricate anche il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che ha accusato Salvini di «sfuggire al dibattito» a colpi di battute. E i comitati civici di Matteo Renzi hanno annunciato una mobilitazione per «raccogliere le firme necessarie affinché il nostro Paese possa finalmente dotarsi di una legge giusta». E tutto grazie ai due ragazzi, Ramy e Adam. Circostanza che non è sfuggita a Maurizio Gasparri (senatore di Forza Italia): «Vergognoso sfruttare fatti di cronaca per alimentare una campagna pro immigrazione». Tommaso Montesano
Leopardi contro lo ius soli, scrive il 18 Settembre 2017 Diego Fusaro, Filosofo, su Il Fatto Quotidiano. Così leggiamo nello Zibaldone di Leopardi: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto”. Il poeta marchigiano anticipa le logiche dello ius soli come principio della distruzione della cittadinanza. Vi sono, in effetti, due vie possibili per dissolvere i fondamenti della vita etica, dalla cellula originaria della famiglia al compimento assoluto della cittadinanza nell’orizzonte dello Stato nazionale. Si può, per un verso, procedere per riduzione, negandoli in quanto tali e dichiarandoli superati. Per un altro verso, è possibile operare per estensione indifferenziante, facendo sì che famiglia e cittadinanza siano tutto astrattamente senza esclusioni e, dunque, nulla lo sia più in concreto: se tutto, senza distinzioni, è famiglia, nulla lo è più concretamente. Se tutto è, indistintamente cittadinanza, nulla lo è più concretamente: quanti più diritti si estendono ai non-cittadini, tanto più la categoria di cittadinanza smarrisce il suo valore e si dissolve. Secondo il detto spagnuolo, todos caballeros: se tutti sono cavalieri è evidente che, di fatto, nessuno è più cavaliere.
Prevale, con il sintagma hegeliano, la figura dell’eguaglianza dell’irrilevanza, mediante la quale si è tutti eguali nel senso di egualmente irrilevanti. Per questa via, la distanza tra l’élite dominante post-borghese e la nuova plebe precarizzata si fa ogni giorno più netta e più simile a quella che separa l’allevatore dal bestiame o, più precisamente, dal gregge omologato e indifferenziato. In luogo del cittadino avente diritti e doveri nel quadro dello Stato nazionale, viene definendosi il nuovo profilo dell’atomo errante e consumista, che si muove senza radici negli spazi aperti del mercato globale: nell’apoteosi dell’uguaglianza dell’irrilevanza, si disgrega in forma individualistica il popolo stesso come demos, ossia come gruppo singolare collettivo di individualità comunitarie che decidono collettivamente della propria esistenza sociale e politica. Le masse individualizzate e post-nazionali figurano, infatti, come sempre più passive, remissive e politicamente inattive, prone ai voleri dei nuovi autocrati della mondializzazione. Riducendo il mondo intero all’open space del sistema dei bisogni retto dall’insocievole socievolezza mercatistica, il capitale neutralizza la base dell’eticità (la famiglia) e il suo compimento (lo Stato): dissolve tanto la figura del figlio con padre e madre quanto quello del cittadino figlio della “famiglia universale” della società civile.
Immigrazione: Gad Lerner vs Leopardi, scrive il 12 Maggio 2015 Helmut Leftbuster su qelsi.it. Secondo Pirandello non era indispensabile trovare l’assoluto fra due punti di vista; e gli si potrebbe anche dar ragione, a patto però di riconoscere ad entrambi i punti di vista la medesima dignità di partenza. Invece, sul tema “immigrazione”, pietra dello scandalo dei nostri tempi, si santificano i “pro” e si criminalizzano i “contro” ancor prima d’averci ragionato sopra, e, nel mentre, anziché optare per strategie neutre e prudenti, si spalancano le porte della Casa comune, i confini nazionali, a miriadi di pasciuti sconosciuti meritevoli solo di non aver nemmeno bussato. Osservandoli bene, però, gli attuali profeti dell’immigrazionismo non vedono tra le proprie file alcuna trasversalità democratica: sono un manipolo di “pensatori”, attori, giornalisti e politici di quella sinistra-chic che, anche volendo, mai potrebbe rinunciare al dogma del “privilegiare il diverso”, dopo averne fatto un mantra elettorale destinato a portarle sempre più voti e consensi soprattutto man mano che gli immigrati acquisteranno la cittadinanza.
Secondo costoro “l’immigrazione deve farsi progetto perché senza di essa non c’è né ripresa né risorgimento”. Ma che frase è? Che cosa significa? In quali precedenti storici, sociologici, logici trova conforto una simile astrusità? E quanta capricciosa arroganza c’è in questi pensatori nel momento in cui, dopo aver espresso la propria opinione, non accettano le conclusioni tratte in proposito dal Pubblico amministratore che agisce in contrasto con le loro idee, decidendo così di ricattarlo col broncio come farebbe un bambino a cui si negasse il lecca-lecca. Ebbene, vediamo ora chi c’è dall’altra parte del ring dialettico: anzitutto tanta gente stufa delle manifeste controindicazioni del “cosmopolitismo”, ma che, ammutolita dal terrore di essere definita “razzista”, resta silente, pur non per questo divenendo inesistente. Certo, andrebbe aiutata ad essere consapevole del proprio diritto costituzionale a dissentire, ed a questo stanno provvedendo i pochi veri anticonformisti rimasti a sfidare la censura politicamente corretta (citiamo Povia e Ruggeri, ma non sono i soli) che tentano in tutti i modi di svelare il “Re Nudo” che si cela dietro il carrozzone buonista.
Ma soprattutto ci sono grandi voci dal Passato: un certo Giacomo Leopardi scriveva: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe piú cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu piú patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto ” (Leopardi, “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”, Firenze, Successori Le Monnier, 1898, pp. 457-8.)
Con chi stare, dunque, con Gad Lerner e Manconi, o con Leopardi? Anzitutto bisognerebbe saper stare con la propria testa; e poi bisognerebbe ricordarsi che il Passato è come un genitore, un adulto che ha già vissuto ciò che il giovane vive per la prima volta, iniziando dai traumi, dagli abbagli e dalle delusioni. L’Adulto non deve impedire al Giovane di compiere le proprie cadute con le proprie gambe; ma nemmeno il Giovane può essere così stolto da disattendere gli insegnamenti derivanti dalla migliore scrematura delle esperienze storiche che l’Adulto può e deve tramandargli. Quindi, chi oggi pensa di trovare soluzioni epocali tirandole fuori dal cilindro di dottrine che hanno ancora il mocciolo al naso, non rischia di farsi male solo a proprie spese, ma mette in gioco il destino di tutti: e questo è inammissibile.
L'impero romano? Cadde per i pochi nati e i troppi stranieri. Arriva da noi il libro che ha diviso la Francia per il polemico parallelo tra il passato e oggi. Rino Cammilleri, Venerdì 30/09/2016, su Il Giornale. Già esaurito e in ristampa, il libro dello storico Michel De Jaeghere Gli ultimi giorni dell'Impero Romano che arriva ora in Italia (Leg, pagg. 624, euro 34), è uscito due anni fa in Francia e, là, ha sollevato un putiferio. Perché? Perché l'autore dimostra che quella civiltà collassò per le seguenti cause: a) crollo demografico, per far fronte al quale si inaugurò b) una persecuzione fiscale che c) distrusse l'economia; allora si cercò vanamente di ovviare tramite d) l'immigrazione massiccia. Che però si trascurò di governare. Se tutto questo ci ricorda qualcosa, abbiamo azzeccato anche il motivo per cui gli intellò politicamente corretti d'oltralpe sono insorti. La vecchia tesi di Edward Gibbon, che è settecentesca e perciò più vecchia del cucco, forse poteva andar bene a Marx, ma non ha mai retto: non fu il cristianesimo a erodere l'Impero Romano, per la semplice ragione che la nuova religione era minoritaria e tale rimase a lungo anche dopo Costantino. L'Impero cessò ufficialmente nel V secolo, quando i cristiani erano neanche il dieci per cento della popolazione. Solo nella pars Orientis erano maggioranza. Infatti, Bisanzio resse altri mille anni: quelli che combattevano per difenderla erano tutti cristiani. E pure a Occidente erano cristiani soldati (inutilmente) vittoriosi come Ezio e Stilicone. Michel De Jaeghere, direttore del Figaro Histoire, fa capire che tutto cominciò col declino demografico. I legionari, tornati a casa dopo anni di leva, mal si adattavano a una condizione di lavoratori che, quanto a profitto, li metteva a livelli quasi servili. Così andavano a ingrossare la plebe urbana, cui panem et circenses gratuiti non mancavano. Le virtù stoiche della pietas e della fidelitas alla res publica vennero meno, e il contagio, al solito, partì dalle élites. Nelle classi alte si diffuse l'edonismo, per cui i figli sono una palla al piede. Coi costumi ellenistici dilagarono contraccezione, concubinaggio e divorzio, tant'è che Augusto dovette emanare leggi contro il celibato. Inutili. Anche perché, secondo i medesimi costumi, l'omosessualità era aumentata in modo esponenziale. Roma al tempo di Cesare aveva un milione di abitanti: sotto Romolo Augustolo, l'ultimo imperatore d'Occidente, solo ventimila. Già nel II secolo dopo Cristo l'aborto aveva raggiunto livelli parossistici e, da misura estrema per nascondere relazioni illecite, era diventato l'estremo contraccettivo. Solo i cristiani vi si opponevano, ma erano pochi e pure periodicamente decimati dalle persecuzioni. Così, ogni volta i censori dovevano constatare che di gente da tassare e/o da mandare a difendere il limes ce n'era sempre meno. Le regioni di confine divennero lande semivuote, tentazione fortissima per i barbari dell'altra parte. Si pensò allora di arruolarli: ammessi ai benefici della civiltà romana, ci avrebbero pensato loro a difendere le frontiere. E ci si ritrovò con intere legioni composte da barbari che non tardarono a chiedersi perché dovevano obbedire a generali romani e non ai loro capi naturali. Metà di loro erano germanici, e si sentivano più affini a quelli che dovevano combattere. La spinta all'espansione era cessata quando i romani si erano resi conto che, schiavi a parte, in Europa c'era poco da depredare. I barbari, invece, vedevano i mercanti precedere le legioni portando robe che li sbalordivano (e ingolosivano). Si sa come è andata a finire. Intanto, che fa il fisco per far fronte al mancato introito (dovuto alla denatalità)? La cosa più facile (e stupida) del mondo: aumenta le tasse. Solo che gli schiavi non le pagano, e sono il 35% della popolazione. Gli schiavi non fanno nemmeno il soldato. I piccoli proprietari, rovinati, abbandonano le colture, molti diventano latrones (cosa che aumenta il bisogno di soldati). Il romano medio cessa di amare una res publica che lo opprime e lo affama, e non vede perché debba difenderla. Nel IV secolo gli imperatori cristiani cercarono di tamponare la falla principale con leggi contro il lassismo morale, intervenendo sui divorzi, gli adulteri, perfino multando chi rompeva le promesse matrimoniali. Ma ormai era troppo tardi, la mentalità incistata e diffusa vi si opponeva. Già al tempo di Costantino le antiche casate aristocratiche erano praticamente estinte. L'unica rimasta era la gens Acilia, non a caso cristiana. Solo una cosa può estinguere una civiltà, diceva Arnold Toynbee: il suicidio. Quando nessuno crede più all'idea che l'aveva edificata. Troppo sinistro è il paragone con l'oggi, sul quale, anzi, il sociologo delle religioni Massimo Introvigne in un suo commento al libro di De Jaeghere ha infierito affondando il coltello nella piaga: i barbari che presero l'Impero non avevano una «cultura forte» e riconoscevano la superiorità di quella romana. Infatti, ne conservarono la nostalgia e, alla prima occasione, ripristinarono l'Impero (Sacro e) Romano. Si può dire lo stesso degli odierni immigrati islamici? I quali pensano che la «cultura superiore» sia la loro?
· Il Vademecum per espatriare illegalmente.
AVETE INTENZIONE DI ESPATRIARE? Dal “Fatto quotidiano” il 5 maggio 2019. È uscito "Consigli per essere un bravo immigrato" di Elvira Mujcic: qui l' autrice italo-bosniaca ci spiega, con ironia, il senso del libro. Se un giorno ci trovassimo davanti a una giuria e la nostra sorte dipendesse da come sappiamo raccontare la nostra vita? Se il diritto a ottenere documenti validi per un'esistenza legale fosse determinato da quanto la storia che raccontiamo risulta convincente? D'accordo, sembra un gioco orwelliano o peggio un episodio di una serie tv distopica, invece accade esattamente questo a chi riesce, dopo un tortuoso e lungo percorso, ad arrivare in Italia e fare domanda di asilo o protezione internazionale. La Commissione territoriale è uno degli ultimi ostacoli nell'Odissea di un migrante e la richiesta che gli pone è quanto di più vicino alla letteratura ci sia oggigiorno. Tuttavia non è subito chiaro l' intento letterario, poiché l' iter è ingarbugliato in una lingua, il burocratese, che svilisce, disumanizza e soprattutto distorce. In questa lingua fantascientifica, la vita dell' essere umano prende il nome di modulo C3 ; la narrazione di sé è sinonimo di audizione con sfumature tendenti a un interrogatorio; e l' esito finale di questo gioco può essere di riconoscimento o di diniego. Che bella parola "riconoscimento", alcuni antropologi la propongono in sostituzione alla più spinosa "identità", e che conquista rara ottenere che il proprio vissuto venga ascoltato, visto, protetto. Decisamente meno entusiasmante ricevere l' etichetta di "diniegato" oppure "negativo". Ma se le vite dei migranti sono un genere letterario, quali sono i criteri, le aspettative e gli stereotipi da rispettare affinché la storia possa funzionare? Sì, funzionare, perché non è con la verità che si ottengono i documenti, bensì con alcuni ingredienti ed espedienti narrativi imprescindibili, poiché unicamente alcuni tipi di vicende possono ottenere la protezione, però si chiede a tutti di presentarsi all' audizione e dunque cosa fare se non si ha avuto la fortuna di avere una vita abbastanza devastante da meritarsi l' Europa? Nessuna paura, basterà spostare un pochino la realtà per farla aderire a un' idea e tenere a mente una serie di indicazioni per partecipare alla gara e, se si è nati sotto la buona stella, vincere una bella protezione internazionale.
- Il clima che domina l' audizione è all' insegna del sospetto, tutti bugiardi fino a prova contraria. Si ascolta con l' intento di frugare, sconquassare, verificare e smontare.
- La credibilità si basa su una serie di apparenze e idee su come dovrebbe essere un immigrato (non mettere su peso: non si sono mai visti profughi paffutelli; non vestirsi bene, non mostrarsi troppo resilienti).
- Si pretende che il migrante sia contemporaneamente il testimone e lo storico della propria esperienza; non basta che abbia vissuto, deve anche essere un osservatore attento che guarda agli eventi in modo distaccato e li riporti alla Commissione con la neutralità di un cronista di Rai Storia, riducendo biografie fatte di mappe caotiche e deviazioni a un racconto logico e lineare.
- La sua vita deve essere drammatica, costellata di morti e torture.
- La guerra è il tema migliore, vanno bene anche le persecuzioni per motivi politici e di orientamento sessuale.
- Tutto deve essere verificabile, se i rapporti delle organizzazioni internazionali certificano che c' è una persecuzione omosessuale in Nigeria, allora c' è, altrimenti no.
- La povertà no, non è un tema vincente, il diritto alla mobilità e al viaggio invece è senza ombra di dubbio un tema perdente.
- Sarebbe bene fornire un prova inconfutabile: il certificato medico, quasi certo il successo se attesta le ferite fisiche, mentre quelle interiori sono ingannevoli e difficilmente verificabili.
- Il tono e lo stile devono essere adeguati, evitare ogni accenno di ironia e di leggerezza, non sono le risate ciò che ci si aspetta da chi è scampato alla morte.
Infine non c' è che da restare in attesa, ci vuole pazienza, la rabbia no, non è civile. Resistere, in apnea, senza mai perdere di vista l' obiettivo e la convinzione che il riconoscimento dei documenti permetterà di smettere i panni di un modulo C3 e tornare alle sembianze umane.
· Immigrati: la parola alle Forze dell’Ordine.
Stranieri e criminalità, il problema esiste: lo dice il Capo della Polizia. Il Prefetto Gabrielli conferma: "Gli stranieri che sono il 12% della popolazione compie il 33% dei reati". Come la mettiamo ora? Andrea Soglio il 4 ottobre 2019 su Panorama. «I dati sulla criminalità sono incontrovertibili, da 10 anni c’è un trend complessivo di calo dei reati. Ma c’è anche, negli ultimi anni, un aumento degli stranieri coinvolti tra arrestati e denunciati, questo è inequivocabile». Boom! A lanciare la bomba è il Prefetto Franco Gabrielli, Capo della Polizia durante un convegno a Roma in cui ha illustrato gli ultimi dati sulla criminalità e sicurezza in Italia. Ed i numeri, ha spiegato Gabrielli sono "inequivocabili". Sgomberiamo subito il campo dai malintesi: Gabrielli è da sempre uomo dello Stato, stimato da tutti, anche dall'attuale Governo. Non ha la tessera della Lega, non va a Pontida e nemmeno al Papeete. Quindi quando fa un'affermazione questa non è macchiata da chissà quale idea politica ma basata su fatti, conoscenze, esperienza. "Gli stranieri - ha spiegato - sono responsabili del 33% dei reati; ed essendo il 12% della popolazione questo dà la misura del problema". Traduzione: in Italia c'è un problema sicurezza legato agli stranieri, regolari e non. I reati infatti nel loro complesso stanno calando ma ben un crimine su 3 vede come responsabile uno straniero. E, da questo punto di vista, non c'è alcuna riduzione. A voler fare i precisi il rapporto tra un cittadino italiano e la criminalità è dello 0,75%. Lo stesso rapporto calcolato per uno straniero è del 33%, cioè oltre 40 volte tanto. Un'ammissione non da poco quella di Gabrielli che sdogana quell'idea che il problema della sicurezza legato agli stranieri fosse solo un'affermazione malsana del Salvini o del razzista di turno. Invece è un dato di fatto, comprovato dai numeri. Cifre e considerazioni che arrivano mentre i porti italiani sono aperti più che mai e le frontiere con gli altri paesi chiusi e blindati. Non c'è da star tranquilli, anzi, sicuri. Lo dicono i numeri, lo dice il Capo della Polizia.
GLI IMMIGRATI CI CONTAGIANO CON LA TUBERCOLOSI”. Lorenzo Mottola per “Libero quotidiano” il 30 settembre 2019. Mentre il presidente del Consiglio gira tra Bruxelles e New York raccontando di aver impresso una «svolta storica» sulle questioni migratorie, in Sicilia i profughi raddoppiano, ogni tanto scappano e se non lo fanno vengono tenuti in centri con fogne a cielo aperto. I poliziotti italiani raccontano di sbarchi continui, tra barchini fantasma che compaiono nella notte e navi delle Ong che hanno ripreso allegramente la loro attività. «Non possiamo gestire la situazione» ci racconta Stefano Paoloni, numero uno del Sap, sindacato degli agenti, «il sistema è già in tilt da ogni punto di vista, sanitario e numerico. E noi siamo troppo pochi per affrontare tutto questo».
Qual è la situazione in Sicilia con il nuovo governo? Sono ripresi gli arrivi dalla Libia come ai tempi di Gentiloni?
«A Lampedusa le presenze hanno già superato il migliaio di unità, i miei colleghi sono costretti ad affrontare turni di dodici ore di fila per far fronte all' emergenza».
Ci sono state già tensioni?
«Normalmente al momento dell' arrivo gli immigrati non danno problemi. In qualche modo, pensano di aver ottenuto il loro obiettivo, quindi sono calmi. I rischi sono di altro genere dopo l'approdo. Per esempio, c' è una situazione sanitaria da tenere monitarata».
Ci sono stati casi di contagio?
«Nel tempo sì, per esempio qualche collega è risultato positivo alla Tbc».
Con quali esiti?
«Risultare positivi non significa aver contratto la Tbc, però questo obbliga a un percorso terapeutico molto pesante, che debilita particolarmente il fisico per sei mesi e preclude alcune attività. Non si può prendere il sole, si avvertono dolori alle articolazioni. Sono terapie preventive per evitare che si possa sviluppare la malattia con una cura antibiotica».
Dicevamo delle tensioni, nelle strutture per l'accoglienza, quanto sono frequenti?
«Nei centri di lunga permanenza capita spesso che cerchino di inscenare rivolte per tentare di darsi alla fuga. Danno fuoco ai materassi, lanciano oggetti contro gli agenti. Cercano di alimentare scontri con i pretesti più disparati: una volta perché non c' era il wi-fi, un' altra volta perché il cibo non era di gradimento degli ospiti, ma la finalità ultima è sempre quella di tentare la fuga».
E qualcuno ci riesce? Non si leggono spesso notizie al riguardo.
«Certo che scappano. E in effetti no, di norma non ne viene data notizia. Per esempio qualche tempo fa, in occasione di un' evasione dai numeri particolarmente rilevanti, fummo noi a segnalare la cosa ai giornali. E una parte degli evasi non venne mai rintracciata».
In che condizioni sono questi centri?
«Al limite. I richiedenti asilo devono rimanere qui per 180 giorni in condizioni igienico-sanitarie veramente terribili, come nel caso di Trapani».
Cosa succede a Trapani?
«Stanno facendo dei lavori, di conseguenza le fognature sono scoperte. I poliziotti devono lavorare di fianco ai liquami a cielo aperto, facile immaginare quale possa essere l' odore...».
Riguardo al numero degli sbarchi abbiamo letto cifre di ogni genere, a sinistra confermano gli aumenti ma c' è chi dice che sia un dato dovuto solo alle condizioni meteo positive.
«Beh non penso proprio, anche a luglio e agosto abbiamo avuto un tempo ottimo, ma è in settembre che abbiamo notato un picco importante degli arrivi, sia con le navi delle Ong, sia con i cosiddetti barchini fantasma».
Il governo ha attivato delle procedure d'emergenza?
«Diciamo che è presente un dispositivo che gestisce l' ordinario, ma non basta quando i numeri crescono».
E oggi di che numeri parliamo?
«Sicuramente possiamo dire che il flusso è raddoppiato rispetto ad agosto. Il sistema è ormai in tilt, siamo troppo pochi. E dopo dieci ore di lavoro è chiaro che un agente perde lucidità, si rischia che il sistema collassi, soprattutto con la possibilità che gli arrivi aumentino in maniera esponenziale».
Insomma, è tornato tutto come nel periodo pre-Salvini...
«Non ancora, due anni fa avevamo migliaia di sbarchi soprattutto nel fine settimana».
Come mai nel fine settimana?
«Non conosco le motivazioni, ma è così. Venerdì, sabato e domenica erano i giorni di maggior afflusso. Migliaia di ingressi rispetto alle poche decine dei giorni infrasettimanali. Forse perché c' era una maggior disponibilità da parte delle forze dell' ordine, studiavano il momento migliore...».
Gli scafisti preferiscono lavorare nel weekend...
Immigrato irregolare ruba e picchia i Carabinieri: PM non convalida l’arresto. Andrea Pasini il 29 settembre 2019 su Il Giornale. Apprendo da un articolo pubblicato da Il Giornale online che a Milano e più nello specifico in via delle Forze Armate un cittadino iracheno stranamente irregolare sul territorio nazionale, entra nel Carrefour per fare la spesa ed esce senza pagare il conto. Il vigilantes in servizi in quel punto vendita lo blocca e gli chiede di mostrare cosa nascondesse sotto il giubbotto: a quel punto il malvivente inizia ad agitarsi, prende il paletto divisorio del supermercato e lo usa per colpire in testa la guardia giurata che riesce nel parapiglia a recuperare una bottiglia rubata dall’irregolare . L’iracheno scoperto se la dà a gambe e si infila nel parco delle Cave. I carabinieri, avvertiti dal vigilantes, si mettono sulle sue tracce. Dopo qualche minuto il delinquete viene scoperto capisce di essere in trappola ed invece di arrendersi aggredisce pure i carabinieri in servizio. Non c’è due senza tre. Solo alla fine la pattuglia riesce a caricarlo in macchina e a portarlo via, non senza difficoltà. E qui purtroppo viene il bello. L’immigrato iracheno, proveniente dalla Germania, viene denunciato per rapina impropria e resistenza a pubblico ufficiale. Il suo curriculum dice che è un clandestino che, dopo aver presentato richiesta di asilo all’Italia, si è visto respingere al mittente la domanda di accoglienza. In teoria dovrebbe essere altrove, invece si trova a bighellonare per la città meneghina come moltissimi altri nella sua stessa situazione di illegalità. Ora vi domanderete convinti: l’avranno arrestato? E invece no! Come fanno sapere fonti militari al Giornale.it infatti, il Pubblico Ministero di turno ha deciso di non farlo arrestare perché secondo il magistrato per due bottiglie di vino convalidare l’arresto di una persona è esagerato. Il fatto è che ha preso in considerazione come metro di valutazione la merce rubata e non il gesto violento che il delinquete ha causato alla guardia giurata es ai carabinieri. Cioè non è stato considerato l’aver opposto resistenza al pubblico ufficiale e aver ferito il vigilantes. Certo, la guardia giurata ha preferito non farsi medicare al pronto soccorso e questo sicuramente ha influito sulla scelta del PM, perché un referto medico con una prognosi avrebbe sicuramente contribuito ad aggravare la situazione penale del malvivente, ma è inevitabile che i carabinieri storcano il naso. I militari si gettano all’inseguimento del criminale, faticano a fermarlo e dopo cinque minuti se lo ritrovano nuovamente in strada. Altre volte, sussurrano i militari, “ce li fanno arrestare anche solo per uno spintone”. Stavolta invece no. Tecnicamente si dice in gergo: denunciato a piede libero. Ovvero, una beffa. E questo per un cittadino onesto e per la società tutta non è di certo un bel messaggio da ricevere. Uno straniero irregolare sul territorio nazionale, che entra in un Supermercato, ruba dei prodotti viene scoperto da una guardia giurata e per scappare la aggradisce, si dà alla fuga, cerca di nascondersi dai carabinieri che nel frattempo lo stavano cercando perché allertati dalla guardia giurata aggredita, fortunatamente lo trovano e questo picchia anche i militanti, viene arrestato ed il Pubblico Ministero lo libera dicendo che l’arresto è troppo esagerato per due bottiglie rubate. Ma secondo voi tutto questo rappresenta una cosa normale? Io credo proprio di no! Anche perché questa scelta del Pubblico Ministero è uno schiaffo in faccia a chi tutti i giorni vive rispettando la legge e le regole. Mantenendo sempre alto il profondo rispetto che mi lega alle istituzioni come ad esempio in questo caso alla magistratura devo però con molta onestà intellettuale affermare che purtroppo episodi di questo genere fanno perdere un po’ di credibilità verso le istituzioni come in questo caso verso la magistratura da parte dei cittadini onesti e per bene.
· Porte aperte giudiziarie. Cassa-cittadinanza e omo-cittadinanza.
In Tribunale viene prima il migrante: cause rinviate al 2022. Il documento della corte di Appello di Bologna: rinviate decine di udienze. La legge prevede la "trattazione prioritaria" delle cause di protezione internazionale dei migranti. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 26/11/2019 su Il Giornale. Una valanga di rinvii in Tribunale, anche di due anni. Arrivederci al 2021. Il motivo? "La trattazione prioritaria per legge delle cause di protezione internazionale". Cioè, prima vengono gli immigrati. Poi tutte le altre cause. È questo il sunto del decreto datato 22 novembre 2019 e firmato dal presidente della seconda sezione civile della Corte di Appello di Bologna. Un documento che ilGiornale.it ha avuto modo di consultare e che ha attirato l'attenzione di qualche avvocato. Nel testo si legge: "Dato atto che l'incremento della cause di protezione internazionale (conseguente alla assegnazione alla seconda sezione civile della maggior quota del 70% delle sopravvivenze a far data dal 2.05.2018) ha ulteriormente appesantito il già rilevante carico decisorio dei consiglieri della seconda sezione", allora è necessario "il rinvio" delle udienze fissate per il 2, 10 e 17 dicembre 2019. Si tratta di 44 cause. In molti casi il primo grado si era chiuso, pensate, nel lontano 2012. Tra pochi giorni i malcapitati avrebbero avuto la loro udienza, invece nisba: tutto rimandato al 2021, in certi casi anche ad ottobre 2022. Esatto: tra tre anni. Non bastano i già infiniti tempi della giustizia nostrana. Ora ci si mettono pure i migranti. Va dato atto che la "colpa" di tali rinvii non è del presidente Maria Cristina Salvadori. Per carità. C'è una legge (quella Minniti-Orlando) che garantisce ai ricorsi degli stranieri contro il diniego dell'asilo una sorta di autostrada perché va gestita "in ogni grado in via d'urgenza". "La trattazione prioritaria per legge delle cause di protezione internazionale - si legge infatti nel decreto bolognese - impone inevitabilmente il differimento delle altre numerose cause già fissate per la precisazione delle conclusioni". L'obiettivo era quello di accelerare le decisioni che ingolfano i Tribunali. Ma in questo caso ha prodotto un altra conseguenza: il sorpasso dei migranti e il rinvio delle altre cause. Il problema non è solo delle corti di Appello. A gennaio il presidente della Cassazione, Giovanni Mammone, aveva lanciato l'allarme: un aumento "inatteso" nel 2018 dei ricorsi civili in terzo grado in materia di protezione internazionale (+512,4%). David Ermini, vicepresidente del Csm, parò addirittura di "emergenza". In fondo il sistema è ormai acclarato: l'immigrato sbarca, presenta una domanda di asilo e poi attende di essere convocato dalla Commissione territoriale. Questa lo ascolta, valuta la sua istanza e poi decide: status di rifugiato, protezione sussidiaria o diniego. In caso di bollino rosso, però, lo straniero ha tempo per presentare un ricorso in primo grado. Fino alla riforma del 2017 era possibile presentare ricorso in Appello in caso di sentenza negativa, ora solo in Cassazione. Resta il fatto che nei Tribunali le istanze dei richiedenti asilo da giudicare sono ancora molte. E così non resta che rinviare al 2022 i cittadini che attendono giustizia.
Prima gli immigrati, pure in Tribunale. La Verità pubblica un documento della Corte d'Appello di Bologna che rinvia le cause fino al 2022 per dare la priorità a quelle dei migranti a cui è stato negato lo status di rifugiato. Mario Giordano il 26 novembre 2019 su Panorama. Prima gli italiani? Macché: prima gli immigrati. Come nelle graduatorie per le case popolari, anche nei calendari dei tribunali, il sedicente profugo mette la freccia e passa davanti al sig. Rossi di turno. Il quale, se vuole, avere un po’ di giustizia, deve probabilmente aspettare quella divina, Su quella umana c’è poco da fare affidamento, da sempre. Figurarsi ora che per avere udienza bisogna aspettare che siano accontentate le legittime richieste di ogni Mohammed, Souad, Alì, fino all’ultimo Mustafà. La cosa incredibile è che tutto ciò viene scritto , nero su bianco, senza pudore alcuno, da chi gestisce la giustizia italiana. Quella che vedete, per esempio, è una comunicazione della Corte di Appello di Bologna, seconda sezione civile. La data del documento è il 22 novembre 2019, le firme quella della presidente (Maria Cristina Salvadori) e dell’assistente giudiziario (Laura Pellegrini). Comincia così: “Dato atto che l’incremento delle cause di protezione internazionale ha ulteriormente il già rilevante carico…”. Poi prosegue: “Rilevato che la trattazione prioritaria per legge delle cause di protezione internazionale impone inevitabilmente il differimento delle altre numerose cause già fissate…”. E, quindi dispone “il rinvio delle sottoelencate cause” che erano previste nel mese di dicembre 2019. Il messaggio è piuttosto chiaro, nonostante la formulazione un po’ burocratica. Dice la Corte d’Appello: siccome siamo inondati dalle cause di protezione internazionale, che hanno la precedenza, siamo costretti a rinviare tutto il resto. Prima gli immigrati, insomma, anche nelle aule di giustizia. A costo di far diventare i processi degli altri ancor più lunghi di quello che già sono. Ho dato infatti un'occhiata alle “sottoelencate cause” della comunicazione della Corte d'Appello di Bologna. Ed è piuttosto impressionante vedere che, pur essendo tutte piuttosto datate (alcune del 2012, altre del 2013, altre più recenti) vengono rinviate non di poco: una addirittura al 19 ottobre 2022...
La sentenza del tribunale di Roma, illegali le espulsioni collettive. Simona Musco il 4 Dicembre 2019 su Il Dubbio. La Marina riportò indietro 89 eritrei: violati I diritti dell’uomo. Il nostro paese dovrà versare 15mila euro a ciascun migrante, al quale dovrà garantire anche il diritto di presentare la negata richiesta di protezione internazionale. «Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate» ed è per questo che lo Stato dovrà risarcire con 15mila euro a testa e l’accoglimento della richiesta d’asilo un gruppo di migranti riportati con la forza in Libia dalla Marina militare italiana. È una sentenza pesante quella pronunciata dal Tribunale civile di Roma, che accogliendo un ricorso dell’Asgi e di Amnesty international ha assestato un nuovo colpo alle politiche migratorie dell’Italia. Sancendo, soprattutto, il comportamento «antigiuridico» del nostro Paese, che conscio delle violazioni dei diritti umani in Libia ed Eritrea ha comunque mettendo in atto un illegittimo respingimento di massa. Il fatto risale a giugno 2009, quando 89 persone sono partite fuggite dall’Eritrea sono salpate dalle coste della Libia con l’obiettivo di raggiungere l’Italia per chiedere il riconoscimento della protezione internazionale. Raggiunti dopo tre giorni dalla Nave Orione, della Marina italiana, dopo esser stati perquisiti e identificati, ai migranti è stato garantito l’ingresso in Italia, dove avrebbero potuto richiedere la protezione internazionale. Un bluff, visto che la Marina ha invece riconsegnato i migranti ai libici, ignorando i rischi corsi dai migranti. E lì, infatti, sono stati detenuti per mesi, in condizioni inumane e degradanti. Il tutto in nome di una trattato di “Amicizia, partenariato e collaborazione” siglato nel 2008 con la Libia. L’Italia, scrive il giudice, ha però violato «un principio fondamentale che non ammette riserve» : quello di non respingimento, che vieta agli Stati aderenti alla Convenzione di Ginevra di rispedire un rifugiato in luoghi dove la sua vita o la sua libertà vengono minacciate. Un principio strettamente legato, oltre che al divieto di tortura, anche al diritto d’asilo. L’Italia, dunque, non solo aveva l’obbligo di informarsi sui pericoli che i migranti avrebbero corso in Libia, ma i vari rapporti diffusi al momento del respingimento, afferma il giudice Monica Velletti, ben testimoniavano le «sistematiche violazioni dei diritti dell’uomo» e in particolare «torture, arresti arbitrari, condizioni detentive disumane, lavori forzati e gravi restrizioni alla libertà di movimento, di espressione e di culto» in Libia e Eritrea. E l’accordo allora in vigore tra Italia e Libia «non poteva esonerare l’Italia dal rispettare gli obblighi assunti per la ratifica di strumenti internazionali», di rango superiore, anche perché quell’accordo non disciplinava in alcun modo operazioni di respingimento. Insomma, la condotta dell’autorità italiana è stata «antigiuridica» e oltre al danno patrimoniale, lo Stato dovrà ora anche individuare «gli strumenti più idonei» ad accogliere la domanda di accesso al territorio italiano per poter richiedere la protezione internazionale.
«La sentenza – ha commentato al Dubbio Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi – è innovativa perché stabilisce che la violazione deve trovare un suo rimedio anche consentendo a quelle persone, anche dopo molto tempo, di accedere al territorio italiano per fare quello che è stato loro impedito, imponendo il rilascio di un visto d’ingresso per motivi umanitari. Altrimenti il diritto d’asilo, costituzionalmente garantito, sarebbe vanificato».
Nuova vittoria dei buonisti: dichiarati illegali i respingimenti dei migranti. Una sentenza del tribunale civile di Roma ha dichiarato illegali i respingimenti: i migranti fatti tornare in Libia dall'Italia potranno chiedere protezione internazionale ed un risarcimento dei danni. Mauro Indelicato, Martedì, 03/12/2019, su Il Giornale. I fatti risalgono ad una delle prime applicazioni dell’accordo sottoscritto a Bengasi tra la Libia di Gheddafi e l’Italia, allora rappresentata dal premier Silvio Berlusconi. Era il 27 giugno 2009, un gruppo di 89 persone a bordo di un barcone partito dalle coste libiche, era giunto in prossimità delle acque italiane. Il motore di quel mezzo era andato in avaria, così chi era a bordo ha lanciato l’Sos, raccolto da una nave militare italiana. Il nostro mezzo ha intercettato il barcone e soccorso i migranti ma, per la prima volta dall’entrata in vigore del trattato d’amicizia con Tripoli, tutte le 89 persone non sono state portate in Italia. Al contrario, i migranti sono stati accompagnati nuovamente in Libia, da dove erano partiti nel tentativo di approdare lungo le nostre coste. Si è trattato di fatto del primo vero respingimento. E l’allora ministro dell’interno, il leghista Roberto Maroni, ha parlato di vera e propria svolta storica: “Ecco un nuovo modello di contrasto in mare per chi cerca di arrivare illegalmente”, tuonava il titolare del Viminale durante il Berlusconi IV. A distanza di più di dieci anni, è arrivata una sentenza che dà diritto agli 89 migranti respinti di chiedere risarcimento e di rientrare in Italia per presentare domanda di protezione internazionale. In poche parole, da adesso i respingimenti sono considerati illegali. A sentenziarlo è stato il 28 novembre scorso il tribunale civile di Roma. I giudici hanno accolto le rimostranze di numerose associazioni, tra cui Asgi ed Amnesty International, secondo cui respingere i migranti e portarli dal paese in cui si è partiti viola i principi di rispetto dei diritti umani. Asgi ed Amnesty in particolare, nel 2016 hanno presentato un ricorso proprio sul caso del giugno del 2009, sostenendo le ragioni sopra riportate. Dopo più di tre anni di dibattimento, come detto la sentenza ha dato ragione alle associazioni. E certamente non mancherà di costituire un precedente giuridico importante. Da ora in poi, chiunque pensi di attuare in futuro dei respingimenti dovrà imbattersi con il quadro giurisprudenziale emerso dalla sentenza del 28 novembre scorso. E di fatto quello che all’epoca ha rappresentato il primo caso di respingimento, adesso è diventato il caso scuola contro questa pratica. Roma e Tripoli all’epoca hanno concordato una linea precisa sui respingimenti nel contesto più generale della lotta all’immigrazione clandestina, inaugurata dal trattato tra i due paesi. La posizione dell’allora governo italiano era abbastanza chiara: la Libia era un paese in grado di accogliere chi veniva respinto, dunque lo strumento dei respingimenti poteva fungere da deterrente per nuove partenze. Ed in effetti, nel biennio 2009 – 2010 anche per questo motivo gli sbarchi dalla Libia erano quasi azzerati. Con lo scoppio della guerra nel 2011 nel paese nordafricano, i respingimenti non sono più stati attuati nella forma vista nel giugno 2009. Molti migranti sono stati sì respinti verso la Libia, ma dalla stessa Guardia Costiera libica, non da navi militari italiane. La sentenza tuttavia potrebbe rappresentare un precedente valevole sia per eventuali accordi con altri governi, come ad esempio quello tunisino, sia per un futuro dove la Libia torni ad essere un paese in pace. Inoltre, la sentenza potrebbe valere per lo Stato diversi milioni di Euro di risarcimenti da erogare a chi è stato respinto in quegli anni e non solo dunque agli 89 tornati in Libia il 27 giugno 2009.
La Cassazione adesso smonta le toghe ultrà dell'accoglienza. Le sezioni unite civili della Corte di Cassazione hanno accolto tre ricorsi del Viminale ed hanno sancito che, per concedere la protezione umanitaria ai migranti, non basta il criterio relativo alla valutazione della loro integrazione. Esulta Salvini, anche se nella stessa sentenza si sancisce l'irretroattività del decreto sicurezza. Mauro Indelicato, Mercoledì 13/11/2019, su Il Giornale. Sono tre sentenze molto importanti quelle emesse nelle scorse ore dalla Corte di Cassazione, con le quali è stata fatta chiarezza su alcune delle discussioni più importanti aperte in tema di immigrazione. In tutti e tre i casi, sono stati accolti i ricorsi con i quali il Viminale ha impugnato le sentenze delle corti d’appello, provenienti in due casi da Firenze ed in uno da Trieste, in cui i giudici hanno riconosciuto la protezione umanitaria ad alcuni migranti in base al loro livello di integrazione in Italia. Secondo cioè quelle sentenze d’appello, è possibile concedere il riconoscimento della protezione umanitaria basandosi unicamente sul fatto che il migrante in questione appare già integrato in Italia. Per la Cassazione, accogliendo dunque le ragioni del ministero dell’interno, invece questo tipo interpretazione non può essere valida. Secondo i giudici delle sezioni unite civili della suprema corte, il livello di integrazione nel nostro paese non può bastare per decidere se concedere o meno la protezione. Così come si legge sull’agenzia Agi, i due casi di Firenze riguardano rispettivamente un cittadino bengalese che ha ottenuto un’assunzione in Italia ed uno invece del Gambia, il quale secondo i giudici della corte d’appello fiorentina “studia e coltiva i suoi principali legami sociali nel nostro Paese, mentre in Gambia non ha rapporti familiari di rilievo”. Il terzo caso, ha invece per oggetto un altro cittadino gambiano. I giudici di Trieste hanno riconosciuto a lui la protezione internazionale in quanto, per via della “situazione critica dovuta al disordine complessivo del Gambia e alle primitive strutture giudiziarie e carcerarie sotto il profilo della tutela dei diritti individuali”, potrebbe essere “sottoposto a procedimento penale ove fosse rientrato nel Paese di provenienza”. La Corte di Cassazione ha rimandato tutti e tre i casi in appello. I giudici nelle loro sentenze hanno condiviso l’orientamento secondo cui “non può essere riconosciuto al cittadino straniero – si legge – il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, né il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza”. In poche parole, secondo la Cassazione occorrono criteri oggettivi e riscontri certi prima di procedere al rilascio della protezione internazionale ad un determinato richiedente. Ha prevalso dunque la linea del Viminale, soprattutto di quello targato Matteo Salvini. E non a caso l’ex ministro dell’interno è il primo a commentare le sentenze provenienti da piazza Cavour: “Sui permessi umanitari aveva ragione la Lega – ha affermato Salvini – L’ha stabilito la Corte di Cassazione. È la migliore risposta agli ultrà dei porti aperti e che vorrebbero cancellare i Decreti sicurezza. Peraltro la sentenza della Cassazione ha sostanzialmente smontato la tesi di Luciana Breggia, il magistrato presidente della sezione specializzata per l'immigrazione e la protezione internazionale del tribunale di Firenze. Breggia negli ultimi giorni è salita alla ribalta per le dichiarazioni contenute in un suo spettacolo in cui ha raccolto, nei mesi scorsi, alcuni aneddoti inerenti il suo lavoro. Ed in particolare, il magistrato ha dichiarato di aver agito in certi casi anche senza prove: “Era inserito in un contesto, parlava italiano, era vulnerabile - ha raccontato Luciana Breggia - Mi sono misurata con l'impossibilità di ricostruire la sua storia e gli ho dato il permesso umanitario”. Altro che i criteri oggettivi di cui ha parlato la Cassazione, secondo il magistrato a volte nel suo lavoro occorre agire in base al “cuore”: “Un giudice ha una testa e un cuore, non è disincarnato”, ha infatti dichiarato, tra le altre cose, proprio Luciana Breggia. Nelle sentenze odierne della Cassazione, c’è poi una parte invece non molto favorevole alla linea salviniana. È stato infatti sancito, intervenendo anche in questo caso per porre fine ad alcune diatribe interpretative, che le norme inerenti la cancellazione dei permessi per motivi umanitari non possono essere applicati ai casi antecedenti l’introduzione del decreto sicurezza voluto da Salvini. Per quei casi, ha stabilito la Cassazione, si applicano le previsioni dei casi speciali, con permesso di soggiorno annuale, contenute nello stesso decreto Salvini.
Immigrazione, l'offensiva delle toghe rosse: "Adesso servono porti aperti". I magistrati progressisti tirano per la giacchetta il governo giallorosso e adesso dettano l'agenda sull'immigrazione. Angelo Scarano, Domenica 10/11/2019 su Il Giornale. Il tema dell'immigrazione resta al centro del dibattito della politica e... della magistratura. Infatti le toghe progressiste cominciano a tirare per la giacchetta l'esecutivo giallorosso per assestare il colpo di grazia ai dl Sicurezza fortemente voluti dall'ex ministro degli Interni, Matteo Salvini. Il nuovo corso del Viminale intrapreso dal ministro Luciana Lamorgese ha di fatto riaperto i porti alle ong basandosi sulla politica dei ricollocamenti del debolissimo accordo di Malta. Le toghe di sinistra però adesso fanno un passo in avanti e di fatto chiedono a gran voce una politica più morbida proprio sul fronte dell'immigrazione. Una mossa che viene messa sul campo al convegno ’La frontiera del diritto e il diritto della frontiera, organizzato a Lampedusa da AreaDG e dall’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. I partecipanti all'incontro sono tutti esponenti dell'area della magistratura e non solo più critica sulle politiche dell'ex titolare del Viminale: la vicepresidente del Senato, Anna Rossomando, il sindaco di Linosa e Lampedusa, Salvatore Martello, il presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida, Riccardo Clerici, responsabile dell’ufficio legale dell’Unhcr; Armando Spataro, ex procuratore capo di Torino, Pietro Bartolo, vicepresidente della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo, Luigi Patronaggio, e procuratore della Repubblica di Agrigento. E le politiche suggerite al governo sul fronte dell'immigrazione le rende più chiare Eugenio Albamonte, segretario di Area democratica per la giustizia: "Superare la politica dei porti chiusi, ripristinare il permesso di soggiorno per motivi umanitari e consentire la registrazione anagrafica ai richiedenti asilo, riattivare il sistema di accoglienza degli Sprar". Una sorta di decalogo che l'esecutivo giallorosso dovrebbe seguire per ribaltare la politica dei porti chiusi voluta dal precedente governo. Albamonte poi spiega meglio la sua posizione e quella di Area: "Bisogna interrompere la sovrapposizione del tema dell’immigrazione, che è tema sociale, con quello della politica criminale e della sicurezza. Va fatta una contro narrazione su questo, perché non esiste un’emergenza migrazione e non esiste un’emergenza criminalità collegata ai migranti". Insomma i magistrati sono sempre di più sul campo per dare un colpo di spugna sui decreti sicurezza e invertire la rotta voluta da Salvini. Le parole di Spataro su questo fronte sono abbastanza precise: "'Il Governo ancora non ha affrontato, al netto degli annunci fatti, una decisa revisione di molte inaccettabili previsioni contenute nei 'Decreti sicurezza'. Ci auguriamo, perciò, che si affermi quanto prima il dovuto rispetto dei valori costituzionali, come auspicato anche dal presidente della Repubblica". La sfida al piano Salvini è aperta.
La toga pro-ong e pro-migranti predica accoglienza nei teatri. Luciana Breggia, giudice che in passato ha preso più volte posizione a favore di ong e sbarchi, ha tenuto a Lampedusa uno "spettacolo" per predicare l'accoglienza davanti a colleghi, avvocati ed esperti di immigrazione. Gianni Carotenuto, Lunedì 11/11/2019 su Il Giornale. Nell'ordinamento italiano, l'imparzialità del giudice è disciplinata dal Codice penale e dalla Costituzione. Come noto, i magistrati devono limitarsi ad applicare la legge. Senza farsi fuorviare dalle proprie convinzioni politiche, filosofiche e culturali. Una mission che non viene bene a molti esponenti dell'ordine giudiziario, tra cui Luciana Breggia. Presidente della sezione specializzata per l'immigrazione e la protezione internazionale del tribunale di Firenze, Breggia è nota nel mondo dei giudici e non solo per le sue prese di posizione in materia di immigrazione clandestina, ong e sbarchi. Tutte a favore dell'immigrazione illegale e di chi la fomenta in maniera più o meno diretta. Di recente, lo scorso 15 maggio, il giudice Breggia ha emesso una sentenza con cui ha negato al Ministero dell'Interno (allora guidato da Matteo Salvini) la possibilità di impugnare una decisione del tribunale di Firenze che aveva precedentemente disposto l'immediata iscrizione all'anagrafe del Comune di Scandicci di un richiedente asilo somalo. Una storia che la diceva lunga sull'evidente partigianeria del magistrato fiorentino, ostinata nel dire no alle leggi leghiste e in particolare ai decreti sicurezza firmati dall'ex capo del Viminale. Il quale, dopo avere appreso della decisione di Breggia, l'aveva ironicamente invitata "a candidarsi alle prossime elezioni per cambiare le leggi che non condivide". Da allora sono passati pochi mesi, il governo è cambiato e con esso il ministro dell'Interno, non più Salvini ma Luciana Lamorgese, decisamente più incline alle posizioni buoniste espresse da una certa sinistra (e non solo). Tuttavia, i decreti sicurezza sono rimasti in piedi e con essi i criticatissimi accordi con la Libia, sottoscritti dal Pd Marco Minniti nel 2017, per frenare l'immigrazione illegale dal Nordafrica. Nel Pd, però, c'è chi come Matteo Orfini combatte da tempo una battaglia contro tutto e tutti per imporre l'accoglienza a tutti i costi. Un'ideologia pericolosa che vanta un discreto numero di affiliati, in politica come nella società civile. E nella magistratura. Tra gli ultras pro-migranti c'è proprio Luciana Breggia che, notizia di queste ore, è volata con altri colleghi al salone congressi dell'aeroporto di Lampedusa davanti a una platea di magistrati, avvocati ed esperti di immigrazione nel quadro di un evento promosso dalle correnti Area democratica (le "toghe rosse") e Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione). Il convegno, dal titolo "La frontiera del diritto e il diritto della frontiera – Dieci anni dopo di nuovo insieme a Lampedusa", si è svolto il 9 e 10 novembre. Si è discusso di "migrazioni ed Europa, dell’attuazione del diritto dell’immigrazione, di una legislazione dell’immigrazione giusta ed efficace e di immigrazione nella cultura, nella storia e nell’informazione", il tutto all'insegna della solidarietà nei confronti di clandestini e ong. Pezzo forte della due giorni lo spettacolo "Invece accade – dal diario di un giudice dell’asilo", con testi del giudice Breggia. Che, per l'occasione, come ricorda Repubblica, si è trasformata in sceneggiatrice. Restando sempre parzialissima. "Io ho sempre applicato le norme, naturalmente interpretandole con rigore e imparzialità - aveva detto - ma il giudice ha una testa e un cuore, non è disincarnato. Avere un pensiero ed esprimerlo lo rende anzi più trasparente. Il giudice parziale, quello che sfoga nei suoi provvedimenti un sentire di parte, è un giudice muto". Alla faccia del principio di neutralità.
Sequestri e ordinanze, il tempismo dei giudici. Fascicoli aperti e sigilli alle imbarcazioni. Poi lasciate libere di tornare in mare. Fausto Biloslavo, Venerdì 23/08/2019 su Il Giornale. Sequestri «bluff», tempistiche curiose e le Ong che considerano i giudici italiani come alleata. Qual è il sistema perfetto per fare sbarcare migranti, anche se clandestini, in Italia? Un decreto di sequestro dei pm, che scorta la nave dei talebani dell'accoglienza in porto e fa scendere tutti. Peccato che dopo un po' l'imbarcazione della Ong viene dissequestrata e torna a recitare lo stesso copione. Non solo: il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina si perde nei meandri e tempi della giustizia. E gli estremisti dell'accoglienza, che dovrebbero venire perseguiti, ringraziano, come ha fatto ieri Open Arms con un tweet: «Giorno 1. Quello in cui la giustizia italiana ha restituito alle persone a bordo la loro umanità». La nave della Ong spagnola ha sbarcato 83 migranti grazie al sequestro disposto dalla procura di Agrigento che indaga per omissione e rifiuto di atti di ufficio. Per ora il fascicolo è contro ignoti, ma l'obiettivo è sempre lo stesso, il ministro dell'Interno Matteo Salvini, che non voleva farli scendere. Guarda caso la svolta, in punta di diritto, è avvenuta quando la Spagna aveva fatto salpare la nave militare Audax, che in tre giorni sarebbe arrivata a Lampedusa per imbarcare tutti i migranti. Pure la tempistica che coincide con l'apertura ufficiale della crisi di governo è curiosa. E l'ipotesi di reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina passa in secondo piano. Nonostante la capo missione dell'ultima provocazione politica di Open Arms sia Ana Isabel Montes Mier. Il 4 luglio la procura di Ragusa per un caso molto simile del marzo 2018 con la stessa nave e Ong ha chiesto il suo rinvio a giudizio per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e «violenza» (morale) per avere obbligato le nostre «autorità a concedere l'approdo in un porto del territorio italiano». La ciliegina sulla torta della beffa è la dichiarazione di ieri della vice premier spagnola Carmen Calvo: «Open Arms non ha il permesso di salvare» migranti. Per questo motivo rischia una multa di 901mila euro. Il procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, è recidivo nel sequestro che fa sbarcare tutti. Il 19 maggio ha fatto entrare in porto con lo stesso metodo nave Sea watch 3 permettendo lo sbarco dei 65 migranti a bordo rimasti in Sicilia e non redistribuiti dall'Europa. Il tutto era avvenuto con il ministro Salvini in diretta su La 7, che continuava a ribadire la chiusura dei porti. La Sea watch 3 viene dissequestrata il 10 giugno e gli irriducibili tedeschi sono di nuovo in mare con la capitana Carola Rackete, che recupera migranti ed entra a forza a Lampedusa. La nave adesso è sotto sequestro, ma non durerà molto. Il primo stop lo aveva subito il 28 gennaio. Tre settimane dopo era di nuovo libera di partire. Il «bluff» è evidente anche con la Mare Jonio degli estremisti italiani dell'accoglienza bloccata due volte in pochi mesi dalla procura di Patronaggio. Il 12 agosto è arrivato puntuale l'ultimo dissequestro e l'annuncio della Ong, che la nave tornerà in mare nonostante multe e divieti.
Schiaffo delle toghe a Salvini. Ora assolvono i clandestini. Il tribunale di Torino ha assolto una clandestina albanese che era già stata espulsa dall'Italia nel 2018. Per lei il pm aveva chiesto l'obbligo di firma, ma il giudice l'ha lasciata andare "per la particolare tenuità del fatto". Gianni Carotenuto, Giovedì 15/08/2019, su Il Giornale. Una donna di origine albanese, imputata del reato di clandestinità, è stata assolta "per la particolare tenuità del fatto". Lo ha stabilito il tribunale di Torino durante un processo per direttissima che si è tenuto il 13 agosto. Il giorno prima, la donna era stata fermata all'aeroporto di Caselle dove si era recata per andare a prendere il figlio e la madre provenienti dall'Albania. Ma non avrebbe potuto farlo, essendo stata espulsa dall'Italia nel 2018. "Pensavo di non poter più vivere in Italia, ma di poterci venire di passaggio", si è giustificata la donna (che oggi risiede regolarmente in Germania). "Li ho fatti atterrare a Caselle perché il biglietto era molto più economico" ha aggiunto l'imputata, che aveva detto le stesse cose ai carabinieri che l'avevano fermata per un controllo. Nel quale gli agenti avevano scoperto il provvedimento di espulsione firmato l'anno scorso dal prefetto. Per questo la donna era stata portata in carcere e rinviata a giudizio con l'accusa di immigrazione clandestina, per poi essere processata per direttissima. Per lei il pubblico ministero - come riporta Repubblica - aveva chiesto la misura cautelare dell'obbligo di firma, ma il giudice Marisa Gallo ha escluso che fosse punibile e per questa ragione ha deciso di pronunciare una sentenza di assoluzione "per la particolare tenuità del fatto".
Torino, il giudice: la clandestinità? Un reato lieve, non deve essere punito. Assolta albanese espulsa un anno fa in Italia. Ottavia Giustetti il 15 agosto 2019 su La Repubblica. Nessuna condanna per la clandestinità: il reato è lieve e non deve essere punito. Lo ha stabilito un giudice del tribunale di Torino durante un processo per direttissima il 13 agosto. L'imputata, una donna di origine albanese era stata portata in aula, immediatamente dopo la scoperta che non aveva i documenti in regola e da oltre un anno era stata espulsa dal Paese. Per lei il pubblico ministero aveva chiesto la misura cautelare dell'obbligo di firma. Ma il giudice Marisa Gallo ha invece escluso che fosse punibile, e ha pronunciato una sentenza di assoluzione per la particolare tenuità del fatto. Il fatto è un episodio minimo per il tribunale di una grande città. Sono numerosissimi ogni anno i casi come questo che passano per le aule di giustizia. Ed è la scelta di assolvere per tenuità del fatto a gettare una luce particolare su un reato che è in assoluto tra i più contestati. Complice probabilmente la storia raccontata dalla donna albanese. Questa sì, particolare. Ha spiegato al giudice, assistita dall'avvocato Antonio Genovese, si essere stata espulsa un anno fa e di essere andata via regolarmente per vivere in Germania. Il 12 agosto il figlio e la madre sono atterrati a Caselle perché il biglietto dall'Albania era molto più economico. E lei è venuta a prenderli per portarli a casa. "Pensavo di non poter più vivere in Italia - ha detto - ma di poterci venire di passaggio" . Quando i carabinieri l'hanno fermata, hanno scoperto il provvedimento di espulsione firmato dal prefetto nel 2018, e hanno dovuto arrestarla.
Matteo Salvini "indagato per la Open Arms". Due mesi dopo, l'agguato: lo fregano in Parlamento? Libero Quotidiano il 19 Novembre 2019. Due mesi dopo, Matteo Salvini è indagato per sequestro di persona e omissione d'atti d'ufficio dalla Procura di Agrigento per il caso Open Arms. È quanto riporta Repubblica, ricordando come lo scorso 20 agosto il procuratore Patronaggio decise di intervenire ordinando lo sbarco dei 164 migranti a bordo della nave della ong, bloccati per 20 giorni a mezzo miglio da Lampedusa "in condizioni estreme", come riferivano gli inquirenti. "Il fascicolo - scrive il quotidiano diretto da Carlo Verdelli - è arrivato ieri sul tavolo del procuratore capo Franco Lo Voi che entro quindici giorni dovrà decidere se confermare le ipotesi di reato, riformularle o chiedere l'archiviazione". Come per il caso Diciotti, sarà il Parlamento a decidere se negare l'autorizzazione a procedere o concederla. Nel primo caso il voto del M5s sommato a quello del centrodestra blindò l'allora ministro degli Interni ma come noto oggi la situazione politica è drasticamente ribaltata. "Il materiale probatorio a carico di Salvini che costrinse l'intera catena di comando del Viminale a negare l'approdo alla Open Arms, è considerevole", nota Repubblica, quasi auspicando il voto favorevole del Parlamento. "Altro processo per aver difeso i confini, la sicurezza, l'onore dell'Italia? - è il commento di Salvini - Per me è una medaglia! Rifarei e rifarò tutto".
Open Arms, le toghe preparano l'assalto: aperto un fascicolo per sequestro. La procura di Agrigento apre un fascicolo contro ignoti per sequestro di persona, violenza privata e abuso d'ufficio nei confronti dei migranti a bordo della Open Arms. Giovanni Neve, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale. La Open Arms è ancora bloccata al largo di Lampedusa, ma i magistrati già preparano l'assalto. La procura di Agrigento ha infatti aperto un fascicolo per sequestro di persona e violenza privata e abuso d'ufficio nei confronti dei migranti a bordo. Al momento l'inchiesta è aperta nei confronti di ignoti, ma non è escluso che nel mirino finisca il ministro dell'Interno che ha tentato in tutti i modi di non far entrare la nave della Ong in acque italiane. L'imbarcazione è in mare da ormai 15 giorni in attesa di un porto per lo sbarco. Mercoledì scorso il Tar del Lazio ha sospeso il divieto di ingresso in acque italiane e gli attivisti si sono diretti verso Lampedusa, senza però ottenere (per ora) l'autorizzazione all'attracco. Ne è nato un duro scontro tra Matteo Salvini e i ministri grillini Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli. L'inchiesta è un "atto dovuto" dopo che sono stati presentati alcuni esposti in procura. Uno è stato depositato dai giuristi democratici che contestano la condotta del prefetto Dario Caputo che - secondo loro - non rispetterebbe l'ordinanza del Tar. Un'altra denuncia è stata presentata invece proprio dall'ong spagnola Proactiva Open Arms "per ribadire quanto già chiesto lo scorso 10 agosto, considerando il peggioramento delle condizioni sulla nave", come spiegano i legali all'agenzia Adnkronos.
Open Arms, il Viminale impugna la decisione del Tar. Il Viminale impugna la decisione del Tar del Lazio che permette a Open Arms di entrare nelle nostre acque territoriali. Angelo Federici, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale. Matteo Salvini non ci sta e va al contrattacco, dando mandato all'avvocatura di Stato per impugnare la decisione del Tar a proposito del divieto di ingresso in acque territoriali per la Open Arms. Ma andiamo con ordine e partiamo dal primo agosto scorso, quando il ministro dell'Interno - insieme a quello della Difesa Elisabetta Trenta e a quello delle Infrastrutture Danilo Toninelli - emana un provvedimento che vieta all'ong spagnola "nel mare territoriale nazionale". Il 13 agosto, però, Open Arms presenta un ricorso d'urgenza al Tar, ottenendo una risposta il giorno seguente: "Lo stesso oggi risponde - fanno sapere i legali della ong - riconoscendo la suddetta violazione nonchè la situazione di eccezionale gravità ed urgenza dovuta alla permanenza protratta in mare dei naufraghi a bordo della nostra nave, e dispone quindi la sospensione del divieto di ingresso in acque territoriali italiane per permettere il soccorso delle persone a bordo". E così Open Arms, ricevuto il via libera dal tribunale amministrativo regionale, si dirige verso Lampedusa con l'obiettivo di far sbarcare le 147 persone che sono a bordo della nave da oltre 13 giorni. Il tar fa in particolare riferimento "al periculum in mora, che sicuramente sussiste, alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione capo missione)". In pratica, questo il sunto del tribunale, le condizioni dei migranti a bordo della nave sono disperate e, pertanto, se ne dispone lo sbarco. Un'opinione, questa, messa però in dubbio dal responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa, Francesco Cascio, che ha affermato: "C'è qualcosa che non funziona, perché tra i 13 migranti fatti sbarcare dalla Open Arms per motivi sanitari solo uno aveva una otite, mentre gli altri stavano bene: eppure dalla relazione dello staff Cisom (il Corpo italiano di soccorso dell'Ordine di Malta - ndr) risulta che a bordo ci sarebbero persone con diverse patologie, tra cui 20 casi di scabbia". Ma proprio mentre Open Arms comincia a muoversi verso Lampedusa, è Salvini ad annunciare: "Pensate in che Paese strano viviamo, dove un avvocato del Tribunale amministrativo del Lazio vuole dare il permesso a sbarcare in Italia ad una nave straniera carica di immigrati stranieri. Io firmerò nelle prossime ore il mio no perchè non voglio essere complice dei trafficanti. C'è una nave spagnola, in acque maltesi che si rivolge ad un tribunale italiano, ma non si capisce perchè. C'è il chiaro intento di andare indietro, tornare ad aprire i porti italiani e far diventare l'Italia il campo profughi d'Europa: finché avrò vita non mi arrendo a questa vergogna". Il ministro dell'Interno viene nel frattempo scaricato dalla Trenta, che invia due navi della Marina militare per monitorare le condizioni dei minori a bordo di Open Arms e per trasferirli sulle imbarcazioni italiane. La stessa ministra cala poi l'asso di bastoni e, in una nota, mette nel mirino il ministro dell'Interno: "Mancata adesione alla decisione del giudice amministrativo potrebbe finanche configurare la violazione di norme penali, fermo restando, in ogni caso, che in adesione al dictum iuris sarebbe stato eventualmente necessario inserire nel dispositivo del provvedimento un'esplicita disponibilità all'assistenza delle persone maggiormente bisognevoli". Anche il ministro Toninelli, dopo la decisione del Tar, si smarca da Salvini: "Avevo già firmato a suo tempo il decreto di Salvini, che vietava l'ingresso, il transito e la sosta della Open Arms nelle acque italiane. Avevo firmato, anche stavolta, per ribadire che chi non rispetta il diritto del mare non può sbarcare in Italia. Quel decreto è stato bocciato dal Tar ed emetterne un altro identico, per farselo bocciare di nuovo dal Tar dopo 5 minuti, esporrebbe la parte seria del Governo, che non è quella che ha tradito il contratto, al ridicolo. E a differenza di Salvini che cerca solo il consenso facile, noi agiamo con senso di Stato e concretezza". E poi, dando un colpo al cerchio e uno alla botte: "Questo - aggiunge - non significa che dobbiamo accogliere tutti i migranti della Open Arms. La mia, la nostra, linea non cambia: mettiamo in sicurezza la nave come ci chiedono i giudici; poi l'Europa, e in primis la Spagna la cui bandiera sventola sulla Open Arms, inizino ad assumersi le proprie responsabilità facendosi carico di accogliere 116 migranti che sono a bordo della nave. Noi come Italia interveniamo per tutelare la salute dei 31 minori a bordo, che sono in situazione di pericolo, come chiesto dal Presidente del Consiglio e come prevede la legge, che giustamente impone sempre la tutela dei minori e la loro protezione". Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, pubblica su Facebook una lettera aperta a Salvini, invitandolo a non giocare sulla pelle dei migranti per interessi politici e a far sbarcare i minori. La battaglia raggiunge il suo climax e mostra la frattura tra Lega e Movimento 5 Stelle. Ma non solo. Dimostra anche come una decisione del Tar sia stata rivestita di un carattere politico. E, proprio perché in ballo c'è tutta la gestione dei flussi migratori, il Viminale ha annunciato di aver mandato all'Avvocatura dello Stato di impugnare la decisione del Tar a proposito del divieto di ingresso in acque territoriali per Open Arms. Ma basterà per fermare l'ong?
Il Tar del Lazio sospende il dl Sicurezza bis in favore della ong. La Trenta manda due navi della Marina. Ma per Salvini i porti restano chiusi. Angelo Scarano, Mercoledì 14/08/2019, su Il Giornale. Ancora una volta le toghe disinnescano il decreto Sicurezza bis. Questa volta è il Tar del Lazio che con una decisione a sorpresa sospende il decreto fortemente voluto da Salvini e di fatto rimuove il divieto di ingresso nelle acque italiane per Open Arms. Di fatto l'ong aveva presentato d'urgenza un esposto al Tribunale amministrativo. E dopo meno di 24 ore è arrivato il verdetto. Il divieto di ingresso nelle nostre acque era stato firmato dallo stesso Matteo Salvini, dal ministro alle Infrastrutture e Trasporti, Toninelli e dal ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Ma con la decisione del Tar del Lazio tutto è cambiato. La nave della ong spagnola si sta dirigendo verso il porto di Lampedusa e per domani mattina è previsto l'arrivo in acque territoriali italiane. "Siamo a 30 miglia da Lampedusa - ha scritto nel pomeriggio su Twitter il fondatore della ong, Oscar Camps - Ci avvicineremo ed entreremo nelle acque territoriali italiane". Dalla imbarcazione fanno pure sapere che non hanno intenzione di far sbarcare i 147 migranti subito, ma hanno "l'intenzione di restare in acque territoriali italiane". Proprio in queste ore sul fronte degliu sbarchi si è consumato l'ennesimo scontro tra il titolare del Viminale e il premier Giuseppe Conte. Salvini ha infatti rivelato che il premier gli avrebbe scritto proprio per risolvere l'emergenza della Open Arms: "Conte mi ha scritto per lo sbarco di alcune centinaia di immigrati a bordo di una nave di una ong che però è straniera, è in acque straniere e gli risponderò garbatamente che non si capisce perchè debbano sbarcare in italia". E mentre Salvini ribadisce che i porti italiani restano chiusi, "Io, a nome del popolo Italiano, non smetterò di difendere i confini. Se qualcuno la pensa diversamente, se ne assuma la responsabilità", il ministro Elisabetta Trenta ha mandato due navi della Marina per scortare la Open Arms. Il Viminale, quindi, contesta la decisione del Tar del Lazio e propone un ricorso urgente al Consiglio di Stato. Ma non solo. Il leader del Carroccio ha firmato un nuovo provvedimento di divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane per Open Arms. La motivazione è che ai fatti citati nel provvedimento sub judice se ne sono aggiunti altri. Per giorni, Open Arms si è trattenuta in acque sar libiche e maltesi, ha anticipato altre operazioni di soccorso e ha fatto sistematica raccolta di persone con l'obiettivo politico di portarle in Italia. E mentre Salvini parla dal palco di La Spezia, fonti di Palazzo Chigi fanno sapere che la Spagna ha informato la Presidenza del Consiglio dei ministri della propria disponibilità a partecipare alla redistribuzione dei migranti della Open Arms una volta sbarcati.
L’ULTIMO CETRIOLO CHE CI RIFILA L’EUROPA. Val.Err. per “il Messaggero” il 15 maggio 2019. Chi rischia la vita o la tortura nel proprio Paese rimane un rifugiato politico e non può essere rimandato indietro. La Corte di Giustizia europea ribadisce i principi fondamentali previsti dal Trattato di Ginevra e recepiti nel diritto Ue: chi sia in fuga da un Paese in cui ci sia il pericolo di trattamenti inumani, vietati dalla convenzione, non può essere rimpatriato o respinto, anche se lo status di rifugiato gli venisse negato o revocato dallo Stato ospitante per validi motivi di sicurezza. La sentenza pubblicata ieri fa infuriare il ministro dell' Interno Matteo Salvini, che coglie l'occasione per invitare gli italiani a votare Lega alle imminenti elezioni: «Ecco perché è importante cambiare questa Europa, con il voto alla Lega del 26 maggio. Comunque io non cambio idea e non cambio la Legge: i richiedenti asilo che violentano, rubano e spacciano, tornano tutti a casa loro». Il commento non centra la questione, dal momento che ladri, stupratori e spacciatori e chiunque, sottoposto a un procedimento penale, non può essere espulso, ma deve essere processato in Italia e scontare la pena. La questione si pone invece per chi, sospettato, di fiancheggiare la jiahd, ma senza che ci siano elementi sufficienti per sostenere un' accusa di terrorismo, venga allontanato dal Paese. Così come accaduto, spesso, negli ultimi anni proprio con decreto del ministro dell' Interno. Adesso i giudici, se interpellati, dovranno uniformare i propri pronunciamenti a questo principio. In base alle norme vigenti, secondo la sentenza odierna pubblicata ieri dalla Corte «fintanto che il cittadino di un Paese extra-Ue o un apolide abbia fondato timore di essere perseguitato nel suo Paese d' origine o di residenza, questa persona deve essere qualificata come rifugiato indipendentemente dal fatto che lo status di rifugiato sia stato formalmente riconosciuto». Fatta questa premessa, la Corte ha stabilito che la direttiva europea va «interpretata e applicata nel rispetto dei diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell' Ue» che «escludono la possibilità di un respingimento» verso Paesi a rischio. La stessa Carta, hanno ricordato i giudici comunitari, «vieta infatti in termini categorici la tortura nonché pene e trattamenti inumani e degradanti, a prescindere dal comportamento dell' interessato, e l'allontanamento verso uno Stato dove esista un rischio serio che una persona sia sottoposta a trattamenti di tale genere». In altre parole, secondo le delucidazioni fornire dagli addetti ai lavori, la sentenza della Corte ha stabilito che il diritto Ue dà ai rifugiati una protezione maggiore di quella riconosciuta dalla Convenzione di Ginevra, stabilendo che, anche nel caso di rifiuto o ritiro dello status di rifugiato per gravi e validi motivi, costui non può essere rimandato nel Paese d' origine. Spetta poi alla magistratura nazionale stabilire se l' interessato sia da considerarsi un clandestino con tutte le implicazioni connesse a questo status. A sollevare il caso un cittadino ivoriano in Belgio e uno congolese nella Repubblica Ceca e una persona di origini cecene, titolari o richiedenti dello status di rifugiato secondo i casi, che si sono visti, rispettivamente, revocare la protezione o negare il riconoscimento dello status sulla base delle disposizioni della direttiva europea sui rifugiati del 2011. Una norma che consente l' adozione di misure del genere nei confronti delle persone che rappresentano una minaccia per la sicurezza dello paese ospitante. Di parere opposto a Salvini Riccardo Magi e Francesco Mingiardi, di +Europa. «Con la sentenza della Corte Ue - sottolineano - cade un altro mattone della propaganda del governo e di Salvini, che vorrebbe governare l' immigrazione a suon di respingimenti e rimpatri e perfino multare chi salva vite. Una politica che viola le convenzioni internazionali oltre che miope e fallimentare, come dimostra il numero di rimpatri». Sulla stessa linea il prefetto Mario Morcone, direttore del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati): La sentenza dalla Corte di Giustizia europea «è importante perché fissa in maniera definitiva un principio che si stava cercando di scardinare arrivando addirittura a dire che la Libia è un porto sicuro».
Dopo Open Arms, Mare Jonio: l'assalto delle toghe a Salvini. Il tribunale di Palermo ha trasmesso il fascicolo contro Salvini, aperto dalla procura di Agrigento, presso il tribunale dei ministri del capoluogo siciliano. Intanto da Roma si è appreso che contro l'ex ministro dell'interno è stato aperto un altro fascicolo, riguardante questa volta il caso Mare Jonio. Mauro Indelicato, Venerdì 29/11/2019, su Il Giornale. Il tribunale di Palermo ha ufficialmente trasmesso il fascicolo relativo all’inchiesta che riguarda Matteo Salvini al tribunale dei ministri del capoluogo siciliano, l’unico competente a procedere. La vicenda in questione riguarda il cosiddetto caso “Open Arms”, dal nome della nave dell’omonima ong spagnola rimasta ad agosto per diversi giorni a largo dell’isola di Lampedusa. Il fatto è quindi avvenuto nel pieno della crisi che ha portato alla caduta del governo Conte I, al cui interno Matteo Salvini aveva il ruolo di vice premier e ministro dell’interno. Proprio in qualità di titolare del Viminale, Salvini ha imposto il divieto di ingresso alla nave dell’ong spagnola in acque territoriali italiane. Il tutto nel quadro della contrapposizione tra l’allora ministro dell’interno e le organizzazioni non governative operanti nel Mediterraneo. Il 20 agosto poi, giorno delle dimissioni di Giuseppe Conte, il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio tramite un elicottero è andato a bordo della Open Arms. Secondo il magistrato, le condizioni all’interno della nave era proibitive, per questo ha disposto il sequestro del mezzo ed il suo approdo a Lampedusa, lì dove poi i migranti a bordo sono sbarcati. Per quella vicenda, un fascicolo era dunque stato aperto contro ignoti. Poi, due settimane fa, sempre dal tribunale di Agrigento è arrivata la notizia dell’inchiesta aperta su Matteo Salvini. Per il leader della Lega, le accuse formulate sono quelle di omissione di atti di ufficio e sequestro di persona. Dopo aver aperto ufficialmente l’inchiesta, il fascicolo è quindi passato dal tribunale di Agrigento a quello di Palermo. Trattandosi di un’inchiesta nei confronti di un ministro all’epoca in carica, l’unico tribunale competente è quello dei ministri. Il procuratore di Palermo quindi, come previsto dalla norma, ha passato, alla scadenza del termine di 15 giorni, il fascicolo nelle mani del collegio del tribunale dei ministri. Soltanto quest’organo giudiziario può condurre le indagini in questione. Non si conosce comunque, come sottolineato dall’Agi, il contenuto trasmesso in queste ore presso il tribunale dei ministri. Si sa soltanto che, a partire da oggi, il collegio in questione avrà 90 giorni di tempo per decidere se far continuare il procedimento oppure disporre l’archiviazione. Nel primo caso, il tribunale dei ministri dovrà motivare la decisione al procuratore della Repubblica il quale a sua volta dovrà rimettere il fascicolo nelle mani del presidente della Camera. Un procedimento già visto in occasione del caso Diciotti, la nave che nell’agosto 2018 è rimasta a lungo attraccata al porto di Catania senza poter far scendere i migranti. Anche in quell’occasione è stata la procura di Agrigento ad avviare il procedimento contro Salvini, poi la Camera ha però votato per l’immunità per lo stesso leader leghista. Il collegio del tribunale dei ministri di Palermo è formato da tre membri: si tratta del presidente Caterina Grego e delle componenti Lucia Fontana e Maria Cirrincione. Ma proprio oggi, contro l'ex ministro dell'interno è stato aperto un altro fascicolo riguardante questa volta il caso Mare Jonio, dal nome della nave dell'ong Mediterranea Saving Humans più volte nei mesi scorsi giunta ai ferri corti con Salvini. In particolare, la procura della Repubblica di Roma ha chiesto al competente collegio per i reati ministeriali di procedere ad accertamenti ed indagini dopo le querele giunte dalla società proprietaria della Mare Jonio. Per Salvini i reati in questo caso riguarderebbero calunnia e diffamazione.
A commentare le notizie arrivate sul suo conto oggi è stato lo stesso leader della Lega: "Ma in alcuni Tribunali non hanno problemi più importanti di cui occuparsi? - si è chiesto Salvini - Quando tornerò al governo, rifarò esattamente quello che ho fatto: i confini sono sacri, punto".
Il Tribunale dei ministri scagiona Salvini: «Le Ong sbarchino nel loro Paese». Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 da Corriere.it. La responsabilità di assegnare un «porto sicuro» alle navi con i profughi soccorsi in mare spetta allo «Stato di primo contatto», che però non è sempre facile individuare. Tuttavia, volendo seguire «alla lettera» le indicazioni che si possono ricavare da Convenzioni e accordi, «lo Stato di primo contatto non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio»; dunque se un’imbarcazione che ha raccolto i naufraghi batte bandiera tedesca, è alla Germania che deve rivolgersi per ottenere l’approdo. Così ritiene il tribunale dei ministri di Roma, che anche per questo motivo, il 21 novembre, ha archiviato le accuse di omissione di atti d’ufficio e abuso d’ufficio nei confronti dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini e del capo di Gabinetto Matteo Piantedosi, per aver negato lo sbarco ai 65 migranti che si trovavano a bordo della nave tedesca Alan Kurdi, della Ong Sea Eye, nell’aprile scorso. «L’assenza di norme di portata precettiva chiara applicabili alla vicenda — hanno scritto i giudici Maurizio Silvestri, Marcella Trovato e Chiara Gallo — non consente di individuare, con riferimento all’ipotizzato, indebito rifiuto di indicazione del Pos (Place of safety), precisi obblighi di legge violati dagli indagati, e di conseguenza di ricondurre i loro comportamenti a fattispecie di rilevanza penale». Niente reati quindi, e niente processo. Qualche giorno fa Salvini aveva esultato alla notizia dell’archiviazione: «Finalmente un tribunale riconosce che bloccare gli sbarchi non autorizzati non è reato»; ora le motivazioni del provvedimento potrebbero accrescere la sua soddisfazione. Oltre a stabilire la responsabilità dello Stato di appartenenza della nave che ha soccorso i profughi, infatti, il tribunale romano aggiunge che quando — come nel caso della Alan Kurdi, e come spesso accade — le coste di quel Paese sono troppo lontane, «la normativa non offre soluzioni precettive idonee ai fini di un intervento efficace volto alla tutela della sicurezza dei migranti in percolo». Le leggi sono inadeguate, e tutto è rimesso a «una concreta e fattiva cooperazione tra gli Stati interessati che, fino a oggi, è di fatto scritta solo sulla carta». L’interpretazione di norme e regolamenti, però, sembra tutt’altro che scontata. E difficilmente il provvedimento del tribunale porrà fine a denunce e inchieste. Come dimostra la richiesta della Procura di Roma, che aveva sollecitato i giudici ad archiviare il fascicolo con motivazioni ben diverse. Secondo le conclusioni del pm Sergio Colaiocco (avallate dai procuratori aggiunti Michele Prestipino, Paolo Ielo e Francesco Caporale), una volta interpellata l’Italia aveva l’obbligo di concedere il Pos, in forza della Convenzione di Amburgo. Ma non il ministero dell’Interno (e dunque Salvini), bensì la Guardia costiera, che fa capo al ministero delle Infrastrutture. Il quale con un atto del 2015 ha delegato la pratica al Viminale per accelerare le procedure: ma ciò non fa venire meno la propria responsabilità, e le eventuali omissioni. Nel caso della Alan Kurdi, Salvini fece scrivere a Piantedosi una direttiva di divieto d’ingresso e transito nelle acque italiane che per i pm «appare in contrasto con più di una disposizione di legge». Tuttavia per contestare l’abuso d’ufficio serve un «dolo intenzionale» mirato a provocare danni a terzi, mentre l’ex ministro e il suo capo di Gabinetto avevano altri intenti. Di qui la richiesta di archiviazione per ragioni del tutto differenti da quelle del tribunale: l’illecito di Salvini ci fu, senza però rientrare nei reati di omissione o abuso d’ufficio.
Migranti, il caso Alan Kurdi. I giudici scagionano Matteo Salvini ma è una sentenza che fa acqua. Fulvio Vassallo Paleologo il 28 Novembre 2019 su Il Riformista.it. Il Tribunale dei ministri di Roma avrebbe “scagionato” l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, archiviando le accuse di omissione di atti d’ufficio e abuso d’ufficio mosse nei suoi confronti per aver negato lo sbarco della Alan Kurdi (Ong Sea Eye) nell’aprile scorso. I giudici Maurizio Silvestri, Marcella Trovato e Chiara Gallo hanno affermato che la responsabilità di assegnare un porto sicuro alle navi con a bordo migranti soccorsi in mare spetta allo Stato di primo contatto, che «non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio». Nel caso della Sea Eye, battente bandiera tedesca, dunque, la nave avrebbe dovuto rivolgersi alla Germania per ricevere l’indicazione di un porto sicuro nel quale approdare. Per il Tribunale dei ministri di Roma, le disposizioni normative vigenti al riguardo sarebbero inadeguate, e la indicazione di un “porto di sbarco sicuro” resterebbe affidata a «una concreta e fattiva cooperazione tra gli Stati interessati che, fino a oggi, è di fatto scritta solo sulla carta». La propaganda sovranista ha subito salutato la decisione come una “vittoria” dell’ex ministro dell’Interno Salvini, che da quando si è insediato, a partire dal caso Aquarius nel giugno del 2018, ha sistematicamente eluso gli obblighi di soccorso in mare che incombono agli Stati, negando la tempestiva indicazione di un porto sicuro di sbarco. «Finalmente un po’ di buonsenso», ha commentato Salvini. Una scelta di “buon senso” che produrrà altre tragedie come gli ultimi naufragi avvenuti nei pressi delle coste libiche e di Lampedusa. Una scelta “di buon senso” che permetterà di tenere lontane le navi di soccorso delle Ong, ma anche le navi commerciali, e i pescherecci di diversa nazionalità dalla zona di ricerca e salvataggio nella quale, nel Mediterraneo centrale, più frequentemente si verificano tragedie che in diversi casi rimangono senza testimoni. Una scelta di “buon senso” che contrasta con il diritto internazionale del mare, che nel nostro ordinamento interno può assumere una precisa efficacia cogente, per effetto dei richiami operati dalla Costituzione italiana agli articoli 10, 11 e 117. Un richiamo che il Tribunale dei Ministri di Roma ha evidentemente sottovalutato, ritenendo in sostanza che, nel caso di soccorsi in alto mare, tutto dipenda dagli accordi raggiunti tra gli Stati, e che nel tempo che occorre per raggiungere queste intese, le persone possono pure annegare, per i ritardi negli interventi di salvataggio, conseguenza della mancanza di mezzi disponibili, o essere condannate a vagare per settimane in acque internazionali. Le norme internazionali sulla ricerca e sul salvataggio (SAR) dei naufraghi in pericolo in alto mare sono contenute: nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994, che sancisce che ogni Stato contraente deve obbligare i comandanti delle navi che battono la propria bandiera nazionale a prestare assistenza ai naufraghi trovati in mare ovvero a portarsi immediatamente in soccorso di persone in pericolo quando si abbia notizia del loro bisogno di aiuto. Si deve ricordare poi la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas-Safety of Life at Sea, del 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980 e la Convenzione di Amburgo del 1979 resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994. Da tutte queste Convenzioni emerge un obbligo di salvataggio in mare della vita umana che, derivante da una consuetudine marittima risalente nel tempo, riguarda sia i comandanti delle navi che gli stessi Stati contraenti. Rientra nell’obbligo di ricerca e soccorso in mare l’individuazione di un porto sicuro dove sbarcare i naufraghi dopo le prime attività di soccorso. Sulla base della Convenzione di Amburgo ogni Stato contraente deve assicurare l’organizzazione di un adeguato “servizio SAR” all’interno dell’area assegnata alla propria responsabilità, oltre a doversi far carico, a certe condizioni, quale primo soggetto investito della segnalazione, anche degli eventi che accadono al di fuori della propria area di responsabilità-prevede in capo all’Autorità nazionale che ha coordinato il soccorso anche il dovere accessorio di assicurare che lo sbarco dei naufraghi avvenga in un “luogo sicuro”. L’archiviazione del procedimento penale instaurato a carico di Salvini per la mancata indicazione di un porto sicuro di sbarco risente di una lettura del diritto internazionale del mare che si basa su una interpretazione aberrante dell’obbligo degli stati concernenti la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Un obbligo che di fatto verrebbe cancellato, stando a una interpretazione che si presta, se si dovesse consentire il riconoscimento del principio della bandiera che batte la nave soccorritrice, a traversate pari alla metà della circumnavigazione del globo, e comunque a diverse settimane di navigazione, per sbarcare i naufraghi (si pensi alle numerose navi commerciali che battono bandiera panamense). A meno di ritenere che i giudici romani abbiano voluto adottare una decisione ad navem, nei confronti delle navi private delle Organizzazioni non governative, esattamente come, prima e dopo l’entrata in vigore del decreto sicurezza bis, erano ad navem le misure interdittive dell’ingresso nelle acque territoriali adottate dal ministro dell’Interno contro le Ong e soltanto contro le navi umanitarie.
Sea Watch, non fu sequestro: archiviata indagine su Salvini. Per il Tribunale dei ministri di Catania la nave della Ong è entrata in Italia in maniera unilaterale. Salvini: "Si possono chiudere i porti". Nico Di Giuseppe, Venerdì 21/06/2019, su Il Giornale. "La nave della Ong straniera Sea Watch è entrata in Italia in maniera unilaterale e senza le necessarie autorizzazioni della Guardia Costiera". È questa la motivazione con cui il Tribunale dei ministri di Catania, in merito al caso della Sea Watch del gennaio scorso, ha disposto l'archiviazione per il premier Giuseppe Conte, per i vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio e per il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli. I giudici hanno sottolineato la differenza con il caso della nave della Guardia Costiera Diciotti che era una nave militare italiana, a differenza della Sea Watch che è un'imbarcazione straniera. Per quella vicenda fu chiesta l'autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini, negata dal Senato. Il Tribunale dei ministri di Catania ha accolto la richiesta della Procura distrettuale e ha archiviato le posizioni dei quattro rappresentanti del governo. "Non fu sequestro ma semplicemente richiesta di ordine e regole? Bene! Prendo atto della decisione del Tribunale per i reati ministeriali di Catania, che ha archiviato il caso della Sea Watch del gennaio scorso. Processi e indagini non mi fanno paura, ma sono felice che anche la magistratura confermi che si possono chiudere i porti alle navi pirata. Continuerò a difendere i confini", ha commentato Salvini.
Tutti quei dubbi sui magistrati che hanno favorito la Sea Watch. I magistrati di Agrigento avrebbero potuto fermare l'ong tedesca. Ma non lo hanno fatto e l'hanno liberata. Perché? Andrea Indini, Sabato 15/06/2019, su Il giornale. La Sea Watch 3 si trova ancora in acque territoriali. A bordo ci sono i 52 migranti soccorsi davanti alle coste libiche. Da due giorni a sedici miglia dall'isola di Lampedusa, la nave "pendola", come si dice nel gergo marittimo, senza muoversi da quella posizione. In attesa di una svolta. Non è certo la prima volta che l'ong tedesca infrange tutte le leggi del mare anticipando le mosse della Guardia costiera di Tripoli e rifiutandosi di riportare i clandestini i Libia al solo scopo di ingaggiare un braccio di ferro con Matteo Salvini. Tanto che ora viene il dubbio sull'azione della magistratura italiana che, quando ha avuto la possibilità di fermare l'imbarcazione, on l'ha fatto. A sollevare queste accuse contro i pm italiani è Pietro Dubolino, presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione, che sulla Verità spiega chiaramente perché la nave della Sea Watch andava lasciata sotto sequestro. Forte del nuovo decreto Sicurezza bis, che gli dà la possibilità di vietarne l'ingresso, Salvini ha sottolineato che la nave non approderà in un porto italiano. "Sicuramente non arrivano in Italia perché per fesso non mi prendono", ha tuonato il vicepremier accusando la Sea Watch, così come tutte le altre ong che operano nel Mar Mediterraneo, di usare "gli esseri umani per loro indegni interessi. Non so se anche economici, ma sicuramente politici". "La Sea Watch sta andando avanti e indietro dimostrando ancora una volta di operare al di fuori della legge", ha incalzato il leader del Carroccio domandandosi come mai la procura non abbia confermato il sequestro. Lo stesso dubbio è stato sollevato dalle colonne della Veritàda un magistrato che non si fa problemi a rivela che, anziché trovarsi in mare aperto, a poche miglia da Lampedusa, la Sea Watch 3 dovrebbe essere sotto sequestro per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Come spiega molto bene Dubolino, il braccio di ferro tra Salvini e l'ong tedesca è un déjà vu. Quando la procura di Agrigento ha deciso di dissequestrarla, era facilmente prevedibile che sarebbe subito tornata a "raccogliere davanti alle coste libiche altri 'migranti' per portarli in Italia" e sfidare politicamente il vicepremier leghista. Certo i pm hanno tenuto in piedi il procedimento penale, ma rimettendo in mare l'imbarcazione hanno di fatto riarmato gli ultrà dell'accoglienza che non vedevano l'ora di montare un nuovo caso mediatico. Non deve, quindi, stupire se il "salvataggio" di giovedì scorso sia avvenuto abbia seguito il solito schema: l'ong che interviene prima della Guardia costiera di Tripoli, nonostante quest'ultima avesse preso in carico il soccorso; il rifiuto netto di trasferire i migranti sia in Libia sia in Tunisia; il blitz verso le acque territoriali italiane per creare un nuovo scontro politico e portare il caso a Bruxelles. Nel suo intervento pubblicato sulla Verità, Dubolino non mostra alcuno stupore per il consolidato modus operandi della Sea Watch. Al contrario solleva forti dubbi sull'operato della magistratura italiana che sembra aver "del tutto ignorato" certe precise disposizioni. In primo luogo l'arresto di chi è stato beccato a favorire l'immigrazione clandestina. È obbligatorio ma nel caso della Sea Watch è stato disatteso. "Non si comprende per quale ragione il comandante a carico del quale si riteneva fin da quel momento addebitabile il reato in questione sia stato denunciato a piede libero e non in stato di arresto, come la legge avrebbe imposto", scrive il magistrato ricordando che tale reato prevede anche la confiscadel mezzo di trasporto usato per commettere l'illecito. "In casi come questo - fa notare - è prassi corrente di tutti gli uffici giudiziari mantenere il vincolo sulle cose soggette a confisca obbligatoria, trasformando, sulla base di talune precise norme del codice di procedura penale, il sequestro probatorio in sequestro preventivo, da mantenere fino all'esito del procedimento penale". la procura di Agrigento, al contrario, ha dissequestrato la Sea Watch 3 permettendole di tornare in mare. "O, all'atto in cui è stata disposto il dissequestro della nave, la procura era già giunta alla conclusione che, per quanto emerso dalle indagini, il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina fosse da ritenere insussistente, e allora, contestualmente al dissequestro, avrebbe dovuto chiedere l'archiviazione del procedimento - ipotizza Dubolino - oppure riteneva che il reato fosse rimasto comunque configurabile, e allora, essendo pendente il relativo procedimento penale, avrebbe dovuto chiedere la trasformazione del sequestro probatorio in sequestro preventivo a garanzia, nell'eventualità della condanna, della eseguibilità della confisca obbligatoria". Le ombre sulla magistratura sono dunque notevoli. "Se questo fosse un Paese serio - conclude Dubolino - qualcuno, nelle opportune sedi istituzionali, dovrebbe chiedere a chi di dovere le opportune spiegazioni". Ma si sa è difficile (se non impossibile) che i magistrati paghino per degli errori commessi.
Sea Watch, Salvini contro Patronaggio: "Denuncio chi ha aperto i porti". Il procuratore fa sbarcare i migranti della Sea Watch senza avvisare il Viminale. L'ira di Salvini: "Così agevola l'immigrazione clandestina". Andrea Indini, Lunedì 20/05/2019, su Il Giornale. "È un Paese strano...". Matteo Salvini non si lascia andare allo sconforto, ma è ancora visibilmente irritato per quanto accaduto ieri. Lo sbarco non programmato degli immigrati che si trovavano a bordo della Sea Watch avrà sicuramente conseguenze pesanti. Contestualmente al sequestro della nave, la procura di Agrigento guidata da Luigi Patronaggio ha chiesto di trasbordare i clandestini e affidarli alla Questura, andando contro la volontà del ministro dell'Interno che lo è venuto a sapere a cose fatte, mentre era ospite di Giletti a Non è l'Arena (guarda il video). "Se c'è favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, chiunque agevoli sbarchi di immigrati irregolari dovrà vedersela con la legge", ha avvertito il vicepremier leghista rispondendo ai microfoni di Coffee break alla domanda se avesse intenzione di denunciare Patronaggio. Per Salvini far scendere altri immigrati dalle navi delle ong è "un segnale pericoloso" perché, "se gli scafisti vedono che ce la fanno, mettono altre donne e bambini in acqua". Il colpevole, a questo giro, ha un nome e un cognome: Luigi Patronaggio, il procuratore di Catania che in passato aveva già indagato il ministro dell'Interno accusandolo di sequestro di persona per il caso della nave Diciotti. "Non gli sono in massima simpatia", ha ironizzato il vice premier leghista che sull'affaire Sea Watch vuole andarci a fondo prima di tutto per capire se dietro c'è la manina dei Cinque Stelle e in secondo luogo per inchiodare la magistratura ai propri blitz che valicano l'operato del governo. "Il procuratore ha preso questa iniziativa, senza avvisare il ministro dell'Interno che non ha dato alcuna autorizzazione", ha denunciato il vice premier leghista su La7. "Se c'è favoreggiamento, chiunque agevoli gli sbarchi di immigrati irregolari dovrà vedersela con la legge". Ora che la Sea Watch 3 è stata sequestrata, Salvini pretende dalla procura di Catania un'azione eclatante per mettere fuori gioco l'ong tedesca. La stessa imbarcazione era già stata sequestrata. Eppure, una volta tornata in libertà, aveva ripreso le scorribande nel Mar Mediterraneo. "Le navi pirata illegali - ha intimato a Coffee break - devono essere messe in condizioni di non essere più utilizzate". E alle politiche buoniste dei "porti aperti", ha quindi contrapposto le politiche del rigore. Che fin qui "hanno salvato vite". E, snocciolando i dati del Viminale, ha zittito chi in queste ore continua a criticarlo: "I numeri dicono che grazie alla politica del rigore e dei porti chiusi abbiamo ridotto del 90% i morti e i dispersi in mare e non solo gli sbarchi. I porti aperti creavano il disastro, come ricorda Papa Francesco, la politica dell'attenzione salva vite".
Spataro, la toga anti Salvini invoca la "resistenza civile". L'ex procuratore di Torino: "Mi inchino a Patronaggio e ai colleghi di Agrigento, se necessario scendiamo in piazza in loro onore". Domenico Ferrara, Lunedì 20/05/2019, su Il Giornale. "Stringiamoci attorno a loro, se necessario scendiamo in piazza in loro onore, parliamo e informiamo". Contro Salvini ci mancava l'ex pm che chiama la piazza. Armando Spataro, ex procuratore capo di Torino, è sceso in campo in difesa del pm di Agrigento Luigi Patronaggio che ieri ha firmato il decreto di sequestro probatorio della Sea Watchpermettendo così ai 47 migranti di scendere a Lampedusa. Azione che ha fatto gongolare il magistrato tanto da prendere carta e penna e scrivere una missiva di congratulazioni al pm. "Sento il dovere di dirvi che leggendo la decisione della procura di Agrigento mi sono emozionato in maniera forte: il procuratore ed i suoi magistrati, fedeli alla legge, indagano ma tutelano le persone. Dovrebbe essere la normalità ma non sempre è così, indipendentemente dai deliri che ci circondano, ignorando le disposizione di legge e la dovuta tutela dei diritti umani. Senza retorica, mi inchino di fronte ai colleghi di Agrigento", ha scritto Spataro. Non è la prima volta che la toga punta il dito con il ministro leghista. Anzi, a dire il vero, potrebbe essere considerato uno dei migliori candidati all'opposizione salviniana. In pratica non c'è stato tema politico o provvedimento di Salvini al quale non sia seguita una critica o un attacco da parte della toga. Qualche esempio? Il 25 febbraio scorso, sulla legittima difesa l'ex procuratore di Torino, ora in pensione, tuona: "È una norma manifesto, diventa una sorta di brand, come è avvenuto anche con l'immigrazione, come se la sicurezza vincesse su tutti gli altri diritti, e questo non è accettabile. Si va incontro anche agli umori peggiori del popolo italiano, secondo cui tutelare il domicilio è importante al punto che si può sovvertire la gerarchia di valori tutelati dalla Costituzione". Sui migranti Spataro poi ha fatto sentire più volte la sua voce. Il 17 gennaio scorso ha affermato: "Io credo che l'intero mondo in cui viviamo dovrebbe riattivarsi. Penso a Zagrebelsky che ha parlato di necessità di una "resistenza civile". Basta con la caccia al migrante, le parole pesano come pietre: la sicurezza è un diritto fondamentale e un dovere per chi governa il Paese, ma deve essere esercita nei limiti e compatibilmente con i principi sui cui la nostra democrazia si regge". E ancora: "Non possiamo accettare una logica secondo cui vengono sparate frasi come "è finita la mangiatoia", "è finita la pacchia"". Il decreto sicurezza? "Contiene dei passaggi che non sono compatibili con la normativa generale e con i principi internazionali. Sicurezza è un brand in base al quale si può fare tutto, qual è l'obiettivo? Non far arrivare altri migranti e cacciare quelli che ci sono. E questo non si può accettare". Come non citare poi lo scontro a distanza tra l'allora pm Spataro e Salvini a seguito di untweet del ministro dell'Interno che si rallegrava per l'esito di un'operazione a Torino contro la mafia nigeriana. Spataro si era infuriato per il "rischio di danni al buon esito dell'operazione" invitando Salvini a evitare in futuro esternazioni simili. E il ministro si era risentito e non lo aveva nascosto: "Inaccettabile dire che il ministro dell'Interno possa danneggiare indagini e compromettere arresti. Qualcuno farebbe meglio a pensare prima di aprire bocca. Se il procuratore capo a Torino è stanco, si ritiri dal lavoro, il suo è un attacco politico". Le nuove norme di Salvini sull'immigrazione? "Stanno creando una clandestinizzazione legale". ll governo prepara la stretta al business dell'accoglienza? E il procuratore firma un protocollo con la cooperativa "L'Isola di Ariel" per impiegare i richiedenti asilo proprio negli uffici della procura. Al Comune di Lodi si chiedono particolari documenti alle famiglie dei bambini non italiani per avere accesso alla mensa? E il procuratore di Torino firma la petizione per fare ricorso.
Il 5 dicembre Spataro poi non usa mezzi termini: "Salvini? Che ci dobbiamo fare? È quello che ormai ci riserva il Paese". Giudizio netto anche sui sovranisti e sulla chiusura dei porti sciorinato il 13 novembre 2018: "Credo che i sovranisti debbano fare un passo indietro. Perché è chiaro che chi arriva in un paese straniero e chiede asilo ha il diritto di vedere considerata la sua richiesta. Non esiste la possibilità di vietare a degli immigrati di scendere dalle navi". Concetto già espresso nel luglio dello stesso anno: "Nessuno può vietare a un barcone di attraccare. La convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati prevede il diritto al non respingimento"
La battaglia di Spataro contro Salvini ha inizio già da tempo. Basti pensare che nel 2016 aprì un'inchiesta contro il leghista per vilipendio all'ordine giudiziario per le frasi dette durante un comizio a Collegno in cui parlò di "magistratura schifezza".
Nel novembre 2017 Spatato puntò il dito contro i sindaci che rifiutano l'accoglienza dei migranti: "Direi semplicemente "vergogna", fermo restando la destinazione e distribuzione dei migranti dev'essere fatta con accortezza".
Bordate anche sullo ius soli: "Si manifesta una vera e propria xenofobia. La solidarietà è un diritto, non un sentimento, e chi è contro lo ius soli lo deve capire. Un conto è dire che bisogna regolamentare il sistema, un conto è erigere muri. I muri non appartengono alla nostra cultura". E poi, ca va sans dire, "sarebbe bello un appello all'abolizione del reato di clandestinità". Insomma, opinioni forti, battaglie lanciate, critiche durissime. Con la toga prima e senza toga adesso, Spataro non ha mai lesinato reprimende politiche. Smentendo un po' quello che lui stesso affermava nel marzo dello scorso anno: "C'è una "tendenza" di alcuni magistrati a "proporsi come moralizzatori della società (...) I magistrati hanno i loro vizi, e potrei farne una lista infinita. Per molti di loro sembra più importante fare uscire sul giornale una notizia con il loro nome. Sembra anzi che questa sia la centralità del suo lavoro. Ed è sbagliato".
Respinto Salvini: tornano gli sbarchi. Navi, barche fantasma e rotta balcanica: l’invasione è ripartita. Il ministro bloccato da toghe, sindaci e Ong. Francesco Maria Del Vigo, Sabato 08/06/2019, su Il Giornale. G li sbarchi sono ricominciati. Come tutte le estati. Nonostante il ministro dell’Interno, nonostante i tanti annunci fatti e i porti chiusi. A parole. Perché, nei fatti, come dimostra lo sbarco di ieri a Pozzallo, sulle nostre banchine continuano ad arrivare i migranti. Perché in ballo non ci sono solo Salvini e la sue dichiarazioni, ma una intera galassia di istituzioni che si mettono di traverso al Viminale. E che tifano invasione. Un piccolo elenco: i sindaci che, nonostante le indicazioni di Roma, spalancano le porte delle loro città agli immigrati. I giudici - come quelli finiti nella maldestra «lista» del leader della Lega - che bloccano ogni tentativo di drenare i flussi e sprecano il loro tempo cercando di portare alla sbarra lo stesso ministro. Le Ong, che continuano a pirateggiare indisturbate nel Mediterraneo e a fornire il loro servizio di taxi. E poi ci sono i Paesi dell’Unione che non collaborano e hanno buon gioco nel trasformare l’Italia nel campo profughi della Ue. Un asse trasversale che va dalla sinistra chic di Macron - che blinda ermeticamente i suoi confini - ai sovranisti che sono amici di Salvini, ma evidentemente non abbastanza da accettare le quote di redistribuzione dei migranti. E poi, ancora, tutto un retroterra culturale che nel nome del buonismo cerca di far passare per cattivismo ogni legittimo tentativo di regolamentare l’immigrazione e i respingimenti: dall’associazionismo cattocomunista al Vaticano, passando per tutto il ceto cultural-intellettuale che conta. Alla fine dei conti, quello respinto, sembra proprio Salvini.
Il "veleno" delle toghe rosse: "Lega razzista e xenofoba". I magistrati di Area dichiarano guerra a Salvini e attaccano anche i 5 Stelle: "Sono solo dei populisti". Scontro totale col governo. Angelo Scarano, Venerdì 07/06/2019, su Il Giornale. Ancora braccio di ferro tra le toghe e Matteo Salvini. Il ministro degli Interni questa mattina ha mandato un messaggio chiaro ad una parte della magistratura soprattutto dopo la sentenza del Tar della Toscana che ha cancellato le "zone rosse" di Firenze: "Sono sconcertato che qualcuno impugni un’iniziativa che allontana gli spacciatori da alcune zone della città". Poi ha rincarato la dose parlando di quei magistrati pro-immigrazione: "Se qualcuno, indossando la toga, sull'immigrazione ritiene che in Italia ci sia spazio per tutto e per tutti, è chiaro che sarebbe opportuno non ci fossero sentenze sul tema immigrazione da parte di queste persone, però andiamo avanti tranquillamente". A questo punto è arrivata la presa di posizione di Area che punta il dito proprio contro il ministro degli Interni, Matteo Salvini: "Le liste di proscrizione non ci spaventano. Perché ne faremo parte in tanti e nessuno sarà lasciato solo", ha affermato Cristina Ornano, segretario di Area. Poi le tighe rivendicano le loro decisioni, il loro ruolo e le sentenze che tanto hanno fatto discutere negli ultimi tempi: "Rivendichiamo il diritto ed il dovere di interpretare le norme secondo legge e Costituzione in modo autonomo e indipendente senza subire le pressioni, gli attacchi e le violente aggressioni sui social cui i magistrati che non adottano provvedimenti graditi ad esponenti politici del Governo sono esposti. E rivendichiamo il diritto e prima ancora il dovere, di intervenire nel dibattito pubblico su tutti i temi che riguardano la Giustizia e a difesa dei diritti e delle garanzie delle persone". A questo punto arriva un vero e proprio affondo sul Carroccio e sulle sue politiche: "La Lega, partito di matrice leaderistica - ha osservato ancora Ornano - declina la sua offerta politica in chiave nazionalista, sovranista, populista, razzista e xenofoba, con un ricorso ai media ed ai social in modo diverso, sebbene altrettanto efficace, di quanto faccia il suo alleato. Il M5s, infatti, non esente anch’esso da spinte leaderistiche, trova la sua legittimazione nella base della piattaforma Rousseau e su un consenso tutto giocato sul terreno di una politica populista". Insomma lo scontro tra la magistratura e il Viminale prosegue e potrebbe avere esiti davvero imprevedibili.
Salvini: ecco la lista dei magistrati pro-migranti che bocciano le mie ordinanze. Pubblicato mercoledì, 05 giugno 2019 da V. Piccolillo su Corriere.it. Il Viminale ha messo «sotto osservazione» i giudici che nelle ultime settimane hanno pronunciato sentenze contro provvedimenti emanati dal ministero dell’interno. Lo annuncia il ministero stesso con una nota ufficiale. Nel mirino del dicastero di Matteo Salvini ci sono in particolare i magistrati di Firenze che martedì hanno bocciato il provvedimento sulle «zone rosse» e quelli di Bologna che pochi giorni fa avevano obbligato il comune ad iscrivere all’anagrafe della città alcuni richiedenti asilo, contro il parere del ministero. Allo tempo stesso è stato annunciato che il governo impugnerà la decisione del Tar di Firenze che ha cancellato le «zone rosse» di Firenze. La nota del Viminale, in particolare, sottolinea che è stata incaricata l’Avvocatura dello Stato « per valutare se i magistrati che hanno emesso le sentenze avrebbero dovuto astenersi per posizioni in contrasto con le politiche del governo in materia di sicurezza». Il ministero sta inoltre analizzato una serie di interventi pubblici dei giudici e opinioni espresse pubblicamente o attraverso rapporti di collaborazione o vicinanza con riviste sensibili al tema degli stranieri come “Diritto, immigrazione e cittadinanza” o con avvocati dell’Asgi (associazione studi giuridici per l’immigrazione) che hanno difeso gli immigrati contro il Viminale. Il ministero fa riferimento in particolare alla giudice Luciana Breggia - il magistrato del tribunale di Firenze che ha emesso la sentenza che ha escluso il ministero del giudizio sull’iscrizione anagrafica di un immigrato e contro la quale si è già scagliato il ministro dell’Interno Matteo Salvini («si candidi per cambiare le leggi che non condivide») - ma anche altri due magistrati che «collaborano con la rivista»: Rosaria Trizzino, che, dice il Viminale, è il giudice che presiede la sezione del Tar della Toscana che ha bocciato le zone rosse e Matilde Betti, la presidente della prima sezione del tribunale civile di Bologna che il 27 marzo 2019 non ha accolto il ricorso proposto dal ministero dell’Interno contro la decisione del giudice monocratico del capoluogo emiliano che disponeva l’iscrizione nel registro anagrafico di due cittadini stranieri.
«Da Salvini linciaggio contro i giudici» La rabbia della magistrata dopo le accuse. Pubblicato giovedì, 06 giugno 2019 da Corriere.it. Il Matteo Salvini che si è scagliato contro i giudici - quelli che a suo dire ostacolano la politica del governo su immigrati e sicurezza - ha suscitato la reazione indignata delle toghe fiorentine. Margherita Cassano, presidente della Corte d’appello di Firenze ha affermato che il giudice Luciana Breggia (del tribunale di Firenze, ndr) è «ingiustamente sottoposta a linciaggio morale» ed «esposta per i gravi attacchi subiti a pericolo per la sua incolumità, attesa la risonanza mediatica e l’effetto moltiplicatore della galassia dei social». Nel mirino del Viminale sono finite la presidente della seconda sezione del Tar toscano, Rosaria Trizzino, Matilde Betti del tribunale di Bologna e la giudice Luciana Breggia: la prima per aver annullato l’ordinanza del prefetto di Firenze sulle zone rosse, la seconda e la terza, invece, prima a Bologna il 27 marzo e poi a Firenze il 27 maggio, per non avere accolto il ricorso del ministero contro la decisione che disponeva l’iscrizione nel registro anagrafico di due cittadini richiedenti asilo. La presidente della Corte d’Appello di Firenze, Margherita Cassano, ha comunicato di aver richiesto l’intervento del Csm «affinché valuti la sussistenza dei presupposti, a mio avviso ricorrenti, per l’apertura di una pratica a tutela, volta a riaffermare la piena legittimità dell’operato del magistrato e a ristabilire il rispetto reciproco tra istituzioni dello Stato». Tornando sulle polemiche di ieri dopo gli attacchi ai magistrati di Firenze e Bologna, il vicepremier è tornato sull’argomento giovedì mattina, nel corso del programma Mattino5 su Canale 5: «Non faccio liste» di proscrizione dei giudici: «prendo atto del fatto che, su migliaia di giudici che fanno onestamente il loro lavoro, qualcuno invece fa politica, scrive libri va a convegni a favore delle porte aperte per l’immigrazione. È normale che un giudice va ad un convegno che è uno spot per l’immigrazione di massa e poi giudica la politica del ministero dell’Interno?». E ha aggiunto: «Nessun linciaggio, nessuna minaccia, nessun dossier: ho intenzione di usare tutti gli strumenti previsti dall’ordinamento per sapere se è normale e opportuno che alcuni magistrati, pubblicamente schierati contro la politica del governo, abbiano giudicato in cause che coinvolgevano il Viminale. Mi spiace che venga chiamato in causa il Csm, che in queste settimane ha altro a cui pensare. Lavoro per la sicurezza di tutti gli italiani, magistrati compresi».
La resistenza delle toghe rosse. Andrea Indini 5 giugno 2019 su Il Giornale. La divisione dei poteri, nel nostro sistema democratico, è stata proprio per evitare ingerenze e soprusi. Ma da tempo questo equilibrio è stato rotto dai magistrati che quotidianamente fanno politica indossando la toga. Non è una novità, ma ciclicamente diventa un vulnus che frena l’azione legislativa del governo o del parlamento. Negli ultimi tempi, per esempio, nelle aule dei tribunali è venuta a crearsi una strenua “resistenza” alle misure e ai provvedimenti votati per contrastare l’immigrazione clandestina o per garantire la sicurezza nel Paese. Laddove la sinistra è diventata elettoralmente marginale e politicamente irrilevante, l’opposizione ai decreti e alle direttive di Matteo Salvini viene fatta dai magistrati nelle aule dei tribunali. Si tratta di un’operazione sistematica iniziata l’anno scorso dalla procura di Agrigento con le indagini contro il numero uno del Viminale per il caso della nave Diciotti e continuata, passo dopo passo, a suon di sentenze pensate per smontare il decreto Sicurezza. È il caso, per esempio, dell’incessante attività di Luciana Breggia, presidente della sezione speciale per l’immigrazione e la protezione internazionale al tribunale di Firenze. Lo scorso 15 maggio ha negato al ministero dell’Interno la possibilità di impugnare un verdetto lasciando ai sindaci la completa autonomia in materia di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo. Sulla stessa scia anche il tribunale civile di Bologna ha preso una decisione analoga smontando ulteriormente il decreto. “Se qualche giudice vuole fare politica e cambiare le leggi per aiutare gli immigrati – è stato il commento – lasci il tribunale e si candidi con la sinistra”. Sembra però che per certi giudici sia più facile plasmare le leggi a proprio piacimento, lavorando (dietro le quinte) nelle aule dei tribunali.
E mentre il governo cerca di mettere un freno alle concessioni dei permessi per i rifugiati, la sezione della Breggia si aggiudica il più alto numero di riconoscimenti. Nel secondo trimestre del 2017, per esempio, su 41 ricorsi presentati ne sono stati accolti ben 35. Un eccesso di buonismo che è diventato evidente a tutti quando si è scoperto che il pachistano, che il primo giugno, a Viterbo, ha stuprato due ragazzine di 11 e 13 anni, aveva ottenuto proprio nel 2017 la protezione raccontando al tribunale di Firenze di essere omosessuale. Gli esempi, come quello della Breggia, sono molteplici. L’ultimo caso arriva sempre dalla Toscana dove il Tar si è espresso contro le zone rosse contro i balordi volute da Salvini. Ancora una volta è come se i magistrati provino a sostituirsi (e in alcuni casi ce la fanno anche) ai ministri o ai politici eletti dal popolo. Se un tempo, lo facevano con inchieste fortemente politicizzate e dai contorni drammaticamente giustizialisti o dismettendo la toga e candidandosi in parlamento, ora puntano a imporre le proprie idee rileggendo, a loro piacimento, le leggi. È successo in passato sulle adozioni gay e sta succedendo oggi sull’immigrazione la sicurezza. “È ridicolo pensare che i grandi problemi nazionali possano essere interpretati, e tantomeno risolti, da un pugno di procuratori”, diceva tempo fa l’ex pm di Venezia Carlo Nordio. Eppure le toghe si sono sempre arrogate questo potere. E nessuno ha mai fatto nulla per toglierglielo.
Docenti universitari, avvocati e magistrati: ecco i fan rossi dell'immigrazione. Dai tribunali di Firenze e Bologna al Tar della Toscana, ecco chi sono gli ultrà dell'accoglienza che combattono Salvini a suon di sentenze. Andrea Indini, Mercoledì 05/06/2019, su Il Giornale. "Quei magistrati avrebbero dovuto astenersi". Al ministero dell'Interno non nascondo l'insofferenza nei confronti delle recenti incursioni da parte di certe toghe rosse contro le direttive firmate Matteo Salvini. Ma fanno anche sapere che non sono disposti a rimanere inermi dinnanzi a una simile ingerenza. Nei prossimi giorni, infatti, il Viminale impugnerà la sentenza del Tar di Firenze contro le cosiddette "zone rosse" e riformulerà l'ordinanza per allontanare balordi e sbandati da alcune aree cittadine. Non solo. Verrà anche presentato il ricorso contro le sentenze dei tribunali di Bologna e Firenze che, facendo carta straccia del decreto Sicurezza, hanno permesso l'iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo. "Intendiamo rivolgerci all'Avvocatura dello Stato per valutare se i magistrati che hanno emesso le sentenze avrebbero dovuto astenersi, lasciando il fascicolo ad altri", fanno sapere dal Viminale ricordando che questi stessi giudici avevano assunto in passato posizioni in contrasto con le politiche del governo in materia di sicurezza, accoglienza e difesa dei confini. Idee che sono state espresse pubblicamente o attraverso rapporti di collaborazione o vicinanza con riviste sensibili al tema degli stranieri come Diritto, immigrazione e cittadinanza o con avvocati dell'Associazione studi giuridici per l'immigrazione (Asgi) che hanno difeso i migranti contro il Viminale. Tra le toghe rosse contro cui Salvini punta il dito c'è Luciana Breggia, la presidente della sezione specializzata in materia di immigrazione e protezione internazionale del Tribunale di Firenze. Come avevamo già scritto nei giorni scorsi, è lei la relatrice della sentenza che ha escluso il ministero dal giudizio sull'iscrizione anagrafica di un immigrato. Da certi magistrati la propria militanza politica viene manifestata alla luce del sole. La Breggia, per esempio, durante un dibattito pubblico organizzato a Firenze l'8 aprile, ha censurato l'uso della parola "clandestini". In un'altra occasione, invece, ha partecipato alla presentazione del libro L'attualità del male, la Libia del male è verità processuale, scrotto dell'avvocato dell'Asgi Maurizio Veglio, lo stesso legale che ha assistito l'immigrato che ha fatto ricorso contro il Viminale sull'iscrizione anagrafica e a cui la Breggia ha dato ragione. Durante l'incontro il magistrato, che è anche coordinatrice della onlus "Rete per l'ospitalità nel mondo", era seduta accanto a Alessandra Sciurba, la portavoce dell'ong di Luca Casarini & Co. "Mediterranea Saving Humans", e al professore Emilio Santoro che, in una recente intervista, ha definito l'attuale esecutivo "il governo della paura". Santoro è docente ordinario di Filosofia del diritto e Diritto degli stranieri proprio nel polo delle Scienze sociali dell'università di Firenze dove ha sede la redazione della rivista online Diritto, immigrazione e cittadinanza con cui collaborano sia il presidente della seconda sezione del Tar della Toscana, Rosaria Trizzino, che ieri ha bocciato le zone rosse anti balordi, e il presidente della prima sezione del tribunale civile di Bologna, Matilde Betti, che il 27 marzo 2019 non ha accolto il ricorso del Viminale contro la decisione del giudice monocratico del capoluogo emiliano che disponeva l'iscrizione nel registro anagrafico di due immigrati. Uno di questi era difeso da un altro avvocato dell'Asgi, Nazzarena Zorzella, che per anni ha co-diretto Diritto, immigrazione e cittadinanza e che ora è nel comitato editoriale dove siede anche la Betti. Un impegno pubblico che sfocia nella militanza politica. Tanto che in più di un'occasione Salvini li ha invitati a smettere la toga e ad affrontare le urne: "Se qualche giudice vuole fare politica e cambiare le leggi per aiutare gli immigrati lasci il tribunale e si candidi con la sinistra".
La giudice a Salvini: «Espellete i 4 stranieri prima del processo». Pubblicato mercoledì, 5 giugno 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Paola Di Nicola, gip al Tribunale di Roma. C’è chi lo leggerà come un assist togato a Matteo Salvini: un magistrato (peraltro di una corrente di sinistra) che sollecita più espulsioni di stranieri arrestati per violenza sulle donne. E chi invece, al contrario, vi ravviserà una critica messa in mora del ministro: un magistrato che fa rilevare il mancato ricorso alle espulsioni. Certo non capita tutti i giorni che un giudice delle indagini preliminari, mettendo insieme i precedenti di 4 stranieri da lei arrestati di recente con accuse di violenza sessuale o maltrattamenti di donne, scriva «per conoscenza al capo di gabinetto del ministero dell’Interno», oltre che a Questore e Prefetto, affinché sia «valutata la possibilità di espellere gli indagati, per motivi di pericolosità sociale, al momento della scadenza» dell’arresto e prima ancora del processo. L’espulsione, per la gip, sarebbe lo «strumento per evitare, da parte delle istituzioni italiane, la vittimizzazione secondaria delle persone offese» (cioè delle donne vittime di violenza) «attraverso il rischio di reiterazione dei reati subìti»: e ciò alla luce della «Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne», che «impone agli Stati di garantire alle donne il diritto a un’esistenza libera dalla violenza». La gip è Paola Di Nicola, in magistratura dal 1994, in servizio al Tribunale di Roma dove fu una dei giudici dei clienti delle prostitute minorenni dei Parioli, toga di area progressista e già candidata nel 2014 alle primarie per il Csm nella corrente di sinistra. Nella sua inconsueta lettera spedita prima delle elezioni, il 20 maggio, la gip fa riferimento agli arresti capitatile di un egiziano accusato di frustare da anni la moglie che non voleva lavorasse; di un giovane del Bangladesh accusato di tentata violenza sessuale dopo già due condanne per analogo reato; di un polacco indiziato di stalking dopo una condanna in primo grado per maltrattamenti; e di un romeno accusato di violenza sulla compagna e già gravato da diverse condanne. E riassume che «si tratta di soggetti pericolosi, che hanno già commesso reati nel nostro Paese e per i quali — si spinge — è certa la reiterazione di delitti di violenza di genere alla luce della motivazione delle misure cautelari». Perché certa? Perché «la modalità con la quale hanno esercitato violenza esprime un atteggiamento proprietario e predatorio rispetto al genere femminile che disprezzano, dileggiano, limitano nelle sue minimali forme di libertà, assoggettano, maltrattano, violano perché non ne riconoscono la dignità». Autocertificata dalla gip è poi la certezza che «l’espulsione amministrativa non contrasti con i principi di non respingimento del rifugiato nella Convenzione di Ginevra», verifica che spetta però non a un giudice penale ma a una diversa e apposita giurisdizione; «né con il divieto di sottoposizione a tortura e a pene o trattamenti inumani e degradanti nei loro Paesi», che il gip ritiene di escludere in automatico per Egitto e Bangladesh, anche perché gli indagati vi facevano spesso rientro. Infine la lettera della gip al capo di gabinetto di Salvini caldeggia anche due asseriti «indubbi ulteriori vantaggi per l’intera collettività», e cioè «la sensibile riduzione della sovrapopolazione carceraria, e la non celebrazione del processo penale».
La giudice fan di ong e immigrati che contesta rimpatri e porti chiusi. Firenze è una delle città con il più alto numero di rifugiati d'Italia. A presiedere la sezione che decide è un magistrato fan dell'accoglienza. Andrea Indini, Giovedì 30/05/2019 su Il Giornale. È stata relatrice di una sentenza contro il ministero dell'Interno, va in giro per l'Italia a denunciare la "deumanizzazione delle migrazioni", partecipa ai dibattiti con le ong, che infrangono le leggi per riempire l'Italia di clandestini, e sponsorizza libri schierati contro i respingimenti degli irregolari e la chiusura dei porti. Il magistrato in questione si chiama Luciana Breggia e a Firenze è presidente della sezione specializzata per l'immigrazione e la protezione internazionale del tribunale toscano. "La democrazia è bellissima - commenta Matteo Salvini - invito questo giudice a candidarsi alle prossime elezioni per cambiare le leggi che non condivide". Firenze è una delle città con il più alto numero di rifugiati d'Italia. A presiedere una delle 26 sezioni italiane, istituite alla fine di luglio del 2017 dall'allora ministro Marco Minniti per decidere se un immigrato ha diritto o meno alla protezione internazionale, è proprio la Breggia, ultrà dell'accoglienza che non fa mistero di non sposare le politiche portate avanti da Salvini per contrastare l'immigrazione clandestina. E così succede che, nel secondo semestre 2017, su 41 ricorsi presentati dai richiedenti asilo la sezione da lei presieduta ne ha accolti 35. Un numero a dir poco impressionante: più dell'85%. Nel 2018-2019 non si è ancora pronunciata su alcun ricorso, ma è plausibile che il trend sia pressoché lo stesso. "Dietro quelle pratiche, quei fascicoli, c'è la storia umana del nostro tempo - ha spiegato il magistrato in una recente intervista - non sono numeri, ma persone e spesso dietro a queste persone ci sono altre persone in bilico, in pericolo". Lo scorso 15 maggio la Breggia ha emesso una sentenza con cui ha negato al ministero dell'Interno la possibilità di impugnare una decisione del tribunale di Firenze che aveva precedentemente disposto l'immediata iscrizione all'anagrafe del Comune di Scandicci di un richiedente asilo somalo. "Ogni richiedente asilo, una volta che abbia presentato la domanda di protezione internazionale - aveva deciso lo scorso marzo il giudice Carlo Carvisiglia - deve intendersi comunque regolarmente soggiornante, in quanto ha il diritto di soggiornare nel territorio dello Stato durante l'esame della domanda di asilo". La sentenza della Breggia ha, quindi, tolto al Viminale la possibilità di opporsi alla sentenza e ha lasciato ai sindaci la completa autonomia di decidere contrastando, in questo modo, quello che al ministero definiscono "un orientamento giurisprudenziale consolidato". "Il rischio - fanno sapere dallo staff di Salvini - è avere interpretazioni difformi sul territorio e su un tema delicato come quello anagrafico". La Breggia on si limita a schierarsi contro Salvini soltanto in Aula, ma "occupa" anche presentazioni e dibattiti e rilascia interviste per dimostrare tutta la propria avversione nei confronti delle misure prese dal governo Conte. In un'occasione è stata relatrice alla presentazione del libro L'attualità del male, la Libia dei lager è verità processuale di Maurizio Veglio, avvocato membro dell'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi). Al tavolo con lei c'era anche Alessandra Sciurba, la portavoce della ong di Luca Casarini & Co., "Mediterranea Saving Humans". A marzo, in una lunga chiacchierata con Famiglia Cristiana, ha raccontato di girare "molto per le scuole" d'Italia per sensibilizzare su certi temi e di scrivere di "quegli uomini ridotti in condizione di schiavi". Nelle occasioni pubbliche non si fa mai problemi a dirsi contraria ai Centri di accoglienza straordinaria che difinisce "limbo di insicurezza". "Ci sono casi di richiedenti asilo che sono letteralmente impazziti durante la lunga attesa, anche a causa delle gravi situazioni dei familiari rimasti in loco - è la sua idea - storie di vite spezzate, di famiglie distrutte, storie di enorme sofferenza". Per la Breggia "le leggi, che costituiscono il diritto, non sempre vanno nella direzione della giustizia". È forse sulla base di questa convinzione che si oppone quotidianamente, in Aula e non solo, a quelli che ritiene provvedimenti ingiusti. Un'ingerenza che Salvini trova inaccettabile: "Mi aspetto che un magistrato applichi le norme, anziché interpretarle". Da qui l'invito a "candidarsi alle prossime elezioni per cambiare le leggi che non condivide".
Non ha i requisiti da profugo. Ma il giudice lo fa restare in Italia: "È integrato". Il giudice: "In Mali non è perseguitato". Ma gli accorda ugualmente lo status di rifugiato: "Il rimpatrio sarebbe un danno per la sua vita privata". Sergio Rame. Martedì 14/05/2019 su Il Giornale. "È ben integrato, quindi può restare in Italia". È questa la motivazione che, come riporta Repubblica, ha spinto un giudice del tribunale di Venezia a regalare il permesso di soggiorno a un immigrato del Mali anche se questo non ha i requisiti per ottenere lo status da rifugiato. A detta della toga il giovane si è integrato così bene che, se dovesse essere espulso dall'Italia, la "sua vita privata" riceverebbe un "danno sproporzionato".
La commissione territoriale nega il permesso. Due anni fa la commissione territoriale di Verona aveva respinto la richiesta avanzata dall'immigrato di essergli riconosciuta la protezione internazionale. Adesso, però, il tribunale di Venezia ha ribaltato quella decisione regalando di fatto il permesso di soggiorno al giovane straniero. Eppure il giudice, che glielo ha inaspettatamente concesso, ha ammesso che il maliano non è mai stato "oggetto di persecuzione per razza, religione o appartenenza a un determinato gruppo sociale". Non solo. Come riporta Repubblica, la toga ha messo nero su bianco che in nessun modo "le circostanze fanno emergere la sussistenza di un danno grave in caso di rientro in Mali, cioè il rischio verosimile di essere sottoposto a pena capitale o a trattamenti inumani o degradanti". Nonostante tutte queste premesse il verdetto è stato l'esatto opposto.
Il blitz del tribunale di Venezia. Nonostante il maliano non avesse alcun requisito per ottenere lo status da rifugiato, il tribunale di Venezia ha deciso per un strappo alle regole. "(L'immigrato, ndr) - si legge nella sentenza del giudice - ha dato prova di una perfetta padronanza della lingua italiana e per ciò stesso di una seria capacità d'inserimento". Il magistrato ha anche riconosciuto al giovane di essersi "occupato a tempo pieno in molteplici attività lavorative, dalla vigilanza al lavoro in ristorazione e in agricoltura, di aver frequentato e concluso la scuola secondaria, oltre allo svolgimento di volontariato e di essere in procinto di acquisire la patente". Tutto questo avrebbe spinto il tribunale a non rimpatriare lo straniero.
I giudici fermano Salvini. Una sentenza del tribunale di Bologna: residenza ai migranti. Alessandro Sallusti, Sabato 04/05/2019 su Il Giornale. I l decreto sicurezza in base al quale gli immigrati clandestini devono lasciare il Paese e non possono iscriversi all’anagrafe per alcuni magistrati è carta straccia. Tanto che nel giro di pochi giorni i tribunali di Firenze prima e Bologna ieri hanno accolto il ricorso presentato da alcuni ospiti dei centri di accoglienza che in base alla nuova legge si erano visti rifiutare dai comuni la domanda di registrazione come cittadini a tutti gli effetti. La sinistra esulta, Salvini incassa il secondo ceffone in poche ore (il primo è stato il licenziamento del suo sottosegretario Armando Siri) e va su tutte le furie: «Se i magistrati vogliono fare politica - ha detto - prima si candidino alle elezioni». In effetti il decreto sicurezza, che piaccia o no, è una legge dello Stato approvata da un Parlamento sovrano e controfirmata dal Presidente della Repubblica che ne ha così garantito la costituzionalità. Disattendere le sue norme è un’evidente sfida del potere giudiziario al potere politico, cosa del resto non nuova nella nostra storia. Il primo ministro della Giustizia della Repubblica, Palmiro Togliatti, sosteneva apertamente che le «leggi si interpretano per gli amici e si applicano ai nemici» e da allora la musica purtroppo non è mai cambiata. Per di più, in questo caso, il nemico non è soltanto la persona fisica Matteo Salvini ma la stragrande maggioranza degli italiani che aveva voluto prima con il voto nelle urne e accolto poi con soddisfazione una legge che arginava il vagabondare per il Paese di disperati senza titoli e spesso in balia della criminalità. Disattendere tutto questo vuole dire «fare politica» attiva, almeno che non si creda che il Parlamento è un covo di criminali e che il Presidente Mattarella sia loro complice promulgando leggi razziste in palese contrasto con la Costituzione. Detto ciò, penso che in queste ore Matteo Salvini stia capendo sulla sua pelle l’enorme differenza che c’è tra il consenso e la possibilità di governare in un sistema così complicato e paludoso qual è l’Italia, inquinata in ogni angolo dal virus della sinistra. Per di più se frequenti una cattiva compagnia, i Cinque Stelle, che di quel mondo sono la logica prosecuzione, gli eredi che si palesano a lui e agli italiani sotto mentite spoglie. Altri quattro anni così e di Salvini non resterà traccia.
Stop dei giudici al «decreto Salvini»: sì alla residenza per i profughi. Pubblicato venerdì, 3 maggio 2019 da Corriere.it. Lo stop dei giudici al «decreto Salvini» sembra aprire un fronte (oltre a quelli di governo) per il leader leghista. Il Tribunale civile di Bologna ha accolto il ricorso presentato da due richiedenti asilo, a cui era stata negata l’iscrizione all’anagrafe come previsto dal decreto sicurezza (e da una successiva circolare del Viminale). Secondo i magistrati «la mancata iscrizione ai registri anagrafici impedisce l’esercizio di diritti di rilievo costituzionale ad essa connessi, tra i quali rientrano ad esempio quello all’istruzione e al lavoro». Il Tribunale ha anche sottolineato che la norma «non contiene un divieto esplicito di iscrizione per i richiedenti asilo, bensì evidenzia come il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non costituisce titolo per l’iscrizione all’anagrafe». Due passaggi che di fatto aprono un nuovo fronte politico. «Saluto questa sentenza con soddisfazione, il Comune la applicherà senza opporsi», ha commentato il sindaco di Bologna, Virginio Merola. Poche settimane fa c’era stato un caso analogo in Toscana. Il Tribunale di Firenze aveva accolto il ricorso di un cittadino somalo richiedente asilo, ospitato in una struttura di Scandicci. Anche in questo caso era stata rifiutata l’iscrizione all’anagrafe in base al «decreto Salvini» e come a Bologna, il giudice aveva dato invece parere positivo. «Ogni richiedente asilo, una volta che abbia presentato la domanda di protezione internazionale, deve intendersi comunque “regolarmente soggiornante”, in quanto ha il diritto di soggiornare nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda di asilo e, quindi, è autorizzato a presentare domanda di iscrizione all’anagrafe», aveva motivato la decisione il Tribunale.
Matteo Salvini, i giudici calpestano il decreto sicurezza e lui li asfalta: "Sentenza vergognosa". Libero Quotidiano il 3 Maggio 2019. I giudici del Tribunale di Bologna hanno accolto il ricorso di due stranieri che si sono visti rifiutare la richiesta di iscrizione all'anagrafe comunale, così come prescritto dal decreto Sicurezza voluto e convertito in legge dal Parlamento. Secondo i giudici bolognesi, quindi, il Comune di Bologna dovrà iscrivere i richiedenti asilo nei registri dell'anagrafe, nonostante la legge dica il contrario. Durissima la reazione del ministro dell'Interno, Matteo Salvini, alla decisione del tribunale di Bologna: "Sentenza vergognosa. Se qualche giudice vuole fare politica e cambiare le legge per aiutare gli immigrati, lasci il Tribunale e si candidi con la sinistra. Ovviamente faremo ricorso contro questa sentenza, intanto invito tutti i sindaci a rispettare (come ovvio) la Legge". Dal Viminale comunque assicurano che, nonostante la sentenza di Bologna, la legge non cambia: "Sentenze come queste non sono definitive, riguardano singoli casi e per modificare la norma serve un pronunciamento della Corte costituzionale".
«Residenza ai profughi». E Salvini attacca i giudici. Il tribunale di Bologna ha accolto il ricorso di due richiedenti asilo, a cui era stata negata l’iscrizione all’anagrafe come previsto dal decreto sicurezza. Giulia Merlo il 4 Maggio 2019 su Il Dubbio. Il secondo stop al decreto Sicurezza del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, arriva dal tribunale di Bologna, dopo quello di Firenze. Il giudice civile, infatti, ha accolto il ricorso presentato da due richiedenti asilo, a cui era stata negata l’iscrizione all’anagrafe come previsto dal decreto sicurezza, in quanto «la mancata iscrizione ai registri anagrafici impedisce l’esercizio di diritti di rilievo costituzionale ad essa connessi, tra i quali rientrano ad esempio quello all’istruzione e al lavoro». Per fare qualche esempio, senza un documento di identità i richiedenti asilo si trovano in difficoltà ad avere un medico di base, prendere la patente, iscriversi a un corso e anche avere un conto in banca su cui far versare lo stipendio. Non solo, il tribunale ha anche evidenziato come la norma voluta dal Viminale «non contiene un divieto esplicito di iscrizione per i richiedenti asilo, bensì evidenzia come il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non costituisce titolo per l’iscrizione all’anagrafe». Dunque, il giudice non ha concesso il permesso di soggiorno ma ha ritenuto che, in attesa di quella decisione, il richiedente asilo possa soggiornare per un tempo sufficiente ad ottenere l’iscrizione all’anagrafe. «Questa interpretazione – ha scritto la giudice Matilde Betti nella sentenza – offre una lettura della norma coerente col quadro normativo costituzionale e comunitario, altrimenti di dubbia tenuta». In sostanza. La decisione ha ritenuto che l’articolo 13 del decreto voluto dal ministro Salvini abbia eliminato unicamente l’automatismo che permetteva di richiedere l’iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo da parte dei centri di accoglienza, ma non impedisca di farlo. Di grande soddisfazione le reazioni degli avvocati difensori, Nazzarena Zorzella e Antonio Mumolo: «In un momento di estremo imbarbarimento in cui si vuole dividere in cittadini di serie A e di serie B, ecco una sentenza che dà certezza ai valori garantiti dalla nostra costituzione». Opposte le reazioni, sui fronti politici. Da una parte il sindaco di Bologna, il dem Virginio Merola, ha commentato con soddisfazione la decisione, facendo sapere che «il Comune la applicherà senza opporsi» e ha attaccato il ministro dell’Interno: «La norma è illegittima e la magistratura è indipendente. Un ministro fa ricorso ma non minaccia i giudici di essere di parte”. Salvini, invece, ha manifestato tutto il suo disappunto con un tweet furioso: «Sentenza vergognosa. Se qualche giudice vuole fare politica e cambiare le leggi per aiutare gli immigrati, lasci il Tribunale e si candidi con la sinistra. Ovviamente faremo ricorso contro la sentenza, invito tutti i sindaci a rispettare la Legge». Immediata la risposta dell’Associazione nazionale magistrati i quali fanno sapere che le dichiarazioni del ministro Salvini «delegittimano la magistratura in quanto, in maniera del tutto infondata, alludono al fatto che le sentenze possano essere influenzate da valutazioni politiche e che nella scelta sull’applicazione delle misure cautelari, basata esclusivamente sulla verifica della ricorrenza dei presupposti previsti dalla legge, incida una incomprensibile tendenza dei giudici a scarcerare i presunti autori dei reati». Per quel che riguarda la sentenza, affinché faccia stato nomofilattico sarà necessario aspettare il pronunciamento eventuale della Corte di Cassazione ( nel caso in cui il giudizio arrivi fino al grado di legittimità) o – per intaccare la legge su un eventuale fronte di incostituzionalità – che si arrivi a un giudizio davanti alla Corte Costituzionale, ma le sentenze di primo grado prima del tribunale di Firenze e ieri di quello di Bologna aprono comunque un fronte significativo sul piano giurisprudenziale. I giudici toscani, infatti, avevano ritenuto che «Ogni richiedente asilo, una volta che abbia presentato la domanda di protezione internazionale deve intendersi comunque regolarmente soggiornante, in quanto ha il diritto di soggiornare nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda di asilo». In caso contrario, il diniego risulterebbe discriminatorio. Il giudizio di primo grado fa stato solamente per i casi esaminati, ma potrebbero essere altri tribunali ad allinearsi a questa lettura della norma voluta da Salvini, di fatto bloccando uno degli effetti espressamente voluti dal ministro. Il tema del trattamento giuridico dei migranti, dunque, rimane questione aperta. In merito, proprio ieri, la Cassazione ha assunto una decisione discordante rispetto alla sua stessa giurisprudenza, ritenendo che la nuova normativa sui permessi di soggiorno per i migranti, abbia «applicazione immediata» : una nozione che «è connaturata al principio di imperatività della legge», che altrimenti finirebbe «per applicarsi solo ai rapporti nuovi» e «mai a quelli in corso al momento della decisione». Un’altra sentenza, questa, che riapre il tema della irretroattività della norma sulla sicurezza e i migranti.
Tutti rifugiati fino a prova contraria. La Cassazione e il ribaltamento dell’onere della Prova.
Cassazione. Gli immigrati che fanno ricorso sono saliti del 550%. Valentina Errante, Il Messaggero, 26 gennaio 2019. Il risultato dell'abolizione dell'impugnazione in secondo grado per i permessi di soggiorno. Di migranti, di fatto si parla, anche all'inaugurazione dell'anno giudiziario. E non solo perché i ricorsi in Cassazione sono aumentati del 550 per cento, per effetto della legge che ha abolito il ricorso in appello in caso di bocciatura delle domande di protezione internazionale. Il primo presidente della Corte, Giovanni Mannone, comincia ricordando il settantesimo anniversario della proclamazione della dichiarazione universale dei Diritti dell'uomo, preceduta di un anno dalla nostra Costituzione e sottolinea che "Evitare ogni regressione in materia di diritti umani è un compito che si è dato la comunità internazionale". Nella sua relazione, Mammone, spiega quali siano concretamente gli effetti della riforma voluta dall'ex ministro dell'Interno Marco Minniti e dall'allora Guardasigilli Andrea Orlando che, nel 2017, per accelerare i procedimenti in materia di protezione internazionale, decisero di istituire, presso i tribunali distrettuali, sezioni speciali in materia di immigrazione, con competenza a decidere sui procedimenti amministrativi. Quel decreto, convertito in legge, stabiliva anche che i dinieghi del diritto d'asilo non fossero più reclamabili, ma dopo l'esame dei Tribunali, l'unico ricorso possibile fosse in Cassazione. Così, in un anno, piazza Cavour è stata sommersa. "Tale disposizione - spiega Mammone - ha comportato un improvviso quanto inaspettato aumento dei ricorsi in materia di protezione internazionale, gravando la Corte di 6.026 cause, con una percentuale in aumento del 550 per cento. Tale afflusso, nonostante l'impegno anche organizzativo della sezione interessata (la prima civile) per lo smaltimento dei nuovi ricorsi - ha continuato il presidente - ha comportato un aumento considerevole della pendenza generale dei ricorsi". Nel 2017 i ricorsi erano stati 1.089. I nuovi ricorsi civili, che negli anni precedenti si erano andati stabilizzando per numero, con una progressiva riduzione dell'arretrato, sono così aumentati in maniera inattesa, nella misura del 21,7 per cento. Ma la tutela dei diritti è il punto di partenza della relazione di Mammone: "È compito degli Stati moderni - dice - apprestare strumenti idonei per dare risposta alla richiesta di tutela che gli individui, cittadini e non, richiedono per i loro diritti. Le moderne costituzioni - dice il primo presidente - predispongono a strumento istituzionale di tutela di tutela i giudici e, più in particolare, le strutture giudiziarie, come articolate nei vari settori della giurisdizione e nei gradi di giudizio".
Migranti, Cassazione su asilo politico. Per negarlo bisogna provare assenza rischio. Scrive il 26.04.2019 Silvana Palazzo su Il Sussidiario. Migranti e asilo politico, Cassazione contro stretta permessi: per negarlo i giudici devono provare l’assenza del rischio nei Paesi d’origine. Per negare l’asilo ai migranti non bastano più «generiche fonti internazionali»: il giudice deve provare l’assenza di pericolo nel Paese di provenienza. Lo stabilisce la Cassazione, che ha accolto il ricorso di un cittadino pakistano a cui la Commissione prefettizia di Lecce e poi il Tribunale della stessa città avevano negato nel 2017 di restare in Italia con la protezione internazionale. Con questa sentenza la Suprema Corte esorta i magistrati ad evitare «formule stereotipate» e a specificare da quali fonti abbiano acquisito «informazioni aggiornate sul Paese di origine» dei richiedenti asilo, in particolare sull’assenza di conflitti nei Paesi di provenienza di chi chiede di rimanere in Italia perché in patria la sua vita è a rischio. L’avvocato Nicola Lonoce, che assiste Alì S., ha fatto presente che la decisione era stata preso tenendo conto di «generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili» e senza che il giudice avesse usato il suo potere di indagine.
MIGRANTI, CASSAZIONE CONTRO STRETTA SU ASILO POLITICO. Il reclamo del pakistano ha avuto successo: la Cassazione ha dato ragione ad Alì. La Suprema Corte ha evidenziato che il giudice «è tenuto a un dovere di cooperazione» per il quale deve «accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale». In questo modo ogni domanda va esaminata alla luce di informazioni aggiornate, non di formule generiche come il richiamo a non specificate «fonti internazionali». Devono accertare «anche d’ufficio se, e in quali limiti, nel Paese di origine» del richiedente asilo «si registrino fenomeni di violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, che espongano i civili a minaccia grave e individuale della vita o alla persona». E quindi deve indicare le fonti esaminate. Il caso dunque dovrà essere riesaminato a Lecce. Questo vuol dire che l’onere della prova è ribaltato: tocca ai magistrati. Questa sentenza potrebbe allargare le maglie dell’asilo, proprio in controtendenza con le indicazioni di Matteo Salvini.
La Cassazione: tutti rifugiati fino a prova contraria, scrive il 27 aprile 2019 Stelio Fergola su oltrelalinea.news. Come riporta l’ANSA, la Cassazione ha appena emesso una sentenza davvero estrema. Se non si prova l’assenza di pericolo nel Paese di origine, qualsiasi migrante va considerato rifugiato. Avete capito bene: tutti rifugiati fino a prova contraria. “Basta con la stretta sulle richieste di asilo motivata, dai giudici di merito, sulla base di generiche “fonti internazionali” che attesterebbero l’assenza di conflitti nei paesi di provenienza dei migranti che chiedono di rimanere in Italia perchè in patria la loro vita è a rischio” è riportato nella notizia. Quanto alla fonte giuridica, è il ricorso di un pakistano, al quale la Commissione prefettizia e il Tribunale di Lecce avevano proibito di rimanere nel nostro Paese nel 2017, negando la protezione internazionale. L’uomo, di nome Alì, aveva reclamato sottolineando che il suo stato era stato deciso “in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili”. Reclamo vincente, a quanto pare, visto che per la Cassazione il giudice “è tenuto a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate”, e non di “formule generiche” come il richiamo a non specificate “fonti internazionali”. La questione sarà riesaminata a Lecce, ma i giudici sono di nuovo protagonisti dell’ennesimo tentativo di produrre leggi che in Italia non esistono: come avvenuto per i matrimoni gay (ben prima della legge Cirinnà), o come sta avvenendo per le adozioni basate su uteri affittati all’estero. Ora ci si prepara a svuotare definitivamente di efficacia il reato di immigrazione clandestina. Perché il clandestino è rifugiato fino a prova contraria. (di Stelio Fergola)
Cassazione, una sentenza ora riapre le porte ai migranti che chiedono asilo. Una sentenza della Cassazione dà il via ad una serie di ricorsi sull'asilo. Per negarlo il giudice deve provare che nel Paese d'origine il richiedente non rischia la vita. Franco Grilli, Venerdì 26/04/2019 su Il Giornale. Non potrà essere rimpatriato. Un pakistano che si è visto rifiutare la domanda di asilo, dopo l'impugnazione del provvedimento potrà restare ancora in Italia. Di fatto dietro questa storia che si è consumata al tribunale di Lecce potrebbe nascondersi un precedente giuridico che può avere conseguenze anche sulla gestione dei flussi migratori. Ma facciamo chiarezza. Il pakistano in questione aveva dovuto rinunciare all'asilo perché secondo il Tribunale di Lecce non c'erano seri rischi per la sua vita nel Paese d'origine, il Pakistan. Questo verdetto è stato però completamente ribaltato dalla Cassazione. Infatti secondo la Suprema Corte, i giudici non possono verificare i rischi che corre il richiedente asilo tenendo conto di generiche "fonti internazionali" che attestano l'assenza di conflitti nel Paese di origine. La Cassazione bacchetta il Tribunale che avrebbe dovuto ottenere "informazioni aggiornate sul Paese di origine del richiedente asilo". Da qui l'esortazione ai giudici: "Il giudice è tenuto a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l'esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate". Adesso il caso del pakistano dovrà essere nuovamente esaminato. Ma il verdetto della Cassazione rischia di cambiare totalmente volto alle procedure per il riconoscimento delle richieste di asilo. E rischia (inoltre) di spalancare le porte ad una valanga di ricorsi.
Migranti, per negare asilo politico il giudice deve provare assenza di pericolo nel Paese d'origine. Lo ha stabilito la Cassazione. Il Tribunale di Lecce dovrà ora rivedere la sua decisione di non concedere protezione internazionale a un richiedente del Pakistan. La Suprema Corte esorta i magistrati a evitare "formule stereotipate". Rai News il 26 aprile 2019. Basta con la stretta sulle richieste di asilo motivata, dai giudici di merito, sulla base di generiche "fonti internazionali" che attesterebbero l'assenza di conflitti nei paesi di provenienza dei migranti che chiedono di rimanere in Italia perché in patria rischiano la vita. Lo chiede la Cassazione che esorta i magistrati a evitare "formule stereotipate" e a "specificare sulla scorta di quali fonti" abbiano acquisito "informazioni aggiornate sul Paese di origine" dei richiedenti asilo. A fare da apripista a questo orientamento è stato il ricorso di un pakistano al quale, con accertamenti 'sommari', era stato rifiutata l'accoglienza umanitaria. Sulla base di questi principi - inviati al Massimario - la Suprema Corte ha dichiarato "fondato" il reclamo di Alì S., al quale la Commissione prefettizia di Lecce e poi il Tribunale della stessa città, nel 2017, avevano negato il diritto a restare in Italia respingendo la sua domanda di protezione internazionale. Alì - difeso dall'avvocato Nicola Lonoce - non si è dato per vinto e ha combattuto fino in Cassazione. Qui ha fatto presente che l'asilo gli era stato negato "in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili" e senza che il giudice avesse azionato il suo potere di indagine. Il reclamo contro il Ministero dell'Interno, difeso dall'Avvocatura dello Stato, ha fatto centro. La Cassazione, accogliendolo, ha sottolineato che il giudice "è tenuto a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l'esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate", e non di "formule generiche" come il richiamo a vaghe "fonti internazionali". Il caso di Alì sarà ora riesaminato a Lecce. Quando chi richiede asilo allega "i fatti costitutivi del suo diritto", il giudice deve accertare "anche d'ufficio se, e in quali limiti, nel Paese di origine" dello straniero "si registrino fenomeni di violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, che espongano i civili a minaccia grave e individuale della vita o alla persona", e deve indicare le fonti prese in esame. "Senza una simile specificazione - avverte la Cassazione, sentenza 11312 -sarebbe vano discettare di avvenuto concreto esercizio di un potere di indagine aggiornato". L'asilo ad Alì era stato negato sulla base di "fonti internazionali" che parlavano di conflitto in Pakistan nelle zone del Fata e del Khyber Pakthunkwa, mentre per la sua regione di provenienza - non citata - si faceva riferimento a fonti Easo, l'Agenzia europea per l'asilo, che comunque definiva la situazione "assai instabile". Per la Cassazione, inoltre, è "solo genericamente enunciata" la ragione per cui non è stata riconosciuta "una specifica rilevanza, alla stregua di conflitto generalizzato", al "suddetto livello di instabilità". E non si capisce "se tale sia l'opinione del tribunale ovvero l'attestazione tradotta dalle suddette fonti".
"No all'espulsione di un immigrato con l'Hiv": ecco la decisione della Cassazione. La Cassazione dice no all'espulsione di un immigrato affetto dalla sindrome dell'Hiv in quanto si metterebbe a rischio ulteriormente la sua salute. Aurora Vigne, Lunedì 15/04/2019, su Il Giornale. No all'espulsione di un immigrato, se affetto dalla sindrome dell'Hiv. È questo quanto stabilito dalla prima sezione penale della Cassazione, che ha così annullato con rinvio una decisione del tribunale di sorveglianza di Ancona, con la quale era stata respinta l'opposizione di un tunisino al decreto che ne aveva disposto l'espulsione. Nell'ottica della Cassazione, quindi, ci sono le possibili conseguenze circa l'aggravarsi delle condizioni di salute dell'immigrato per il venir meno di "irrinunciabili cure". Secondo i giudici marchigiani, la malattia dello straniero appariva dal 2015 "sotto controllo" attraverso "terapie di semplice mantenimento" che avevano portato a prevenire "possibili complicanze": per questo, era la tesi del tribunale di sorveglianza, "non si trattava di continuare ad assicurare in Italia un tipo di cure che, avendo diretta correlazione sul piano dell'efficacia con gli interventi sanitari indifferibili e urgenti, potevano precludere l'esecuzione dell'espulsione del cittadino straniero". La Cassazione ha quindi accolto il ricorso dell'immigrato: "In tema di espulsione dello straniero quale misura alternativa alla detenzione le cause ostative alla stessa debbono essere interpretate alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n.252/2001, secondo cui il provvedimento di espulsione in questione non può comunque essere eseguito quando emerga, all'esito di un doveroso accertamento svolto in concreto, un danno irreparabile per la salute". Del tema Hiv- immigrazione aveva parlato anche qualche mese fa IlGiornale.it. Secondo l’immunologo Fernando Aiuti, che riporta dei dati ufficiali, in un caso su tre l’infezione riguarda un cittadino straniero, e per questo si rende pertanto necessario sottoporre al test gli extracomunitari presenti in Italia, specialmente i clandestini.
NON PUÒ ESSERE ESPULSO PERCHÉ HA L’AIDS, L’ULTIMO DELIRIO DEI GIUDICI. Voxnews.info il 16 aprile 2019. No all’espulsione di un immigrato se ha l’Aids. E’ un’altra bizzarra sentenza della Cassazione. Ormai più un circo che un grado di giudizio. La prima sezione penale della Cassazione ha annullato con rinvio una decisione del tribunale di sorveglianza di Ancona, con la quale era stata respinta l’opposizione di un tunisino al decreto che ne aveva disposto l’espulsione. Nell’ottica della Cassazione, quindi, ci sono le possibili conseguenze circa l’aggravarsi delle condizioni di salute dell’immigrato per il venir meno di “irrinunciabili cure”. Perché il tunisino non può mica curarsi in Tunisia, deve curarsi in Italia a spese degli italiani. Magari, mentre infetta qualcuno. Secondo i giudici marchigiani, la malattia dello straniero appariva dal 2015 “sotto controllo” attraverso “terapie di semplice mantenimento” che avevano portato a prevenire “possibili complicanze”: per questo, era la tesi del tribunale di sorveglianza, “non si trattava di continuare ad assicurare in Italia un tipo di cure che, avendo diretta correlazione sul piano dell’efficacia con gli interventi sanitari indifferibili e urgenti, potevano precludere l’esecuzione dell’espulsione del cittadino straniero”. Ma la Cassazione non è stata d’accordo: “In tema di espulsione dello straniero quale misura alternativa alla detenzione le cause ostative alla stessa debbono essere interpretate alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n.252/2001, secondo cui il provvedimento di espulsione in questione non può comunque essere eseguito quando emerga, all’esito di un doveroso accertamento svolto in concreto, un danno irreparabile per la salute”. Questi magistrati stanno tirando la corta. Anzi, l’hanno già spezzata. L’Aids non è curabile, ma con le dovute medicine è potenzialmente possibile tenerla sotto controllo per tutta la vita. Quindi, rischiamo di dovere curare questo personaggio a vita. Con costi che si aggirano su molte decine di migliaia di euro l’anno. E questo senza pensare alle conseguenze per la salute pubblica. Da quando l’Italia è diventata un lazzaretto? Perché i magistrati possono decidere al posto dei cittadini, visto che, in teoria, viviamo in una democrazia? E poi, visto che oltre il 10 per cento della popolazione africana è infetta, cos’è questo, un nuovo tipo di permesso di soggiorno?
Migranti, niente espulsioni per i malati cronici. Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2019. Corte di Cassazione - Sezione I - Sentenza 15 aprile 2019 n. 16383. Stop alle espulsioni dei cittadini stranieri affetti da malattie croniche, per le quali in Italia ricevono gratuitamente cure in grado di tenerle sotto controllo, se nei loro paesi d'origine, dove verrebbero rimpatriati, le stesse cure non sono disponibili o sono a pagamento. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 16383 depositata il 15 aprile che accoglie il ricorso di un tunisino con Hiv che contro il decreto di espulsione. Documento al quale aveva dato il via libera il Tribunale di sorveglianza di Ancona nel maggio 2018. Il cittadino tunisino aveva fatto presente che in Tunisia le cure non sono gratuite e lui non era in "grado di accedervi a causa delle precarie condizioni economiche". Per gli 'ermellini', a fronte di una seria patologia cronica accertata, occorre verificare "se e con quali effetti l'espulsione possa privare lo straniero di dette irrinunciabili cure, pur non rientrando le stesse fra quelle di pronto soccorso e immediata urgenza". Ora i giudici di Ancona devono rivedere il loro "nulla osta" al rimpatrio.
Sentenza della Corte di Cassazione (Sez. Unite Civili) n. 14500 del 10 giugno 2013. Salute - La garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero comprende non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d’urgenza ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita.
La garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero che comunque sì trovi nel territorio nazionale impedisce l’espulsione nei confronti di colui che dall’immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio, dovendo tale garanzia comprendere non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d’urgenza ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita.
Svolgimento del processo. Il cittadino tunisino K. B. J. è stato titolare di permesso di soggiorno per motivi di lavoro dal 1987 al 2000 e di permesso di soggiorno per cure mediche dal 2001, essendo affetto da HIV, oltre che da epatite cronica conseguente a epatite di tipo C e da epilessia conseguente a un trauma cranico riportato in un incidente sul lavoro dal quale è residuata una invalidità civile al 60 %. Nel 2007 il questore di Padova gli ha negato il rinnovo del permesso di soggiorno ritenendo che le cure potessero essere proseguite nel Paese d’origine. Il t.a.r del Veneto, con provvedimento confermato dal Consiglio di Stato, ha respinto l’istanza di sospensione dell’esecutività del provvedimento negativo ritenendo che il pregiudizio lamentato non fosse grave perché l’art. 35, 3° comma del t.u. n. 286 del 1998 garantisce ai cittadini stranieri irregolari le cure essenziali e che tali dovevano considerarsi quelle alle quali il cittadino tunisino si sottopone giornalmente, ma, con provvedimento notificato il 13 agosto 2008, il Prefetto di Padova ha disposto l’espulsione del cittadino straniero.
Con decreto del 29 dicembre 2009 il giudice di pace di Padova ha “convalidato” l’espulsione a condizione che a) la AsI competente avesse messo a disposizione della Questura di Padova “una dozzina di confezioni di “Truvada”, farmaco antiretrovirale non in commercio in Tunisia, da consegnare allo straniero, e b) l’ambasciata italiana a Tunisi avesse rilasciato al cittadino tunisino uno speciale visto d’ingresso in Italia per cure mediche, qualora fosse stato clinicamente accertato dalle autorità tunisine la necessità di sottoporlo a genotipizzazione, non eseguibile in quel Paese, per verificare le resistenze maturate nei confronti della terapia farmacologica seguita. Il provvedimento di espulsione non è stato eseguito.
Il cittadino straniero ha proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.
Motivi della decisione
1. Con i primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente perché strettamente connessi, il ricorrente, deducendo, da un lato, eccesso di potere giurisdizionale in relazione all’art. 360 n. 1 c.p.c. e all’art. 4 della legge n. 2248 del 1865, allegato E, e, dall’altro, violazione o falsa applicazione dell’art. 13, 8° comma del d.l.vo n. 286 del 1998, lamenta che il giudice di pace invece di accogliere o rigettare l’opposizione all’espulsione abbia apposto condizioni al provvedimento di “convalida” dell’espulsione, impartendo ordini alle amministrazioni pubbliche. I motivi non sono ammissibili non avendo il ricorrente interesse a denunciare l’invasione della sfera di competenze riservate alla pubblica amministrazione mediante l’adozione di ordine di fare specifici.
2. Anche il terzo e quarto motivi possono essere congiuntamente esaminati in quanto diretti a censurare la “convalida” dell’espulsione per violazione dell’art. 32 Cost. e degli articoli 2 e 35 del d.l.vo n. 286 del 1998, come interpretati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 252 del 2001 e per vizio di motivazione per avere il giudice di pace negato il carattere “essenziale” delle cure alle quali il ricorrente deve sottoporsi, omettendo di valutare la c.t.u. che aveva qualificato i trattamenti in corso, non disponibili in Tunisia, come “salvavita” e la certificazione del medico curante, e per avere contraddittoriamente impartito alla ASL l’ordine di fornire la terapia e all’Ambasciata italiana a Tunisi di rilasciare il visto d’ingresso per effettuare la genotipizzazione, non ostante la non essenzialità della terapia farmacologica.
I motivi sono fondati. L’art. 35, 3° comma del d.l.vo n. 286 del 1998 dispone che ai cittadini stranieri presentì sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio. In particolare, sono garantiti (lettera e) la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive. La giurisprudenza di questa Corte è costante (Cass. n. 7615/2011 – con riferimento alla terapia retrovirale somministrata a cittadino tunisino affetto da sindrome di HIV -, n. 1531/2008, n. 20561/2006, n. 1690/2005) nell’affermare che la garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero che comunque sì trovi nel territorio nazionale impedisce l’espulsione nei confronti di colui che dall’immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio, dovendo tale garanzia comprendere non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d’urgenza ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita. Sulla stessa linea si era già posta la circolare del Ministero della salute 24 marzo 200, n. 5, recante “indicazioni applicative del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 – Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero – Disposizioni in materia di assistenza sanitaria”(G.u. 24 marzo 1° giugno 2000, n. 126), secondo la quale “per cure essenziali si intendono le prestazioni sanitarie, diagnostiche e terapeutiche, relative a patologie non pericolose nell’immediato e nel breve termine, ma che nel tempo potrebbero determinare maggiore danno alla salute o rischi per la vita (complicanze, cronicizzazioni o aggravamenti). E’ stato, altresì, affermato dalla legge il principio della continuità delle cure urgenti ed essenziali, nel senso di assicurare all’infermo il ciclo terapeutico e riabilitativo completo riguardo alla possibile risoluzione dell’evento morboso.” In un primo errore, di natura interpretativa, è quindi incorso il giudice di pace nel ritenere che la mera assunzione di un farmaco antiretrovirale non possa costituire mal una “cura essenziale” senza accertare, invece, se tale assunzione sia idonea a eliminare rischi per la vita o anche solo un maggior danno alla salute. Inoltre, a fronte di una relazione c.t.u. che definiva la terapia come “trattamento salvavita”, non disponobile in Tunisia, di una relazione del c.t. di parte e di una certificazione del medico curante che affermano l’impossibilità di eseguire in questo Paese la genotipizzazione, necessaria con cadenza periodica per verificare l’efficacia della terapia e la eventuale ricerca di terapia diverse nel caso di insorgenza di resistenze alle sostanze somministrate, il giudice di pace, da un lato, ha omesso di indicare le ragioni per le quali ha disatteso tali valutazioni tecniche e, dall’altra, contraddittoriamente rispetto al ritenuto carattere non essenziale delle cure, ha subordinato la “convalida” dell’espulsione alla consegna allo straniero del farmaco retrovirale non reperibile in Tunisia e al rilascio di uno speciale visto d’ingresso per il ritorno in Italia per eseguire la genitipizzazione. Il provvedimento impugnato deve pertanto essere cassato, con rinvio al giudice di pace di Padova, in persona di altro magistrato, affinché accerti se le cure alle quali è sottoposto il ricorrente in Italia siano essenziali alta luce del principio secondo cui per tali debbono intendersi anche le semplici somministrazioni di farmaci quando si tratti di terapie necessarie a eliminare rischi per la vita o il verificarsi di maggiori danni alla salute, in relazione all’indisponibilità dei farmaci nel Paese verso il quale lo straniero dovrebbe essere espulso. Inoltre il giudice di rinvio dovrà indicare se siano condivisibili le valutazioni mediche del c.t.u., del c.t. di parte e del medico curante ovvero per quali ragioni non siano condivisibili. 3. Con il quinto motivo il ricorrente deduce che il procedimento in esito a quale è stato adottato il provvedimento impugnato sarebbe nullo perché, in violazione dell’art. 23 della legge n. 689 del 1981 che disciplina anche il modello procedimentale da seguire nei giudizi di opposizione alle espulsioni, non è stata data lettura del dispositivo all’udienza. Il motivo non è fondato perché l’art. 13, 8° comma del d.l.g.vo n. 286 del 1998 detta un’autonoma disciplina procedimentale senza rinviare a quella di cui alla legge n. 689 del 1981 e senza prevedere l’obbligo della lettura del dispositivo in udienza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili il primo e il secondo motivo, rigetta il quinto, accoglie il terzo e il quarto; cassa il provvedimento impugnato e rinvia, anche per le spese di questo giudizio, al giudice di pace di Padova, in persona di diverso magistrato.
Il perseguitato domestico e il rifugiato presunto. Marcello Veneziani, La Verità 26 aprile 2019. Con un’altra sconcertante sentenza politica sui migranti, ieri la Corte di Cassazione si è assunta un’altra grave responsabilità in tema di accoglienza. A proposito di un pakistano ha stabilito che anche se non c’è guerra, un migrante può richiedere il diritto di asilo come rifugiato e tocca ai giudici e non al richiedente dimostrare che non corrisponde al vero. In precedenza, la Cassazione aveva ritenuto di riconoscere lo status di rifugiato a una persona della Costa d’Avorio di religione musulmana, Bakayoko Aboubakar, sposato e con due figli, minacciato dai suoi famigliari perché omosessuale praticante. In particolare suo padre, il principale “persecutore”, almeno potenziale, è l’imam del suo villaggio. Da notare che in Costa d’Avorio l’omosessualità non è discriminata, non è considerata una devianza da punire. Ma la Cassazione rimarca che lo status di rifugiati non va solo riconosciuto agli omosessuali provenienti da paesi in cui viene discriminata l’omosessualità, ma anche a omosessuali non adeguatamente protetti dai loro paesi di origine. Tralascio per un momento la clausola di salvaguardia per gli omosessuali, il salva-gay per così dire, ovvero lo statuto speciale riservato agli omosessuali per i quali evidentemente esiste una specie di passaporto diplomatico e prima o poi qualcuno proporrà un reddito di omo-cittadinanza. Mi soffermo invece, e non da giurista ma da cittadino, da osservatore curioso della società, dei costumi, delle leggi e dei mutamenti, su un altro aspetto singolare e sconvolgente che viene introdotto con questa sentenza nel nostro Paese: la figura del perseguitato domestico ovvero del minacciato in casa, dai suoi stessi famigliari. Vi renderete conto di quale rivoluzione sia: se riconosciamo lo statuto di rifugiato a chiunque dimostri, a migliaia di chilometri di distanza, in base a testimonianze perlomeno volatili, per non dir di peggio, di essere perseguitato dai famigliari e non protetto abbastanza dallo stato del proprio paese, abbiamo il dovere di accogliere maree sterminate di persone che si dichiarano in quelle condizioni. Il perseguitato domestico naturalmente è una categoria che potrebbe essere estesa non solo agli omosessuali ma a donne, minori, e chiunque viva un conflitto serio con la propria famiglia. Sarebbe infatti gravemente discriminatorio se la norma fosse riservata solo agli omosessuali o ai transessuali. E non solo: se un cittadino italiano viene perseguitato in casa, dal padre, dalla madre, dal marito e dalla moglie, a volte perfino dal figlio o dal cognato, non può reclamare lo stesso diritto di protezione e di rifugio in altra città, col relativo aiuto ad avere assistenza e magari domicilio protetto? Esagero, naturalmente, ma non mi pare di fuoruscire dalla ratio di quella decisione. Anzi, aggiungo, sarà più facile a un connazionale dimostrare il suo effettivo statuto di perseguitato domestico. So già che con l’alta conflittualità familiare che caratterizza le coppie in Italia, col diffuso vittimismo e con la proverbiale lotta di classe tra generi e suoceri, tra nuore e suocere (la cui sintesi è riassunta nel verbo nuocere) sono milioni gli italiani che si sentono vittime di bullismo domestico, di sopraffazione famigliare, di angherie coniugali, di satrapie genitoriali. Non sarebbe tanto la figura del Pater familias il principale obbiettivo, una volta caduta la società patriarcale; ma la figura di suoceri e invadenti, che si ingeriscono nella vita familiare, che pretendono di decidere, che ricattano offrendo benefici in cambio di predominio. Naturalmente sto sottolineando il risvolto grottesco della vicenda, sto portando alle estreme conseguenze quella ratio. Ma sono illazioni non gratuite se si introduce la figura del perseguitato domestico e se si accetta il principio che lo stato debba proteggere coloro che sono minacciati in casa perché hanno orientamenti sessuali e magari non solo sessuali divergenti rispetto a chi egemonizza la famiglia. Nel verdetto, i supremi giudici scrivono che non sono stati «adeguatamente valutati» i rischi «effettivi» per la sua incolumità «in caso di rientro nel paese di origine, a causa dell’atteggiamento persecutorio nei suoi confronti, senza la presenza di una adeguata tutela da parte dell’autorità statale». «A tal uopo – prosegue la Cassazione – non appare sufficiente l’accertamento che nello stato di provenienza, la Costa d’Avorio, l’omosessualità non è considerata alla stregua di reato, dovendosi accertare in tale paese la sussistenza di adeguata protezione da parte dello Stato, a fronte delle gravissime minacce provenienti da soggetti privati». So benissimo che una sentenza di questo tipo verrà subito strumentalizzata per altre operazioni, per far cadere ogni barriera che ostacoli l’accoglienza senza se e senza ma dei migranti clandestini, ovvero porta acqua al mulino di chi dice che se una persona decide di lasciare il suo paese e di venire da noi, abbiamo il dovere di accoglierlo. Il proposito è allargare le maglie della giustizia, praticare brecce ai confini, far saltare filtri e freni, dare via libera al principio che le nazioni e gli stati sovrani non contano un beato fico, tanto per citare il beato presidente della Camera, siamo cittadini del mondo e ognuno decide dove vuole vivere anche se non ha un lavoro, una casa e magari non accetta le regole del paese in cui decide di andare ad abitare. Il perseguitato domestico è la nuova figura d’importazione del ricco campionario già a disposizione. Ora poi la nuova sentenza invita migliaia di migranti a far ricorso e a veder riconosciuto lo statuto di rifugiato anche se non c’è evidenza di una guerra o di una catastrofe umanitaria. Poi vi meravigliate del consenso a Salvini e del misterioso successo mondiale dei “sovranisti”…MV, La Verità 26 aprile 2019.
CI MANCAVANO I “PROFU-GAY”. Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 20 agosto 2019. Adesso chiamateli profu-gay. O meglio, finti profu-gay. Dopo aver millantato stato di salute, età e nazionalità, non poteva mancare il sesso (presunto) come ultimo stratagemma per guadagnarsi la condizione di rifugiato. L'aspetto più inquietante è che ogni volta noi abbocchiamo: se i migranti si dichiarano gravemente malati, noi spalanchiamo le frontiere e le porte di casa, anche se magari hanno solo un accenno di raffreddore; se dicono di essere minorenni, sebbene abbiano una trentina d' anni, noi ce ne prendiamo cura perché soggetti fragili e non in grado di badare a se stessi; se dichiarano di essere gay, e per di più perseguitati, in fuga non da guerre, fame e povertà ma dalla feroce omofobia dei loro Paesi, noi fingiamo di credergli e subito li mettiamo sotto la nostra tutela, concedendo vitto, alloggio, assistenza e diritto di asilo. Non stiamo raccontando la favola del Paese del Bengodi per gli immigrati. Stiamo parlando della realtà tragicomica dello Stato Italia. Dopo i finti minorenni e i finti malati della Open Arms ospitati sul nostro territorio, ecco il caso del profugo pseudo-omosessuale. A Trieste la Corte d' Appello ha accolto la richiesta di asilo di un immigrato 23enne che dichiarava di essere gay e a rischio di persecuzione nel suo Paese di origine, il Gambia, dove gli omosessuali vengono puniti con 14 anni di galera. La beffa è che per due volte, prima la Commissione di Gorizia poi il Tribunale di Trieste, avevano respinto la sua domanda, sostenendo che il gambiano avesse mentito al fine di ottenere lo status di rifugiato. Ma la Corte d' Appello ha compiuto un rocambolesco salto concettuale, così riassumibile: non importa l' essere gay ma il sembrarlo. Nella sentenza si legge infatti che «non è necessario indagare quale sia l' effettivo orientamento sessuale del soggetto richiedente asilo, essendo sufficiente il modo in cui lo stesso viene percepito nel paese d' origine e la sua idoneità a divenire fonte di persecuzione». È la teoria della percezione sessuale, già alla base del pensiero gender, applicata ai casi di immigrazione: il sesso non è più un' identità biologica, un fatto o un dato di natura, ma una sensazione, uno stato d' animo proprio o un pregiudizio altrui. Basta sentirsi gay, o meglio apparire gay e venire giudicati come tali dagli altri per esserlo a tutti gli effetti. Una deriva del genere offende parimenti tre soggetti. In primo luogo si fa beffe delle leggi del nostro Stato, irride i regolamenti che disciplinano l' immigrazione, i tanti decreti volenterosi di questo governo che provano a discernere tra profughi e clandestini. In seconda istanza, si fa gioco dei veri rifugiati, di chi ha davvero rischiato di morire sotto le bombe in Siria o magari è stato perseguitato dai fondamentalisti islamici. Da ultimo, umilia gli stessi omosessuali, utilizza il loro orientamento per scopi meschini, non rispetta il travaglio di chi è gay e rischia di venire condannato per questo, riducendo l' omosessualità a un' identità transitoria, buona solo a fregare il nostro Paese.
La strategia. Un ulteriore elemento interessante è la strategia che c' è dietro: ormai molti clandestini hanno compreso che non bastano più il colore di pelle e l' origine geografica a far scattare la macchina dell' accoglienza. Non si viene più presi in carico dal nostro Paese solo in quanto neri arrivati su barconi. No, servono ulteriori elementi: una presunta malattia, una minore età inventata, uno status di persecuzione a causa del proprio orientamento sessuale. Ma sì, che facciano pure, tanto col probabile nuovo governo Pd-Cinque Stelle non dovranno neppure ricorrere a queste bassezze per essere accolti. Resta solo lo sconcerto di vedere finti gay fare gli omosessuali col culo degli altri.
Migranti. Cassazione: essere gay non è sufficiente per chiedere l’asilo. Scrive lunedì, 29, ottobre, 2018 Antonio Amorosi su Affari Italiani. E’ finita la pacchia, direbbe Matteo Salvini. Gli immigrati omosessuali che hanno subito atti di persecuzione, violenza fisica o psichica, inclusa la violenza sessuale o diretta contro il proprio orientamento possono chiedere asilo internazionale in Italia. Difficile però capire chi finge e chi davvero corre un pericolo, con tutta la complessità che ancora oggi comporta il dichiararsi omosessuale. Diversi mediatori culturali raccontano che i richiedenti asilo, spesso semplici migranti economici, sostengano di essere omosessuali solo per trarne un vantaggio, riferendo anche storie di violenze tutte simili fra loro, come se avessero ricevuto delle imbeccate da chi cura le loro domande. I migranti richiedenti asilo gay possono anche essere riconosciuti in quanto tali ricevendo una “protezione sussidiaria”. In sostanza non sei un profugo, cioè non provieni da una guerra ma sei stato discriminato. Questo tipo di protezione si chiama “protezione sussidiaria”, riservata a varie tipologie di soggetti. Tra questi vi sono appunto anche i migranti omosessuali che nel Paese di origine sono stati vittime, per il proprio orientamento sessuale, di un atto di violenza, sono per questo considerabili in pericolo di vita, sono discriminati o lo sono stati. Nel 2015 hanno ricevuto in Italia lo status di “protezione sussidiaria” 10.225 richiedenti. Nel 2016 12.873. Nel 2017 solo 6.880 (dati ministero dell’Interno). A fronte di un numero di domande totali annue esaminate oscillanti tra le 71.000 e le 91.000. Vi ricordate quando in Italia la leva militare era discriminatoria per gli omosessuali? Con l’effetto, che dopo anni di derisione, discriminazioni e nonnismo, chi si dichiarava gay era esonerato dalla leva? L’Arcigay ricorda in un suo scritto la delirante normativa che vi era a monte: “l’esonero degli omosessuali dal servizio di leva con il famoso articolo 28/62 che parlava di ‘inversione sessuale’”, o “ l’articolo 41 comma b del DPR 1008/85 che parlava di ‘devianza sessuale’ e “l’articolo 30 del decreto del Ministro della Difesa del 29 novembre 1995 che parlava dei ‘disturbi della sessualità’”, così come “ l’articolo 15 (‘psichiatria’) del decreto del Ministro della Difesa del 26 marzo 1999 (entrato in vigore l’1 ottobre 1999) che parlava al comma ‘i’ di ‘parafilie e i disturbi della identità di genere’”. La questione gay, che è servita anche a tanti che non lo erano per essere esonerati dalla leva, si è traslata sui richiedenti asilo politico. Ma oggi cambia tutto, con un’ordinanza della Corte di Cassazione. Se è giusto proteggere gli omosessuali perseguitati e concedere loro l’asilo, la condizione di omosessuale di per sé non è sufficiente per chiedere la protezione internazionale. Deve essere accertata l’autenticità dell’orientamento sessuale del richiedente protezione o che il richiedente corra un pericolo reale o che nel Paese di provenienza c’è un reale pericolo di discriminazione sessuale. E’ una decisione della Corte di Cassazione, sez. VI Civile, 1 che con l’ordinanza n. 22416/18, depositata il 13 settembre scorso, ha respinto definitivamente la domanda presentata da un uomo di origini nigeriane che ha proposto ricorso contro una sentenza avversa. Per i giudici è decisiva la constatazione che in Nigeria l’omosessualità non è considerata reato. Sono sì vietati i matrimoni tra gay ma questo non comporta un pericolo di chi lo sia. E gli episodi di discriminazione verificatisi sono stati estremamente limitati. Il nigeriano sosteneva “di correre seri pericoli in caso di ritorno in patria per la sua condizione di omosessuale”. Orientamento sessuale dell’uomo, secondo la Cassazione, che si fonda esclusivamente sul racconto del nigeriano stesso, “racconto da lui reso, peraltro confuso e poco credibile”, scrivono nel dispositivo quelli dell’Alta corte. Nel dettaglio l’uomo descrive un episodio di violenza non consumata in cui l’aggressore sarebbe anche stato ucciso. La Cassazione ha valutato anche che “la situazione sociale politica in Nigeria non fosse connotata da episodi di violenza di intolleranza nei confronti degli omosessuali”. Aggiungendo che “non risulta che i Nigeria l’omosessualità costituisca reato, desumendosi (dal rapporto Uman Rights Watch del 2017) esclusivamente l’introduzione del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Senza peraltro alcuna legittimazione degli abusi contro gli omosessuali”. Per la corte di Cassazione è chiaro che in Nigeria l’ordinamento giuridico non si intromette nella vita dei cittadini omosessuali, “compromettendo la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione, tale da giustificare la concessione richiesta”. Gli stessi conflitti politici esistenti nel sud della Nigeria, non sono così gravi e diffusi da accettare le richieste dell’uomo. Il nigeriano aveva presentato la stessa richiesta alla Corte d’appello di Brescia, dove era stata rigettata. Da qui la domanda di intervento della Cassazione. La prima sezione civile della Cassazione, con sentenza N.11176/2019, ha stabilito che va verificata la tutela anche se l’omosessualità non è considerata un reato nello stato del richiedente la protezione internazionale. L’assenza di norme che vietino, direttamente o indirettamente, i rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso, non è risolutiva per escludere la protezione internazionale. Per la corte di Cassazione la statuizione della Corte d’Appello di Catanzaro, non è conforme al diritto :“non appare sufficiente l’accertamento che nello stato di provenienza del ricorrente, la Costa D’Avorio, l’omosessualità non è considerata alla stregua di reato, dovendo altresì accertarsi la sussistenza, in tale paese, di adeguata protezione, a fronte delle gravissime minacce provenienti da soggetti privati. La Corte territoriale ha infine omesso di valutare la sussistenza della condizione di vulnerabilità del ricorrente, alla luce della particolare situazione personale prospettata nel ricorso e del concreto pericolo che egli possa subire, in conseguenza della propria condizione di omosessualità, trattamenti degradanti e la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto dello statuto della dignità personale in caso di rimpatrio” .
L'ultima sentenza della Cassazione: "Accogliere i migranti gay se a rischio nel loro Paese". Per la Suprema Corte prima di negare lo Status occorre accertare che nei Paesi d'origine non ci siano leggi discriminatorie e una "adeguata tutela" per i gay. Scrive Stefano Damiano, Martedì 23/04/2019, su Il Giornale. La Cassazione ha accolto il ricorso di un cittadino della Costa d'Avorio aprendo una nuova pagina nel riconoscimento dello status di rifugiato a seguito di discriminazioni di tipo sessuale. Secondo la sentenza della Suprema corte, prima di negare lo status di rifugiati ai migranti che dichiarano di essere omosessuali e di rischiare la vita se rimpatriati a causa del loro orientamento sessuale, deve essere accertato dalle autorità competenti che nei Paesi d'origine non solo non ci siano leggi discriminatorie; inoltre occorre anche verificare vi sia una "adeguata tutela" per i gay ad esempio se colpiti da "persecuzioni" di tipo familiare. A Bakayoko Aboubakar S. fu negato lo status di rifugiato politico nonostante la persecuzione nei suoi confronti nel Paese di origine. Il cittadino ivoriano, musulmano, coniugato con due figli, era oggetto “di disprezzo e accuse da parte di sua moglie e di suo padre”, l'imam del villaggio, a causa di una relazione omosessuale intrattenuta con il partner, successivamente “ucciso in circostanze non note, a suo dire ad opera di suo padre”. Pertanto Bakayoko Aboubakar S. aveva deciso di fuggire ma lo status di rifugiato gli era stato negato dalla Commissione territoriale di Crotone, perché “in Costa d’Avorio al contrario di altri stati africani, l’omosessualità non è considerata un reato, ne lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa”. Ma il fatto che non vi sia una legge discriminante non è sufficiente e, pertanto, è essenziale accertare una "adeguata tutela" per i gay ad esempio se colpiti da "persecuzioni" di tipo familiare. Ora la Cassazione ha accolto il suo ricorso intimato allo Stato italiano di concedere lo status di “protezione” all'ivoriano.
Accogliere gli immigrati gay se il loro Paese non li tutela”. La sentenza della Cassazione. Scrive Cristina Gauri il 23 Aprile 2019 su Primato Nazionale. Prima di respingere la richiesta di status di rifugiati agli immigrati che dichiarano la propria omosessualità e di essere a rischio di persecuzione, le autorità competenti dovranno verificare che nei Paesi d’origine non solo non esistano leggi discriminatorie, ma anche controllare che i governi locali li supportino con “adeguata tutela” per i gay, nel caso, ad esempio, che essi siano colpiti da “persecuzioni di tipo familiare”. Lo ha stabilito la Cassazione accogliendo il ricorso di un cittadino gay della Costa d’Avorio, Bakayoko Aboubakar, costretto a emigrare in Italia perché, a sua detta, era minacciato dai parenti. La Commissione territoriale di Crotone, non aveva riconosciuto all’uomo lo status di rifugiato poiché “in Costa d’Avorio al contrario di altri stati africani, l’omosessualità non è considerata un reato, né lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa”. Ma per i giudici della Corte l’assenza di una legge contro l’omosessualità non è condizione sufficiente per la negazione dello status: occorre verificare che via sia un’opportuna “protezione statale per minacce provenienti da soggetti privati”. L’immigrato aveva infatti riferito di essere di religione musulmana,sposato e con due figli, bersaglio continuo “di disprezzo e accuse da parte di sua moglie e di suo padre” che era imam del villaggio, “dopo aver intrattenuto una relazione omosessuale”. Quando il suo partner era stato “ucciso in circostanze non note, a suo dire ad opera di suo padre”, Bakayoko Aboubakar aveva deciso di fuggire verso l’Italia. Per gli “ermellini” della Cassazione “non è conforme a diritto” avere respinto la richiesta di protezione a Bakayoko senza verificare se in Costa D’Avorio esista o meno la tutela dalle persecuzioni parentali nel caso di dichiarata omosessualità. Il caso apre diverse questioni, tra cui: come è possibile verificare l’omosessualità di una persona? Gli immigrati che fanno richiesta dello status a causa del loro orientamento sessuale dovranno essere creduti sulla parola? Chi vigilerà su coloro che inevitabilmente tenteranno di dichiararsi omosessuali per ottenere asilo politico? Quella del coming out non potrebbe diventare dunque l’ennesima storiella che si andrà ad aggiungere alle altre inventate dagli “aspiranti rifugiati”? Cristina Gauri.
La Cassazione: «I migranti gay vanno accolti sempre se sono discriminati nel loro Paese». Scrive martedì 23 aprile Lucio Meo su Il Secolo D'Italia. Gli fu negato lo status di rifugiato politico nonostante la condizione di persecuzione che il migrante viveva nel proprio Paese. Ecco perché la Cassazione ha accolto il suo ricorso e ha ordinato allo Stato italiano di accogliere e concedere lo status di “protezione” a un cittadino ivoriano, Bakayoko Aboubakar S., musulmano, coniugato con due figli, e diventato oggetto “di disprezzo e accuse da parte di sua moglie e di suo padre” che era imam del villaggio, “dopo aver intrattenuto una relazione omosessuale”. L’uomo aveva deciso di fuggire quando il suo partner era stato “ucciso in circostanze non note, a suo dire ad opera di suo padre”, l’imam. Secondo la Cassazione prima di negare lo status di rifugiati ai migranti che dichiarano di essere omosessuali e di rischiare la vita se rimpatriati a causa del loro orientamento sessuale, si deve accertare se nei Paesi d’origine non solo non ci siano leggi discriminatorie ma anche verificare che le autorità del luogo apprestino «adeguata tutela» per i gay, ad esempio se colpiti da «persecuzioni» di tipo familiare. Inizialmente al migrante protagonista di questa vicenda la Commissione territoriale di Crotone, non aveva concesso lo status di rifugiato sottolineando che “in Costa d’Avorio al contrario di altri stati africani, l’omosessualità non è considerata un reato, nè lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa”.
Marcello Veneziani - Pagina autorizzata Facebook 24 aprile 2019: Per la Cassazione un migrante se si professa perseguitato in famiglia, magari perché gay va accolto in Italia. Ma è un incubo o una farsa? Chiunque potrà dirsi perseguitato domestico e noi dovremo accoglierlo. Passaporto diplomatico per i gay e reddito di omocittadinanza.
Pakistano ottiene asilo in Italia perché gay ma molesta due bambine. L'assurda vicenda della violenza ai danni di due bambine, di 11 e 13 anni, avvenuta a Viterbo e di un Tribunale forse troppo "di parte". Panorama il 3 giugno 2019. La vicenda di cronaca di Viterbo è tanto orribile quanto facile da raccontare: un pakistano ha avvicinato lo stesso giorno, in momenti diversi, due bambine di 11 e 13 anni fuori da scuola, fingendo di chiedere aiuto ed indicazioni stradali e poi, al primo luogo appartato le ha molestate. Le ragazzine hanno però denunciato tutto e riconosciuto il loro aguzzino che è stato arrestato. Questa la cronaca. E', scavando nella vita del molestatore, che si scopre l'assurdo. L'uomo, infatti, era regolarmente in Italia dal 2017 grazie ad un permesso di soggiorno ottenuto come richiedente asilo; aveva dichiarato di "essere omosessuale" e per questo aveva ottenuto il tanto ambito documento. Ripetiamo: per avere asilo ha detto di essere gay e perseguitato nel suo paese, poi però eccolo mettere le mani addosso, a delle bambine. Non è la prima volta che cronaca e politica riportano in auge il famoso trucchetto dell'omosessualità utilizzato da diversi extracomunitari per poter restare nel nostro paese. La cosa infatti sembra impietosire e convincere diversi giudici, soprattutto qualcuno. Al Tribunale di Firenze, dove il pakistano molestatore ha ottenuto il documento, sembra che in quei mesi l'ok all'asilo sia stato dato all'87,5% dei richiedenti. Dal Viminale fanno sapere che è il tribunale in cui, ad agosto 2017, è stata istituita la sezione specializzata sull’immigrazione presieduta da un giudice (donna) relatrice della sentenza che ha escluso il Viminale dal giudizio sull’iscrizione anagrafica di un immigrato. Un magistrato che sembra avere molto a cuore la questione di migranti: pare infatti abbia partecipato a dibattiti con le Ong, presentato un libro contro i respingimenti e i porti chiusi e in un dibattito sul tema “Migranti alla frontiera dei diritti. Una questione storica - giuridica - culturale” dell’8 aprile 2019 avrebbe sostenuto che “nessuno è clandestino sulla terra”. La commissione territoriale - continuano dal Viminale - aveva respinto la richiesta di asilo del pakistano, ma l’immigrato aveva fatto ricorso. Tenuto conto della gravità dei fatti, grazie al Decreto Sicurezza, verrà richiesta alla Commissione Nazionale la revoca del permesso che comunque scade il 24 luglio 2019. Fatte salve le esigenze cautelari, il pakistano potrà essere espulso. Inutile dire che le due bambine, i loro familiari, meriterebbero delle scuse da parti di chi ha dato il permesso d'asilo in Italia ad un (finto) gay, in realtà etero e molestatore di ragazzine. Inutile dire che il paese si meriterebbe giudici e tribunali equi, non di parte.
· Il Papa e l’invasione dei migranti.
Papa Francesco, sfregio ai sovranisti: "Vogliono bloccare il meticciato e sterilizzare razza e famiglia". Libero Quotidiano il 25 Settembre 2019. "Si vuole bloccare quel processo così importante che dà vita ai popoli e che è il meticciato. Mescolare ti fa crescere, ti dà nuova vita. Sviluppa incroci, mutazioni e conferisce originalità". Papa Francesco, in una intervista a La Repubblica, insiste sull'importanza dell'immigrazione che porta al meticciato appunto: "Il meticciato è quello che abbiamo sperimentato, ad esempio, in America Latina. Da noi c'è tutto: lo spagnolo e l'indio, il missionario e il conquistatore, la stirpe spagnola e il meticciato". Invece, continua il Pontefice, "costruire muri significa condannarsi a morte. Non possiamo vivere asfissiati da una cultura da sala operatoria, asettica e non microbica". Poi l'attacco al sovranismo: "La xenofobia e l'aporofobia (la paura per la povertà, ndr) oggi sono parte di una mentalità populista che non lascia sovranità ai popoli. La xenofobia distrugge l'unità di un popolo, anche quella del popolo di Dio. E il popolo siamo tutti noi: quelli che sono nati in un medesimo Paese, non importa che abbiano radici in un altro luogo o siano di etnie differenti". Oggi, sottolinea Bergoglio, "siamo tentati da una forma di sociologia sterilizzata. Sembra che si consideri un Paese come se fosse una sala operatoria, dove tutto è sterilizzato: la mia razza, la mia famiglia, la mia cultura, come se ci fosse la paura di sporcarla, macchiarla, infettarla".
Papa Francesco e quei "preti di frontiera" che favoriscono l'invasione di immigrati. Nicola Apollonio su Libero Quotidiano il 25 Ottobre 2019. Li chiamano «preti di frontiera». Sono i preti che, per non dispiacere Papa Bergoglio, hanno deciso di aprire porte e finestre a quell'esercito di immigrati clandestini che da anni, lentamente ma drammaticamente, sta invadendo il nostro Paese. Questi preti, fra l'altro, chiedono agli italiani di fare un piccolo sforzo e accogliere i disperati che non sanno dove andare, che cosa fare, come sopravvivere. E mentre in Italia si discute di manovre governative in cui si cerca di infilare qualche piccola risorsa per venire incontro ai bisogni dei senza lavoro e di chi si trova addirittura al di sotto della soglia di povertà, i sacerdoti di Santa Romana Chiesa non hanno nient' altro da fare che dedicarsi anima e corpo ai profughi - com'è giusto che sia - e ai richiedenti asilo, senz'arte né parte, ma provvisti di smartphone e catenine d'oro.
IL NUOVO LASSISMO - Negli ultimi mesi, l'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini, era riuscito a ridurre sensibilmente gli arrivi dei migranti provenienti dai diversi Paesi subsahariani, ma poi, con le sue dimissioni e la nascita del nuovo esecutivo giallorosso, il problema si sta ripresentando in tutta la sua gravità. Numeri che crescono a dismisura. Sbarchi finanche nel Salento con natanti di fortuna. Vagabondi che s' imbucano nelle bande di spacciatori. Altri, guarda caso, che finiscono tra le braccia di certi preti che s' impossessano della chiesa in cui operano e diventano dispensieri di beni e servizi a spese della comunità. Anni fa, prim'ancora che Papa Francesco lanciasse agli africani l' appello urbi et orbi a venire dalle nostre parti, ci aveva pensato don Giusto della Valle, parroco di Rebbio (quartiere di circa 10.000 abitanti a sud di Como) a fornire assistenza prima ai minorenni non accompagnati e successivamente vera e propria ospitalità ai migranti in cerca di chissà quale fortuna. E su quella scia si sono poi aperte autentiche voragini che continuano a inghiottire migliaia di persone sprovviste d' ogni tipo di documento e che non mostrano alcuna voglia di volersi integrare. Né formazione-lavoro, né apprendimento scolastico, né rispetto delle regole. Basta vedere quei 250 ospitati da don Massimo Biancalani in una chiesa di Pistoia, trasformata in una specie di ostello/dormitorio per migranti e nella quale ogni spazio viene praticamente negato alle normali funzioni religiose. Quindi, in perfetta violazione di ogni principio sancito dalle regole liturgiche. Ma il prete fa spallucce, si mostra in televisione accanto ai suoi «ragazzi neri» nella chiesa occupata da letti a castello, materassi, stendini per la biancheria, armadi di fortuna, e si giustifica dicendo che lui, poveretto, ha solo risposto all' appello del Papa, «quando nel 2016 invitò i sacerdoti ad aprire le chiese a questa gente».
LE INCONGRUENZE - Naturale che alcuni comprensibili effetti si facessero sentire: riduzione dei bambini al catechismo e fuga dei parrocchiani da quella chiesa di Vicofaro. Ma non è l' unica a dover registrare un cospicuo calo delle presenze di fedeli, proprio per l'atteggiamento assunto da alcuni sacerdoti nei confronti di un' immigrazione selvaggia che rischia di mandare a carte quarant'otto il consolidato rapporto che c'è sempre stato tra società civile e mondo ecclesiastico. Probabilmente c' è qualcosa di deteriorato nelle alte sfere vaticane, visto che si è arrivati a vendere all'associazione musulmani la chiesa dei frati cappuccini nell'area degli ex ospedali riuniti di Bergamo. È stato lo stesso Papa a dire che non essendoci più molti giovani con la vocazione a farsi preti e non essendoci più nemmeno tanti fedeli interessati a frequentare i luoghi di culto, conviene allora disfarsi di qualche chiesa e, col ricavato, aiutare poi i più bisognosi. Dimenticando, però, che le chiese non appartengono né al Papa né ai parroci chiamati a gestirle: le chiese sono dei fedeli, che negli anni hanno contribuito a edificarle, ad arredarle e a conservarle in ottimo stato. Invece di acquistare altri stabili (sempre coi soldi dei fedeli) e tenerli chiusi, invece di commissariare senza alcuna spiegazione altre chiese destinate poi a rimanere chiuse come i palazzi, sarebbe più opportuno che le gerarchie vaticane (e anche quelle diocesane) avessero più considerazione dei risparmi di ognuno di noi.
Ma, se proprio hanno deciso di sostenere chi arriva in Italia senza uno straccio di documento (per cui: clandestini), senza un contratto di lavoro, senza una dimora, be', allora non reclamino che costoro - e sono decine, centinaia di migliaia - vengano mantenuti dallo Stato. Si aprano le casseforti di San Pietro e si provveda. L'Italia non può più far fronte a questi bisogni. Non ha la capacità per continuare a farlo. A meno che non arrivi un qualche miracolo! Nicola Apollonio
Questo nuovo Umanesimo nato già vecchio. Il pensiero che con Papa Francesco esalta l'accoglienza ad ogni costo nega valori identitari come origine e confini. E' il globalismo senza più comunità. Marcello Veneziani il 4 ottobre 2019 su Panorama. Ecco la nuova parola d’ordine italiana, europea ed ecumenica, il concetto chiave per la collezione autunno-inverno della politica, della religione e della cultura: il nuovo umanesimo. In principio ne ha parlato Massimo Cacciari col suo libro La mente inquieta (Einaudi), ma collegandolo all’umanesimo vero e proprio, nel tempo che precede la modernità. Poi fu immesso nell’arena politica dal trasformista «Giuseppi» Conte (l’uso del plurale da parte di Donald Trump è un lapsus che ben definisce la presenza di più Giuseppi in un Conte solo) che lanciò un nuovo umanesimo per dare fondamento etico al suo governo di voltagabbana. Al nuovo umanesimo ha alluso anche Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, riferendosi allo stile di vita europeo, aperto, accogliente, sensibile ai diritti umani. Ma la più grande predica sul nuovo umanesimo l’ha fatta Papa Bergoglio, insieme all’ecologismo. In una religione ridotta a soccorso umanitario, che mette tra parentesi Dio e i credenti, per occuparsi dell’uomo in generale e dei migranti in modo speciale, l’appello di Bergoglio evoca «la religione dell’umanità» di Auguste Comte, il filosofo positivista, che abbinò il culto dell’umanità - sorto sulle spoglie della religione tradizionale e sulla scomparsa di Dio - al culto della Terra, il Grande Feticcio. E fondò su queste basi umanitarie una Chiesa positivista, di cui vi è ancora traccia in Sudamerica, in particolare in Brasile. Il nuovo umanesimo di Bergoglio somiglia pure al Nuovo Cristianesimo di Saint-Simon, anch’egli positivista e fondatore del socialismo in Francia, che prospettò nel 1825 un Cristianesimo senza Dio, risolto nell’amore del prossimo.
Bergoglio è sui loro passi? Il sottinteso del nuovo umanesimo per coloro che l’hanno evocato è l’accoglienza dei migranti. Umanesimo per loro vuol dire non riconoscere più confini, nazioni, identità e civiltà che non coincidano con l’umanità intera. È l’utopia cosmopolita e filantropica, comtiana e saintsimoniana, comunista e marxista che torna nelle vesti papali di Bergoglio e dei suoi corifei. Questa prospettiva umanitaria evoca più la matrice laico-illuministica, atea, massonica, che l’umanesimo integrale e cristiano di Jacques Maritain o Emmanuel Mounier o d’altri. L’umanesimo per Bergoglio è nuovo non solo perché differisce dal vecchio umanesimo, pagano e classicista; ma perché si riferisce alla «nuova umanità» che approda sulle nostre coste. A questo messaggio evangelico o ideologico vorrei opporre tre obiezioni. La prima è che questa retorica umanitaria verso i migranti trascura il grosso dell’umanità: i restanti. Ovvero coloro che restano nella loro terra, nella loro vita, a volte nella loro civiltà e religione. Tra i restanti ci sono molti più bisognosi che tra i migranti, perché molti di loro, se pure lo volessero, non avrebbero nemmeno le risorse, l’età, la forza per partire. Se i migranti sono milioni, i restanti sono miliardi sulla terra. La Chiesa, il mondo, non dovrebbe occuparsi prima di loro? Un discorso analogo vale quando il Nuovo umanesimo pone l’accento sui «diversi»: e della gente comune, delle famiglie comuni, dei cosiddetti normali, chi se ne occupa? Eppure hanno anche loro bisogni e problemi e sono miliardi nel mondo, mentre i diversi sono milioni. Ma c’è un principio che viene usato nel nome del Vangelo come un argomento risolutivo: la carità verso i nostri fratelli lontani, sconosciuti, stranieri. Ma dei fratelli a noi più vicini, più cari, più famigliari, chi se ne occupa? Qui ci soccorre non un filosofo qualsiasi, ma il principale dottor Angelico della Dottrina cristiana, San Tommaso d’Aquino. Nella Summa teologica, in particolare nella «Questione 26», San Tommaso stabilisce una gerarchia ben precisa: Dio dev’essere amato più del prossimo e di noi stessi; l’uomo deve amare sé stesso più del prossimo ma deve amare il prossimo più del proprio corpo; tra i prossimi alcuni sono da amarsi più degli altri secondo il principio di prossimità, cioè di vicinanza: ovvero si devono amare di più i congiunti e coloro che sono uniti da vincoli di sangue; quindi le persone buone, poi tutti gli altri, per gradi. È l’ordine della carità, secondo natura e secondo ragione, che ci impone una gerarchia dell’amore. La grazia non abolisce l’ordine della natura, che ha sempre Dio come autore, nota l’Angelico. È la nostra indole naturale, la nostra umanità, che ci spinge ad amare più chi ci è caro e vicino rispetto a chi ci è ignoto e remoto. Un padre non può amare allo stesso modo i propri figli e quelli di persone sconosciute, non sarebbe un buon padre, anzi sarebbe snaturato; una moglie non può amare un viandante più di suo marito, e viceversa; un Papa non può preferire i lontani senza fede ai fedeli che sono spiritualmente figli suoi. Lo dicevano anche Dostoevskij e il nostro Leopardi: l’amore astratto per l’umanità si accompagna di solito all’indifferenza se non al fastidio, all’odio verso chi è vicino. E infine, un nuovo umanesimo che cancellasse le identità, rimuovesse le origini e le appartenenze, esortasse a violare i limiti e varcare i confini e facesse prevalere i propri desideri sulla propria realtà, i diritti sui doveri, la propria volontà sui legami sociali, naturali ed affettivi, cosa avrebbe ancora di umano? Cosa resta di umano in quest’umanità sradicata e intercambiabile, in cui le identità sono revocabili e prive di significato? Non è il trionfo dell’individualismo sulla persona e del globalismo sulla comunità? Altro che umanesimo, è il nuovo ordine mondiale.
Papa Francesco, Antonio Socci: "Calano i migranti, Chiesa disperata. La mossa estrema pro-invasione". Antonio Socci su Libero Quotidiano il 9 Giugno 2019. «Servire i poveri è nel Vangelo, non è comunismo», ha detto ieri papa Bergoglio per rispondere ai suoi critici. Dimenticando di aggiungere che il comunismo è stato il peggior nemico dei poveri. E dimenticando che nel Vangelo c' è scritto che anzitutto bisogna servire Dio. Gesù non vara un partito, non si occupa di elezioni e di politica, ma del Regno dei Cieli. Dei poveri Cristo parla in modo diametralmente opposto a Marx e Lenin, che non a caso detestavano il cristianesimo. Il magistero bergogliano è confusionario e genera confusione. Secondo una ricerca della Doxa negli ultimi cinque anni, che corrispondono al pontificato di Francesco, il numero di fedeli cattolici in Italia è crollato di quasi otto punti percentuali (il 7,7 per cento). Ma papa Bergoglio non sembra preoccupato di questa catastrofe spirituale (anzi, continua a colpire duramente gli ordini religiosi più ferventi e con più vocazioni cosicché si aggraverà tale crollo). Ciò che lo preoccupa sembra essere il crollo del numero di migranti da quando al Viminale è arrivato Matteo Salvini, il quale peraltro sottolinea che la fine delle partenze dei barconi, significa il quasi azzeramento del numero di morti nel Mediterraneo. Per Bergoglio i migranti rappresentano una specie di dogma di una nuova religione sociale, modello Teologia della liberazione. Con lui il cattolicesimo pare progressivamente sostituito da una religione globalista, comunisteggiante, tutta mondana, politically correct, non soprannaturale, tanto che nei giorni scorsi (sul tema dei rom) Bergoglio ha meritato addirittura un tweet di entusiastico appoggio da George Soros in persona. C' è chi lo ha definito «il Vescovo di Rom», anziché «il Vescovo di Roma». Ma anche «Vescovo di Romadan». Infatti i musulmani sono così felici di questo smantellamento del cattolicesimo che gli hanno dedicato il Ramadam. Cito da Vatican news un titolo eloquente: «La festa di fine Ramadan, in Italia, per la prima volta dedicata a papa Francesco». Bergoglio raccoglie dunque il plauso di laicisti, islamici, comunisti, atei, miscredenti e mangiapreti. Mentre i cattolici, sconcertati, sempre più spesso decidono di avversare pubblicamente la politica bergogliana proprio sul suo dogma fondamentale: l' immigrazione. È accaduto, in Italia, con le elezioni europee del 26 maggio, per le quali papa Bergoglio si era così ostinatamente schierato contro Matteo Salvini da essere indicato dalla Sinistra come suo simbolo e leader. Proprio in queste elezioni si è avuto il boom del voto dei cattolici per la Lega che oggi - secondo i dati di Ilvo Diamanti (pubblicati ieri da Repubblica) - è il primo partito dei cattolici italiani. E il loro consenso a Salvini è cresciuto enormemente negli ultimi mesi, in concomitanza con la sua demonizzazione da parte dei media bergogliani. Il più votato tra i cattolici - Lo scontro interno alla Chiesa riemerge in queste ore per una vicenda surreale. È noto che con Bergoglio il Natale, più che l' Incarnazione di Dio, è diventato la festa del «Gesù migrante» (mai stato migrante). La Pasqua, più che la resurrezione di Cristo, celebra oggi la pace nel mondo e l' accoglienza del migrante. Adesso Bergoglio, indispettito per la cocente sconfitta subita nelle urne, sembra usare a scopo politico anche la festa di Pentecoste che si celebra oggi. Pare impossibile strumentalizzare a fini politici la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e su Maria, nel cenacolo di Gerusalemme, una festa che rimanda al mistero di Dio e all' eternità. Eppure lo fanno. I vescovi del Lazio - su ovvia spinta di Bergoglio - hanno preso a pretesto la Pentecoste per scrivere una "Lettera ai fedeli", da proclamare oggi in tutte le chiese della regione, proprio sull' accoglienza ai migranti. Per capirne il tono riporto il titolo che ha fatto La Bussola quotidiana (un sito cattolico non allineato): «Proclama immigrazionista a messa, preti laziali coscritti». Il sito definisce tale lettera «politicamente strumentale e quindi illegittima. Molti preti si interrogano se disubbidire a una violazione del genere: "Ho dato la vita per Cristo, non per un partito"». Più avanti la Bussola (che peraltro non ha simpatie leghiste) lo giudica «un documento veramente singolare, che sembra collocarsi a metà strada fra una forma di autolesionismo e l' ingerenza partitica». Il commentatore Marco Tosatti scrive ancora: «Sembra che molti parroci abbiano il buon senso di non leggere questo manifesto pro Pd nel corso della messa. Anche perché correrebbero il rischio di avere dei fedeli che si alzano in piedi e ricordano loro che in chiesa non si fa politica, e non si leggono documenti partitici».
In effetti sull' account Twitter della diocesi di Roma, dove viene lanciata l' iniziativa, i commenti sono indignati. Uno è lapidario: «Documento squisitamente politico». Beatrice Leoni commenta: «Speravo fosse una notizia "esagerata", al limite che la lettera esistesse, ma non (ci fosse) l' intenzione di leggerla durante le Messe. Per quanto mi riguarda mi alzerò ed uscirò alla lettura della citata lettera. A quanto pare non basta il Vangelo, ma il di più, si sa, viene dal Maligno». Antonio commenta sconsolato che «hanno snaturato anche la Pentecoste». Una certa Piperita Patti conclude: «Questo papa è eretico» (sull' account della Diocesi di Roma). Fabrizio Brasili ricorda l' insegnamento di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, del tutto diverso dall' attuale. Cristina chiede ironicamente ai vescovi: «L' incoraggiamento a pregare, a evangelizzare e a non peccare l' avete poi messo nell' allegato?». «Credo in Cristo, non nei partiti» - Maria scrive: «Prima fate stare bene quelli di famiglia nostra, quelli che vivono nelle macchine, quelli che non hanno lavoro, quelli che non vengono assistiti. Poi potremo volgere lo sguardo allo straniero che ha documenti, che voglia lavorare, che non stupra, non uccide e rispetta le leggi». Un certo "Trovo lavoro" è drastico: «Buffoni. Fondate un partito piuttosto. Così vi contiamo». Memedesima scrive sconsolata: «Ma dobbiamo andare a messa fuori dal Lazio per non sentire strumentalizzazioni politiche? Ma cosa sta succedendo alla Chiesa?». Sangarre invita i vescovi a meditare «seriamente» sul Vangelo: «Siete immersi nel mondo caduco e transeunte tanto da non rendervi nemmeno più conto di chi parli davvero la Scrittura. E a chi».
Zot scrive ai vescovi: «Direi che siete solo un filino eretici». Poi riporta una pagina di Giovanni Paolo II, che definisce «vero papa», il quale rimandava «alle autorità pubbliche» il «controllo dei flussi migratori». Papa Wojtyla scriveva: «L' accoglienza deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi». Luca cita il cardinale africano Robert Sarah e scrive: «Il card. Sarah sostiene la lettura fedele delle Sacre Scritture: "Dio non vuole le migrazioni Non possiamo accogliere i migranti in occidente, le persone vanno aiutate nei loro paesi"». Un altro richiama il Catechismo: «L' appello all' accoglienza e all'immigrazionismo viola il Catechismo secondo cui i pastori della Chiesa non possono intervenire direttamente nell' azione politica e nell' organizzazione della vita sociale». In effetti il n. 2442 del Catechismo che egli riporta recita: «Non spetta ai pastori intervenire direttamente nell' azione politica e nell' organizzazione della vita sociale. Questo compito fa parte della vocazione dei fedeli laici, i quali operano di propria iniziativa insieme con i loro concittadini».
Lucilla chiede: «È possibile parlarci di Cristo e lasciare fuori della Messa la politica?». Un altro aggiunge: «State distruggendo un' eredità millenaria di spiritualità». Cicnus spera «che Dio abbia pietà» di questi pastori e prega «per la loro conversione». Anna Rota osserva: «Che tristezza una Chiesa ridotta ad una Onlus... Il Cielo non perdonerà questa blasfemia». E Lorenzo Stecchetti: «Anche la solennità di Pentecoste è occasione per voi per fare politica, anziché parlare di Cristo. Vergognatevi». Antonio Socci
Vuole accogliere gli africani con i soldi degli italiani. Vittorio Feltri mai così duro contro Papa Francesco. Libero Quotidiano 2 Giugno 2019. Massì, apriamo questi benedetti o maledetti porti, obbediamo agli ordini pii del papa e dei progressisti favorevoli all'accoglienza. Forza, amici africani, venite in Italia e che sia finita questa storia salviniana dei respingimenti degli stranieri. Tutti dentro, belli e brutti. Così tra poco ospiteremo cinque o sei milioni di forestieri. Ospitare è un verbo impegnativo. Infatti non riusciremo a trovare un alloggio alla massa di immigrati che invaderanno la penisola, e allora per generosità cattolica e piddina sbatteremo i nuovi venuti per strada, dove dovranno arrangiarsi, dormire nelle aiuole, nei locali delle stazioni ferroviarie, pisciare sui tronchi degli alberi o sui marciapiedi. Dove mangeranno e che cosa? Non importa, questi sono dettagli. Si nutriranno di foglie, di rifiuti pescati nelle pattumiere o nelle discariche. I più fortunati saranno reclutati dagli schiavisti e costretti a raccogliere pomodori a due euro l' ora, chissenefrega. L' importante è non rifiutare l' ingresso nei nostri territori ad alcuno, viva i neri che sono risorse per la nazione che non fa più figli e ha bisogno di gente che arrivi qui a grattarsi la pancia oppure a servire nelle case dei signori in cambio di una paga misera.
È questo che vogliamo? Apriamo i porti e anche le porte del Vaticano che invece restano chiuse al punto che per accedere al regno di Bergoglio bisogna farsi raccomandare dal vescovo o almeno dal parroco, altrimenti non ci puoi mettere piede. Ovvio. Chi predica bene di norma razzola male. Avanzate povericristi del mondo, occupate le periferie, i quartieri popolari, ma state lontani dalle canoniche e dalla Santa Sede, dai palazzi dei ricchi i cui inquilini sono buoni e tuttavia non vogliono rotture di coglioni intorno alle loro lussuose dimore. Gli extracomunitari siano i benvenuti purché stiano alla larga dalle residenze degli abbienti che hanno appunto tutto tranne che la pazienza. Caro Papa, trasforma la tua bella Cappella Sistina in un dormitorio di senegalesi, dopo di che avrai il diritto di farci la morale. Sempre che ci spieghi cosa accadrà fra cinque anni, quando gli immigrati saranno più numerosi di noialtri. Continueremo a tenere aperti i porti o porteremo via te? Facile dire "correte qui, cari neri", poi però bisogna mantenerli. Coi soldi degli italiani? Ma andate in mona, e che Dio ci ascolti così almeno avrete altro cui pensare. Vittorio Feltri
Il Papa: «La paura rende intolleranti e razzisti». Bergoglio nella giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Per il pontefice: «Cristo ci chiede di non cedere alla logica del mondo, che giustifica la prevaricazione sugli altri per il tornaconto personale o del proprio gruppo». Sergio Valzania il 28 Maggio 2019 su Il Dubbio. È stato presentato ieri mattina il messaggio del Santo Padre Messaggio a quanti parteciperanno alla Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2019, che si celebrerà il prossimo 29 settembre, il cui tema sarà «Non si tratta solo di migranti». L’ammonizione «Non si tratta solo di migranti» ricorre martellante nel documento. Papa Francesco non si stanca di ricordarci che è impossibile vivere un cristianesimo destrutturato, del quale si accoglie quello che piace e si scarta ciò che pesa, che appare difficile, che mette alla prova. La cultura dello scarto è il rovescio dell’antropologia cristiana, fondata sull’incontro, sulla condivisione e sulla ricchezza delle identità, che arrivano ad essere fungibili. La parabola del Buon Samaritano è raccontata da Gesù per spiegare chi sia il prossimo. Si conclude con una domanda «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?» Soccorso e soccorritore si confondono nel rapporto d’amore, di dare e ricevere. Nel suo messaggio Papa Francesco propone quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere, integrare e avverte che non vanno riferiti solo ai migranti. Questi ultimi sono solo un caso particolare, di evidenza estrema, dell’esclusione e dello scarto degli ultimi, atteggiamenti che sono posti alla base di una concezione errata, ma diffusa, della società umana. Proprio perché più prossimi, i migranti ci interrogano con maggiore intensità, parlandoci di loro quanto di noi, del nostro egoismo e della nostra indisponibilità a fare quello che con ogni evidenza appare giusto. Il vero motto del cristiano è “prima gli ultimi!”, ricorda papa Francesco. La riflessione del pontefice si allarga e abbraccia le problematiche che determinano l’emigrazione e quindi la presenza dei migranti, buona parte delle quali si annidano negli egoismi internazionali, nell’esportazione della guerra e nella vendita di armi a paesi ai quali viene negata in questo modo la possibilità stessa dello sviluppo. «Non si tratta solo di migranti» rifiuta quindi di essere un invito a sviluppare atteggiamenti superficiali di accettazione. Richiede per prima cosa di riconoscere le nostre responsabilità negli squilibri esistenti nel sistema delle relazioni internazionali e rifiuta come non cristiana ogni concezione che tenda a immaginare un’umanità divisa in entità statuali antagoniste e conflittuali. Nella visione cristiana il destino dell’umanità è chiaro, si tratta della salvezza raggiunta in comune, in quanto popolo di Dio, all’interno del quale non sono concepibili distinzioni fra essere umano ed essere umano. Il valore di ciascuno dei figli di Dio è infinito. In riferimento ai piccoli, in ogni senso, papa Francesco ha voluto inserire nel testo del messaggio una citazione evangelica di delicatezza poetica «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10) E si sa quanto sia importante il volto di Dio, il parlare con lui faccia a faccia nella tradizione profetica. Alcuni vogliono vedere nella decisione di presentare oggi il documento pontificio un distinguo per l’atteggiamento disinvolto nei confronti della cultura e della tradizione cattoliche che ha caratterizzato alcuni comportamenti messi in atto durante la campagna elettorale. Certo papa Francesco non intende polemizzare con chi ha convocato i santi e la stessa Madonna nei ranghi dei propri sostenitori durante un comizio. Scrivendo in chiusura che attraverso i migranti «il Signore ci invita a riappropriarci della nostra vita cristiana nella sua interezza e a contribuire, ciascuno secondo la propria vocazione, alla costruzione di un mondo sempre più rispondente al progetto di Dio” il pontefice ha fatto un discorso più ampio e complesso. Sarebbe ingiusto e sbagliato riferire ad altri un monito che convoca tutti, ciascuno per la propria parte. Con il giusto desiderio di essere compresi nella benedizione conclusiva del messaggio, offerta in questi termini “per intercessione della Vergine Maria, Madonna della Strada, abbondanti benedizioni su tutti i migranti e i rifugiati del mondo e su coloro che si fanno loro compagni di viaggio”.
Papa Francesco demolito da Ratzinger sull'immigrazione: il documento svelato da Alessandro Meluzzi, scrive il 21 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Un tweet in cui, nel giorno di Pasqua, Papa Francesco non viene neppure nominato. Ma il riferimento è evidente, in modo lampante. Il tweet è quello consegnato alla rete da Alessandro Meluzzi, le cui posizioni sono assai differenti rispetto a quelle del Pontefice. E nel cinguettio si vedono Papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E vengono riportate due loro frasi. Quella del primo: "Il diritto primario dell'uomo è vivere nella propria patria". Del secondo: "Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare". Due prese di posizione distanti anni luce da quelle di Papa Francesco, sostenitore dell'immigrazione e della possibilità di circolare ovunque si voglia. Insomma, il riferimento e la critica di Meluzzi sono evidenti.
Migranti, nuovo appello del Papa: "Non si lasci affogare la gente". Di ritorno dal Marocco Bergoglio torna a pungolare i Paesi che respingono i migranti. E attacca i populismi accostandoli a Hitler, scrive Sergio Rame, Lunedì 01/04/2019, su Il Giornale. Tornando in volo dal Marocco, i giornalisti chiedono a papa Francesco di Matteo Salvini e del convegno sulle famiglie di Verona. "Io di politica italiana non capisco - frena subito il Pontefice - non so cosa sia, davvero. Ho letto la lettera del cardinale Pietro Parolin (nella quale ha spiegato agli organizzatori perchè non sarebbe andato) e sono d'accordo, una lettera pastorale, di buona educazione". Ma poi, come riporta il Corriere della Sera, eccolo tornare a picchiar duro sull'immigrazione. E, invitando i Paesi europei a non "lasciare affogare i migranti in mare", attacca quei governi, come l'Italia, che hanno chiuso le frontiere ai barconi: "Abbiamo visto che è più bello seminare la speranza, che ci vogliono dei ponti, e sentiamo dolore quando vediamo le persone che preferiscono costruire dei muri, perchè coloro che costruiscono i muri finiranno prigionieri dei muri che hanno costruito". Ieri, durante la visita in Marocco, Bergoglio ha ribadito che "il fenomeno migratorio non si risolve con i muri" e ha puntato il dito contro la Spagna che proprio in Marocco "ha costruito due barriere con lame per ferire chi le vuole superare". Quindi, se l'è immancabilmente presa con Donald Trump rinfacciandogli di voler "chiudere completamente le frontiere". "Ho visto - racconta il Pontefice al Corriere della Sera - un pezzo di quella barriera, il filo spinato con i coltelli. Sono rimasto commosso e poi ho pianto, perché non entra nella mia testa e nel mio cuore tanta crudeltà. Non entra nella mia testa e nel mio cuore vedere affogare persone nel Mediterraneo, mettiamo un ponte ai porti. Questo non è il modo di risolvere il grave problema dell'immigrazione". Il Papa ammette che l'emergenza degli sbarchi e dell'immigrazione clandestina è una "patata bollente" per ogni governo che si ritrova a doverla risolverla. Ma comunque non perde l'occasione per attaccare e condannare chi "non lascia entrare" gli stranieri o "li lascia affogare" in mare o "li manda via sapendo che tanti di loro cadranno nelle mani di questi trafficanti che venderanno le donne e i bambini, uccideranno o tortureranno per fare schiavi gli uomini". Per papa Francesco l'Europa sta diventando come "un bastone contro i migranti". E se la prende con gli elettori, per la maggior parte cristiani cattolici, mentre loda la "gente di buona volontà" che a suo dire è "un po' presa dalla paura" a causa della "predica usuale dei populismi". "Si semina paura e poi si prendono delle decisioni - continua Bergoglio nell'intervista al Corriere della Sera - la paura è l'inizio delle dittature. Dopo la caduta della Repubblica di Weimar, con promesse e paure è andato avanti Adolf Hitler e conosciamo il risultato. Impariamo dalla storia, questo non è nuovo". Quindi, sostenendo che "l'Europa è stata fatta da migrazioni" e che questa "è la sua ricchezza", invita i fedeli ad aprirsi a quelle "persone che migrano per la guerra o per la fame". "Ma se l'Europa, così generosa, vende le armi allo Yemen per ammazzare dei bambini, come fa l'Europa a essere coerente?". In conclusione papa Francesco torna a chiedere maggior dialogo. Solo così, a suo dire, ci sarà "laboratorio umano". "Se è umano è con la mente, il cuore e le mani - conclude - e così si firmano dei patti".
I vescovi a gamba tesa: "Votate solo chi dice sì all'accoglienza". Il presidente dei vescovi abruzzesi e molisani stila un decalogo morale per scegliere chi votare: "Sì all'accoglienza e al rispetto dei diritti di tutti", scrive Chiara Sarra, Martedì 22/01/2019, su Il Giornale. Il primo test elettorale del governo gialloverde è alle porte e anche stavolta la Chiesa entra a gamba tesa sul voto. In vista delle Regionali in Abruzzo, infatti, l'arcivescovo di Chieti-Vasto - nonché presidente della Conferenza episcopale Abruzzo Molise (Ceam) -, Bruno Forte, stila un "decalogo morale" per scegliere chi votare. "Tutti gli elettori esercitino il loro diritto al voto", spiega Forte nella sua lettera-appello in cui chiede di dare il proprio voto a chi dice "sì all'accoglienza", dà "attenzione a giovani, povertà, ricostruzione" e dice "no ai tagli indiscriminati alla sanità". "I sì riguardano anzitutto il rispetto della dignità di ogni persona umana, quale che sia il colore della sua pelle, la sua storia, la sua provenienza", sostiene l'arcivescovo come riporta il Messaggero, "Da un tale rispetto conseguono i doveri di solidarietà verso i più deboli e di accoglienza verso chi bussa alle nostre porte, fuggendo spesso da fame o violenza alla ricerca di un futuro migliore per sé e i propri cari. In collaborazione con l'azione della Prefettura varie nostre realtà ecclesiali hanno ben operato in tal senso e continueranno a farlo secondo il bisogno". C'è poi il tema della lotta alle povertà, quello "del fondamentale problema del lavoro dei giovani, fra cui si diffonde la paura del futuro data l'insicurezza delle possibilità che si aprono per loro" e quello "della situazione di emergenza del post-terremoto, che esige una sollecitudine da incentivare con determinazione". Non manda un richiamo speciale alla sanità e all'ambiente: "Pur convenendo sull'urgenza e l'opportunità del riassetto della rete ospedaliera, non si può non segnalare la necessità di tener conto dei bisogni della gente sul territorio, perché essi appaiono a volte sottovalutati a favore di una logica aziendale, che non si addice ai doveri di un servizio pubblico", dice Forte, "La tutela e la promozione di quello che è l'autentico patrimonio collettivo della nostra gente di Abruzzo è dovere primario di ogni amministratore. Un pericolo crescente cui badare con attenzione è quello dell'emergenza rifiuti, che esige soluzioni su vasta scala e lungimiranti, mentre l'urgenza dell'intervento sulla distribuzione e la certificazione della qualità dell'acqua è improcrastinabile".
Migranti, il vescovo di Milano: "Occorre contaminarci". L'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, difende i flussi migratori: "Fenomeno epocale". E avverte: "Cambiamenti inediti", scrive Luca Romano, Venerdì 01/02/2019, su Il Giornale. La parola chiave è "contaminazione". Per l'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, il fenomeno migratorio va accolto e "appreso". Una "sfida" di fronte ad un "fenomeno epocale" in cui "siamo immersi" e da cui "non è più possibile prescindere". Durante la celebrazione eucaristica vigiliare della festività della Presentazione del Signore al Tempio, nel Duomo di Milano, il vescovo meneghino torna a parlare di migranti. E lo fa nei giorni in cui l'attenzione politica e mediatica è tutta concentrata su quanto sta succedendo tra Siracusa e Catania con la nave di Sea Watch.
Secondo Delpini i flussi migratori, l'incremento della popolazione di origine straniera e gli immigrati di 'seconda generazione', sono "tutti elementi che interrogano e sfidano tanto la Chiesa quanto la società". Un fenomeno destinato "per sua natura a segnare le nostre relazioni e il rapporto tra le culture e i popoli, introducendo cambiamenti inediti dai quali non è più possibile prescindere". E visto che dai flussi migratori non si può prescindere, per l'arcivescovo meneghino "occorre apprendere ad abitarli, a rigenerarci e a creare nuovi soggetti attraverso l'incontro e la contaminazione con nuove esperienze visioni del mondo (fenomeno che abbiamo designato con il termine di meticciato di civiltà e di culture)". Non è la prima volta che i vescovi si schierano a favore dell'accoglienza. Anzi: con il ministro dell'Interno Salvini è in corso un braccio di ferro non indifferente sul tema dell'accoglienza. Ecco perché, alla luce della posizione della Cei sui flussi migratori, le parole di Delpini non sorprendono. Ma sono un nuovo capitolo dello scontro tra la Chiesa e l'attuale governo.
I turisti di Allah. Cosa chiedono per portare i soldi in Italia. Il mercato è in espansione e i tour operator si attrezzano per fornire servizi islamicamente corretti, scrive Stefano Filippi, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale". Vacanze islamiche. La lussuosissima Villa Tangery di Amalfi, dove 4 notti a metà gennaio costano quasi 7.000 euro, è in grado di riservare sia la piscina coperta sia quella scoperta alla famiglia musulmana che richieda privacy assoluta. Villa Royal Citrus a Mazara del Vallo, sul mare di Sicilia, garantisce riservatezza alle donne velate e alla loro famiglia. Villa Valgarda di Toscolano Maderno, con splendida vista sulla sponda bresciana del lago di Garda, offre un menu con opzioni islamicamente corrette, oltre a hammam, sauna, jacuzzi e una piscina a sfioro. All'hotel Becher di Venezia, suggestivo 3 stelle a due passi da piazza San Marco, sono pronti a rimuovere l'alcol dal frigobar se si prenota attraverso il portale Halalbooking.com. Se invece il turista musulmano vuole un albergo dove tutto il cibo servito è halal e l'alcol è messo completamente al bando, deve ripiegare sulla terraferma, all'albergo Kappa di Carpenedo, frazione di Mestre: peccato che la graziosa balconata al primo piano dove viene servita la prima colazione si affacci non su un minareto ma sulla parrocchiale munita di uno svettante campanile che ricorda vagamente quello di San Marco.
LE REGOLE. Il turismo islamico è un mercato in rapida espansione. Secondo il rapporto Global Muslim Travel Index 2018, nel 2017 sono stati 131 milioni i musulmani che hanno viaggiato per il mondo: erano stati 121 milioni l'anno prima e si stima che saliranno a 156 milioni nel 2020. Una quota pari al 10 per cento del turismo mondiale. Sono tanti, sono in crescita e sono danarosi: il medesimo rapporto calcola che i sauditi in viaggio spendano oltre 10mila euro l'anno a testa. E quando un arabo benestante porta con sé famiglia e servitù, ogni nucleo può valere fino a 100mila euro. C'è pure la versione islamica di Airbnb, chiamata Muzbnb, una rete di case date in affitto da musulmani. Fiorisce pure il mercato di applicazioni per smartphone in grado di indicare moschee, ristoranti e negozi halal, direzione e orari della preghiera, versetti coranici. Il fatto è che il vacanziero islamico osservante richiede una serie di attenzioni che fanno la differenza. Il vademecum del turismo secondo Maometto prevede precise regole di accoglienza. La stanza d'albergo va attrezzata con il tappetino per la preghiera rituale e un indicatore che individui la qibla, ossia la direzione della Mecca, mentre in frigobar non dev'esserci traccia di alcol. I pasti devono essere halal, cioè cucinati con gli ingredienti e secondo i metodi di preparazione indicati dalla sharia. Nel mese di ramadan la prima colazione va servita prima dell'alba. Agli ospiti islamici più esigenti va poi garantito un alto grado di riservatezza, che può comprendere sale da pranzo esclusive o saloni adibiti alla preghiera comune, fino a piscine, spiagge o centri benessere separati per uomini e donne. Anche le compagnie aeree dovrebbero prevedere varianti halal nei menù serviti a bordo. Se presenta queste caratteristiche, l'hotel o il resort può essere considerato halal, altrimenti è semplicemente «muslim friendly», cioè amico dei musulmani. La certificazione è concessa da enti che attestano l'«islamicità» anche di cosmetici, farmaci, prodotti finanziari, assicurazioni, come Halal Italy, Halal Italia (legato al Coreis), Halal Italy development, World Halal Authority. Le grandi mete turistiche nel mondo si stanno attrezzando. La gran parte delle destinazioni vacanziere per musulmani si trova ancora in Paesi islamici, dove un fedele di Allah può trovare tutto quello che il Corano gli impone. Le più gettonate sono la Turchia, la Malaysia, gli Emirati Arabi, il Bahrain e naturalmente l'Arabia Saudita, di gran lunga il primo approdo anche perché accoglie i viaggiatori che si recano in pellegrinaggio alla Mecca. I Paesi «laici» più frequentati dai musulmani sono Russia, Spagna e Francia. L'Italia è sesta, dietro anche a Thailandia e Singapore.
VARIAZIONI DI MENU. Il boccone è grosso e appetitoso. Così, mentre Juventus e Milan si disputano la Supercoppa di calcio in Arabia Saudita, in Italia cominciano a vedersi alberghi e ristoranti che stendono tappeti rossi ai ricchi viaggiatori mediorientali. I numeri in realtà sono ancora risicati. Il portale Halalbooking.com offre soltanto 48 proprietà di lusso a misura di imam in Italia su quasi 1.200 nel resto del mondo. Il sito Halalando.com elenca 31 hotel, nessuno dei quali a sud di Roma. «Basterebbero pochi accorgimenti per richiamare molti più turisti islamici», dice Cristian Karim Benvenuto, leccese convertito, che ha lanciato pochi mesi fa un notiziario online, Dailymuslim.it e il portale Italymuslimfriendly.it in collaborazione con un tour operator che lavora con mediorientali e cinesi. Secondo Benvenuto, gli islamici non aspettano altro che l'Italia crei le condizioni per ospitarli: «Ci considerano un Paese sicuro a differenza per esempio della Francia garantisce. E poi amano la gastronomia, il clima e le bellezze artistiche. Certo non spenderanno facendo il giro delle cantine e non mangeranno salumi, ma per moltissimi altri piatti sono sufficienti minime varianti. I musulmani non vengono da noi per mangiare kebab o cuscus, ma la nostra cucina. E come esistono menù per celiaci, vegetariani e kosher, possono benissimo aggiungersi quelli certificati halal a chilometro zero. Questi turisti viaggiano tutto l'anno, cercano i climi temperati e appartengono a ceti benestanti che sono in rapida crescita in Medioriente e così pure in Paesi asiatici come Pakistan, India, Malaysia, Azerbaigian, Indonesia. In Cina vivono 20 milioni di musulmani. E non dimentichiamo il turismo islamico interno, quello delle coppie miste e degli immigrati che risiedono, lavorano e guadagnano in Italia da anni». Al momento mancano non soltanto le strutture certificate, ma anche i voli diretti, il marketing, la possibilità diffusa di prenotare online, il personale specializzato che sappia le lingue e sia in grado di gestire le necessità dei turisti musulmani. Per ora i tour operator portano i musulmani a visitare Milano, Venezia, Firenze e Roma. Il Sud è quasi completamente assente, nonostante le reminiscenze arabe e saracene, anche se in Puglia si sta creando una rete di masserie e ristoranti halal. A Venezia c'è un accordo tra l'Associazione veneziana albergatori e Halal Italy, il maggiore ente certificatore operante in Italia, mentre strutture «muslim friendly» sono segnalate in Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio. Gli alberghi di lusso a Capri, Portofino, Costa Smeralda, Milano, prediletti da sceicchi e familiari, sono in grado di soddisfare facilmente le richieste di questa loro speciale clientela anche senza certificazioni di sorta. Più problematico realizzare spiagge halal. Ci avevano provato un paio d'anni fa a Riccione e in Sardegna: tratti di litorale per sole donne con servizi specifici. L'esperimento è finito nel nulla.
Migranti Sea Watch, l'appello del Papa: "Leader Ue mostrino solidarietà". Bergoglio all'Angelus rivolge un pensiero alle 49 persone a bordo di due navi di Ong: "Cercano un porto dove sbarcare", scrive Franco Grilli, Domenica 06/01/2019, su "Il Giornale". Anche Papa Francesco interviene sulla questione di Sea Eye e Sea Watch, le due navi Ong ormeggiate al largo di Malta con 49 migranti a bordo. E lo fa dal palazzo del Vaticano in occasione del consueto Angelus domenicale. "Da parecchi giorni quarantanove persone salvate nel Mare Mediterraneo sono a bordo di due navi di Ong, in cerca di un porto sicuro dove sbarcare - ha detto Bergoglio dopo la conclusione della preghiera dell'angelo - Rivolgo un accorato appello ai leader europei, perché dimostrino concreta solidarietà nei confronti di queste persone". Papa Francesco dunque si schiera apertamente dopo le posizioni prese dalla Chiesa italiana e da diversi porporati. Ieri, per fare un esempio, il vescovo di Malta mons. Charles Scicluna, in un gesto altamente simbolico, è salito a bordo della Lifeline, nave Ong ormeggiata al Grande Porto di La Valletta. "La vita umana non ha prezzo e le trattative non dovrebbero mai avvenire a spese delle persone che sono in difficoltà", ha detto il prelato. "L'Europa agisca senza ulteriore ritardo per salvare i nostri fratelli e sorelle" che sono ancora in mare. Secondo monsignor Scicluna, sebbene "il fenomeno dell'immigrazione richieda soluzioni a livello europeo", è "una grande ingiustizia che questi fratelli e sorelle siano diventati vittime dei negoziati tra i leader europei". L'intervento del Papa segue le polemiche politiche, non solo europee ma anche italiane, sulle sorti dei 49 migranti delle Ong. Di Maio ha aperto allo sbarco di donne e bimbi in Italia, ma Salvini si è opposto e il progetto europeo per la redistribuzione pare essersi incagliato.
Il Papa guida il fronte anti Lega sui migranti. Bergoglio però non cita Salvini, ma anzi allarga la questione coinvolgendo Bruxelles, scrive Massimiliano Scafi, Lunedì 07/01/2019, su "Il Giornale". Cercasi leader disperatamente. Se Mario Draghi resta solo un sogno proibito, se Sergio Mattarella, nei limiti imposti dal suo ruolo di arbitro, sta già facendo la sua parte bastonando il governo sulla manovra e sulla «compressione» del Parlamento, se i sindaci in rivolta non sembrano in grado di rovesciare il tavolo, se i cortei delle associazioni sono ininfluenti, ecco allora il personaggio che può infiammare l'opposizione: il Papa. «Da parecchi giorni quarantanove persone a bordo di Sea Watch e Sea Eye, le navi delle ong, sono in cerca di un porto sicuro dove sbarcare. Rivolgo un accorato appello ai leader europei perché dimostrino concreta solidarietà nei confronti di questi uomini e donne». E ancora: «Non permettiamo alle nostre paure di chiuderci il cuore, ma troviamo il coraggio di aprirci ai fratelli e alle sorelle che hanno bisogno di aiuto». Poche parole, un paio di frasi pronunciate dal balcone del Palazzo apostolico, durante l'Angelus del giorno dell'Epifania, ma bastano a Francesco per condannare la politica italiana sull'immigrazione. Bergoglio ovviamente non cita Salvini, anzi allarga la questione coinvolgendo Bruxelles, però non sarà facile per il ministro dell'Interno trascurare un appello così forte del Papa. Infatti il Vaticano, che in Italia conta ancora parecchio, ha deciso di schierarsi e negli ultimi giorni la Santa Sede si è mossa con tutte le sue forze. La Conferenza episcopale, la Fondazione Migrantes, Civiltà Cattolica, diversi vescovi e cardinali, adesso addirittura il Pontefice: il governo si muova, dice, i porti vanno aperti, quegli uomini vanno salvati. Se si aprirà uno spiraglio, il Vaticano darà una mano. «Voglio dichiarare la disponibilità della Chiesa torinese ad accogliere alcune famiglie, come già fatto a settembre per il caso della nave Diciotti - annuncia l'arcivescovo Cesare Nosiglia - . Un gesto che ha un significato simbolico e concreto, un segnale preciso alle autorità italiane». Le parole di Francesco piacciono a sinistra. «Non potevano esserci espressioni più efficaci - commenta la pd Raffaella Paita - per chiarire che i porti devono restare aperti e che Salvini usurpa i poteri di altri». E Nicola Fratoianni, Leu, «da non credente ringrazio il Papa». Ma soprattutto si inseriscono nel duro braccio di ferro in corso nella maggioranza tra Lega e Cinque stelle sulla gestione degli sbarchi. Fico e Di Battista vorrebbero far scendere donne e bambini, Di Maio chiede una decisione collegiale del governo e il premier Conte lavora a una mediazione. Salvini però non vuole mollare. «Quanti ne accoglieremo? - scrive su Facebook - Zero». Il vicepremier non intende rinunciare alla sua battaglia, quella più popolare, e pazienza se il Papa non è d'accordo e se il Vaticano si è mobilitato. L'assenza dell'Europa e la posizione di chiusura di Malta, che non vuole «creare un precedente» autorizzando l'attracco due navi e cerca di «mantenere un equilibrio tra assistenza e sicurezza», aiutano il ministro dell'Interno a tenere il punto. «Giusto che si discuta, ma in materia di migranti quello che decide sono io. Fate quello che volete, però per chi non rispetta le leggi, i porti italiani sono e rimarranno chiusi».
«Disobbedire è una virtù», diceva don Milani. La lettera di don Lorenzo Milani ai cappellani militari sul diritto all’obiezione di coscienza (Firenze, marzo 1965), scrive il 4 gennaio 2019 "Il Dubbio". L’11 febbraio 1965 un gruppo di cappellani militari toscani in congedo votò in assemblea un documento in cui si dichiarava, tra l’altro, di di considerare «un insulto alla Patria e ai suoi Caduti la cosiddetta ‘ obiezione di coscienza’ che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà».A quel documento, pubblicato sul quotidiano La Nazione, don Lorenzo Milani rispose con una lettera aperta che pubblichiamo qui sotto. Per questa lettera (che fu pubblicata dal settimanale del Pci, Rinascita) don Milani fu processato insieme al direttore di Rinascita Luca Pavolini. Nel ’67 don Milani morì. Nel ’ 68 Pavolini fu condannato a 5 mesi di prigione per oltraggio alle forze armate (poi beneficiò di una amnistia). Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo. Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola. Io l’avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.
PRIMO. Perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, ch’io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore.
SECONDO. Perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi. Nel rispondermi badate che l’opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi e non si contenterà né d’un vostro silenzio, né d’una risposta generica che sfugga alle singole domande. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste.
Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria. Io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona. Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei. Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione. Articolo 11 «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…». Articolo 52 «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia. Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile?
Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni ( scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?
Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta a volta detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la prigione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la prova mostrando nel vostro comunicato di non avere la più elementare nozione del concetto di obiezione di coscienza. Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati. Oltre a tutto la Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi l’anno) l’esercito, è solo perché difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia. E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all’obiezione che all’obbedienza. L’obiezione in questi 100 anni di storia l’han conosciuta troppo poco. L’obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, l’han conosciuta anche troppo. Scorriamo insieme la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare. 1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell’idea di Patria, tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c’erano diversi ufficiali napoletani disertori della loro Patria. Per l’appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza d’Italia un monumento come eroe della Patria. A 100 anni di distanza la storia si ripete: l’Europa è alle porte. La Costituzione è pronta a riceverla: «L’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie…». I nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, così come tutti ridiamo della Patria Borbonica. I nostri nipoti rideranno dell’Europa. Le divise dei soldati e dei cappellani militari le vedranno solo nei musei. La guerra seguente, 1866, fu un’altra aggressione. Anzi c’era stato un accordo con il popolo più attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l’Austria insieme. Furono aggressioni certo le guerre ( 1867 - 1870) contro i Romani i quali non amavano molto la loro secolare Patria, tant’è vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo, tant’è vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. Il Gregorovius spiega nel suo diario: «L’insurrezione annunciata per oggi, è stata rinviata a causa della pioggia». Nel 1898 il Re «Buono» onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi meriti in una guerra che è bene ricordare. L’avversario era una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. Il Generale li prese a colpi di cannone e di mortaio solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perché era rincarata. Eppure gli ufficiali seguitarono a farli gridare «Savoia» anche quando li portarono a aggredire due volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l’unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo. Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione?
Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d’un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l’uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa?
Idem per la guerra di Libia. Poi siamo al ‘14. L’Italia aggredì l’Austria con cui questa volta era alleata. Battisti era un Patriota o un disertore? È un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti? Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una «inutile strage»? (l’espressione non è d’un vile obiettore di coscienza ma d’un Papa canonizzato).
Era nel ‘22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l’Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra «Patria», quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa). Nel ‘ 36, Cinquantamila soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: Avevano avuto la cartolina di precetto per andar «volontari» a aggredire l’infelice popolo spagnolo. Erano corsi in aiuto d’un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll’aiuto italiano e al prezzo d’un milione e mezzo di morti riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d’ogni libertà civile e religiosa. Ancor oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi garrota) chiunque sia reo d’aver difeso allora la Patria o di tentare di salvarla oggi. Senza l’obbedienza dei «volontari» italiani tutto questo non sarebbe successo. Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall’altra parte, non potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l’appunto questi ultimi erano italiani ribelli e esuli dalla loro Patria. Gente che aveva obiettato. Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve obbedire?
Poi dal ‘39 in là fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l’altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia). Era una guerra che aveva per l’Italia due fronti. L’uno contro il sistema democratico. L’altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l’umanità si sia data. L’uno rappresenta il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri. L’altro il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri. Non vi affannate a rispondere accusando l’uno o l’altro sistema dei loro vistosi difetti e errori. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c’era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d’ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d’ogni giustizia e d’ogni religione. Propaganda dell’odio e sterminio d’innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli ebrei (la Patria del Signore dispersa nel mondo e sofferente). Che c’entrava la Patria con tutto questo? E che significato possono più avere le Patrie in guerra da che l’ultima guerra è stata un confronto di ideologie e non di patrie?
Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra «giusta» (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i «ribelli», quali i «regolari»?
È una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo p. es. quali sono i «ribelli»?
Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l’ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati. Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall’obbedienza militare. Quell’obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un «distinguo» che vi riallacci alla parola di San Pietro: «Si deve obbedire agli uomini o a Dio?». E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro. (…) Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene. Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l’ha fatto. Più maturo condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita? Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l’esempio e il comandamento del Signore è «estraneo al comandamento cristiano dell’amore» allora non sapete di che Spirito siete! Che lingua parlate? Come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? Se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete! (…)
Vittorio Feltri il 6 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano": immigrati, vincerà Salvini alla grande. Chiesa e Pd si suicidano. Matteo Salvini è assediato da tutti coloro, e non sono pochi, che fanno un tifo sfrenato per gli immigrati pronti ad attraccare nei nostri porti per poi insediarsi in Italia e farsi mantenere dallo Stato. Il ministro dell'Interno reagisce e insiste nel bloccare gli sbarchi. Ha ragione da vendere. E i connazionali sono in maggioranza dalla sua parte. Sono ostili all' invasione incontrollata degli stranieri, cosicché si apprestano in massa ad appoggiarlo incondizionatamente. Solo una minoranza di stolti è favorevole all' accoglienza priva di limiti, tra i quali c' è perfino Di Maio che all' ultimo momento si è convertito al buonismo. Per non parlare del cardinale Bagnasco, il quale si è accodato pedestremente ai sindaci Orlando e De Magistris nel predicare la necessità di aprire le porte ai migranti per ragioni umanitarie e in omaggio al verbo Cristiano, secondo cui il prossimo va ospitato comunque, sebbene sgradito. Queste anime pie si sono lanciate in una campagna tesa a prendersi carico degli sfigati africani, senza tuttavia tirare fuori un centesimo di tasca loro, bensì addossando ogni spesa sul nostro gobbone. Essere generosi attingendo al portafogli del popolo è molto facile. Siamo capaci tutti di abbracciare gli extracomunitari affidandone gli oneri alla pubblica amministrazione, finanziata notoriamente dai nostri quattrini. Va da sé che una moltitudine di compatrioti non ne può più dell'andazzo e simpatizza per Salvini che, invece, si batte con forza per porre fine allo scempio. In effetti il Pd e la Chiesa, a causa delle posizioni tolleranti assunte in materia di immigrati, stanno dimagrendo in modo vistoso: gli ex comunisti perdono voti a vista d' occhio e le parrocchie hanno più candele che fedeli. Si stanno riducendo a club di reduci senza futuro. In compenso la loro politica piagnona ingrassa la Lega che interpreta alla perfezione i sentimenti dei cittadini, conoscendone le difficoltà esistenziali. Bagnasco, poverino, è un uomo di sacrestia e ignora il dramma delle periferie invase dai neri che delinquono per sopravvivere, mettendo a repentaglio la sicurezza dei locali. E i democratici e affini si illudono di recuperare suffragi spalancando i confini a qualsiasi disperato che intenda illegittimamente stabilirsi nella penisola. Ciascuno è libero di pensarla come crede, non è questo il punto. Però si renda almeno conto di un pericolo: chi disprezza la volontà degli elettori non sarà eletto. Vincerà Salvini alla grande. E noi saremo con lui. Vittorio Feltri
Antonio Socci il 6 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano": Papa Francesco, i migranti e Satana Salvini, così la Chiesa si sta auto-distruggendo. Ma che sta succedendo nella Chiesa cattolica? La situazione non è solo catastrofica: è anche assurda. Infatti la realtà parla di chiese che si svuotano drammaticamente in Occidente e di un Oriente dove i cristiani sono duramente perseguitati. La realtà parla di sparizione dei tradizionali movimenti cattolici, di scontri interni alla Curia, di continui scandali e di enorme confusione fra i fedeli per le trovate rivoluzionarie di papa Bergoglio (che nei giorni scorsi ha pure "dimenticato" il dogma dell'Immacolata Concezione).
Ma di tutto questo gli ecclesiastici non si occupano e non si preoccupano. Ai pastori non interessano le pecore che si stanno smarrendo e disperdendo. La casta ecclesiastica è tutta presa dalla politica. È una vera febbre. Già questo è surreale, ma non basta. Infatti non vogliono portare nella politica la «dottrina sociale» della Chiesa o i «principi non negoziabili», come si potrebbe credere. Seguendo il verbo bergogliano hanno un solo tema teologico-politico da affermare con piglio fondamentalista: i migranti. Dunque i migranti ormai sono diventati la loro bandiera ideologica da sventolare, ma anche, addirittura, una sorta di soggetto messianico con cui ribaltare l'annuncio cristiano, perfino nel presepio: come se gli angeli avessero annunciato ai pastori l'arrivo del «migrante Gesù», anziché la nascita del Figlio di Dio. Secondo il sentire comune della gente, gli ecclesiastici ormai si occupano solo di migranti, solo di loro parlano. E in effetti le gerarchie clericali si tuffano in politica con il preciso intento fare la guerra a Salvini: è lui il Satana a cui gridare «Vade retro!», come proclamò la nota copertina di Famiglia cristiana. Proprio lui, che pure ha pubblicamente dichiarato di voler difendere le nostre radici cristiane, è il Male contro cui il mondo clericale si mobilita e si scatena.
La «chiamata» - Ieri Salvini, dall' Abruzzo, ha risposto: «Sono un peccatore, ma non fesso. Quest' anno invece che 120 mila, ne sono arrivati solo 20 mila: 100 mila in meno, con un miliardo di risparmio, molti morti in meno e molti reati in meno». Significa che il vicepremier non demorde e non vuole che l'Italia torni ad essere il campo profughi d' Europa e d' Africa. La maggioranza degli italiani e dei cattolici la pensa come lui. Proprio per questo ormai è continua la "chiamata" all'impegno politico contro Salvini, da parte dell'establishment bergogliano. Rispondono "presente" i giornali clericali, la Cei e - sia pure flebilmente - le associazioni cattoliche (o quello che ne è rimasto). Ieri perfino l'ex presidente della Cei (oggi presidente dei vescovi europei), il cardinal Bagnasco, arcivescovo di Genova, che finora era considerato uno dei pochi rimasti in linea con il magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, si è schierato e si è guadagnato il titolo con cui La Stampa ha aperto la prima pagina: «"Obiezione di coscienza". La mossa della Chiesa contro il decreto sicurezza». Il riferimento era proprio all' arcivescovo di Genova: «La carica la suona il cardinale Bagnasco» che - secondo il giornale torinese - «schiera la Chiesa sul decreto sicurezza: "Sì all' obiezione di coscienza"». La Ue non si critica - Sul caso "migranti della Sea Watch" è intervenuto pure mons. Guerino Di Tora, presidente della commissione per le migrazioni della Cei, che ha tuonato: «Chi si tira indietro non ha la coscienza a posto». Anche l'arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, tuona invitando a non «rimanere in silenzio dinnanzi ai disumani decreti che aggravano la sofferenza di chi è vessato da povertà e guerra». Non risulta si siano viste le stesse mobilitazioni, né così aspre denunce della chiesa bergogliana, negli ultimi sei anni in cui, grazie all' euro, alle politiche della Ue e ai governi italiani allineati ad essa, da noi sono esplose la povertà e la disoccupazione (con migliaia e migliaia di aziende chiuse). Né si ricordano mobilitazioni papali e parole di fuoco in favore delle popolazioni terremotate e dei loro inverni al freddo. Sono solo due esempi (si potrebbero aggiungere la legge sulle unioni civili e altre trovate dei precedenti governi che avrebbero dovuto far reagire la Chiesa). Nelle (tante) invettive politiche ecclesiastiche non si trova mai la critica all' Unione Europea, anzi: proprio la Ue (da non confondere con l'Europa che è tutt' altra cosa) sembra sia diventata l'ancora di salvezza politica di questa gerarchia clericale. Proprio questa Unione Europea che è diventata la realtà politica più laicista e anticristiana dell'Occidente. I clericali ne parlano con gli stessi argomenti entusiasti di Emma Bonino. Quello che però sconcerta la casta ecclesiastica è il fatto che il popolo cattolico non li segua. Anzi, sembra fare la scelta opposta, dando la sua preferenza maggioritaria alla Lega e ad altri gruppi sovranisti. I cattolici, sia quelli più praticanti, che quelli meno praticanti, preferiscono rifarsi a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI, cioè al tradizionale insegnamento cattolico, piuttosto che alle "rivoluzioni" bergogliane. Perciò il disappunto nell' élite clericale è palpabile. Sono generali senza esercito. Lo si percepisce in queste parole di padre Antonio Spadaro, che è lo stratega di papa Bergoglio: «Non basta più formare i giardini delle élite e discutere al caldo dei "caminetti" degli illuminati. Non bastano più le accolte di anime belle Facciamo discorsi ragionevoli e illuminati, ma la gente è altrove». In effetti la gente è altrove, i cattolici dissentono dalla gerarchia bergogliana, applaudendo Salvini. Anche se papa Bergoglio li bastona proclamando che è meglio essere atei che essere cattolici che rifiutano l'invasione migratoria (oltretutto islamica, dunque assai poco integrabile), una lista politica? I fedeli cattolici (con tutti gli altri) percepiscono, sulla propria pelle, che questo scombussolamento di popoli che entusiasma le élite (anche delle Nazioni Unite), è devastante sia per i Paesi di arrivo che per i Paesi di partenza (la pensano così anche i vescovi africani). Dunque padre Spadaro vorrebbe riportare "in linea" la gente che è altrove. Così nei giorni scorsi ha preso la parola per vergare una sorta di Manifesto politico, pubblicandolo sulla rivista dei gesuiti. Se il Decalogo dato da Dio a Mosè sul Sinai è chiamato «le dieci parole», padre Spadaro ha voluto far di meglio: a lui bastano «Sette parole per il 2019» per illuminare le genti (così spera). Purtroppo però sono parole già sentite e risentite, da anni, in qualunque intervento di esponenti del Pd e nei quotidiani articoli di Repubblica: la paura, le migrazioni, l'Europa, il populismo, la democrazia La sensazione è che tutto questo tuonare poi non porti alla formazione di una lista cattolica alle elezioni europee, perché contarsi sarebbe molto controproducente. I più ritengono che tutto si risolverà in un appoggio ecclesiastico al Partito democratico, ancor meglio se guidato da Zingaretti, perché - si dice oltretevere - gli ecclesiastici dell'epoca bergogliana si trovano meglio con i post comunisti che con Renzi. Antonio Socci
Clandestini. PERCHÉ NO «Caro Papa, prima mettiamo gli italiani». Marco Zacchera il 27 Aprile 2019 su Il Dubbio. Chi sono io per giudicare? Io, un cristiano pieno di dubbi, di incertezze, di incongruenze, non ho alcun titolo per giudicare un Papa, però a Papa Francesco vorrei comunque scrivere, senza polemica alcuna, pronto a riconoscere i suoi tanti meriti in ogni campo a cominciare dal volere un necessario rinnovamento nella Chiesa denunciando le sue tante mancanze morali e svolgendo un compito pieno di difficoltà. Credo che molti cristiani come me si interroghino sul perché di una nostra società sempre più lontana dalla religione – soprattutto quella cristiana e cattolica – nelle sue forme esteriori ma al tempo stesso anche di quanto spesso sembri sempre più lontana la nostra stessa Chiesa dalle realtà quotidiane pur cercando di correre dietro ( fin troppo) al “politicamente corretto”. L’importante figura del Papa non l’ho mai intesa come qualcuno che ordini: piuttosto come quella di un pastore che faccia riflettere, che sia da esempio e che da “padre” parli ai tanti suoi figli dispersi nel mondo. Per questo sono sconcertato da alcuni aspetti che mi sembrano diventati il cardine di un messaggio cristiano e che invece sono solo un aspetto di una realtà che però ha anche altre priorità. Alludo alle problematiche dei cristiani che soffrono e a quella dei “migranti” che sembrano diventati l’essenza di questo pontificato. Parliamoci chiaro: il cristianesimo è innanzitutto amore verso il prossimo e quindi anche accoglienza dello straniero, un dovere da compiere e su questo non si può transigere. Ma – proprio per poter aiutare in modo concreto ed utile servono regole, organizzazione, priorità, chiarezze o alla fine si creano situazioni insostenibili. E qui si apre una dei due aspetti principali dei miei dubbi. Per esempio il fatto che vengano considerati “prima” i migranti, ma non tanto rispetto agli italiani quanto ai loro stessi fratelli che restano a soffrire a casa loro: dimenticati, poveri ed oppressi. Ho scritto un libro su questo: non si può affrontare ogni giorno e in ogni omelia il problema creato dall’ultimo anello della catena ( i migranti sui barconi) senza affrontare mai quello iniziale ovvero i governi corrotti, violenti, incapaci, discriminatori, razzisti che creano le condizioni della schiavitù e quindi dell’esodo. Se la Chiesa vuole essere autorevole perché non impone attenzione al mondo prima di tutto sulla radice del problema? Perché – come ha sostenuto Papa Francesco nella Via Crucis del venerdì santo – se si entra nel merito e nel dettaglio di chi “chiude le frontiere per interessi politici” ( e quindi entrando di fatto nelle questioni politiche italiane) non si denuncia allora con esempi concreti anche chi distrugge il mondo, assoggetta continenti, sfrutta le risorse dei popoli e li spinge ad emigrare? Mi riferisco alla Cina – ad esempio – verso la quale sembra esserci una acquiescenza ed estrema tolleranza globale, ma anche i tanti governi verso i quali c’è troppo silenzio e complicità. Il secondo aspetto è che la Chiesa non è e non deve essere solo “assistenza sociale” ma prima di tutto una comunità di credenti e quindi – nella fraternità e nell’accoglienza, senza discriminazioni – avrebbe però anche il dovere di denunciare i soprusi, le atrocità, le ingiustizie che nel mondo soffrono i componenti della nostra stessa comunità cristiana perché il senso di appartenenza è il collante di ogni comunità, la forza interiore che spinge al sacrificio, all’aiuto, alla solidarietà. In questo senso mi sembra che la Chiesa cattolica abbia in questi ultimi anni spesso abdicato al suo ruolo, quasi paurosa di denunciare chiaramente le responsabilità degli estremisti di altre religioni, a cominciare da quella islamica. Penso alla Chiesa che soffre in tantissimi paesi del mondo, alle sofferenze dimenticate di troppi nostri fratelli in Cristo, alle persecuzioni politiche, religiose e sociali. In questo credo che il Papa dovrebbe essere più incisivo, autorevole, deciso. Questa Pasqua è stata contrassegnata dai morti cristiani in Sri Lanka, ma avvenne lo stesso l’anno scorso con i copti in Egitto e le tremende esplosioni in Pakistan – sempre a Pasqua – tre anni fa. Sono i martiri cristiani di oggi ( quasi sempre vittime di estremisti islamici, ma sembra non sia di moda dirlo) per i quali nella Via Crucis mi aspettavo almeno un ricordo perché sono tantissimi, troppi. Mi sembra che negli ultimi decenni si sia perso progressivamente il senso missionario, la carica emotiva della volontà di spiegare ad altri fratelli il senso del Vangelo. Una Chiesa che perde queste caratteristiche non cresce, si chiude in sé stessa, non ha carica vitale ed è con tanta tristezza che vedo le nostre chiese semivuote, abbandonate senza più sacerdoti giovani, relegata ai margini della società.
Clandestini. PERCHÉ SÌ «Bravo Papa, da soli non ci si salva». Sergio Valzania il 27 Aprile 2019 su Il Dubbio. Mi imbarazza sempre leggere di come vanno male le cose, di quanto sono distratti i cristiani, del disinteresse per i correligionari che soffrono persecuzioni che neppure immaginiamo e delle quali niente viene detto, del com’era bello il passato. Non c’è un passato buono, siamo sempre noi. Quelli di prima. Ci siamo così abituati alla pace, dono forse immeritato e conquistato anche per stanchezza, esaurimento fisiologico, eccesso di grassi e zuccheri nel sangue, da alzare il ditino davanti al viso emaciato di altri popoli per spiegare loro come si fa a vivere. Addirittura ci spingiamo a rifiutare uno dei principi cardine del cristianesimo, la corresponsabilità di fronte a tutto quello che succede è successo e succederà all’umanità, della quale siamo parte. Non ci si salva da soli. Neppure impartendo lezioni. Neanche alla Cina, che l’Occidente ha saccheggiato per anni, ha tentato di invadere in ogni modo, ha offeso e umiliato, ha consegnato in larga parte nelle mani del peggiore dei Giapponi possibili, quello che si era convinto di dover imitare alla perfezione le grandi potenze. Anche nell’imperialismo coloniale. Il razzismo è nella nostra storia, l’abbiamo inventato noi. Gli antichi non lo conoscevano, trovavano le differenze del colore della pelle significative quanto quelle dei capelli. Ne abbiamo fatto una piaga mondiale. È un sapere diffuso che le cose del mondo vadano male anche per colpa di politici corrotti, di speculatori senza scrupoli, di governanti incapaci e di persone disposte a tutto pur di ricavare un meschino guadagno. Se si scende nel dettaglio però tutti accusano tutti, e con una buona parte di ragione. Il peccato originale è anche questo, la responsabilità per il dolore del fratello, l’incapacità a fare fino in fondo quello che ci sembra giusto. La fuga da quello che si può fare in nome di quello che si dovrebbe fare ma risulta troppo difficile, lontano, incerto. Fa bene Papa Francesco a parlarci dei migranti, come ha fatto bene a recarsi a Lampedusa nel primo viaggio apostolico, quando ha detto Messa su di un altare fatto con il fasciame ammassato a sghimbescio delle barche di migranti distrutte dalla traversata. Siete cristiani? Chiede il Papa. Allora dimostratelo aiutando questi fratelli che per vostra comodità sono venuti davanti alle vostre case attraversando mille pericoli e violenze e umiliazioni, così da non costringervi ad andare voi fin da loro a soccorrerli. Persone che fino a ieri ospitavamo e che oggi respingiamo in mano alla criminalità organizzata, nei casi fortunati. Una scelta totalmente incongrua anche ai fini della “sicurezza” da garantire. Sappiamo bene che in Italia l’accoglienza è affidata al Ministero degli Interni, cioè alla Polizia, perché vogliamo credere che l’immigrazione sia un problema di ordine pubblico, anziché affidarla ai Sindaci, come sarebbe opportuno dato che si tratta di una questione di prossimità, di aiuto del vicino, non di controllo e repressione. Semmai quello che andrebbe represso è lo sfruttamento degli immigrati. Per non dire dello ius soli, o ius culturae che fa lo stesso, tanto nessuno lo vuole. Così succede che qualcuno – per un cristiano un fratello nato in mezzo a noi, ma da genitori con la colpa di avere un passaporto con la copertina di colore diverso dal nostro, che parla la nostra lingua e nessun’altra, che ha studiato come ogni italiano, non ha diritto la cittadinanza. Qui non si tratta di chiedere l’impossibile, ma di fare il possibile. Tutto e fino in fondo. E giustamente Papa Francesco non si stanca di ricordarcelo. Certo, lo sa bene anche lui che ci sono altri problemi, viene dall’Argentina, che si trova in Sud America, il continente delle favelas, che a Buenos Aires si chiamano villas miseria. Si può discutere a lungo su chi sia il colpevole della loro esistenza, dello scandalo della prossimità fra grandi ricchezze e infinite povertà. Nel 2012 erano 850 milioni gli uomini, le donne, i vecchi e i bambini che vivevano ai margini delle città in condizioni di degrado igienico, sanitario, culturale, di lesione grave dei diritti elementari. È giusto occuparsi di loro, forse è giusto persino rimproverare alla Cina di approfittare dell’incapacità degli occidentali nell’offrire una prospettiva di riscatto all’Africa per annettersi politicamente regioni delle quali finanzia lo sviluppo. Avremmo una credibilità molto maggiore e saremmo più sicuri nell’agire se a casa nostra i comportassimo come pretendiamo ci si comporti nei più remoti angoli del mondo. Come capita spesso il messaggio cristiano non chiede l’impossibile. È invece rispettoso della natura umana e ci invita a curarci di noi mentre ci occupiamo di quelli che non possiamo esimerci dal riconoscere nostri fratelli.
Vaticano, Papa Francesco nega il problema Islam: svuota i campi di migranti in Africa e li porta in Italia, scrive Fausto Carioti il 29 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. Per Francesco e la sua corte il pericolo islamico continua a non esistere. Nei giorni scorsi hanno finto di non vedere che le stragi di cristiani compiute in Sri Lanka sono state opera di terroristi musulmani. Padre Antonio Spadaro, direttore della rivista dei gesuiti e primo consigliere politico del pontefice, è giunto a definire quell' eccidio un «attacco allo Stato», anziché alla cristianità, in modo da derubricare la persecuzione religiosa a conflitto politico locale. Come se l' Isis non avesse rivendicato quegli attentati e nel Corano non fossero prescritti, a proposito di noialtri infedeli, trattamenti tipo «prendeteli, fateli morire ammazzati ovunque si trovino» e altre cortesie del genere. Adesso, in Vaticano, si ostinano a ignorare il rischio dei terroristi e dei foreign fighters nascosti in mezzo alle decine, forse centinaia di migliaia di persone pronte a partire dalle coste libiche verso l' Italia. La proposta di Jorge Mario Bergoglio è semplice e l' ha illustrata ieri: portare qui tutti i profughi, subito, iniziando da coloro che si trovano nei campi gestiti dal governo di Fayez al Serraj, dove secondo le agenzie delle Nazioni Unite sono rinchiuse 5.700 persone. Ai fedeli in piazza San Pietro, il papa ha detto: «Vi invito ad unirvi alla mia preghiera per i profughi che si trovano nei centri di detenzione in Libia, la cui situazione, già molto grave, è resa ancora più pericolosa dal conflitto in corso». Quindi ha lanciato l' appello «perché specialmente le donne, i bambini e i malati possano essere al più presto evacuati attraverso corridoi umanitari». E vista la cartina geografica e l' atteggiamento della comunità internazionale - a partire dai Paesi arabi, impegnati ad alimentare la guerra tra il generale Khalifa Haftar e Serraj - ci sono pochi dubbi su dove terminerebbero quei «corridoi»: nei nostri porti. A incrementare i numeri che hanno fatto dell' Italia, nel 2018, il secondo Paese europeo, dopo la Germania, per la concessione di protezione internazionale ai profughi.
Miliziani - Il dubbio non riguarda la presenza di terroristi tra chi vuole arrivare qui: il fatto che ce ne siano è confermato da tutte le fonti. Come è certo che miliziani dell' Isis si trovino oggi a piede libero in Libia, impegnati a compiere attentati. Serraj, nei giorni scorsi, ha detto che «ci sono oltre 800mila persone, migranti africani e cittadini libici, gente arrivata di recente nei centri di accoglienza o semplicemente persone spaventate, che potrebbero cercare di raggiungere le coste italiane. E con loro possono esserci elementi criminali, oltre a unità di jihadisti pronte a colpire». Secondo il suo vicepremier, Ahmed Maitig, «circa quattrocento prigionieri dell' Isis detenuti tra Tripoli e Misurata» potrebbero fuggire verso le coste europee approfittando del caos. Parlano di «centinaia di terroristi islamici pronti ad arrivare in Italia» gli uomini del Viminale, i quali ricordano che proprio l' emergenza antiterrorismo ha spinto la Francia a chiedere di prorogare per sei mesi la chiusura delle frontiere.
Prudenza - Ce n' è quanto basta per mettere paura e consigliare prudenza anche a chi ha cuore la sorte dei profughi. Fosse pure il papa, perché le chiese sono tra i bersagli preferiti dei mujaheddin e si è visto che quelle europee non fanno eccezione. Il modo per salvare vite senza metterne a rischio altre e dare accoglienza a chi la merita c' è, ma prevede l' impegno dei Paesi musulmani e di organizzazioni come quella per la cooperazione islamica, che ha sede a Gedda, in Arabia Saudita, e raggruppa 57 Stati. Alcuni dei quali, come la stessa monarchia di Riad, hanno scommesso sul disordine libico, appoggiando Haftar, e sono stati premiati con il rialzo del prezzo del petrolio, che dall' inizio dell' anno è cresciuto del 55%. Un intervento umanitario organizzato da loro dovrebbe essere il primo obiettivo di Francesco, tramite quel dialogo interreligioso al quale tiene tanto, e della comunità di Sant' Egidio, grazie alle proprie relazioni diplomatiche. Vaticano e organizzazioni terzomondiste sono invece in prima fila tra chi vuole far credere che l' unica soluzione possibile passi per l' Europa, anzi per l' Italia. Così rafforzano il ricatto dei regimi islamici, che anziché accogliere i loro correligionari nell' ora del bisogno trovano più conveniente spedirli da noi, per la maggior gloria di Allah. Fausto Carioti
· L’immigrazione e lo schiavismo. L’ipocrisia di chiesa e sinistra.
Massa senza volto né salvezza Così abbiamo cancellato gli altri. Pubblicato sabato, 06 aprile 2019 da Luigi Manconi su Corriere.it. In un articolo sul «Corriere della Sera» del 18 gennaio scorso, Paolo Di Stefano scriveva della difficoltà, innanzitutto psicologica, di pensare migranti e profughi come titolari di biografie individuali e di tragedie personali e non come pezzi di un’unica e indistinta storia «per lo più molto fastidiosa o minacciosa per la nostra tranquillità». Poi, ma assai raramente, irrompe un racconto che può modificare, almeno per una parte della mentalità collettiva, il punto di vista. Come nel caso di «una piccola vita e/o una piccola morte» ricostruita da Cristina Cattaneo nel suo bel libro Naufraghi senza volto (Raffaello Cortina Editore, 2018): quella di un adolescente maliano, affogato nel Mediterraneo e ritrovato con la sua pagella scolastica, ricca di voti brillanti, cucita all’interno di una tasca del giubbotto. In questo testo, la rievocazione di alcune biografie arriva a toccare grandi questioni di antropologia sociale, ma anche di filosofia politica che attraversano, spesso in maniera troppo sommessa, il dibattito pubblico. Cristina Cattaneo, medico legale autrice del saggio «Naufraghi senza volto» edito da Raffaello Cortina (foto LaPresse)Il libro è la testimonianza di un medico legale che intende ricostruire, attraverso l’analisi dei corpi e dei reperti, l’identità ricomposta o viceversa irrecuperabile di migliaia di persone morte nel Mediterraneo. Domanda sottintesa: com’è possibile tollerare tanto strazio? Rispondere è forse impossibile, eppure non bisogna pensare che — davanti a prove in apparenza inoppugnabili — il nostro sia semplicemente definibile come il tempo dell’egoismo. Innanzitutto perché è probabile che la «quantità» di egoismo che abita il mondo non vari significativamente nell’arco di pochi decenni ma che, piuttosto, si distribuisca differentemente a seconda — oltre che del tempo — dello spazio, della disponibilità di risorse, delle dinamiche sociali e culturali. E, poi, perché è ancora più probabile che l’egoismo e il suo contrario — la solidarietà — tendano a svilupparsi in misura inversamente proporzionale, producendo l’accorciamento della solidarietà a vantaggio dell’allungamento dell’egoismo, e viceversa. È possibile, cioè, che laddove si sviluppavano solidarietà lunghe attualmente prevalgano quelle corte; e dove l’egoismo era circoscritto ad ambiti ristretti, tenda oggi a estendersi a territori sempre più ampi. Questo vale in particolare per quanto riguarda gli atteggiamenti sociali nei confronti della sofferenza altrui.
Davanti al dolore degli altri è il titolo di un magnifico libro di Susan Sontag, pubblicato negli Oscar Mondadori nel 2006 e oggi letteralmente introvabile (l’ultima copia che ho potuto rintracciare online è costata 50 euro): e sarebbe davvero importante se la casa editrice di Segrate lo volesse ripubblicare. Ecco, la mia idea è questa: «davanti al dolore degli altri» è sbagliato ritenere che non si determini più un moto di altruismo e un sentimento di commozione e di empatia. E, forse, non è nemmeno la «quantità» e l’intensità della sofferenza provata a venire ridimensionata. È, bensì, la nozione stessa di «altri» a essere drasticamente e, talvolta persino crudelmente, rimpicciolita. La solidarietà si fa corta, cortissima, e si concentra all’interno di un perimetro sempre più ridotto, mentre l’egoismo (ovvero l’indifferenza) sembra dominare l’intero spazio al di là di quegli strettissimi confini. La senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah (foto LaPresse)A determinare quest’accelerato restringersi della nozione di «altri» è una crisi talmente violenta da indurre a pensare che solo noi e la nostra piccola cerchia (di familiari, parenti, colleghi, membri della stessa comunità o corporazione o etnia) saremo in grado di salvarci. È da qui che nasce il sovranismo, e non viceversa. E c’è un ulteriore elemento che concorre a questo processo, rendendo così incerto e indistinto l’universo di immagini che compongono gli altri. Quelli che non siamo noi. Ecco l’intuizione della Sontag in quel libro introvabile. Interrogandosi sul modo in cui la bufera di immagini di brutalità e di morte ci influenza, l’autrice non si domanda solo se questa ci renda spettatori più partecipi oppure più indifferenti. La competizione fra i due sentimenti possibili di rifiuto o viceversa di insensibilità rispetto alla violenza mostrata in centinaia e centinaia di fotografie e di video, rischia di nascondere una più essenziale questione. «Non si dovrebbe mai dare un noi per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri», scrive Sontag. Chi siamo noi che guardiamo, che ci sentiamo quasi investiti da quella massa di informazioni visive che portano in superficie le conseguenze rovinose della carneficina di uomini su altri uomini? Se non partiamo da questa fondamentale domanda ogni immagine, per quanto puntuale e minuziosa nel testimoniare dell’orrore, rischia di semplificare, di reiterare, di creare «l’illusione del consenso». Un esempio: sino alla fine della guerra nei Balcani, le stesse fotografie di corpi straziati e di bambini uccisi dai bombardamenti venivano mostrate sia nelle conferenze di propaganda serbe che in quelle croate. Bastava modificare la didascalia e quelle morti potevano essere piegate a sostenere tesi opposte. Ecco il punto: liquidare la storia dietro le immagini significa renderle generiche e anonime. Significa svuotarle di senso, ridurle a retorica, illanguidirne la carica evocativa. Insomma, significa liquidare la politica nell’unica accezione in cui la politica può limitare e curare il dolore nostro e degli altri. Con parole diverse, dare un volto ai naufraghi.
Così facendo, si tenta l’impresa più ardua e, allo stesso tempo, più necessaria. Attribuire un nome e un cognome a quell’evento altrimenti impenetrabile e indecifrabile che cerchiamo di ricondurre — per poterlo avvicinare in qualche modo — a diversi appellativi: le stragi, i genocidi, gli stermini. Dopo l’esperienza della Seconda guerra mondiale, che ha scandito una parata inesauribile di tutti i crimini possibili, sembrava che i massacri potessero non ripetersi più. Sembrava che garantissero questo a quei milioni di persone che erano morte o che avevano visto morire i propri cari o che pativano sofferenze indicibili. E la Dichiarazione universale dei diritti umani, della quale si è ricordato il settantesimo anniversario il 10 dicembre scorso, nasce per promuovere quell’aspirazione. È un documento fondamentale della nostra epoca, dove si trova la più lungimirante teoria della persona — in quanto essere umano e solo perché essere umano — quale titolare di diritti universali, irrinunciabili ed esigibili. Ne consegue un’impostazione «individualista» della protezione dalla violenza, che sembra ritenere la pratica del genocidio quasi un reperto del passato. Ma le cose stanno davvero così? In un recente saggio (Tutti i nomi dello sterminio, «Il Regno» 16/2018) Marcello Flores rileva come la diffusione della violenza abbia assunto nel XX secolo — e oltre il XX secolo — forme sempre nuove e sempre terribili, mantenendo tuttavia una sua «semplicità». Un tratto, cioè, di ricorrente possibilità di reiterazione. Nel corso di questo lungo periodo storico, diversi sono stati i nomi attorno a cui si è cercato di riassumere e simbolizzare la ferocia manifestatasi durante le violenze di massa. E fu in una seduta del Tribunale di Norimberga che venne pronunciato il termine «genocidio»: una parola nuova coniata per denotare una pratica antica nel suo sviluppo moderno. Tuttavia, il reato di genocidio non rientrò formalmente nella sentenza emessa a Norimberga nel 1946, anche se esso vi era ampiamente descritto, sia sotto la fattispecie dei «crimini di guerra» sia sotto quella dei «crimini contro l’umanità».
Gli studi sui genocidi si sono interrogati a lungo sulle cause degli stermini di massa, cercando in quella denominazione i fattori qualificanti il fenomeno, partendo dall’identità (culturale, religiosa, etnica) delle vittime e, allo stesso tempo, dalla specificità di ciascuna delle manifestazioni di quel male («Grande male» è il termine che indica il genocidio degli armeni). Ma, nonostante i tentativi della storiografia di ricondurre fatti diversi a una sola definizione, la gran parte di questi eventi non è riassumibile in una categoria unica. Ed è anche per questo che molti di essi sono conosciuti con nomi propri e differenti, utili per renderli singolari e distinguibili anche nella memoria, come lo sono stati nella realtà storica, e tuttavia confrontabili. Nasce da qui quel dibattito sull’«unicità» della Shoah che non ha trovato finora una soluzione condivisa. Ciò che possiamo dire è che mai, innanzitutto nella coscienza delle vittime, unicità ha voluto dire irripetibilità. Come ricorda Liliana Segre, nell’introduzione alla Dichiarazione universale dei Diritti umani appena ripubblicata da Garzanti, la lezione di Primo Levi resta tanto limpida quanto inesorabile: «È accaduto, quindi può accadere di nuovo».
"L'invasione" è un'alluvione di idee. Fra barbarie e civilizzazione, Bosch e Bruegel, Basso Impero e Tarda Modernità, scrive Camillo Langone, Sabato 13/04/2019, su Il Giornale. L'invasione è sempre barbarica e questo automatismo è pressoché di tutti, me compreso. A pensarci, ad approfondire, nella storia ci sono state invasioni almeno in parte civilizzatrici: senza i conquistadores chissà per quanti altri secoli i sacerdoti aztechi avrebbero strappato ai prigionieri, finanche ai bambini, il cuore ancora pulsante per offrirlo al dio Huitzilopochtli in cima alle piramidi a gradoni...Ma l'equazione fra barbari e invasione resta inscalfibile, innanzitutto in ambito letterario e penso a una delle più belle poesie di Paul Verlaine, una delle più belle poesie tout court, «Languore»: «Sono l'Impero alla fine della decadenza/ che guarda passare i grandi Barbari bianchi...». Nasceva allora il gusto del tramonto che come un fiume carsico attraversò i secoli, le frontiere, le arti. In poesia si ripresentò spesso, il primo nome che mi viene in mente è l'anglo-italo-argentino Juan Rodolfo Wilcock. In musica un momento di riemersione fu rappresentato dai Velvet Underground, dunque Nico e Lou Reed, e poi dal Bowie berlinese, dai Joy Division con le statue del cimitero di Staglieno in copertina, infine da John Foxx autore dell'elegantemente disperata, non poco verlainiana, «Europe after the rain». Negli anni Zero, sembra ieri ma è già una vita fa, sul tema invasione ci si permise di sorridere. Daria Bignardi intitolò «Le invasioni barbariche» un programma televisivo molto compiaciuto e Alessandro Baricco andò prima in edicola (le edicole erano ancora importanti) e poi in libreria con «I barbari», un saggio che a leggerlo sembrava che non ci fosse problema, anzi, scemi noi a preoccuparci. Oggi su tali argomenti nessuno si azzarda a fare ironia, dell'invasione magari si nega l'esistenza ma nemmeno nei negatori la barbarie suscita più l'entusiasmo che suscitò in Baricco: «Ognuno di noi sta dove stanno tutti, dentro la corrente della mutazione, dove ciò che ci è noto lo chiamiamo civiltà, e quel che ancora non ha nome, barbarie. A differenza di altri penso che sia un luogo magnifico». Quando ho proposto a Sergio Padovani il titolo di questa mostra, «L'invasione», sapevo che le mie ossessioni avrebbero stimolato l'espressione artistica delle sue. Condividendo fra l'altro una certa darkitudine (all'inizio non ho citato i Joy Division per caso). Ma non sapevo che il risultato sarebbe stato così ambiguo e dunque stimolante: guardando in anteprima questa magnifica mostra non vedo dove finisce il Padovani bizantino e dove comincia il Padovani turco, dove l'invasore e dove l'invaso, dove l'attacco e dove la difesa, dove la resa e dove la muraglia. Vedo un'oscillazione figurativa che aiuta ad attivare il pensiero, come certe sedie norvegesi imponendo un'oscillazione posturale aiutano ad attivare i muscoli. E mi ritrovo da qualche parte fra Basso Impero, Alto Medioevo e Tarda Modernità, e ancora più avanti e ancora più indietro perché il tempo in Padovani è mobile, pieghevole, nella sua opera macchinari elettrici possono tranquillamente convivere con pterodattili estinti milioni di anni fa e a proposito di riapparizione di realtà scomparse ecco il «Ritratto equestre del grande invasore»: da quale profondità della storia riemerge un simile soggetto? Vedo danze macabre e zattere della Medusa, scorrerie in quattro secoli di pittura, e vedo le infiltrazioni di Bosch, Bruegel e Burgert, tutti nordici ossia un po' barbarici, e vedo gli incroci zoologici, fra animali e fra animali e uomini, mostri e meticci che compongono un bestiario fantastico (non manca il dragone) e poi moltissima acqua come nel «Primo re», il film in proto-latino sulle origini di Roma. In parecchi quadri i personaggi stanno con i piedi a mollo, o su imbarcazioni di aspetto precario, disperse fra paludi che aspettano (o hanno dimenticato) la bonifica. Non a caso, nel linguaggio figurato, alluvione è a volte sinonimo di invasione, di eccessiva, ingestibile quantità di persone o cose (un'alluvione di parole, un'alluvione di fotografie...). Al contrario l'arte di Padovani è qualitativa, densa, tanto da racchiudere in pochi metri di parete la lunga parabola di una civiltà, non del tutto conclusa visto che ancora riesce a produrre artisti capaci di ravvivarne i simboli. A colpi d'oro e di bitume, piegando l'invasione alla propria visione.
"Se un popolo scorda la cultura diventa vittima della politica". Il regista Sokurov alla Milanesiana: "L'Europa ha un'eredità da salvare. Anche dall'espansione etnica", scrive Eleonora Barbieri, Sabato 13/04/2019, su Il Giornale. «Potreste far venire un po' più caldo, la prossima volta qui a Milano, così torno più volentieri. Bisogna telefonare lassù». Aleksandr Sokurov fa il regista da quando aveva 18 anni. Nato in Siberia nel 1951, figlio di un militare, ha girato per tutta l'infanzia nei territori sterminati dell'Unione Sovietica. Era il 1979 quando ha iniziato a dirigere programmi alla televisione di Gorkij, la città dove si è laureato in Storia e filosofia; poi ha studiato cinema all'istituto Vgik di Mosca. Ha avuto come mentore Andrej Tarkovskij, che lo ha difeso dai censori e lo ha aiutato a trovare il suo primo lavoro. Da allora, i censori non si sono fermati ma nemmeno Sokurov, anche se, per anni, i suoi film sono stati proibiti in patria. Fra i suoi capolavori, Madre e figlio, la tetralogia sul potere (Moloch, Taurus, Il Sole e Faust, premiato con il Leone d'oro a Venezia nel 2011), il monumentale Arca russa, girato all'Hermitage; e poi i documentari, fra cui le Elegie e i Dialoghi con Solgenitsin.
L'arte e la cultura hanno ancora un ruolo oggi?
«Un ruolo imprescindibile. Cercate di immaginare l'Italia senza la parola arte, o la Russia senza le parole musica e letteratura. Ciò che ha fatto di noi quello che siamo è la civiltà. Lo scopo dell'esistenza della società è la salvaguardia della cultura».
Succede davvero?
«Ciascuno di noi, come individuo, può avere altri scopi; ma, una volta raccolti in società, abbiamo l'obbligo di preservare e salvare la cultura. Lo sviluppo dell'arte è lo scopo dell'esistenza dello Stato. Di tutti gli stati. Non realizzare gli scopi politici, bensì salvaguardare la cultura».
Gli Stati però non sembrano sempre salvaguardarla, alzi.
«Purtroppo sì, la realtà è questa. Là dove la cultura cade nell'oblio, la lotta politica infierisce».
Qual è il rapporto fra arte e potere oggi?
«Penso che i problemi della cultura siano gli stessi, in Europa e in Russia. A tutti noi mancano sostegni finanziari per la cultura».
La cultura è ancora in pericolo, anche nelle democrazie?
«Il pericolo più grande è nella popolazione, nei nostri connazionali. Moltissimi concittadini passano il tempo a leggere cose stupide, a guardare cinema commerciale, a trascorrere il tempo libero nei centri commerciali. Il popolo sta abbandonando la propria cultura, la sta rinnegando».
Vede ancora censura, oggi?
«Sì, penso che per i giornalisti sia più difficile lavorare, in Europa occidentale, perché molti temono di affrontare temi dolorosi, importanti. E questo per la teoria del politically correct, che ha portato un colpo mortale alla capacità analitica dei media».
E lei personalmente?
«Io non soffro per la censura o per la pressione, in Russia. Spesso affermo cose drastiche sulla politica in Russia, ma non c'è pressione sui miei film da parte dello Stato».
Meno male...
«Sì, però i miei film spesso non li fanno vedere. Quindi consideri lei se sia una forma di censura da parte dello Stato... Ci sono poi anche forme di censura religiosa, di cui risente lo sviluppo della cultura, e delle scienze umanistiche».
Di quali fedi o Paesi parla?
«In Russia è un dato di fatto. Ed è nota la pressione islamica nei confronti della libertà dell'arte e della cultura».
Lei è stato censurato per anni nel suo Paese. Perché?
«L'ideologia sovietica esistente divergeva dai miei principi estetici. Direi che non avevo idee politiche palesemente opposte o diverse: la differenza sostanziale con il sistema sovietico era etica ed estetica. Era una questione di principio. Spesso lo dimentichiamo».
Che cosa dimentichiamo?
«Oggi per noi i costrutti etico-estetici sono affrontati in tesi di dottorato, o ricerche, ma in realtà sono alla base della vita. Si può creare un'opera perfetta esteticamente, ma orripilante dal punto di vista etico. È ora che solleviamo la questione».
Ha detto che le persone hanno «paura della responsabilità» e che a molti «piace essere costretti» dal sistema...
«Il sistema di controllo non era solo riferito alla Russia. È il sistema che solleva l'individuo dalle responsabilità personali: e questo accade anche nei Paesi europei. Molti ancora rimpiangono la prevedibilità che caratterizzava il sistema comunista».
Tutto sembrava sicuro?
«Tutto poteva essere previsto in quel sistema, e spesso la gente cerca proprio la prevedibilità, perché ti fa sentire al sicuro dai cataclismi. È normale».
La cerchiamo ancora?
«Ne abbiamo sempre bisogno, ieri, adesso e domani. Tutti. Perché è una via retta e chiara, che non riserva svolte misteriose».
Ha incontrato Solgenitsin. Che persona era?
«Mi era vicino. Per me era importante poter parlare con lui e avere le risposte alle mie domande. Potevamo addirittura stare in silenzio, comprendendoci l'un l'altro. Una meraviglia».
Com'è stato conoscerlo?
«Lo definirei la bontà umana. E quando ero con lui mi chiedevo: se è una persona così aperta e comprensibile, perché la lingua delle sue opere è così complicata? Ha vissuto una vita difficile e affrontato prove dure, ma non si è mai incattivito».
Nel suo Nel centro dell'oceano (Bompiani) dice che la sua è stata «una lotta, contro me stesso e contro un avversario terrificante: lo Stato sovietico». Come si vince?
«Non saprei. Per prima cosa, il destino deve preservarti da una morte prematura. E tutto il resto dipende da quello che accade: se non perdi l'interesse per la vita e per le persone hai ancora una chance di vivere».
Il suo ultimo film Francofonia ha per sottotitolo Un'elegia per l'Europa. L'Europa è minacciata?
«Senza dubbio. L'Europa non riesce a difendere la propria eredità. L'Europa si è dimenticata le sue responsabilità verso la religione cristiana e la varietà delle sue culture. E soprattutto l'Europa si è dimenticata i propri errori catastrofici: perché gli orrori sono nati da qui, dal cuore dell'Europa».
Che cosa dovremmo fare?
«Dirò, per la centounesima volta, che l'Europa ha l'obbligo di salvaguardare la propria cultura nella sua diversità europea. E che questa deve essere difesa anche dalla espansione etnica».
Per questo il suo nuovo film parlerà della Seconda guerra mondiale?
«È piuttosto una riflessione sul perché sia accaduto, quale catena di errori abbia portato al fatto che centinaia di milioni di persone siano morte. Perché prima i politici sbagliano ma, poi, le persone muoiono. Parliamo già di Terza guerra mondiale, ma non abbiamo ancora seppellito i morti della Seconda. È un errore. È ottusità».
L’invocazione di Francesco: “Razzisti, convertitevi!” Il papa agli studenti: “La mafia non l’hanno mica inventata gli stranieri…”, scrive il 6 Aprile 2019 Il Dubbio. “Chi ha il cuore razzista si converta, ora è il momento dell’accoglienza e dell’integrazione”. Lo ha detto Papa Francesco incontrando docenti e studenti dell’istituto San Carlo di Milano. Rispondendo alle domande nel consueto botta e risposta, il papa ha infatti affrontato anche il tema dei migranti.
E a quanti guardano a loro come a delinquenti, il Papa ricorda: “Anche noi ne abbiamo tanti, la mafia non è stata inventata dai nigeriani, la mafia è nostra; tutti abbiamo la possibilità di essere delinquenti. I migranti ci portano ricchezza perchè l’Europa è stata fatta dai migranti”. Parlando di una società multietnica, Bergoglio osserva: Ringraziamo Dio perchè il dialogo tra persone, culture, etnie è la ricchezza. Non avere paura dei migranti. I migranti siamo noi. Gesù è stato migrante”. Il Pontefice mette in guardia gli studenti: “Oggi c’è la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare muri nel cuore, nella terra, per impedire questo incontro con altre culture. Chi alza un muro, finirà schiavo dentro i muri costruiti, senza orizzonti”.
VIDEO! “LA MAFIA? NON L’HANNO INVENTATA I NIGERIANI, E’ NATA IN ITALIA”. Lavinia Greci per il Giornale l'8 aprile 2019. Ha chiesto di "non avere paura dei migranti", aggiungendo: "I migranti siamo noi, Gesù è stato migrante". Lo ha detto papa Francesco, nel corso dell'udienza ai docenti e agli studenti dell'Istituto San Carlo di Milano, nell'Aula Paolo VI. E, nel suo discorso ai ragazzi, ha scelto di porre l'accento proprio sui concetti di accoglienza e integrazione. E ha detto: "Chi ha il cuore razzista si converta".
"Gli immigrati vanno ricevuti". Bergoglio, quindi, appellandosi all'accoglienza e ha dichiarato: "Cuore aperto per accogliere: se io ho il cuore razzista devo esaminare il perché e convertirmi. Gli immigrati vanno ricevuti, accompagnati e integrati in un interscambio di valori. Questa è la bellezza di accogliere per diventare più ricchi di cultura, nella crescita, alzare muri non serve. Io vi dico: insegnate ai giovani a crescere nella cultura dell'incontro e a crescere con le differenze, si cresce con il confronto".
"La mafia? Non l'hanno inventata i nigeriani". "Qualcuno può dire 'Ma sono delinquenti...'", ha continuato Bergoglio, "anche noi ne abbiamo tanti. La mafia non è stata inventata dai nigeriani. La mafia è un 'valore nazionale', è nostra, è italiana. Tutti abbiamo la possibilità di essere delinquenti. I migranti ci portano ricchezza perché l'Europa è stata fatta da migranti". E parlando anche di una società multietnica, Francesco ha osservato: "Ringraziamo Dio, perché il dialogo tra persone, culture ed etnie è la ricchezza". Ma è sul concetto di barriere e di muri che il Papa ha chiesto agli studenti di riflettere: "Oggi c'è la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare muri nel cuore, per impedire questo incontro con altre culture. Chi alza un muro finirà schiavo dentro i muri costruiti, senza orizzonti".
L’ignoranza di Papa Bergoglio. Vuol fare impropriamente il professore di sociologia e non sa far bene il Papa, scrive Carlo Franza il 12 aprile 2019 su Il Giornale. Beh, il vaso è colmo, come sento dire fra i cattolici. Sproloquiare, parlare a vanvera, senza cognizione di causa, forse in malafede. Papa Bergoglio se le attira tutte. Dimostra una vasta ignoranza nonostante sia gesuita e sia stato eletto Papa ( con il divieto dei suoi superiori gesuiti che non lo volevano vescovo) e dimostra di essere lontano mille miglia dalla cultura di Papa Benedetto XVI, non solo mio Papa, ma Santo per acclamazione popolare. Sabato 6 aprile papa Bergoglio ha ricevuto in udienza docenti e allievi del collegio San Carlo di Milano. Jorge Mario Bergoglio ha risposto a quattro domande, tra cui quella della professoressa Silvia Perucca su società multietnica e identità. Quella che segue è una trascrizione del video di Vatican News del 6 aprile 2019 -durata 2’07”. La risposta di Bergoglio a una domanda su società multietnica e identità… è assai curiosa e offensiva dei fatti e della storia d’Italia, tanto è vero che quanto riportato ufficialmente sul Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede non corrisponde in contenuti rilevanti a quanto documentato originariamente da "Vatican News". “Non avere paura. E qui tocco una piaga. Non avere paura dei migranti. “Ma, Padre, i migranti …” – I migranti, siamo noi! Gesù è stato un migrante. Non avere paura dei migranti. “Ma sono delinquenti!” – Anche noi, ne abbiamo tanti, eh: la mafia non è stata inventata dai nigeriani; è un … un valore ”nazionale”, eh? La mafia è nostra, made in Italia, eh: è nostra. Tutti siamo… abbiamo la possibilità di essere delinquenti. I migranti sono coloro che ci portano ricchezze, sempre. Anche l’Europa è stata fatta da migranti! I barbari, i celti, tutti questi che venivano dal Nord e hanno portato le culture, si è accresciuta così, con la contrapposizione delle culture. State attenti a questo, oggi: c’è la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti”. Parole difficili da gestire -queste del Papa argentino-, desolanti per il panorama di ignoranza, genericità e superficialità che svelano. Paiono chiacchiere più da bar che da Sala Clementina. Ha scritto Stilum Curiae: “Primo : parlare della mafia come di un “valore nazionale” italiano è una sciocchezza colossale. Chissà se Bergoglio ha mai sentito parlare della Mafia Cinese, della Mafia Irlandese, della Mafia Ebraica e delle Società Segrete della Costa occidentale dell’Africa, molte delle quali intrise di magia ed esoterismo, con rituali anche sanguinari, che hanno trasmesso la loro eredità alla Mafia (o alle Mafie, visto che ne esistono diversi tipi) nigeriana? Per non citarne che alcune. Ed essendo argentino, dovrebbe sapere che cosa è stato lo Zwi Migdal, l’organizzazione gestita da un gruppo di ebrei argentini che dai primi del ‘900 ha messo in piedi il più grande traffico di prostituzione dell’America Latina”. Non sa Papa Bergoglio che il termine “mafia” proviene, guarda un po’, dall’arabo; altri studiosi farebbero risalire la parola ancora più in là nel tempo e nello spazio, pensando a un’influenza dall’arabo “ma'yā'” (smargiasso) e dal corrispondente sostantivo “ma'ya'a”. Altrettanto convincente l’idea secondo cui la derivazione sarebbe, piuttosto, “mo’afiah”, che letteralmente designa un’azione o un comportamento arrogante”. Pensate che la mafia deriva proprio dai prediletti (dal Pontefice in carica) musulmani, di cui Papa Bergoglio difende l’immigrazione a gogò nel nostro Paese. Ignorare che la Mafia (come la Camorra, la ‘Ndrangheta e la Sacra Corona Unita ) abbia un’origine storica e sociale regionale e circoscritta ad alcune parti d’Italia è offensivo, oltre che per l’intelligenza, verso altre regioni e culture della penisola. Bergoglio parla così perché nota il crollo verticale degli affari della Chiesa e delle organizzazioni ad essa collegate dovuto al blocco del traffico di esseri umani verso le nostro coste, gli costa un po’ non solo a lui ma a tutta la consorteria che gli gira attorno ad iniziare dal Cardinale Bassetti & C. E comunque il riferimento alla Mafia da parte di Bergoglio che è stato eletto al Soglio di Pietro grazie al lavoro della “Mafia di San Gallo” (fonte ineccepibile: il card. Danneels) non pare di buon gusto. Dire che la mafia non è sta inventata dai nigeriani significa escludere la mafia nigeriana che ormai stringe l’Italia, e dire -parole di Bergoglio- che tutti siamo delinquenti, vuol dire che la Chiesa Cattolica è gestita oggi dalla delinquenza che fa di ogni erba un fascio. E ormai non c’è predica giornaliera di Bergoglio che non parli di migranti, e anche qui cala giù lo strafalcione che Gesù era un migrante. Nulla di più falso. Secondo la narrazione dei due vangeli di Matteo e di Luca, raccolta dalla successiva tradizione cristiana, il luogo di nascita è Betlemme di Giudea (Mt 2,1; Lc 2,4,7), mentre Nazaret di Galilea è il luogo dove ha trascorso l’infanzia e la giovinezza, guadagnandosi l’epiteto di Nazareno. Durante la sua vita pubblica invece la sua residenza più frequente era probabilmente a Cafarnao ( Mt 4,13 e passim). Gesù nacque a Betlemme in virtù del censimento indetto dall’Imperatore Augusto, al tempo di Quirinio (vedi Censimento di Quirinio). Il censimento di Quirinio fu disposto dal governatore romano Publio Sulpicio Quirinio nelle province di Siria e Giudea nel 6 d.C., quando i possedimenti di Erode Archelao passarono sotto diretta amministrazione romana. Nel Vangelo secondo Luca (2,1-2) viene nominato un “primo censimento” di Quirinio realizzato “su tutta la terra” dietro ordine dell’imperatore Augusto, in occasione del quale avvenne la nascita di Gesù a Betlemme al tempo di re Erode (morto probabilmente nel 4 a.C.). Ha parlato Bergoglio da ignorante già in passato. A Eugenio Scalfari dichiarò che “non esiste un Dio Cattolico”, e lo dice proprio lui che dovrebbe essere il Papa dei cattolici. Il 16 giugno 2016, aprendo il Convegno della Diocesi di Roma, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, se ne uscì affermando che Gesù, nell’ episodio dell’ adultera, “fa un po’ lo scemo”; poi aggiunse che Gesù – sempre nell’ episodio in cui salvò la donna dalla lapidazione – “ha mancato verso la morale” (testuale anche questo). Infine addirittura che Gesù non era uno “pulito”, e con questo non si sa che intendesse. E il mio pensiero è riandato a quel titolo “ Il diavolo in Piazza San Pietro” del vaticanista Aldo Maria Valli. Monsignor Antonio Livi a chi gli chiedeva se in tv e nella maggior parte dei media, per commemorare i cinque anni del pontificato di Francesco, non si sono sentite voci critiche o per lo meno non sono state interpellate… ha detto: “ Dimostra che l’ eresia è al potere . E abbiamo canonizzato anche l’ ignoranza”. Peggio di così era impossibile immaginare un papa! Volgare, ignorante nella Dottrina (non ha neanche conseguito il dottorato in teologia) e nella storia…non conosce nemmeno il latino (e neanche l’inglese). Non crede in un Dio cattolico (parole sue) e, secondo me, in nessun Dio, pugni a chi gli offende la mamma, calci ai corruttori (sempre parole sue), braccia ciondoloni, e pronto a schernire e staccare le mani giunte di un giovanissimo chierichetto. Vendicativo e sprezzante verso coloro (vescovi, sacerdoti, giornalisti) che osano criticarlo. Gesto ignobile quello di aver spedito il Cardinale Burke in un isolotto della Micronesia, non parliamo, poi, della persecuzione disgustosa nei confronti dei Francescani dell’Immacolata e del suo fondatore ultranovantenne Padre Manelli. Carlo Franza
Matteo Salvini, i vescovi si convertono sugli immigrati: ha ragione lui, occhio a questi titoli, scrive l'8 Aprile 2019 Andrea Morigi su Libero Quotidiano. Benvenuti nella realtà. «I corridoi umanitari funzionano», titola L'Osservatore Romano nell'edizione del 6 aprile. Avvenire contemporaneamente raddoppia, tessendo le lodi del «modello Italia» in pagina nazionale e in cronaca milanese. E cita doverosamente il vescovo della diocesi ambrosiana, monsignor Mario Delpini, il cui invito è a sviluppare una visione civile di più lungo periodo: «Oltre al soccorso immediato dei migranti dobbiamo chiederci che tipo di società vogliamo costruire con loro in Italia e in Europa». Intanto, facciamoli arrivare ordinatamente. Prima di loro, se n' era accorta la Caritas, attraverso un' ampia ricerca, "Oltre il mare", le cui conclusioni sono ovvie, ma niente affatto scontate: la via privilegiata per entrare nel territorio italiano è quella che evita le morti in mare e il ricorso ai trafficanti, garantendo un ingresso legale in Europa. È, per inciso, anche l' opzione preferita dal ministro dell' Interno Matteo Salvini: si chiudono i porti alle ong e nel frattempo si tengono aperte le porte a coloro che, avendo diritto alla protezione internazionale, hanno ottenuto un visto umanitario. In questo modo, dal 2017, grazie a un accordo firmato fra il governo, la Conferenza episcopale italiana e la Comunità di Sant' Egidio, hanno trovato posto in Italia 500 richiedenti asilo, tra i quali 106 famiglie e 200 bambini, selezionati nei campi profughi di Etiopia, Giordania, Turchia. Visto che l' esperimento ha avuto successo, è prossimo alla firma un nuovo Protocollo con il governo per accogliere altre 600 persone che, nei prossimi due anni, potranno raggiungere l' Italia in maniera sicura. Le garanzie valgono sia per gli stranieri sia per gli italiani, insomma. E in questo caso le critiche all' esecutivo lasciano il posto a una linea più conciliante.
STOP ALL'EMERGENZA. Se ci si mette d' accordo prima, si possono anche organizzare meglio le opere di misericordia, senza necessariamente farsi travolgere dall' emergenza. Agli ospiti giunti nel nostro Paese, attraverso la rete delle Caritas, delle parrocchie e dei privati, sono stati offerti vitto, alloggio, corsi di lingua, iscrizione scolastica dei minori, assistenza sanitaria e psicologica dove richiesto, assistenza legale e amministrativa, avviamento all' inserimento lavorativo. Per l' integrazione serve un metodo, non lo scaricabarile europeo. La soluzione che parte con la consultazione del livello locale, con un coordinamento nazionale, è la più efficace e guarda caso rispetta il principio di sussidiarietà. È quando Prefetture e Comuni tentano d' imporre dall' alto le loro decisioni alle comunità che si scatenano le cosiddette "rivolte xenofobe", come a Goro e Gorino Ferrarese nel 2016 o nella romana Torre Maura in questi giorni.
LE COLPE DEI VESCOVI. Mons. Delpini riconosce che sono i progetti concreti a ottenere risultati, di fronte ai quali si sente «un po' in colpa per la genericità dei nostri appelli, lanciati anche come Vescovi italiani». Se abbandonassero anche l' idea dello ius soli, all' autocritica mancherebbe soltanto Famiglia Cristiana, che l' estate scorsa aveva demonizzato Salvini con un «Vade retro» in copertina. Andrea Morigi.
· "Sbarchi? Un nuovo schiavismo". Quelle voci in dissenso nella Chiesa del Cardinale Robert Sarah.
Il Cardinale nigeriano Francis Arinze attacca Papa Bergoglio sull’immigrazione. Guerra aperta nel Gotha Vaticano. Il papa nero Arinze: “Basta con l’immigrazione”. Il Carlo Franza il 15 agosto 2019 su Il Giornale. Lo chiamano il Papa nero, e in questi giorni è sbottato sugli interventi a raffica di Papa Bergoglio e del suo codazzo curiale smaccatamente di sinistra che fanno politica tutti i giorni invece di predicare la diffusione del Vangelo, incoraggiando l’immigrazione clandestina. Il cardinale Francis Arinze, ottantaseienne, è uno dei cardinali dell’ordine dei Vescovi ed è tra gli attuali 6 titolari delle Chiese suburbircarie di Roma insieme a Angelo Sodano, Ostia – in quanto Decano del Collegio Cardinalizio – e Albano; Tarcisio Bertone, Frascati; Josè Saraiva Martins, Palestrina; Giovanni Battista Re – SottoDecano – Sabina-Poggio Mirteto e Francis Arinze, Velletri-Segni. Così chiare le parole del Papa Nero Cardinale Francis Arinze:“Gli europei devono smetterla di incoraggiare la partenza dei giovani africani. L’Africa ha bisogno di loro”. Parole sante che abbiamo letto in un’intervista pubblicata dal “Catholic Herald” la scorsa settimana, dove il cardinale nigeriano Francis Arinze (nella foto), in passato considerato uno dei principali candidati al papato, ha affermato che quando i paesi africani perdono i loro giovani a causa della migrazione, perdono coloro che possono costruire il proprio futuro.E ancora: “Il miglior modo in cui i paesi dell’Europa e dell’America possono aiutare l’Africa non è incoraggiando i giovani a venire in Europa facendogli pensare all’Europa come un paradiso – un luogo dove il denaro cresce sugli alberi – ma aiutando i paesi da dove vengono”, ha affermato il cardinale 86enne. “ È meglio che qualcuno rimanga nel proprio paese e lavori lì”, afferma, pur riconoscendo che ciò non è sempre possibile. Ha anche detto che i capi di governo nei paesi africani con alti tassi di emigrazione dovrebbero esaminare la loro coscienza per determinare perché così tante persone lasciano i loro paesi. “Ogni governo ha bisogno di determinare quante persone può ospitare”, ha detto il cardinale. “Non è teoria. È un dato di fatto “, ha detto Arinze. “Dov’è il futuro dei giovani africani: lavoro, vita familiare, cultura, religione? Bisogna pensare a tutto ciò. Accoglierli senza dar loro prospettive non è la soluzione”. “Quindi queste sono aspetti che dobbiamo prendere in considerazione quando menzioniamo la parola ‘migrante'”, afferma il papa nero Francis Arinze. All’intervento del cardinale Arinze si aggiunge la sacrosanta storia del profugo cantante che con il suo “Non emigrate” convince gli africani a non partire. Abdul Embalo, 27 anni, cantante del Gambia ha fatto il viaggio della speranza ma ha scelto di rimpatriare. Oggi scrive canzoni per disincentivare l’emigrazione. Lo ha fatto con l’aiuto dell’associazione Mani Tese di Torino. Intervistato dal Corriere della Sera ha detto: “Dobbiamo riflettere e capire che non è un nostro desiderio perdere la vita in un gioco, dobbiamo guardare alla nostra Africa. Ho avuto questa ambizione che mi ha portato a diventare immigrato clandestino… ma se avessi saputo non sarei mai partito. Mi chiedo se è davvero il mio destino scappare dalla polizia, cucinare nella stessa stanza in cui dormo, non avere una doccia e neppure la colazione. E quindi caro fratello, l’immigrazione clandestina non è la soluzione». Parole che vengono da un diretto interessato del popolo migrante, lo stesso popolo che viene invece incoraggiato da Papa Bergoglio e compagni a sbarcare nei porti d’Italia; il cantante del Gambia nelle sue canzoni, a ritmo di musica pop prova a convincere gli africani a restare in Africa perché, come dice lui, “l’immigrazione non è la soluzione”. Carlo Franza
“I MIGRANTI SONO I NUOVI SCHIAVI. È QUESTO CHE VUOLE LA CHIESA?”. Antonio Socci per "Libero" il 7 aprile 2019. A chi si è addormentato con le chiacchiere monotone e "politicamente corrette" delle élite clericali che lisciano il pelo ai salotti delle ideologie dominanti, il nuovo libro del card. Robert Sarah provocherà uno shock. È sulla linea del magistero di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo II non solo sui temi dottrinali, ma anche sulle questioni sociali del presente. Il cardinale africano giganteggia nella Chiesa attuale per la sua autorevolezza, la sua spiritualità, per il suo distacco dalle lotte curiali e per la sua coraggiosa voce di verità. Del resto già da giovane vescovo in Guinea entrò in urto col regime socialista, cioè «con Sekou Touré sempre più inferocito contro questo nuovo pastore indomito difensore della fede. Dopo la morte improvvisa del tiranno, nel 1984, scopriranno che Sarah era il primo sulla lista dei nemici» (Sandro Magister). Specialmente sul tema dell' emigrazione lui, africano proveniente da un villaggio poverissimo, è totalmente controcorrente rispetto al clericalismo di sinistra. Mette in guardia dalla «barbarie islamista» (come dalla barbarie materialista), appoggia i paesi di Visegrad che difendono le loro identità nazionali e boccia il Global Compact sulle migrazioni.
Ormai - dice - «ci sono molti paesi che vanno in questa direzione e ciò dovrebbe indurci a riflettere. Tutti i migranti che arrivano in Europa vengono stipati, senza lavoro, senza dignità È questo ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa. Se l' Occidente continua per questa via funesta esiste un grande rischio - a causa della denatalità - che esso scompaia, invaso dagli stranieri, come Roma fu invasa dai barbari. Parlo da africano. Il mio paese è in maggioranza musulmano. Credo di sapere di cosa parlo». Così, in un' intervista a Valeurs Actuelles, ha presentato il suo nuovo libro, appena uscito in Francia (in italiano arriverà a fine estate), che s' intitola Le soir approche et déjà le jour baisse, titolo che richiama il passo del Vangelo sui pellegrini di Emmaus. È un grido d' allarme sulla Chiesa, sull' Europa e sulla sua Africa che ritiene danneggiata dall' ondata migratoria: «C' è una grande illusione che consiste nel far credere alla gente che i confini saranno aboliti. Gli uomini si assumono rischi incredibili. Il prezzo da pagare è pesante. L' Occidente è presentato agli africani come il paradiso terrestre (). Ma come si può accettare che i paesi siano privati di così tanti loro figli? Come si svilupperanno queste nazioni se così tanti loro lavoratori sceglieranno l' esilio?» Il prelato si chiede quali sono le strane organizzazioni «che attraversano l' Africa per spingere i giovani a fuggire promettendo loro una vita migliore in Europa? Perché la morte, la schiavitù e lo sfruttamento sono così spesso il vero risultato dei viaggi dei miei fratelli africani verso un eldorado sognato? Sono disgustato da queste storie. Le filiere mafiose dei trafficanti devono essere sradicate con la massima fermezza. Ma curiosamente restano del tutto impunite». Non si può far nulla? Il prelato cita «il generale Gomart, ex capo dell' intelligence militare francese», il quale di recente ha spiegato: «Questa invasione dell' Europa da parte dei migranti è programmata, controllata e accettata. Niente del traffico migratorio nel Mediterraneo è ignorato dalle autorità francesi, militari e civili». Sarah si dice traumatizzato da quello che è accaduto negli anni scorsi: «La barbarie non può durare più. L' unica soluzione duratura è lo sviluppo economico in Africa. L' Europa non deve diventare la tomba dell' Africa». Perciò «si deve fare tutto affinché gli uomini possano rimanere nei paesi in cui sono nati».
Così il cardinale si schiera pure contro il Global Compact che invece è sostenuto da Bergoglio: «Questo testo ci promette migrazioni sicure, ordinate e regolari. Ho paura che produrrà esattamente il contrario. Perché i popoli degli Stati che hanno firmato il testo non sono stati consultati? Le élite globaliste hanno paura della risposta della democrazia ai flussi migratori?». Sarah ricorda che hanno rifiutato di firmare questo patto paesi come Stati Uniti, Italia, Australia, Polonia e molti altri. Poi il cardinale critica il Vaticano che lo appoggia: «Sono stupito che la Santa Sede non sia intervenuta per cambiare e completare questo testo, che mi sembra gravemente inadeguato». E boccia le élite europee: «Sembra che le tecnostrutture europee si rallegrino dei flussi migratori o li incoraggino. Esse non ragionano che in termini economici: hanno bisogno di lavoratori che possano essere pagati poco. Esse ignorano l' identità e la cultura di ogni popolo. Basta vedere il disprezzo che ostentano per il governo polacco».
Alla fine di questa strada - avverte Sarah - c' è solo l' autodistruzione. Secondo il cardinale si è approfittato della pur giusta lotta «contro tutte le forme di discriminazione» per imporre l' utopia della «scomparsa delle patrie». Ma questo «non è un progresso». Il multiculturalismo non va confuso con la carità universale: «La carità non è un rinnegamento di sé. Essa consiste nell' offrire all' altro ciò che di meglio si ha e quello che si è. Ora, ciò che di meglio l' Europa ha da offrire al mondo è la sua identità, la sua civiltà profondamente irrigata di cristianesimo». Invece, secondo il cardinale, l' attuale globalizzazione «porta a un' omologazione dell' umanità, mira a tagliare all' uomo le sue radici, la sua religione, la sua cultura, la storia, i costumi e gli antenati. Così diventa apolide, senza patria, senza terra. È a casa dappertutto e da nessuna parte». Perciò il prelato spezza una lancia a favore dei paesi cosiddetti sovranisti: «I paesi, come quelli del gruppo di Visegrad, che si rifiutano di perdersi in questa pazza corsa sono stigmatizzati, a volte persino insultati. La globalizzazione diventa una prescrizione medica obbligatoria. Il mondo-patria è un continuum liquido, uno spazio senza identità, una terra senza storia».
"Sbarchi? Un nuovo schiavismo". Quelle voci in dissenso nella Chiesa. Parla il cardinale Sarah: prelato africano, è proprio lui in un suo libro a criticare le posizioni del Vaticano sui migranti e le sue frasi iniziano ad avere un'eco importante dentro la Chiesa, scrive Mauro Indelicato, Domenica 07/04/2019, su Il Giornale. Voci dissonanti che, dalla profonda Africa, arrivano nelle stanze vaticane e mettono in discussione l’attuale linea della Chiesa Cattolica sull’immigrazione. Appare curioso che il primo a criticare la posizione di questi anni del Vaticano sui migranti sia proprio uno dei più autorevoli porporati africani: Robert Sarah. Fa discutere e non poco il libro uscito nei giorni scorsi, in cui il cardinale dichiara le proprie posizioni sull’immigrazione e su tanti altri temi dove la Chiesa, negli ultimi anni soprattutto, tiene posizioni controverse. Il testo, uscito in Francia, si intitola “Le soir approche et déjà le jour baisse”. Una volta presentato, le idee di Sarah iniziano ad infiammare i dibattiti interni al mondo cattolico e, in particolare, a dare linfa alla parte considerata più “conservatrice”. In realtà Sarah non è affatto un conservatore. Lui, guineano divenuto arcivescovo già a 34 anni con l’incarico di guidare la diocesi di Conacry quando ancora nel suo paese vi è il regime socialista di Sekou Touré, ne vede di tutti i colori. Risulta essere primo della lista tra i nemici di Touré, conosce molto bene il suo paese e la sua Africa, assiste popolazioni che vivono i flagelli di calamità e guerre di ogni tipo. Ma Sarah conosce molto bene anche la curia romana, visto che arriva in Vaticano su incarico di Giovanni Paolo II nel 2001. Il pontefice, in particolare, gli affida l’incarico di segretario della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli. Nominato cardinale da Benedetto XVI nel 2010, attualmente è prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Ma il suo libro tratta, in generale, di tanti argomenti e lui stesso lo definisce come un grido d’allarme della Chiesa per i tempi attuali. E a giudicare dalle sue parole nel libro come nelle interviste di presentazione, appare anche un grido rivolto all’interno della Chiesa. Soprattutto, è il tema delle migrazioni ad essere il più controverso: “Tutti i migranti che arrivano in Europa vengono stipati, senza lavoro, senza dignità – afferma Sarah - È questo ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa”. Parole e frasi in totale contrasto con la linea del Vaticano e della Cei in Italia. Parole che alimentano dunque intensi ed ampi dibattiti. Anche perché, Sarah si spinge anche oltre: “C’è un grande rischio che corre l’occidente, ossia che esso scompaia, invaso dagli stranieri, come Roma fu invasa dai barbari. Parlo da africano. Il mio paese è in maggioranza musulmano. Credo di sapere di cosa parlo”. Sotto il profilo politico, il divario più netto con il Vaticano si ha sul Global Compact, ossia il documento con il quale l’Onu intende regolare i flussi migratori: su questo testo, Papa Francesco è d’accordo mentre Sarah lo reputa profondamente ingiusto. “Questo testo ci promette migrazioni sicure, ordinate e regolari – dichiara Sarah – Ho paura che produrrà esattamente il contrario. Perché i popoli degli Stati che hanno firmato il testo non sono stati consultati? Le élite globaliste hanno paura della risposta della democrazia ai flussi migratori”. Da qui, l’affondo diretto alla posizione del Vaticano: “Come mai la Chiesa non si oppone a questo testo?”. In un’intervista in Francia, partendo da questi presupposto, il cardinale africano dichiara politicamente di appoggiare i paesi del cosiddetto “blocco di Visegrad”: “Fanno bene questi paesi a voler mantenere la propria identità – afferma Sarah – La globalizzazione diventa una prescrizione medica obbligatoria. Il mondo-patria è un continuum liquido, uno spazio senza identità, una terra senza storia”. Il cardinale fa discutere perché, soprattutto, quelle sue non sono solo posizioni personali, piuttosto sembrano il grido della Chiesa africana rispetto ad un Vaticano che pare lontano dai temi più sentiti dal continente nero. Eppure è proprio qui che la Chiesa cresce ed i fedeli aumentano, è qui dunque che dalla Chiesa ci si aspetta molto. E le parole di Sarah confermano una distanza che, nelle sale vaticane, in tanti iniziano a vedere con sospetto.
I migranti nel cuore del Papa e del cardinal Sarah, scrive Giovanni Marcotullio l'1 Aprile 2019 su it.aleteia.org. Quasi a porre un contraltare al magistero magrebino del Santo Padre, in questi giorni la stampa internazionale (oggi il Figaro) rilancia le pagine più critiche contro le migrazioni che si trovano nel nuovo libro del cardinal Sarah. Si tratta effettivamente di due posizioni distinte e parzialmente distanti: non possono tuttavia dirsi contrapposte, perché entrambi gli ecclesiastici concordano sulla diagnosi complessiva del fenomeno e perfino alcuni spunti operativi sono coincidenti. Approfondire per capire. Mentre sabato pomeriggio il Santo Padre ha voluto scrivere una pagina importante del proprio magistero, durante l’incontro coi migranti nella sede della Caritas diocesana di Rabat, vengono divulgate alcune parole del cardinal Robert Sarah, pronunciate in diverse interviste, che sembrerebbero contraddire la linea del Romano Pontefice e della Santa Sede nel trattamento dei flussi migratori internazionali (e tali sono nella massima parte dei casi le linee editoriali dei fogli che ospitano e rilanciano quelle dichiarazioni).
Qualche mese fa si è svolta, qui in Marocco, la Conferenza Intergovernativa di Marrakech che ha ratificato l’adozione del Patto mondiale per una migrazione sicura, ordinata e regolare. «Il Patto sulle migrazioni costituisce un importante passo avanti per la comunità internazionale che, nell’ambito delle Nazioni Unite, affronta per la prima volta a livello multilaterale il tema in un documento di rilievo» (Discorso ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 7 gennaio 2019). Questo Patto permette di riconoscere e di prendere coscienza che «non si tratta solo di migranti» (cfr Tema della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2019), come se le loro vite fossero una realtà estranea o marginale, che non abbia nulla a che fare col resto della società. Come se la loro qualità di persone con diritti restasse “sospesa” a causa della loro situazione attuale; «effettivamente un migrante non è più umano o meno umano in funzione della sua ubicazione da una parte o dall’altra di una frontiera».
Quando sono andato in Polonia [nell’ottobre del 2017, N.d.R.], paese che ho sovente criticato, ho incoraggiato i fedeli ad affermare la loro identità così come hanno fatto per secoli. Il mio messaggio è stato semplice: voi siete anzitutto polacchi, cattolici, e solo successivamente europei. Voi non dovete sacrificare queste due prime identità sull’altare dell’Europa tecnocratica e senza patria. La Commissione di Bruxelles non pensa che alla costruzione di un libero mercato al servizio delle grandi potenze finanziarie. L’Unione europea non protegge più i popoli, protegge le banche. Ho voluto dire di nuovo alla Polonia la sua missione singolare nel piano di Dio. Essa è libera di dire all’Europa che ciascuno è stato creato da Dio per essere messo in un ben preciso posto, con la sua cultura, le sue tradizioni e la sua storia. Questa volontà attuale di globalizzare il mondo sopprimendo le nazioni, le specificità, è pura follia. Il popolo giudeo ha dovuto vivere l’esilio, ma Dio l’ha ricondotto nel suo paese. Cristo ha dovuto fuggire Erode in Egitto, ma alla morte di Erode è tornato nel suo paese. Ciascuno deve vivere nel suo paese. Come un albero, ciascuno ha il suo suolo, il suo ambiente in cui può crescere perfettamente. Meglio aiutare le persone a realizzarsi nelle loro culture piuttosto che incoraggiarle a venire in un’Europa in piena decadenza. È una falsa esegesi quella che utilizza la Parola di Dio per valorizzare la migrazione. Dio non ha mai voluto questi strappi. Le dichiarazioni del cardinal Sarah sembrano andare in senso opposto, e ciò tanto con riferimento particolare al Global Compact quanto con più generale critica dell’immigrazionismo globalità. Io stesso, che del Cardinale ammiro la radicalità e l’austerità, ho tradotto un paio di giorni fa una di queste interviste(rilasciata a Laurent Dandrieu per Valeurs Actuelles), della quale anzi è utile riportare qui il passaggio relativo alle migrazioni:[…]
I leader politici che parlano come me sono minoritari, al giorno d’oggi? Non lo penso. Esistono molti paesi che vanno in questa direzione, e questo dovrebbe condurci a riflettere. Tutti i migranti che arrivano in Europa vengono stipati, senza lavoro, senza dignità… È questo ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa. Se l’Occidente continua per questa via funesta esiste un grande rischio – a causa della denatalità – che esso scompaia, invasa dagli stranieri, come Roma fu invasa dai barbari. Parlo da africano. Il mio paese è in maggioranza musulmano. Credo di sapere di cosa parlo. In questo passaggio di Sarah convergono alcune importanti direttrici del pensiero politico-teologico del porporato: esplicitamente menzionata la similitudine con la crisi dell’impero romano; la tecnocrazia dell’Europa delle banche e l’immigrazione pianificata su tavoli opachi sono le due forze eversive che Sua Eminenza descrive in atto (altrove, richiamandosi alla similitudine con la decadenza tardo-antica, le chiama rispettivamente “barbarie materialistica” e “barbarie islamista”). Ci torneremo.
Un’anomalia metodologica in Sarah. Quel che colpisce invece in questi due paragrafi è che si dà una vistosa differenza metodologica nelle risposte, rispetto a quelle agli altri quesiti di Dandrieu: mentre infatti Sarah è solito rispondere richiamandosi sempre cristallinamente alle Scritture, alla Tradizione della Chiesa, al Magistero (specialmente pontificio) – e lo fa tanto vigorosamente da relativizzare senza mezzi termini le posizioni difformi di preti, vescovi e Conferenze episcopali – su questo punto il richiamo al depositum fidei si fa secondario e perfino arrancante. Sua Eminenza vuole affermare che «è una falsa esegesi quella che utilizza la Parola di Dio per valorizzare la migrazione»? Un’affermazione forte, ma da tanto prelato il lettore si aspetta un argomento competente, specie per affermare che «ciascuno deve vivere nel suo paese – come un albero, ciascuno ha il suo suolo, il suo ambiente, in cui crescere perfettamente». E accanto a questa ulteriore similitudine – debole invero, dacché gli alberi vengono trapiantati ed esportati, entro certi limiti – nessun vero argomento teologico. In realtà sarei rimasto più meravigliato se ne avessi trovati: tutta la storia della salvezza, da Abramo agli Apostoli, da Mosè a Zorobabele, è una narrazione di peregrinazione e migrazione su lunghe distanze, attraverso culture estranee quando non ostili. I missionari che hanno animato le grandi pagine di evangelizzazione della Chiesa (pagine magnificate dallo stesso Sarah nella medesima intervista!) contravvengono un tanto ingiustificato assioma: egli stesso, Robert Sarah, nato in Guinea e che ha trascorso gran parte della vita girando il mondo come servizio alla Chiesa universale, contravviene quell’assioma. Tutti i numerosi esempi che nel 1952 Pio XII riassunse nella Costituzione Apostolica Exsul Familia contravvengono l’assioma. Il cardinal Sarah si riduce allora a osservare «quanti leader politici» pensano le stesse cose, e non si può non cogliere del paradosso nel vedere che il principio della concordantia auctoritatum, rigettato per vescovi e Conferenze episcopali, sembra valere per i politici! Perché non esiste un fondamento teologico a una simile affermazione. È invece vero il contrario: «Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti» (Mt 13,33). La vitalità del cristianesimo non si pone l’essere minoranza come un problema, anzi – proprio come fa la pasta madre – si ravviva quando viene nuovamente trapiantata e posta in un contesto “non lievitato”. Coincidenza, lo diceva proprio ieri mattina Papa Francesco, mentre nella cattedrale di Rabat incontrava i sacerdoti, i religiosi, i consacrati e il Consiglio ecumenico delle Chiese: (...)
Penso che la preoccupazione sorge quando noi cristiani siamo assillati dal pensiero di poter essere significativi solo se siamo la massa e se occupiamo tutti gli spazi. Voi sapete bene che la vita si gioca con la capacità che abbiamo di “lievitare” lì dove ci troviamo e con chi ci troviamo. Anche se questo può non portare apparentemente benefici tangibili o immediati (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 210). Perché essere cristiano non è aderire a una dottrina, né a un tempio, né a un gruppo etnico. Essere cristiano è un incontro, un incontro con Gesù Cristo. Siamo cristiani perché siamo stati amati e incontrati e non frutti di proselitismo. Essere cristiani è sapersi perdonati, sapersi invitati ad agire nello stesso modo in cui Dio ha agito con noi, dato che “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Naturalmente quella sola affermazione di Sarah è quella che detta i titoli dei giornali, alcuni dei quali hanno interessi politici a rappresentare il cardinale guineano come campione dell’ostilità alle migrazioni (e di sponda come antagonista del Romano Pontefice). Nello stesso passaggio sopra citato sono presenti altre osservazioni, inerenti alla dignità dei migranti, al bieco cinismo dei traffici d’uomini, al triste destino che spesso in Europa attende molti migranti, fra cui non pochi connazionali del Cardinale.
Il cardinale Robert Sarah avverte: “Basta immigrazione, si rischia invasione dei barbari”. Il cardinale Robert Sarah avverte l'Occidente sul rischio sparizione: la Chiesa non dovrebbe assecondare le migrazioni di massa, scrive Mattia Pirola il 4 Aprile 2019 su Ci siamo. Il cardinale Robert Sarah, non si è mai discostato da papa Francesco. Non fa parte dei sottoscrittori dei dubia su Amoris Laetitia. E non ha mai criticato Jorge Mario Bergoglio per quella che altri chiamano “confusione dottrinale”. Eppure si è lasciato andare sulla questione migranti, andando contro a quella che di fatto è la linea del pontefice. Come riporta il Giornale, nel terzo libro di Sarah, il cardinale si è interessato alla “decadenza del nostro tempo”, considerata da lui stesso alla stregua del “mortale”. Il libro non potrebbe avere un titolo più adatto: “Si avvicina la sera e il giorno è ormai al termine”. Appare quasi come un monito, l’ennesimo, sul tramonto della civiltà occidentale. Ci sono dei passaggi in particolare che stanno facendo discutere. In questi passaggi l’alto ecclesiastico attacca quei “pastori” che hanno “paura di parlare con tutta la verità e la chiarezza”. Il cardinale pare dell’opinione che il decadimento dell’occidente non dipenda dalla Chiesa. I cattolici hanno, però, il dovere di far fronte a un grande rischio: quello della scomparsa dell’Occidente così come lo conosciamo. Intanto alcuni media stanno rilanciando un’intervista, che il prefetto ha rilasciato a Valeurs Actuelles.
Posizioni critiche sul fenomeno migranti. In questa intervista emergevano posizioni molto critiche sull’attuale gestione dei fenomeni migratori. Sarah riflette in questi termini di coloro che ricercano sulle nostre coste quello che Stephen Hawking chiamava “Il nirvana di Instagram”. “Tutti i migranti che arrivano in Europa – ha detto – vengono stipati, senza lavoro, senza dignità… È questo ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa”. E non è finita qui. L’Europa, lascia intendere, sta vivendo una situazione simile a quella che ha posto fine alla civiltà romana, avvenuta pure per via dell’ “invasione dei barbari”. “Il mio paese è in maggioranza musulmano – ha aggiunto – . Credo di sapere di cosa parlo“. Ma il cardinale Sarah va oltre. Lancia anche una freccia alle Ong. “Le strane organizzazioni umanitarie, vangano e rivangano l’Africa“. Queste organizzazioni, secondo il prelato, suggeriscono ai giovani africani la possibilità che dietro un viaggio si nasconda una svolta economica.
Sarah sulle migrazioni di massa: "Occidente rischia di sparire". Il cardinale Robert Sarah, all'interno di un'intervista, avverte l'Occidente sul rischio sparizione: la Chiesa non dovrebbe assecondare le migrazioni di massa. Il rischio? Finire come Roma invasa dai barbari, scrive Francesco Boezi, Mercoledì 03/04/2019, su Il Giornale. Il cardinal Robert Sarah, pur essendo considerato il "leader" spirituale dei conservatori, non si è mai discostato da papa Francesco. Non fa parte dei sottoscrittori dei dubia su Amoris Laetitia e non ha mai criticato Jorge Mario Bergoglio per quella che altri chiamano "confusione dottrinale". In questi tempi polarizzanti, però, la disamina del primo sul tema della gestione dei fenomeni migratori sembra allontanarsi dalla visione del Santo Padre. L'accoglienza dei migranti, nella pastorale del pontefice argentino, ha assunto i tratti di un mantra, di un diritto assoluto estendibile erga omnes, di un punto programmatico prioritario non soggetto a dialettica. Le ultime fatiche del porporato africano dicono altro. Nel suo terzo libro - interviste, che il prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha scritto insieme al giornalista francese Nicolas Diat, il cardinalesi è interessato soprattutto alla "decadenza del nostro tempo" , che Robert Sarah considera alla stregua di un"peccato mortale". "Si avvicina la sera e il giorno è ormai al termine" - questo è il titolo del libro in questione - appare soprattutto come un monito, l'ennesimo, sul tramonto della civiltà occidentale. Ci sono dei passaggi accorati, come abbiamo avuto modo di sottolineare, in cui l'alto ecclesiastico attacca quei "pastori" che hanno "paura di parlare con tutta la verità e la chiarezza". Robert Sarah sembra pensare, in sintesi, che il decadimento occidentale non dipenda dalla Chiesa cattolica, ma che i cattolici abbiano il dovere di far fronte a un rischio preciso: la scomparsa del Vecchio Continente nel baratro del nichilismo. Bisogna stare attenti a non presentare il porporato africano come un critico del pontefice argentino. Semplicemente perché non lo è. Alcuni media stanno rilanciando un'intervista, che il prefetto ha rilasciato a Valeurs Actuelles: ecco, all'interno di quei virgolettati, come si apprende su Aleteia, emergono posizioni molto critiche sull'attuale gestione dei fenomeni migratori. Punti di vista che difficilmente possono essere integrati con la narrativa sull'accoglienza a tutti i costi. Quella promossa dalla Santa Sede. Robert Sarah, per esempio, riflette in questi termini di coloro che ricercano sulle nostre coste quello che Stephen Hawking chiamava "Il nirvana di Instagram": Tutti i migranti che arrivano in Europa - ha puntualizzato - vengono stipati, senza lavoro, senza dignità… È questo ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa". Ma questa è solo la premessa. Sì, perché per il consacrato, l'Europa vive una situazione tanto emergenziale da rendere possibile un paragone con la fine della civiltà romana, avvenuta pure per via dell' "invasione dei barbari". E sul dialogo religioso con il mondo musulmano? "Il mio paese è in maggioranza musulmano - si è limitato ad asserire - . Credo di sapere di cosa parlo". Non è finita qui.
Il punto più rilevante della riflessione dell'uomo che ancora oggi ricopre uno dei più alti incarichi in Vaticano è quello in cui si accenna alle "strane organizzazioni umanitarie", che "vangano e rivangano l'Africa". Le stesse che, stando alla visione di Robert Sarah, suggeriscono ai giovani africani la possibilità che dietro un viaggio si nasconda una svolta economico - esistenziale. Sembra proprio di poter interpretare questo passaggio come una critica a certe Organizzazioni non governative. Il pensiero di Sarah è forte perché credibile: essendo africano, parla con cognizione di causa. Chi, più di lui, può dire di avere a cuore il destino dei migranti?
Il Cardinale Robert Sarah: “Fermate l’immigrazione o per voi sarà la fine”, scrive Maurizio Blondet il 4 Aprile 2019. Robert Sarah, cardinale e arcivescovo cattolico nato in Guinea, è tornato sulla questione immigrazione nel suo terzo libro di interviste. Il suo pensiero si distacca notevolmente da quello di Papa Francesco. “Bisogna fare di tutto perché gli uomini possano restare nel Paese nel quale sono nati”. Questo il contenuto di un tweet di Robert Sarah, cardinale e arcivescovo cattolico nato in Guinea. Un messaggio che suona come una risposta alle parole di Papa Bergoglio che proprio in questi giorni – di ritorno da Rabat dove ha incontrato esponenti del mondo islamico – ha lanciato un nuovo invito ad accogliere i migranti e a non costruire i muri. “Il Vaticano non può prenderli tutti, ma c’è l’Europa“, ha ribadito il Vescovo di Roma. Ma la linea del Pontefice al riguardo è sempre stata chiara e netta, tanto da scagliarsi contro le misure in materia immigrazione volute dal Vicepremier Matteo Salvini. L’appello di Robert Sarah, invece, vuole affermare esattamente il contrario e suona come un chiaro messaggio a bloccare l’immigrazione. Nel suo terzo libro di interviste – “Le soir approche et déjà le jour baisse” – il cardinale della Guinea prospetta un disastroso collasso dell’Occidente, conseguente ad una crisi culturale ed identitaria dovuta ai processi migratori. Un fenomeno incontrollato che porta l’Europa ad autodistruggersi: uno scenario apocalittico che si intravede già nel titolo che, se tradotto: “La sera arriva e già il giorno volge”. “L’Europa vuole essere aperta a tutte le culture e tutte le religioni del mondo, promette una migrazione sicura, ordinata e giusta”, sostiene nel libro, l’autore, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Eppure, il risultato è rovesciato e quello che si produce è il contrario: timori, squilibrio, situazioni incontrollate. Una visione che contrasta con quella di Papa Francesco ma che potrebbe trovare seguaci in in quanti piangono l’assenza di Ratzinger, che si espresse sulla necessità di riconoscere un diritto, prima che all’emigrazione, a restare nel proprio luogo di nascita. Il Papa deve aver accolto di cattivo grado le idee di Robert Sarah, già diffuse in svariate occasioni. In rapporti tra i due sono tesi fin da quando il primo gli inviò una sfiducia pubblica, che potrebbe portare ad un mancato rinnovo del mandato quinquennale. La decisione è recente ma i fatti risalgono allo scorso settembre quando il Papa aveva promulgato il motu proprio Magnum Principium, che affidava alle Conferenze Episcopali nazionali tutti i poteri circa la traduzione dei testi liturgici. Sarah, qualche settimana più tardi, aveva inviato a Bergoglio un suo parere sulla questione, sostenendo che non cambiava granché e che la Congregazione per il Culto Divino da lui presieduta avrebbe avuto ugualmente voce in capitolo. Con la sfiducia, in sostanza, Bergoglio ha richiesto di fare mea culpa pubblico su questioni che attengono al culto e, soprattutto, per averlo contraddetto. Ma le scuse non sono mai arrivate. “Nel prossimo futuro, sappiamo che ci sarà uno squilibrio in Europa di una rara pericolosa situazione demografica, culturale e religiosa”, si legge nel libro. La Chiesa farà appello all’idea di carità universale secondo la quale aiutare gli altri incondizionatamente è un dovere morale. “L’impresa multiculturale europea sfrutta un ideale incompreso di carità universale”: ma la carità, sostiene Sarah, non vuol dire negare se stessi, anzi offrire agli altri ciò che è meglio. E non sempre accogliere può essere la soluzione migliore. “Perché la morte, la schiavitù e lo sfruttamento sono così spesso il vero risultato dei viaggi dei miei fratelli africani verso un eldorado sognato?”, si chiede non a caso l’africano. E, non a caso, secondo le stime, la riduzione degli sbarchi salva più vite umane. Il sacerdote fa notare come l’Occidente, per gli africani, sia un paradiso terrestre. Ma né fame, né violenza, né guerra possono far correre il rischio di mettere a repentaglio la vita, tentando la sorte in mare. “Ma come si svilupperanno queste nazioni se così tanti lavoratori sceglieranno l’esilio? Quali sono queste strane organizzazioni umanitarie che attraversano l’Africa per spingere i giovani a fuggire promettendo loro una vita migliore in Europa?”, si chiede Sarah. E ha ragione. Le domande e le considerazioni sono legittime, mentre sbagliata è l’idea che abolire i confini sia cosa giusta e saggia, così come abolire la natura sia cosa moderna e innovativa. Nel caso del pericolo dell’Islamismo radicale, dice ancora il Cardinale, bisognerebbe stabilire con fermezza le condizioni entro le quali condividere il mondo con gli altri, se gli altri mettono in pericolo vita e civiltà. Tirando le somme, l’obiettivo deve essere fare in modo che le persone possano restare nel paese in cui sono nati, in quanto “lo sradicamento culturale e religioso degli africani proiettato nei paesi occidentali che stanno vivendo una crisi senza precedenti è un terreno fertile”. L’unica soluzione duratura, per il sacerdote, è lo sviluppo economico in Africa.
Com’è che il cardinal Sarah è diventato l’uomo più pericoloso della cristianità, scrive Matthew Schmitz il 28 giugno 2017 su Tempi. Perché l’idea che il porporato guineano possa diventare “il primo papa nero” è il peggior incubo di tutti i cattolici liberal. Eppure non è stato sempre così. Per gentile concessione del Catholic Herald, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di Matthew Schmitz apparso nel numero del 23 giugno del magazine cattolico londinese. Il testo originale in inglese è pubblicato in questa pagina. Una folla sempre più numerosa vuole la testa del cardinale Robert Sarah su un piatto. Aprite un qualunque periodico cattolico liberal e probabilmente vi troverete un appello al licenziamento del cardinale guineano che in Vaticano guida la Congregazione per il Culto divino: «È giunto il tempo per [papa Francesco] di sostituire il cardinal Sarah» (Maureen Fiedler, National Catholic Reporter); «Potrebbe esserci bisogno di vino nuovo alla Congregazione per il Culto divino» (Christopher Lamb, The Tablet); «I rappresentanti della Curia che si rifiutano di adeguarsi al programma di Francesco dovrebbero dimettersi. O il Papa dovrebbe mandarli da qualche altra parte» (Robert Mickens, Commonweal); «Papa Francesco deve puntare i piedi. I cardinali come Robert Sarah… possono credere che con un pontificato che va nella direzione sbagliata, sia un dovere resistere. Ma questo non significa che Francesco debba arrendersi a loro» (The Tablet).
Sarah non è sempre stato trattato come l’uomo più pericoloso della cristianità. Quando fu scelto per l’incarico da papa Francesco nel 2014, beneficiò della benevolenza anche di quelli che oggi lo criticano. Mickens lo descrisse come «poco ambizioso, un buon ascoltatore e, nonostante abbia mostrato chiaramente un lato conservatore da quando è arrivato a Roma… un “uomo del Vaticano II”». Le fonti di Lamb gli riferirono che Sarah sarebbe piaciuto ai liberal, il tipo di vescovo che guarda simpateticamente alla “inculturazione”. John Allen sintetizzò così il consenso intorno al Vaticano: Sarah è un vescovo di basso profilo, «caloroso, simpatico e modesto». Tutto questo mutò il 6 di ottobre del 2015, il terzo giorno del controverso Sinodo sulla famiglia. I padri sinodali erano divisi da due richieste apparentemente contrastanti, quella di avvicinarsi alle persone che si sentono stigmatizzate dall’insegnamento della Chiesa riguardo al sesso e quella di proclamare coraggiosamente la verità a un mondo ostile. In quello che divenne noto come il discorso delle “bestie dell’apocalisse”, Sarah insistette che entrambe le cose sono possibili. «Non combattiamo contro creature di carne e sangue», disse ai suoi fratelli vescovi. «Dobbiamo essere inclusivi e accoglienti verso tutto ciò che è umano». Ma la Chiesa deve continuare a proclamare la verità di fronte a due grandi sfide. «Da una parte, l’idolatria della libertà occidentale; dall’altra il fondamentalismo islamico: secolarismo ateo contro fanatismo religioso». Da giovane prete Sarah aveva studiato alla École Biblique di Gerusalemme e progettato una dissertazione su “Isaia, capitoli 9-11, alla luce della linguistica semitica nordoccidentale: ugaritico, fenicio e punico”. Perciò non sorprende che [al Sinodo] impiegò il linguaggio biblico per spiegarsi. La libertà occidentale e il fondamentalismo islamico, disse all’assemblea, sono come le due «bestie dell’apocalisse». L’immagine viene dal Libro della Rivelazione, che parla di due bestie che attaccheranno la Chiesa. La prima emergerà dal mare con sette teste, dieci corna e blasfemia sulle labbra. La seconda sorgerà dalla terra facendo grandi prodigi e convincerà il mondo ad adorare la prima. Questa strana dinamica – una minaccia mostruosa che porta gli uomini ad abbracciarne un’altra – è quella che Sarah vede all’opera nella nostra epoca. La paura della repressione religiosa induce alcuni a venerare una libertà idolatrica. (Mi ricordo la volta che fui l’unico a rimanere seduto mentre Ayaan Hirsi Ali terminava un suo discorso chiedendo alla platea di fare un’ovazione «alla blasfemia!»). D’altra parte, gli attacchi alla natura umana spingono altri ad abbracciare la falsa sicurezza del fondamentalismo religioso, che ha la sua espressione più terribile sotto l’insegna nera dell’Isis. Ciascun male tenta coloro che lo temono a soccombere al suo opposto. Così come con il comunismo e il nazismo nel XX secolo, bisogna resistere a entrambi.
L’arcivescovo Stanisław Gądecki, capo della Conferenza episcopale polacca, scrisse che l’intervento di Sarah aveva un «livello teologico e intellettuale molto alto», ma sembra che altri non ne abbiano inteso il significato. L’arcivescovo di Brisbane, Mark Coleridge, deprecò l’uso del «linguaggio apocalittico». (Viene da chiedersi che cosa pensi del resto della Rivelazione di Giovanni). «Ai giovani non piace che gli si ricordi il giudizio», ironizzò un cardinale dopo il discorso di Sarah. Un importante osservatore di cose vaticane mi scrisse da Roma: «[Sarah] è intervenuto oggi parlando delle due bestie dell’Apocalisse. Il suo potenziale papabile ha subìto un brutto colpo». Il padre gesuita James Martin dichiarò che Sarah aveva violato il Catechismo, «che ci chiede di trattare le persone LGBT con “rispetto, compassione, delicatezza”». A volte viene da chiedersi se, per i cattolici come padre Martin, esistano parole con cui l’insegnamento della Chiesa a riguardo del sesso possa essere difeso – dal momento che loro non le utilizzano mai. Comunque, la reazione al discorso di Sarah probabilmente aveva a che fare più con il semplice analfabetismo che con una qualche differenza di principio. Il cardinale di Durban, Wilfred Napier, alla vigilia del Sinodo disse che gli europei soffrono di una «diffusa ignoranza e rifiuto non solo dell’insegnamento della Chiesa ma anche della Scrittura». Aveva ragione. Coloro che non vivono nella Scrittura e non conoscono personalmente le sue immagini sono più propensi a ritenere il linguaggio biblico irrilevante o incendiario. Il 14 ottobre, una settimana dopo il discorso di Sarah, il cardinale Walter Kasper si lamentòdegli interventi africani al Sinodo. «Io posso parlare solo della Germania, dove una larga maggioranza vuole un’apertura verso i divorziati risposati. Lo stesso vale per il Regno Unito e ovunque». O meglio, non proprio ovunque: «Con l’Africa è impossibile. Ma non dovrebbero essere loro a dirci cosa fare». Il rigetto di Sarah e degli altri africani da parte di Kasper scatenò una immediata protesta. Obianuju Ekeocha, una cattolica nigeriana che si batte contro l’aborto, scrisse: «Figuratevi il mio shock oggi quando ho letto le parole di uno dei più importanti padri sinodali… In quanto donna africana che oggi vive in Europa, vedo le mie idee e i miei valori morali continuamente screditati come “questioni africane”». D’accordo il cardinale Napier: «È preoccupante leggere espressioni com “il teologo del Papa” riferite al cardinale Kasper… Kasper non è molto rispettoso verso la Chiesa africana e i suoi pastori». La dichiarazione di Kasper ruppe la diga. Da quel momento, una ondata di abusi si è abbattuta su Sarah. I suoi critici lo hanno descritto come arrogante, ignorante e un criminale potenziale – o quanto meno meritevole di una bella lezione. Michael Sean Winters del National Catholic Reporter ha ricordato a Sarah il suo ruolo («In fondo i cardinali di Curia sono dipendenti, dipendenti rispettati, ma dipendenti»). Padre William Grim su La Croix ha definito il suo lavoro «asinesco… palesemente stupido… idiozia». Andrea Grillo, un liturgista italiano liberal, ha scritto: «Sarah ha mostrato, da anni, una sostanziale inadeguatezza e incompetenza in ambito liturgico».
Su The Tablet, padre Anthony Ruff ha corretto Sarah. «Sarebbe bene che studiasse le riforme più approfonditamente e riuscisse a comprendere, per esempio, cosa significa “mistero” nella teologia cattolica». Massimo Faggioli, un vaticanista che frequenta le gelaterie di Roma, ha osservato innocentemente che il discorso delle bestie dell’apocalisse di Sarah «sarebbe passibile di denuncia penale in alcuni paesi». (Avendo amministrato per anni sotto la brutale dittatura marxista di Sékou Touré, Sarah non ha proprio bisogno che gli si ricordi che la professione della fede cristiana può essere un crimine). Dopo che papa Francesco ha respinto l’appello di Sarah ai sacerdoti a celebrare la Messa ad orientem, il disprezzo verso di lui è esploso in una scarica di botte: «È assai insolito per il Vaticano schiaffeggiare pubblicamente un principe della Chiesa, eppure non sorprende del tutto visto come si è mosso il cardinal Sarah…» (Christopher Lamb, Tablet); «Il Papa ha schiaffeggiato Sarah abbastanza sonoramente, salvandogli la faccia solo un po’» (Anthony Ruff, Pray Tell); «Il Papa schiaffeggia Sarah» (Robert Mickens su Twitter); «Papa Francesco… lo ha schiaffeggiato» (sempre Mickens, per Commonweal); «Un altro schiaffo» (Mickens ancora una volta, qualche mese dopo per La Croix). Sommato tutto insieme, fa una notevole lezione. Scambiarsi accuse di insensibilità probabilmente non è il modo migliore per risolvere le dispute dottrinali, ma la retorica dei critici di Sarah rivela qualcosa di importante a riguardo della vita cattolica oggi: nelle dispute dottrinali, morali e liturgiche, i cattolici liberal sono diventati nazionalisti ecclesiali. I cattolici tradizionali sono inclini a sostenere standard dottrinali e atteggiamenti pastorali coerenti a prescindere dai confini nazionali. Se non prediligono la Messa in latino, vogliono che le traduzioni nelle lingue locali ricalchino il latino il più esattamente possibile. Non sono scandalizzati dal modo in cui gli africani parlano dell’omosessualità o i cristiani d’Oriente dell’islamismo. I cattolici liberal, invece, si battono per le traduzioni scritte in stile idiomatico e approvate dalle conferenze episcopali nazionali, non da Roma. Le realtà locali esigono che la verità venga regolata ogni volta che oltrepassa un confine. Le affermazioni dottrinali cattoliche dovrebbero essere accennate in un linguaggio pastoralmente sensibile – sensibile cioè verso le sensibilità dell’Occidente ricco e istruito. Uno dei vantaggi del nazionalismo ecclesiale è che consente ai liberal di evitare di argomentare in campo dottrinale, dove i “rigoristi” tradizionali di solito hanno la meglio. Se la verità deve essere mediata dalle realtà locali, nessuno a Roma o ad Abuja avrà granché da dire sulla fede di Bruxelles e di Stoccarda (ecco qual era il punto dietro il rigetto degli africani da parte di Kasper). È quel che emerge in certi autori come Rita Ferrone di Commonweal, la quale dice che invece di badare a Sarah, chi parla inglese dovrebbe «fidarsi del nostro popolo e del nostro buon senso per quanto riguarda la preghiera nella nostra lingua». Il “noi” che sta dietro quel “nostro” non è globale e cattolico, ma borghese e americano. E se invece di essere rimesso al suo posto, schiaffeggiato e sbattuto in galera per aver violato i codici linguistici dell’Occidente, Sarah diventasse papa? Ecco quello che i suoi critici temono di più. Mickens scrive della cupa possibilità di un «Pio XII (anche noto come Robert Sarah». Lamb dice che Sarah potrebbe finire per essere «il primo papa nero». (Sarebbe stupendo – i genitori di Sarah, due convertiti del remoto villaggio di Ourous, in Guinea, immaginavano che solo gli uomini bianchi potessero diventare preti e risero quando il loro figlio disse loro che voleva entrare in seminario). Lo stesso osservatore bene informato che mi disse che il potenziale di Sarah era precipitato durante il Sinodo, ora dice che le sue prospettive stanno migliorando. «La gente ha visto tutti gli attacchi, e il suo generoso rifiuto di rispondere a tono».
È davvero notevole il fatto che Sarah abbia sopportato una tale gragnuola di insulti con tanta grazia. Nel suo nuovo libro La forza del silenzio sentiamo il suo grido soffocato di angoscia: «Ho provato sulla mia pelle la dolorosa esperienza dell’assassinio attraverso il chiacchiericcio, la calunnia e la pubblica umiliazione, e ho imparato che quando una persona ha deciso di distruggerti, non le mancheranno le parole, la cattiveria e l’ipocrisia; la menzogna ha una capacità immensa di costruire argomenti, prove e verità sulla sabbia. Quando tale è il comportamento degli uomini di Chiesa, e dei vescovi in particolare, il dolore è anche più profondo. Ma… dobbiamo restare calmi e in silenzio, chiedendo che la grazia non ceda mai al rancore, all’odio e alla sensazione dell’impotenza. Restiamo saldi nel nostro amore per Dio e per la sua Chiesa, nell’umiltà». Nonostante tutto questo, Sarah è un uomo indomito. Il suo libro ribadisce l’appello alla Messa ad orientem e al resto della “riforma della riforma”. «Se Dio vorrà, quando vorrà e come vorrà, sarà realizzata la riforma della riforma nella liturgia. Malgrado lo stridore di denti, essa avverrà, perché c’è in gioco il futuro della Chiesa». Se Sarah si è rifiutato di rendersi accondiscendente con quelli che comandano a Roma, non si metterà nemmeno al servizio altri schieramenti. In questo libro meravigliosamente personale, racconta vecchie storie popolari islamiche, ama profondamente i deboli e gli afflitti, e depreca gli interventi armati: «Come possiamo non essere scandalizzati e inorriditi dall’azione dei governi dell’America e dell’Occidente in Iraq, Libia, Afghanistan e Siria?». Sarah li considera spargimenti di sangue idolatrici «nel nome della dea Democrazia» e «nel nome della Libertà, un’altra divinità dell’Occidente». Si oppone allo sforzo di costruire «una religione senza confini e una nuova etica globale». E se questa vi sembra un’iperbole, ricordate che sei giorni dopo che i missili avevano colpito Baghdad, Tony Blair mandò a George W. Bush un promemoria che diceva: «La nostra ambizione è grande: costruire un’agenda globale attorno alla quale possiamo unire il mondo… per diffondere i nostri valori di libertà, democrazia, tolleranza». Sarah vede questo programma come qualcosa di contiguo alla blasfemia. Ha opinioni altrettanto taglienti sull’economia moderna: «La Chiesa commetterebbe un errore fatale se si logorasse nel tentativo di dare una specie di volto sociale al mondo moderno che è stato scatenato dal capitalismo del libero mercato». Guerra, persecuzione, sfruttamento: tutte queste forze fanno parte di una «dittatura del rumore» i cui slogan incessanti distraggono gli uomini e screditano la Chiesa. Per resistere ad essa, Sarah si rivolge all’esempio di Fratello Vincent, un giovane recentemente scomparso che Sarah amava con tutto il cuore. Solo se amiamo e preghiamo come Vincent possiamo sentire la musica callada, la musica silenziosa che gli angeli suonarono per Giovanni della Croce. Sì, questo libro mostra che Sarah ha molto da dire: sulla vita mistica, sulla Chiesa e sull’attualità mondiale. Ma su tutto il resto, rimane in silenzio – mentre il mondo parla di lui.
· Fra i migranti le prostitute schiave.
1.400 adolescenti prostitute schiave. Il dossier di Save the Children sulle vittime di tratta. I trafficanti le portano dalla Nigeria e dall'Est Europa. E le tengono sempre più nascoste, per sfuggire ai controlli. Il rapporto "Piccoli Schiavi" dà voce alle associazioni. Preoccupate per le conseguenze del decreto Sicurezza. Francesca Sironi il 25 luglio 2019 su L'Espresso. Le nascondono, adesso. Le tengono segregate in appartamenti, o le portano lungo strade sempre più periferiche, isolate. E ovviamente le picchiano per non parlare, a Palermo come a Torino e in Germania. Sono le vittime della tratta sessuale, schiave giovanissime, neo maggiorenni o ancora bambine, costrette a vendersi da una rete di trafficanti che prima le obbligano a partire e poi a prostituirsi. Il dramma della tratta delle schiave dalla Nigeria e dall'Est all'Italia e all'Europa – a cui l'Espresso ha dedicato negli anni diverse inchieste – è al centro del nuovo rapporto sui “Piccoli schiavi invisibili” di Save The Children. La Onlus, con il progetto “Vie d'uscita” , ha permesso l'anno scorso a 31 vittime di trovare un futuro, di uscire allo sfruttamento. Gli operatori in sole cinque regioni hanno incontrato oltre mille adolescenti sfruttate sessualmente. Mille e quattrocento schiave, obbligate a vendersi al costo di ferite fisiche e psicologiche talmente buie da cancellare le parole stesse per spiegarsi.
Le nuove forme di controllo e sfruttamento. L'ultima relazione semestrale della Direzione investigativa Antimafia ha dedicato ampio spazio al tema della tratta. A dicembre del 2018 la polizia ha arrestato otto nigeriani della confraternita “Eiye” a Torino, accusati di associazione di tipo mafioso, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e sfruttamento della prostituzione. A marzo era stata la volta di Palermo, ad aprile di Cuneo; a maggio grazie alla denuncia di una minorenne, costretta a prostituirsi insieme a un'amica a Giugliano, è stata fermata una rete di sfruttamento a Napoli. Il mese scorso un'altra operazione, fra Palermo, Napoli, Dervio – in provincia di Lecco – e Bergamo ha fermato quattro uomini. Sono nigeriani, liberiani e italiani, tra cui un 78enne che faceva da vedetta e accompagnava le ragazze nelle zone di prostituzione. Il controllo dei trafficanti infatti è totale. E così il loro tentativo di non perdere la “merce”, le ragazze. Daniela Moretti del Servizio anti-tratta “Roxanne” del Comune di Roma, spiega nel rapporto di Save the Children come i trafficanti cerchino infatti di occultare sempre più la presenza delle minorenni sul territori. Ricorrendo alla prostituzione in appartamento ad esempio piuttosto che in strada, dove è più facile vengano individuate dagli operatori. Questo rende sempre più difficile la possibilità di entrare in contatto con loro e di offrire percorsi di protezione. «In Piemonte, e nello specifico nell’astigiano, è stato segnalato da Alberto Mossino di PIAM un aumento delle connection houses, ovvero case chiuse, ma aperte solo per uomini africani, in cui le ragazze possono affittare un posto letto il cui pagamento sarebbe garantito con i proventi derivanti dalla prostituzione», spiega il dossier sui “Piccoli Schiavi”: «Anche Andrea Morniroli diDedalus ha riconosciuto come nella città di Napoli e provincia l’indoor rappresenti una modalità di sfruttamento assai diffusa e si stiano progressivamente sviluppando diverse connection houses». Morniroli ha raccontato come cercano comunque di entrare in contatto con le ragazze per offrire aiuto: «In questi casi si proceda via telefono», spiega: «Inizialmente ci si finge clienti al fine di capire il tipo di prestazioni offerte e quale sia il livello di autonomia. Molto spesso, componendo lo stesso numero non si riesce a parlare con la stessa persona e scopri che tre persone hanno 15 numeri diversi, così inizi a pensare ci sia un’organizzazione alle spalle». È difficile, ma tentano lo stesso, continuamente, a spiegare alle ragazze le possibilità che offre loro il paese per salvarsi. Possibilità che esistono, sono radicate. Ma hanno bisogno di fondi, risposte legali, e standard di intervento sui documenti da parte delle questure. Proprio sul punto dei permessi si aprono oggi nuovi rischi, a causa del decreto Sicurezza voluto dal ministro dell'Interno Matteo Salvini.
Le conseguenze del decreto sicurezza. Lo stesso governo che ha aumentato i fondi per le iniziative anti-tratta (24 milioni di euro dal 2019 al 2021) ha voluto infatti un decreto che indebolisce gli strumenti con cui gli operatori possono aiutare le vittime. Con il Decreto sicurezza, spiega il rapporto di Save the Children, è stata abolita la protezione per motivi umanitari, ovvero il modello di permesso più utilizzato per le ragazze sfruttate. Che ora si troveranno in condizioni di non poterlo rinnovare. A meno di non riuscire a ottenere un nuovo visto di soggiorno per “casi speciali”, fra cui la violenza domestica e il grave sfruttamento. Per le vittime di tratta esisterebbe da tempo un altro strumento, la protezione sociale “ex art.18”, ma il modo con cui viene accordata varia a seconda della Questura. Spesso viene infatti chiesto che la vittima, per ottenere il documento, denunci dettagliatamente le persone che l'hanno costretta a prostituirsi. Una denuncia che le espone, di fatto, a una vendetta dei trafficanti. Di cui hanno paura, per sé o per la propria famiglia. Da tempo le associazioni chiedono che vengano stabilite linee guida perché alle ragazze che si ribellano e iniziano un percorso di reinserimento sia riconosciuto un permesso, a prescindere dalla denuncia. L'Organizzazione internazionale per le migrazioni pubblica il nuovo rapporto sulla tratta. Le vittime sono aumentate del 600 per cento in due anni. E moltissime sono minorenni. Destinate a un incubo. Ci sono poi altre due conseguenze del decreto Sicurezza. Con la chiusura dell'accesso nelle piccole strutture comunali della rete Sprar per la prima accoglienza, le ragazze si ritrovano oggi nei centri straordinari. Dove è maggiore il numero di persone e spesso inferiore la preparazione dei gestori. Così è difficile che i responsabili si accorgono dei segnali di disagio di una vittima o di una potenziale sfruttata. Lasciandola in balia dei trafficanti, anche all'interno stesso del centro. Infine, secondo il decreto Salvini chi ha un permesso di protezione internazionale non può iscriversi all'anagrafe. «E benché l’accesso ai servizi, come l’iscrizione sanitaria, ai sensi del Decreto, sia assicurato nel luogo del domicilio, la residenza rappresenta di fatto la chiave per l’esercizio effettivo di alcuni diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione», ricorda il dossier sui Piccoli schiavi: «Inoltre alcune ASL continuano a richiedere la residenza, ostacolando l’accesso al servizio sanitario. Che rappresenta uno degli strumenti essenziali per garantire assistenza alle vittime di sfruttamento sessuale».
Non chiamateli clienti. Trovare ogni mezzo per abolire questo business orrendo deve invece restare una priorità. Legale. Ma anche culturale. «Non si può ignorare», ricorda infatti nel dossier Raffaela Milano, direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children: «il fatto che il fiorente mercato dello sfruttamento sessuale delle minorenni è legato alla presenza di una forte “domanda” da parte di quelli che ci rifiutiamo di definire “clienti”, i quali sono parte attiva del processo di sfruttamento. È necessario rafforzare l’azione di contrasto e, allo stesso tempo, promuovere iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica e in particolare i più giovani sui danni gravissimi che questo mercato provoca sulle ragazze che ne sono vittima». Non chiamateli clienti, gli aguzzini di passaggio che approfittano della sofferenza di persone come Happy. Una ragazza a cui la violenza ha tolto anche le parole: non riesce a raccontare tutta la sua storia; Interi pezzi della sua vita restano neri, silenzio. Cresciuta in una famiglia numerosa di Benin City, in Nigeria, la sua storia ricalca quella di molte, troppe, sue coetanee, convinte come lei a partire con una promessa. Nel suo caso l'impiego in un bar. Affronta la rotta lungo il deserto, in Libia iniziano gli abusi. Quindi il gommone, il salvataggio nel canale di Sicilia, la trappola della rete di contatti che le forniscono tutto - biglietti, documenti, indirizzi, fino all'incontro con la donna che la porta al lavoro. In Germania. È lì che Happy viene costretta a prostituirsi da un'aguzzina che le requisisce tutto, compreso il telefono per parlare con la famiglia. In compenso la porta dal parrucchiere, la istruisce su cosa dire alla polizia per il permesso, l'accompagna in strada, controlla e prende i soldi alla fine dei rapporti. «Una mattina sono tornata dal lavoro in strada all’alba ed ero sfinita, mi sono messa a letto ma Zainab mi ha svegliata e mi ha costretto con violenza ad avere rapporti con un cliente», ha raccontato Happy agli operatori: «Dopo quella volta ho detto che volevo parlare con i miei genitori, che non sopportavo più quella vita, e mi stavo preparando i bagagli per chiedere aiuto a quelli dell’accoglienza, ma lei ha fatto entrare in casa due uomini nigeriani, che hanno cominciato a spintonarmi e a insultarmi. Ho cercato di scappare ma mi hanno presa a calci; mi sono accorta che uno dei due aveva in mano una pentola con acqua bollente, a quel punto mi sono buttata dalla finestra. Mi sono fatta molto male, qualcuno del vicinato mi ha soccorsa ma in ospedale non potevano operarmi perché ero senza documenti. Io per paura non ho raccontato nulla; poi è arrivata la Polizia e mi ha portato in cella. Mi hanno preso le impronte Avevo molto male perché non mi curavano abbastanza. Dopo due settimane mi hanno accompagnata in aeroporto per rimandarmi in Italia». È in Italia che ha incontrato i ragazzi di Vie d'Uscita ed è riuscita a cambiare il suo presente. È entrata in una comunità protetta, quindi in un programma di formazione. Grazie ai corsi, ha iniziato a lavorare come stagionale in un hotel.
Le prostitute schiave portate in Europa sono sempre più giovani. E numerose. L'Organizzazione internazionale per le migrazioni pubblica il nuovo rapporto sulla tratta. Le vittime sono aumentate del 600 per cento in due anni. E moltissime sono minorenni. Destinate a un incubo. Francesca Sironi il 21 luglio 2017 su L'Espresso. Le denunce sono poche, pochissime. Solo 78, su quasi settemila vittime identificate. A dimostrazione «dell'immenso coraggio che devono trovare le ragazze che riescono a denunciare: facendolo spesso contro la propria famiglia, mentre si trovano da sole in un paese straniero, fidandosi di operatori conosciuti da poco». Lo racconta Carlotta Santarossa dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), responsabile dell'ultimo report sulle vittime di tratta, le persone portate in Europa attraverso la rotta dei profughi nel Mediterraneo centrale per diventare schiave. In questo caso, merce per il mercato del sesso. È da circa due anni che l'organizzazione – e l'Espresso, con diverse inchieste – segnala l'allarme legato all'aumento di giovani donne, soprattutto nigeriane, durante gli sbarchi nel Sud Italia, spiegando l'altissima probabilità che il loro destino non sia altro che lo sfruttamento sessuale. I numeri continuano ad aumentare. Le potenziali vittime – individuate come tali secondo una serie di indicatori – sono state nel 2016 8.277. Nel biennio 2014/15 non raggiungevano le 3.400. In più di 6.500 casi sono state identificate come tali. Solo 78, appunto, hanno denunciato. A far mancare la parola, la possibilità di un esposto, non è solo la paura del rito contratto in patria, delle minacce o delle ripercussioni sui prossimi. E non è solo il debito del viaggio, quel prestito che grava su quasi tutte le ragazze. «È spesso la mancanza di consapevolezza. Faticano a percepirsi come vittime. E non solo. In sempre più casi hanno scoperto soltanto qui cosa sia esattamente il sesso», continua Santarossa: «Perché sono troppo giovani. E questo è uno degli elementi più preoccupanti, di anno in anno: l'età». Le ragazze che sbarcano per essere poi strattonate in giro per l'Italia e l'Europa come prostitute, sono infatti passate dall'essere giovani adulte all'arrivare in Italia ancora minorenni. Adolescenti anche di 12 o 13 anni, convinte a partire e vendute a ore sulla strada. Su 290 vittime segnalate alle autorità o indirizzate a una forma di assistenza nel 2016, 164 erano minorenni. Sulle 135 segnalate alla rete antitratta, 87 non avevano 18 anni. Dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra ragazze e minori non accompagnati nigeriani. Un aumento del 300 per cento in un anno. E secondo l'Oim l'80 per cento di queste persone sono vittime di traffico per la prostituzione. Ecco cosa dovrebbero fare le istituzioni.
È la storia di Precious, 17 anni, nigeriana. Nella primavera del 2016 la polizia la vede lungo una strada, in Sicilia. È giovanissima. In commissariato, dice però di avere 21 anni e di voler raggiungere la sorella. È spaventata. Gli agenti trovano le sue impronte nel database: è sbarcata cinque mesi prima, ed è minorenne. La procura contatta l'Oim che la incontra in una comunità protetta dove è stata portata. Indossa ancora la parrucca rossa e i vestiti attillati che le avevano dato per andare in strada. Le operatrici le raccontano la storia di una ragazza come lei, portata a prostituirsi per saldare il debito del viaggio. Precious si confida. Non aveva mai avuto rapporti sessuali con un uomo prima di allora. Era costretta sulla strada per 12 ore al giorno. Ha paura di essersi ammalata. Del rito. Dei conoscenti. L'Oim la incontra ogni giorno per un mese. Lei non riesce a dormire, cerca a volte di scappare, per tornare dai trafficanti, a volte pensa di morire. «Ogni volta, però, la paura di tornare sulla strada è più forte di tutto», annota l'operatrice che ha seguito la sua storia. Alla fine, trova il coraggio di denunciare. Oggi vive in una struttura protetta, parla italiano e studia per diventare mediatrice culturale. È questa la speranza che anche Santarossa ci tiene a sottolineare: «Da parte delle istituzioni, l'attenzione è cambiata». Aumentano le segnalazioni che arrivano dai centri, quando sono capaci di notare che c'è qualcosa che non va. Le associazioni cercano di dare formazione e intervenire in tempo. Ma spesso mancano le prospettive concrete da dare come alternativa, o i posti nelle strutture specializzate. Per questo l'attenzione deve aumentare. Perché non agire per difendere queste ragazze, è essere complici.
Donne, nigeriane, schiave fra i profughi: "Così bisogna fermare lo sfruttamento sessuale". Dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra ragazze e minori non accompagnati nigeriani. Un aumento del 300 per cento in un anno. E secondo l'Oim l'80 per cento di queste persone sono vittime di traffico per la prostituzione. Ecco cosa dovrebbero fare le istituzioni. Francesco Sironi il 16 giugno 2016. Operazione di polizia contro la tratta delle nigeriane a Ragusa, 13 giugno 2016Quando l'hanno trovato c'era un'altra ragazza in casa. Anche lei minorenne. Anche lei nigeriana. Anche lei schiava, costretta a prostituirsi. Anche lei vittima di uno dei cinque nigeriani arrestati pochi giorni fa a Brescia e Torino per sfruttamento della prostituzione. Pezzi di una rete ricostruita dalla squadra mobile di Ragusa grazie alla denuncia di un'adolescente. L'avevano vista allo sbarco, a Pozzallo. Avvicinata con l'aiuto un'interprete, si era fidata: e aveva raccontato del viaggio a cui era stata convinta nel suo paese, del debito, dei riti, aveva consegnato agli agenti il numero della maman-prossineta che l'avrebbe dovuta avviare alla strada in Italia, nel Nord. Il problema delle vittime di tratta, sempre più minorenni, caricate sui barconi per farsi merce del sesso in Europa, nascoste dentro agli sbarchi e poi nella burocrazia dell'accoglienza è sempre più ingombrante. E inaccettabile. Come denunciava già l'Espresso un anno fa, dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra donne e minori non accompagnati nigeriani - oltre duemila solo da gennaio 2016. Un aumento, rispetto al 2014, del 300 per cento in un anno. «Almeno l'80 per cento di queste persone sono vittime di traffico per sfruttamento sessuale», ha detto Federico Soda, direttore dell'Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell'Oim : «Negli ultimi due anni, oltre 5mila donne nigeriane hanno ricevuto assistenza dall'Oim per aiutarle a uscire dallo sfruttamento». Le leggi per fermare questa nuova schiavitù ci sono, ci sarebbero. L'Italia ne ha fra le più rigide d'Europa. Ma raramente riescono a farsi sentire. Nel 2015, ha spiegato Daniela Parisi, dal ministero dell'Interno, sono stati rilasciati solo 915 permessi di soggiorno di tipo umanitario, previsti per le vittime di tratta, altri 178 da gennaio a maggio del 2016. L'Oim, insieme a Save the Children e a Emergency ha contribuito alla costruzione di una “piattaforma nazionale” contro il traffico di persone. Per fermare la catena che dalle province africane porta alle piazzole padane, è necessario, spiegano, formare meglio gli operatori dei centri d'accoglienza, soprattutto straordinari, dove spesso queste donne restano a lungo dopo la richiesta d'asilo. Continuando a essere sfruttate. Bisognerebbe poi rafforzare la capacità di assistere le ragazze che denunciano, dando loro protezione immediata e percorsi di reinserimento più forti ed efficaci di quelli attuali. È necessario, infine, evitare la discrezionalità con cui diverse istituzioni affrontano il problema, aumentare i finanziamenti per i profughi vulnerabili (come loro) e intraprendere interventi nei paesi d'origine. E poi, con le nuove norme sulle identificazioni, i rimpatri “veloci” e i permessi negati dalle commissioni territoriali, prestare attenzione a queste donne. Che rischiano di diventare di nuovo vittima. Di minacce, ritorsioni e violenze.
Fra i migranti le prostitute schiave. Così dalla Libia aumentano le vittime. Per loro lo sbarco in Italia è l’inizio di un nuovo incubo: la prostituzione forzata. Accade a migliaia di donne africane. Da mesi i trafficanti approfittano dell’esodo dei profughi. Sfruttando l'emergenza. Mentre il governo non si muove. Piero Messina e Francesca Sironi il 14 luglio 2015 su L'Espresso. Quando sbarcano in Italia non sorridono. Hanno superato il deserto, attraversato il Mediterraneo, sono arrivate vive in Sicilia. Ma non sono salve. Perché per loro l’approdo è solo l’inizio di un nuovo incubo: la prostituzione forzata. Sta accadendo ogni giorno a centinaia di donne, soprattutto nigeriane ma non solo. Adescate con la promessa di un futuro migliore in Europa, vengono traghettate dalla povertà alla schiavitù del sesso nelle città occidentali. È una tratta antica, ma che dall’inizio del 2014 si è sovrapposta all’ondata di partenze dalla Libia, assumendo proporzioni senza precedenti. I trafficanti approfittano dell’esodo dei profughi, usando gli scafisti per portare qui la loro merce: le donne. Dopo lo sbarco, si insinuano nelle pieghe dell’emergenza per ottenere permessi temporanei e forzarle al marciapiede. Senza che le nostre istituzioni riescano a impedirlo, rassegnate a farsi complici degli sfruttatori. «Prima di partire siamo state istruite su come comportarci con la polizia», racconta Princess: «Dopo la traversata mi hanno mandato in strada a fare la prostituta. Se portavo meno di 200 euro al giorno venivo picchiata». Come fantasmi, le africane entrano nei centri d’accoglienza straordinari ed escono sui sedili dei clienti. «Queste ragazze vivono una seconda schiavitù. Prima la fame, poi lo sfruttamento sessuale», commenta padre Efrem Tresoldi, direttore della rivista dei missionari comboniani, “Nigrizia” : «Il governo non sta agendo. Forse non vede la gravità del fenomeno, oppure chiude un occhio per evitare di soffiare sulle paure, di dare spazio alla destra. Intanto le reti criminali ne approfittano. E lucrano sulle donne contando proprio sull’incuranza delle istituzioni».
LA NUOVA ROTTA. Nei primi cinque mesi del 2014 erano sbarcate in Italia 218 nigeriane, 1400 in tutto l’anno. Nei primi cinque mesi del 2015 ne sono già arrivate 698, tre volte tante, più che in tutto il 2013. Significa che a dicembre di quest’anno potrebbero essere almeno 4mila le schiave trascinate sui barconi per finire a battere sui marciapiedi del paese. Secondo l’ Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), infatti, il 70 per cento delle giovani che arrivano da Lagos seguendo le rotte degli scafisti è destinata alla prostituzione. Lo confermano le indagini: «Il collegamento fra favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e sfruttamento sessuale non è occasionale», commenta il sostituto procuratore di Agrigento Renato Vella. «Entrare con documenti falsi via aereo è sempre più difficile», spiega Isoke Aikpitanyi, ex vittima del racket, oggi attivista e scrittrice, che con la sua associazione ha realizzato un’indagine su 500 prostitute nigeriane che lavorano in Italia. Quasi il 60 per cento è arrivata via mare dalle coste libiche. E sempre di più, le lucciole raggiungono l’Europa attraverso il Mediterraneo o i Balcani. Non vengono solo dalla Nigeria, ma anche dal Camerun e dal Bangladesh, sebbene le vittime che arrivano da questi paesi siano più difficili da intercettare. Il ministero degli Interni inglese ha nominato per la prima volta un commissario speciale contro la schiavitù, Kevin Hyland, che pochi giorni fa ha parlato di un «problema enorme e urgente da affrontare» di fronte ai duemila casi segnalati in Inghilterra. Insomma l’Europa comincia ad aprire gli occhi su questo fenomeno. Mentre a Roma tutto tace.
DOPPIO INCUBO. Le rotte clandestine sono un affare d’oro per i trafficanti: fanno risparmiare soldi per il viaggio e per i documenti. Ma per le donne significano soltanto dolore. Le sopravvissute portano spesso dalla Libia le cicatrici di violenze, abusi, rapporti non protetti se non con metodi artigianali (come pezzi di cotone infilati prima della penetrazione), aborti indotti in condizioni igieniche inimmaginabili. «Il gruppo di pick-up su cui viaggiavo nel deserto con altre dodici ragazze è stato fermato più volte. Ogni volta i militari hanno potuto fare di noi quello che volevano», racconta a fatica Princess, una ventenne che per mesi è stata obbligata a prostituirsi nel quartiere Ballarò di Palermo, prima di denunciare il suo aguzzino ed entrare in un percorso di protezione: «Minacciate dai fucili, siamo state violentate e offerte ai militari in cambio dell’immunità degli altri, per far passare indenne il convoglio. Opporsi era impossibile: si rischiava di essere uccise o abbandonate nel deserto». Testimonianze come queste sono numerose e concordanti. Tanto che Maurizio Scalia, procuratore aggiunto di Palermo, a capo del pool contro il traffico dei migranti, sostiene che «le donne siano diventate merce di scambio tra i trafficanti e le organizzazioni militari o paramilitari che si incontrano lungo il tragitto che porta dal centro Africa alle sponde Sud dell’Europa». Non soltanto destinate a diventare squillo, quindi, ma anche usate lungo il viaggio come beni da baratto. Un doppio incubo.
BAMBINE PERDUTE. Il via vai degli scafisti verso la fortezza europea non ha solo stretto con violenza le catene delle schiave lungo il viaggio, ma ha anche cambiato radicalmente la ricerca di nuova “merce” alla fonte, rendendo la caccia ancora più brutale. «Le ragazze che incontriamo ultimamente provengono da regioni poverissime; molto spesso sono analfabete; non hanno mai frequentato una scuola», spiega Tiziana Bianchini, responsabile immigrazione della “ Cooperativa lotta contro l’emarginazione ” di Sesto San Giovanni: «Ma soprattutto sono piccole. L’età media delle prostitute nigeriane era di 20, 21 anni prima del 2011. Adesso sono aumentate le minorenni, le adolescenti». In Puglia è stata fermata un’africana destinata alla strada. Diceva di essere maggiorenne, ma aveva appena compiuto dodici anni. Una bambina. «Moltissime nigeriane con cui entriamo in contatto hanno 15, 16 anni. I trafficanti hanno detto loro di presentarsi come maggiorenni per non finire in strutture più controllate», raccontano operatori dell’Oim che lavorano in Sicilia e Puglia proprio per prevenire lo sfruttamento: «Spesso sono vergini. Destinate non solo all’Italia ma anche alla Francia e al resto d’Europa».
RAGNATELE CRIMINALI. Abeke è partita dal suo villaggio all’inizio del 2014. Da Tripoli è salita su un barcone con un uomo e altre cinque ragazze. Era agosto. Dice di non ricordare l’approdo in Italia, ricorda però che dal porto hanno preso diversi treni, fino a Bari. Dalla stazione sono state portate in un appartamento con una sola stanza da letto: lei dormiva per terra in cucina. Le è stato detto che avrebbe dovuto prostituirsi per restituire il debito di viaggio, stimato irrealisticamente in decine di migliaia di euro, e che doveva200 euro al mese d’affitto e 100 euro alla settimana di cibo. Non basta: pagava anche 300 euro al mese per la piazzola sul marciapiede. Ogni giorno una macchina la portava a un quadrato di asfalto lurido di fianco alla strada alle sei di mattina e la ritirava alle 21. Ogni sera la “maman”, la donna che controlla le sue connazionali, raccoglieva i soldi: se guadagnavano poco venivano picchiate. Una volta Abeke si è rifiutata di avere rapporti per i dolori mestruali: è finita in ospedale. La sua storia è stata cambiata dall’incontro con Francesca De Masi, un’operatrice della cooperativa BeFree di Roma , che l’ha aiutata a uscire dal racket. Ma è simile a quella di centinaia di altre giovanissime. Uno sfruttatore nigeriano intercettato dalla polizia, Obuh Destiny, si riferiva a loro come le “galline”. Ogni ragazza veniva fotografata e schedata dalla sua organizzazione criminale perché fosse riconoscibile agli uomini del clan lungo le tappe del viaggio dalla Nigeria al Niger, quindi alla Libia, a Lampedusa e infine alle strade di Ravenna. La burocrazia del male di “Brothers Happy”, com’era chiamato in codice il trafficante, univa al controllo capillare delle donne il vincolo del debito contratto dai familiari per il viaggio, e infine la superstizione, con maledizioni vudù e pratiche di stregoneria tuttora temute da chi nasce in quelle terre. I riti violenti, l’efficienza e la paura le incatenavano a lui. Senza scampo. Queste reti criminali, a capo di un business che l’ osservatorio Transcrime (della Cattolica di Milano e dell’Università di Trento) stima valere da 600 milioni a più di quattro miliardi di euro solo in Italia, hanno capito presto come approfittare di tutti gli ingranaggi dell’emergenza in Italia. Non solo per la facilità di approdo, ma anche per la possibilità di mettere in regola, almeno per un po’, le loro vittime, arrivando a usare i centri d’accoglienza come basi operative. «È frequente, quasi normale ormai, incontrare ragazze che si prostituiscono per strada con in tasca la richiesta d’asilo», conferma Vincenzo Castelli, presidente di On The Road, una onlus che da tempo si occupa di contrasto allo sfruttamento in Abruzzo: «Macchine e pulmini le aspettano fuori dalle strutture che le ospitano e le portano a vendersi lungo le provinciali». I trafficanti obbligano le ragazze a presentare domanda di protezione internazionale, sapendo che questo darà loro diritto a stare in Italia fino alla risposta. Agli ufficiali le donne ripetono tutte le stesse storie-copione: i familiari morti in un attentato, oppure una persecuzione, poi la partenza attraverso la Libia. Sanno, i papponi, che oggi il tempo medio per avere una convocazione dalla commissione territoriale è di sette mesi, ma in alcune città come Roma, Milano o Palermo può esserci da aspettare più di un anno. E che, in caso di diniego, potranno fare ricorso, accumulando così tempo prezioso per sfruttare le ragazze senza il rischio che vengano rinchiuse in un Cie perché irregolari. E senza il rischio, quindi, che pur di non essere espulse le donne-bambine si convincano a denunciarli, accedendo così ai percorsi di protezione previsti dalla legge.
STATO ASSENTE. La procedura di protezione internazionale è un diritto che va garantito a tutti, non solo per umanità o per legge, ma perché se affrontata nel modo giusto potrebbe davvero servire a combattere lo sfruttamento. Alcune commissioni territoriali, spiega infatti Francesca Nicodemi dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi), hanno iniziato a lavorare con gli esperti anti-tratta per riconoscere le vittime e aiutarle a denunciare. Andando oltre gli schemi che le porterebbero ad essere respinte, per ottenere invece una protezione specifica. «Torino è stata la prima», racconta l’avvocato: «Qualcosa si muove in altre città. Ma il problema è che non c’è nessuna indicazione a livello centrale». Lo stesso avviene nelle strutture d’accoglienza: onlus molto attive, governo molto assente. Immobile davanti alla tratta delle schiave. «Dopo lo sbarco le ragazze vengono sparpagliate nei centri straordinari, aperti d’urgenza dalle prefetture in tutta Italia», riprende Tiziana Bianchini della “Cooperativa lotta contro l’emerginazione”: «Ma gli albergatori o le cooperative improvvisate a cui vengono affidati i migranti non sanno riconoscere i segni dello sfruttamento». Che può avvenire così sotto i loro occhi. Stava succedendo a Monza, ma i responsabili di una struttura se ne sono accorti dopo una fuga e hanno chiesto aiuto a “Coop lotta”, avviando colloqui con 30 africane. Tutte erano già cadute nella trappola, anche se in modo “soft”: per convincerle a tacere i magnaccia dividevano i profitti a metà con loro. Cinque donne li hanno denunciati e sono state aiutate. A Napoli la prefettura ha stretto un accordo con Dedalus, un’associazione anti-tratta, per individuare le vittime nei centri d’emergenza. Ma a livello nazionale niente: nessun intervento a riguardo. Anzi, da due anni è fermo un piano di riforma necessario per adottare le normative europee. Lo Stato, in perenne emergenza, non si rende conto di essere diventato complice dei peggiori schiavisti del pianeta. E come ricorda Princess: «Che alternative danno le istituzioni a chi lascia la strada?».
Donne, nigeriane, schiave fra i profughi: "Così bisogna fermare lo sfruttamento sessuale". Dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra ragazze e minori non accompagnati nigeriani. Un aumento del 300 per cento in un anno. E secondo l'Oim l'80 per cento di queste persone sono vittime di traffico per la prostituzione. Ecco cosa dovrebbero fare le istituzioni. Francesca Sironi il 16 giugno 2016 su L'Espresso. Operazione di polizia contro la tratta delle nigeriane a Ragusa, 13 giugno 2016Quando l'hanno trovato c'era un'altra ragazza in casa. Anche lei minorenne. Anche lei nigeriana. Anche lei schiava, costretta a prostituirsi. Anche lei vittima di uno dei cinque nigeriani arrestati pochi giorni fa a Brescia e Torino per sfruttamento della prostituzione. Pezzi di una rete ricostruita dalla squadra mobile di Ragusa grazie alla denuncia di un'adolescente. L'avevano vista allo sbarco, a Pozzallo. Avvicinata con l'aiuto un'interprete, si era fidata: e aveva raccontato del viaggio a cui era stata convinta nel suo paese, del debito, dei riti, aveva consegnato agli agenti il numero della maman-prossineta che l'avrebbe dovuta avviare alla strada in Italia, nel Nord. Il problema delle vittime di tratta, sempre più minorenni, caricate sui barconi per farsi merce del sesso in Europa, nascoste dentro agli sbarchi e poi nella burocrazia dell'accoglienza è sempre più ingombrante. E inaccettabile. Come denunciava già l'Espresso un anno fa, dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra donne e minori non accompagnati nigeriani - oltre duemila solo da gennaio 2016. Un aumento, rispetto al 2014, del 300 per cento in un anno. «Almeno l'80 per cento di queste persone sono vittime di traffico per sfruttamento sessuale», ha detto Federico Soda, direttore dell'Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell'Oim : «Negli ultimi due anni, oltre 5mila donne nigeriane hanno ricevuto assistenza dall'Oim per aiutarle a uscire dallo sfruttamento». Le leggi per fermare questa nuova schiavitù ci sono, ci sarebbero. L'Italia ne ha fra le più rigide d'Europa. Ma raramente riescono a farsi sentire. Nel 2015, ha spiegato Daniela Parisi, dal ministero dell'Interno, sono stati rilasciati solo 915 permessi di soggiorno di tipo umanitario, previsti per le vittime di tratta, altri 178 da gennaio a maggio del 2016. L'Oim, insieme a Save the Children e a Emergency ha contribuito alla costruzione di una “piattaforma nazionale” contro il traffico di persone. Per fermare la catena che dalle province africane porta alle piazzole padane, è necessario, spiegano, formare meglio gli operatori dei centri d'accoglienza, soprattutto straordinari, dove spesso queste donne restano a lungo dopo la richiesta d'asilo. Continuando a essere sfruttate. Bisognerebbe poi rafforzare la capacità di assistere le ragazze che denunciano, dando loro protezione immediata e percorsi di reinserimento più forti ed efficaci di quelli attuali. È necessario, infine, evitare la discrezionalità con cui diverse istituzioni affrontano il problema, aumentare i finanziamenti per i profughi vulnerabili (come loro) e intraprendere interventi nei paesi d'origine. E poi, con le nuove norme sulle identificazioni, i rimpatri “veloci” e i permessi negati dalle commissioni territoriali, prestare attenzione a queste donne. Che rischiano di diventare di nuovo vittima. Di minacce, ritorsioni e violenze.
Prostitute? No, sono schiave. La tratta delle donne che dalla Nigeria finiscono a vendersi sulle nostre strade, le 'confraternite' che le gestiscono e i legami con la nostra criminalità non fanno più notizia. Eppure il traffico delle ragazze ha un giro d'affari da milioni di euro. Ecco come funziona. Fabio Emilio Torsello il 20 febbraio 2013 su L'Espresso. Il negozio me lo indica con un cenno mentre ci passiamo davanti. Il quartiere è quello della Maddalena, decantato da De André. Dietro la vetrina, una ragazza nigeriana parla con una coetanea. "E' una Maman" mi spiega "una sorta di maitresse. E questo negozio è stato aperto grazie alla collaborazione di un italiano cui poi hanno regalato una ragazza per riconoscenza. In generale, tutti i negozi di parrucchiere o di cosmetici sono di copertura, servono a mascherare il traffico di ragazze". Ad accompagnarmi in giro per Genova è Claudio Magnabosco, fondatore dell'associazione "Le ragazze di Benin City" e marito di Isoke Aikpitanyi, una ragazza nigeriana vittima di tratta, ridotta in coma quando nel Duemila decise di sottrarsi ai suoi aguzzini. La raggiunsero in un parco a Torino quando era appena fuggita, la circondarono in tre e la picchiarono selvaggiamente finché una signora, attirata dalle urla, non chiamò la polizia. Isoke rimase in coma per tre giorni e le dovettero ricostruire l'arcata sopraccigliare.
L'operazione antitratta. Quello della tratta di esseri umani è un fenomeno di cui non si parla quasi più, come hanno denunciato anche i responsabili di Caritas Immigrazione durante il coordinamento della scorsa settimana: un traffico semiscomparso dalle cronache nostrane. Eppure proprio a gennaio una maxi operazione ha portato a ben 55 arresti, smantellando una rete internazionale che dall'Africa portava migranti in Italia. In manette è finito addirittura un mediatore culturale dell'Ambasciata italiana a Nairobi. Roba da prima pagina. E invece niente. E anche il giro d'affari era di tutto rispetto: circa 25 milioni di euro e proveniva dalla contraffazione dei documenti, dai proventi dei viaggi e dal vero e proprio commercio di persone.
Questione di Pil. In Nigeria, mi spiega Claudio, la tratta di esseri umani copre una percentuale del Prodotto interno lordo nazionale ed è gestita ad altissimi livelli. "Persone vicine alle istituzioni, molto potenti, che non si sporcano direttamente le mani ma gestiscono nell'ombra". E Claudio racconta la vicenda di Isoke: quando la ragazza chiamò i genitori sperando che potessero aiutarla, il padre, un funzionario del Tribunale, dopo qualche giorno le fece sapere che non avrebbe potuto far nulla: le coperture erano troppo potenti. "Si parlava, all'epoca, della moglie del governatore dell'Edo State, ma non ci sono prove".
La prostituzione per fasce orarie. Per tre giorni Claudio mi accompagna a conoscere i vicoli su cui si svolge il traffico delle ragazze dall'Africa e dal Sud America, mi indica gli appartamenti in cui si consumano gli appuntamenti, molti facilmente individuabili da una luce rossa appesa sopra l'ingresso. E non siamo ad Amsterdam ma in vicolo Untoria: "Molte ragazze" racconta "aspettano l'ora della pausa pranzo degli impiegati. La prostituzione, qui come in molte altre città, avviene per fasce orarie. Di mattina trovi le italiane, di pomeriggio le latinoamericane e la sera le nigeriane". Qualche ragazza di origine africana, però, la si incrocia anche di giorno. Aspettano, all'angolo con vicolo dei Droghieri o in vico della Scienza. Un dedalo di viuzze in cui si consuma la prostituzione genovese. Il quartiere della Maddalena, proprio dietro via del Campo.
Le ragazze "girano". "Spesso" prosegue Claudio "le ragazze vengono trasferite. Le Maman le distribuiscono in base alle città, alle esigenze e ai gusti dei clienti. Molte di loro arrivano da Londra e a seconda del miglior offerente vengono smistate in Spagna, Francia, Olanda o Italia. I trafficanti di recente hanno iniziato a farle passare dalla Svezia e dai Paesi scandinavi, dove c'è una percezione minore del problema della tratta di esseri umani". E proprio a Londra, prosegue "Isoke racconta di una busta sostanziosa consegnata alle guardie di frontiera per far passare sette ragazze, evitando qualsiasi controllo". Mentre camminiamo per le vie, una porta di un appartamento al pian terreno si apre, una ragazza lancia verso l'esterno uno sguardo circospetto, ci studia. L'interno è ordinato: un letto, luce soffusa, alcune candele. Passiamo oltre.
La struttura è gerarchica. Al vertice del traffico, personalità nigeriane di alto livello agevolano la tratta e offrono copertura. Subito sotto, le cosiddette Confraternite: gruppi violenti di ragazzi che coadiuvano le Maman nella "gestione" delle donne. Originariamente nate come gruppi universitari di studenti in Nigeria, le Confraternite sono divenute vere e proprie associazioni a delinquere, presenti in molte città italiane ed europee e riconoscibili per il copricapo o per alcuni vestiti con colori e simboli ben precisi, con un machete stampigliato su. Secondo il racconto di Isoke, alcune confraternite sono arrivate addirittura a cercare di gestire i funerali delle ragazze uccise, reclamandone la salma. E poi ci sono le ritorsioni, le aggressioni. Un ragazzo che si rifiutò di sottostare agli ordini della confraternita, alcuni anni fa rischiò l'evirazione a colpi di machete. Elemento di raccordo tra le Confraternite e le Maman sono le cosiddette Londonie, una sorta di esattore - quasi sempre donna - che girano l'Europa per raccogliere il denaro guadagnato dalle Maman. Il sistema, da quello che racconta Isoke, non prevede una "Londonia" per ogni territorio, come si potrebbe credere. Sono le diverse Maman a raggiungere l'esattore quando arriva in Italia. "La Londonia" aggiunge Claudio "è una signora di alta levatura: se deve far finta di essere un ingegnere, nella realtà è ingegnere, con oggettivi motivi per spostarsi nei diversi Paesi in cui va. Ma può essere anche un diplomatico o un funzionario".
Le chiese finte e i pastori conniventi. Strumenti di controllo e raccordo del traffico sono i finti pastori delle chiese pentecostali che si offrono come confidenti delle giovani vittime di tratta ma in realtà collaborano con le Maman che le gestiscono. E una buona parte del condizionamento psicologico lo esercitano i riti wodoo: veri e propri sortilegi funzionali a condizionare la vita delle ragazze. Un sacerdote mette insieme un fagottino con capelli, unghie e sangue della donna, promettendo di restituirlo solo una volta pagato il riscatto. Dalla Nigeria, infatti, si parte con un debito da saldare e una falsa promessa di lavoro in Europa. Ma ci si ritrova in strada.
Il sistema delle Confraternite. "E' importante" prosegue Claudio "anche il linguaggio della tratta: la Maman è tecnicamente la "mamma", poi ci sono le altre ragazze che sono le "sisters", le sorelle, e i ragazzi che vengono chiamati i "brothers", fratelli. Rompere legami e condizionamenti così forti per ragazze semplici e spesso senza istruzione, provenienti dai villaggi, è difficile". E nel caso in cui qualcuna di loro tentasse di fuggire, interverrebbero i "butchers", i macellai, in forza alla Confraternita. Le confraternite più tristemente note sono quelle dei Black Axe, dei Black Eye, Vikings, Bucaneers, Mafia, Black Beret, molte delle quali operano sul territorio italiano in perfetta sincronia con le mafie italiane e straniere, in una pax mafiosa che permette di gestire traffici e ragazze. "Le questioni relative alla tratta - spiega Isoke - vengono sempre gestite sottobanco, non si spara, anche perché la tratta di donne (ove non di bambini) è contro il codice tradizionale delle mafie italiane e quindi non deve in alcun modo emergere che 'Ndrangheta, Camorra o Cosa Nostra si occupano, anche in modo indiretto, di questo tipo di commerci". Certo è impensabile che traffici di questo tipo possano avvenire sul territorio italiano senza che la criminalità organizzata "nostrana" ne sappia niente. Un traffico quotidiano, silenzioso, con scambi di "merce umana" pagata in contanti, picchiatori prezzolati e città e clienti indifferenti.
· Gli anti italiani dimenticano quando gli odiati siamo noi.
Sondaggio, ecco perché gli elettori del Pd sono i veri anti-italiani: come sputano sulla patria, scrive l'8 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Se fosse per gli elettori del Pd, l'identità italiana sarebbe bella che spacciata. Secondo l'ultimo sondaggio di Demos per Repubblica, sono proprio gli elettori dem a non sentirsi più italiani rispetto a quanti invece preferiscono definirsi prima di tutto cittadini dell'Europa e del Mondo. Eppure correva solo l'ottobre 2013 quando i piddini sentivano forte l'appartenenza alla propria città o regione, oltre che all'Italia. A surclassarli nel senso di identità nazionale ci sono ora gli elettori della Lega, che si definiscono prima di tutto italiani per il 31%, più di chi tra loro si definisce innanzitutto cittadino della propria città o regione, comunque il 30%, e del Nord, cioè il 16%. Più variegata l'idea di appartenenza territoriale tra gli elettori del M5s, che si dividono in parti uguali tra chi sente il legame con il proprio territorio fino a chi si sente cittadino europeo e del mondo. Pochi, quasi nessuno di loro, appena il 4%, si è detto orgogliosamente cittadino del Nord.
La dama della fisarmonica che canta le storie degli emigrati italiani. Francesca Gallo ha raccolto (e suonato) in 24 Paesi circa 3mila brani popolari. Dimenticati. Serenella Bettin, Domenica 05/05/2019 su Il Giornale. Ha voluto ricomporre il puzzle della vita studiando il passato, vivendo il presente senza dimenticare il futuro. Questo futuro sempre più incerto. Che fa scappare i figli all'estero e fa morire i nostri mestieri. All'età di ventotto anni è partita varcando le soglie di Canada e Belgio perché voleva recuperare le storie degli italiani migrati nel secondo Dopoguerra all'estero. E infatti c'è riuscita. Lei è Francesca Gallo, 43 anni di Treviso. Diplomata in canto lirico al Conservatorio, studia fisarmonica fin da bambina. Il padre aveva una bottega di fisarmoniche che ora lei ha in gestione, il Galliano & Ploner, Galliano dal padre Luciano Gallo e Ploner il marchio più antico italiano. È l'unica bottega in Italia che realizzi fisarmoniche fatte a mano. Francesca sceglie con cura il proprio legno, lo va a prendere nei boschi, stando fuori settimane. Arriviamo in quel suo «eremo», lungo il Sile dove, appena chiusa la porta e lasciato il mondo fuori, si apre un altro mondo. Quello di chi crede nella tradizione, di chi lavora con le mani, di chi cura i dettagli e le sfumature. Quello che un prodotto non sarà mai uguale all'altro perché è un pezzo. Un pezzo unico. Il profumo del legno appena raccolto ci inonda le narici, dopo qualche ora, quel profumo diventa tutt'uno con la stanza. Appese alle pareti ci stanno gli attrezzi di Francesca: cacciaviti e martelli. Tutti divisi per misure. E poi ci sta una foto. Di lei bambina che la ritrae mentre contempla il padre al lavoro. Accanto ci sta una lavagnetta con scritto: «Tradizione è custodia del fuoco, non venerazione della cenere», una frase del compositore Gustav Mahler. Francesca quella bottega ce l'ha da otto anni. Per realizzare una fisarmonica ci vogliono dalle 450 alle 500 ore. E per lei la fisarmonica è lo strumento che la porta dove vuole arrivare. Quando è partita per il Canada e il Belgio, ne ha una fatta in legno di pero. Realizzata con il padre, della stessa misura dei bagagli a mano dei voli intercontinentali. Grazie a quella, in giro per il mondo per otto mesi si è guadagnata da vivere e ha raccolto canti popolari e storie di italiani che dal Polesine alla Dalmazia un giorno sono partiti. Ha un archivio di oltre 3000 canti tradizionali che ora porta in giro per il mondo: 1400 concerti in 24 Paesi. Una «straccivendola d'anime», ama definirsi. Perché ha sempre sostenuto che mancasse un pezzo, che la Storia è fatta di tante piccole storie. «Gli italiani che se ne sono andati - racconta al Giornale - si sono portati via la memoria storica dei canti che servono a capire e ricostruire la storia. Tutto parte da un'identità profonda che è la mia, la nostra, con questa trasformazione che da 70 anni ha cambiato completamente l'Italia. I nostri figli scappano all'estero, gli italiani emigrati sono di più degli stranieri che arrivano. C'è un'altra Italia nel mondo. Dove vogliamo andare?». Una domanda che lei ripete sempre guardandosi attorno in quella bottega che per il fatto di esistere le costa migliaia di euro l'anno. Ma non può tenere nessuno, non può insegnare il mestiere a nessuno, perché la legge non glielo permette. «Troppe spese - spiega lei che è assessore uscente, non ricandidato, di un comune della Marca - troppa burocrazia. Le cose semplici diventano difficili. Mi piacerebbe che tutto questo non si perdesse, ma come si fa? Come si fa a mantenere in vita l'artigianato se non te lo permettono? Come si fa se per insegnare a una persona dovrei fermare la produzione? Questo mestiere, lo si impara vivendolo, osservando, scrutando». Già, con quegli stessi occhi di lei bambina che sono quegli occhi di lei adulta con cui ora, dice: «Leggo il passato, vivo il presente e progetto il futuro. Perché una freccia con l'arco, prima la tiri indietro e poi la lanci in avanti».
LE RADICI SI CANTANO. Stefano Pistolini per “il Venerdì - la Repubblica” l'8 aprile 2019. Una volta eravamo gli ultimi. Gli intrusi. I poco desiderati. Gli italiani. Emigranti, a colpi di navi ricolme di anime in cerca d'opportunità. Più o meno come sarebbe successo nel Mediterraneo a inizio XXI secolo. Andavamo, lavoravamo, ci ambientavamo e, appena possibile, cantavamo e recitavamo, dando fondo a un repertorio nostrano, organico - almeno così dice la vulgata. Per vocazione, per consolarci, per guadagnare qualche soldo, abbiamo cominciato a gorgheggiare in una lingua che ancora stavamo imparando. Cantavano a squarciagola gli italiani d'America, e quanto sono piaciuti subito! Più tardi, quando la musica leggera diventerà il luogo comune dello svago e la colonna sonora degli amori e delle emozioni, gli italoamericani sono già una comunità rispettata e potente. Motivo per cui la storia della nostra canzone da immigrati - gli immigrati prima generazione e poi i mezzosangue - è un antefatto esemplare di ciò che accade adesso sulle nostre amate sponde, secondo il più vichiano dei ricorsi. Ma se ci si vuole spingere a un confronto tra queste due saghe di contaminazione musicale/culturale - gli italiani in America lungo il Novecento e i nuovi arrivati o nati nell'Italia del XXI secolo - e dei diversi percorsi di penetrazione nella locale industria dello spettacolo, salta all'occhio un'evidenza: gli emigranti italiani, nei loro tentativi di costruirsi una credibilità artistica oltreoceano (sovente coronati da successo), nella quasi totalità dei casi rinunciarono al fattore di "italianità", ovvero al repertorio di tradizioni, citazioni e memorie di un patrimonio ormai già lontano. La loro capacità d' integrazione e mimetismo in tutti i comparti del mondo musicale li distingue, ad esempio, da quanto avviene parallelamente in campo cinematografico (da Rudolph Valentino e Frank Capra, giù fino a Scorsese, Coppola e DeNiro) e da quanto sta capitando da noi adesso, dove la scena rap, divenuta nel frattempo mainstream nazionale, s'è popolata di una moltitudine di giovani figli di immigrati con in testa un preciso valore di rivendicazione culturale. Il peso specifico della ribollente America del XX secolo convinse coloro che tentavano la carta del fare musica ad assoggettarsi alle regole del gioco. Basta scorrere i nomi che per primi arrivarono alla fama nel secondo dopoguerra, mentre il Pianeta impazziva per il lifestyle a stelle e strisce: Frank Sinatra e Dean Martin (Dino Paul Crocetti), Perry Como e Frankie Laine (Franco Lo Vecchio), e più tardi Tony Bennett (Anthony Dominick Benedetto) e Liza Minnelli, conquistano l'America suonando americano e lasciando vaga, sullo sfondo, la risonanza di un' origine mediterranea, della terra dei latin lovers e delle vacanze romane. La regola sarà sempre la stessa: un accenno di romantico orgoglio alle radici italiane nel corso delle interviste, ma nessuna concessione alla nostalgia. Quando si tratterà di rispolverare 'O Sole mio in salsa beguine, a farlo non sarà un figlio d' Italia, ma un giovanotto di stirpe irlandese come Elvis Presley. Stesso discorso per gli italoamericani del rock' n'roll, ragazzi cresciuti a spaghetti e polpette, che coi loro ciuffi impomatati saranno in prima fila nel boom american graffiti: Vic Damone e Bobby Darin (Walden Robert Cassotto), Connie Francis (Concetta Rosa Maria Franconeri) e Frankie Avalon (Francis Thomas Avallone). Del resto, la terra dove sono venuti al mondo prevede poche variazioni sul tema: il sogno americano è uno solo per tutti e non c'è spazio per chi guardi altrove. Anche quando arriva il momento dei cantautori, le cose vanno nella stessa direzione: Jim Croce e Laura Nyro (Nigro) e, più tardi, Ani DiFranco o Alicia Keys (Augello), cantano le storie americane di chi ha scoperto quel Paese e ci si è identificato fino al midollo. E pensare che anche a casa Springsteen c'è tanta Italia, attorno al giovane Bruce, figlio di mamma italiana: Adele Zirilli. Quando si calerà nei panni del Boss, la sua Italia Bruce la troverà negli amici come Little Steven, o nella compagna della vita, Patti Scialfa. Eppure l'humus della sua poetica saranno sempre i sogni infranti nel desolato New Jersey. Lo stesso Stato, zeppo di paisà, dove Richie Sambora e Jon Bon Jovi (Bongiovi) mettono su una delle band più iconiche del classic rock americano, un genere nel quale ci s'imbatte spesso in echi italiani. Basta scorrere i cognomi dei membri delle band: i fratelli Porcaro dei Toto, ad esempio, o gli Aerosmith, fondati da due ragazzotti con sangue nostrano nelle vene, come Joe Perry e Steven Tyler (Tallarico). E suonano italiani i cognomi di John Frusciante (Red Hot Chili Peppers), Tom Morello (Rage Against the Machine), Gwen Stefani (No Doubt), Peter Criss (Peter Criscuola, il batterista dei Kiss). Fino al più eccentrico e misterioso di tutti: Frank Zappa, dotato di tanta identità italiana nella vita, quanto esotericamente legato alle radici più sofisticate della musica Usa, a cominciare dal jazz (a proposito, leggenda vuole che uno degli iniziatori del jazz a New Orleans sia il figlio di due siciliani: Nick La Rocca). Intanto Henry Mancini e Angelo Badalamenti scrivevano per Hollywood dimenticandosi del tutto di Cinecittà e il discorso non cambia osservando le superstar che prenderanno a dominare le classifiche di vendita: Madonna (Louise Veronica Ciccone) e Lady Gaga (Stefani Joanne Angelina Germanotta), e poi Ariana Grande e Demi Lovato, sono ragazze italiane, però cresciute immerse in una cultura diversa. Se le si osserva oltre la superficie, si scoprono gli indizi di un modo d'essere che conosciamo bene. Ma, alla fine, il loro sentirsi italiane non va oltre qualche dichiarazione durante le tournée, o qualche gesto a effetto. La sottomissione di una cultura nei confronti di un'altra è dettata da fattori commerciali e viene accettata come status quo. Lo impone la stessa natura del progetto americano: gente da tutti gli angoli del pianeta, unita nella produzione di una nuova cultura comune. In tempi recenti, la globalizzazione sarà lo step successivo dell'omologazione. A cui oggi, qui da noi, qualcuno evidentemente sta provando a sottrarsi, difendendo la prevalenza di un' identità originale, a cominciare dalle parole che si cantano o si rappano. Un passo avanti, rispetto a ciò che è capitato in America. Dove nemmeno ai grandi trasgressori musicali sarebbe mai venuto in mente di ricordare da dove venivano - se è vero che Steve Albini, il pigmalione dei Nirvana, era un italiano innamorato del cappuccino e che è italiano Lee Ranaldo, il fondatore dei rivoluzionari Sonic Youth. Perfino Johnny Thunders, il più perverso dei New York Dolls che scandalizzarono la New York anni 70, in realtà si chiamava John Anthony Genzale, ed era il figlio d' una coppia di Avellino, sbarcata nel Queens a cercar fortuna.
Brasile, quando i migranti italiani sostituirono gli schiavi: viaggio nel centro di accoglienza di San Paolo. Mario Di Ciommo su Repubblica Tv il 9 ottobre 2019. San Paolo, in Brasile, è la metropoli più grande dell'emisfero australe. Non solo, si tratta anche del centro economico più sviluppato del Sud del mondo, oltre a essere la stella polare dell'America Latina. Una megalopoli che conta più di dodici milioni di abitanti nella sola area urbana. Eppure solo 150 anni fa San Paolo era un piccolo centro. "L'arrivo di un'enorme quantità di migranti ha cambiato e modellato la città", dice Angélica Beghini, storica a capo del nucleo di ricerca del Museo dell'Immigrazione di San Paolo. La maggior parte di questi migranti era di nazionalità italiana. "Sbarcavano nel porto di Santos e poi arrivavano nel centro di accoglienza direttamente in treno. Prima di imbarcarsi molti aveva già firmato un contratto di lavoro qui. Dopo l'abolizione della schiavitù, il governo brasiliano aveva organizzato una grande macchina di propaganda volta ad attrarre nuova manodopera per sostituire gli schiavi. I nuovi lavoratori dovevano essere preferibilmente bianchi ed europei. Per questo il 'reclutamento' cominciava già dall'altra parte dell'emisfero", continua Beghini. Gli italiani arrivarono in massa a San Paolo, tanto che oggi più o meno un paulistano su tre ha origini italiane. Il loro arrivo ha plasmato la città non solo da un punto di vista economico, ma anche da un punto di vista socio-culturale contrinuendo alla crescita della centro più importante dell'emisfero Sud.
La tragedia di Marcinelle, quando i migranti eravamo noi. Su Rai Storia, il documentario «Memorie dal sottosuolo» ricorda il disastro in cui morirono 262 persone: 136 erano emigranti italiani 9 agosto 2018 Aldo Grasso su Il Corriere della Sera. In occasione del 62° anniversario della tragedia di Marcinelle, Rai Storia ha riproposto il documentario «Marcinelle Memorie dal sottosuolo» di Giuseppe Giannotti e una puntata di «Passato e Presente»di Paolo Mieli, ospite la professoressa Silvia Salvatici. L’8 agosto 1956 a Marcinelle, nel Belgio sud-occidentale, un pozzo divenuto tristemente famoso, il Bois du Casier, va in fiamme per un errore umano e non dà scampo a quei poveretti che si trovavano là sotto a estrarre carbone. Trattati come cani, o quasi (agli italiani erano vietato entrare nei bar), usati come merce di scambio, ai minatori italiani non restava che il riscatto della fatica e della morte. Le operazioni di salvataggio si protrassero fino al 23 agosto, quando uno dei soccorritori diede l’annuncio, in italiano: «Tutti cadaveri». In Italia, in quegli anni, le risorse di carbone erano agli sgoccioli, le potenze vincitrici le lesinavano agli sconfitti e la nostra produzione era pressoché nulla. Nel ‘46 i belgi, ricchi di carbone, non volevano fare il lavoro del minatore, coscienti dei pericoli delle miniere. Il governo belga decise quindi di importare manodopera dall’estero, e molti furono gli italiani a partire in cerca di fortuna: «Imparate le lingue e andate all’estero», diceva De Gasperi quando gli veniva prospettato il problema della disoccupazione. L’emigrazione era anche un modo per «esportare» i poveri. Il 23 giugno del 1946 viene siglato un protocollo d’intesa tra il governo italiano e quello belga che prevede il trasferimento di cinquantamila minatori italiani in Belgio, in cambio di duemilacinquecento tonnellate di carbone ogni mille minatori. Non era facile la vita lassù, anche perché i problemi continuavano anche dopo il lavoro. Gli operai italiani, infatti, non venivano visti bene dalla popolazione belga e venivano chiamati «fascisti», «sporchi maccaroni». Vale la pena ricordare queste amarezze.
Francesco, il minatore seppellito tra i 17 «unconnus» di Marcinelle: «Ridiamogli l’identità con il Dna». Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 su Corriere.it. «Papà? Lo vidi due volte. La prima neanche la ricordo. Della seconda rammento qualcosa, senza nitidezza. Avevo quattro anni e lui mi teneva in braccio. Era un uomo massiccio, il volto onesto. Abbiamo una foto di quel giorno: lui è dietro di me, mi appoggia il braccio sulla spalla... Poi non l’ho più visto. Tornò in Belgio, a Marcinelle. E fu inghiottito in quella sciagura che costò la vita a 262 minatori, 136 dei quali italiani». Michele Cicora oggi ha 67 anni. È l’ultimo di sette fratelli ed l’unico tra loro a essersi laureato. Originario di San Giuliano di Puglia (in Molise, provincia di Campobasso: è il paese che dove nel 2002 morirono 27 bambini nel crollo di una scuola per via di una scossa di terremoto), vive da molto tempo a Londra dove insegna italiano in una prestigiosa scuola. Di suo papà Francesco sa poco. Sa quello che gli hanno raccontato la madre e i fratelli: «Era duro, ma era anche dolce, solido. Un testardo molisano...». Sa che è seppellito a Marcinelle e che riposa tra quelle diciassette tombe rimaste senza nome.
Minatori sconosciuti. O meglio: i loro nomi sono noti. Ma non c’è mai stato un riconoscimento ufficiale. «I corpi erano straziati, carbonizzati, irriconoscibili: impossibile definirne l’identità. Che mio padre fosse certamente tra le vittime lo abbiamo saputo grazie alla testimonianza della signora che gli affittava il misero alloggio in cui dimorava. La donna riconobbe una scarpa e il disegno della camicia che indossava quel giorno. Nient’altro». L’insegnante di recente ha scritto ai governi di Italia e Belgio. «Ho indirizzato loro la richiesta di realizzare una mia idea maturata poco a poco. Vorrei un test sul Dna di quei diciassette rimasti senza nome. Un test su tutti loro per dargli un nome e restituirgli una tomba. All’epoca della sciagura non esisteva la possibilità, ma oggi l’individuazione delle generalità sarebbe molto semplice. Sono in contatto con altri familiari delle vittime: siamo d’accordo. Basta volerlo. Sarebbe un gesto per loro. Ma anche di riconciliazione con la nostra memoria. Con la memoria condivisa dell’Europa». Quello che accadde a Marcinelle è scolpito nella nostra storia recente. Sono le 8 e 10 dell’8 agosto 1956. Nella miniera di Bois du Cazier, appena fuori dall’abitato, un montacarichi sistemato su vagoncino per il trasporto del carbone, forse azionato malamente, urta una trave d’acciaio tranciando una conduttura d’olio, un cavo dell’alta tensione e un tubo dell’aria compressa. Un combinato disposto letale. Le scintille sprigionate finiscono su 800 litri d’olio in polvere che prendono fuoco all’istante. Le fiamme divampano velocissime nei vari piani del reticolo di gallerie a circa 1000 metri di profondità. Dove i minatori muoiono soffocati e a salvarsi saranno soltanto in dodici. Nei due processi che ne seguiranno, verrà condannata una sola persona, un ingegnere. In ricordo della tragedia, oggi la miniera di Bois du Cazier è patrimonio Unesco. Il professor Cicora inquadra quella sciagura che afflisse più di tutti l’Italia. «Tra il 1946 e il 1956 più di 140mila italiani varcarono le Alpi — racconta — per andare a lavorare nelle miniere di carbone della Vallonia».Era il prezzo di un accordo tra Italia e Belgio che prevedeva un gigantesco baratto: noi mandavano in Vallonia due mila minatori a settimana e Bruxelles inviava 200 chili di carbone al giorno per ogni lavoratore a cui venivano promessi alloggi, buone paghe. «Ma che in realtà vivevano in baracche di lamiera, addirittura quelle dello stesso stalag in cui i tedeschi durante la guerra tenevano prigionieri, in condizioni disumane, i prigionieri russi» usati come schiavi dall’organizzazione Todt, il colossale apparato nazista che si occupava di reperire braccia per i lavori necessari allo sforzo bellico.
Quando Francesco Cicora partì per il Belgio aveva quarant’anni. Prima del conflitto, giovinetto, era stato in Africa orientale, aveva spaccato pietre per costruire strade in Eritrea e in Etiopia. Con l’Italia in ginocchio per le conseguenze della guerra, nel 1952 scelse di emigrare a Marcinelle come tanti altri avevano già fatto da San Giuliano. Francesco intanto si era sposato con Maria e i figli da mantenere erano sette. II professore elenca i nomi di tutti i fratelli: «Giuseppina, casalinga; Luigi, meccanico; Mario, emigrato in Venezuela; Aurelio, noleggiatore di auto; Ilda, commerciante; Dante, bancario a Milano, la città dove io mi sono laureato. E che lasciai per Londra, raggiunta durante un soggiorno di studio e dove sono rimasto insegnando italiano nelle scuole».
Marcinelle, la sua storia e la ricerca della memoria del padre hanno segnato la vita di Francesco. «Sono stato al Bois du Cazier decine di volte. Ho fatto ricerche, ho consultato e consulto archivi: studio, mi aggiorno, rifletto, scrivo». Ma soprattutto Francesco ha sostato ore ed ore davanti alle diciassette tombe dei minatori senza nome, deposte in un angolo verde e curato di questo monumento a cielo aperto che è la vecchia miniera. Sorride malinconico: «Non so dove sia mio padre. Non so dove deporre i fiori. E allora i fiori li lascio su tutte le pietre». Su cui c’è scritto «Unconnu», sconosciuto. L’effetto nel guardare queste grosse pietre è lo stesso, lacerante, che si prova davanti a Redipuglia e davanti a tutti i sacrari che ricordano le vittime delle guerre europee, da Ypres al Carso e poi scendendo giù: Anzio, Salerno, Montecassino, El Alamein. Le foto esposte nelle sale sono angoscianti e stringono lo stomaco. I «clic» sono nello stesso bianco e nero di quelle che ritraggono i campi di sterminio e i «block», le baracche in cui erano stipati i deportati . C’è anche quella, celeberrima, in cui i nostri minatori sono ammassati in letti accatastati l’uno sull’altro come in un alveare. Volti smagriti, sguardi impauriti.
La richiesta del riconoscimento tramite Dna è stata inoltrata sia al governo italiano che a quello belga. «Il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, è informato dell’iniziativa. Voglio ridare dignità ai tutti loro: credo glielo debbano tanto l’Italia quanto il Belgio. E poi ci tengo a dirlo: là sotto, in quella miniera, c’era un pezzo d’Europa. Trovare nome e cognome sarebbe un modo per abbracciarci ancora, tutti...». (Il professor Cicora telefona a Corriere.it dopo essere uscito dalla scuola. Insegna a ragazzi di tanti paesi. «Un lavoro che mi entusiasma», racconta. Prima di accomiatarsi pronuncia una richiesta «a cui tengo tantissimo. Vorrei che nell’eventuale articolo del Corriere fossero pubblicati i nomi degli altri sedici minatori rimasti senza riconoscimento ufficiale». Michele li ricorda a memoria e non ha neanche bisogno di leggerli: «Pietro Basso, Pompeo Bruno, Rocco Ceccomancini, Edmondo Cirone, Eligio Di Donato, Dante Di Quilnio, Pasquale Ferrante. Michele Granata, Francesco Martinelli, Secondo Petronio, Eduardo Romasco, François Allard, Oscar Pellegrims, Reinhold Heller, Ammar Belamri, Nikolaos Katsikis». Degli «unconnus», dodici sono italiani (in gran parte abruzzesi e molisani), uno è del Belgio, un altro è tedesco e poi ci sono un francese, un algerino e un greco.)
L'Italia in crisi? Perché non sa chi era Mr Giannini. Pubblichiamo il discorso che il giornalista e scrittore Davide Giacalone ha tenuto di recente presso la Fondazione Luigi Einaudi. Davide Giacalone, Venerdì 12/07/2019, su Il Giornale. Adesso vi mostro due foto di due personaggi. Qualcuno riconosce questo signore? No? Non preoccupatevi, non lo conosce nessuno. Quello successivo lo riconoscete di certo, è il famoso don Vito Corleone, frutto della fantasia di Mario Puzo e poi naturalmente del film Il Padrino di Francis Ford Coppola.
Amedeo Peter Giannini come il padrino di Marlon Brando. Lo conoscono in tutto il mondo, se dici mafia-Vito Corleone tutti sanno di che si tratta. Il primo, che nessuno conosce, si chiama invece Amadeo Peter Giannini e non è un personaggio della fantasia, è un signore veramente esistito, è un italiano che come don Vito Corleone emigrò negli Stati Uniti. Solo che, piccolo dettaglio, don Vito Corleone è un delinquente assassino, ladro e spacciatore mentre Amadeo Peter Giannini era una persona perbene, andato negli Stati Uniti con la famiglia in cerca di fortuna partendo piccolissimo dalla Liguria con meta San Francisco. Il padre aveva una attività di ortofrutta: coltivava l'orto e rivendeva i prodotti su un carretto. Quando Amadeo aveva sette anni vide uccidere il padre con un colpo di pistola perché c'era un signore che gli doveva un dollaro che non voleva restituirgli. Nacque una discussione e finì in tragedia. La madre, che aveva due figli, si risposò con un altro bravo cristiano, italiano emigrante pure lui che si prese sulle spalle la famiglia e l'attività di ortofrutta. Amadeo studiò economia e quando si laureò andò a lavorare in banca. Dopo sei mesi si licenziò e disse: io non posso stare in questa banca perché voi non sapete fare la banca, voi prestate soldi ai ricchi convinti che i ricchi vi restituiscano più facilmente i soldi quando invece in un Paese in cui si muore per un dollaro i soldi vanno prestati ai poveri perché solo i poveri si faranno ammazzare pur di restituirli. E fondò una banca, Amadeo Peter Giannini, cosa che dovrebbe fare venire i brividi agli italiani se solo lo sapessero, nelle vicinanze di San Francisco andare in centro gli sarebbe costato troppo e la chiamò Bank of Italy. Amadeo Peter Giannini avviò la sua piccola attività ma nel frattempo arrivò il terremoto di San Francisco. All'epoca le banche avevano un modello di affari tipo quello che avete visto nei film western quando il messicano con la dinamite fa saltare la cassaforte con dentro i lingotti, allora l'unico patrimonio della banca. Quando arriva il terremoto le banche hanno un solo problema: recuperare i lingotti dal macello. Amadeo aveva tre lingotti, riuscì a scovarli tra le macerie e se li portò via sul carretto dell'ortofrutta nascosti sotto le zucchine. Andò al porto di San Francisco e mise su un banchetto su cui affisse un cartello con scritto: «Si prestano soldi come prima e più di prima». Immediatamente davanti al banchetto si creò la fila, tutta gente che lui conosceva perché erano gli amici suoi e dei genitori, cioè emigranti italiani e irlandesi. Nel 1929 iniziò la grande crisi, le banche smisero di prestare soldi ma non la sua: «Questa sostenne è una occasione straordinaria per prestare soldi». Un ingegnere italiano che era rimasto disoccupato andò da lui e gli disse: guarda, io non potrò più fare l'ingegnere, vorrei fare cinema in un modo diverso. Si chiamava Frank Capra e gli portò un attore piccolo di statura e con i baffetti che era appena appena famoso nei locali della zona. Gli disse: vogliamo fare un film sulla grande depressione con un bambino povero che chiede l'elemosina, ma non sarà una cosa triste perché farà ridere e avrà un lieto fine. Giannini finanziò l'impresa: l'attore sconosciuto si chiamava Charlie Chaplin, il titolo scelto per il film Il Monello. Fu un trionfo. Subito dopo bussò con successo alla sua porta anche tale Walt Disney, un produttore che voleva buttarsi nell'avventura dei cartoni animati. E così nacque Topolino. Ma il suo capolavoro Giannini lo fece quando arrivarono da lui due ingegneri con un progetto folle: costruire un ponte per unire le due estremità della baia di San Francisco senza usare neppure un mattone. Avevano bussato a tante porte ma nessuno si era reso disponibile a finanziare l'impresa. Amadeo gli prestò i soldi, non volle interessi ma pose la condizione che a lavorare dovevano essere gli uomini di San Francisco, cioè quelli a cui lui aveva già prestato soldi al motto di «come prima più di prima». Giannini, creando lavoro in loco si garantì così la restituzione dei capitali e nacque il Golden Gate che ancora oggi è il simbolo di San Francisco. Questo signore a quel punto si pose il problema che la banca, un po' cresciutella, non poteva continuare a chiamarsi Bank of Italy. E così gli cambiò nome. In quel momento Amadeo Peter Giannini, emigrante italiano, fondava quella che sarebbe presto diventata la più grande banca del mondo, la Bank of America. A San Francisco, nel financial district c'è una piazza intitolata ad Amadeo Peter Giannini, c'è un monumento in memoria di Amadeo Peter Giannini. Nel nostro Paese ci fosse un vicolo intitolato ad Amadeo Peter Giannini. Niente di niente. Sappiamo tutti chi è don Vito Corleone e ne siamo anche in qualche modo orgogliosi, pure se non capisco come si possa essere orgogliosi di un delinquente, ma nessuno di noi sa chi è Amadeo Peter Giannini. Quando vi chiedete come fa l'Italia a essere un Paese che ha un motore produttivo così importante da essere la seconda potenza industriale d'Europa, che fa numeri da capogiro ma che al tempo stesso ha il più alto debito pubblico del mondo e una classe dirigente che effettivamente fa abbastanza schifo, la risposta è: questo è un Paese che ama parlare di don Vito Corleone e si dimentica di Amadeo Peter Giannini. Un Paese così che detesta e ignora il meglio di se stesso non può che mettere in scena il peggio di se stesso praticamente in ogni circostanza.
Perché Papa Bergoglio non parla? Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da L'Opinione della Libertà. Alla lunga lista degli stati che stanno rinnegando il “Columbus day” e deturpando le statue in onore di Cristoforo Colombo, considerato un genocida, si aggiunge il New Mexico. Cosa c’entra il navigatore con il Nord America? Come si permettono gli americani, che hanno fatto strage degli Indiani, di cercare di lavarsi la coscienza accusando un uomo appartenuto ad un “altro mondo” e ad altri costumi? E soprattutto perché a questo punto papa Bergoglio non parla? Perché lui, così loquace, che è venuto dalla “fine del mondo” non difende l’uomo che andò (non fu il primo, ma il definitivo, solo con lui l’ecumene cambiò) come legato del Vaticano “alla fine del mondo”? Lo sa il pontefice che ha ispirato il suo pontificato a santo Francesco che Cristoforo Colombo, quando fu messo in catene ed in morte, indossò il saio francescano? E che al convento della Rabida per anni in Spagna si accompagnò ai francescani spirituali, quelli che volevano un ritorno alla chiesa delle origini, sulla base delle profezie dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore, di “spirito profetico dotato”, come scrive Dante? Perché si aprisse il tempo dello Spirito Santo? Lo sanno che il navigatore scrisse con un monaco certosino un “Libro delle Profezie”, che è anche una raccolta di salmi? Lo sanno in Vaticano che due papi come Pio IX e Leone XIII hanno cercato di farlo santo contro ogni regola data l’”eccezionalità” del personaggio. Pio IX scriveva quando “si conosceranno i veri documenti …”. Leone XIII in una lettera enciclica mai fatta nei confronti di qualcuno che non fosse già santo scrisse “Colombo è nostro quello che ha fatto lo ha fatto per la Chiesa …”. Lo sanno che Colombo è annoverato nell’elenco di santi e beati come “servo di Dio”? E lo sa la Chiesa che perfino il famigerato Borgia, che contribuì a cambiare la storia, per tramandare “la barzelletta d’antiquariato,” alla quale ancora si crede, si rivolse a Colombo come “al diletto figlio nostro”? Lo sanno che si scrisse con ben tre pontefici? E perché i suoi ritratti furono commissionati in gran parte da uomini di Chiesa? Perché dovunque approdava piantava una croce dopo essere partito in nome della Santissima Trinità sulla nave dal nome Santa Maria? Mentre le sue lettere erano contrassegnate da un’invocazione religiosa: Iesus cum Maria sit nobis in via. Lo sanno che l’intento primario dell’Ammiraglio era quello di riconquistare Gerusalemme e il Santo Sepolcro in mano agli infedeli? Perché Bartolomeo de Las Casas, l’apostolo delle Indie e contemporaneo del navigatore, scriveva che Colombo andava a fondare “una Chiesa nuova”? Ma soprattutto la sua firma, il suo identikit. Un criptogramnma misterico di sette (!) lettere maiuscole a forma di triangolo, come l’occhio di Dio, che terminano con un Xpo Ferens, ovvero “Portatore di Cristo”. Precedute da una X una M e Y. Poiché Colombo come Dante afferma che chi sa leggere e scrivere lo fa in quattro modi diversi (alla faccia del marinaretto ignorante!) quella sigla deve avere quattro differenti interpretazioni. Una la offriamo noi: ovvero Cristo, Maometto, Yaweh, visto che il navigatore afferma più volte che “lo Spirito Santo è presente in cristiani musulmani ed ebrei e in qualunque altra setta”. Un uomo complesso, di una cultura profonda, un uomo universale, l’esempio vivente dell’uomo vitruviano di Leonardo. Ora questo “figlio della Chiesa” viene insultato e sbeffeggiato ovunque nelle Americhe. È recente la decapitazione di una statua a New York. Sul nostro sito ruggeromarino-cristoforocolombo.com, alla voce Notizie, si possono trovare almeno altri dieci episodi più o meno analoghi in un virus che è un festival dell’ignoranza e dell’imbecillità. Un orgasmo da talebani. Al quale l’”Osservatore romano” avrebbe il dovere di rispondere, senza lasciare un eroe della fede in balia di esaltati, che non hanno letto o studiato niente, ma che ripetono a pappagallo idiozie senza senso, facendo stupro della verità. O si tratta di un piano studiato a tavolino? Statue divelte, imbrattate di sangue, coperte di scritte irriverenti. Persino grazie alla Kirchner, sotto il suggerimento di quell’uomo “colto” di Chavez, la grande statua a Buenos Aires è stata tolta dall’avenida principale davanti alla Casa Rosada. Quali le colpe di Colombo? “…E sono molto ben fatti e di bellissimi corpi e di bei sembianti .. e credo che facilmente si farebbero cristiani convertendosi alla nostra Santa Fede con l’amore e non con la forza … perché è gente di buon intendimento … io non permisi che si toccasse cosa neanche del valore di uno spillo …”. Queste le prime parole all’incontro con gli indios: è l’amore di cui parlava San Francesco, mentre le prime isole diventano San Salvador e Santa Maria de la Conception. Certo il navigatore è un uomo d’armi, un cavaliere, “buono con i buoni cattivo con i cattivi” come voleva San Bernardo di Chiaravalle, il “patrono” dei Templari: laddove viene accolto da selvaggi bellicosi (solo i cannibali) la sua risposta è quella di un milite, di un esponente di quegli ordini cavallereschi, probabilmente il Santo Sepolcro (hanno chiesto a loro volta la beatificazione di Colombo, perché anche loro tacciono?) con eredità templari, come attesta la croce sulle vele, in una xilografia del 1493. Ma il navigatore resta il migliore di quanti andarono al punto che gli spagnoli lo accusarono di punire gli hidalgos invece degli indiani. Mentre al ritorno da uno dei quattro viaggi, scarseggiando il cibo i marinai gli suggerirono di buttare a mare gli indigeni o di sfamarsi con le loro carni. Colombo si oppose evitando il massacro. Il capitolo schiavitù fa capo soprattutto ai reali di Spagna. Ma se non si contestualizza questo aspetto significa violentare le vicende storiche nella totale impreparazione. La legge non vietava la schiavitù, anche Las Casas, il difensore degli indios, aveva schiavi. E suggeriva di sostituire agli indios i neri, considerati più forti. Oggi in un tempo in cui si parla di diritti umani la schiavitù è vietata, ma prolifera ovunque. Colombo non fu uno stragista e tanto meno uno schiavista, dovette però adeguarsi ad una situazione totalmente mutata con la morte di papa Innocenzo VIII, Giovanni Battista Cybo, il genovese dai molti figli e consuocero di Lorenzo il Magnifico, al quale succedette quel “gentleman” dello spagnolo Borgia, che concesse tutte le terre “rivelate” (le carte erano nella biblioteca vaticana e pare provenissero da documenti sopravvissuti alla biblioteca di Alessandria) alle corone di Spagna. Mentre si cercò di cancellare papa Cybo, che fu il vero “sponsor” dell’operazione America, ma la cui tomba è ancora in San Pietro (unica traslata dalla vecchia basilica costantiniana in un omaggio singolare) con una scritta dove si legge “Nel tempo del suo pontificato la gloria della scoperta di un Nuovo Mondo”. Prima del 1492! Papa Cybo-Colombo: un legame talmente stretto da fare pensare che possano essere padre e figlio. Innocenzo VIII ne aveva due riconosciuti, uno dei quali sposò la figlia di Lorenzo il Magnifico, e molti altri (circa una decina) rimasti nell’ombra. Al punto che sulla statua di Pasquino qualcuno scrisse “Abbiamo finalmente il padre di Roma”. Colombo al nord significa figlio dello Spirito Santo. Una storia insomma completamente da riscrivere, nella speranza, come invoca il navigatore che “io non sia confuso in eterno … perché la verità trionfa sempre”.
È il Columbus Day (ma anche Washington condanna Colombo come «sanguinoso oppressore»). Pubblicato lunedì, 14 ottobre 2019 da Corriere.it. Oggi negli Stati Uniti si festeggia il Columbus Day, l’anniversario della scoperta dell’America, il 12 ottobre 1492 (per convenzione la festa è fissata nel secondo lunedì del mese). Ma da diversi anni la celebrazione è insidiata da un movimento di opinione e politico che considera l’esploratore Cristoforo Colombo alla stregua di un sanguinoso oppressore dei nativi americani. Almeno un centinaio di città ha già sostituito il «Columbus Day» con l’Indigenous Day. Da quest’anno si allinea anche Washington, la capitale degli Stati Uniti. Il Consiglio comunale ha passato la risoluzione che la sindaca Muriel Bowser ha subito firmato. Resiste, invece, New York: ieri l’ambasciatore italiano Armando Varricchio ha deposto dei fiori sotto la statua del grande navigatore in Columbus Circle. Sul «New York Times» Bren Staples ricorda come il Columbus Day fu istituito nel 1892 dal presidente Benjamin Harrison per ricucire lo strappo diplomatico con il governo italiano, dopo che a New Orleans furono linciati 11 italo-americani ingiustamente accusati di aver partecipato all’omicidio del capo della polizia David Hennessy.
Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 15 ottobre 2019. La prima cosa che si vede uscendo dalla Union Station di Washington e il monumento a Cristoforo Colombo. La «Columbus Fountain» fu inaugurata l’8 giugno del 1912 dal presidente repubblicano William Taft, dopo tre giorni di celebrazioni e sfilate militari. Il blocco di marmo e composto da tre figure. Sul piedistallo piu alto il grande navigatore genovese, ai suoi lati un anziano e un giovane nativo americano: simboli del «Vecchio» e del «Nuovo» emisfero. Sull’iscrizione si legge: «Alla memoria di Cristoforo Colombo, la cui fede elevata e l’indomito coraggio hanno dato all’umanita un nuovo mondo». Il Columbus Day si festeggia negli Stati Uniti il secondo lunedi di questo mese, per commemorare il 12 ottobre 1492, quando Colombo tocco terra nell’Isola di San Salvador (oggi nelle Bahamas). Venerdi il consiglio di Washington Dc ha approvato questa mozione: «Cristoforo Colombo schiavizzo, colonizzo, mutilo e massacro migliaia di indigeni nelle Americhe». Di conseguenza va abolita la festivita che «omaggia una figura divisiva, le cui azioni contro gli indigeni rappresentano l’esatto contrario dei valori di eguaglianza, diversita e inclusione propugnati dal District of Columbia; una ricorrenza che serve solo a perpetuare l’odio e l’oppressione». La sindaca di Washington Muriel Bowser ha firmato la legislazione «di emergenza»: la festa rimane, ma ora diventa «Indigenous Day». La decisione, comunque, dovra essere ratificata dal Congresso del Distretto entro 225 giorni. Il District of Columbia si aggiunge ad almeno altri 11 Stati: Alaska, Hawaii, Idaho, Maine, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Oregon, South Dakota, Vermont, Wisconsin. Tutti hanno cancellato Colombo, preferendogli le sofferenze dei nativi americani. Come si vede e un movimento politico trasversale, che tocca ledueCosteevadaNorda Sud, anche se resistono le grandi metropoli come New York, Chicago, Miami. Certo, Colombo puo essere un bersaglio facile. Ma la rilettura del passato con le categorie morali e politiche del presente e sempre un esercizio rischioso. Tanto piu in un Paese come gli Stati Uniti, dove tutto e grande, anche le contraddizioni. La colonizzazione spagnola fu sicuramente violenta; cosi come fu un presidente americano, Andrew Jackson, a firmare nel 1830 l’Indian Removal Act, costringendo le tribu dei Cherokees, Chickasaws, Chocktaws, Creeks e Seminoles a sloggiare senza tanti complimenti da Alabama, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi e Tennessee. Gli indiani furono deportati nel West, al di la del Mississippi. E cosi via. Ma c’e anche un altro significato profondo. Nel 1892 il presidente Benjamin Harrison decise di celebrare l’anniversario come un’occasione speciale per ricucire lo strappo diplomatico con il governo italiano, dopo che a New Orleans furono linciati 11 italoamericani ingiustamente accusati di aver partecipato all’omicidio del capo della polizia David Hennessy. Erano gli anni, come racconta Ben Staples sul New York Times, in cui «gli immigrati italiani cominciarono a diventare bianchi». Nel 1937 Franklin Delano Roosevelt istitui formalmente il «Columbus Day» a livello federale. Colombo, dunque, richiama piu la storia della comunita italo-americana che non quella dei conquistadores del Cinquecento. Ieri l’ambasciatore italiano Armando Varricchio, come ogni anno, ha partecipato alla cerimonia davanti alla statua di Union Station: «Ci sono andato per marcare il punto, come domenica scorsa sono andato a New York davanti al monumento in Columbus Circle. Nessuno vuole disconoscere i fatti storici legati alla colonizzazione, ma non hanno nulla a che vedere con una festa che celebra proprio l’inclusione e il rispetto di tutte le etnie che hanno contribuito a costruire gli Stati Uniti come li conosciamo oggi. E tra queste c’e anche la comunita italo-americana, con la sua scia di sacrifici, poi di riscatto sociale e di piena integrazione».
Dopo linciaggi e violenze, ecco come gli italiani sono diventati «bianchi» per gli Stati Uniti. Pubblicato lunedì, 14 ottobre 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. Dopo linciaggi e insulti, ecco come gli italiani sono diventati «bianchi» per gli Stati Uniti. Partendo dal linciaggio di New Orleans, il New York Times racconta come i nostri concittadini passarono da «inferiori» a «bianchi, in regola. Nel 1790, durante la presidenza di George Washington, si svolse il primo censimento degli Usa, all’interno del quale si era divisi in tre categorie: «Free White Females and Males», «All Other Free Persons» e «Slaves» (schiavi), all’epoca soprattutto africani. Come spiega Brent Staples in un lungo articolo sul New York Times, l’idea del Congresso era quella di dare vita a un’America bianca, protestante e culturalmente omogenea, immaginando che solamente «i bianchi liberi, emigrati negli Stati Uniti» potessero diventare cittadini naturalizzati. L’ondata di immigrati che stava arrivando da tutta Europa aveva generato il panico. Bisognava porre un argine, anche se questo poteva portare ad adottare politiche più restrittive per identificare cosa significasse essere «bianco» e quindi degno di cittadinanza. Come ricorda l’articolo, già nel Belpaese «i settentrionali avevano a lungo sostenuto che i meridionali — in particolare i siciliani, di pelle più scura — fossero un popolo “incivile” e di razza inferiore, troppo africani per far parte dell’Europa». Questa logica trovò terreno fertile negli Stati Uniti: qui agli italiani venne impedito ad esempio di entrare in alcune scuole o sale cinematografiche; di essere parte di un’organizzazione sindacale; o ancora, relegati in banchi separati delle chiese, vicino ai neri. E ancora, erano descritti dalla stampa come membri «swarthy» («bruni di carnagione»), «dai capelli crespi», o ancora derisi nelle strade con epiteti come «Guinea» (un insulto etnico), un termine attribuito agli schiavi africani e ai loro discendenti. Gli italo-americani erano spesso usati come manodopera a basso costo sulle banchine di New Orleans all’inizio del secolo scorso. Arrivati come «bianchi liberi» nel Paese per cercare riscatto, presto vennero paragonati ai «neri» (anche perché accettavano lavori «in nero» nei campi di zucchero della Louisiana o perché sceglievano di vivere tra gli afroamericani). Al centro dell’articolo, il linciaggio di New Orleans del 14 marzo 1891 quando una folla di cittadini assalì la prigione locale e uccise 11 immigrati italiani, in particolare siciliani (un episodio simile, il linciaggio di cinque immigrati italiani a Tallulah, una città della Louisiana nel 1899 è ricordato da Enrico Deaglio in «Storia vera e terribile tra Sicilia e America», ndr). L’episodio diede vita a uno dei periodi di massima tensione tra gli Stati Uniti e l’Italia provocando una crisi diplomatica tra due nazioni che intrattenevano sin ad allora relazioni commerciali: l’ambasciatore italiano Francesco Saverio Fava venne richiamato in Italia dall’allora presidente del Consiglio dei ministri Antonio Starabba. La stampa italiana chiese con forza di fare giustizia e a garantire alle famiglie delle vittime un adeguato risarcimento: i colpevoli non vennero mai puniti, ma l’allora presidente Benjamin Harrison decise di risarcire le famiglie con un’indennità: avrebbe ignorato la carneficina di New Orleans se le vittime fossero state nere, ma l’impegno del governo italiano lo rese impossibile, E grazie a quella storia, gli italiani sarebbero diventati «bianchi» di diritto, e meritevoli di rispetto (la storia richiama alla memoria anche la vicenda, successiva, di Sacco e Vanzetti, arrestati, processati e condannati a morte con l’accusa di omicidio di un contabile e di una guardia del calzaturificio «Slater and Morrill» di South Braintree). Facendo un passo indietro, la carneficina a New Orleans fu messa in moto nell’autunno del 1890, quando il capo della polizia della città, David Hennessy, fu assassinato mentre stava tornando a casa, una sera. I nemici non gli mancavano, certo, come ricorda lo storico John V. Baiamonte Jr.: Hennessy fu al centro anche di un processo nel quale era accusato di omicidio in relazione all’uccisione di un professionista, rivale: «Si dice anche che sia stato coinvolto in una faida tra due uomini d’affari italiani». Il suo assassinio, nel 1890, ebbe come diretta conseguenza un processo clamoroso: a seguito del processo, lo abbiamo ricordato sopra, alcuni cittadini si radunarono fuori dalla prigione, riuscendo ad entrarvi, e linciando brutalmente 11 dei 19 uomini che erano stati incriminati per l’omicidio. Tale episodio di violenza, che in seguito sarebbe divenuto noto come «linciaggio di New Orleans», è tuttora il più grande linciaggio di massa della storia degli Stati Uniti. «Il capo Hennessy vendicato: undici dei suoi assassini italiani linciati da una folla», titolò il Times, giustificando la violenza e descrivendo le vittime come «siciliani furtivi e codardi, discendenti di banditi e assassini, che hanno trasportato in questo Paese le passioni senza controllo, pratiche spietate ... sono per noi un parassita senza mitigazioni, serpenti a sonagli... I nostri assassini sono uomini di sentimento e nobiltà rispetto a loro». Solo qualche mese dopo, il 13 marzo 1891, un processo stabilì l’innocenza di quasi tutti gli imputati (per tre di loro la giuria non riuscì a stabilire un verdetto) ma la sentenza fu accolta con rabbia. Per mettere un punto alla vicenda, Harrison decise di proclamare il Columbus Day — in memoria del navigatore italiano, il primo europeo a scoprire il continente americano — come festa nazionale nel 1892 (diventerà federale nel 1937 con il presidente Franklin Delano Roosevelt), come già aveva spiegato qui Massimo Gaggi. Un tentativo di placare l’indignazione: da quel momento, di fatto, gli italiani avrebbero goduto di pari dignità. Nel 2019 dopo 128 anni e grazie al sindaco di origine italiana, la democratica LaToya Cantrell, l’amministrazione comunale di New Orleans ha reso scuse pubbliche e ufficiali alla comunità italiana che vive negli Stati Uniti. I linciaggi ai danni degli italiani — chiarisce Staples — si inserivano in un contesto nel quale i giornali americani del Sud giustificavano gli omicidi degli afro-africani, etichettando le vittime come «bruti», «diavoli», «rapitori», «criminali dalla nascita». Insomma, la stampa era «quasi complice» nel giustificare la violenza della folla. Da parte sua, The Times ha fatto un uso ripetuto del titolo «A Brutal Negro Lynched», marchiando le vittime come «criminali congeniti». Come ricorda l’articolo, gli afro-americani erano spesso accusati — con prove false — di violenza sessuale. L’excursus prosegue ricordando come gli immigrati italiani furono vittime anche di altre accusi, ad esempio quando arrivarono in Louisiana dopo la Guerra Civile, per soddisfare il bisogno di manodopera a basso costo. I nuovi arrivati sceglievano di vivere insieme nei quartieri italiani, dove parlavano la lingua madre (spesso anche il dialetto), preservavano le usanze, fraternizzavano e in alcuni casi anche si sposavano con gli afro-americani. Una vicinanza che avrebbe portato gli stessi italiani a considerare i siciliani come «non completamente bianchi e ad ammettere nei loro confronti la persecuzione — incluso il linciaggio —, normalmente imposta agli afro-americani». Gli italiani, infine, erano accusati di essere «criminali e assassini per natura», come si riscontra in una storia del 1874 che racconta di un immigrato come di «un uomo corpulento, il cui aspetto era simile a quello del tradizionale brigantino abruzzese». Queste caratterizzazioni raggiunsero un crescendo diffamatorio in un editoriale del 1882 che apparve sotto il titolo «I nostri futuri cittadini»: «Non c’è mai stata da quando New York è stata fondata una classe così bassa e ignorante tra gli immigrati che si sono riversati qui come gli italiani del sud che hanno affollato le nostre banchine durante l’anno scorso». E ancora, «i bambini immigrati italiani sono assolutamente inadatti e sporchi da collocare nelle scuole elementari pubbliche, a fianco di quelli americani». Il mito razzista secondo cui afro-americani e siciliani erano entrambi criminali innati si ritrova, poi, anche in una storia del Times del 1887 riferita alla storia del linciaggio di «Dago Joe»: «Una mezza razza, figlio di un padre siciliano e di una madre mulatta, che aveva le peggiori caratteristiche di entrambe le razze... Astuto, infido e crudele, era considerato nella comunità in cui viveva un assassino per natura».
Contadini, minatori, pescatori: gli italiani che hanno lasciato il segno in America. Un libro ripercorre la lunga storia dei nostri connazionali che hanno costruito e migliorato territori aridi Diventando «la più brava gente». Massimo M. Veronese, Domenica 24/11/2019 su Il Giornale. L'America degli italiani, l'America della Grande Mela, di Little Italy e di broccolino, l'Italia sbarcata a Ellis Island e quella dello star system, Sinatra e De Niro, Stallone e Di Caprio; l'America di Sacco e Vanzetti e di Fiorello La Guardia, di Toro Scatenato e di Joe Petrosino, del Padrino e della notte di San Valentino; l'Italia della lingua mista, mezza slang e mezza dialetto, «la mia jobba è bisinesse», «draivo il carro del bosso», la contaminazione delle parole prima della globalizzazione; l'Italia dei milioni di paisà partiti dalle campagne che neanche sapevano l'italiano, figuriamoci l'inglese; l'Italia d'America un po' da cartolina, o da cartellone hollywoodiano, cialtrona e geniale, che si pensa in fondo sia tutta lì, con i suoi splendori e le sue miserie. Invece c'è tutta un'altra Italia in America, nascosta e sconosciuta, dispersa in angoli che delimitano persino i confini della fine del mondo. Un'Italia fatta di piccole comunità lontane dalle rotte migratorie conosciute che ha piantato radici senza mai più perderle in North Carolina, Louisiana, Arkansas, Texas, che ha fatto diventare Italia lembi di prateria e vecchie piantagioni di cotone, trasformate, complice la lontananza e l'isolamento, in colonie del nostro Paese. Paolo Battaglia, che è storico ed editore, è andato a cercare quelle tracce, seguendo passo passo più di un secolo dopo, le orme di quell'umanità di avventurieri e con loro quelle del barone Edmondo Mayor des Planches, che a dispetto del nome, lui che era francese di origini svizzere poi naturalizzato, fu ambasciatore italiano negli Stati Uniti di fine Ottocento. È il racconto delle migliaia di italiani che inseguivano il sogno «mericano» ma sulle strade più miserabili, quelle che portavano lontano solo perché non ci andava nessuno. Spiega Battaglia: «Gli italiani di Denver dicevano: ci avevano raccontato che qui c'erano strade lastricate d'oro, siamo arrivati qua e le strade non solo non erano d'oro, ma neanche c'erano. E abbiamo scoperto che le strade dovevamo costruirle noi»
E allora ecco il racconto che da Ellis Island va a Pittsburg in California, dove le vele dei pescatori siciliani di Isola delle femmine hanno trasformato fiumi e oceani in un industria della pesca, o di «Valdese», paese oggi di quattromila abitanti, fondato da protestanti piemontesi che trasferirono le loro comunità dalle Alpi alle Blue Ridge Mountains del North Carolina. Fino a Tontitown, creata da contadini veneti e emiliani guidati da un prete di Cesena, Pietro Bandini, che pare uscito da un fumetto di Tex, dopo la fuga dalla piantagione di Sunnyside in Arkansas. Racconta Battaglia: «A Tontitown arrivarono ai margini di quello che chiamavano Indian territory, il territorio dove vivevano ancora gli indiani, e siccome gli italiani stavano sulle scatole a tutti, gli anglosassoni della zona si travestirono da pellerossa per bruciare la chiesa e incolpare gli indiani. Don Bandini però, che aveva capito tutto, li avvisò: attenti che gli italiani escono tutti dell'esercito. Se tornate la prossima volta troverete pane per i vostri denti...» Non era vero. Erano tutti contadini portati lì per sostituire nelle piantagioni di cotone gli schiavi neri che non c'erano più. Li avevano convinti che lì avrebbero trovato terre meravigliose da acquistare, invece in quell'inferno ne morirono un centinaio in un anno. Morivano anche minatori, nelle company towns di Monongah in West Virginia e in ghost town come Dawson in New Mexico. Scriveva il barone: «Giunsero poveri, sfiniti, disprezzati, invisi; lavorarono, si dimostrarono onesti, parchi, perseveranti, ordinati. Comprarono dallo Stato terre mediocri, le migliorarono. Qualcuno andò sulle ferrovie o nelle miniere, ove il lavoro è duro ma il guadagno è forte. Ora non contano se non amici e sono ritenuti dagli americani la più brava gente del mondo». Lo scriveva in un libro che sarebbe rimasto polveroso come una prateria se Battaglia non solo non lo avesse riesumato ma se non avesse cercato, a suo modo folle come quegli italiani di frontiera, di andarli a cercare, più di un secolo dopo, per vedere la storia com'era finita, per sentire le voci di chi è rimasto, e tirarne fuori due libri e un documentario, per scoprire quanto sia italiana l'America, soprattutto quella più periferica, più italiana persino degli italiani stessi. «Trovare l'America», il primo, che ha la prefazione di Martin Scorsese, è figlio di tre anni di lavoro negli archivi della Libreria del Congresso di Washington, ed è diventato la più importante e completa visual history della presenza italiana negli States; il secondo, appena uscito «Italian American Country» è il racconto dei 25mila chilometri percorsi sulle strade americane, per incontrare i nipoti degli scalpellini anarchici della Toscana, dei contadini veneti sfuggiti alle piantagioni e dei pescatori siciliani dalla lingua incomprensibile. «Gli italiani sono ancora lì anche se di terza e di quarta generazione, antichi e moderni al tempo stesso. Sono rimasti italiani all'americana: hanno un'idea dell'Italia che non è al passo con i tempi e tradizioni religiosi più vicine a quelle novecentesche che di adesso. Anche il food è lo stesso ma riveduto e scorretto: per esempio la polenta con gli scoiattoli ha sostituito quella con gli osei...». Italiani come Kevin Pasquale, origini piemontesi e faccia da John Wayne, famiglia di contadini diventata di cowboy. Racconta di come gli italiani abbiano cambiato persino il panorama, costruendo nel Nevada zone in pietra, con mattoni italiani, il made in Italy forgiato dal sacrificio. «Adesso alcuni di loro sono andati altrove a vivere ma quando ci sono le ricorrenze tornano nella loro comunità come se fosse l'Italia, la loro Italia. È il loro modo di tornare a casa». Giusto o sbagliato, dicono in America, questo è il mio Paese.
Prima gli svizzeri. Quando gli immigrati eravamo noi. Luino, anni Settanta: trasbordo degli emigrati al confine italo-svizzero. Un libro ricorda il primo referendum elvetico per cacciare gli italiani. Era il giugno del 1970. E un politico adottò lo slogan che oggi, rivisto e corretto, va così di moda. Fabrizio Ravelli il 24 maggio 2019 su La Repubblica. ZURIGO. Quando i migranti eravamo noi vivevamo nelle baracche. Luciano Alban, arrivato da Montebelluna nel 1968, se le ricorda bene: «Baracche come ne ho viste poi solo a Dachau. Ci stavano gli stagionali, quelli che potevano restare solo nove mesi e non avevano il permesso di affittare una casa. E anche gli operai in difficoltà, quelli che invece nelle campagne stavano dai contadini». Baracche coi letti a castello, un cesso per cinquanta persone, il lavatoio in comune, fornelletti per cucinare, fili stesi per i panni. Ai margini delle città, vicino ai cantieri, lontano dai quartieri borghesi. Quando i migranti eravamo noi, c’era qualcuno che voleva cacciarci via, perché “prima gli svizzeri”. Ci fu un referendum nel 1970, lanciato da James Schwarzenbach, strana figura di intellettuale-scrittore-editore, aria da gentleman con gli occhialini d’oro, figlio di industriali proprietari della più grossa fabbrica tessile del mondo, allora. Ci siamo abbastanza dimenticati di quando i migranti eravamo noi, quella memoria lì l’abbiamo cancellata. Eppure dal 1860 a oggi più di 30 milioni di italiani sono emigrati. Dal 1946 al 1968 in Svizzera ne arrivano due milioni. Prima i lombardi, poi i veneti e i friulani, e dai primi Sessanta l’ondata dal Sud. A metà dei Sessanta vivono in Svizzera 500 mila italiani. Sono arrivati coi treni stracarichi, con le valigie legate con lo spago, parlano quasi solo dialetto e spesso sono analfabeti. Nel film Pane e cioccolata con Nino Manfredi si vede un gruppo di clandestini che vive in un pollaio: è successo anche questo, nessuna esagerazione. Gli italiani sono venuti a fare i lavori pesanti, quelli che gli svizzeri non vogliono più fare. Lo stesso governo italiano, che nel 1948 ha siglato un accordo bilaterale con la Confederazione sul reclutamento di operai, li ha spinti verso il confine. Perché se ne andassero dall’Italia, che scoppiava di disoccupati. Alcide De Gasperi, nel 1949, invitò i meridionali a «partire verso le strade del mondo». Sarebbe il caso di ricordare quegli anni della nostra emigrazione perché sono anche gli anni in cui la xenofobia costruisce il suo castello di cosiddetti “valori” e la sua politica, con accenti e parole d’ordine che oggi ci suonano familiari. A questo serve un libro in uscita da Feltrinelli, intitolato Cacciateli!, scritto dal giornalista di Repubblica Concetto Vecchio. L’autore sa di che cosa parla, e infatti il libro è qualcosa a metà fra il reportage e il romanzo familiare: in Svizzera, non lontano da Zurigo, ci è nato nel 1970, l’anno del referendum. Figlio di emigrati siciliani, da Linguaglossa provincia di Catania. In Svizzera ha vissuto fino ai 14 anni, è andato a scuola dove la maestra lo chiamava “Konzetto” e lui avrebbe preferito chiamarsi Roland o Markus. Da bambino, se faceva baccano in strada, la mamma lo zittiva: «Non facciamoci riconoscere dagli svizzerazzi, sennò arriva Schwarzenbach!». A un certo punto gli è presa la curiosità di andare a scoprire chi fosse quel tale, quel babau. Un pioniere, quello Schwarzenbach: il suo del 1970 fu il primo referendum europeo per dare una stretta all’immigrazione. Se avesse vinto, in 300 mila italiani avrebbero dovuto fare le valigie. Luciano Alban oggi ricorda che dove lavorava lui, azienda che costruiva centrali idroelettriche, glielo dicevano in faccia: «Se passa, te ne vai», anche se i capi erano tutti per votare no. Non che la xenofobia fosse una novità, in Svizzera. «Nel 1896» racconta Franco Narducci, presidente del Corriere degli Italiani, «ci fu qui a Zurigo un pogrom contro gli italiani, scatenato da un pretesto. Bastonature per strada, negozi bruciati. Chiuso il cantiere del Gottardo erano arrivati gli operai italiani, accusati di lavorare sotto costo, di rubare il lavoro agli svizzeri». E nemmeno è tramontata la xenofobia, dopo la sconfitta del 1970. Altri referendum ci sono stati, tutti persi. Altre forze politiche hanno urlato “Prima gli svizzeri”, e ancora adesso valgono un 25 per cento. Ma Schwarzenbach fu il primo, e fece quasi da solo. Unico parlamentare del partitino Nationale Aktion, tenuto a distanza da socialisti e democristiani, contrastato dagli imprenditori che temevano di perdere forza lavoro. Perse per soli 100 mila voti, il 46 per cento contro il 54, e venne votato nei quartieri popolari, dove gli svizzeri vivevano gomito a gomito con gli italiani. E non li amavano, li disprezzavano, li temevano. Tschingg era l’insulto per gli italiani: veniva dal “cinque” spesso urlato nel gioco della morra. La morra era addirittura vietata in certi posti: Mora Verboten si leggeva sui cartelli. E li spiavano, pronti a denunciare sospetti attivisti del Pci, o bambini clandestini. In quegli anni Sessanta c’erano bambini nascosti, illegali, tappati in casa senza poter fare rumore né guardare dalla finestra, per paura che un vicino facesse la spia. E c’erano bambini costretti a stare in collegio nel Comasco e nel Varesotto.
Quando i migranti eravamo noi: i diari di viaggio degli italiani. Pubblicato mercoledì, 07 agosto 2019 da Valeria Dalcore su Corriere.it. È tutto scritto: i viaggi, i ritorni, il distacco, le difficoltà, l’amore, la guerra, la famiglia, i successi e le speranze. C’è Carola Zanchi, nata nel 1922 ad Arezzo, che ha raggiunto l’Argentina con il marito e il piccolo Giovanni dopo un viaggio drammatico che ha racchiuso in una memoria del 1988. C’è Antonio De Piero, classe 1875, rimasto orfano da piccolo. È operaio a soli 15 anni nei territori dell’Impero Austro-ungarico e seppur gracile sopravvive a duri lavori, si sposa, ha cinque figli e vola in Canada per lavorare sette anni nei giacimenti di ferro, oro e carbone. Tenta di tornare in patria nel 1919 ma la depressione che soffoca l’Europa brucia i risparmi di anni di fatiche. Luciano Giovanditti lascia la Puglia negli Anni 50 e va in Francia, dove il lavoro in fabbrica e la lontananza dalla madre lo fanno ammalare di depressione, curata solo dal ricongiungimento con il padre in Germania. Con sacrificio mette da parte qualcosa e torna a casa, restando per tutti «il francese». Sappiamo di queste e di molte altre vite perché sono state raccontate da chi le ha vissute. Per la loro potenza narrativa sembrano sceneggiature cinematografiche e invece sono le vite di centinaia di italiani che tra l’Ottocento e oggi hanno lasciato questo Paese per attraversare il mondo. Ieri come oggi, loro come ogni popolo. Questi duecento narratori spianano la strada al progetto «Italiani all’estero, i diari raccontano» e non sono scrittori di professione, hanno semplicemente sentito il bisogno di affidare alla carta e alla parola la loro esperienza, per sublimare intimamente i fatti o semplicemente per lasciarli a qualcuno. Sono loro stessi o i loro discendenti ad averli dati in custodia con fiducia all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che li aveva catalogati tutti nella categoria «emigrazione». Dopo un’accurata selezione di autori e pagine - alcuni ne hanno scritte migliaia - oggi sono diventati patrimonio collettivo mondiale sulla piattaforma diariraccontano.org, realizzata grazie al contributo della Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e, come ci dicono gli archivisti, anche grazie alla sensibilità di Luigi Maria Vignali, direttore generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie. Ogni pagina originale, che sia un diario, un quaderno di memorie o una lettera, è stata digitalizzata e trascritta, titolata, collocata nel tempo e nello spazio e indicizzata con parole chiave. La navigazione è ricca di storie sorprendenti: come quella di Luca Pellegrini, un ragazzo del 1822 che a 16 anni rimane orfano e sale come mozzo su un veliero che viaggia tra Trieste e Venezia. Impara tutto del Mediterraneo, scopre vite e culture lungo le coste di quelli che saranno Croazia e Montenegro, nella Turchia che era ancora Impero Ottomano. Si imbarca per Amsterdam, vive il naufragio, sopravvive e salpa alla volta del Sud America, poi diventerà capitano. Iniziano invece nel 1996 e proseguono nel nuovo millennio gli scambi epistolari tra Lino Rizzo e Andrea Francini, giovani laureati in ingegneria al Politecnico di Torino che scelgono di andare a lavorare in Inghilterra e negli Stati Uniti. Una profonda amicizia coltivata a distanza. «I diari raccontano» è una piattaforma aperta e implementabile: chiunque può contribuire inviando una nuova, unica e autentica storia e farla diventare parte di un più ampio racconto culturale. «Lo abbiamo pensato per il puro piacere, per studio o per scopo didattico, ma anche per stimolare prodotti artistici o culturali - spiega Nicola Maranesi, coordinatore del progetto - Dagli scritti raccolti emergono tratti comuni molto forti e trasversali tra le epoche storiche, ci sono storie decisamente difficili, altre costellate di successo. Tutte però hanno a che fare con l’interesse storico delle singole traiettorie umane custodite negli scritti, autentici e spontanei». Ne sarebbe molto orgoglioso Saverio Tutino, il giornalista giramondo che nel 1984 fondò l’Archivio dei Diari in questa fetta d’Italia al confine tra Toscana, Umbria e Romagna «per rispondere all’esigenza di memoria di un intero Paese e accogliere le testimonianze autobiografiche di un intero popolo». Tutto è iniziato da un piccolo avviso sui giornali: oggi l’archivio conserva più di 8mila testi e lettere, tra i quali c’è anche il lenzuolo matrimoniale al quale Clelia Marchi di Poggio Rusco (Mantova) affidò la propria toccante memoria contadina.
QUANDO GLI IMMIGRATI DA LINCIARE ERAVAMO NOI! Valeria Robecco per il Giornale del 3 aprile 2019. È considerato il più grande linciaggio nella storia americana, e uno degli episodi più terribili dell'immigrazione italiana negli Stati Uniti. Negli anni dopo l'Unità d'Italia, quando tantissimi immigrati cercano fortuna Oltreoceano, a New Orleans undici di loro, la maggior parte siciliani, vengono massacrati da una folla inferocita. Era il 14 marzo 1891, e dopo quasi 130 anni, la città della Louisiana è pronta a chiedere scusa per quell'orribile mattanza. Secondo quanto rivela l'Order Sons and Daughters of Italy in America, il 12 aprile il sindaco di New Orleans, LaToya Cantrell, presenterà le scuse ufficiali della città davanti alla comunità italoamericana, all'American Italian Cultural Center. Un riconoscimento forse tardivo, ma che ha comunque un grande valore simbolico. A partecipare al linciaggio furono dalle 3 mila alle 20 mila persone. Per il Washington Post fu una folla di 8mila cittadini a riunirsi su Canal Street, in preda a una «furia ingovernabile». Tutto iniziò dopo l'omicidio, nell'ottobre 1890, del capo della polizia locale David Hennessy, che sarebbe stato legato alla famiglia dei Provenzano. Era un'epoca in cui nella città della Louisiana vi era un forte sentimento anti-immigrati, e nei giorni seguenti alla morte del commissario, la polizia effettuò indagini quasi completamente incentrate sulla colonia di italiani presenti a New Orleans: ne vennero arrestati 19, di cui undici erano accusati di aver avuto un ruolo diretto nell'omicidio di Hennessy. Nel marzo del 1891 otto degli undici imputati, al termine di un controverso processo in cui gli inquirenti tentarono di creare prove inesistenti, vennero giudicati non colpevoli. Mentre la comunità italiana festeggiava, cresceva la rabbia della popolazione americana che giudicava il processo contro i siciliani una farsa, e il malcontento iniziò a sfociare in violenza. La folla attaccò il carcere dove gli undici italiani erano detenuti, prima che venissero rimessi in libertà. Due immigrati furono impiccati, e gli altri uccisi a colpi di fucile: il quotidiano della capitale parla di corpi «crivellati di proiettili o impiccati ai lampioni». Il massacro creò una frattura profonda tra i due governi, l'Italia ritirò il suo ambasciatore e fu uno dei periodi di massima tensione tra il nostro Paese e gli Usa. A porvi rimedio fu il presidente americano Benjamin Harrison, che decise di risarcire le famiglie delle vittime: un'ammissione di colpa, di fatto, pur se per le scuse ufficiali si è dovuto attendere oltre un secolo. Michael Santo dell'Order Sons and Daughters of Italy afferma che si tratta di una «ferita di vecchia data» per la comunità italoamericana. Per questo la commissione a inizio anno si è messa in contatto con il sindaco, chiedendo le scuse pubbliche della città. Cantrell ha aderito alla proposta, e ora dal suo ufficio è arrivata la conferma della proclamazione, in programma il 12 aprile. Per Santo, Cantrell è stata «la donna giusta al momento giusto» per riconoscere uno degli aspetti più oscuri della storia di New Orleans. «Ci vuole coraggio per farlo, ma la gente vuole vedere questo, soprattutto oggi», continua: a nome della comunità, «grazie, grazie, grazie».
Gli italiani linciati a New Orleans e i cadaveri mostrati a donne e bambini: da dove arrivava tutto quell’odio? Pubblicato mercoledì, 10 aprile 2019 da Gian Antonio Stella su Corriere.it. Gli organizzatori del linciaggio «fecero disporre in fila alcuni dei cadaveri in una vasta stanza, per consentire alla gente di sfilarvi davanti. Migliaia di individui, tra i quali si stimò ci fossero circa 2500 fra donne e bambini, continuarono ad affluire per cinque ore. (…) Alcune delle donne inzupparono i propri fazzoletti di pizzo nel sangue dei morti per ricordo». Quanto odio occorre accumulare per arrivare a tanto? Quanto? Il libro «Vendetta» del docente americano Richard Gambino che ricostruisce il linciaggio del 14 marzo 1891 a New Orleans, dove la prigione della contea fu presa d’assalto da migliaia di «bravi cittadini» decisi a uccidere 11 italiani, compreso un disabile mentale di nome Emmanuele Polizzi, che erano stati assolti al processo per l’omicidio di un poliziotto, David Hennessy, racconta dettagli agghiaccianti sulla cieca ferocia degli assassini. Ed è una consolazione sapere che il sindaco della città della Louisiana, come scriveva giorni fa il nostro Paolo Di Stefano, chiederà scusa giovedì alla comunità italiana per quell’eccidio che il «Republic» di St. Louis bollò subito come razzista spiegando che i nostri erano stati linciati «in forza dell’unica prova disponibile, quella di essere dagoes». Uno dei nomignoli sprezzanti con cui erano definiti. Ma come fu gonfiata, giorno dopo giorno, quella bolla di odio contro i nostri nonni? Dice tutto una vignetta pubblicata dalla rivista «The Mascot» edita a New Orleans il 7 settembre 1883. Sotto il titolo «Regarding the italian population» (a proposito della popolazione italiana) c’erano cinque vignette con le relative didascalie. La prima mostrava immigrati italiani che bivaccavano in mezzo alla strada: «Un fastidio per i pedoni». La seconda italiani accatastati l’uno sull’altro: «Gli appartamenti in cui dormono». La terza italiani che si accapigliavano a coltellate: «Un piacevole passatempo pomeridiano». La quarta italiani ammassati dentro una gabbia calata con una carrucola in mare: «Come sbarazzarsi di loro». La quinta italiani rabbiosi portati via dal carro dell’accalappiacani: «Come arrestarli». Così vedevano i nostri immigrati in America, allora. Lo stesso il sindaco di New Orleans, Joseph Shakespeare, dopo l’omicidio del poliziotto, sfogò i suoi peggiori pregiudizi accusando i siciliani d’essere gli «individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistano tra noi». Brutta storia il razzismo. Peccato che molti se ne accorgano solo quando lo subiscono loro…
Da Libero Quotidiano il 15 aprile 2019. Federico Rampini (giornalista di sinistra), ospite di Massimo Gramellini a Le parole della settimana su Rai 3 attacca il Pd in diretta, lasciando esterrefatti gli ospiti in studio. Rampini infatti boccia completamente la politica pro-immigrati della sua parte politica: "Pur di fare opposizione al governo la sinistra è diventata il partito dello straniero. Applaudono il presidente francese Emmanuel Macron prendendo per buono il suo europeismo quando sulla Libia sta facendo delle porcherie difendendo solo i suoi interessi e applaudono Juncker". Una critica feroce la sua che fa impallidire Gad Lerner: "Guardare la sua faccia in studio", commenta Giorgia Meloni su Twitter, "è tutta un programma. Da non perdere".
I saputelli, scrive Alessandro Gnocchi, Il Giornale 13 aprile 2019. No, incredibile. Prima la sinistra ci ha fatto una testa così con Berlusconi cattivo, Salvini cattivo, l’allarme populismo, l’allarme sovranismo; e poi viva i competenti, l’Unione europea, l’euro e Matteo Renzi. Adesso torna sui suoi passi e con la stessa sicumera ci dice che l’Europa non è così buona, l’euro non è il paradiso, il sovranismo non è sbagliato se inteso come patriottismo, i competenti curano i propri affari e Matteo Renzi è stato una sciagura per la sinistra, diventata la cameriera del sistema economico «neoliberista», considerato diabolico dai post comunisti. Federico Rampini, cresciuto con Enrico Berlinguer, scopre all’improvviso un fatto di cui tutti si erano accorti all’incirca nel 1989: la sinistra non ha uno straccio di idea sul futuro. Si è rifugiata nel culto delle minoranze e dei diritti, dimenticandosi di tutto il resto, cioè dei problemi della maggioranza degli italiani. Secondo Rampini, firma di Repubblica, il Partito democratico è diventato il partito dello spread che tifa per l’Europa «a prescindere», anche quando è governata dai campioni della pirateria fiscale. Chi lo avrebbe mai detto? Beh, Augusto Del Noce aveva previsto all’inizio degli anni Sessanta la trasformazione del Pci in una sorta di partito radicale di massa; il sociologo (di sinistra) Christophe Guilluy ha realizzato circa vent’anni fa studi cruciali sul cambiamento dei partiti di sinistra, francesi o italiani poco cambia, e del loro elettorato, sempre più borghese e cosmopolita. Ma ora che queste cose ce le dice Rampini nel suo La notte della sinistra (Mondadori) siamo tutti più tranquilli. Federico Fubini, dalle colonne del Corriere della Sera, è sempre stato un sostenitore a spada tratta del progetto europeo contro i trogloditi del sovranismo e del populismo. Ora ci viene a dire che l’Europa è bella ma non bellissima e che noi italiani dobbiamo essere orgogliosi di quello che siamo e non rinunciare alla nostra identità. Chi l’avrebbe mai detto? Beh, Ida Magli aveva letto e criticato i trattati europei in diretta, alcune decine di anni fa. Ma ora che ce lo dice Fubini nel suo Per amor proprio (Longanesi) siamo tutti più tranquilli. L’autore sostiene che l’Europa deve marciare unita per resistere alla pressione di forze imperiali come la Cina. Tra trent’anni ci dirà quello che fior di storici scrivono oggi: l’Unione europea ha una dimensione politica imperiale ma con una stranezza. Al posto dell’imperatore c’è una moneta, l’euro. Infine la ciliegina sulla torta. Sta per uscire un libro che non ha paura di sferzare i poteri forti, le élite che, ignorando il pueblo, hanno causato la deriva populista. Chi è dunque questo visionario autore che arriva neanche trent’anni dopo le opere fondamentali di Christopher Lasch? Ferruccio de Bortoli, l’ex direttore del Corriere della Sera, del tutto estraneo alle élite, notoriamente escluso dal mondo del potere. Meno male che ha scritto Ci salveremo, in uscita per Garzanti. Ci vediamo tra quarant’anni per i saggi di sinistra che ci spiegheranno i danni dell’immigrazione incontrollata e la rabbia dei perdenti della globalizzazione.
“Macchè fascismo!, ormai gli Italiani non li difende più nessuno”, scrive ilgiornaleoff. il 15 aprile 2019. ilgiornale.it/2019/04/15. “La sinistra è diventata la sinistra del Fondo Monetario Internazionale e delle agenzie di rating“. “La sinistra ha smesso da tempo di occuparsi dei penultimi, italiani poveri […] e è diventata il partito dello straniero. Applaude a tutto quello che fa Emmanuel Macron prendendo per buona la favola del Presidente europeista che sta facendo in Libia delle porcherie contro l’interesse dell’Italia […]. Ho visto politici ed esponenti di sinistra applaudire a tutte le bacchettate che arrivano da un personaggio come Jean Claude Junker, che esorta l’Italia a rimanere ingabbiata nelle politiche di bilancio dell’austerity europea […]; così facendo la sinistra diventa il partito che sta sempre per gli stranieri e getta via il suo patrimonio di critica all’austerity, è una cosa inaccettabile“. E’ la notte della sinistrasecondo Federico Rampini, inviato storico di Repubblica che, ospite di Massimo Gramellini a Le parole della settimana su Rai 3, non le manda a dire alla sinistra italiana. E a proposito di CasaPound: “Non è che è tornato il fascismo, è che certi movimenti sono gli unici che difendono i penultimi, ovvero gli italiani poveri“. Un Federico Rampini quasi “trumpiano” suona il requeim della sinistra, con un Gad Lerner, anche lui ospite di Gramellini, di sale…
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La tratta di uomini. “Migranti legati e sedati”. Sotto accusa i voli da Berlino. Il racconto: "Chi si opponeva al trasferimento dopo un po’ stava seduto in aereo addormentato”. E in Germania è polemica anche per la pressione sulle parrocchie che accolgono i rifugiati. Tonia Mastrobuoni il 15 giugno 2019 su La Repubblica. Non ha fatto in tempo di dire, in inglese, «non voglio venire» che quattro poliziotti lo hanno buttato a terra, lo hanno immobilizzato e gli hanno stretto le manette intorno ai polsi e alle caviglie. Poi lo hanno trasportato nell’hangar di un aeroporto e lo hanno fatto salire su un aereo con destinazione Roma. Era il 23 novembre del 2018 e Abukkabar M., originario della Sierra Leone, si è ritrovato con “più di cinquanta” richiedenti asilo...
Tonia Mastrobuoni per la Repubblica il 15 giugno 2019. Non ha fatto in tempo di dire, in inglese, «non voglio venire» che quattro poliziotti lo hanno buttato a terra, lo hanno immobilizzato e gli hanno stretto le manette intorno ai polsi e alle caviglie. Poi lo hanno trasportato nell' hangar di un aeroporto e lo hanno fatto salire su un aereo con destinazione Roma. Era il 23 novembre del 2018 e Abukkabar M., originario della Sierra Leone, si è ritrovato con "più di cinquanta" richiedenti asilo come lui sull' aereo che dalla Germania trasportava i "dublinanti" in Italia, «e una marea di agenti che li scortavano». Soprattutto, racconta, «ho visto qualcuno scalmanato, che cercava di ribellarsi al trasferimento. Dopo un po', però, i rivoltosi erano diventati improvvisamente tranquilli, se ne stavano quasi addormentati nei loro sedili, buoni buoni». La testimonianza di Abukkabar - che non vuol essere citato per intero perché nel frattempo è riuscito a fuggire di nuovo in Germania, ha chiesto di nuovo asilo lì e ha paura di ritorsioni - conferma un sospetto che passa da mesi di bocca in bocca, tra le organizzazioni che assistono i migranti. Il timore è che i profughi vengano sedati per evitare che si ribellino ai trasferimenti. E che subiscano dei maltrattamenti. A noi, Abukkabar ha detto al telefono di essere stato trattato «come un animale ». Proprio la scorsa settimana la Germania ha approvato una stretta sui migranti che mira ad accelerarne i rimpatri. Per i Verdi «un giorno nero per la democrazia» per alcune regole discutibili come la possibilità di fare irruzione negli appartamenti o quella di metterli in carcere in prossimità della data di espulsione. Anja Tuckermann è una scrittrice berlinese che si è occupata molto di migranti, ha anche visitato strutture di accoglienza italiane a Roma, a Pomezia e Frascati. Di quei centri ha un ricordo "agghiacciante", ci rivela. Nessuno dei profughi voleva restare in Italia. «Mi dicevano tutti "vogliamo tornare in Europa" e l' Europa cominciava per loro al di là delle Alpi». Ma Tuckermann ha assistito anche in Germania alcuni migranti negli attimi drammatici dei loro trasferimenti. Ed è stata testimone di scene "insopportabili". Una sera era al cellulare con chi assisteva una famiglia che doveva essere messa su un aereo. «Davanti ai figli piccolissimi sia il padre sia la madre sono stati ammanettati dalla polizia con le mani dietro la schiena, come dei criminali. E poi portati via. I bambini, spaventati a morte, hanno continuato a urlare e a piangere per ore, finché non sono stati ricongiunti con i genitori». Il motivo di quella separazione, di quella tortura inutile? Ignoto. Uno dei più impegnati difensori dei diritti dei profughi ha un nome e una faccia: Stephan Reichel presiede "Matteo", l' associazione bavarese che si batte per trovare un asilo nelle chiese ai "dublinanti". Il senso è quello di garantire loro riparo nelle parrocchie protestanti e cattoliche finché non scadano i termini per fare domanda in Germania. Anche Reichel, che è quotidianamente in contatto con miriadi di profughi che rischiano di essere riportati soprattutto in Italia, parla di "probabili sedazioni" per impedire che fuggano o che si ribellino ai trasferimenti. «E non solo in Germania: due mesi fa so che un profugo afgano proveniente da Lione è arrivato stordito a Monaco. Lo ha assistito un professore che lo ha portato in ospedale, poi un ragazzo afgano che conosco è andato a trovarlo lì per dargli un po' di conforto». E tra i profughi gira la voce che sia meglio non accettare bottigliette d' acqua prima di salire sugli aerei. Perché potrebbero contenere calmanti o sonniferi. Reichel è preoccupato in particolare per la pressione enorme che il governo e i Land stanno esercitando sulle parrocchie perché non concedano più protezione ai richiedenti asilo. Tra lo Stato tedesco e le Chiese non c' è un codice scritto ma una consuetudine su questi delicatissimi casi. Dunque, molto margine di manovra, se lo Stato decide di fare la faccia feroce per rispedire i profughi in Italia o negli altri paesi Ue dove dovrebbero finire secondo le regole di Dublino. E secondo Reichel, è esattamente quello che sta accadendo. Tanto che nel 2018, secondo i numeri del ministero dell' Interno Horst Seehofer, i rifugiati che hanno trovato riparo nelle parrocchie sono stati 1.521, circa 400 a trimestre. Nei primi tre mesi di quest' anno, la cifra è scesa a 250. E la stretta denunciata da Reichel e molti volontari, a tratti sta assumendo i contorni di un assedio. Un esempio clamoroso ce lo racconta un insegnante di Bamberga, Christian Witte, impegnato anche lui nell' assistenza dei richiedenti asilo. «Tre settimane fa due eritrei che erano stati accolti dal convento di Plankstetten sono stati arrestati in mezzo alla strada. Il motivo è semplice: i due dormivano e lavoravano nei locali del convento, ma erano costretti ad attraversare una strada pubblica. È lì che la polizia li ha arrestati. Un vero e proprio agguato». E per uno di loro, in un giorno tragico. Quello in cui scadevano i 18 mesi di Dublino. Il giorno dopo, avrebbe potuto chiedere asilo in Germania.
Migranti, opposizioni all'attacco dopo le rivelazioni di Repubblica: "E' il fallimento della politica di Salvini". Il Pd chiede al ministro dell'Interno di riferire in aula dopo i dati sul rientro dei profughi imposto dal governo di Berlino. Fi: "Sistema tedesco violento, il governo reagisca. È latitante". Meloni: "La strategia di Merkel è scaricare il problema sull'Italia". La Repubblica il 16 giugno 2019. "L'inchiesta di Tonia Mastrobuoni su Repubblica svela il fallimento della politica di Salvini sui trasferimenti dei profughi". È del Pd la prima reazione allo scoop di Repubblica, sul trasferimento in Italia dei cosiddetti dublinanti cioè i profughi che secondo le contestate regole Ue prevedono il ritorno degli immigranti nei Paesi di primo approdo. L'attacco su Twitter arriva dal deputato Pd Filippo Sensi che scrive anche: "Aumentano vertiginosamente i trasferimenti in aereo in Italia, dati alla mano. Ai proclami e alla faccia feroce del ministro degli Interni non corrispondono i fatti. Saldo negativo pesante sul quale dovrà venire in Parlamento a rispondere". In sei mesi la Germania - racconta Mastrobuoni nella sua inchiesta - ha mandato in Italia quasi 1.200 profughi via aereo. Trasferimenti che avvengono a ritmo regolare: sono stati 1.114 solo tra novembre e marzo. L'inchiesta fa emergere anche le accuse nei confronti dei metodi utilizzati da Berlino nei confronti dei migranti: "Legati e sedati. Chi si oppone al trasferimento dopo un po' è seduto in aereo addormentato", dicono diversi testimoni. Con il passare delle ore le reazioni si moltiplicano anche da parte di esponenti politici non ostili al ministro dell'Interno. La leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, attacca innanzitutto Merkel: "La Germania aumenta i rimpatri degli immigrati clandestini. Come? Li sedano, li ammanettano e li spediscono in Italia. Ecco la strategia dell'idolo degli europeisti Angela Merkel: scaricare il problema sicurezza e immigrazione della Germania sulla nostra Nazione". Poi chiama in causa il governo: "Si faccia rispettare in Europa! La soluzione è non far arrivare i clandestini in Italia con un blocco navale europeo, cosa aspetta l'Italia a chiederlo?". "Invece di combattere una guerra ai mulini a vento sul deficit, il governo avrebbe dovuto fare pressioni per modificare il regolamento di Dublino grazie al quale la Germania ci ha restituito via aereo, come Paese di primo approdo, 1200 immigrati definiti appunto 'dublinanti'", dice Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia. E il senatore azzurro Francesco Giro: "Lo scoop di Repubblica fa venire i brividi. Il quotidiano ci rivela che il governo tedesco della Merkel, obbediente alle regole insensate dell'accordo di Dublino, spedisce in Italia immigrati entrati clandestinamente in Germania, ma giunti in Italia come paese di primo approdo. Il sistema tedesco è violento e ci riporta indietro alle tragedie del secolo scorso. Gli immigrati, se si ribellano, vengono gettati a terra dai poliziotti tedeschi immobilizzati, ammanettati e sedati e condotti negli aerei storditi. È un vero schifo. Salvini deve reagire e immagino reagirà con furore". E Osvaldo Napoli, sempre Forza Italia: "Mi rifiuto di credere che il governo gialloverde abbia appreso la notizia solo stamattina, leggendo Repubblica". E avanza un sospetto: "C'è stato un altro governo italiano che negoziò un po' di flessibilità con l'Europa in cambio dell'accoglienza di migliaia di immigrati. Non voglio credere che quella storia si stia ripetendo".
Repubblica ha pubblicato un'inchiesta sul trasferimento coatto dei migranti dalla Germania all'Italia. Negli ultimi mesi dal Paese tedesco sono stati ben 1200 i profughi trasportati in Italia. Salvatore Santoru su it.blastingnews.com il 16 giugno 2019. Nelle ultime ore sta facendo discutere una rivelazione impressionante fatta dal noto quotidiano La Repubblica, una inchiesta sul trattamento decisamente "poco umano" che è stato riservato a dei migranti e/o profughi trasferiti dalla Germania all'Italia. Come riporta un articolo pubblicato sul sito web della popolare agenzia di stampa nazionale ANSA, i trasferimenti di migranti dalla Germania all'Italia via aereo sarebbero regolari e la stessa inchiesta della testata del gruppo l'Espresso è stata intitolata "Porti chiusi, aeroporti aperti". Stando alle rivelazioni riportare nel già citato articolo pubblicato su Repubblica dalla giornalista Tonia Mastrobuoni, in terra tedesca vi sarebbero stati dei veri e propri abusi e violazioni di diritti civili degli stessi rifugiati. Più specificatamente, bisogna segnalare quella di un profugo originario della Sierra Leone, chiamato Abukkabar M, il quale ha detto alla corrispondente della testata italiana che già a novembre del 2018 si era ritrovato con altri cinquanta profughi come lui su un aereo che li trasportava dalla Germania all'Italia. Inoltre, durante l'intervista il migrante di origine africana ha affermato che alcuni suoi compagni 'ribelli' venivano sedati e che tutti loro erano trattati praticamente "come animali". In sei mesi le autorità di Berlino hanno inviato più di 1000 migranti in Italia. Stando all'inchiesta di Repubblica, negli ultimi sei mesi i migranti trasportati dalla Germania all'Italia sarebbero stati ben 1200. Tale fatto è stato reso possibile, sempre secondo quanto sostenuto nel quotidiano, dalla mancata firma del governo italiano sull'intesa con la Germania relativa ai cosiddetti ublinanti, ovvero sia i migranti che secondo le regole stabilite dall'Unione Europea dovrebbero essere trasferiti nei paesi in cui sono approdati per la prima volta. Tale questione ha indubbiamente penalizzato la stessa Italia e, intanto, recentemente si è fatto sentire anche l'attuale Ministro dell'Interno Matteo Salvini. Andando nei dettagli, il segretario della Lega Nord e vicepremier ha decisamente criticato il recente trasferimento di profughi provenienti dalla Germania e ha citato anche alcune affermazioni di Giovanni Paolo II. Su tale questione, bisogna dire che alcuni opinionisti hanno sostenuto che lo stesso leader leghista ha manipolato ed estrapolato le frasi di Papa Wojtyla sull'immigrazione di massa, frasi critiche ma non assimilabili alla retorica salvinista.
Migranti, “sedati e spediti in Italia”. Il ‘trucco’ della Germania: le reazioni. Emanuela Longo il 16 giugno 2019 su Il Sussidiario. Migranti spediti in Italia dalla Germania dopo essere stati sedati: l’inchiesta choc di Repubblica, le reazioni del mondo politico. La Germania avrebbe messo a punto un trucco diabolico per rispedire in Italia i migranti applicando dei metodi per nulla ortodossi. E’ quanto trapela da una inchiesta realizzata dalla giornalista e corrispondente da Berlino, Tonia Mastrobuoni, per il quotidiano La Repubblica. Secondo quanto emerso, la Germania avrebbe sferrato una vera e propria offensiva per trasferire quei profughi che secondo le regole Ue dovrebbero essere trasferiti nei Paesi di primo approdo. Matteo Salvini non perde occasione per ricordare la chiusura dei porti, ma nulla può fare per quanto riguarda gli aeroporti. E così le richieste di trasferire i migranti in Italia sarebbero aumentate vertiginosamente nel primo trimestre dell’anno ed i trasferimenti effettivi avverrebbero a ritmo regolare: tra novembre e marzo sarebbero stati 1114 in tutto. Ma oltre a questo, l’inchiesta di Repubblica riferisce un altro aspetto ancora più inquietante e che avrebbe a che fare esattamente sul trattamento riservato ai migranti. “Il timore è che i profughi vengano sedati per evitare che si ribellino ai trasferimenti. E che subiscano dei maltrattamenti”, scrive la giornalista. Pare infatti diffusa la voce secondo la quale tra gli stessi profughi “sia meglio non accettare bottigliette d’acqua prima di salire sugli aerei. Perché potrebbero contenere calmanti o sonniferi”.
Dopo lo scoop di Repubblica sul presunto trucchetto usato dalla Germania per spedire migranti in Italia, le reazioni del mondo politico non si sono fatte attendere. ça prima arriva dal Pd, tramite il deputato Filippo Sensi che su Twitter ha commentato: “L’inchiesta di Tonia Mastrobuoni su Repubblica svela il fallimento della politica di Salvini sui trasferimenti dei profughi. Aumentano vertiginosamente i trasferimenti in aereo in Italia, dati alla mano. Ai proclami e alla faccia feroce del ministro degli Interni non corrispondono i fatti. Saldo negativo pesante sul quale dovrà venire in Parlamento a rispondere”. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, ha invece voluto attaccare soprattutto la Merkel: “La Germania aumenta i rimpatri degli immigrati clandestini. Come? Li sedano, li ammanettano e li spediscono in Italia. Ecco la strategia dell’idolo degli europeisti Angela Merkel: scaricare il problema sicurezza e immigrazione della Germania sulla nostra Nazione”. Quindi ha chiamato in causa il governo: “Si faccia rispettare in Europa! La soluzione è non far arrivare i clandestini in Italia con un blocco navale europeo, cosa aspetta l’Italia a chiederlo?”.
La Merkel ci manda i migranti: "Storditi e sedati sull'aereo". La Germania si prepara ad aumentare i flussi dei trasferimenti dei "dublinanti". Il trattamento choc per non farli ribellare. Angelo Scarano, Domenica 16/06/2019, su Il Giornale. Berlino nel silenzio generale dell'Europa ci rimanda indietro i migranti "dublinanti". Una vera e propria sfida al governo italiano che va avanti da qualche mese e che adesso potrebbe prendere una piega piuttosto allarmante per l'esecutivo gialloverde. Come riporta Repubblica, secondo i dati più aggiornati del ministero dell'omologo tedesco di Salvini, Horst Seehofer, le richieste di rimandare indietro profughi in Italia sono in crescita. Nel primo trimestre del 2019 sono state ben 4.602, il 33% del totale delle domande fate arrivare a tutti i partner Ue. Soprattutto, un boom del 50% rispetto al trimestre precedente. E a quanto pare i metodi usati dal governo tedesco non sono certo leggeri. Alcuni migranti hanno raccontato che i poliziotti tedeschi li hanno prima buttati per terra per ammanettarli e poi dopo averli sedati li hanno messi sun un volo per Roma. "Ho visto qualcuno scalmanato, che cercava di ribellarsi al trasferimento. Dopo un po’, però, i rivoltosi erano diventati improvvisamente tranquilli, se ne stavano quasi addormentati nei loro sedili, buoni buoni", ha spiegato uno dei migranti tornati in Italia. E di fatto su questo fronte arriva la testimonianza di Raphael Reichel, responsabile di una associazione che difende i migranti in Germania: "Sì, ci sono probabili sedazioni per impedire che fuggano o che si ribellino ai trasferimenti. E non solo in Germania: due mesi fa so che un profugo afgano proveniente da Lione è arrivato stordito a Monaco". Insomma Berlino ci rimanda indietro i profughi senza troppi complimenti e usando le maniere forti. Il pugno di ferro della Germania però stride con le lezioni di buonismo impartite in Europa. Insomma il fronte dell'immigrazione resta caldo e di fatto l'Italia oltre agli ingressi da Sud deve guardarsi le spalle. I tedeschi con i loro voli sono pronti ad aumentare i flussi dei trasferimenti da Berlino a Roma.
Nella civile Germania migranti legati e sedati, ma il mostro resta Salvini…Secolo d'Italia domenica 16 giugno 2019. Qualche giorno fa la Germania ha approvato misure che mirano ad accelerare i rimpatri dei migranti senza permesso. Una tendenza ormai in atto in tutta Europa che solo in Italia comporta tuttavia la continua criminalizzazione del governo e, in particolare, del ministro degli Interni Matteo Salvini. Il quotidiano la Repubblica oggi apre proprio con una serie di servizi che raccontano il trattamento riservato ai migranti che si ribellano al respingimento: la polizia tedesca farebbe uso non solo delle manette ma anche di sedazioni coatte. E mentre qui si discute del decreto sicurezza bis come di una legge disumana in Germania le nuove norme prevedono che il migrante possa essere incarcerato pochi giorni prima del rimpatrio per impedirgli di fuggire…Repubblica racconta anche la testimonianza della scrittrice berlinese Anja Tuckermann sul rimpatrio di una famiglia: “Davanti ai figli piccolissimi sia il padre sia la madre sono stati ammanettati dalla polizia con le mani dietro la schiena, come dei criminali. E poi portati via. I bambini, spaventati a morte, hanno continuato a piangere e urlare finché non sono stati ricongiunti ai genitori”. Inoltre, racconta il quotidiano, il governo e i land stanno esercitando una “pressione enorme” sulle parrocchie affinché non concedano più protezione ai profughi. Un quadro a tinte fosche che dimostra come la linea dura verso i clandestini sia prassi costante da parte degli altri governi europei mentre solo in Italia si continua a gridare irresponsabilmente al ritorno del fascismo o addirittura a paragonare le nuove leggi sulla sicurezza al regime hitleriano.
"Rom e immigrati? No ai Parioli". Ed è ancora bufera su Lerner. Duello tra Federico Rampini e Gad Lerner a Le parole della settimana su Rai Tre. Al centro del dibattito l'accoglienza per i nomadi e i richiedenti asilo, scrive Angelo Scarano, Mercoledì 17/04/2019, su Il Giornale. Duello tra Federico Rampini e Gad Lerner a Le parole della settimana su Rai Tre. Il giornalista di Repubblica di fatto in un suo intervento in tv punta il dito contro la sinitra che da qualche tempo si schiera sistematicamente a difesa di rom e immigrati. Una presa di posizione che di fatto, come ha ricordato ilGiornale, spiazza il panorama dei commentatori rossi, come lo stesso Gad Lerner. E così va in scena lo scontro. Rampini non usa giri di parole e affonda il colpo: "Guarda caso queste storie terribili accadono soltanto nei quartieri popolari, dove ormai il Partito Democratico prende voti. Non è ai Parioli che ci sono questi problemi di convivenza tra poveri. E se la sinistra prende voti solo ai Parioli ci sarà una ragione". A questo punto arriva, stizzito, l'intervento di Lerner che ribatte proprio sul tema dell'accoglienza per rom o richiedenti asilo: "Il problema è che ai Parioli e nelle altre zone dei centri cittadini, un edificio, un locale ha un tale valore immobiliare che nessuno mai penserebbe di destinarlo all’accoglienza dei richiedenti asilo o dei rom". Insomma tra le righe il concetto che passa è abbastanza chiaro: i risedenti dei quartiri borghesi possono giudicare chi non vuole immigrati e rom come vicini di casa, ma di certo "dato l'elevato valore degli immobili" non possono certo accogliere loro i disperati. La dittatura del radicl-chic dunque si palesa un'altra volta. Accoglienza sì, ma lontano da casa mia...
La Germania gradassa ci riempie di immigrati. Michel Dessì 18 giugno 2019 su Il Giornale. Drogati, ammanettati e rispediti in Italia. Come pacchi postali, merce di scambio. Ecco come si comporta la civilissima Germania con gli immigrati che, una volta sbarcati sulle nostre coste, hanno deciso di andare nel loro ricco Paese. Lì non ci possono stare e via con le partenze forzate. Proprio loro sì, i tedeschi. Sempre pronti a farci la paternale, a richiamarci all’ordine e al rigore. A dirci ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Loro. A dirlo sono le testimonianze degli immigrati rimandati indietro. Una volta sbarcati a Fiumicino sono liberi di andare in giro per il Paese e, molti di loro, passano per Roma, dalla stazione Tiburtina. Il punto di incontro dei migranti rimasti senza un posto dove dormire, mandati via dai centri di accoglienza. A guidarli c’è l’associazione Baobab. “È la polizia di frontiera che gli dice di venire qui da noi perché sanno che gli diamo un pasto caldo al giorno e gli offriamo un materassino per dormire.” Dice Andrea Costa, responsabile di Baobab, un’associazione che, fino a qualche tempo fa, occupava abusivamente il parcheggio di un’azienda nei pressi della stazione. Salvini ha deciso di sfrattarli azionando la famosa ruspa e oggi vivono per strada (come ieri d’altronde, quando dormivano in tende di fortuna), sotto la pensilina dei bus. Sono fantasmi, si aggirano per le strade e nessuno li controlla, nessuno sa chi sono. Nessuno conosce la loro storia, il loro passato. Molti non hanno i documenti in regola e altri, invece, hanno un foglio di via ma restano qui. Ed è per strada che incontriamo un migrante, un invisibile, che ci racconta le “torture tedesche”. “Loro gli danno delle medicine per farli diventare stupidi, per farli diventare deboli così non oppongono resistenza. Poi li scortano con dei blindati in aeroporto e li caricano sugli aerei, è pieno di polizia. Alcuni di loro vengono legati o ammanettati. Così mi ha raccontato un mio amico che hanno fatto tornare qui in Italia.” Racconti raccapriccianti, quasi da non credere. Una vera deportazione. I racconti vengono fuori e la sinistra tace. E se lo avesse fatto Salvini? Apriti cielo: “razzista, fascista, peggio di Mussolini, peggio di Hitler.” L’Europa avrebbe sbraitato, richiamato, multato per eccesso di disumanità. Tutti avrebbero chiesto la testa di Matteo Salvini, invece? Il silenzio. Chissà quante lenzuola appese sui balconi avremmo visto in tutta Italia, da nord a sud. E invece nulla. Nessuno condanna e punta il dito. Nessuno.
Estratto dall'articolo di Alessandra Ziniti per ''la Repubblica'' il 22 giugno 2019. Non hanno nessuna intenzione di dimenticare, né paura di denunciare. E allora eccoli qui Joelson e Tatiana, mano nella mano, la piccola Leora in braccio, nel centro di accoglienza di Napoli gestito dalla Ong Laici Terzo Mondo, a raccontare il loro ritorno in Italia da "dublinanti", l'agghiacciante brutalità con la quale sono stati rispediti in Italia dalla Svizzera (…) "In manette, le catene ai piedi, picchiati e incappucciati. E volevano anche toglierci la bambina, che non aveva ancora un anno, perché lei è nata a Berna. Ma noi non l'avremmo lasciata mai". Si accalorano Joelson, 25 anni, del Camerun, e Tatiana, 23 anni della Costa d'Avorio, partiti dalla Libia a giugno 2017, salvati da una nave umanitaria, approdati a Salerno, trasferiti in un centro di accoglienza a Torino prima di attraversare il confine in direzione Svizzera. E ora riportati in Italia, a Napoli, da Zurigo. Le loro voci si accavallano mentre ricostruiscono il giorno in cui nel villaggio montano di Albinen dove vivevano da più di un anno hanno ricevuto la visita della polizia. "Dovete andare via da qui, vi rimandiamo in Italia". Di essere stati colpiti dalla scure del regolamento di Dublino, Joelson Mbah e sua moglie Tatiana Logbo lo sapevano. "Avevamo già firmato le carte per il trasferimento. Non c'era motivo di tanta violenza. Ci hanno trattato come bestie".
Estratto dall'articolo Tonia Mastrobuoni per ''la Repubblica'' il 22 giugno 2019. Sono quasi mille, per la precisione 967, i "dublinanti" trasferiti dalla Germania all'Italia tra gennaio e maggio di quest'anno. E le richieste del governo tedesco di ricollocare profughi nel nostro Paese sono state ben 7.725. Insomma, non sembra placarsi il flusso di profughi provenienti dal Nord. Nell'inchiesta di domenica scorsa avevamo raccontato di 557 richiedenti asilo trasferiti in Italia nei primi tre mesi dell'anno, altrettanti erano stati trasferiti negli ultimi tre del 2018. Ora scopriamo, sempre dal ministero guidato da Horst Seehofer, che quei viaggi continuano ad avvenire regolarmente, e anche che la pressione del collega tedesco su Matteo Salvini è altissima. Di più: la Germania sta trattando con l'Italia per riprendere i voli via charter di cui Repubblica aveva raccontato nell'estate del 2018. Convengono a entrambi, sostiene. Quanto ai profughi legati o persino sedati per farli salire sugli aerei, il ministero tedesco ritiene la prima una prassi assolutamente legittima e nel secondo caso nicchia. Sostiene di "non esserne al corrente" ma di ritenere in ogni caso una soluzione del genere "illegale".
NEO-NAZI POLIZEI. Gerry Freda per Il Giornale il 26 giugno 2019. In Germania, il sindacato nazionale della polizia federale ha dichiarato che “quasi tutti” i propri iscritti avrebbero ormai aderito al partito nazionalista AfD. La Gewerkschaft der Polizei, principale organizzazione rappresentativa degli agenti di pubblica sicurezza federali, ha infatti ammesso, per bocca del suo vicesegretario Jörg Radek, che i rispettivi membri avrebbero sposato la causa sovranista quale reazione polemica alle “sciagurate politiche di accoglienza indiscriminata” attuate a partire dal 2015 dal governo di Angela Merkel. Parlando ultimamente con i cronisti del quotidiano Rheinische Post, Radek ha appunto denunciato lo “sconforto” e la “sensazione di abbandono” provati dai poliziotti tedeschi a causa del “lassismo sul fronte della salvaguardia dei confini” promosso negli ultimi quattro anni dalla cancelliera. “Il governo Merkel”, ha accusato il vicesegretario sindacale, “non ha mai rivelato alle forze dell’ordine e ai cittadini il perché dell’azzeramento dei controlli anti-clandestini alle frontiere nazionali. Il personale di pubblica sicurezza si è di conseguenza sentito poco considerato dall’esecutivo e ha così deciso di orientarsi in massa verso il programma elettorale di AfD, formazione politica giudicata riconoscente verso lo spirito di sacrificio e il patriottismo di uomini e donne in divisa”. Le parole di Radek, dirette a descrivere il progressivo sostegno alle istanze sovraniste da parte della polizia nazionale come una conseguenza della linea dei “confini aperti” propugnata finora dalla cancelliera, hanno subito causato un duro dibattito interno alla Cdu, il partito della Merkel. L’esponente cristiano-democratico Friedrich Merz ha infatti definito “allarmante” la crescente adesione ad AfD dei tutori dell’ordine pubblico e ha poi promesso di impegnarsi per fare recuperare al centro-destra tradizionale la fiducia dei “delusi dalle scelte avventate dell’esecutivo federale”. Costui ha poi affermato, dalle colonne della testata Bild am Sonntag: “Gli agenti disprezzano il nostro partito perché abbiamo dimostrato ambiguità nei confronti dei garanti della sicurezza pubblica. La Cdu del futuro deve stare con orgoglio dalla parte delle forze dell’ordine, senza se e senza ma”. Le esternazioni di Merz sono state però criticate da diversi suoi compagni di partito ed etichettate come un tentativo di “accattivarsi” le simpatie dei poliziotti in vista di una sua nuova corsa alla presidenza della formazione politica conservatrice. Alle ultime elezioni per la guida dei cristiano-democratici, lo stesso Merz è stato appunto sconfitto dalla “candidata della Merkel”, Annegret Kramp-Karrenbauer. Tuttavia, nonostante la sua leadership nella Cdu sia stata decretata ufficialmente appena sei mesi fa, quest’ultima sarebbe, a detta dei media tedeschi, “già in bilico”, avendo condotto il centro-destra tradizionale, alle recenti elezioni europee, a un risultato non esaltante. Di conseguenza, la corsa per la presidenza del partito della cancelliera potrebbe presto ripartire e Merz starebbe quindi provando a consolidare una rete di appoggi istituzionali con l’intento di conquistare finalmente la guida dei conservatori teutonici. Tale strategia “opportunistica” del rivale della Kramp-Karrenbauer è stata denunciata con forza da Volker Bouffier, vice-presidente dei cristiano-democratici, che ha poi esortato tutti gli esponenti della Cdu a recedere da ogni proposito di “inseguire AfD sulla strada del sovranismo”. Egli ha appunto rigettato ogni ipotesi di intesa programmatica tra i conservatori tradizionali e la formazione nazionalista, incolpando contestualmente quest’ultima di avere “armato la mano” dell’assassino di Walter Lübcke, politico vicino alla Merkel e sostenitore della linea dei “confini aperti”. Nonostante l’assenza di prove di legami tra il presunto killer di Lübcke e AfD, tale movimento anti-migranti avrebbe, a detta di Bouffier, indotto, montando una continua propaganda contro l’accoglienza dei profughi, individui mentalmente fragili a compiere gesti estremi contro i“nemici della patria”, ossia le personalità vicine al “lassista” governo Merkel.
“Obbligare i migranti a integrarsi per frenare destra”, scrive il 22 aprile 2019 Roberto Vivaldelli su Gli Occhi della Guerra. Confini aperti e multiculturalismo? No grazie. L’ex primo ministro britannico Tony Blair, in un intervento pubblicato sul suo Institute for Global Change, scarica i “mantra” sull’immigrazione della sinistra politically correct e spiega che le comunità di migranti devono essere costrette a fare di più per integrarsi e aiutare a combattere l’ascesa del “bigottismo di estrema destra”. Tony Blair osserva che i successivi governi al suo “non sono riusciti a trovare il giusto equilibrio tra diversità e integrazione”, mentre il concetto di multiculturalismo è stato usato impropriamente come un modo per giustificare un “rifiuto di integrarsi”. Secondo l’ex leader laburista, riporta il Guardian, le scuole dovrebbero essere spinte ad avere un assetto che rifletta la diversità locale, creando un programma di cittadinanza obbligatorio per gli adolescenti e rafforzando i provvedimenti nei confronti degli autori di discorsi di incitamento all’odio.
Tony Blair ammette: “Multiculturalismo non può essere pretesto”. L’ex primo ministro osserva nel rapporto pubblicato sull’Institute for Global Change che “in un periodo di tempo significativo, anche quando eravamo al governo, la politica non è riuscita a trovare il giusto equilibrio tra diversità e integrazione”. Da un lato, prosegue Tony Blair, “i fallimenti legati all’integrazione hanno portato ad attacchi alla diversità” e sono “in parte responsabili di una reazione contro l’immigrazione. D’altro canto, la parola multiculturalismo è stata erroneamente interpretata cime un rifiuto giustificato di integrarsi, quando non avrebbe mai dovuto significare questo”. “Specialmente ora, quando il bigottismo di estrema destra è in aumento, è importante stabilire il contratto sociale corretto intorno ai diritti e ai doveri dei cittadini, compresi quelli che migrano nel nostro Paese”. Blair, 65 anni, primo ministro dal 1997 al 2007, sottolinea che “è necessario integrare, accettare le regole, le leggi e le norme della nostra società che tutti i cittadini britannici hanno in comune e condividono” pur tutelando il diritto “alle diversità”. “Senza il diritto, ad esempio, di praticare la propria fede, la diversità non avrebbe alcun contenuto; ma senza il dovere di integrarsi, cultura o fede possono essere usate come un modo per sconvolgere quel fondamentale contratto sociale che ci lega insieme”. L’integrazione, prosegue Blair, “non è una scelta; è una necessità”.
Sull’immigrazione Federico Rampini distrugge la sinistra “Open Borders”. Che anche a sinistra qualcuno stia – finalmente – comprendendo la follia dell’ideologia “Open Borders”, lo si comprende anche leggendo l’ultimo saggio di Federico Rampini intitolato La notte della sinistra (Mondadori). Il noto corrispondente di Repubblica dagli Stati Uniti, fa a pezzi tutta la retorica della “sinistra” politicamente corretta in tema di immigrazione, sottolineando che “una delle frasi in codice che oggi ti fanno riconoscere come uno stimato opinionista di sinistra è che ‘dobbiamo stare dalla parte dei più deboli’. Sottinteso: purché i deboli siano stranieri, possibilmente senza documenti, meglio ancora se hanno la pelle di un colore diverso dal nostro. Sono deboli se corrispondono a questa descrizione”. “Almeno – scrive Rampini – una parte della sinistra ha deciso che sono sempre e soltanto queste le vittime dell’ingiustizia, per definizione. Tanto peggio per i pensionati poveri, con cittadinanza italiana, se la sera hanno paura a rincasare da soli perché davanti al loro portone comandano gli spacciatori”.
Anche Bernie Sanders scarica i politicamente corretti: “Non è la mia visione”. Chi condivide le posizioni espresse da Tony Blair è il Senatore americano Bernie Sanders, candidato alle primarie del Partito democratico americano. Durante un comizio a Oskaloosa, Iowa, l’esponente di sinistra dei dem Usa ha sottolineato di non essere d’accordo sulla retorica dei “confini aperti”. Per Sanders, infatti, “ciò di cui abbiamo bisogno è una riforma globale dell’immigrazione”, ha proseguito. “Se apri i confini, mio Dio, c’è molta povertà in questo mondo e avrai persone da tutto il mondo. E non penso che sia qualcosa che possiamo fare a questo punto. Non possiamo farlo. Quindi questa non è la mia posizione”. A sinistra pare quindi che qualcuno stia comprendendo i rischi del globalismo e dell’immigrazione di massa, soprattutto per le fasce più deboli e svantaggiate della popolazione. In Italia ancora no, dato che il nuovo Segretario del Pd Nicola Zingaretti ha appena firmato un appello per lo Ius Soli. Di recente, a Piazza Pulita, Zingaretti ha spiegato che bisogna avere il “coraggio di dire porti aperti” e dare “all’Italia una legge che regoli l’immigrazione, abolendo la Bossi-Fini”. Parole di chi è completamente sconnesso con la realtà. Da molto tempo.
L’immigrazione di Bernie Sanders, scrive il 9 aprile 2019 Piccole Note de Il Giornale. Interessante anche, sotto un altro profilo, una dichiarazione di Bernie Sanders, candidato alle presidenziali Usa per il partito democratico, il quale, seppur favorevole a una politica di integrazione, si è detto contrario alle Frontiere aperte in maniera indiscriminata. “Non penso che sia qualcosa che possiamo fare in questo momento – ha affermato -, se apri i confini, mio Dio, c’è molta povertà in questo mondo e avrai persone da tutto il mondo”. Lo dice un democratico convinto, non un rozzo sovranista. E dice, male (molto male, in particolare quel cenno alla povertà del mondo che sembra percepita come pericolo e non come tragedia che interpella – ma forse è una sintesi errata), una cosa alquanto ovvia: i flussi migratori devono essere gestiti (Sanders parla di una “politica dell’immigrazione”). Insomma, c’è molta retorica anche sulla gestione dei flussi migratori, i quali vanno affrontati alla radice, creando stabilizzazione laddove dilaga la destabilizzazione. Da questo punto di vista, ostacolo primario all’attutimento della conflittualità globale, e quindi alla stabilizzazione, è la frattura tra Oriente e Occidente, alimentata peraltro da alcuni ambiti che sponsorizzano l’apertura indiscriminata delle frontiere (come ad esempio l’Open Society di George Soros, ferocemente anti-russa). Paradossi della politica e della narrativa. Fake news propalate dai cacciatori di Fake.
Federico Rampini per “la Repubblica” l'8 novembre 2019. «C' è una situazione terribile a Los Angeles e San Francisco, queste città diventano un inferno. E' ora di mettere ordine». E' stato Donald Trump ad attirare l'attenzione nazionale sull' altra "calamità" che colpisce la California: dopo gli incendi, gli homeless. Il record spetta alla contea di Los Angeles: sessantamila senzatetto. La La Land, la terra che ha venduto al mondo intero le immagini del Sogno Americano, a pochi isolati dalle ville delle celebrity di Hollywood vede allargarsi di mese in mese le tendopoli. I torpedoni che portano in visita turisti da tutto il mondo, li espongono a uno spettacolo sconcertante: vicino a luoghi mitici come The Hall of Fame, il Sunset Boulevard, un esercito di derelitti bivacca all'aperto. E' legittimo il sospetto che il presidente voglia distogliere l'attenzione dai suoi problemi, che cerchi ogni pretesto per attaccare la California ultra-progressista. Ma dalla sinistra che governa questo Stato si levano voci altrettanto drammatiche. «Viviamo una tragedia - dice l' assessore alla Sanità di Los Angeles, Mark Ridley Thomas - è impensabile e disumano fare finta di niente». Reagisce a questo dato: 1.047 morti fra gli homeless di Los Angeles in un solo anno, una mortalità raddoppiata negli ultimi cinque anni. Tra overdose, suicidi, omicidi, malattie da povertà, la longevità media di questi emarginati è scesa a 51 anni: roba da Paesi sottosviluppati. Peter Lynn, che dirige l' agenzia comunale per i senzatetto, parla di «emergenza umanitaria e morale». Il sospetto che Trump strumentalizzi la situazione contro lo Stato che è il più ricco bacino di voti democratici, non toglie nulla alla gravità. Certo è sempre esistito un volto oscuro della California, la letteratura noir da Raymond Chandler a Don Winslow ci ha raccontato una Los Angeles squallida e violenta; le baraccopoli sono il paesaggio di John Steinbeck in "Furore": ma allora c'era la Grande Depressione. Los Angeles oggi trasuda opulenza, selve di gru segnalano il boom immobiliare, la speculazione avanza perfino su Skid Row che fu il primo insediamento storico dei senzatetto. Un veterano del giornalismo locale, Thomas Curwen del Los Angeles Times, "batte" i marciapiedi di questa città da una vita e conferma la gravità. «Trent' anni fa - dice - riapparirono baraccopoli e accampamenti, Tent City e Justiceville, poi spesso vennero rasi al suolo d' autorità. Oggi sono ovunque, tra Broadway Place e la 39esima Strada, a Hollywood e Bel-Air». E' sempre Trump a puntare il dito su un altro aspetto di questa emergenza: con l' invio di una task force federale e la denuncia di diverse città californiane per "violazioni di leggi sanitarie". Coglie la crescente insofferenza di una parte della popolazione verso gli "invasori" che occupano i marciapiedi, si ubriacano o si drogano all' aperto, usano strade e giardini pubblici come latrine, lasciano feci e siringhe usate. C' è stata un' epidemia di tifo perfino nella sede del municipio, il City Hall di Los Angeles. Il sindaco Eric Garcetti ha dovuto stanziare 27 milioni di dollari per "igiene dei marciapiedi", un eufemismo che indica la raccolta di feci umane. Charles Kesler che dirige una rivista locale colta e raffinata, la Claremont Review of Books, invoca il ripristino delle leggi contro il vagabondaggio. Modello Idaho: dove è stato reintrodotto l' arresto per chi rifiuta il ricovero nei centri d' accoglienza. Una svolta nell' opinione pubblica locale risale al 2017, quando un senzatetto di Bel-Air diede il via a un incendio che si diffuse a West Los Angeles. Da allora, ogni tanto è riemersa la tentazione di una "caccia all' untore", o al piromane, nelle tendopoli (anche se gli ultimi incendi sono stati appiccati dai cavi della utility elettrica). Altro segnale d' insofferenza: la rivolta del quartiere di Venice contro un progetto di alloggi popolari in mezzo alle ville con vista sul Pacifico. Non è facile definire le cause di questa emergenza. La percentuale di californiani sotto la soglia ufficiale della povertà è ai minimi storici, eppure il numero di homeless è cresciuto del 20% in tre anni. La California rappresenta il 12% della popolazione degli Stati Uniti ma ospita il 50% dei senzatetto. Pete White, fondatore della ong L.A. Can, attiva da anni nell' assistenza ai senzatetto, vuole sfatare un mito: «E' falsa la leggenda secondo cui vengono qui dal resto degli Stati Uniti, perché abbiamo un bel clima e leggi più tolleranti sul vagabondaggio. La maggioranza degli homeless di Los Angeles hanno sempre vissuto qui; una parte di loro aveva casa e una vita abbastanza normale, nello stesso quartiere dove oggi sono accampati». Tra le spiegazioni: 28% soffre di malattie mentali ed è abbandonato dal sistema sanitario; il 20% ha problemi di alcolismo o tossicodipendenze. Poi ci sono gli ex-carcerati: la California ebbe leggi durissime sulla recidiva che fecero esplodere la popolazione dei suoi penitenziari; di recente ha depenalizzato molti crimini e liberato detenuti, che sono per strada. Non aiuta il fatto che i centri di accoglienza vietano droghe, alcol, e animali domestici. Infine c' è una parte di questo popolo dei marciapiedi che è vittima proprio dell' opulenza. Emblematica la storia di Marquesha Babers, una ragazza "sopravvissuta" dopo essere stata accolta dai religiosi della Union Rescue Mission: «Andavo a scuola tutte le mattine dopo aver dormito in un rifugio. Come me ne conosco tanti: homeless che vengono da famiglie normali, gente che ha un lavoro a tempo pieno ma deve dormire in una tenda o in automobile. Questa città ha degli affitti così alti che il salario minimo legale non basta a pagare il canone». Le case qui costano il triplo della media nazionale (600.000 contro 200.000 dollari). Per intervenire su questa fascia di "lavoratori-poveri" è nato il progetto tecnologico di Brenda Wievel alla University of Southern California: usare Big Data per segnalare i casi a rischio, prevenire anziché curare, intervenire con assistenza pubblica prima che le famiglie a basso reddito scivolino nell' indigenza irreversibile e nel degrado. La tragedia torna a incrociare la politica nazionale: la californiana Apple ha appena annunciato che stanzierà 2,5 miliardi per costruire alloggi popolari. Scatenando la reazione durissima del candidato democratico Bernie Sanders: «Non risolveremo il problema con la beneficenza di multinazionali che evadono le tasse».
«Antifascisti Usa sono terroristi». Repubblicani contro gli attivisti. Pubblicato domenica, 21 luglio 2019 da Corriere.it. Le azioni violente di gruppi antifascisti contro la politica sugli immigrati del governo Trump hanno spinto due senatori repubblicani a presentare una risoluzione non vincolante per chiamarli «terroristi locali»: «Gli antifascisti sono terroristi, bulli violenti e mascherati che combattono il fascismo con un altro fascismo protetti dal privilegio liberale - ha spiegato il senatore Bill Cassidy, uno dei firmatari della mozione -. I bulli fanno quello che vogliono finché qualcuno non dice no. I rappresentanti del popolo devono avere coraggio di prevenire il terrore». Alla fine di giugno a Portland, in Oregon, un gruppo di attivisti ha occupato la strada davanti all’ufficio per l’Immigrazione e «schedato» i suoi funzionari mettendo i loro dati online. Nove gli arresti. La protesta, chiamata Occupy Ice (Immigration and Custom Enforcement) ha avuto luogo anche a New York, in California, a Washington e in altre parti degli Stati Uniti. L’obiettivo è contestare la politica di dividere i bambini dai loro genitori quando varcano il confine con il Messico ma i metodi dei gruppi sono spesso violenti come quando il giornalista conservatore Andy Ngo è stato picchiato a Portland. La risoluzione, che è sponsorizzata anche dal senatore repubblicano Ted Cruz, non cambierebbe la legge ma permetterebbe alla polizia di condurre indagini approfondite sulle associazioni piuttosto che sui singoli. I media conservatori come Fox News o la National Review chiamano già da tempo gli antifascisti «terroristi». Il rischio è di bollare con quest’etichetta chiunque si opponga ai suprematisti bianchi. Per l’Anti-Defamation League, l’organizzazione che si oppone all’antisemitismo, «questo potrebbe portare la polizia a violare i diritti civili di attivisti pacifici». «Gli antifascisti rifiutano il razzismo ma usano metodi inaccettabili. I suprematisti bianchi, però, sono molto più violenti e diffondono un’ideologia di odio, intimidiscono le minoranze etniche e minano le regole della democrazia» spiega l’associazione che fa notare come negli ultimi dieci anni gli estremisti di destra abbiano ucciso centinaia di persone, gli antifascisti nessuna. Hina Shamsi, direttrice del progetto di sicurezza nazionale all’American Civil Liberties Union, ha detto al Washington Post, che è contraria all’uso della parola «terroristi locali» per i gruppi di protesta: «È molto pericoloso usare etichette che non sono riconducibili alla condotta individuale. E abbiamo già visto come la parola terrorismo è stata usata a sproposito in questo Paese».
«Un confine anti migranti tra Colorado e Nuovo Messico»: la gaffe di Trump e le ironie social. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 da Corriere.it. Si scatena l’ironia nei social per la promessa del presidente degli Stati Uniti Donald Trump durante una conferenza sull’energia a Pittsburgh, per combattere l’immigrazione clandestina. L’idea sarebbe quella di costruire un muro tra Colorado e Nuovo Messico. «Sapete perché vinceremo il Nuovo Messico? Perché loro vogliono sicurezza alla frontiera — afferma e aggiunge — costruiremo un muro al confine del Nuovo Messico e costruiremo un muro in Colorado». Peccato che il Colorado non confini con il Messico ma con lo stato del New Mexico. Il governatore democratico del Colorado, Jared Polis lo ha ritenuto «imbarazzante, il Colorado non è al confine col Messico. È un bene che qui da noi offriamo l’asilo a tempo pieno e gratuito ai nostri bambini, così possono imparare le basi della geografia». Mentre su Su Twitter, per sbeffeggiare Trump, il senatore democratico Patrick Leahy , ha pubblicato una mappa col “nuovo” confine pensato da presidente.
Stati Uniti, Trump pensò a un fossato pieno di coccodrilli al confine con il Messico per fermare i migranti. Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 da Corriere.it. Un fossato con coccodrilli e serpenti come trincea d’acqua lungo il confine con il Messico: è una delle idee di Donald Trump per fermare i migranti. Il presidente Usa qualche mese fa era arrivato a chiedere ai collaboratori di stimare il costo di un progetto del genere. E dopo aver suggerito pubblicamente che i soldati sparassero ai migranti se tiravano pietre, il presidente fece marcia indietro quando gli fu spiegato che era illegale ma poco dopo in un incontro suggerì che sparassero loro alle gambe. Sono alcuni dei dettagli rivelati dal New York Times che ha pubblicato un articolo con alcune anticipazioni del libro in uscita l’8 ottobre intitolato «Border Wars: Inside Trump’s Assault on Immigration», ovvero «Guerre di frontiera: dentro l’assalto di Trump all’immigrazione», scritto dai giornalisti Mike Shear e Julie Hirschfield Davis. Secondo quando riferito dal quotidiano, fra l’altro, a marzo scorso in una riunione nello studio Ovale Donald Trump ordinò a suoi più stretti collaboratori di chiudere l’intero confine di 2000 km col Messico entro il mezzogiorno del giorno dopo, gettandoli nel panico. Poi fu persuaso a non farlo ma si vendicò iniziando una serie di purghe di coloro che avevano tentato di contenerlo.
Da repubblica.it il 2 ottobre 2019. "Il presidente Trump ha suggerito si sparare ai migranti che tirano pietre al confine con il Messico e quando gli hanno detto che sarebbe stato illegale ha proposto di sparare alle gambe". Il New York Times svela quanto riferito da fonti interne alla Casa Bianca a proposito della politica sull'immigrazione voluta dal capo della Casa Bianca. La proposta di Trump sarebbe stata fatta lo scorso marzo durante un meeting nello studio ovale e a raccogliere le confidenze sulle volontà del presidente sono stati due giornalisti, Mike Shear e Julie Hirschfield Davis, che hanno scritto un libro intitolato "Border Wars: Inside Trump's Assault on Immigration", ovvero "Guerre di frontiera: dentro l'assalto di Trump all'immigrazione". Secondo il quotidiano lo scorso marzo, sempre in una riunione nello studio Ovale, Donald Trump ordinò a suoi più stretti collaboratori di chiudere l'intero confine di 2000 km col Messico entro il mezzogiorno del giorno dopo, gettandoli nel panico. Poi fu persuaso a non farlo ma si vendicò iniziando una serie di purghe di coloro che avevano tentato di contenerlo. E questo mentre privatamente parlava spesso di fortificare il muro al confine col Messico con una trincea d'acqua piena di serpenti e coccodrilli, sollecitando i collaboratori a stimare i costi.
Clan, cowboy e migranti nel deserto degli Apache. Pubblicato sabato, 22 giugno 2019 da Guido Olimpio su Corriere.it. Seguendo il tracciato del muro mi sposto verso Ovest, per raggiungere il cuore di Nogales. Cammino tra i negozi semivuoti, molti gestiti da asiatici immigrati qui da decenni. Vendono scarpe, occhiali, apparati stereo, giocattoli. Rimbomba la musica latina. Una vetrina espone abiti da sposa, i manichini sono le prime cose che vede chi attraversa a piedi la garitta doganale. C’è meno gente rispetto al passato, per alcuni è colpa dei controlli, per altri dei prezzi. Devio dalla strada principale per risalire verso la barriera. Le case sono incollate al muro, stessa cosa dall’altro lato. Situazione ideale per i contrabbandieri: si arrampicano, saltano giù e si infilano nel centro abitato. Oppure scavano. Qualche tempo fa hanno individuato un tunnel segreto che iniziava all’interno di una tomba per poi proseguire in direzione degli Usa, un secondo sbucava sotto un parcheggio usato dai veicoli di servizio. Se ne fregano di chi c’è sopra. Però devono essere lesti, visto che gli uomini della Border Patrol presidiano in forze, facendosi aiutare dalle telecamere. Li metto alla prova. Scendo dalla mia macchina, faccio due passi, posso sfiorare la palizzata. Trascorrono meno di cinque minuti che spunta un agente a bordo di un Suv. Mi scruta, se ne va. Falso allarme. Anche i gangster fanno dei test: lanciano dei pacchi identici a quelli della droga, un modo per verificare i tempi di reazione. Le vedette dei criminali sono posizionate in piccole casette dai colori vivaci, in una villa con torretta, su tetti in lamiera. Ogni punto elevato è utile per spiare l’andamento lento di tutti giorni, i pattugliamenti, i cambi, i lunghi convogli ferroviari che varcano il muro attraverso un enorme cancello aperto manualmente. Tocca agli ispettori chinarsi per verificare che sotto i vagoni non ci sia qualche intruso. Dalla motrice sale forte il fischio della sirena. È la routine del confine, quella che non c’è a ovest, attorno a Arivaca, minuscolo insediamento circondato da fattorie. Da qui sono passati gli indiani, i conquistadores spagnoli, i cercatori d’oro e d’argento, infine i «bajadores», i banditi della frontiera e gli uomini dei cartelli. Ognuno ha lasciato e lascia le sue testimonianze. I ruderi sono quelli di chi picconava sperando di trovare il filone fortunato. Il buco nella roccia è la macina rudimentale dei nativi. La tenda mimetica è ciò che resta di un accampamento creato dagli «esploratori» narcos, complici mandati sulle montagne per favorire il transito dei carichi. Dotati di binocoli, radio criptate, pannelli solari, svolgono una missione fondamentale all’interno di un network poderoso creato a cavallo della frontiera. Arrivano a guadagnare anche 2 mila dollari al mese, sono determinati e spesso hanno a tracolla un Kalashnikov.
Anche Jim Chilton, proprietario di un ranch, è armato. Un fucile dietro l’uscio di casa, una doppietta in un’altra stanza, una pistola Glock quando esce per ispezionare la mandria. È l’unica sentinella. Coraggiosa. La Border Patrol si affida a qualche rara unità, ai sensori, alle torri mobili, zeppe di apparecchi elettronici e zoom. Ma servono a poco visto che la zona non ha mai conosciuto un muro. A dividere il Messico dagli Stati Uniti un po’ di filo spinato, staccionate in ferro. Definirli ostacoli è una barzelletta. Per anni Jim ha lanciato allarmi, per anni non lo hanno ascoltato. La Casa Bianca si è accorta del problema, ma a fini elettorali. E il presidente ha invitato Chilton sul palco ad un suo comizio, uno show per la platea. Nella realtà di tutti i giorni Jim e sua moglie Sue restano soli, spettatori di un transito continuo di spalloni della droga. Sono a bordo del pick up del cowboy, portiamo blocchi di sale per le mucche. Primo compito della giornata, seguito dalla verifica dei serbatoi dell’acqua. Il paesaggio è meraviglioso. Non puoi non pensare al passato, quando qui comandavano gli Apache, in seguito scacciati dai Buffalo Soldiers, i soldati di colore che ad Arivaca avevano un avamposto. Poi i pionieri, piegati dalla fatica e risollevati dalla speranza di trovare un nuovo mondo. Infine avventurieri e chi come Little Eddie, stanco di progettare software, si è stabilito in una casupola da queste parti. O il figlio dei fiori rimasto in zona dopo un mega raduno negli anni Ottanta, i soldi per vivere gli arrivavano dal padre, un riccone della costa Est. Hanno marciato tutti su questi sentieri, oggi diventati una delle vie per gli stupefacenti. Per questo bisogna stare in guardia. Dopo una serie di saliscendi incrociamo un camioncino. Jim rallenta fino a fermarsi e scambia qualche battuta con il guidatore del veicolo. «Questa è terra privata, restate sempre sulla strada», avvisa Chilton e mentre pronuncia le parole impugna la pistola tenendola sotto il finestrino. Non è un gesto minaccioso, soltanto una normale precauzione. Poco lontano da qui è stato ucciso un agente. Jim ha nascosto delle telecamere in punti strategici per documentare il traffico illegale, il patio del suo ranch è cosparso di soprascarpe fatte di pezze, una trovata per non lasciare impronte. Metodo semplice alternato a quello della coperta tirata dietro dall’ultimo uomo della fila.
L’attenzione generale è puntata adesso a sud di Yuma. Una grande pianura stretta tra un deserto inospitale, dune sabbiose e campi coltivati. Negli ultimi mesi sono arrivate ondate di immigrati provenienti da Salvador, Guatemala, Honduras: si sono consegnati alle autorità nella speranza di ottenere asilo negli Usa, oltre 144 mila gli arrestati a maggio. A San Luìs, altro punto doganale, ho visto fermare uno di questi gruppi. Giovani, adulti, qualche minore. Una ragazza stremata dal calore è soccorsa da un infermiere. Restano all’ombra della muraglia, possente e in certi tratti doppia. Solo che i clandestini la violano in zone meno difese, quindi proseguono fino a trovare la prima pattuglia. Di nuovo, la barriera tocca aziende agricole, campi da gioco, concessionarie di auto, officine, interi quartieri. Divide e, al tempo stesso, è parte della vita. Osservo i controlli da vicino, alle mie spalle c’è un centro commerciale e un ex fast-food. La specialità era pollo fritto. Non mi sono fermato per caso: nell’agosto del 2018 qui hanno smantellato un narco-tunnel che partiva dalla camera da letto di un’abitazione nel lato messicano e sbucava nella cucina del ristorante. A sette metri di profondità, per una lunghezza di oltre 300, con un’apertura sufficiente per introdurre pacchetti di anfetamine. Intanto vedi il Messico, segnalato da una bandiera gigantesca agitata dal vento rovente. Sui due lati il movimento incessante di pendolari, di quanti vengono a comprare. Donne con il carretto della spesa, operai con i borsoni, campesinos con grossi cappelli bianchi, ragazze che si riparano dal sole usando degli ombrellini.
Altri migranti si addentrano ancora lungo El Camino del Diablo, lo costeggiano, si infilano in una landa piena di insidie. Facile perdersi, non ci sono sorgenti, una semplice storta può diventare fatale perché i coyotes, le guide, ti abbandonano. Pochi giorni fa hanno trovato il corpo di una bimba, partita dall’India insieme ai parenti è spirata tra le rocce. Aveva percorso pochi chilometri in terra americana, il sogno stava per avverarsi. Invece no. I disperati che scelgono questa soluzione possono spendere meno dei 10-12 mila dollari richiesti dai trafficanti ai centro-americani e dei 30 mila che pagano i cinesi. Cifre intascate dal racket, abile nello sfruttare la miseria, nell’alimentare la speranza, nel trasformare i clienti in schiavi. O, pragmaticamente, di svolgere il mestiere di passatore, a volte una tradizione tramandata da padre in figlio. Il deserto è punteggiato di croci piantate da volontari, ricordano quelli che non ce l’hanno fatta. Sono centinaia. I senza nome vengono accolti in una enorme cella frigorifera all’ospedale di Tucson: eccola, la spalanca davanti ai miei occhi il medico legale, Greg Hess. Sacchi bianchi, etichetta arancione, odore di morte. Con un lavoro paziente gli anatomopatologi provano a identificarli, studiando i reperti, cercando il minimo particolare trovato in uno zaino, il numero di telefono inciso dietro la targhetta di jeans ormai sdruciti oppure all’interno di una cintura. Pietà e intelligence si intrecciano, i membri del gruppo Colibrì raccolgono le segnalazioni, poi le incrociano. I resti umani esaminati dal team di Hess sono il punto di partenza di un percorso sconosciuto, possono portare ad un villaggio guatemalteco, ad un paesino della Sierra, al nulla. Tentano di dare delle risposte a quanti non hanno più notizie di un figlio, di un fratello, di una madre. Tanti, prima di affrontare la traversata, si affidano ai santi, dedicano un biglietto ai familiari, si portano dietro una foto, un libro, una Bibbia. E spesso è ciò che rimane di loro ai piedi del muro.
Usa-Messico, padre e figlia annegati al confine: la foto che indigna l’America. Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 da Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, su Corriere.it. Lo scatto shock di un padre e la sua bimba di due anni morti annegati nel Rio Grande mentre cercavano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti evitando il muro indigna l’America. Ed è destinata a diventare il simbolo della tragedia dei migranti dal Centro America così come l’immagine del corpicino di Alan riverso su una spiaggia turca è divenuta il triste simbolo dell’immigrazione verso l’Europa. L’immagine è stata scattata dalla giornalista Julia Le Duc sul fiume Rio Grande, che separa il Messico dal Texas L’uomo era un cittadino salvadoregno, Oscar Alberto Martinez, la sua figlioletta, Angie Valeria, aveva 23 mesi. I due corpi sono a faccia in giù, immersi nell’acqua di un canneto sporca di fango, trasportati a riva dalla corrente sulla sponda sud del fiume. Si vede la bimba ancora con le scarpette, legata al padre da quella che sembra essere una maglietta con il quale l’uomo forse cercava di tenere la piccola stretta a sé nel disperato tentativo di proteggerla. Il braccio della bimba è ancora attorno al collo del padre. La famiglia- papà, madre e piccola- era partita insieme: era arrivata lo scorso fine settimana nella città di confine di Matamoros, in Messico, sperando di presentare domanda di asilo negli Usa. Nel pomeriggio di domenica hanno deciso di attraversare il fiume: l’acqua sembrava gestibile, racconta il New York Times. Martinez nuotava con Valeria sulla schiena, infilata sotto la camicia. La mamma li seguiva dietro: ma ad un certo punto ha visto le acque agitate, si è spaventata ed è tornata indietro. Lui no, ha proseguito, e lei lo ha visto affondare nel fiume e spazzare via dll’acqua. I corpi sono stati ritrovati dalle autorità messicane lunedì, a poche centinaia di metri. Il ministro degli affari esteri di El Salvador ha intanto invitato le famiglie che tentano di migrare negli Usa di ripensarci: «Non rischiate». Le principali emittenti Usa e i media sul web ripropongono in continuazione quelle immagini che sono come un pugno nello stomaco. Intanto la Camera a maggioranza democratica stanzia 4,5 miliardi da destinare alla crisi del confine sud e la Casa Bianca sembra già pronta al veto. Mentre il massimo responsabile dell’agenzia federale che gestisce i campi al confine del Messico dove vengono trattenuti i bambini separati dalle famiglie illegali è costretto a dichiarare le dimissioni, dopo che un gruppo di legali ha testimoniato le condizioni terribili in cui i minori sono costretti a vivere: senza cibo adeguato, con scarsa assistenza medica, i neonati che vengono accuditi da altri minori. Nell’ultimo anno sono ben sei i bambini che hanno perso la vita. Una situazione che ha destato la preoccupazione anche del presidente Donald Trump.
Oscar e Valeria annegati nel Rio Grande, la nonna: «Morti uno nelle braccia dell'altra». Pubblicato giovedì, 27 giugno 2019 da Corriere.it. «Sono morti l'uno nelle braccia dell'altro». Rosa Ramirez racconta di averci provato, a impedire a suo figlio di partire. Ma Oscar voleva una vita migliore, lontano da San Martin, un borgo di San Salvador. E inseguendo quel sogno è morto, insieme alla figlia Valeria di 23 mesi, i loro corpi immortalati nella foto che è diventata il simbolo del dramma dei migranti che cercano disperatamente di raggiungere gli Stati Uniti. Oscar Alberto Martinez Ramirez aveva 25 anni, faceva il cuoco in una pizzeria. Sua moglie Tania Vanessa Avalos di anni ne ha 21 e faceva la cassiera in un fast-food. Rosa, la mamma di Oscar, viveva con loro a San Martin, finché non hanno deciso di partire, di andare a nord. «Non avevamo mai avuto problemi, anche se in questa zona ci sono diverse gang - racconta ora Rosa, che stringe le foto del figlio e della nipotina - Sono partiti per una questione economica». «Gli ho detto "figlio mio non partire, ma se proprio vuoi farlo, lascia la bambina". Lui mi ha risposto "Come pensi possa lasciarla qui?». «Ora sento un vuoto che niente potrà mai riempire» spiega Rosa, disperata, tra le mura di quella casa in cui il figlio e la nipote non torneranno più. «Erano brave persone - racconta Marta Argueta de Andrade, che ha 50 anni e vive accanto alla casa in cui hanno abitato Oscar, Tania e la loro bimba, prima di partire - Lo vedevo spesso con la bambina, la chiamavo "la piccola ricciolina", era davvero carina». Domenica, Oscar ha deciso di provare a raggiungere gli Stati Uniti, di attraversare il Rio Grande da Matamoros, in Messico, alla riva texana. Ha lasciato la bimba sulla riva ed è tornato indietro per prendere la moglie Tania. La piccola Valeria però, quando ha visto il papà andarsene, si è buttata nell'acqua per raggiungerlo. «Sono morti uno nelle braccia dell'altra» dice ora la nonna, mentre stringe un pupazzo a forma di scimmia, il preferito della sua nipotina.
Migranti annegati, la canzone «profetica» di Springsteen del 2005 (e quella foto che indigna l’America). «Matamoros Banks» raccontava una storia (quasi) uguale a quella della foto che sta facendo il giro del mondo, nello stesso fiume e nella stessa città messicana. Simone Sabattini il 26 giugno 2019 su Il Corriere della Sera. Lo stesso fiume, la stessa città, la stessa immagine e lo stesso dramma. C’è una canzone di Bruce Springsteen che sembra raccontare la storia della foto che sta facendo il giro del mondo: quella di un padre e di una figlia abbracciati, annegati nelle acque del Rio Grande al confine tra Messico e Stati Uniti. Soltanto, «Matamoros Banks» è stata composta e pubblicata dal Boss 15 anni fa, nell’album «Devils and Dust». Sembra una profezia ma è solo l’ennesima testimonianza di una tragedia che si ripete da tempo alla frontiera tra le due Americhe: Springsteen racconta l’epopea dei migranti da decenni, ed è solito ispirarsi a fatti di cronaca. Riascoltata (e riletta) oggi, però, «Le rive di Matamoros», non solo è la colonna sonora di una tragedia infinita: sembra realmente di ascoltare la voce dall’aldilà di Oscar Alberto Martinez Ramirez, il padre fotografato con la figlia Valeria vicino nella stessa città messicana, il volto di entrambi immerso nell’acqua del fiume che segna per quasi 2000 chilometri il limite tra Texas e America Latina. «Per due giorni il fiume ti tiene giù, poi risali in superficie senza un suono, mentre le tartarughe ti mangiano la pelle degli occhi», racconta, da morto, il protagonista springsteeniano. «I tuoi vestiti cedono alla corrente e alle pietre del fiume, fino a quando ogni traccia di chi eri è scomparsa». Poi il ricordo di un tragitto infinito e disperato. «In questa canzone seguo il viaggio al contrario dal corpo sul letto del fiume all’uomo che cammina per il deserto verso le rive del Rio Grande» – spiegò lo Springsteen. «Dormo e sogno di tenerti tra le mie braccia, mentre le luci di Brownsville luccicano oltre il fiume e un grido risuona nella melma del fiume rosso in cui m’immergo», canta ancora il Boss nella strofa finale, mentre il mondo oggi si commuove di fronte all’ultimo abbraccio tra padre e figlia, ritratti nella foto della giornalista messicana Julia Le Duc, e ritrovati dalla polizia nella medesima Brownsville, Texas. Poi resta l’ultimo passaggio del ritornello, che dice solo una cosa: «Ci vediamo sulle rive di Matamoros».
Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 27 giugno 2019. Una bambina di due anni non può morire così, abbracciata al padre nel tentativo disperato di strappare una vita migliore. Qualunque sia la nostra convinzione politica, o il lato del confine dove il caso ci ha fatto nascere. Perciò la storia di Valeria, oltre a commuovere, andrebbe messa nel contesto in cui è maturata la sua tragedia, per cercare una soluzione. Secondo Julia Le Duc, la giornalista che ha scattato la foto virale come quella del siriano Alan Kurdi affogato in Turchia, Oscar Alberto Martinez Ramirez di 25 anni era scappato dal Salvador il 3 aprile scorso, con la moglie ventunenne Tania Vanessa Avalos e la figlia di 23 mesi Valeria, nella speranza di chiedere asilo negli Usa, lavorare un po' di anni, e guadagnare i soldi per tornare indietro e costruirsi una casa. Per due mesi avevano vissuto a Tapachula, la cittadina del Chiapas al confine col Guatemala dove passano le carovane dei migranti. Domenica erano arrivati a Matamoros, confine tra Texas e Messico, ed erano andati al consolato americano per presentare la domanda di asilo. Qualcosa però era andata storta. Quel consolato conduce tra 40 e 45 colloqui alla settimana, e la lista d' attesa va da 800 a 1.700 persone. Oscar ha deciso che non poteva aspettare e ha cercato di attraversare il Rio Grande, nonostante l' avviso che le correnti erano diventate più forti a causa dell' apertura di una diga per l' irrigazione. Come prima cosa ha nuotato con Valeria sulle spalle, depositandola sulla sponda americana. Quindi è tornato indietro a prendere Tania. Quando lo ha visto andare, però, la figlia si è impaurita e si è gettata in acqua per raggiungerlo. Lui è tornato indietro, ma la corrente li ha travolti. Nel 2018, 283 persone sono morte attraversando il confine. Le autorità dell' immigrazione Usa hanno detto che questa tragedia dimostra i rischi degli ingressi illegali, e quelle del Salvador hanno aggiunto che i migranti non dovrebbero esporre le proprie famiglie a simili pericoli. In teoria hanno entrambi ragione, ma nella pratica ciò non risolve nulla. Sono stato a Tapachula all' epoca delle carovane durante le elezioni Midterm del 2018. Ho conosciuto una famiglia che era scappata perché possedeva un piccolo negozio e la mafia locale esigeva il pizzo. Quando non erano più riusciti a pagare, un sicario aveva ammazzato la madre con sei colpi di pistola in faccia. Motivazioni non lontane da quelle che a suo tempo avevano alimentato l' emigrazione di massa italiana, o spinto la madre di Trump a lasciare la miseria della Scozia. Chi fugge da questa violenza o povertà è già morto, e non si fermerà perché il Rio Grande è in piena. Sono stato anche a Reynosa, città messicana dove i "coyote" che gestiscono la tratta raggruppano gli illegali per farli attraversare. Pagano fino a 5.000 dollari per il servizio, e vengono portati al fiume insieme ai carichi di droga. Da una parte passano i migranti, per attirare gli agenti americani, e poco lontano indisturbati i narcos. La colpa non è solo di Trump, perché succede da anni, ma riducendo gli accessi e minacciando di bloccarli ha spinto i disperati a prendere più rischi. Ad essere seri, servirebbero due cose: un sistema efficace per l' ingresso dei migranti, di cui l' economia Usa ha bisogno, e un piano di aiuti per la sicurezza e lo sviluppo nei Paesi d' origine. Ma ciò costa e non fa guadagnare voti facili, perciò nessuno se ne occupa davvero.
Vedere il mondo in una lacrima vera. La foto di padre e figlia annegati mentre cercano di entrare negli Stati Uniti commuove il mondo. Ma cosa c'è dentro una lacrima? Davide Rondoni il 26 giugno 2019 su Panorama. Il mondo è una valle di lacrime. Lo ricordiamo ogni tanto. Immigrati di ogni età, che cercano illegalmente di andare in un paese dove star meglio, annegano con i loro figli. Ma i milanesi posso trasportare gratis i loro cani e gatti sul tram, secondo quanto disposto dal comune di Milano. Ho visto molti ragazzi sorridenti ai diversi pride, godere in modo allegro e sfrontato di presunti diritti conquistati in nome dell'amore, a sentir loro, non avere nessun pensiero per i veri perseguitati di oggi, cristiani e minoranze varie. Ho visto uomini di chiesa usare la "carità" come una clava politica. Ho visto molte solitudini nelle stazioni in questo inizio di estate. Ci si riempiono gli occhi di lacrime se teniamo gli occhi aperti su questa valle di lacrime. Allora li distogliamo, ce li distolgono con mille e mille canali televisivi, social, chiacchierosi, pensiamo di lavarli con una pioggia di immagini, e così come ci arrivano padre e figlio annegati ci arriva la ragazzina che posta la foto e il fidanzato o la mamma che le risponde in pubblico come sei bella e quella dice grazie e mette cuoricino, o ragazza con sfondo mare, o piatti, e insomma tutta una fiumana di cazzatelle, che porta via nella corrente le lacrime e il padre e il suo bambino, annegati un'altra volta.
Si dice: perché piangere? Perché intristirsi? Ma piangere non è intristirsi, piangere è stare nella verità.
Sono infinitamente più tristi le risate dei distratti, degli intrattenuti, le moine dei banali. Chi piange nel mondo, nel controvento della storia, che mai sarà il paradiso, non è uno triste: è uno che non nega la realtà. E tra le lacrime vede tutto, compreso la ragazza sullo sfondo del mare, con una intensità, una verità, uno sgomento sconosciuto ai fintiallegri. Perchè piangendo veniamo al mondo, e occorre continuare a "venire al mondo". La gioia, o meglio, la letizia di impegnarsi per un mondo più umano, non è il contrario del piangere, del lacrimare interiore, della commozione intellettuale e morale. Anzi, la terribile commozione momantanea, il lacrimare solo in certi casi e non sempre, dinanzi alle foto come quelle che emergono rischia d'esser motivo di maggiore scandalo. E non solo perché tale commozione breve e sterile deve combattere comunque contro lo scetticismo, altrettanto breve e sterile, che ormai getta sospetto su tutto, foto o news, sospetto che faccian parte della continua battaglia a suon di news, fake o montate, a cui ha dedicato un romanzo Antonio Monda, "Nel territorio del diavolo", (titolo preso dalla grande Flannery O'Connor, una che di lacrime e mondo se ne intendeva). Ma anche, tale commozione breve e sterile, si ritrova persino a esser scandalizzata di se stessa, a meno che non divenga da sentimentale, appunto, a intellettuale e morale. Cioè un pianto che legge interamente la natura del mondo, e lo considera non solo "colpa" di quelli che comandano e hanno potere. O quella commozione momentanea diviene infatti leva per un dolore personale, di consapevolezza di mancanza, chiamiamolo peccato, personale e tensione a cambiamento morale oppure ê altro sfregio, uno scandalo che compiamo e ci affossa. Gli studiosi han calcolato che la presa emotiva di foto come quella dura 15. I 15 minuti di fama che non si negano a nessuno nel circo dell'enterteinement globale. Il che, per la dignità di una persona, ê peggio che esser fermati un muro e trascinati attaccati al proprio figlio da un fiume. In una poesia dedicata al viaggio, viaggio in questa valle di lacrime, Montale poeta scettico e serio, sapeva che un imprevisto è la sola vera speranza.
CHE PAPÀ È SE FA CREPARE LA FIGLIA? Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 27 giugno 2019. C' erano le foto a illustrare le notizie, una volta. Poi le foto sono diventate notizie a sè stanti, «un' immagine vale più di mille parole» eccetera, e spesso era vero: c' era poco da aggiungere. Poi qualche celeberrimo scatto si è rivelato falso, o forzato, come quando i fotografi di guerra piazzavano giocattoli tra le macerie. Poi è arrivata l' era dei fake, foto completamente false. Ora vanno di moda queste: immagini autentiche ed evocative, ben inquadrate, con dettagli significativi, che divengono «foto shock» e sotto le quali in teoria potresti scrivere didascalie molto diverse tra loro, ma che la comunità mediatica decide di interpretare in modo univoco. Così lo «scatto shock» di un padre con la sua bambina di due anni morti annegati nel Rio Grande, mentre cercavano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti, d' un tratto «indigna l' America» e diventa il simbolo della tragedia dei migranti dal Centro America, così come l'immagine del corpicino di Aylan, riverso su una spiaggia turca, divenne simbolo dell' immigrazione verso l' Europa. Una possibile didascalia, paradossalmente, sarebbe potuta essere questa: «Nella foto (associated press), uno sconsiderato padre salvadoregno che ha trascinato la figlioletta a morte sicura illudendosi di poter attraversare, come se fosse un torrente, il quarto fiume dell' America settentrionale, il Rio Grande». Invece le didascalie sono state altre. Quei due corpi riversi a faccia in giù, immersi nell' acqua di un canneto sporca di fango, trasportati a riva dalla corrente, ritraggono la bambina ancora con le scarpette, legata al padre da una maglietta con cui l'uomo cercava di tenerla stretta a sé, e c' è il braccino della bimba ancora attorno al collo del padre. Sono questi dettagli a fare la differenza, a trascinare giornalisti e commentatori in un vortice di emozioni e voci rotte che trasformano qualsiasi immagine, anche la più triste e pietosa - come questa - in un prodotto che va venduto nel miglior modo possibile. Senza quella foto, l' opinione pubblica mondiale non avrebbe riparlato del dramma dei migranti morti al confine tra Usa e Messico: che solo nel 2018 sono stati 283. Nessuno, probabilmente, avrebbe precisato che nei giorni scorsi, nei pressi del Rio Grande, hanno trovato altri quattro morti: una giovane donna, due bambini e un neonato, tutti stroncati probabilmente dal caldo e la disidratazione. Il problema è che di loro non c' era nessuna foto. Gli anchorman fanno gara di commozione con i media che hanno riproposto quella foto per giorni. Altri si sono limitati a raccontare che quasi 500mila migranti, dall' inizio di quest' anno, sono stati fermati nel tentativo di attraversare il confine. Il ministro degli affari esteri di El Salvador ha invitato le famiglie che pensano di espatriare a ripensarci: «Non rischiate». E ora, che cosa ha rinfocolato le polemiche politiche? Non che la Camera a maggioranza democratica abbia stanziato 4,5 miliardi di dollari da destinare alla crisi del confine sud, non che la Casa Bianca abbia già annunciato il proprio veto, non che il responsabile federale che gestisce i campi al confine col Messico - quelli dove vengono tenuti i bambini separati dalle famiglie - si è dovuto dimettere dopo la scoperta che i bambini mangiavano quando capitava e con scarsa assistenza medica, tanto nell' ultimo anno ne sono morti già sei. A rinfocolare le polemiche politiche è stata una foto. La cui didascalia si è deciso che sia questa: uccisi da Donald Trump, l' uomo che costringe i migranti illegali a tentare di raggiungere il Texas dal confine tra Messico e Stati Uniti, evitando il muro che il presidente ha voluto. Senza andare lontano, basti questo articolo di Famiglia Cristiana titolato "Il muro assassino di Trump": «L' ennesimo simbolo dei migranti che muoiono cercando di lasciare il proprio Paese per vie impervie e pericolose a causa dei muri eretti dai governi. Muri assassini, perché non fermano l' immigrazione ma rendono solo più rischiosi i modi per attraversare i confini». Prossime puntate: mari assassini, montagne assassine. Per intanto, Trump assassino. Il quale Trump è intervenuto con un tweet e ha scritto solo questo: «Molte più persone di prima stanno venendo negli Usa perché la nostra economia va così bene, la migliore nella storia, ma noi stiamo mettendo le cose a posto, compresa la costruzione del muro». È intervenuto anche il Papa, perché la foto l' ha vista anche lui. Ha fatto sapere che sta pregando. La giornalista Julia Le Duc, invece, è quella che la foto l' ha scattata, dapprima pubblicata sul quotidiano messicano La Jornada e poi in tutto il mondo: ha raccontato che padre e figlia erano riusciti ad attraversare il fiume, ma la madre no, dunque lui è tornato indietro lasciando la figlia sulla riva che però non ha resistito, e ha tentato di inseguirlo. Lui l' ha ripresa, ma poi la corrente li ha trascinati via. È molto triste, ma l' importante è avere qualcuno a cui dare la colpa.
Elena Stancanelli per “la Stampa” il 27 giugno 2019. Altra foto altra indignazione. I bambini funzionano benissimo. Pensate a quello coi pantaloncini blu e la maglietta rossa, portato dal mare sulla spiaggia di Bodrum e raccolto dal poliziotto. Tutti indignati, e neanche riusciamo a memorizzare il suo nome. Si chiamava Alan. Non Aylan: Alan Kurdi, siriano di etnia curda. Come la nave della ong See Eye, contro la quale si è scatenata la furia del nostro governo in occasione dell' ultimo salvataggio. Un salvataggio serve a evitare bambini morti sulle spiagge. Cos' è che non capiamo? È un ragionamento semplice. Anche quell' uomo e sua figlia Angie Valeria, salvadoregni, li hanno trovati così, a faccia in giù nell' acqua del Rio Grande. Morti affogati nel tentativo di attraversare a nuoto il confine tra Messico e Stati Uniti. La bambina era già in salvo sulla sponda americana del fiume, quando, dopo che il padre si era buttato di nuovo in acqua per andare a prendere la madre, è scivolata. Lui è tornato indietro, ma non è riuscito a salvarla. Aveva infilato la figlia nella sua maglietta, perché non gli scivolasse via. Ha funzionato, sono rimasti abbracciati. Altra foto altra indignazione. Qualche giorno fa è stata pubblicata l' immagine di una slitta trainata dai cani sull' acqua, in Groenlandia. E prima c' era stato l' orso bianco smagrito, e i pinguini, e le inondazioni e i fuochi in California Tutte foto terribili, emblematiche. Ci fanno stare male, malissimo. Ma si tratta di una reazione emotiva. Neanche sentimentale: puramente emotiva. Agisce su una parte precisa del nostro cervello. Quale sarà? L' amigdala? La sede dei capricci e degli innamoramenti, il luogo del cervello dove si depositano i like, i «signora mia», i «mai più»? Quella reazione, per quanto potente, per quanto pervicace, non si trasforma mai in un gesto. Anzi, forse ci paralizza. Forse l' indignazione ha proprio l' effetto contrario, quello di trasformarci in creature rabbiose, capaci di parole furenti, ma immobili, inutili. E oltretutto ci anestetizza. Immagine dopo immagine, indignazione dopo indignazione, scivoliamo in un automatismo isterico. Azione, reazione, riposo. Il nostro ginocchio rimbalza a ogni colpo del martelletto, e poi si posa di nuovo. Non dico che le dimentichiamo. Anzi, quelle immagini terribili stanno sempre lì a galleggiare nel nostro cervello, ma non servono a niente. Se non a commuoverci, e la commozione è un gesto egoista. Ci gratifica o ci fa sentire in colpa, ma non va da noi verso gli altri. Resta lì, sulla nostra pelle. Secondo i dati forniti qualche giorno fa dall' Unhcr, sulla Terra ci sono circa 70 milioni di persone in movimento. In fuga da guerre, persecuzioni, fame, catastrofi climatiche Più o meno una persona su cento in questo momento sta scappando da qualcosa. Non noi, certo. Gli altri, quelli più sfortunati. Scappano, sono disperati, muoiono. E noi siamo bloccati in una specie di incantesimo, al di là di un vetro. Piangiamo, scuotiamo la testa, imprechiamo ma non riusciamo a fare niente. Ricorderete la vicenda di Eluana Englaro. La famiglia voleva interrompere l' alimentazione forzata che considerava accanimento terapeutico. Ha combattuto per 17 anni, ma senza mai mostrare una sola immagine di Eluana in coma. Volevano condurre la loro battaglia in maniera razionale e non emotiva. Perché solo in questo modo la loro vicenda sarebbe diventata patrimonio comune, avrebbe fatto giurisprudenza, sarebbe stata utile, oltre che tragica. Ricorderete però anche che il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi dichiarò in quella occasione che secondo lui Eluana aveva ancora un bell' aspetto (pur non avendola mai vista) e che avrebbe addirittura potuto avere un figlio, visto che ogni tanto aveva ancora il ciclo. Cosa è rimasto della vicenda Englaro nella nostra immaginazione? Le spaventose parole del Presidente del Consiglio. Ma cosa ha aiutato a ottenere una legge sul testamento biologico? L' ostinata, lucida ragione di Beppino Englaro.
A inghiottire la famiglia di migranti non è stato solo il Rio Grande. Matteo Carnieletto il 26 giugno 2019 su it.insideover.com. L’acqua e il fango del Rio Grande inghiottono anime e vite. Sono mostri insaziabili che prendono e arraffano tutto ciò che si avvicina loro. Basta un passo falso o una corrente anomala e improvvisa a fare la differenza tra la vita e la morte. Ma questo, forse, Óscar Alberto Martínez Ramírez e sua figlia Valeria, di soli 23 mesi, non lo sapevano. Certo, c’erano i racconti degli altri migranti che li avevano messi in guardia dai mille pericoli della tratta, ma non sono bastati a fermarli. Óscar ha deciso comunque di prendere la piccola Valeria, di proteggerla infilandola dentro la propria maglietta e di sfidare le acque con un unico obiettivo: arrivare negli Stati Uniti. Così però non è stato: poco dopo la loro partenza il grande fiume non ha avuto pietà e se li è presi. Solamente pochi giorni prima la stessa sorte era toccata a una donna e tre bambini.
Un’immagine che scuote l’America. I corpi di Óscar e Valeria sono stati ritrovati (e fotografati) dalla giornalista Julia Le Duc, poche ore dopo la loro morte. L’immagine è stata inizialmente pubblicata sul giornale messicano La Jornada e in poco tempo ha fatto il giro del mondo. Molti, compreso il rappresentante dem Joaquim Castro, l’hanno paragonata a quella del piccolo Alan Kurdi, il bambino siriano trovato morto a inizio settembre del 2015 sulle coste turche, dopo un tragico naufragio. Oppure a quella di Omran Daqneesh, diventato il simbolo della violenza dei raid russi su Aleppo (anche se il padre – che ora vive nei territori controllati dal regime – ora racconta una versione diversa di quei giorni). Un’immagine evocativa, quindi, e politicamente forte. Già perché subito questa foto è stata utilizzata per attaccare il presidente Donald Trump, colpevole di aver avviato una serie di norme restrittive nei confronti dei migranti e di volere una nuova barriera per fermare il flusso di persone dal Messico. Tutto vero, sia chiaro. Però la colpa non può essere attribuita tutta e solo al presidente americano. Perché la barriera tra i due Stati, fatta costruire da George H. W. Bush, è stata ampliata (e militarizzata) da Bill Clinton, paladino dem. La situazione poi non è certo migliorata con George Bush junior e neppure con Barack Obama. Un reportage della Stampa del 2014 mostra la crudeltà che impera al confine tra i due Stati: “Sappiamo che alla partenza il numero dei bambini e delle bambine è uguale, ma poi arriva solo il 75% dei primi e il 25% delle seconde. Cosa succede durante il percorso? Molti non ce la fanno e muoiono. Per le bambine, poi, si fanno avanti i trafficanti di esseri umani, che offrono ai coyote anche 20mila dollari, contro i 4mila che prenderebbero dalla famiglia se completassero la consegna. Così le ragazze vengono vendute al miglior offerente e finiscono nella prostituzione: un mese fa hanno scoperto un giro in New Jersey. Poi ci sono i coyote che affittano i bambini agli adulti che vogliono immigrare, perché pensano che se li prendono con figli o figlie finte hanno più probabilità di restare. Una volta superato il confine non sanno cosa farsene di questi ragazzini, e li abbandonano”.
Già perché da quelle parti, la violenza non è determinata solamente dalla politica, ma dagli stessi uomini, che diventano lupi e che sono disposti a tutto per qualche dollaro in più. Anche a sfruttare bambini e bambine. Dove la sofferenza si fa carne, c’è chi è pronto a lucrarci sopra.
Lo Stato non è una Ong (e viceversa). Trump e Obama hanno fatto essenzialmente la stessa cosa, pur con politiche diverse: hanno difeso i confini dello Stato. Ed è questo uno dei principali doveri di chi governa: frenare coloro che premono ai confini. Non tutti, ovviamente: c’è chi fugge dalla guerra e dalle persecuzioni e deve essere accolto. Ma ci sono anche molti che, comprensibilmente, desiderano un futuro migliore e anche il più buono dei presidenti non potrà mai accogliere tutti, a meno che non voglia distruggere il proprio Stato. Aspettarsi quindi che una nazione apra in toto i propri confini è dunque illogico. E controproducente. Per questo esistono le Ong che non si preoccupano di quelle che possono essere le ripercussioni politiche delle loro azioni e, come primo obiettivo, hanno quello di soccorrere chi soffre. Questi due organismi, Stato e Ong, dovrebbero dunque collaborare in modo tale far valere la legge e, allo stesso tempo, ridurre al minimo la sofferenza di uomini, donne e bambini. Ma così non è, come dimostra il recente caso della Sea Watch. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Cortés e Montezuma 500 anni dopo. Polemica sulla conquista del Messico. Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 su Corriere.it da Michaela Valente. L’8 novembre 1519 l’incontro tra il condottiero e il sovrano azteco. Il presidente López Obrador chiede le scuse della Spagna e qualcuno vuole abbattere le statue di Cortés. Sbarcato nel Golfo del Messico a Veracruz, il conquistatore spagnolo Hernán Cortés incontrò Montezuma (o Moctezuma), l’imperatore degli aztechi, 500 anni fa, l’8 novembre 1519, a Tenochtitlan, capitale circondata dalle acque come Venezia (sulle cui macerie fu poi costruita Città del Messico). Un incontro straordinario e gravido di conseguenze per l’Europa e per il Nuovo Mondo, che si traducono anche in polemiche da parte dei messicani di oggi, che chiedono le scuse della Spagna, come ha fatto il presidente Andrés Manuel López Obrador, o addirittura reclamano l’abbattimento dei monumenti a Cortés. Inoltre su Malintzin, la donna indigena traduttrice e amante del condottiero spagnolo, pesa l’accusa di tradimento e di ossequio allo straniero. Grazie alla colonizzazione dell’immaginario e al controllo della macchina della storia, come ci ha insegnato lo storico francese Serge Gruzinski, a lungo Cortés, alla ricerca di oro e di potere, è stato presentato come un novello Davide che sconfigge il Golia Montezuma, superstizioso e pronto a riconoscere la superiorità spagnola, annunciata da un’antica profezia. Secondo il mito sapientemente ricostruito, l’azteco si sarebbe piegato nonostante fosse a capo di un impero vasto, con un’efficace organizzazione statale che riuniva circa 15 milioni di persone, e potesse vantare su una forte alleanza militare con altre popolazioni. Lo storico americano, Matthew Restall, fa luce su una trama più complessa, nel libro When Montezuma Met Cortés (Harper Collins), svelando pregiudizi sulla conquista e manipolazioni delle fonti persino di quelle azteche. Il mito della resa di Montezuma non regge alla prova dei fatti, ma resiste ancora l’immagine negativa dell’imperatore, cui si contrappone il coraggioso Cuauhtemoc, eroe nazionale messicano che combatté gli spagnoli. Sollevando il velo, emerge, da una parte, l’insubordinazione di Cortés rispetto agli ordini del governatore e l’esigenza di legittimare l’azione di conquista agli occhi di Carlo V e, dall’altra, i conflitti latenti tra gli indigeni e gli errori di Montezuma. Come spesso succede, Montezuma e Cortés misero in atto strategie che diedero esiti imprevisti. Il trionfo di Cortés, celebrato per secoli, è stato poi avvolto nelle nebbie dalla denuncia, in alcuni casi coeva, delle violenze della conquista e ora dall’accusa di genocidio. A marzo 2019, il presidente messicano, López Obrador ha reso pubblica, trasgredendo le pratiche diplomatiche, una lettera al re di Spagna Filippo VI e a Papa Francesco in cui chiedeva loro di scusarsi per le atrocità commesse dai loro predecessori con la conquista dell’America e soprattutto del Messico. In risposta il governo socialista di Pedro Sanchez si è rifiutato di confrontarsi con responsabilità e fatti avvenuti cinquecento anni fa. Dopo qualche settimana, la deputata verde di Città del Messico, Teresa Ramos Arreola, ha proposto l’abbattimento delle statue di Colombo e Cortès come atto di giustizia storica. Ne è seguita una discussione in cui qualcuno ha neanche troppo timidamente sollevato la questione che far studiare la storia dovrebbe aiutare a porre rimedio agli errori compiuti, esortando i politici a impegnarsi in questa direzione e non a cancellare le tracce del passato. Nel frattempo Amazon ha affidato a Steven Spielberg la regia di una mini serie tv,Cortés, con Javier Bardem nel ruolo del protagonista, che forse restituirà un certo fascino mediatico al conquistatore e alla sua impresa. Dopo cinquecento anni, con un immaginario ben cesellato, da quell’incontro straordinario, come fantasmi, vincitori e vinti vagano ancora: il Messico di oggi può far a meno di Montezuma e di Cortés?
Anna Lombardi per “la Repubblica” il 27 giugno 2019. Un uncinetto vi seppellirà. Sembra quasi una parafrasi del vecchio motto apparso sui muri di Parigi nel maggio '68, la scelta di Ravelry , la più grande community americana di amanti dell' uncinetto, che domenica ha annunciato di voler bandire dalla sua piattaforma i sostenitori di Donald Trump, proibendo, allo stesso tempo, la diffusione di contenuti e immagini razziste o suprematiste. Proprio come fatto, lo scorso ottobre, dal sito di giochi online Rpg.net, che ha ugualmente bandito i sostenitori di Trump definendoli "propagatori di odio". «Il nostro è da sempre uno spazio inclusivo», hanno scritto sul sito i responsabili di questa sorta di Facebook del punto croce. Sottolineando che no, non si tratta di una scelta di campo: «Siamo apartitici, democratici e repubblicani sono i benvenuti. Ma chi visita le nostre pagine non deve sentirsi a disagio e invece oggi troppi contenuti non ci rappresentano». Certo, fin dai tempi dei Pussy Hat - i "cappellini-micetta" con le orecchie, che nel 2016 divennero il simbolo del movimento femminista mobilitato contro un presidente che affermava di voler «afferrare le donne per la "pussy"» - qui in America l' uncinetto è tornato ad essere sinonimo di resistenza politica. Riscoprendo una tradizione che affonda le sue radici in quella Betsy Ross, cucitrice di Filadelfia, che nel 1776 assemblò la prima bandiera a stelle e strisce. Ma la decisione di Ravelry arriva, in realtà, dopo mesi di pressioni da parte di membri appartenenti a minoranze etniche. Che chiedevano ad una community tradizionalmente bianca e ricca - in grado di potersi permettere gomitoli di lana da 30 dollari l' uno - più rispetto. A scatenare le prime polemiche, lo scorso gennaio, era stata infatti una celebrity dell' uncinetto: la blogger Karen Templer che in un post aveva paragonato l' India a Marte. Apriti cielo. Sommersa dalle proteste la blogger è stata costretta a scusarsi. E la community si era guardata per la prima volta allo specchio, accorgendosi che su decine di forum si faceva politica attiva: con modelli per riprodurre immagini nazi, ma anche con messaggi propagandistici. Nell' America più divisa che mai, la decisione di bandire i sostenitori di Trump dalla community dell' uncinetto ha scatenato una mezza rivoluzione. Ravelry subissato da messaggi di solidarietà o sdegno. Come quello di Alicia Garcia, 34enne di Los Angeles ed elettrice di Trump che scrive: «Così è me che discriminate. Non vengo qui a fare politica ma a scegliere modelli per i bavaglini del mio bimbo neonato. Cancellerò il mio account». Ma Amy Singer, direttrice di Knitty , il "Tutto uncinetto" americano, al New York Times ammette: «In un mondo perfetto parleremmo solo di come aumentare o diminuire i punti necessari a fare-realizzare un bel cappello. Ma non viviamo in una bolla. Se qualcuno viene aggredito o discriminato, dobbiamo impedirlo non ignorarlo».
IL BIMBO SIRIANO ANNEGATO. Aylan, 365 giorni e 500 bimbi dopo. Cosa resta della foto che ci commosse. Un anno fa sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, l’immagine che scosse il mondo intero. L’indignazione generale diede una spinta alle politiche di accoglienza: si è già esaurita? Federico Thoman il 2 settembre 2016 su Il Corriere della Sera. Un anno fa la foto simbolo: il corpicino senza vita di Aylan giaceva immobile sulla battigia di Bodrum, in Turchia. La faccia appoggiata sulla sabbia, il capo lambito da un’onda. Aylan aveva solo tre anni ed era un bimbo siriano di etnia curda. Nel tentativo di traversata dalla costa turca all’isola greca di Kos, distante tre miglia nautiche, perse la vita insieme al fratello maggiore Galib, di 5 anni, e alla madre. Si salvò solo il padre. Che in un’amara intervista alla Bbc a un anno di distanza ha detto: «Penso ancora a loro ogni giorno». Il clamore di quella foto, il dibattito sui giornali sul pubblicarla o meno (alcuni, come il Corriere, scelsero optarono per quella, altrettanto toccante, del poliziotto turco che lo tiene in braccio ma senza mostrare il volto del piccolo) produssero uno slancio che pervase tutta la società occidentale. Una fiammata di indignazione mista a pietà che smosse le coscienze e mostrò al mondo la cruda e drammatica durezza della crisi dei migranti. Un coro di «mai più» si sollevò a gran voce, dai leader politici al singolo cittadino sui social. Ma un anno dopo ci si interroga: è stata solo una fiammata? Una costernazione indignata, impegnata e forse un po’ ipocrita durata giusto il tempo di qualche tweet o di post su Facebook?
Premesse e promesse di accoglienza. Diversi giornali britannici, a dodici mesi di distanza, la pensano così. Per il Guardian «la compassione verso i profughi è sparita». La nobile apertura delle frontiere tedesche, il «Wir schaffen das», ce la facciamo, della cancelliera Angela Merkel ebbe un’improvvisa accelerata subito dopo l’ondata di commozione suscitata dall’immagine del piccolo Aylan. La cosiddetta rotta balcanica si sbloccò e decine di migliaia di persone cercarono di raggiungere Austria, Germania e i Paesi del Nord Europa. Ma lo scorso marzo, l’accordo fatto dall’Unione europea con la Turchia per cercare di contenere gli arrivi via mare e la seguente chiusura della rotta balcanica, secondo il quotidiano del Regno Unito, hanno segnato di fatto l’oblio di quella foto. Anche il padre di Aylan, nell’intervista alla Bbc, accusa: «In principio il mondo intero era ansioso di aiutare i profughi. Ma questo non è durante neanche un mese». In un anno, però, la Germania, ha accolto quasi un milione di persone. Merkel per questioni di politica interna e consenso (è iniziata la lunga campagna che porterà alle elezioni del 2017) ha ora ridotto lo slancio di accoglienza, ma il percorso di integrazione è appena iniziato. L’Italia ha accolto circa un decimo dei profughi rispetto alla Germania. Ma è quotidianamente impegnata a salvare migliaia di vite nel Canale di Sicilia perché la sponda Sud del Mediterraneo è diventata, ancor di più, una delle rotte principali.
Il dramma dei bambini profughi in viaggio. Nel 2015, secondo la Fondazione Migrantes, i bambini morti nel Mediterraneo durante le traversate verso Italia e Grecia furono oltre 700. Al 31 agosto scorso è già stata raggiunta quota 500. «Mai più», si diceva un anno fa. Ma continua a succedere. E il totale effettivo potrebbe anche essere parecchio maggiore, perché di nell’ultimo anno è cresciuto anche il numero dei minori che viaggiano non accompagnati: 12.300 nel 2015, 15.300 al 31 agosto scorso. Il problema dei minori e in molti casi anche dei bambini che compiono i lunghi viaggi in cerca di salvezza è di drammatica attualità. Come spesso ricordato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), il 50% dei rifugiati al mondo sono minori. Un’altra immagine simbolo che ha scatenato una reazione quasi simile a quella per Aylan è stata quella del piccolo Omran. Cinque anni, seduto in un’ambulanza ad Aleppo coperto di fango e polvere e in stato di schock, dopo essere sopravvissuto a un bombardamento. Il suo sguardo fisso nel vuoto ha sollevato l’ennesima ondata di sdegno misto a rabbia per la sofferenza della popolazione siriana dopo 5 anni di guerra e in particolare di quella di Aleppo, città sotto assedio in cui si combatte la battaglia forse decisiva della guerra civile siriana tra le truppe di Assad e quelle ribelli. Un conflitto che è la principale causa della grande onda di profughi che si è riversata nei Paesi confinanti (Libano, Giordania e Turchia) e verso l’Europa. L’impossibilità di portare aiuti umanitari ai civili in modo sicuro è stata denunciata da molte ong, e anche l’inviato speciale dell’Onu in Siria, Staffan de Mistura, ha diplomaticamente battuto i pugni sul tavolo per invitare gli attori internazionali a fare qualcosa. Era il 18 agosto: sono passate più di due settimane ma il tanto sospirato cessate il fuoco per permettere l’introduzione di un corridoio umanitario resta ancora un miraggio.
L’inferno delle porteadoras. Marianna Di Piazza il 2 luglio 2019 su it.insideover.com. Ceuta (Spagna) C’è chi è in attesa dalla sera precedente e chi arriva alle prime luci dell’alba: alle sei del mattino la fila di tuniche colorate in attesa alla frontiera del Tarajal II è già lunga diversi chilometri. Sotto la pioggia o con il sole, in migliaia aspettano per ore il via libera per entrare a Ceuta e recuperare chili e chili di merci da consegnare ai commercianti marocchini. Sono le porteadoras, donne nordafricane di tutte le età, che attraversano il confine tra Spagna e Marocco per trasportare le merci da un continente all’altro. Camminano in fila ordinata, ognuna tirando il suo carrellino di ferro. Dopo aver passato i controlli sul fronte marocchino e su quello spagnolo, davanti a loro si apre il poligono commerciale della piccola enclave, una vasta aerea di magazzini che viene letteralmente presa d’assalto. “È da 38 anni che attraverso ogni giorno la frontiera per trasportare le merci sulle mie spalle”, ci racconta una porteadora 65enne di Tétouan. “È l’unico lavoro che posso fare e non ho modo di trovarne un altro”, conclude prima di rimettersi in fila per ricevere la merce. Lontano dal centro della città e dai negozi dei più famosi marchi europei, si nasconde un’altra Ceuta. Davanti ai magazzini del poligono, i pacchi sono già pronti per essere sistemati sui carrelli. Una volta presi in carico dalla porteadora, vengono contrassegnati in modo da essere recuperati dal giusto commerciante che attende dall’altra parte della frontiera. Come formiche, le donne corrono da un negozio all’altro facendosi sistemare più merce possibile sul carrellino. Molte di loro caricano alcuni pesanti pacchi anche sulla propria schiena, curva da anni di fatiche. “Fino a poco tempo fa, l’unico modo per trasportare le merci era legarle sulle spalle. Così le porteadoras si trovavano a caricare anche più di 70 chili sulle loro schiene. Ora invece le nuove norme obbligano a utilizzare i carrelli”, ci spiega Bilal Dadi, presidente della zona industriale di Ceuta. “In questo modo la situazione è migliorata. I trolley sono comunque pesanti da spingere, ma facciamo meno fatica di un tempo”, racconta una donna. “Prima rischiavamo di soffocarci con il peso dei pacchi che stringeva le corde intorno al collo”, aggiunge un’altra. Una misura che però non piace a tutte le porteadoras. “Da quando ci sono i carrelli, sono aumentate le persone. Ora tutte vogliono fare questo lavoro e ci rubano le commesse”, protesta una donna.
Un commercio atipico. Porta dell’Europa per i migranti subsahariani, Ceuta rappresenta anche uno snodo commerciale importante per il Nord Africa. Lì dove la Spagna tocca il Marocco, la frontiera del Tarajal II permette il transito di persone che vengono sfruttate per trasportare dall’enclave al regno chili di merci di ogni tipo. Come spiega Antonio Borrego, ex responsabile della sicurezza nella zona commerciale, far arrivare i prodotti nel regno direttamente dal continente europeo costerebbe ai negozianti marocchini circa cinque volte di più rispetto al passaggio da Ceuta.
Sono le donne il sistema più economico per trasportare le merci dall’Europa all’Africa. Così mentre gli impresari nordafricani traggono benefici dal sistema, le porteadoras vengono sfruttate e sottopagate. “Si guadagnano circa 200 dirham marocchini al giorno”, ci spiega una donna. Ma da quel piccolo ricavo (20 euro circa) si devono togliere i costi di trasporto fino alla frontiera, il noleggio del carrello – che nella maggior parte dei casi non è di proprietà della lavoratrice -, qualche “mancia” alla sicurezza e agli agenti per accedere ai magazzini. A fine giornata, alla porteadora rimane l’equivalente di circa 5/8 euro. In passato, le donne riuscivano a fare più di un viaggio al giorno, ottenendo così un maggior guadagno. Ora, per motivi di sicurezza, all’ingresso del poligono commerciale a ognuna di loro viene dato un ticket da riconsegnare poi all’uscita. In questo modo, vengono tenute sotto controllo le presenze ed è più difficile riuscire a fare più di un viaggio al giorno.
Chi sono le porteadoras? “La maggior parte di queste donne non ha altro reddito a parte quello che deriva da questa forma di commercio”, spiega Nadia Nair, membro dell’Unione azione femminista. “È la condizione economica in cui si trovano a spingerle a fare le porteadoras. Molte di loro devono mantenere da sole la propria famiglia e in questo modo riescono a occuparsi del marito o dei figli dopo aver lavorato al poligono”, continua. Non solo vedove, casalinghe e madri. Le porteadores sono anche studentesse universitarie. Come Wafa, giovane 22enne che vive a Martil con alcune compagne di corso. “Ho iniziato a fare questo lavoro per aiutare la mia famiglia. Loro sono contrari a tutto ciò, ma io non voglio essere un peso, voglio contribuire e pagare i miei studi”, ci spiega. Dietro ai grandi occhiali, si nasconde un’esile figura. “Cerco di vivere come una normale ragazza della mia età, ma non è facile”, confessa mentre ci fa strada verso la sua cameretta. Trucchi, vestiti sparsi e pupazzi: è la stanza di una giovane ragazza che vorrebbe vivere come le sue coetanee, ma che due giorni alla settimana si reca “alla frontiera per lavorare come porteadora insieme a mia mamma”. Come spiega Nadia Nair, infatti, sono spesso le madri a portare con sé le figlie. “È un modo per avere un aiuto in più e fare meno fatica”, afferma la donna. “Il rapporto con mia mamma sul lavoro è un rapporto di tipo protettivo, come quello di qualsiasi madre con sua figlia – continua Wafa -. Lei cerca di proteggermi nei momenti più affollati e pericolosi oppure quando ci sono cose pesanti da trasportare, le prende lei al posto mio”.
Abusi e maltrattamenti. “La porteadora è l’anello più debole della catena. Queste donne passano tragedie, fame, piogge, maltrattamenti. Possiamo dire che la porteadora si prende tutto il peggio di questa situazione”, afferma l’ex responsabile della sicurezza. “Le donne denunciano differenti tipi di violenza: verbale, fisica, psicologica, economica – spiega Nadia Nair -. Alcune ragazze hanno parlato anche di violenza sessuale da entrambi i lati della frontiera”. Donne senza diritti, le porteadoras sono vittime di maltrattamenti e abusi di potere da parte delle forze dell’ordine e degli uomini della sicurezza. “Quando all’entrata gli agenti vedono delle ragazze belle e giovani le fanno passare, chiedendo spesso qualche prestazione in cambio – racconta Wafa -. Se invece si presentano delle donne più anziane, non solo le maltrattano, ma le rimandano addirittura indietro. Al poligono c’è sempre molta corruzione”.
I porteadores. La frontiera che divide Spagna e Marocco viene attraversata da migliaia di persone ogni giorno: cittadini spagnoli e marocchini, turisti, porteadoras e porteadores. A trasportare le merci da una parte all’altra infatti non sono solo donne, ma anche uomini di ogni età. “Lunedì e mercoledì lavorano le signore, martedì e giovedì invece tocca noi”, spiega Mohamed, 33enne marocchino. “Faccio questo lavoro da tre anni per mantenere la mia famiglia – continua il giovane -. Sono un meccanico, ma non riesco a trovare un’occupazione. Ho chiesto aiuto al governo, ma non ho avuto alcuna risposta. Così sono finito a lavorare qui”. Come lui centinaia di altri uomini prendono d’assalto la zona industriale con il loro carrellino vuoto prima di oltrepassare di nuovo la frontiera carichi di merci. Ci passano accanto uomini con le stampelle, invalidi e persino ciechi che tirano il loro trolley, guidati da qualche amico. “Sono stato obbligato a fare questo lavoro, non ho altre possibilità. I miei genitori sono malati e io devo prendermi cura di loro”, ci racconta un giovane poco più che maggiorenne. Mentre il sole diventa sempre più caldo, le vie tra i magazzini si fanno sempre più affollate. “Ieri (lunedì, ndr) sono entrare nella zona commerciale 3.900 donne, oggi invece abbiamo registrato 4.382 uomini”, afferma il responsabile della sicurezza.
Pacchi ignoti. Così, chili e chili di merci a basso costo lasciano la Spagna per entrare in Marocco dove sono venduti con ampio guadagno. Ogni giorno, dalle 8 alle 14, il poligono si anima, trasformandosi in formicaio dove tutti corrono e urlano. Davanti ai magazzini la tensione è spesso alta: non mancano discussioni, spintoni e risse tra i porteadores. Molte le donne che negli anni sono morte schiacciate dal peso dei pacchi e dalla furia della folla. I nuovi sistemi di sicurezza permettono ora di mantenere sotto controllo la situazione e intervenire in modo tempestivo in caso di necessità. Quello che però continua a preoccupare è il mancato controllo sul contenuto dei pacchi, come ci spiega Antonio Borrego: Dentro a scatole e sacchetti può esserci di tutto. I porteadores non conoscono il contenuto dei pacchi e quindi non sanno se quello che trasportano è legale o illegale. Al Tarajal II quindi può passare qualsiasi tipo di merce: dai vestiti al cibo, ai prodotti per la casa e l’igiene personale. E non solo. Controllare l’interno delle scatole è impossibile e questo fa la fortuna dei trafficanti. “Di base portano illegalmente alcool, whisky, birra, cellulari e schede telefoniche sia rubate che di nuova generazione. Ma c’è anche chi ha trasportato armi”, conclude l’ex capo della sicurezza. “In questa scatola c’è della mortadella – ci spiega un ragazzo alla frontiera -. Così si legge sul pacco, ma non ne sono sicuro. Non posso vedere cosa contiene in realtà”. Un commercio illegale alla luce del sole che sfrutta donne e uomini senza altre possibilità. “Spagna e Marocco fanno finta di niente, guardano dall’altra parte – tuona Nadia Nair -. Non c’è mai stata alcuna risposta sul tema da nessuna delle due parti e neanche da parte dell’Unione europea. Questa è una frontiera europea e Bruxelles ha la responsabilità di quanto accade qui”.
AIUTIAMOLI, MA A CASA DI QUALCUN ALTRO! Alessandro Zoppo per Il Giornale il 15 aprile 2019. Cher si scopre repubblicana, ha commentato con sarcasmo Donald Trump Jr. Sta facendo molto discutere negli Stati Uniti un tweet della cantante e attrice, che ha usato i social network per criticare aspramente la proposta del governo Trump, che sta pensando di collocare gli immigrati clandestini nelle cosiddette “sanctuary cities”, le “città rifugio”. Lo scorso venerdì, l’amministrazione Trump ha infatti aperto all’ipotesi di spedire i migranti nelle “città santuario”, ovvero le municipalità (spesso ad amministrazione democratica) che adottando la cosiddetta “sanctuary policy”, non applicano le leggi federali e quindi le norme contro l’immigrazione clandestina. “I radicali di sinistra – ha scritto Trump su Twitter – hanno sempre i confini aperti e perseguono la politica delle porte aperte, questo dovrebbe piacere!”. La mossa di Trump è semplice: far convergere i migranti che stanno arrivando da Honduras, Guatemala ed El Salvador verso le città santuario, dove spesso i livelli di criminalità sono già elevati, e mettere pressione alle amministrazioni locali che impediscono una politica anti-immigrazione più forte. Anche se la proposta è in fase di “revisione completa e approfondita”, come ha detto la portavoce della Casa Bianca Sarah Huckabee Sanders a “Fox News Sunday”, c’è già chi comincia a storcere il naso. Anche tra i dem. “Comprendo di aiutare gli immigrati in difficoltà – ha scritto Cher su Twitter – ma la mia città, Los Angeles, non riesce neanche a prendersi cura di se stessa. Cosa fare allora per quanto riguarda gli oltre 50.000 cittadini che vivono per strada, persone che vivono sotto la soglia di povertà e affamate? Se il mio Stato non può prendersi cura di se stesso (molti di questi sono veterani di guerra), come può prendersi cura di tanti altri”. Gli homeless di Los Angeles, secondo i numeri del Department of Housing and Urban Development, sono secondi per numero soltanto a quelli di New York. Le parole di Cher, che sin dall’elezione di The Donald è stata una delle più attive vip anti-Trump, hanno scatenato Donald Trump Jr. Condividendo il cinguettio della cantante, il figlio del presidente Usa ha scritto: “Questi liberal di Hollywood hanno la faccia tosta. Difendono le politiche folli della sinistra e aprono le frontiere quando possono far ricadere il peso su di voi, sulle vostre città, le vostre scuole e i vostri ospedali, ma se tutto ciò inizia a toccare anche loro, all’improvviso non sono più così entusiasti dell’afflusso di clandestini. Che ipocrisia”.
Aiutiamoli a casa loro. Pubblicato giovedì, 04 aprile 2019 da Massimo Gramellini su Corriere.it. Il ministro nigeriano dell’Agricoltura ha denunciato in Parlamento una singolare abitudine praticata da alcuni suoi connazionali. Consiste nell’ordinare per telefono la pizza a Londra e passare a ritirarla all’aeroporto di Lagos, appena uscita non dal forno a legna, ma dalla stiva di un apparecchio della British Airways. Ci si interroga sulle ragioni che indurrebbero degli individui dal conto in banca inversamente proporzionale alla decenza a spendere un mucchio di soldi per mangiare una pizza gelida e molliccia, usando un aereo come fattorino. Daranno anche la mancia al pilota? Ignoro se la birra la facciano arrivare calda direttamente da Monaco di Baviera. Ma, con un investimento molto minore, invece delle pizze potrebbero comprarsi il pizzaiolo, finanziandogli l’apertura di un locale nel centro di Lagos. Evidentemente non è la pizza in sé a interessare questi tizi, ma la sensazione di potersi permettere uno sfizio «esclusivo», si sarebbe detto in Italia negli anni del benessere diffuso, quando tutti pagavano per avere qualcosa di diverso dagli altri e così finivano per avere di nuovo tutti la stessa cosa. Per molti in Nigeria è «esclusivo» già avere un tetto sopra la testa. E quei pochi che il tetto ce l’hanno d’oro, magari grazie ai soldi che l’Occidente gonzo o colluso ha destinato agli aiuti per il Terzo Mondo, si permettono di deridere la miseria circostante ordinando una Margherita con le ali. Sono gli unici che aiutiamo davvero a casa loro.
Alfonso Giordano: «Aiutare i migranti a casa loro? Basta non aiutare i dittatori». Intervista di Rocco Vazzana del 17 Agosto 2019 su Il Dubbio. Per Alfonso Giordano, professore di Geografia politica alla Luiss di Roma, l’immigrazione è un fenomeno troppo complesso per essere liquidato con uno slogan o un tweet. «Per aiutarli a casa loro, come dice qualcuno, potremmo cominciare a non appoggiare più qualche dittatore». Per Alfonso Giordano, professore di Geografia politica alla Luiss di Roma, l’immigrazione è un fenomeno troppo complesso per essere liquidato con uno slogan o un tweet.
Professore, anche la presidente Ursula von der Leyen di recente ha chiesto di rivedere le politiche d’asilo per non lasciare sola l’Italia ad affrontare il fenomeno. L’Europa si rende conto della situazione e prova a cambiare approccio?
«Bisogna vedere la praticabilità di questa buona volontà, perché in genere i paesi geograficamente lontani dal fenomeno pensano di essere anche lontani dal problema. E poi, come è noto, bisogna affrontare lo scoglio dei paesi di Visegrad, con cui il nostro governo dialogava, ma che, in nome del sovranismo, non sono affatto disponibili a collaborare con l’Italia. Per questo servirebbe più Europa, un organismo politico che avesse la possibilità di infierire, anche solo a livello simbolico, con chi si rifiuta di cooperare. La Commissione dovrebbe avere il potere di estromettere dai vantaggi dello stare insieme chi non ha intenzione di rispettare il patto di solidarietà europeo».
E invece?
«Invece, dobbiamo fare i conti con la geopolitica reale. Già qualche tempo fa, nei documenti che circolavano tra Parlamento e Commissione Ue, si cominciava a vedere una nuova contrapposizione geografica: non più Nord- Sud, ma Est- Ovest. Da un lato i paesi occidentali, che da tempo hanno confidenza con queste problematiche, e dall’altra quelli orientali, che invece non vogliono sentir parlare di immigrazione».
Ma per cambiare lo status quo bisogna sedersi a un tavolo, trattare e provare a convincere i partner europei a cambiare Dublino…
«Certo, ma noi non ci andiamo. A questo punto nasce il sospetto che si disertino i tavoli perché il problema immigrazione ti sta bene. Non credo però che Matteo Salvini potrà continuare a lungo con questo approccio, i problemi a un certo punto dovrà affrontarli e riguarderanno l’economia».
Da dove proviene la maggior parte dei migranti che arriva in Europa?
«I tedeschi fanno più rimpatri di noi perché in Germania arrivano tante persone dal Medio oriente e dal Nord Africa, da paesi con cui ci sono convenzioni che permettono un rimpatrio più veloce. Da noi invece arrivano molti profughi dall’Africa sub sahariana, da paesi in cui in genere non esistono accordi, per questo le promesse elettorali di Salvini si sono rivelate fallimentari. Inoltre, la maggior parte delle presenze nel nostro paese, negli ultimi tempi, non è dovuta agli sbarchi, ma ai migranti rispediti in Italia da altri Stati, dalla Germania soprattutto, in virtù di Dublino. È necessario sedersi a un tavolo e discutere. Perché se non si raddrizza in qualche modo Dublino salta anche Schenghen».
In Italia sono sbarcate meno di quattromila persone nei primi otto mesi dell’anno. Può essere considerata un’emergenza?
«Questa è solo un’emergenza comunicativa, nient’altro. Essendo ormai l’informazione diretta, non mediata dai giornalisti, ognuno racconta con le proprie mani la realtà che gli fa comodo tramite social network. I problemi reali sono altri: corruzione e inefficienze su tutto».
Due anni fa, nel 2017, nello stesso periodo dell’anno, erano arrivate sulle nostre coste oltre 95mila persone.
«Appunto, è una cosa ridicola parlare adesso di emergenze. Se un paese come l’Italia non riuscisse davvero a gestire poco più di tremila persone sarebbe un problema serio. La questione è evidentemente di natura politica. Ed è giusto chiedere un impegno all’Europa, ma bisogna scegliersi gli interlocutori giusti. Non credo che litigare con la Francia, per quanto Macron possa stare legittimamente antipatico, rientri nel nostro interesse. Se proprio vogliamo identificare qualche responsabile della mancata collaborazione bisogna cercare tra i paesi dell’Est, nel blocco di Visegrad, alleati di Salvini. È il paradosso del sovranismo: si cercano interlocutori simili, ma i sovranisti tra loro non possono andare d’accordo».
Se andiamo a guardare i numeri impressionanti dell’accoglienza in Germania, con oltre un milione di rifugiati, la polemica con Berlino sembra campata in aria.
«Non c’è nemmeno paragone, a guardare i numeri siamo fuori dal mondo. Il problema riguarda la percezione del fenomeno, che ahimè conta, non c’è nulla da fare. E in passato la politica a sottostimato la questione».
Domanda impopolare: davanti a masse di individui che si spostano comunque, ha ancora senso distinguere tra migranti economici e profughi di guerra?
«Le faccio un esempio. Tempo fa nel corso di un incontro internazionale tra esperti del fenomeno, alcuni di noi chiesero alle organizzazioni internazionali come mai non si impegnassero a far pressione sugli Stati perché estendessero la Convenzione di Ginevra anche ai migranti economici o a quelli ambientali. Ci risposero: non lo facciamo perché temiamo che se apriamo questo fronte gli Stati restringeranno ulteriormente le maglie dell’accoglienza».
L’unica soluzione è arrendersi a un esercito di fantasmi senza identità per le strade europee?
«Il discorso è più ampio. Esistono problemi effettivi di organizzazione statale e di sicurezza dei cittadini. Perché il problema non è quante persone riusciamo a far entrare ma quante ne riusciamo a integrare, soprattutto da quando le migrazioni non sono più intra- europee, come avveniva negli anni Cinquanta, ma riguardano popolazioni provenienti da altri continenti. E in Europa non più forte come un tempo, invecchiata e che sente il declino, il tema dell’integrazione resta prioritario».
Salvini, ma non solo lui, ripete spesso lo slogan “aiutiamoli a casa loro”. Solo propaganda o è una possibile alterativa?
«Se vogliamo che queste persone non si spostino qualcosa possiamo farlo. Per esempio, potremmo smetterla di appoggiare alcuni dittatori. Questo però significa anche avere qualche perdita, come meno facilità nell’approvvigionamento di alcune forniture. Ma dovremmo anche accettare la competizione di questi paesi, cioè farli entrare in sistemi di libero scambio, cosa che non facciamo. Perché, puntualmente, i sovranisti pretendono di bloccare i flussi ma non vogliono la competizione. Ma bisogna scegliere: o si accetta il confronto o si accettano le migrazioni».
Tripoli può essere considerata un porto sicuro, come dice qualcuno?
«Mi rifiuto di rispondere perché è evidente che non è così. C’è una guerra in corso e campi di concentramento dove la gente viene torturata. Non c’è nessuna possibilità di affermare che Tripoli sia un porto sicuro: lo dice l’Onu, lo dicono le agenzie internazionali, lo dicono le persone che scappano, lo dicono i fatti».
Dove devono sbarcare allora queste persone?
«Il punto è di natura geopolitica. Su quel pezzo di mare ci sono tre sovranità. Quella libica, che evidentemente è carente e della quale faremmo bene a non fidarci, visto come trattano le persone. Poi c’è quella di Malta, che però ha un’estensione di zona di recupero e salvataggio venti volte superiore alla capacità di poterla gestire. Tra l’altro Malta, in relazione alla popolazione, accoglie il triplo delle persone che accogliamo noi. E infine ci siamo noi, l’unico paese grande, con spazio e con mezzi, che si sta sobbarcando anche le altre due fasce. Ed è per questo dovremmo tendere a europeizzare queste operazioni nel mare, il contrario del sovranismo».
Servirebbero corridoi umanitari europei?
«Sì, assolutamente. Nel disaccordo tra paesi europei si infilano le organizzazioni criminali. Se ci fosse una rete di controllo europea su quell’area del Mediterraneo, capace di organizzare corridoi umanitari, i traffici sparirebbero. Bisogna avere il coraggio di gestire gli ingressi. Ovviamente, facendo una selezione all’origine».
E come si opera una selezione all’origine?
«Dando più potere alle organizzazioni internazionali, come l’Onu, oggi indebolite dai continui attacchi. Gli americani non vogliono più fare il gendarmi del mondo, a meno che non sussista un precipuo interesse nazionale. Né la Cina ha interesse a smuovere le carte, visto che Pechino prolifera sugli accordi bilaterali, governo con governo. Il gioco degli anni della cooperazione è saltato. E non solo per una questione filosofica, ma perché si sono affacciati dei player sullo scacchiere internazionale che non hanno alcun interesse a seguire gli schemi del passato. È venuto meno l’assioma “democrazia uguale ricchezza” e questo cambia tutto. Ma servirebbe tornare al compromesso come metodo operativo».
M5S e Lega hanno definito «taxi del mare» le navi delle Ong. Come giudica questa definizione?
«Una balla totale. Secondo i dati del Viminale e dell’Unhcr, diffusi dal ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, solo il 5 per cento dei migranti sbarcati viene salvato dalle Ong. Non solo, verificando i singoli giorni del mese, si scopre che senza navi umanitarie in mare si registrano in alcuni casi anche numeri maggiori di partenze. Insomma, non c’è alcuna correlazione tra Ong e sbarchi».
Giulio Tremonti a Libero: "Di immigrazione la sinistra non capisce nulla". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 13 Settembre 2019. Può bastare la revisione del trattato di Dublino a risolvere il problema dell' immigrazione? Ieri Enrico Letta, ex premier e fondatore della Scuola di Politiche al via oggi a Cesenatico, ha scritto una lettera a La Repubblica in cui propone l'uscita temporanea dell'Italia dal trattato di Dublino (quello secondo cui il diritto di asilo può essere chiesto solo nel Paese di primo arrivo) e suggerisce di creare un nuovo trattato. Ma Giulio Tremonti, già ministro dell'Economia nei governi Berlusconi, decide di replicargli, mettendosi nei panni di uno studente che, alla fine di una lezione, alza la mano e osa rivolgere obiezioni. Sulla base di alcune intuizioni politiche da lui avute molti anni fa.
Prof. Tremonti, quali sono i limiti della proposta di Letta?
«Se io fossi sui banchi della scuola di Cesenatico, mi permetterei di fare alcuni rilievi. Il primo è questo: confesso di essere l'autore della ancora vigente legge sull'immigrazione, la Bossi-Fini. La relazione sulla legge, da me scritta, iniziava così: "All'alba del terzo millennio si confrontano in Europa due modelli opposti di società: il modello 'neo-giacobino' della società universale multirazziale e il modello 'cristiano' di una società equilibrata tra forze nuove che premono dall'esterno e valori storici radicati nella tradizione". C'era già la visione di quanto sarebbe accaduto dopo. Il centrosinistra ha sempre trovato quella legge ingiusta. Ma allora mi chiedo: se era così sbagliata, perché non l'ha cambiata negli anni in cui è stato al governo?».
Quella legge contiene il principio dell'«aiutiamoli a casa loro». La sinistra lo ha mai preso in considerazione?
«In realtà no. Già nel 1995 parlavo in un libro del "fantasma della povertà" che "sta tornando in Occidente", muovendosi da sud verso nord. E notavo la struttura materiale e virtuale di questo processo migratorio, evidenziando la forza della tv di attirare in Occidente, con immagini di ricchezza, i poveri della Terra. Ancora il 12 settembre 2001 appariva su Le Monde un mio articolo che illustrava la proposta fatta all'Europa, in Ecofin, dal governo italiano di istituire il meccanismo della De-Tax. Il principio era questo: vai in un negozio, compri le scarpe, e se il negozio è convenzionato con il volontariato, l'Europa rinuncia a un punto di Iva per destinare quei soldi all'Africa. La reazione della Commissione Ue allora presieduta da Prodi fu: è una falsa questione perché le migrazioni non sono il problema ma la soluzione. Anziché aiutare le popolazioni africane, si preferì usare i soldi del bilancio europeo per finanziare i governi del Continente Nero. Con automatica destinazione di quei fondi o in armamenti o sui conti personali di dittatori africani».
Letta parla di «strumenti vecchi» nella gestione dell'immigrazione e scarica le colpe sull'Ungheria che pone veti alla redistribuzione dei migranti. Troppo riduttiva come analisi?
«Letta dice che ci sono stati degli errori, ma non spiega chi li abbia fatti, quando e da quanto tempo. Parla di egoismo degli Stati, di colpe dei populismi, che invece sono l'effetto e non la causa della cattiva gestione delle migrazioni. Ma non parla mai della responsabilità delle classi dirigenti di sinistra che hanno sottovalutato il fenomeno».
Crede che Letta e la sinistra in generale difettino di buona memoria?
«La mia impressione è che ignorino la cifra storica del fenomeno. La lettera sembra fondata sulla credenza per cui vivevamo in un Paradiso terrestre e poi all'improvviso, insieme alla mela democratica, è apparso il serpente populista. Molto più serio è l'approccio che si richiama a un passaggio della Bibbia dove c'è scritto che "popoli migranti da Oriente scesero nelle nostre pianure". Ciò dimostra che da tempo immemorabile l'uomo si sposta, per assicurarsi il cibo o condizioni migliori di vita. Le migrazioni non sono un accidente della storia, ma parte strutturale del destino umano. E, come tali, vanno analizzate in una dimensione complessiva, non per pezzetti e polemiche».
È d' accordo almeno sulla necessità di modificare il trattato di Dublino?
«Sì, ma è un errore incolpare il centrodestra per quel trattato. La sinistra, soprattutto con Minniti, accusa il governo Berlusconi di averlo sottoscritto nel 2005. In realtà la sostanza di quel trattato venne fuori nel 1991, dopo il crollo del muro di Berlino. Quel regolamento serviva a fare in modo che le persone che lasciavano la Germania Est trovassero nella Germania Ovest la prima accoglienza. Non c'entrava nulla il Mediterraneo. Se non si sa la storia, è meglio non parlare».
Letta afferma che il trattato di Dublino non funziona perché «precede l'instabilità determinatasi dopo le primavere arabe». Che ne pensa?
«Gli effetti delle rivoluzioni arabe non c'entrano nulla perché a muoversi sono perlopiù le popolazioni subsahariane. Più in generale il problema non è tanto come accogliere i migranti. Dovremmo piuttosto ragionare su chi ha abbandonato il Paese d'origine e preoccuparci di chi resta. Partono i più giovani e forti mentre restano i più poveri e vecchi, coloro che, per le condizioni di disagio, più facilmente rischiano di venire attratti dalle sirene del terrorismo. Aiutarli a casa loro non è una cattiveria verso quelli che partono, ma una misura a favore di quanti restano».
Infine, come giudica la scelta di dare al Commissario per l'immigrazione la denominazione di «protezione del nostro stile di vita»?
«Mi pare un infortunio semantico. Cosa vuol dire proteggere lo stile di vita? Proteggere l'alimentazione, la moda prêt-à-porter? E poi è curioso che ad adottare quella definizione sia stata una commissione di centro-sinistra. Te la aspetteresti dalla destra». Gianluca Veneziani
Vogliamo aiutare l’Africa? Compriamo rose. Ma attenzione al marchio. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Corriere.it. L’Olanda non è più quindi il principale produttore mondiale, ma è comunque il più grande centro commerciale di smistamento di fiori recisi d’Europa.Il 95% delle coltivazioni è concentrato intorno al lago Naivasha. Uno dei primi a capire le potenzialità del luogo è il marine olandese della Seconda Guerra Mondiale Hans Zwager che nel 1969, proprio sulle rive del lago, acquista un allevamento di bestiame trasformato dopo qualche tempo nella fattoria di fiori Oserian. A partire dal 1982 l’azienda è diventata una delle più grandi della zona, con quasi un milione di pezzi al giorno su cinquemila ettari coltivati. A pochi chilometri di distanza, a Nairobi, l’olandese Dutch Flower Group ha il centro logistico leader del mercato mondiale dell’orticoltura. Il gruppo, fondato nel 1999 oggi ha un fatturato che supera il miliardo di euro, mentre intorno al lago Naivasha sono «fiorite» 150 aziende, in parte proprio di proprietà olandese.Una serra in fila all’altra ricoperta di polietilene, una delle plastiche più economiche ma con ottime proprietà isolanti in grado di proteggere le piantagioni dal sole battente, dal vento e dalla pioggia.Il mercato dei fiori è una fonte di sviluppo importante per il Kenya, e dimostra le potenzialità del continente africano. Affinché questa tendenza continui nel lungo periodo occorrerà migliorare le condizioni di lavoro e soprattutto quelle ambientali. Per ogni stelo servono in media 9 litri d’acqua, che vuol dire utilizzare fino a 47 miliardi di litri d’acqua in un anno. Un terzo viene riassorbito dal suolo insieme a grandi quantità di pesticidi e fertilizzanti. Quell’unico lago, che serve acqua ai 650 mila kenioti che vivono nelle zone limitrofe e consente le produzioni agricole di una vastissima area, si è già abbassato di 3,5 metri. Emerge da uno studio dal titolo «Mitigare l’impronta idrica dell’esportazione di fiori recisi dal lago Naivasha» condotto dal Twente Water Centre dell’University of Twente della città olandese Endeche. Ma risale al 2012. Ricerche più aggiornate sulla qualità e quantità di acqua disponibile non esistono, e senza la consapevolezza dei danni ambientali, sostenuta da un monitoraggio continuo, lo sviluppo di questo settore rischia il crollo.I consumatori europei in realtà possono aiutare l’economia africana e la sua sostenibilità. Basta una piccola attenzione: quando si comprano rose, scegliere quelle con il certificato di commercio equo e solidale. Oggi in Kenya aderiscono la metà dei produttori. Il marchio garantisce che le coltivazioni non utilizzano sostanze nocive, che adottano il risparmio idrico ed energetico attraverso il riciclo delle acque e l’irrigazione avviene con sistema idroponico per l’uso controllato dell’acqua. Aiutando l’Africa, ricordiamolo, aiutiamo anche noi.
E se aiutare l’Africa diventasse un affare? Il futuro del continente dipende dalla formazione, finanziata da un nuovo strumento, gli "impact bond". È la ricetta della manager-politica tunisina ed ex ministro Amel Karboul. Non mancano però i dubbi, scrive Francesca Sironi il 17 aprile 2019 su L'Espresso. Agenda impegnativa, per la settimana. Lunedì: incontri bilaterali con alcune grandi banche e multinazionali. Martedì: riunione con fondazioni non-profit. Mercoledì: aggiornamento con il governo del Ghana. A leggere tra le righe, è un bigino delle domande aperte sulla cooperazione e non solo. Lunedì: a ben guardare è sul tavolo l’antitesi, apparentemente irrisolvibile, fra gli enormi profitti privati di pochi e i sempre più fragili beni comuni di molti. Decenni di speculazioni rapaci non portano a rosee prospettive su una possibile risoluzione di questa distanza. Ma lei sta provando a costruire nuovi ponti. Martedì: la crisi del sistema delle mega-organizzazioni d’aiuto e i giorni grigi che stanno passando le società internazionali, fra critiche storiche (e di sinistra) ai loro meccanismi e i nuovi disprezzi sovranisti. Esistono modelli diversi? Mercoledì: la ricerca di un percorso certo, efficace e sostenibile per l’istruzione degli ultimi. Difficile immaginare un’agenda più mondialista e complessa. Eppure è da qui che parte Amel Karboul. Dalle spine globali di cui si occupa: l’accesso all’educazione in Africa, l’innovazione nelle regioni più povere del mondo, i rapporti fra pubblico e privato per lo sviluppo nei paesi emergenti. Raccoglie problemi semplici, insomma, la sua borsa appoggiata a terra a Palazzo Giustiniani, a Roma, di fianco a scarpe basse e acqua che ha chiesto «perché ho dovuto parlare per ore», osserva sorridendo.
Papa Francesco: "Serve rispetto, non dite più migrante". Bergoglio ai fedeli: "Non dite 'migrante' ma 'persona migrante'". E poi bacchetta: "Le differenze non spaventino, coi musulmani siamo fratelli", scrive Sergio Rame, Mercoledì 03/04/2019, su Il Giornale. "A me non piace dire migranti, mi piace dire persone migranti". Nel'Udienza generale incentrata sul viaggio apostolico in Marocco, che si è appena concluso, papa Francesco ha messo in guardia "dalla cultura dell'aggettivo", senza sostanza. "Migrante è aggettivo, persona è sostantivo - ha osservato Bergoglio, in un intervento a braccio - noi siamo caduti nella cultura dell'aggettivo e dimentichiamo tante volte i sostantivi, la sostanza. L'aggettivo va attaccato a un sostantivo, persona migrante, così c'è rispetto". "La cultura dell'aggettivo - ha poi sottolineato il Pontefice - è troppo liquida, troppo gassosa". "Non dobbiamo spaventarci della differenza". Durante l'Udienza generale sul suo viaggio apostolico in Marocco, Bergoglio ha anche spiegato come tutte le religioni guardino "il cielo e Dio". "Qualcuno può domandarsi: ma perché il Papa va dai musulmani e non solamente dai cattolici? Perché Dio permette tante religioni?", si è quindi interrogato il Santo Padre. Che poi ha ricordato ai fedeli: "Con i musulmani siamo discendenti dello stesso padre Abramo". "Dio ha voluto permettere questo, i teologi della scolastica dicevano la voluntas permissiva di Dio, ha voluto permettere questa realtà: tante religioni, ognuna nasce da una cultura, ma tutti guardano il cielo e Dio - ha continuato - siamo tutti fratelli e quel che Dio vuole è la fratellanza tra noi e in modo speciale in questo viaggio con i nostri fratelli figli di Abramo musulmani. Non dobbiamo spaventarci della differenza, Dio ha voluto questo, ma, sì, dobbiamo spaventarci se non facciamo lavoro di fratellanza e non andiamo insieme nella vita". Secondo papa Francesco, "servire la speranza, in un tempo come il nostro, significa anzitutto gettare ponti tra le civiltà". E per lui, in modo particolare è stata una gioia e un onore poterlo fare in Marocco, incontrando "il suo popolo e i suoi governanti". "Specialmente re Mohammed VI è stato fraterno, tanto amico, tanto vicino", ha concluso Bergoglio dopo aver ringraziato il Signore per avergli permesso di "fare un altro passo sulla strada del dialogo e dell'incontro con i fratelli e le sorelle musulmani". "Il mio pellegrinaggio ha seguito le orme di due Santi: Francesco d'Assisi e Giovanni Paolo II. Ottocento anni fa - ha infine sottolineato il Pontefice - Francesco portò il messaggio di pace e di fraternità al Sultano al-Malik al-Kamil. Nel 1985 Papa Wojtya compì la sua memorabile visita in Marocco, dopo aver ricevuto in Vaticano, primo tra i Capi di Stato musulmani, il Re Hassan II".
· Il regno degli immigrati.
Milano, gli arabi padroni della piazza: "Gli italiani sono prigionieri". A piazza Selinunte i milanesi vivono sotto minaccia. ""Prima i poi mi ammazzano", racconta una signora. Mentre uno dei pochi italiani rimasti ammette: "Sono costretto a girare armato", scrivono Alessandro Diviggiano ed Eugenia Fiore, Martedì 02/04/2019, su Il Giornale. "Prima o poi mi ammazzano. Lo so. Ma io non mi muovo. Qua, io ci voglio restare. E piuttosto di andarmene mi faccio uccidere". Elisabetta vive a piazzale Selinunte, a San Siro, dall'89. La sua vita in zona, come quella di tanti altri, è scandita da minacce, intimidazioni e offese gratuite lungo la strada. "Era un bel quartiere. Residenziale, non è periferia. Ma adesso non è più nulla", racconta al Giornale.it. "Qualche giorno fa un signore rientrava dal lavoro e, senza nessuna ragione di fondo, l'hanno picchiato e poi gli hanno spaccato la testa. Ormai neanche al pomeriggio siamo più sicuri a uscire". In questo quadrilatero della paura tappezzato da case popolari, è raro sentire parlare una parola di italiano. E basta farsi un giro tra queste vie per rendersi conto che la situazione è fuori controllo. Ad ammetterlo è anche Federico Botteli, consigliere Pd del municipio 7: "A San Siro c'è un numero di reati per spaccio, prostituzione e altro che è superiore rispetto alla media di altri quartieri milanesi. Questo è dato anche dal fatto che c'è un'alta percentuale di stranieri ed è oggettivo", spiega. I pochi negozi italiani rimasti vengono rapinati di continuo. Un negoziante - che per motivi di sicurezza preferisce restare anonimo - ci racconta la sua esperienza. "Sapete quante volte mi hanno minacciato di morte? Questi entrano e ti dicono 'dammi questo e quello'. E finché non gli dai ciò che vogliono rimangono lì. Ormai è un continuo", ci racconta. "Io giro armato, non sto scherzando. Ormai non ho alternative". Gli chiediamo chi sono queste persone che minacciano e rubano. "Sono tutti immigrati. E sapete perché? Per il semplice fatto che qui, di italiani, non ce ne sono più". Poco più avanti, entriamo nella farmacia che si affaccia sulla piazza. Non appena vede la telecamera, però, la signora dietro il bancone ci anticipa: "Non voglio rilasciare alcuna dichiarazione per motivi che potete immaginare". Anche lei, come tanti altri che abbiamo incontrato, preferisce non farsi intervistare. Sono cittadini esasperati, e non vogliono rischiare ulteriormente. Ma, soprattutto, sono cittadini che si sentono ormai stranieri a casa propria. Come Paola, nome di fantasia, che lavora in un bar in zona. "Voglio parlare, ma non voglio essere riconoscibile", premette. "La maggior parte dei nomadi che vivono qui hanno in mano la prostituzione minorile. Io vedo sempre molte ragazze che si prostituiscono. Questo avviene dentro ad alcuni alloggi occupati", afferma. "Inoltre, ho diverse amiche italiane che stanno con degli arabi. E da questi prendono anche una manica di botte. All'inizio è tutto rose e fiori, poi, una volta che sanno di averle in pugno, inziano a picchiarle. E loro non si possono più ribellare". In una via che si affaccia sulla piazza ci imbattiamo poi in una signora anziana. Cammina a fatica, lentamente. Ci racconta che vive qua da una ventina d'anni, in una casa popolare. Ora è sola, e malata. "Siamo arrivati al punto che è il carcere non è San Vittore - afferma - ma sono le nostre case. Perché dobbiamo essere blindati dentro. Sembriamo tutti agli arresti domiciliari". E poi conclude: "Io non ne ho la possibilità economica, altrimenti me ne sarei andata".
Bologna. Il regno di immigrati e no global: "Ecco l'anticamera dell'inferno". Degrado, bivacchi e spaccio di droga, i residenti della zona universitaria sono esasperati: "Ci hanno abbandonati", scrive Fabio Franchini, Martedì 02/04/2019 su Il Giornale. Piazza Verdi è il centro del mondo universitario bolognese. Ma oltre a essere il cuore pulsante della vita studentesca di Bologna, fortemente politicizzata e dominata dalla sinistra, da anni si è trasformata in un ricettacolo di degrado e illegalità, tenendo in scacco i residenti. Via Petroni, per esempio, è la via dello spaccio h24, il vicino Giardino del Guasto è terra di tossici e siringhe, mentre Vicolo Bianchetti è diventato nell’orinatoio pubblico della zona. Proprio in via Petroni, nei giorni scorsi, è successo di tutto: prima l'arresto di quattro giovani immigrati irregolari (tre tunisini e un marocchino), beccati a spacciare in pieno pomeriggio dai poliziotti in borghese, poi – proprio la sera prima del nostro arrivo in città – l'aggressione a Giuseppe Sisti, fondatore dell’associazione Piazza Verdi e dintorni, sceso in strada con altri abitanti per protestare contro il rumore e il degrado notturno, chiedono conto a prefetto e sindaco di fare qualcosa. A fine febbraio un accoltellamento e a inizio marzo l'assalto notturno a due ragazza a opera di un 42 enne italiano, che ha tentato di rapinarle per poi schiaffeggiarle. Tutto sempre in via Petroni, simbolo della decadenza verticale della zona. Qui, ogni sera, soprattutto con la bella stagione, è un circo. La polizia passa, ma non può fare più di tanto. "Sarebbe una zona residenziale, ma ormai è un luna park a cielo aperto: vengono qui, bevono, si drogano e fanno casino fino a tarda, tardissima ora. In vicolo Bianchetti, per esempio, si trova urina e vomito per strada. E quando i residenti sono scesi a pulire si sono beccati pure gli insulti e un lancio di bottiglie vuote da questi personaggi…", ci racconta camminando sotto i portici Loris Folegatti, residente nel centro storico della città (proprio in via Petroni) e consigliere del Comitato di quartiere Santo Stefano, che ha subito a anche minacce e intimidazioni da loschi figuri: "Una volta mi hanno tagliato tutte e quattro le ruote della macchina". E continua così: "Dove abito io è la zona calda e succede di tutto, a tutte le ore: oltre alle urla e agli schiamazzi, spaccio non-stop, anche alla luce del sole e davanti ai bambini, gente che si droga davanti ai portoni, e alcol bevuto a ettolitri. Immaginate un po’ voi di notte cosa vuol dire tutto questo…". "È un attimo che possa succedere qualcosa, perché tra di loro di sangue ne abbiamo visto e ne vediamo. Neanche un mese fa, infatti, si sono accoltellati qui di fianco. Potrebbe anche capitare a noi…", la testimonianza di Cristina Maria Habernigg, volontaria del Comitato Piazza Verdi, presieduto da Otello Ciavatti, che abbiamo raggiunto telefonicamente. Nella chiacchierata al cellulare ha confermato l'emergenza illegalità, oltre che la sensazione di insicurezza e abbandono: "Si vede poco la presenza istituzionale, ci sentiamo soli. Per cui chiediamo al sindaco Merola di svegliarsi". Dunque Ciavatti ha puntato il dito anche contro alcune associazioni studentesche: "Al posto della politica preferiscono il momento dello sballo, della festa, della vendita di alcolici, della musica sparata ad altissimo volume, creando problemi a tutti".
Via Oberdan. E poi c’è anche via Oberdan, nel Ghetto Ebraico, ormai terra di nessuno, dove bivacchi e sbandati la fanno da padrone, esasperando i commercianti, dalla mattina alla sera. Entrati in un negozio, abbiamo fatto due parole con una storica esercente. "Avere queste persone a pochi metri che urlano e che si drogano non è certo una cosa bella. E fanno anche i bisogni davanti alle persone che passano: ormai questo è un bronx. Di polizia se ne vede poca e il sindaco dovrebbe pensare un po’ a noi, lasciati a noi stessi in balia di questa situazione", lo sfogo della signora. In un altro negozio della via raccogliamo lamentele: "Prima un tizio si è lavato i denti e ha sputato tutto per terra, poi un altro nel pomeriggio dà spesso in escandescenza, suonando tamburi. Adesso, poi, ne è arrivato un nuovo all'angolo che è molto molesto. In tutto sono tre o quattro, fa fanno e rumore e danno fastidio come se fossero in dieci…".
Giardino del Guasto. Il nostro tour continua e facciamo due passi fino al Giardino del Guasto, che troviamo chiuso. Un angolo verde preso d'assalto dai tossicodipendenti: "È diventato un parchetto off-limits, dove spesso ci sono persone che si bucano ed è facile trovare siringhe e fazzoletti sporchi di sangue. Tutto questo non è normale per una città civile come dovrebbe essere Bologna", sbotta Folegatti, che chiosa così: "Ovvi dunque i problemi di sicurezza personale per tutti i cittadini: rientrare a casa in un contesto del genere comporta rischi a causa di violenti, ubriachi e tossici. Io ho subito ritorsioni per il mio impegno e lo stesso è successo agli altri membri dei comitati: ormai ci siamo abituati e c’abbiamo fatto il callo, ma chi ha figli, bambini piccoli o fidanzate non sta certo tranquillo…". "L'eccessiva tolleranza della sinistra, che governa Bologna da cinquant'anni, nei confronti dei centri sociali e del degrado ha causato la situazione che è sotto gli occhi di tutto: molte aree della città sono in balia dello spaccio e i cittadini devono stare barricati in casa", il duro commento di Marco Lisei, consigliere comunale di Forza Italia. Insomma, residenti e commercianti sono stufi e arrabbiati: da anni chiedono a gran voce alla giunta comunale di centrosinistra interventi concreti, che però non sono mai arrivati. E anche se la sensazione che lottino un po' contro i mulini a vento si tocca con mano, non si danno per vinti e continuano la loro battaglia per non lasciare il cuore di Bologna in mano all'illegalità, ai pusher e agli sbandati.
· Perché a migrare in Italia non sono i più poveri.
Perché a migrare in Italia non sono i più poveri. Pubblicato domenica, 12 maggio 2019 da Milena Gabanelli su Corriere.it. La maggiore preoccupazione dell’Europa si concentra sull’Africa. I dati elaborati dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) per Dataroom, mostrano un quadro molto chiaro. Negli ultimi sei anni, su 1 milione e 85 mila migranti africani sbarcati in Europa, il 60% proviene da Paesi con un reddito pro capite tra 1.000 e 4.000 dollari l’anno, considerato medio-basso dalla Banca mondiale per il continente africano. Il 29% tra i 4 e 12 mila dollari, ossia medio-alto; il 7% da Paesi dove c’è un reddito alto (sopra i 12.000 dollari) e solo il 5% dai Paesi poverissimi (sotto i mille dollari).In Italia il numero più alto di arrivi (87.225) è dalla Nigeria, dove il reddito pro capite è di 5.473 dollari l’anno; dal Senegal (30.280 partenze), il reddito medio è di 2.781 dollari; dalla Costa d’Avorio (22.240) e il reddito 2.880 dollari. Indipendentemente dalla posizione geografica, ed esclusi i Paesi con conflitti in corso dove gli spostamenti sono interni e nei Paesi confinanti, là dove il reddito è basso le partenze sono minime. Dal Burundi (reddito 742 dollari), ne sono arrivati 30; dalla Repubblica Centrafricana (731 dollari) 165; dal Niger (reddito di 870 dollari) 1.135 arrivi. I flussi tendono a fermarsi quando il reddito medio supera i 12 mila dollari, ed è il caso del Sud Africa, Botswana e Guinea Equatoriale. La Banca mondiale – che ha osservato i 100 milioni di persone che nel mondo si sono spostate negli ultimi 25 anni – la chiama «gobba migratoria»: sotto i mille dollari le migrazioni sono basse o assenti; tra i 1.000 e i 4.500 aumentano e arrivano al picco; tra 4.500 e 12 mila iniziano a diminuire; sopra i 12 mila si diventa Paese di immigrazione. Milioni di arresti e schieramenti permanenti di polizia lungo il confine non hanno impedito ai messicani, negli ultimi 20 anni, di continuare inesorabilmente ad attraversare la frontiera con gli Usa. Nel 1995 il reddito medio pro capite di chi tentava l’espatrio era di 3.829 dollari. Nello stesso periodo quasi nessuna partenza da Honduras e Salvador, dove il reddito era rispettivamente di 937 e 1.590 dollari. Però appena è salito (più che raddoppiato nel 2018), si sono moltiplicate anche le partenze: 77.128 dall’Honduras, 31.636 dal Salvador. Contemporaneamente sono scese quelle dal Messico, dove la popolazione ha raggiunto un miglior tenore di vita. Secondo il Center for Global Development di Washington, che ha analizzato migliaia di censimenti nazionali nel corso di 50 anni, la Grande Migrazione è un effetto collaterale della globalizzazione, che ha determinato il crollo della povertà assoluta. Sembra assurdo, ma uno dei più grandi successi della nostra epoca ha indirettamente messo in moto i barconi. Con l’apertura al commercio e le comunicazioni internazionali ormai a costo zero, viaggiano le merci e in parallelo le persone. Il primo indicatore sono le esportazioni. Nel 1990 dall’Africa erano 127 miliardi di dollari, saliti a 539 nel 2017. Il reddito medio dei Paesi di partenza è passato da 3.300 dollari a 4.700 e il numero di africani in Europa da 4,5 milioni a 9,2 milioni. Oggi il 75% degli abitanti dell’Africa ha un cellulare (contro il 32% di dieci anni fa) e il 20% un collegamento a Internet (contro il 4% di dieci anni fa). È facile sapere qual è la rotta percorribile e in quale Paese ci sono più opportunità. Un viaggio verso l’Italia, come evidenzia l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Iom) – può costare fino a seimila dollari. Dallo stesso studio emerge che il 53% ha un lavoro nel Paese d’origine, solo il 32% è disoccupato e il 15% studente. «Nei prossimi due decenni – spiega il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa – dall’Africa verso l’Europa si sposteranno altri 3,4 milioni di persone. Allarmarsi non serve a nulla, ci vuole consapevolezza sulla sfida da gestire perché il processo è inarrestabile». Possiamo augurarci che sia il più breve possibile e accelerarlo comprando prodotti africani, ma intanto «La gente spesso rifiuta l’immigrazione perché esaspera la sensazione di avere perso il controllo sulla propria vita» sottolinea Il Manifesto del nuovo liberalismo pubblicato dall’Economist. Diciamo che bisogna aiutarli a casa loro. Giusto, ma facendo cosa? Gli studi recenti dimostrano che il sostegno al reddito incrementa le partenze, mentre gli investimenti per lo sviluppo dei servizi incoraggia la popolazione a restare. Basta pensare ai 38 milioni di piccoli produttori agricoli in Nigeria, spesso proprietari di terre che non riescono a coltivare per mancanza di capitali necessari. Per i milioni di africani senza l’acceso all’energia elettrica sarebbe possibile un futuro a casa loro se arrivassero investimenti nelle energie rinnovabili. Servono anche nella sanità, nei trasporti, nell’istruzione (ci sono ancora oltre 400 milioni di africani analfabeti) e soprattutto nello sviluppo tecnologico della rete internet. Allora è lì che andrebbero orientati i 50 miliardi europei di piano Marshall per l’Africa. Ma per attivarlo ci vuole una politica unica e condivisa che abbia la forza di imporre anche nuove regole fra il Nord e il Sud del mondo, usato da decenni come discarica e depredato dalle troppe multinazionali occidentali che operano nei Paesi africani senza pagare le tasse dovute. Fare questo vuol dire pensare al futuro dell’Europa e del proprio Paese. Non del proprio partito.
· Come arrivano i migranti in Italia.
Come arrivano i migranti in Italia. Mauro Indelicato il 25 settembre 2019 su it.insideover.com. La soglia psicologica dei mille è stata già superata il 15 settembre scorso quando il Viminale comunica l’arrivo in Italia 1003 migranti, in soli 15 giorni. Un dato importante in quanto certifica quella che, fino a pochi giorni fa, appariva soltanto come una mera sensazione: l’aumento di sbarchi sulle nostre coste. Per la prima volta dal 2017, infatti, si registra che il numero dei migranti approdati è in aumento su base annuale. Nel mese di settembre 2018, sono sbarcate 947 persone in totale, mentre al 15 di settembre di quest’anno, come detto, quella soglia viene già superata. La cifra illustrata dal Viminale, inoltre, non tiene conto dell’impennata di arrivi registrata negli ultimi giorni che certifica il boom di sbarchi. Anche per questo motivo il nuovo governo giallorosso, insediatosi per l’appunto nel mese più nero sul fronte migratorio da due anni a questa parte, tiene molto a presentare come un successo le promesse strappate nel corso del vertice di Malta. Sono due per il momento i fronti aperti che generano maggiore preoccupazione: da un lato quello libico, dall’altro quello ancora più spinoso che riguarda la rotta tunisina.
Chi arriva con le navi delle Ong. Il sopracitato vertice di Malta attua un distinguo tra migranti che approdano autonomamente in Italia e quelli che invece arrivano perché soccorsi da navi delle ong o da mezzi dei corpi militari, Guardia Costiera e Guardia di Finanza in primis. Soltanto questi ultimi, secondo quanto previsto dalla bozza che verrà poi esaminata dai ministri dell’interno dell’Ue il prossimo 8 ottobre in Lussemburgo, devono essere ricollocati nel resto d’Europa con una procedura automatica. Nel mese di luglio di quest’anno, l’ultimo prima dell’apertura della crisi di governo, coloro che sono sbarcati con le navi delle ong sono molti di meno rispetto a quelli che approdano autonomamente. E dire che quello è il mese contraddistinto dal caso di Carola Rackete, dal braccio di ferro con la Sea Watch e la Mediterranea Saving Humans. In attesa dei dati definitivi di settembre, si riscontra come tra gli oltre mille migranti arrivati in Italia in questo ultimo mese, coloro che sono approdati con i mezzi delle ong o per mezzo di salvataggi dei corpi militari sono circa 300. Solo una minima parte di chi arriva, quindi, lo fa con navi delle organizzazioni non governative ed è solo su questa parte che dovrebbe essere intaccato il nuovo meccanismo di redistribuzione europeo. Il fenomeno dei migranti che sbarcano con mezzi non autonomi riguarda soprattutto la rotta libica. In primis perché è a largo della Libia che si concentrano i controlli sia dei mezzi militari, a partire da quelli usati da Frontex o nell’ambito della missione Sophia, sia delle navi delle ong. In secondo luogo, dalle coste libiche è più difficile arrivare a Lampedusa od in Sicilia semplicemente con dei piccoli barchini. Chi parte dalla Tripolitania sa bene che dopo alcune miglia può contare sulla presenza di mezzi di soccorso o sulle allerte lanciate da network telefonici, come ad esempio Alarm Phone. Sono poi questi mezzi che possono essere delle ong così come dei corpi militari maltesi o italiani, che trasportano i migranti dall’altra parte del Mediterraneo. Alcune volte dalla Libia parte una cosiddetta “nave madre”, spesso un peschereccio di medie dimensioni, che si spinge verso le acque italiane calando poi in mare piccole imbarcazioni. Ma questa tecnica, riscontrata dalla procura di Agrigento in almeno due occasioni negli ultimi 12 mesi, è sempre meno utilizzata lungo la rotta libica ed appare invece di gran lunga più in voga tra gli scafisti che organizzano i viaggi dalla Tunisia. La rotta che ha nei porti libici i propri punti di partenza, conta quindi molto di più sulla possibilità di far approdare i migranti con mezzi militari o delle ong. Chi arriva in Italia con questa modalità, appartiene quasi sempre a gruppi di persone originarie dell’Africa subsahariana, che attendono per mesi in Libia la possibilità di partire e pagano enormi esborsi alle organizzazioni criminali che sfruttano il loro stato di necessità.
Chi arriva tramite gli sbarchi autonomi. Fino al 2017, la rotta libica costituisce il maggiore spauracchio per il governo italiano. Il codice delle ong prima, varato dall’allora ministro Marco Minniti, e le situazioni venutesi a creare all’interno della Libia poi fanno sì che, ad oggi, il numero di migranti che arrivano in Italia da qui sia marginale rispetto a quello delle persone che sbarcano in modo autonomo. Il braccio di ferro con il governo gialloverde e la linea del ministro Matteo Salvini, fanno poi il resto sul fronte delle Ong. Come detto, gli sbarchi fantasma sono in aumento e costituiscono in questa fase la stragrande maggioranza degli approdi nel nostro paese. Questa modalità di sbarco è proprio soprattutto della rotta tunisina. Raggiungere le coste di Lampedusa o delle province di Trapani ed Agrigento dalla Tunisia è molto più semplice ed è possibile farlo tramite imbarcazioni di modeste dimensioni. Fino a qualche settimana fa, si riteneva che per mezzo degli sbarchi fantasma arrivassero soprattutto tunisini. In effetti, le persone di nazionalità tunisina costituiscono almeno il 25% complessivo del numero dei migranti arrivati in Italia nel 2019. Ma da questo mese di settembre si è notato un cambiamento: dal Paese nordafricano sono arrivate anche persone di origine subsahariana. Questo testimonia come la Tunisia stia diventando sempre di più l’epicentro del fenomeno migratorio verso l’Italia, con la rotta tunisina utilizzata anche da quelle organizzazioni criminali prima operanti in Libia. Tutto ciò spiega anche come mai siano oramai gli approdi autonomi a destare maggiori preoccupazioni alle autorità del nostro paese. Lo sbarco fantasma è un fenomeno che riguarda anche un’altra rotta sempre più frequentata in questi ultimi mesi, ossia quella turca. Dall’Egeo, a bordo di barche a vela, si arriva in Calabria e soprattutto nelle province di Reggio Calabria e di Crotone. A frequentare questa rotta sono soprattutto pakistani, bengalesi, iracheni ed iraniani. A settembre, sono più di 200 coloro che sono arrivati in Italia dalla Turchia in modo autonomo.
· Immigrazione e le rotte di lusso.
I trafficanti di uomini che Matteo Salvini non vuole vedere vengono dalla Russia. Viaggiano verso l’Italia su insospettabili barche a vela di lusso. Cariche di disperati a cui negano anche il cibo. Ecco chi sono gli scafisti dell'Est, le loro rotte, il business sulla pelle dei migranti, scrive Arianna Giunti il 12 aprile 2019 su L'Espresso. Si confondono fra le imbarcazioni dei turisti: hanno la prua snella e le vele candide. Ma a tradirle, quasi sempre, è il grido di liberazione degli insoliti passeggeri: non appena la barca approda a riva loro scendono di corsa, abbandonano gli abiti fradici d’acqua nelle spiagge e poi scompaiono nel nulla. Mentre il ministro dell’Interno Matteo Salvini ordina la chiusura dei porti, annuncia trionfante che gli sbarchi sono stati azzerati e punta il dito verso le navi delle Ong accusate di essere «taxi del Mediterraneo», c’è un piccolo e silenzioso fenomeno che sta crescendo intorno alle nostre coste, ma al quale il vice premier non ha mai dedicato nemmeno un tweet. Si tratta del traffico di esseri umani a bordo di insospettabili imbarcazioni di lusso: è il nuovo business sulla pelle dei migranti gestito da potenti clan venuti dall’Est, uniti in un sodalizio criminale con organizzazioni turche. Negli ultimi mesi questi sbarchi sono aumentati a vista d’occhio. E ogni episodio sembra essere la fotocopia di quello precedente: gli scafisti sono di nazionalità russa o georgiana, le navi che trasportano i migranti sono costosi motovelieri intestati a società fittizie e spesso battenti bandiera americana, le fedine penali dei comandanti dell’equipaggio sono rigorosamente immacolate. Per la polizia internazionale si tratta di autentici fantasmi che fanno parte di un rebus criminale ancora tutto da decifrare, riconducibile alla mafia russa, che dopo aver conquistato il monopolio nei furti in appartamento e nel riciclaggio in tutta Europa ora ha affondato le mani anche nel traffico di migranti.
Gli scafisti russi e il business dei migranti: la tratta dei disperati sulle barche di lusso. I passeggeri sono spesso curdi, siriani o iracheni e la loro fuga verso l’Europa parte da Istanbul. Imbarcazioni a vela, cifre dacapogiro, equipaggi fantasma. E su L'Espresso in edicola i racconti dell’orrore fatti dai migranti, scrive Arianna Giunti il 12 aprile 2019 su L'Espresso. Aggirano i muri europei percorrendo la rotta ionica a bordo di costose barche a vela o potenti motovelieri intestati a società fittizie e spesso battenti bandiera americana. I membri dei loro equipaggi sono autentici fantasmi: tutti di nazionalità russa o georgiana, incensurati e mai schedati dalla polizia internazionale. Mentre il Ministro dell’Interno Matteo Salvini ordina la chiusura dei porti, annuncia trionfante che gli sbarchi sono stati azzerati e punta il dito verso le navi delle Ong accusate di essere “taxi del Mediterraneo”, c’è un piccolo e silenzioso fenomeno che sta crescendo intorno alle nostre coste ma al quale il vice premier non ha mai dedicato nemmeno un tweet. E’ il nuovo business gestito da potenti clan criminali venuti dall’Est, uniti in un sodalizio con organizzazioni turche: una rete di scafisti che trasporta i migranti a bordo di imbarcazioni di lusso in cambio di compensi da capogiro. Per le forze dell’ordine si tratta un rebus ancora tutto da comporre, riconducibile alla mafia russa, che dopo aver conquistato il monopolio nel settore dei furti in appartamento e del riciclaggio in tutta Europa ora ha affondato le mani anche nel traffico di migranti. Le regole dei padrini dell’Est sono sempre le stesse, applicate ad ogni loro settore criminale: silenzio, discrezione e gestione della manovalanza in perfetto stile paramilitare. Negli ultimi mesi questi sbarchi fantasma sono aumentati a vista d’occhio, con una media di circa due approdi a settimana. Gli investigatori calcolano che per ogni passeggero gli scafisti guadagnino fino a 10.000 euro a testa, in gruppi di circa 70 persone alla volta per una media di 5000 viaggi all’anno. Quasi sempre gli scafisti dell’Est percorrono il tratto di mare tra la Grecia e la Puglia, che diventa la scorciatoia ideale. Anche se di recente molti degli sbarchi fantasma sono avvenuti in Sicilia, nella costa del Ragusano, aggirando ogni tipo di controllo. I passeggeri sono spesso curdi, siriani o iracheni e la loro fuga verso l’Europa parte dal quartiere Aksaray a Istanbul: è lì che avvengono i primi contatti con queste potenti organizzazioni criminali, come ricostruito da l’Espresso in edicola da domenica 14 aprile 2019.
Migranti in Italia in prima classe. Oltre i barconi dalla Libia esiste un'organizzazione che attraverso altre rotte fa arrivare migranti in Italia con mezzi "alternativi", scrive Giacomo Amadori il 17 aprile 2019 su Panorama. La prima scena del nostro film si svolge a Milano. È il 14 gennaio 2019. Le immagini sono quelle girate da una mini-telecamera dei servizi segreti. Fotogramma dopo fotogramma riprendono di nascosto un gruppo di uomini d’affari stranieri con interessi in Medio Oriente e al Pireo. L’appuntamento è in un ufficio attrezzato, di quelli che si affittano per riunioni e conference call. Si siedono attorno a un tavolo ovale, controllano i cellulari che vibrano per i messaggini. Discutono, chiudono accordi, verificano i conti. Si salutano con strette di mano che rinsaldano strategie e business che però non hanno nulla di legale. Perché, a quel meeting, partecipano alcuni tra i più spregiudicati trafficanti di migranti del nostro Paese. Registi e attori di una colossale tratta che parte dall’Iraq e, lungo la Grecia e la Turchia, arriva al Nord Europa. Passando per l’Italia. I nostri Servizi hanno visto e registrato tutto. E Panorama è in grado di raccontare in esclusiva questa specie di «Stati generali» dei trafficanti di esseri umani. L’appuntamento, monitorato dagli 007, si svolge appunto in un day office di via Melchiorre Gioia, proprio sotto i grattacieli che hanno modificato lo skyline milanese. All’appuntamento sono arrivati in sei, di origine irachena, per pianificare i prossimi sbarchi che riverseranno sulle coste pugliesi e calabresi centinaia di profughi provenienti dall’ex Mezzaluna fertile. La maggior parte curdi iracheni ma, secondo l’Intelligence, questi signori dell’immigrazione clandestina farebbero affari anche con altre organizzazioni, portando in Italia stranieri provenienti da altre aree dell’Asia, come Pakistan e Iran. Tre di questi venditori di vane speranze arrivano da Torino e scendono da un’Audi A4 (ma la banda utilizza anche altre berline, come Bmw serie 5, Volkswagen Touran, Seat Ibiza e pure un furgone Mercedes Sprinter). Con gli altri tre, arrivati da altre zone della Penisola, entrano nel palazzo di nove piani che si trova proprio dietro alla Stazione centrale, un edificio signorile anni Sessanta che esibisce all’ingresso le targhette di società e broker assicurativi. Ad attenderli con microspie e telecamere ci sono i nostri 007. Che li hanno contraddistinti con soprannomi: Noce, Sciarpa, Beige, Rasato, Professore. Negli appostamenti milanesi compariranno anche altri soggetti non identificati: Lungo, Parka, Bomber e Nero. Nelle immagini registrate il 14 gennaio scorso si vedono i sei boss che partecipano alla riunione mentre camminano in via Melchiorre Gioia. Uno è incappucciato, uno ha il pizzetto, un altro sembra sorridente. Ma a osservarli non destano maggiori sospetti di normali gruppi di persone che si muovono per Milano. A capo di questa centrale criminale c’è un iracheno. Si chiama Ali O. È lui l’uomo da contattare, una volta che i migranti arrivano in Italia. Le comunicazioni avvengono solo con sistemi criptati o con chat di difficilissima intercettazione come WhatsApp o Viber. Ali O. È già stato arrestato e condannato a 16 mesi di reclusione con pena sospesa, a Venezia, perché possedeva un passaporto rubato riconducibile allo Stato islamico. D’altronde la presenza dell’Isis, in questa storia, non è secondaria. L’Intelligence, in una relazione top secret che il nostro settimanale ha avuto modo di leggere, non solo parla di «possibilità di infiltrazione di soggetti pericolosi» nel nostro Paese, ma possiede la prova documentale che quattro numeri di telefono monitorati portano alle rovine di quel che è stato il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi e alle formazioni paramilitari curde dell’Ypg e del Partito curdo dei lavoratori, il Pkk. Sigle che dimostrano che gli affari non tengono conto delle ideologie, in questo caso esattamente agli antipodi. Inoltre, due di queste utenze sono state associate a un foreign fighter norvegese e a un account Twitter di «un affiliato all’Isis». Ma torniamo alla riunione. Come farebbe un bravo manager, Ali O. ha riunito i «direttori generali» dell’organizzazione. Conosciamoli: sono i «torinesi» Mohammed Mohammed N. H., fermato a Milano senza documento lo scorso gennaio che ha chiesto la protezione internazionale, e Arkan R. H., arrestato nel 2018 vicino al traforo del Monte Bianco; Mohamad A., 49 anni, già segnalato dieci anni fa come referente italiano di un’organizzazione transnazionale che favoriva l’immigrazione clandestina dalla Grecia; Mohamad A., 42 anni, entrato nel mirino dei nostri Servizi per i rapporti con la Komal Kari, l’organizzazione rivoluzionaria dei lavoratori d’ispirazione maoista, arrestato nel 2010 e ritenuto al vertice di un’organizzazione di trafficanti vicina al Pkk e al Kongra Gel, movimento marxista che del Pkk ha raccolto l’eredità. Infine, Yasser Kadir A. N., 40 anni, pure lui noto alle forze di polizia internazionali. La «holding» ha una sua particolarità che la differenzia da molte altre organizzazioni che fanno affari sulla pelle dei migranti: non si rivolge solo ai disperati, ma predilige gli affari con persone di ceto sociale medio-alto, quelli che potremmo definire i «migranti borghesi». In questa storia non ci sono gommoni che imbarcano acqua né bagnarole che affondano contro le scogliere. Ci sono soprattutto barche a vela, aerei, auto di grossa cilindrata e treni ad alta velocità. Il vero cervello delle operazioni vive all’estero, ed è un misterioso criminale iracheno che si chiama Tawfeeq Akbar Omar Tawfeeq, ma è meglio conosciuto col nome di battaglia «Haval». Sfuggente ed enigmatico come Ernst Stavro Blofeld, il cattivo della Spectre di James Bond. È lui ad aver installato in Italia la sua filiale più remunerativa. Ed è sempre lui a nascondersi dietro insospettabili agenzie di viaggio di Istanbul che organizzano tour (fuorilegge) per migranti clandestini verso il nostro Paese. Nelle carte che Panorama ha visionato (un’informativa inviata di recente a tutte le forze di polizia) c’è un «albero» che mostra la struttura dell’organizzazione. Ci sono quattro referenti identificati in Iraq, una dozzina in Turchia, dove si trova il centro di smistamento per l’Europa, quattro in Grecia, tre in Polonia, uno in Gran Bretagna (che, come vedremo, prima si trovava a Genova). In Italia gli 007 hanno contato i cinque membri della cellula torinese, gli otto delle due cellule milanesi, ai quali si aggiungono altre quattro persone fra Trieste, Pavia, Foggia e la stessa Milano. Oltre a loro, ci sono nove slavi, compresa una certa Olga, specializzati nel traffico sulla rotta balcanica o via mare. Tutte le città italiane coinvolte o quasi hanno basi logistiche e appoggi per gli «ospiti», anche se il Piemonte ha un prestigio superiore, nel giro, perché nell’appartamento torinese in zona San Paolo - che funziona anche da centro di ricezione e smistamento dei migranti - vivono i «manager» della banda. Tutti o quasi titolari di protezione internazionale. Dalle carte emerge che quattro membri dell’organizzazione hanno ottenuto «la protezione sussidiaria». Si tratta di Abdulaziz F. (48 anni, Milano), Ahmad Salam A. A. (30 anni, Genova), Noori Yessen M. N. (28 anni, Cosenza), Mohammed Ahmed M. (33 anni, Foggia). Mentre hanno ottenuto il permesso di soggiorno umanitario Arf Azard Alan A. (36 anni, Foggia) e il «genovese» Ashfaq (31 anni) che da qualche tempo si è trasferito a Londra e lassù è diventato il terminale dell’organizzazione. Shareef Mohammed K. G. (32 anni, Trieste) ha, invece, un semplice permesso di soggiorno. Molti dei «dirigenti» fingono di essere attivamente impegnati in forme di integrazione sul territorio. A Pavia, per esempio, Remezan Taher M. H. R., 36 anni, può esibire un «permesso di soggiorno rinnovato per motivi commerciali e di lavoro» perché possiede un ristorantino a Bereguardo, sul Ticino. A Foggia, il centro di smistamento dei migranti è una pizzeria che, tra una focaccia e un kebab, la specialità della casa, offre biglietti ferroviari e appoggi sicuri per Lombardia e Piemonte. Sempre nella città pugliese, uno dei trafficanti è domiciliato in un locale comunale della rete Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). L’organizzazione ha una maniacale attenzione per i dettagli. I migranti che hanno un’aria stressata o potrebbero, per il loro aspetto, richiamare l’attenzione o generare qualche sospetto vengono portati in una barberia di fiducia, nei pressi della stazione di Milano, dove forbici e lacca conferiscono loro un aspetto più occidentale. D’altronde, la Spectre italo-irachena può permettersi di gestire con la cautela necessaria i trasferimenti. Tant’è che, per evitare sovraesposizioni, non esita a utilizzare due alberghi - in una via vicina alla Stazione centrale - in cui nascondere, fino a nuovo ordine, i migranti. La tariffa dell’albergo di fascia più alta può sfiorare i 200 euro per una «doppia». L’arredamento è moderno e l’ambiente internazionale. L’altro hotel, in una palazzina d’epoca, assomiglia più a una pensione, anche se è pur sempre un «tre stelle». Qui, scrivono gli 007, possono trovare rifugio anche i migranti senza documenti. Il clan è premuroso nei confronti dei clienti ed è pronto a offrire il massimo a coloro che chiedono un trattamento «deluxe». Come i due clandestini (presumibilmente, mamma e figlio) che il 12 gennaio, due giorni prima della riunione di Milano, hanno pagato 25 mila euro per un «viaggio» all inclusive, comprensivo dei documenti falsi necessari in area Schengen. Sono atterrati a Fiumicino, da Atene, con passaporti intestati a cittadini italiani, e sono stati scortati, con tanto di accompagnatore, a Roma per poi proseguire in Svezia via Zurigo utilizzando l’alta velocità. Il servizio vip per migranti abbienti ha una clientela limitata. L’«agenzia» offre comunque un portafoglio di tariffe più abbordabili per chi giunge in Italia: arrivare fino a Parigi costa 700 euro, per Vienna bisogna aggiungere una manciata di banconote (800) mentre per Monaco di Baviera sono necessari mille euro. E i bimbi, annotano gli 007, fino a dieci anni «pagano la metà». Si possono spuntare anche prezzi più bassi, come nei «last minute». Per esempio un affiliato, Abdulaziz S., ha chiesto a una cinquantina di migranti sbarcati a Brindisi solo 500 euro a testa per raggiungere la Germania. E, in un’altra occasione, ha trattato con un curdo, «in attesa sull’area di sosta Bastelli», a Parma, il prezzo del suo «prelevamento» facendosi anticipare i soldi tramite «Western Union». All’occorrenza, nella versione economy del servizio, si possono ordinare documenti contraffatti per 500 euro. Se ne occupa sempre Abdulaziz S., questa volta in versione falsario, che riceve la sua particolare clientela in un negozio nella stessa via milanese dove ci sono gli alberghi a cui abbiamo accennato; è spalleggiato da un complice, a Monza, «protetto» dal solito permesso umanitario. E se il clandestino non ha con sé la somma necessaria, il clan mette a disposizione un sistema di finanziamento che si chiama hawala. È uno strumento di credito previsto dall’ordinamento giuridico islamico che vieta (all’apparenza) il pagamento di interessi. Gli 007 italiani hanno ricostruito in particolare i percorsi dei migranti che sono stati accompagnati in Francia via traforo del Monte Bianco. Nulla è lasciato al caso. Le auto portano i profughi fino alla prima area di servizio, in terra d’Oltralpe, «scortate da apposite “staffette”». Si muovono «quasi sempre a tarda sera, o di notte, per piccoli gruppi di massimo 8/10 persone». Se non è possibile utilizzare le macchine, ci sono i piccoli bus presi a noleggio. La nostra intelligence presta attenzione anche agli arrivi di migranti che passano da Ventimiglia e dal Friuli Venezia-Giulia e temono che ci siano «canali di afflusso “occulto” di migranti da considerarsi a rischio per la possibilità di infiltrazione di soggetti pericolosi». I Servizi sospettano poi che l’organizzazione - che come detto conta una cinquantina di affiliati in tutt’Europa - abbia allacciato «forme di cooperazione criminosa anche con ambienti delinquenziali italiani», considerato che al timone di un gommone, partito da Corfù con decine migranti, è stato trovato un incensurato di Lecce, Diego M., denunciato in stato di libertà. Sono stati rilevati anche rapporti di collaborazione con rumeni, russi e ucraini. Questi ultimi vengono per lo più reclutati come skipper, lungo l’altra direttrice dei Balcani, per timonare le barche a vela che trasportano i clandestini. Decine di traversate annotate dagli 007 nella loro informativa. Lo scorso 10 gennaio a Torre Melissa, in Calabria, è naufragato uno di questi velieri con a bordo 50 migranti. Nei mesi precedenti erano approdati sulle nostre coste l’Orange First e il Sun-Kiss. Nomi che fanno pensare più a tramonti felici con un cocktail in mano che a viaggi della speranza. Un ucraino e un russo, Petro e Dimitry, sono arrivati in Puglia nell’estate del 2018 con un bello yacht, il Black Catfish, ormeggiato solitamente nel porto turistico di Marmaris (Turchia). Gli arresti dei fiancheggiatori, degli autisti e dei «facilitatori», che pure ci sono stati in questi mesi, non hanno indebolito la struttura. Largo è il bacino di disperati che per 100 euro a viaggio rischiano la galera: vi è finito di recente Rawaz Sharif M., anche lui titolare di permesso di soggiorno, fermato dalla polizia vicino al traforo del Monte Bianco. I Servizi parlano, infatti, di «struttura operativa molto elastica» nel ricambio degli uomini. E aggiungono: il sodalizio è in grado «di rispondere con immediatezza all’azione repressiva delle forze di polizia rimodulando le dinamiche di traffico secondo standard di efficienza criminale che appaiono perfino indifferenti alla “perdita” dei mezzi e della “manodopera” delinquenziale, potendo evidentemente contare su un’ampia e continuativa logistica di approvvigionamenti». Un pozzo di San Patrizio di balordi a cui attingere all’infinito.
· Gli sbarchi fantasma.
L’80 per cento dei migranti arriva in Italia con «sbarchi fantasma». Pubblicato lunedì, 02 settembre 2019 da Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. L’80 per cento dei migranti giunti in Italia quest’anno lo ha fatto con «sbarchi fantasma». Mentre il ministro dell’Interno Matteo Salvini annunciava «la chiusura dei porti», sulle spiagge e negli approdi più nascosti, sono arrivati oltre 4.300 stranieri. Ai quali bisogna aggiungere le persone che non sono state rintracciate, circa 2.000 secondo le stime degli analisti. Il numero complessivo rimane comunque molto basso visto che al 2 settembre 2019 i migranti identificati sono poco più di 5.000. Ma il problema rimane quello dei divieti, perché è accaduto che mentre al Viminale veniva firmato il decreto per impedire l’ingresso di navi che trasportavano qualche decina di persone, a pochi chilometri di distanza attraccavano gommoni e barchini con un numero molto superiore. Il caso più eclatante risale al 29 agosto scorso quando la «Mare Jonio» della Ong Mediterranea chiede di poter arrivare a Lampedusa. Permesso negato con un provvedimento di Salvini — controfirmato dai colleghi di governo Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli — che autorizza soltanto lo sbarco di donne, bambini e malati stremati da una traversata di giorni. E dunque le motovedette della Guardia Costiera portano a terra 64 migranti, mentre rimangono a bordo altri 34 che soltanto ieri, alla fine di una vera e propria odissea, sono stati fatti scendere. Ebbene in quelle stesse ore un gruppo di 78 tra siriani e bengalesi viene rintracciato a Lampedusa: è appena sbarcato senza innescare alcun allarme. Negli ultimi otto mesi è accaduto ben 208 volte, come dimostrano i dati ufficiali del Viminale. Fino a ieri risultano giunti via mare 5.253 stranieri. Sono 947 quelli portati con le navi dell Ong con 26 sbarchi. Ma la maggior parte ha evidentemente scelto modalità alternative: sono stati infatti 208 gli «sbarchi fantasma» che hanno consentito a 4.306 migranti di arrivare a terra. In ben 110 casi — e per 1.979 persone — il «rintraccio» è avvenuto dopo l’approdo. Una situazione analoga, sia pur con numeri leggermente più elevati (per un raffronto effettivo bisognerà attendere la fine dell’anno) era accaduta nel 2018. Al 31 dicembre risultano effettuati ben 341 sbarchi e arrivate 5.999 persone. Di queste 2.331 sono state trovate appena scese dai barchini e altre 3.668 sono state rintracciate a terra. È stata proprio la Guardia Costiera a evidenziare quali siano le rotte battute da queste piccole imbarcazioni per sfuggire ai controlli che sono «lontane e diverse da quelle che hanno come punto di partenza la Libia visto che i natanti utilizzati provengono principalmente da Tunisia, Algeria e Turchia. Si tratta di piccoli pescherecci, a differenza dei gommoni monotubolari o barconi in legno più largamente impiegati nel Mediterraneo centrale che generalmente portano un numero non elevato di migranti», anche se in alcuni casi sono arrivati anche a 100 persone .Le barche «sono prive di qualsiasi sistema di rilevazione che ne consenta il monitoraggio attraverso le tecnologie di cui sono dotate le Sale Operative». In alcuni casi vengono utilizzate «barche a vela provenienti da Est, che possono essere facilmente scambiate per quelle dedite ad una regolare navigazione da diporto o comunque ad un “normale” uso del mare e, pertanto, non immediatamente associabili all’evento migratorio». In alcuni casi «le imbarcazioni sono trainate da una nave madre che a poche miglia dalla costa le lascia e fa perdere le proprie tracce allontanandosi a grande velocità».
NON SI SCHERZA SUGLI SBARCHI. Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 20 settembre 2019. Sono le due del mattino di martedì. Un gruppo di migranti disorientati vaga per le strade di Lampedusa. Sono arrivati direttamente sull'isola con un barchino proveniente dalla Tunisia. Ma sono quasi tutti della Costa d'Avorio. Ventiquattr'ore dopo un altro barchino viene intercettato da una motovedetta della Guardia di Finanza ormai a un miglio dal porto. A bordo sono in 28 ma anche questa volta, insieme ai tunisini, ci sono ivoriani e camerunensi. Che ci fanno i migranti subsahariani sulle piccole barche di legno che, senza sosta, percorrono la rotta breve e più sicura dalla Tunisia a Lampedusa? E poi c'è quel barcone con 102 persone (anche qui tunisini e subsahariani) arrivato direttamente in porto a mezzogiorno dopo tre giorni in mare senza incontrare nessuno. E ancora i 13 arrivati ieri sera L'intelligence ha avvertito Viminale e Palazzo Chigi: qualcosa si muove dall'altra parte del Mediterraneo. Lo dice l' improvvisa impennata degli sbarchi che, solo nei primi 18 giorni di settembre, hanno già superato quota 1435 facendo segnare per la prima volta negli ultimi due anni un segno più. Numeri a cui devono aggiungersi le centinaia di persone riportate indietro dalla Guardia costiera libica (almeno 500 negli ultimi cinque giorni, dice l' Unhcr), quelli soccorsi da Malta e i 182 ancora a bordo della Ocean Viking in zona sar libica. Qualcosa si muove in Africa, è ancora tutto da decifrare, ma è qualcosa che preoccupa nel momento in cui il governo ha deciso di cambiare strada nella gestione dei flussi migratori e punta al meccanismo di redistribuzione automatica in Europa delle persone soccorse in mare da navi Ong o militari. Solo che la percentuale di migranti che sbarcano in Italia così, e ancor di più quelle che verrebbero ricollocate nei Paesi volenterosi, è davvero irrilevante rispetto ai numeri in aumento esponenziale degli sbarchi autonomi. E il timore è che questa sia la nuova strada scelta dai trafficanti. Nelle ultime settimane migliaia di persone si stanno spostando sulle coste in attesa di partire e le condizioni meteo, favorevoli da diversi giorni, stanno aiutando l'intensificazione dei flussi. Che però sembrano privilegiare un' altra rotta, quella più corta e sicura dalla Tunisia a Lampedusa. Gli sbarchi fantasma nel 2019 hanno portato in Italia circa 5.500 persone sulle 6.570 fin qui arrivate: se tutto va bene bastano 24 ore per percorrere le 110 miglia sulle quali difficilmente, in assenza di un dispositivo di soccorso militare, si incontra qualcuno. Non si attraversa l'enorme sonza Sar maltese, basta entrare in acque italiane ed è fatta. Solo che adesso ad utilizzare i piccoli barchini non sono più solo gruppi di tunisini autoorganizzati, ma i gruppi di trafficanti libici e dell' Africa centrale che stanno spostando sulle spiagge al confine tra Libia e Tunisia centinaia di migranti rinchiusi nei centri di detenzione nel deserto e lungo le coste libiche. Colonne di pick up e furgoni fanno la spola di notte tra Tunisia e Libia e non sempre ai posti di frontiera si tengono gli occhi aperti. E questo è un secondo motivo di preoccupazione (e anche estremamente complesso) che riguarda i delicatissimi equilibri del NordAfrica e soprattutto in Libia. Il timore è che il rinnovato patto di amicizia tra Italia e Francia possa far ipotizzare al governo di Al Serraji un parallelo riposizionamento di Roma rispetto ad Haftar. E che dunque, come è sempre stato in Tunisia, in Egitto e in Libia, il "rubinetto" dei migranti venga aperto e chiuso a piacimento per fare pressione e continuare ad ottenere le imponenti risorse che negli ultimi due anni il governo italiano ha deciso di investire per far fare alla guardia costiera libica il "lavoro sporco" di riportare indietro chi ci prova. Al momento solo ipotesi, basate sull' osservazione dell' improvviso cambiamento dei flussi. Sui gommoni in partenza dalla Libia le chances di arrivare sono sempre di meno: la percentuale di mortalità è altissima ( uno su venti non ce la fa) così come il rischio di venire riportati indietro e l' atteggiamento più morbido del governo italiano nei confronti delle Ong incide poco o nulla visto che le navi umanitarie sono tutte sotto sequestro tranne la Alan Kurdi e la Ocean Viking che, dopo tre soccorsi, è ancora in zona Sar libica con 182 persone a bordo tra cui un bimbo di cinque giorni. Niente pull factor, dunque. E i trafficanti puntano sui barchini che nessuno riesce ad intercettare.
Intelligence, i nostri servizi segreti? Un’eccellenza nascosta. Alberto Castelvecchi il 19 Settembre 2019 su Il Dubbio. Come l’intelligence italiana è diventata una delle reti più efficienti e preparate del mondo pronta a raccogliere le sfide della rivoluzione digitale. A differenza di altri mondi e di altri ambienti istituzionali, dove spesso si dice che «tutto cambia perché nulla cambi», il mondo dell’intelligence e della sicurezza non può permettersi lentezze gattopardesche. Non lo consente un pianeta in cui singole aziende come Google o Facebook manipolano informazioni e dati su miliardi di individui, o in cui un piccolo drone pilotato da uno sconosciuto può bloccare il traffico un intero aeroporto ( è già successo allo scalo londinese di Heathrow). Non lo consente la dinamica sempre più globale dell’economia e della finanza. Se un motto dovessimo scegliere per questo campo professionale, sarebbe piuttosto il «nessun dorma» di pucciniana memoria. L’ultimo decennio della Storia italiana è quello che ha visto nascere e svilupparsi un nuovo Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica – ispirato e motivato dalla legge 124/ 2007, che ha drasticamente riformato le funzioni, il perimetro di lavoro e le garanzie funzionali dell’Intelligence. Le caratteristiche strutturali e le proiezioni di questa architettura sono ben collaudate e note agli addetti ai lavori, che in gergo non usano quasi mai la parola «sistema», ma preferiscono parlare di «comparto» o «presidenza». Cosa è cambiato, e come? Il discorso sarebbe lungo, ma possiamo riassumerlo così: fino agli inizi di questo secolo le due agenzie incaricate per la sicurezza, lo spionaggio e il controspionaggio erano il Sisde e il Sismi. La prima si occupava prevalentemente di minacce nazionali, ed era coordinata prevalentemente dagli Interni. La seconda era proiettata all’estero, con un profilo ( e una mentalità) in prevalenza militari, in coordinamento con la Difesa. Le gelosie e le sovrapposizioni funzionali erano all’ordine del giorno, e il sistema conosceva non poche duplicazioni e sprechi. La riforma del 2007 è servita prevalentemente a introdurre due cambiamenti: il primo e più visibile è stato portare entrambe le agenzie, rinominate AISI ( sicurezza interna) e AISE ( sicurezza esterna), sotto una più stretta e diretta dipendenza gerarchica e funzionale dal Presidente del Consiglio, che le coordina tramite il Dipartimento Informazioni e Sicurezza ( DIS). Il Premier può nominare un Sottosegretario di Stato o un Ministro senza portafoglio ( detto «Autorità Delegata» ) per gestire le deleghe attribuitegli dalla legge. È il ruolo che in passato è toccato a Gianni Letta, per i governi di centrodestra, e a Marco Minniti per il governo Renzi. Ma può anche tenere per sé le deleghe e disporre personalmente della consulenza preziosa dei servizi, cosa che hanno scelto a suo tempo Paolo Gentiloni, e più recentemente Giuseppe Conte, sia nel primo sia nel secondo mandato. Questo evidenzia ancor di più l’importanza e il potere diretto di Palazzo Chigi e del suo inquilino, che si trova a essere il centro e lo snodo di informazioni e dossier delicatissimi, e che i servizi chiamano – non per nulla – «il Decisore» o semplicemente «Chigi 1». Il Premier diviene così l’apice e il custode supremo del segreto di Stato, che travalica i confini nazionali del «segretissimo» fino ad attingere informazioni classificate dal sistema NATO. Il professor Conte, che è persona meticolosa e legge con attenzione le carte prima di deliberare, ha ritenuto che questo fosse l’assetto migliore per l’attuale fase politica. Il secondo cambiamento del mondo dei servizi è apparentemente più «filosofico» e di metodo, ma ha avuto conseguenze importantissime. Si tratta in sostanza di considerare l’intero sistema Paese come un bene non solo da difendere, ma da accompagnare nella crescita economica, civile e culturale. Quindi viene tutelato tutto il mondo delle imprese, a capitale pubblico e privato, con il suo complesso patrimonio materiale e immateriale di brevetti e di patenti industriali. Gli uomini dei servizi seguono e marcano stretto le Istituzioni e le aziende anche per quello che riguarda le attuali disposizioni di legge introdotte con il cosiddetto Golden Power. Rientrano in un piano di sviluppo e di protezione le infrastrutture critiche come le vie di comunicazione, le reti energetiche, le banche, gli acquedotti, i porti e via dicendo. Dal 2018 il DIS ha poi assorbito nella propria sfera, sviluppandolo, il Nucleo Sicurezza Cibernetica, e questo è divenuto un terreno di azione cruciale: ogni giorno, ogni ora i nostri sistemi informatici pubblici e privati subiscono attacchi, e una guerra invisibile e tenace tiene impegnati decine di operatori. Si può trattare di malware, virus digitali che possono disabilitare un intero sistema, o anche di attacchi ransomware: un’organizzazione viene colpita e paralizzata per via telematica, e le viene chiesto un riscatto ( ransom). È come essere rapiti, ma a casa propria, e senza neanche conoscere l’origine e il volto dei propri sequestratori. Non parliamo poi di quella guerra simbolica e ideologica che vene combattuta nel dominio delle parole e dell’informazione, dove le «misure attive» adottate da Stati e organizzazioni ostili tentano di influenzare le opinioni e le paure di milioni di cittadini italiani. Perfino la difesa dell’immagine del nostro Paese, la sua «narrazione» e il suo patrimonio artistico e culturale sono essenziali per l’Intelligence italiana, non solo come volano di sviluppo economico, ma anche per combattere «contronarrazioni» aggressive che tendono a denigrare l’Italia in sede internazionale – le famose campagne di disinformazione e fake news di cui tanto si parla. In poco più di due lustri l’Italia è passata attraverso prove difficili, e il comparto Intelligence ha mostrato un’elasticità e una tenuta invidiabili, e anche invidiate dalle omologhe agenzie degli altri Paesi. L’ironia e le frecciate sprezzanti che ogni tanto un italiano deve sentire in viaggio all’estero, sull’inaffidabilità e il caos delle nostre politiche di bilancio o del nostro sistema burocratico, non riguardano mai la nostra Intelligence, che anzi viene ammirata e presa a modello. Cosicché quando il direttore del DIS Gennaro Vecchione ha inaugurato la palazzina della nuova sede centrale di Piazza Dante a Roma, nel maggio di quest’anno, con l’intervento del Presidente Mattarella, a Roma sono convenute più di 40 delegazioni, non solo delle agenzie europee e statunitensi «cugine», ma anche dei Paesi mediorientali – Israele incluso. Ora, è vero che nel mondo delle spie niente è come sembra e non esistono veri amici, ma è anche vero che la serietà e l’abilità dei nostri servizi sono ormai universalmente riconosciute e rispettate. L’elenco delle minacce che insidiano la sicurezza della Repubblica è ancora lungo, e va dall’analisi delle nuove organizzazioni terroristiche allo scoppio di conflitti destabilizzanti nel Mediterraneo. Lo sviluppo dei mercati finanziari ha reso sempre più necessaria un’Intelligence che sappia interpretare dinamiche monetarie complesse – si pensi ad esempio al mondo delle criptovalute. I cambiamenti climatici hanno posto in evidenza ( e in emergenza) la necessità di tutelare la sicurezza alimentare e quella ambientale. I nuovi media hanno determinato un adeguamento rapidissimo e costante nelle forme di analisi delle fonti aperte ( open source intelligence, in acronimo Osint), come le riviste, i libri e le informazioni accessibili a tutti su Internet. Accanto alla human intelligence ( Humint), cioè la raccolta di informazioni tramite fonti personali e conversazioni dirette, si è formata una nuova branca in enorme espansione, l’intelligence dei social media ( Socmint) che richiede capacità di intuito psicologico e sociale ma anche la continua progettazione di software «semantici», che possono mappare e analizzare milioni di conversazioni on line. Si captano così anche quei segnali «deboli» ( un’opinione espressa in modo velato, una foto di viaggio, uno scambio di numeri di telefono) dietro cui possono nascondersi operazioni di cellule terroristiche dormienti. O anche tentativi di manipolazione mentale e reclutamento di giovani italiani da parte di reti jihadiste, oppure di formazioni anarco- insurrezionaliste italiane ed europee. In sintesi, l’ampiezza funzionale dei mestieri e dei fronti da presidiare ha richiesto una riformulazione strategica, una «postura» completamente nuova alla nostra Intelligence: stiamo vivendo una rivoluzione permanente delle forme e degli stili di vita e questo comporta, come conseguenza, una continua innovazione nelle forme e negli stili di analisi. Non è un caso che l’apertura di rapporti e di collaborazioni con le Università e gli enti di ricerca abbia fatto nascere in tutta Italia corsi di laurea, master e attività seminariali che non solo contribuiscono ad aumentare il livello delle conoscenze, ma ampliano il bacino di potenziale reclutamento professionale per il Comparto. Le nuove materie di studio universitario vanno dal profiling di ispirazione criminologica e sociologica alla cybersecurity, dalla protezione del segreto industriale alla sicurezza energetica, dalle politiche di coordinamento antiterrorismo alle grandi emergenze nazionali e geopolitiche quali la gestione dei flussi migratori. Nella convinzione che l’Intelligence non è solo la rete di presìdi che tutela e aumenta la sicurezza del Paese, ma è anche la più alta forma di informazione specializzata e di conoscenza, al servizio del decidere e del deliberare politico e istituzionale. In altre parole, l’Intelligence viene vista come il cuore e la mente dello Stato stesso, e rappresenta la più pura forma di servizio pubblico e di orientamento strategico della Nazione. Cosa rimane da fare? Innanzitutto è necessario continuare a diffondere una cultura dell’Intelligence nell’opinione pubblica e nel mondo politico, che di queste materie sa e mastica ancora molto poco. L’individuazione e il reclutamento di risorse professionali deve continuare a pescare dai più diversi campi dello scibile. Ma è anche fondamentale che le leve di comando siano in mano a persone espertissime e di lunga carriera – in questo senso tutti i commentatori hanno salutato favorevolmente la nomina di Bruno Valensise a Vicedirettore vicario del DIS, a fianco del già citato generale Vecchione. In secondo luogo è necessario incoraggiare e sviluppare una Intelligence Community estesa, come ha scritto Mario Caligiuri sul mensile «Formiche» in edicola questo mese. Collegare in modo più ampio e organico il sistema delle imprese di valore strategico con il comparto Intelligence. Perché l’interesse nazionale deve essere tutelato anche sui mercati esteri, e perché la condivisione di informazioni è l’unica leva che permette di passare da una visione specialistica a una visione generale, in grado di progettare il futuro del Paese.
Sbarco "fantasma" ad Agrigento. Ma stavolta i migranti vengono identificati. Nuovo sbarco in pieno giorno nell'agrigentino, questa volta un mezzo della Finanza riesce ad intercettare i migranti ed a scortarli a Porto Empedocle: indagini in corso per individuare eventuali scafisti. Mauro Indelicato, Giovedì 22/08/2019, su Il Giornale. Un nuovo potenziale sbarco fantasma lungo le coste dell’agrigentino, questa volta però il barcone con i migranti a bordo è stato intercettato da una motovedetta della Guardia di Finanza e scortato fin dentro il porto di Porto Empedocle, a pochi passi da dove da alcune ore è ormeggiata sotto sequestro la nave Open Arms. L’arrivo dei migranti all’interno dello scalo più grande dell’agrigentino si registra intorno all’ora di pranzo di questo giovedì quando, sotto il sole cocente tipico dell’agosto siciliano, un barcone viene notato non lontano dai pescherecci ormeggiati dentro il porto. Dietro vi è una motovedetta della Guardia di Finanza, la quale accompagna il barcone di legno verso l’area dell’attracco: a bordo circa venti persone, tutte di origine nordafricana. Probabilmente l’obiettivo di arrivare indisturbati verso la costa agrigentina, come capita il più delle volte quando dalla Tunisia partono barchini di legno verso la Sicilia, è alla portata. Ma a differenza di quanto avviene con il fenomeno degli sbarchi fantasma, un mezzo della finanza nota l’imbarcazione a largo di Agrigento. Scortati, come detto in precedenza, fin dentro il porto di Porto Empedocle, il gruppo di migranti viene quindi preso in consegna sia dai finanzieri che dai poliziotti giunti, assieme alla Guardia Costiera, nel molo dello scalo agrigentino. Iniziano quindi le consuete operazioni di identificazione, dalle quali emerge che tutti e venti i migranti sbarcati dovrebbero essere tunisini e tra loro vi sono inoltre due minorenni, così come confermato dagli agenti presenti. Il gruppo di migranti, dopo le identificazioni, viene quindi trasferito nei centri di prima accoglienza della zona a bordo di due mezzi della Polizia. Quello odierno non è il primo sbarco di questa parte del mese di agosto in provincia di Agrigento: a cavallo di ferragosto, tra le spiagge situate nei pressi della città dei templi e Sciacca, si segnalano diversi approdi. Il più clamoroso si ha il 5 agosto scorso, quando un gruppo di migranti viene notato a pochi passi dalla spiaggia di Punta Bianca mentre in quello stesso momento decine di bagnanti e turisti fanno il bagno nella stessa zona. In quel caso però, gran parte dei migranti sono riusciti a fuggire e ad eludere i controlli, facendo perdere le proprie tracce. Quello degli sbarchi fantasma è uno dei problemi che, sotto il profilo della percezione della sicurezza, appare tra i più sentiti soprattutto tra le province di Agrigento e Trapani. Da anni gli abitanti della costa, durante l’estate, notano approdi di questo tipo effettuati spesso con piccoli barchini. Ma è nel 2017 che gli sbarchi fantasma suscitano maggior clamore, in quanto in quell’anno durante la bella stagione si registra in media almeno un approdo al giorno. La situazione rispetto a due anni fa è migliorata, almeno sotto il profilo numerico, ma gli sbarchi fantasma non sono mai cessati del tutto: sia a Lampedusa che nell’agrigentino, barchini e gommoni continuano, seppur ad un ritmo ridotto, ad arrivare.
Gli "sbarchi fantasma" sempre più in aumento ad Agrigento. Mauro Indelicato, Venerdì 04/08/2017 su Il Giornale. Vengono chiamati "sbarchi fantasma" perché, di fatto, nessuno avvista le imbarcazioni prima dell’approdo sulle spiagge e, quasi sempre, nessuno risale né al numero di migranti approdati sulle coste e né tanto meno alla loro identità; ci si accorge dello sbarco soltanto quando, per caso o durante alcuni controlli, si notano vecchie imbarcazioni abbandonate sugli arenili senza persone a bordo e con poche tracce utili per capire dinamiche e modalità dell’arrivo di migranti. Non si tratta quindi degli approdi a cui si è abituati oramai ad assistere, effettuati tramite l’azione delle navi presenti sul mediterraneo molto prima delle coste o, come accade da qualche anno, già all’interno delle acque libiche; sono sbarchi che avvengono con piccole imbarcazioni le quali riescono ad approdare di fatto indisturbate direttamente sulle coste siciliane: gli sbarchi fantasma sembrano, in questa calda estate 2017, appartenere ad un fenomeno in costante crescita specie presso le coste della provincia di Agrigento dove, nell’ultimo mese, si contano sei episodi del genere con imbarcazioni ritrovate in piena notte o durante le prime ore del mattino arenate presso alcuni dei lidi che caratterizzano i tanti chilometri di arenile che dalla città dei templi si diramano verso Sciacca. Gli ultimi due sbarchi fantasma sono delle scorse ore: il primo si è verificato quando ancora vi era la luce del sole, tanto da attirare l’attenzione di un cittadino in quel momento poco a largo dalla costa con la sua barca il quale ha filmato l’approdo di almeno dodici migranti presso la località "La Madonnina", tratto di spiaggia poco distante dal Lido Rossello in territorio del comune di Realmonte; l’altro invece si è avuto in piena notte e soltanto alle prime luci dell’alba alcuni bagnanti della spiaggia di Torre Salsa, vicino l’omonima riserva del WWF posta tra i comuni di Siculiana e Montallegro, hanno notato un’altra "carretta del mare" alla deriva e senza nessuno a bordo. In entrambi i casi, non si ha notizia dei migranti: le forze dell’ordine hanno da subito iniziato a setacciare i sentieri e le campagne dell’agrigentino che si affacciano sul mare, ma non è stato contattato o fermato al momento alcun soggetto. Due sono gli elementi che hanno in comune i diversi sbarchi fantasma al momento accertati in provincia di Agrigento dall’inizio dell’estate: in primo luogo, gli approdi avvengono in località isolate della costa ed in spiagge raggiungibili da sentieri o strade strette e quasi mai invece in prossimità di frazioni balneari molto frequentate specie in questo periodo dell’anno; in secondo luogo, la nazionalità di chi è stato fermato dopo uno sbarco fantasma è in gran parte dei casi tunisina o comunque del Maghreb. Per quanto riguarda il primo elemento, il fatto che gli sbarchi avvengano in spiagge isolate o più difficili da raggiungere, potrebbe non essere un caso: è possibile che, qui guida l’imbarcazione, non sia uno sventurato alle prime armi e conosca molto bene i luoghi e sappia come raggiungerli evitando di approdare in frazioni dove è più possibile essere intercettati sia da semplici cittadini che dalle forze dell’ordine; per quanto riguarda invece l’elemento inerente la nazionalità magrebina comune a quei pochi che è stato possibile individuare da giugno ad oggi, si potrebbe ben ipotizzare il fatto che dietro ai recenti sbarchi fantasma potrebbe esserci l’apertura di un nuovo fronte migratorio che riguarda la Tunisia ed i cittadini tunisini e dunque nulla a che vedere con la recente emergenza proveniente dalle coste libiche, lì dove invece i migranti arrivano in gran parte dal Sahel e dove in questi mesi si è concentrata l’attenzione mediatica per via delle note vicende inerenti la Libia e le navi delle ONG. La costa agrigentina non è certo nuova ad episodi che riguardano sbarchi e salvataggi in mare, pur tuttavia la loro frequenza da giugno ad oggi appare di gran lunga in aumento: tutto è iniziato lo scorso 14 giugno quando, presso la spiaggia compresa tra le contrade Drasi e Zingarello all’interno del comune di Agrigento, sono state individuate due imbarcazioni arenate sulla riva senza nessuno a bordo; stesso scenario pochi giorni dopo, quando però in questo caso in cinque sono stati intercettati lungo i sentieri vicino il mare delle contrade sopra citate ed è stato possibile accertare la loro nazionalità tunisina, la stessa dei quattro fermati il 10 luglio a Montallegro mentre si trovavano nelle vicinanze del centro abitato del paese dopo essere sbarcati nella vicina spiaggia di Torre Salsa, assieme ad un imprecisato numero di migranti che però non sono stati mai intercettati. Le rotte che partono dalla Tunisia hanno come principale approdo le coste trapanesi od agrigentine, essendo in certi casi il territorio tunisino ad appena 150 km dalla Sicilia e ben più a nord di Lampedusa, sponda invece preferita a livello logistico dai trafficanti che fanno partire le imbarcazioni dalla Libia; i sei casi accertati sembrano suonare come un campanello d’allarme, sono infatti diverse le barche sfuggite a qualsiasi controllo sul Canale di Sicilia ed arrivate direttamente sulla costa. Dei migranti a bordo rimangono poche tracce e, una volta guadagnata la campagna, di loro non si saprà più nulla: volti, storie, nomi ed identità svaniscono nell’entroterra agrigentino quasi come, per l’appunto, dei veri e propri fantasmi.
Il fenomeno degli sbarchi fantasma. Sicilia e Sardegna fanno i conti con il fenomeno degli sbarchi fantasma: nell'agrigentino l'ultimo approdo lo scorso 7 aprile, le partenze avvengono quasi sempre dalla Tunisia e cresce forte il sospetto di infiltrazioni jihadiste. Mauro Indelicato, Martedì 10/04/2018 su Il Giornale. Una o più imbarcazioni alla deriva vicino la spiaggia, alcuni vestiti abbandonati di fretta e furia e poi il nulla: al rumore delle onde del mare, non si sostituisce il classico brusio di un gruppo in fuga o di persone che cercano di allontanarsi da un determinato luogo. È per questo che si parla di sbarchi fantasma: ci sono tutti i segni che un determinato gruppi di migranti è approdato in una spiaggia isolata della Sicilia, ma di loro poi non si sa nulla. L’estate 2017 è stata contrassegnata, soprattutto in provincia di Agrigento, da sbarchi del genere: tutto è iniziato il 14 giugno, quando il presidente dell’associazione MareAmico, Claudio Lombardo, nota due piccole imbarcazioni arenate sulla spiaggia di Zingarello, una delle più suggestive ma anche isolate all’interno del territorio comunale di Agrigento. Alcuni vestiti abbandonati sull’arenile, qualche oggetto personale e la sensazione che da lì almeno una cinquantina di persone durante la notte precedente si sono frettolosamente allontanate facendo perdere ogni traccia. Sembrava all’inizio un caso isolato, poi lungo tutta la bella stagione è diventata la normalità: non è passato giorno senza segnalazioni di barche arenate, di oggetti abbandonati e di segni di repentine fughe lungo l’arenile agrigentino. Dalle spiagge licatesi di Torre di Gaffe, fino all’area Drasi ed a Zingarello tra i comuni di Agrigento e Palma di Montechiaro, proseguendo poi per le località suggestive e poco urbanizzate de Le Pergole e Torre Salsa, tra i territori di Realmonte e Siculiana; gli sbarchi fantasma non hanno risparmiato anche gli arenili di Sciacca e Menfi, per le forze dell’ordine della provincia di Agrigento è stata un’estate di grande pressione. A volte gli abitanti che in estate alloggiano nelle case di campagna, in quelle contrade dove il verde lascia poi spazio alla sabbia delle spiagge più suggestive di questo angolo di Sicilia, hanno segnalato di notte strani movimenti con gruppi di persone che si spostavano tra i boschi a ridosso del mare armati di torce e lampade per raggiungere la SS 115, l’arteria che attraversa per intero la costa agrigentina e che unisce le principali città della provincia. In alcuni casi invece, proprio lungo la statale, Polizia e Carabinieri sono riusciti ad intercettare gruppi di migranti, spesso tunisini, in fuga dal luogo in cui sono sbarcati. Ma il più delle volte dei magrebini approdati in Sicilia nella scorsa estate, non si è mai saputo più nulla: volatilizzati e scomparsi come dei fantasmi appunto, come un qualcosa che ha solo lasciato una traccia ma che difficilmente potrà essere realmente compresa fino in fondo. A settembre una foto scattata in una spiaggia vicino Siculiana ha posto più di un interrogativo a cittadini ed inquirenti: nello scatto, effettuato dopo un ennesimo sbarco fantasma, si vedeva distintamente una maglietta con la scritta “Haters Paris”. Forse solo un caso, forse soltanto un indumento distribuito casualmente prima di partire dalle coste africane, ma in tanti hanno iniziato ad insospettirsi circa la possibile presenza di terroristi tra i barconi degli sbarchi fantasma. Il 18 settembre del 2017 è stato lo stesso procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, a “non escludere” infiltrazioni jihadiste tra i migranti sbarcati e poi spariti durante tutta l’estate in Sicilia. Anche perché tutti i viaggi della speranza che terminano quasi indisturbati nell’agrigentino, partono dalla Tunisia: da Al Huwariyah e da Biserta si paga di più perché si approda ad Agrigento e c’è possibilità di fuggire, da Sfax i migranti pagano di meno perché si arriva a Lampedusa e quasi certamente si finirà all’interno del locale Cie. Le rotte partono quindi dal paese africano che più di ogni altro ha fornito foreign fighters all’Isis, impossibile quindi non andare con il pensiero (e con le indagini) ad infiltrazioni di stampo jihadista. L’ultima inchiesta, che nelle scorse ore ha spedito in carcere diciannove soggetti, punta proprio sulla possibilità che a bordo dei gommoni approdati questa volta nel trapanese nei mesi scorsi, possano essere saliti “noti personaggi” nel mondo della criminalità tunisina e delle fazioni islamiste. In Sicilia, come in Sardegna: nel Sulcis cambia la nazione di partenza, ma le scene sono identiche. Barche arenate, migranti scomparsi nel nulla ed oggetti abbandonati sulle spiagge; l’unica differenza è che i barconi che arrivano da queste parti salpano dall’Algeria e c’è una pagina su Facebook, denominata Haraga Dz, che documenta ogni spostamento grazie a video e selfie messi in rete dagli stessi migranti. Anche se effettuati maggiormente durante il periodo estivo, gli sbarchi denominati fantasma sono proseguiti in Sicilia come in Sardegna lungo tutti gli altri mesi dell’anno anche se con diversa intensità. Proprio nello scorso mese di marzo, ad Agrigento nuovamente MareAmico ha documentato l'approdo di un’altra imbarcazione arenata a Zingarello, mentre l’ultimo in ordine di tempo è stato segnalato presso la spiaggia di Bovo Marina, all’interno del comune di Montallegro. In quest’ultimo caso, quindici migranti sono stati fermati dopo la segnalazione di alcuni automobilisti che lungo la SS 115 hanno notato un gruppo di tunisini diretto a piedi verso Agrigento; degli altri però, almeno una cinquantina, nessuna traccia. Dall’altra parte della costa i governi tunisini ed algerini sembrano fare ben poco, nonostante accordi e buoni rapporti ufficiali con l’Italia; solo sul finire del 2017 si è registrata qualche operazione di polizia in Tunisia volta ad individuare gli organizzatori degli sbarchi fantasma, ma gli effetti sembrano essere stati molto limitati. In Sicilia ed in Sardegna ci si prepara quindi ad un’altra estate di fuoco, sotto questo profilo: turisti e cittadini proseguono le proprie attività e la propria vita, degli sbarchi ci si rende conto solo quando le barche sono approdate, di chi c’era a bordo le uniche tracce sono quelle lasciate sugli arenili. E così, anche nella prossima bella stagione, si prevedono altri approdi ed altri fenomeni oramai concepiti quasi come normali vista la loro frequenza.
Migranti, ecco come avvengono gli sbarchi fantasma. Secondi i dati aggiornati dal Viminale, dall’inizio dell’anno al 15 agosto scorso, in Italia sono sbarcati 4.269 migranti. Franco Iacch, Lunedì 19/08/2019 su Il Giornale. Secondi i dati aggiornati dal Viminale, dall’inizio dell’anno al 15 agosto scorso, in Italia sono sbarcati 4.269 migranti. Per il Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, ascoltato in Commissione Antimafia il due luglio scorso, gli sbarchi fantasma si attestano oggi al 20-25%. “Gli sbarchi fantasmi sono un vero pericolo perché chi arriva così vuole sottrarsi all’identificazione”. Cerchiamo di capire, semplificando al massimo, cosa sono gli sbarchi fantasma e come avvengono.
Sbarchi fantasma: le imbarcazioni utilizzate. A differenza dei gommoni e dei barconi in legno ampiamente utilizzati nel Mediterraneo centrale, per gli sbarchi fantasma si impiegano piccoli pescherecci, unità in legno e da diporto. Le ridotte dimensioni dell’imbarcazione consente un limitato numero di occupanti per unità. Tali unità navigano solitamente senza alcun tipo di sistema di rilevazione che possa consentire il loro monitoraggio come l'AIS. "L'Automatic Identification System opera nella banda VHF marittima: consente lo scambio wireless dello stato di navigazione tra imbarcazioni e centri costieri di monitoraggio del traffico. Le imbarcazioni commerciali, le navi oceaniche ed altri natanti equipaggiati con i ricetrasmettitori, AIS trasmettono messaggi AIS che comprendono il nome dell’imbarcazione, la rotta, la velocità e lo stato di navigazione corrente. Obbligatorio per le imbarcazioni di stazza lorda superiore alle 300 tonnellate, è attualmente facoltativo per le unità più piccole. Per il diporto, invece, è molto utile (e relativamente economico) un sistema AIS passivo, cioè solo in grado di ricevere le informazioni inviate dalle navi ma non di trasmettere le proprie". Alcune unità, come le barche a vela provenienti da Est, possono essere facilmente scambiate per quelle dedite ad una regolare navigazione da diporto o, comunque, ad un normale utilizzo del mare. Ecco perché in alcuni casi, le imbarcazioni utilizzate negli sbarchi fantasma non sono immediatamente associate al fenomeno migratorio. Navigando in totale autonomia, le unità cercano di occultare la loro presenza allo scopo di raggiungere le coste italiane senza essere individuate ed intercettate dalla griglia di rilevamento.
Come funzionano i radar? Per spiegare come funzionano i radar (tralasciamo lo spazzamento meccanico e quello ad apertura sintetica) portiamo un semplice esempio: la terra è un pallone da basket. Sul pallone mettiamo un cerchio, che sarebbe il radar, e spostiamolo su di esso. Il raggio di scansione del radar non può vedere oltre l'orizzonte, mentre può essere bloccato parzialmente o completamente da terreni complessi o da un oggetto fisso come una montagna. Un problema, quest’ultimo, affrontato dai russi in Siria nell’allestire una griglia di rilevamento basata sull'S-400. Posizionare il radar ad un'altitudine più elevata o in cima a una montagna allevierebbe il problema, ma ciò potrebbe limitare la scansione ai livelli più bassi. Accenniamo brevemente ai fattori che possono alterare in modo significativo la propagazione di un segnale radar, come la le variazioni della temperatura atmosferica, dell'umidità e della pressione. Una copertura radar offshore, quindi, dovrà tenere conto degli effetti negativi delle condizioni atmosferiche sulla propagazione del segnale radar. Ricordiamo, infine, altri due fattori: il primo è che il raggio del radar si diffonde mentre si propaga da quest’ultimo. Il secondo è che la distribuzione di energia all'interno del raggio radar non è uniforme. La maggior parte della potenza, infatti, è concentrata vicino all'asse principale del raggio e l'intensità diminuisce approssimativamente seguendo uno schema gaussiano. Oltre alle condizioni atmosferiche devono essere note le informazioni dettagliate sul terreno, sulla posizione e sui parametri hardware del radar ed il suo modello di scansione. Per superare tali limiti fisici, qualcuno ha pensato bene di collocare un radar su un aereo.
Perché i radar terrestri non rilevano gli sbarchi fantasma? A causa delle loro caratteristiche, le piccole imbarcazioni possiedono una probabilità di rilevazione ridotta dalle moderne tecnologie di monitoraggio. Parliamo di unità con una lunghezza inferiore ai venti metri. Anche se per forme e strutture tali navi possono differire, mantengono una caratteristica comune: le esigue dimensioni. Se alle dimensioni, associamo l’alta velocità e le condizioni meteorologiche sfavorevoli, il rilevamento ed il tracciamento saranno estremamente difficili. I piccoli scafi utilizzati in altri contesti e costruiti in vetroresina, alluminio, fibra di carbonio e Kevlar, offrono diversi vantaggi in base a specifiche esigenze. Da sottolineare che tutti i metalli sono altamente riflettenti per il radar, pertanto esistono diversi design e materiali che consentono loro di ridurre la RCS.
La rete costiera della Marina Militare italiana. La rete radar costiera della Marina Militare italiana è strutturata su una serie di postazioni fisse e mobili in grado di garantire una efficace Maritime Situational Awareness. Spiega Vito Pesare, esperto in Guerra elettronica della Marina Militare oggi in pensione. "Tutti i siti sono equipaggiati con i radar tipo RASS C e Gabbiano T200C che hanno sostituito i vecchi sistemi 756 e 755. Ogni Sito è poi dotato di un apparato radio VHF, uno optoelettronico ed una telecamera infrarossi, impiegabile anche di notte. La Marina è anche promotrice del Virtual-Regional Maritime Traffic Centre (V-RMTC) / Trans Regional Maritime Network (T-RMN)". Il principale radar di scoperta di cui dispongono i siti è il RASS C che, con la sua capacità Over The Horizon (OTH), è in grado di intercettare navi a elevata distanza. Il T200C Gabbiano, invece, è un radar con capacità Inverse Synthetic Aperture Radar (ISAR). Ciò significa che, oltre alla capacità di scoperta, è in grado di catturare l'immagine elettromagnetica delle navi in modo da classificare un contatto sconosciuto tra tipi diversi di unità (come pescherecci, militari, petroliere e altro). Il V-RMTC è una rete virtuale che collega le centrali operative delle Marine aderenti all'iniziativa. Su questa rete, che sfrutta le capacità di connessione offerte da internet, viaggiano le informazioni non classificate relative al traffico mercantile composto da unità superiori o pari a 300 tonnellate. Le informazioni, inviate secondo un formato (MERSIT) sviluppato dalla nostra Marina Militare, sono raccolte da un HUB ubicato presso il Comando in Capo della Squadra Navale (CINCNAV) che le rende disponibili a tutti i partecipanti. Il sistema sfruttando internet, piattaforme commerciali e software sviluppato dalla Marina Militare si presenta particolarmente economico, di facile gestione e “garantito", nel senso che le informazioni hanno una provenienza “certificata" dalla Marine aderenti, aspetto che ad oggi caratterizza solo il V-RMTC.
Il ruolo dei droni. Due piattaforme a pilotaggio remoto sempre in volo, garantirebbero una copertura ottimale del raggio d'entrata dal mediterraneo. Tuttavia anche se i pattugliamenti unmanned venissero potenziati da piattaforme ISTAR con equipaggio come i P-72A ad esempio, servirebbe una specifica flotta UAV per garantire un costante controllo dell’evoluzione della situazione. Dobbiamo considerare, infatti, i guasti e la manutenzione ordinaria. Per persistenza, raggio d’azione e bassi costi di esercizio la piattaforma ideale sarebbe l'MQ-9A. Tale flotta UAV non dovrebbe essere a carico di una singola nazione come l'Italia, ma strutturata a livello europeo. Per intenderci: il 32esimo Stormo di Amendola potrebbe tranquillamente assolvere tale compito, ma la sua componente a pilotaggio remoto dovrebbe essere potenziata. Tempo fa, la NATO aveva garantito alcuni AWACS anche per monitorare il flusso migratorio, ma è una piattaforma di alta fascia troppo costosa per svolgere tale compito con regolarità.
Contrastare gli sbarchi fantasma. La soluzione migliore sarebbe quella di continuare ad integrare tutte le tecnologie esistenti (radar, satellitari ed elettro-ottiche) in un dispositivo di sorveglianza marittima a livello europeo. Se gli sbarchi fantasma sono un problema reale, non vi è ancora unanimità in tal senso, è imperativo potenziare la rete europea di sorveglianza delle frontiere marittime del Mediterraneo.
Il paradosso di Lampedusa: sbarcati 300 migranti in un mese (ma non con le ong). Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 da Fiorenza Sarzanini e Claudio Del Frate su Corriere.it. A Lampedusa, nell’ultimo mese, sono successe molte cose. Certo, la Sea Watch che oggi ha deciso di forzare il blocco peer tentare di far sbarcare i suoi 43 migranti esausti, è la più drammatica. Ma nel silenzio, un giorno dopo l’altro, circa 300 migranti hanno toccato le coste dell’isola arrivando con i barconi e sono stati avviati alle strutture di pronto intervento. Gli ultimi 8, secondo quanto fa sapere il sindaco Totò martello, sono approdati stanotte. Il paradosso è evidente: chi arriva grazie agli scafisti trova accoglienza, chi viene soccorso dalle ong viene ostacolato con ogni mezzo ed è costretto a trascorrere settimane in balìa del mare. Ma non solo a Lampedusa il confine italiano si sta rivelando molto permeabile: continuano gli sbarchi anche lungo la rotta ionica che ha il suo terminale in Calabria. A Lampedusa l’ultimo sbarco è del 21 giugno: in cento sono arrivati in due ondate su piccole imbarcazioni. La tratta più lunga della traversata è avvenuta a bordo di un peschereccio che una volta arrivato in vista del primo lembo d’Italia ha trasferito i migranti su piccoli barchini grazie ai quali il viaggio è stato portato a termine. Un aerei di Frontex ha filmato il trasbordo dalla «nave madre» alle unità più piccole, un trucco a cui gli scafisti ricorrono sempre più spesso per sfuggire ai controlli . Il peschereccio è stato messo sotto sequestro. Ma nelle settimane precedenti, sempre a piccoli gruppi, altre 200 persone circa sono riuscite ad arrivare a Lampedusa: senza l’ausilio di navi Ong i barchini sono arrivati in prossimità della costa e qui la Guardia di Finanza o la Guardia Costiera hanno soccorso gli occupanti delle imbarcazioni. Nessuno di loro è stato rimandato indietro, tutti hanno trovato accoglienza. Così come sono rimaste in Italia le altre persone (anche in questo caso almeno un centinaio) giunte nella zona di crotone e Isola Capo Rizzuto a bordo di barche a vela: sono tutte partite dalla Turchia grazie a skipper russi o ucraini (spesso arrestati) e usano l’espediente della navigazione a vela proprio per sfuggire ai controlli.
Dov'è finita la chiusura dei porti promessa da Salvini ? 83 migranti pakistani sbarcano a Taranto. Il Corriere del Giorno il 7 Luglio 2019. La barca a vela utilizzata per il trasporto delle 83 persone era stata abbandonata al largo di Lido Silvana, nella Marina di Pulsano, ed è stata recuperata dalla Guardia Costiera e dalla Polizia di Stato. Sono in corso indagini per identificare gli scafisti. I migranti, accolti nell’hotspot di Taranto per l’identificazione, hanno riferito di essere partiti dalla Turchia e di aver affrontato un viaggio estenuante a bordo del veliero. Non mangiavano da una settimana. La scorsa notte sono sbarcati sull’isola di San Pietro, a Taranto, 83 migranti pakistani di cui 12 minori non accompagnati. Sono in corso accertamenti per verificare le modalità del loro approdo. I migranti sono stati trasferiti all’hotspot di Taranto e sono state avviate le procedure di identificazione. La barca a vela utilizzata per il trasporto delle 83 persone era stata abbandonata al largo di Lido Silvana, nella Marina di Pulsano, ed è stata recuperata dalla Guardia Costiera e dalla Polizia di Stato. Sono in corso indagini per identificare gli scafisti. I migranti, accolti nell’hotspot di Taranto per l’identificazione, hanno riferito di essere partiti dalla Turchia e di aver affrontato un viaggio estenuante a bordo del veliero. Non mangiavano da una settimana. Durante i controlli sanitari sono stati riscontrati oltre 20 casi di scabbia. I 12 minori non accompagnati sono già stati trasferiti in centri di prima accoglienza. Il Comune di Taranto ha attivato la macchina organizzativa gestita dalla Polizia locale e su richiesta del Prefetto di Taranto Antonella Bellomo, sono stati garantiti assistenza sanitaria e fornitura di generi di prima necessità e vestiario. E’ il secondo sbarco sulle coste tarantine dopo quello avvenuto a Torre Colimena nel mese di giugno. Anche in quel caso si trattava di migranti pakistani. Lo scorso 2 giugno sbarcarono a Torre Colimena, marina di Manduria, 73 migranti di nazionalità pakistana, tra i quali 19 minorenni, dopo un viaggio estenuante, durato 9 giorni, iniziato in Turchia. I Carabinieri individuarono e arrestarono due scafisti ucraini.
Avetrana, tutto il paese si mobilita per dare da mangiare ai 70 migranti sbarcati all'alba. Il gruppo di migranti nel campo sportivo di Avetrana. Alcuni ristoranti hanno offerto un pasto caldo e un negozio di casalinghi ha provveduto a fornire piatti, bicchieri e posate. Anche i cittadini mobilitati per garantire la prima assistenza. Antonio Di Giacomo e Nazareno Dinoi il 02 giugno 2019 su La Voce di Manduria. Una domenica di straordinaria accoglienza ad Avetrana, nell'immediato entroterra Tarantino. All'alba nella vicina Torre Colimena, a cinque chilometri dal paese, erano sbarcati una settantina di migranti pakistani. A individuarli i carabinieri, che subito hanno chiesto la collaborazione dell'amministrazione comunale di Avetrana domandando la disponibilità di locali in cui poter offrire la prima accoglienza. Due uomini di nazionalità ucraina sono stati fermati dai carabinieri per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina: gli investigatori sono entrati anche in possesso di un video che ha consentito l'identificazione degli scafisti. Erano le 7 del mattino quando è squillato il telefono del vicesindaco Alessandro Scarciglia. Che racconta: "Ho subito comunicato di poterli accogliere temporaneamente all'interno del campo sportivo perché ci sono locali idonei e servizi igienici per tutti. Abbiamo poi provveduto immediatamente a fornire ai cittadini extracomunitari acqua, latte e pane. A darmi una mano è stato un consigliere comunale di opposizione, Emanuele Micelli. Ho chiesto aiuto a lui perché entrambi facciamo lo stesso lavoro, indossiamo una divisa - io da finanziere ed Emanuele da carabiniere - e sappiamo come comportarci dinanzi alle emergenze". Così è stato, dunque. Ma a colpire è stata soprattutto la risposta immediata e solidale della comunità, che si è precipitata allo stadio offrendo aiuto. E non importa, evidenzia Micelli, che una settimana fa alle elezioni europee metà degli elettori abbia dato il proprio voto al centrodestra (qui la Lega con il 23 per cento è stata il secondo partito). "Qui ha votato appena il 36 per cento degli aventi diritto - ricorda Micelli - E c'è tanta gente che non si è recata alle urne e ha un'idea dell'accoglienza che non è certamente quella di Salvini. Ai razzisti non bisogna rispondere ai loro attacchi su Facebook, ma nella realtà del quotidiano. Ad Avetrana è accaduto questo: il mio paese ha dato una lezione d'accoglienza". Ne è orgoglioso lo stesso vicesindaco Scarciglia, eletto in una civica di centrodestra. "Essere di destra o centrodestra non vuol mica dire essere automaticamente razzisti", premette. "A noi oggi è spettato il compito di accogliere questi migranti nel migliore dei modi e ognuno, in paese, ha fatto la sua parte. Avevamo il dovere di accoglierli come esseri umani, a prescindere dalla religione e dal colore della pelle. Saranno poi le istituzioni preposte a decidere se rimpatriarli o meno". Cinque ore appena, fino a mezzogiorno circa, è stato il tempo di permanenza ad Avetrana dei migranti. Poi affidati ai funzionari del Frontex, che li hanno ricollocati nell'hotspot di Taranto. Ma è bastato perché cittadini, commercianti, professionisti e associazioni si rimboccassero le maniche. Marcello Nigro, proprietario di un negozio di casalinghi, ha donato alcune scarpe e piatti, bicchieri e posate. "Non cerco pubblicità", taglia corto: "Quando ci sono le emergenze bisogna essere d'aiuto nel concreto. E a prescindere dal colore della pelle di chi hai davanti, è necessario dare una mano". A offrire un pasto caldo, invece, è stato Tommaso D'Ippolito, un ristoratore. "Ero in piazza - spiega - quando si è venuto a sapere dell'arrivo dei migranti e mi sono recato allo stadio per capire se serviva qualcosa. Ed è lì che ho appreso che non mangiavano da tre giorni. Ho fatto il minimo: preparargli un piatto di pasta. Non scordo i loro sguardi persi nel vuoto, impauriti e stremati". Una questione di cuore e umanità, insiste D'Ippolito. "Non sono un razzista e non la penso come Salvini sulla chiusura dei porti. Dobbiamo accogliere i migranti, invece. Senza scordare che lo siamo stati anche noi. I miei nonni emigrarono in Germania e nessuno gli chiuse le porte in faccia. Perché dovremmo farlo noi oggi?".
Migranti, Patronaggio (pm Agrigento): “Sbarchi fantasma sono vero pericolo. Alcuni terroristi entrati dalla Sicilia”. Manolo Lanaro il 2 Luglio 2019 su Il Fatto Quotidiano. “Il pericolo maggiore alla sicurezza pubblica più che dai barconi che partono dalla Libia proviene dagli sbarchi fantasmi che arrivano dalla Tunisia“. Così il procurate di Agrigento, Luigi Patronaggio, nel corso dell’audizione in Commissione Affari costituzionali su decreto sicurezza. “Gli sbarchi fantasmi sono un vero pericolo perché chi arriva così vuole sottrarsi all’identificazione” che invece nei casi dei barconi provenienti dalla Libia è inevitabile e i controlli in quei casi “sono efficaci e effettivi“. “Alcuni terroristi che hanno compiuto azioni in Paesi europei – ha sottolineato Patronaggio rafforzando questa preoccupazione – sono arrivati in Europa passando proprio attraverso la porta Sicilia”.
Cosa sono gli “sbarchi fantasma”. Il Post sabato 15 giugno 2019. Mentre tutti guardano alle ong, da anni – e anche in questi giorni – imbarcazioni di piccole dimensioni gestite da gruppi criminali portano migranti in Italia. Negli ultimi giorni il caso di immigrazione di cui si parla di più, in Italia, riguarda le 53 persone soccorse al largo della Libia dalla nave Sea Watch di una ong tedesca, alla quale il ministro dell’Interno Matteo Salvini intende vietare lo sbarco in Italia. Nelle ultime due settimane, però, più del triplo di persone è sbarcato in Italia senza che la notizia venisse ripresa dai principali giornali nazionali e diventasse un “caso”. Il 2 giugno una settantina di persone è sbarcata a Torre Colimena, in provincia di Taranto; cinque giorni più tardi altri 65 migranti sono stati intercettati dalla Guardia di Finanza al largo di Roccella Jonica, nei pressi di Reggio Calabria. Il giorno successivo, sabato 8 giugno, 53 migranti sono sbarcati poco più a nord, nel porto di Crotone. I tre episodi non sono accomunati soltanto dall’essere stati trascurati dai media, ma anche dalle modalità con cui sono avvenuti. In tutti e tre i casi i migranti erano a bordo di piccole imbarcazioni guidate da scafisti di origine est-europea. Il fenomeno è noto da qualche anno come “sbarchi fantasma“: cioè quegli sbarchi che avvengono a bordo di gommoni o piccole imbarcazioni difficilmente individuabili dalle autorità italiane ed europee, sia in mare sia dopo lo sbarco, se avvengono in maniera autonoma. Negli ultimi tempi però è cambiato qualcosa: mentre prima queste imbarcazioni partivano soprattutto dalla Tunisia, oggi il traffico si svolge soprattutto sulla rotta Turchia-Italia a causa del coinvolgimento della criminalità organizzata russa e di alcuni paesi balcanici. La loro prominenza nel traffico di esseri umani verso l’Italia è stata citata anche nell’ultimo rapporto (PDF) della Direzione investigativa antimafia, uscito a metà del 2018. Sugli “sbarchi fantasma”, anche a causa della loro natura, non esistono dati certi. A inizio anno il Sole 24 Ore scriveva che ogni anno arrivano in Italia fra le «3.500 e le 5.000 persone», «ma in realtà quanti siano nessuno lo sa esattamente». Sabato 8 giugno fonti del Viminale avevano fatto sapere a vari giornali che i cosiddetti «i rintracci a terra in prossimità di uno sbarco» – cioè le persone fermate dalle autorità dopo essere sbarcate in Italia in maniera autonoma – erano state 5.371 nel 2017, 3.668 nel 2018 e 737 nel 2019, invitando a evitare allarmismi. Non è chiarissimo come vengano raccolti questi dati ma Matteo Villa, ricercatore dell’ISPI che da tempo si occupa di immigrazione, sostiene che siano plausibili. Rimane difficile tracciare una tendenza, dato che secondo Villa queste rilevazioni «dipendono moltissimo dalla capacità di realizzare i rintracci dalla parte delle forze dell’ordine: rimango dell’idea che nel corso degli anni siano rimasti più o meno costanti». Villa però ritiene che enfatizzare la retorica degli “sbarchi fantasma” faccia perdere di vista flussi migratori più rilevanti: «i cosiddetti sbarchi fantasma esistono da anni. Quando nel 2015 centinaia di migliaia di persone usarono la rotta balcanica, alcune di loro presero una barca dalla Grecia e poi si misero in viaggio verso l’Italia. Si è tornati a parlarne da quando gli arrivi dalla Libia si sono sgonfiati tantissimo». In ogni caso, il flusso di piccole imbarcazioni dalla Turchia sembra avere assunto caratteristiche specifiche. Una lunga inchiesta della giornalista Arianna Giunti pubblicata ad aprile sull’Espresso ha raccontato che i migranti che arrivano in Italia grazie agli “sbarchi fantasma” partono quasi tutti dallo stesso quartiere di Istanbul, in Turchia. Il quartiere di Aksaray nei racconti di questi migranti rimane una costante fissa: è lì che, a distanza di mesi gli uni dagli altri, i profughi vanno a colpo sicuro per organizzare la fuga verso l’Europa. Sono avvicinati per strada o nei parchi da malavitosi turchi che fanno da interpreti e vengono portati a qualche chilometro dal porto della città, da dove partono le imbarcazioni fantasma. Ed è qui che i migranti conoscono gli scafisti russi. […] Ogni episodio sembra essere la fotocopia di quello precedente: gli scafisti sono di nazionalità russa o georgiana, le navi che trasportano i migranti sono costosi motovelieri intestati a società fittizie e spesso battenti bandiera americana, le fedine penali dei comandanti dell’equipaggio sono rigorosamente immacolate. Il prezzo richiesto da turchi e russi è molto più alto di quello chiesto dai libici, anche perché la rotta è considerevolmente più sicura: i migranti provengono spesso dal Medio Oriente o dal Pakistan. Una coppia irachena ha raccontato all’Espresso di aver pagato 26mila dollari per arrivare in Italia (circa 23mila euro), mentre un rifugiato iraniano ha parlato di 12mila dollari per un viaggio singolo. «Abbiamo viaggiato per sei giorni interi chiusi nella stiva», ha raccontato il marito della coppia irachena: «durante il lungo viaggio non ci è stato dato cibo, ma soltanto acqua. Loro [gli scafisti] cucinavano davanti a noi ma non ci davano nulla da mangiare. Potevamo nutrirci solo delle cose che avevamo fortuitamente portato con noi: gallette secche e qualche pezzo di frutta». Fra gli scafisti sembra ci siano moltissimi ucraini: secondo dati in possesso dell’Espresso, negli ultimi quattro anni le autorità italiane hanno arrestato più di sessanta scafisti ucraini originari di Kiev, la capitale del paese. Quando anche le autorità italiane riescono a individuarli, non è facile trattenerli: «quasi sempre incensurati, una volta arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina patteggiano la pena e vengono rimpatriati. Poi tutto ricomincia», scrive l’Espresso. I giornali che si sono occupati degli “sbarchi fantasma” hanno spesso ripetuto che le autorità italiane hanno una conoscenza ancora molto limitata dei traffici di esseri umani che li alimentano, proprio perché c’è il sospetto che siano controllati da organizzazioni criminali straniere. Negli scorsi anni fra i pochi che avevano cercato di specializzarsi nella rotta Turchia-Italia c’era stato il Gruppo Interforze di contrasto all’immigrazione clandestina (GICIC), un gruppo di lavoro creato dalla procura di Siracusa a cui avevano aderito fra gli altri quattro magistrati e membri della Polizia, della Marina militare, della Guardia di finanza e dei Carabinieri. Dalla sua creazione nel 2006 aveva portato a più di mille arresti di presunti scafisti e trafficanti, ed era considerato una piccola eccellenza (tanto che il suo capo Carlo Parini si era guadagnato il soprannome di “cacciatore di scafisti”). Il GICIC però è stato chiuso a novembre, quando il nuovo procuratore di Siracusa Fabio Scavone ha deciso che non era più necessario a causa dello spostamento dello hub di prima accoglienza da Augusta (in provincia di Siracusa) a Pozzallo, in provincia di Ragusa.
· Varchi aperti. Vucjak, la Lampedusa terrestre.
Giu. Agl. per “la Stampa” il 5 dicembre 2019. Un abitante di San Pietroburgo aveva escogitato uno stratagemma per far soldi rapidamente e in maniera disonesta: chiedere ingenti somme di denaro per valicare di nascosto la frontiera tra la Russia e la Finlandia ed entrare così in Unione Europea. Peccato che il confine che intendeva far attraversare a coloro che si erano affidati alla sua guida fosse falso: lo aveva fabbricato lui stesso piantando nel terreno tutta una serie di paletti e cartelli. I migranti ingannati avrebbero così pensato di trovarsi in Finlandia mentre erano invece ancora in territorio russo. I servizi di sicurezza russa li hanno fermati in prossimità del falso confine e assieme a loro hanno fermato anche il creativo imbroglione. La vicenda risale a giovedì scorso e a svelarla sono stati proprio i servizi di intelligence russi (Fsb), da cui dipende la Guardia di frontiera. L'uomo, ora indagato per truffa, avrebbe chiesto più di 10.000 euro a quattro persone provenienti dal Sud-Est asiatico che erano arrivate a San Pietroburgo a fine novembre e volevano raggiungere il territorio europeo. Lui si è calato perfettamente nella parte. Ha portato le sue vittime nel distretto di Vyborg, non lontano dalla vera frontiera con la Finlandia. Poi le ha guidate attraverso la foresta fino al falso confine. La sfortunata avventura del gruppetto però è finita lì, con l' intervento delle guardie russe. Un tribunale ha già ordinato l'espulsione dei quattro migranti, che a quanto pare non erano in regola con i documenti necessari per il soggiorno in Russia. La rotta verso l' Europa che il gruppo voleva sfruttare non è del tutto nuova. Nell' estate dell' anno scorso la Russia ha ospitato i Mondiali di calcio e il Cremlino ha lanciato un programma che permetteva ai tifosi di entrare nel Paese senza visto. Decine di persone hanno così raggiunto la Russia per poi cercare di entrare in Unione Europea. Molti sono però stati fermati al confine con la Polonia, con la Finlandia, con i Paesi Baltici o con la Norvegia (che non fa parte dell' Ue). La Russia usa spesso il pugno di ferro con i migranti e a volte persino con i richiedenti asilo a cui l' Onu ha riconosciuto la necessità di protezione internazionale. È il caso di Bozobeyidu Batoma, un ex militare della Guardia presidenziale togolese che la scorsa estate è stato costretto dalle autorità russe a tornare in patria nonostante il parere contrario delle Nazioni Unite. Pare che in Togo, Batoma avesse aiutato a fuggire due dissidenti che le autorità volevano giustiziare e si fosse poi rifiutato di partecipare a un' operazione per assassinare uno dei leader dell' opposizione. Incarcerato e torturato, era riuscito a scappare e si era rifugiato in Russia. Mosca lo ha però rispedito indietro infischiandosene dei gravissimi rischi a cui andava incontro. Una settimana fa, invece, un tribunale russo ha respinto la richiesta di asilo di due fratelli uiguri che temono di essere rinchiusi nei campi di rieducazione cinesi dello Xinjang.
Croazia: così l'Unione Europea deporta illegalmente migliaia di profughi. Un'inchiesta-reportage dell'Espresso in edicola da domenica e già online su Espresso+ rivela le espulsioni di massa effettuate di notte dalla polizia di Zagabria. Una pratica che viola tutte le regole dell'Unione ma che, paradossalmente, viene effettuata con i soldi di Bruxelles. Barbara Matejcic il 12 luglio 2019 su L'Espresso. L'Unione Europea ha deportato illegalmente oltre i propri confini migliaia di profughi, rispedendoli verso Paesi extra Ue come Serbia e Bosnia. Una pratica che continua anche in queste settimane. A confermare quello che fino a ieri era solo un sospetto (e un atto di accusa di Amnesty International) ci sono ora diverse testimonianze, tra cui quella del sindaco della città bosniaca di Bihac, Šuhret Fazlic, oltre a quella di un ufficiale della polizia croata che ha deciso di rivelare le pratiche illegali di deportazione collettiva. Ciò che succede nei boschi tra Bosnia e Croazia è questo: migliaia di persone che provengono da Siria, Afghanistan e Pakistan e che hanno fatto tutta la rotta balcanica attraversano il confine della Ue entrando in territorio croato. La Croazia, membro Ue, utilizza i fondi di Bruxelles per rimandare con la forza i rifugiati in Bosnia e Serbia. Una prassi del tutto illegale. Migliaia di persone portate via di nascosto e di notte attraverso i boschi, con i gps oscurati. A questo punto le norme della stessa Ue (tra cui il Trattato di Dublino) imporrebbero che i migranti venissero mandati negli appositi centri per l'identificazione, le impronte digitali e la richiesta dello status di rifugiati. Invece quello che accade in Croazia è che i migranti vengono prelevati e forzosamente riportati oltre la frontiera bosniaca (o talvolta serba), in violazione di tutte le norme. I trasferimenti forzosi avvengono in camionette della polizia e molto spesso in maniera violenta, come provano le diverse testimonianze e le fotografie delle ferite degli stessi immigrati una volta riportati in Bosnia. Milena Zajovic Milka dell’Ong croata Are You Syrious sostiene che nel 2018 sono stati effettuati, secondo le loro stime, ben 10 mila respingimenti illegali oltre le frontiere Ue. il sindaco di Bihac, Šuhret Fazlic sostiene di aver personalmente incontrato dei poliziotti croati armati, mentre andava a caccia nei boschi fuori dalla sua città: stavano riaccompagnando con la forza in Bosnia un gruppo di 30-40 migranti. «Erano a circa 500 metri dal confine croato, sul suolo bosniaco. Mi presentai agli agenti e dissi loro che erano sul territorio bosniaco e che quello che stavano facendo era illegale. Ma fecero spallucce e si giustificarono spiegandomi che avevano ricevuto degli ordini». Un ufficiale anonimo della polizia croata spiega nei dettagli come avvengono queste deportazioni: di solito di notte e sempre di nascosto, dopo aver distrutto tutti i telefonini dei migranti per evitare che possano lasciare tracce digitali dei loro percorsi. L'Europa sempre più piena di muri e frontiere. La Lega inzeppata di traffichini e fascisti. E il web in bilico tra libertà e privatizzazione selvaggia. Anche il difensore civico croato, Lora Vidovic, conferma la pratica delle deportazioni illegale di migranti dalla Croazia – cioè dalla Ue – verso Bosnia e Serbia. La Commissione europea ha stanziato oltre 100 milioni di euro per la Croazia negli ultimi anni, una parte significativa dei quali è stata destinata alla sorveglianza dei confini e al pagamento degli stipendi degli agenti di polizia e delle guardie di frontiera. Di fatto quindi, la stessa Ue finanzia operazioni illegali e contrarie alle norme Ue per espellere migranti che hanno diritto a chiedere lo status di rifugiati.
Vucjak, la Lampedusa terrestre: “Vogliamo andare tutti in Italia”. Fausto Biloslavo il 10 luglio 2019 su it.insideover.com. Uno dei giovani nepalesi indossa una maglietta bianca con una grande scritta: “World tour”, giro del mondo. Il gruppetto avanza nella boscaglia nel nord ovest della Bosnia ad un passo dal confine europeo della Croazia. “Vogliamo andare tutti in Italia” ammette candidamente una specie di capetto paffutello e con il sorriso pronto, che avrà poco più di 18 anni. Poco importa se non fuggono da una guerra e sono arrivati in Turchia comodamente in aereo per poi infilarsi clandestinamente nella rotta balcanica. Quello che conta è partecipare “al gioco”, come viene chiamato in gergo da tutti i migranti il passaggio del confine croato, poi quello sloveno e alla fine l’arrivo a Trieste, per proseguire verso altri paesi europei. Oppure chiedere asilo politico, anche se non ne hai diritto. “Negli ultimi due anni stimiamo che siano passati da noi attorno a 20mila. In questo momento solo in quest’area ci saranno 5mila migranti” spiega l’ispettore Ale Siljdedic, portavoce della polizia del cantone di Bihac, l’angolo a nord ovest della Bosnia, più vicino al confine croato con l’Unione europea. Un imbuto dove arriva una media di 100 migranti al giorno, che fa impallidire Lampedusa. Farhad, capelli corti e sguardo triste, è partito dal Bangladesh assieme ad una dozzina di compatrioti. “No documenti, no soldi, ma andremo avanti fino in Italia” dichiara deciso davanti ad una grande mappa della Croce rossa, che indica i campi minati della guerra nell’ex Jugoslavia. I bengalesi non hanno trovato posto nella precaria tendopoli per 500 migranti a Vuciak, che significa “tana del lupo”. Un campo provvisorio nel mezzo del nulla, distante dalla città di Bihac, che non ne poteva più dell’ “occupazione” di afghani, pachistani e maghrebini. Sotto un tendone della Mezzaluna rossa turca ancora in allestimento Ahmad Zia sta divorando la razione mattutina di viveri appena distribuita. “Vengo dell’Afghanistan e sto viaggiando da 4 anni per raggiungere l’Europa – racconta il ragazzino tajiko fuggito dai talebani – Ieri è andata male. La polizia slovena mi ha preso e rimandato in Bosnia. Ci riproverò fino a quando non arrivo in Italia”. Altri migranti sono al decimo tentativo e qualcuno al ventesimo. Un pachistano racconta: “Vedevo le luci di Trieste, ma gli sloveni mi hanno intercettato. Riparto di nuovo fra qualche giorno”. Tutti sono terrorizzati dalla polizia croata, che ha sigillato il confine con corpi speciali, droni, camere termiche e pure elicotteri. “Solo il 10% riesce a passare al primo colpo. Gli altri vengono bastonati e rimandati in Bosnia dai croati, che li portano via le scarpe come deterrente” spiega chi fa la guardia ai campi dei migranti. Oltre alle botte la polizia croata rompe i cellulari con le mappe e il tragitto segnato dal Gps del telefonino inviato da chi ha già raggiunto la meta a Trieste. Il flusso arriva via Turchia in Grecia e poi Macedonia e Serbia, dove i migranti vengono volentieri lasciati passare attraverso la sguarnita frontiera con la Bosnia. A Tuzla prendono d’assalto la stazione degli autobus verso Sarajevo e poi si dirigono a nord ovest nell’imbuto di Bihac. “Vogliono andare in Italia, ma molti proseguono verso Francia, Germania o paesi scandinavi” osserva Marine, una volontaria di Venezia della Ong dell’Associazione cristiana dei lavoratori. Lunga treccia e giubbotto mille tasche distribuisce il tè ai migranti convinta che “la rotta balcanica non fa tanto effetto come gli sbarchi a Lampedusa, ma il traffico di esseri umani è immenso e prima o dopo tutti passano”.
“The game”: il gioco dei migranti pronti a entrare in Italia. Fausto Biloslavo il 12 luglio 2019 su it.insideover.com. Vucjak – Uno dei giovani nepalesi indossa una maglietta bianca con una grande scritta: “World tour”, giro del mondo. Il gruppetto avanza nella boscaglia nel nord ovest della Bosnia ad un passo dal confine europeo della Croazia. “Vogliamo andare tutti in Italia” ammette candidamente una specie di capetto paffutello e con il sorriso pronto, che avrà poco più di 18 anni. Poco importa se non fuggono da una guerra e sono arrivati in Turchia comodamente in aereo per poi infilarsi clandestinamente nella rotta balcanica. Quello che conta è partecipare al gioco, “the game”, come viene chiamato in gergo da tutti i migranti il passaggio del confine croato, poi quello sloveno e alla fine l’arrivo a Trieste, per proseguire verso altri paesi europei. Oppure chiedere asilo politico, anche se non ne hai diritto.
“The game” per arrivare in Italia. L’80% dei migranti inizia “il gioco” infilandosi nella “giungla” come i migranti chiamano i boschi attorno a Velika Kladusa, la cittadina bosniaca ad un passo dalla Croazia e inerpicandosi sulle montagne per passare la frontiera. La tariffa è in media di 2000 euro fino al capoluogo giuliano con passaggi in macchina e furgoni, grazie a passeur e taxisti compiacenti. Talvolta il prezzo sale fino a 3000-3500 euro. I pachistani, che se la fanno tutta a piedi dormendo di giorno e marciando di notte pagano solo 500 euro per superare alcuni punti critici evitando la polizia. “Negli ultimi due anni stimiamo che siano già passati in 20mila. In questo momento solo nel nostro cantone ci saranno 5mila migranti” spiega l’ispettore Ale Siljdedic, portavoce della polizia di Bihac, l’angolo a nord ovest della Bosnia, più vicino al confine croato con l’Unione europea. Nel paese sono fra gli 8mila e 10mila. Un imbuto dove arriva una media di 100 migranti al giorno, che fa impallidire Lampedusa. Farhad, capelli corti e sguardo triste, è partito dal Bangladesh assieme a una dozzina di compatrioti. “No documenti, no soldi, ma andremo avanti fino in Italia” dichiara deciso davanti ad una grande mappa della Croce rossa, che indica i campi minati della guerra nell’ex Jugoslavia.
La tendopoli nella tana del lupo. I bengalesi non hanno trovato posto nella precaria tendopoli per 500 migranti a Vuciak, che significa “tana del lupo”. Un campo provvisorio nel mezzo del nulla, distante dalla città di Bihac, che non ne poteva più dell’ “occupazione” di afghani, pachistani e maghrebini. “All’inizio, quando erano pochi, la gente si faceva in quattro per aiutarli. Poi i numeri sono esplosi. Bivaccavano nei giardini, si lavavano nel fiume e facevano i loro bisogni ovunque, ma il problema maggiore è stato l’aumento della criminalità e le frizioni con la popolazione” spiega l’ispettore, che ha una lunga esperienza con le missioni delle Nazioni unite all’estero. Negli ultimi sei mesi fra furti, aggressioni, reati minori e scontri etnici fra i migranti la polizia ha registrato 785 casi. “Non possiamo neppure portarli tutti davanti ai giudici perché intaserebbero il tribunale” sottolinea Siljdedic. A Bihac un centro di accoglienza gestito dalla Iom, la costola dell’Onu per le immigrazioni, ospita 1570 persone provenienti soprattutto dal Pakistan, Afghanistan, Bangladesh, ma pure Iraq, Libia e India. “Non c’era posto da nessuna parte. Dei migranti mi hanno assalito. Volevano taglieggiarmi per farmi dormire all’aperto” racconta un iraniano, che arriva dall’Albania giurando di essere oppositore politico degli ayatollah. Bendato e incerottato ha il volto tumefatto, il braccio ferito e parla con difficoltà. Pachistani e afghani, che a casa loro non si amano, fanno fronte comune contro i maghrebini. Il 5 giugno sono scoppiati furiosi scontri etnici fra i migranti a Velika Kladusa, che hanno fatto traboccare il vaso e la rabbia della popolazione del cantone. Il campo di Vucjak, fuori città, dovrebbe tamponare l’emergenza che si è creata pure a Bihac. Sotto un tendone della Mezzaluna rossa turca ancora in allestimento un pachistano con il volto insanguinato attende il suo turno per venire medicato. Un altro migrante ferito ad un piede nell’ultima rissa si lamenta per il dolore. Poco più in là Ahmad Zia sta divorando la razione mattutina di viveri appena distribuita. “Vengo dell’Afghanistan e sono in viaggio da 4 anni per raggiungere l’Europa – racconta il ragazzino tajiko fuggito dai talebani – Ieri è andata male. La polizia slovena mi ha preso e rimandato in Bosnia. Ci riproverò fino a quando non arrivo in Italia”.
Dozzine di tentativi prima di arrivare a Trieste. Altri migranti sono al decimo tentativo e qualcuno al ventesimo. Un pachistano racconta: “Solo 10 chilometri mi separavano da Trieste, ma sono stato intercettato dagli sloveni. Riparto di nuovo fra un paio di giorni”. Tutti sono terrorizzati dalla polizia croata, che ha sigillato il confine con corpi speciali, visori notturni, droni, camere termiche e pure elicotteri. “Solo il 10% riesce a passare al primo colpo. Gli altri vengono bastonati e rimandati in Bosnia dai croati, che li portano via le scarpe come deterrente” spiega chi fa la guardia ai campi dei migranti. Oltre alle botte gli agenti croati sequestrano i cellulari con il tragitto segnato su Google map inviato da chi ha già raggiunto la meta a Trieste. “Ci hanno fermati stanotte rompendoci i telefonini e giù botte prima di rimandarci indietro urlando “non dovete entrare in Croazia”. Non è servito spiegare che volevamo andare in Italia” racconta Mohammed Amin. Uno dei due libici di Bengasi, che incontriamo malconci e zoppicanti sulla strada dal confine a Velika Kladusa. “E’ come il gioco del gatto con il topo – racconta una fonte in prima linea sul versante bosniaco – I croati hanno le camere termiche per individuare le colonne dei clandestini. Poi li aspettano al varco con i corpi speciali della polizia e ce li rimandano”. Il flusso arriva via Turchia in Grecia e poi Macedonia e Serbia, dove i migranti vengono volentieri lasciati passare attraverso la frontiera con la Bosnia. A Tuzla prendono d’assalto la stazione degli autobus verso Sarajevo e dalla capitale si dirigono a nord ovest nell’imbuto di Bihac anche con il treno. Se non passano il confine a piedi utilizzano piccoli gommoni per attraversare i fiumi Sava e Glina o le barche dei pescatori come è capitato a Kosarska Dubicaper arrivare in Croazia. “Siamo nel caos. Il paese è diviso e da ottobre si attende la nascita del nuovo governo. Da Sarajevo volevano mandare i genieri dell’esercito a bloccare i passaggi dalla Serbia. Milorad Dodik presidente della Repubblica serba di Bosnia si è opposto” sottolinea Paola Lucchesi, italiana che vive a Bihac.
La rete di trafficanti. “Non c’è dubbio che per i migranti esiste una rete di trafficanti dal loro paese di origine fino all’Italia attraverso la rotta balcanica. Hanno istruzioni sui punti di transito, come muoversi, dove andare e cosa dire” conferma l’ispettore Siljdedic. Tutti ripetono lo stesso copione, che non hanno documenti e sono nati il primo gennaio. Cambia solo l’anno. I più giovani anche se hanno superato i 20 dichiarano sempre di avere 17 anni sapendo che i minori sono tutelati e non possono venire rimandati indietro. “Onestamente non sappiamo chi sono veramente. Il 5-10% potrebbe essere criminali in fuga dal loro paese e non possiamo escludere nemmeno l’arrivo di estremisti compresi ex militanti dell’Isis” osserva Siljdedic. Fra i migranti non si notano barboni islamici d’ordinanza, tutti vestono all’occidentale, ma c’è chi ammette che ha cambiato look per raggiungere l’Europa. Lunedì scorso un migrante iracheno di 26 anni ha ferito con un taglierino un taxista in Slovenia ad un passo da Gorizia. Quando è intervenuta la polizia ha urlato a un agente “Allah akbar, se non mi uccidi tu lo farò io” . Il poliziotto sloveno ha dovuto sparargli a una gamba per fermarlo.
Pochi profughi di guerra. “Vedo tanti migranti, ma pochi rifugiati in fuga dalle guerre” ammette chi garantisce la sicurezza ad uno dei cinque centri di accoglienza messi in piedi nella Bosnia occidentale. “Vogliono andare in Italia, ma molti proseguono verso Francia, Germania o paesi scandinavi” osserva Marine, una volontaria di Ipsia, l’Ong dell’ Associazione cristiana dei lavoratori, arrivata da Venezia.
Hamedullah Selaab, 35 anni, è un afghano che usa il nome di battaglia “commando”. Ex ufficiale dell’esercito di Kabul ha ancora sul telefonino la foto in mimetica e kalashnikov di quando combatteva i talebani. “Sono partito dall’Afghanistan nove anni fa e ho cercato di raggiungere Trieste una dozzina di volte. L’ultima lo scorso anno quando ho visto le luci della città, ma la polizia slovena mi ha preso e rimandato indietro” racconta l’afghano con capelli lunghi e barbetta curata. Non mancano i “veterani” della rotta balcanica, che si trasformano in passeur indicando ai nuovi migranti tragitti e passaggi. “Un ragazzino di 25 anni si è improvvisato trafficante e si vantava con tanto di foto di Trieste su Facebook – racconta Paola, l’italiana di Bihac – Era diventato un punto di riferimento, ma lo hanno arrestato a Zagabria”. Il pachistano Ather Gamil, 30 anni, esperto informatico, ha scelto la rotta balcanica per amore. “Ernylin è la mia fidanzata filippina, che lavora a Genova. Ci siamo conosciuti e innamorati ad Abu Dhabi – racconta il giovane nel centro di accoglienza di Velika Kladusa – Non avevo problemi di soldi e lavoro, ma la mia famiglia voleva combinarmi il matrimonio con un’altra donna”. Il novello Romeo fa vedere sul telefonino la foto della sua Giulietta spiegando che ha già provato diverse volte a raggiungere l’Italia “ma il “gioco” di passare i confini evitando la polizia, per ora, mi è andato sempre male”. Marine, la volontaria delle Acli con giubbotto mille tasche e lunga treccia, che distribuisce il tè ai migranti nel campo di Vuciack ha pochi dubbi: “La rotta balcanica non fa tanto effetto come gli sbarchi a Lampedusa, ma il traffico di esseri umani è immenso e prima o dopo tutti passano”.
Colonne di migranti nel granturco: l’assalto alla fortezza Europa. Fausto Biloslavo il 14 luglio 2019 su it.insideover.com. Sturlic – I pachistani in fila indiana si infilano nel campo di pannocchie, alte come una persona, per non farsi vedere dalle pattuglie croate oltre confine. Omar Faruk, cuoco di professione, che vuole arrivare in Italia per proseguire verso la Spagna, li guida come uno scout in battaglia. “Fra noi c’è chi ha già provato a passare una decina di volte, ma non molliamo” racconta Faruk avanzando verso il confine vicino al villaggio di Sturlic, nella Bosnia nord occidentale diventata un crocevia dei migranti con capolinea Trieste. Il sole è a picco, ma i migranti tentano la sorte soprattutto di notte. Negli spazi aperti i pachistani corrono nella speranza di non farsi vedere dagli agenti croati che hanno schierato sul confine droni, camere termiche e visori notturni, come in guerra. A pochi passi dalla frontiera la colonna si infila di nuovo nella vegetazione verde intenso alta come un uomo, che chiamano “la giungla”. Un fiumiciattolo con l’acqua che arriva fino al petto segna la frontiera non solo con la Croazia, ma l’agognata Unione europea. I migranti si acquattano nella boscaglia e parlano sotto voce. “Staremo fermi per 3-4 ore aspettando che la polizia se ne vada e poi passiamo il confine” sussurra Faruk. Poco importa se la stragrande maggioranza del gruppo di pachistani, a parte un ragazzino minorenne che vuole raggiungere i parenti in Germania, non ha alcun diritto all’asilo. “Mio fratello è da 15 anni in Veneto. Fino al 2017 lavorava con lui a Mestre. Poi sono tornato in Pakistan e mi è scaduto il permesso di soggiorno. Adesso voglio tornare” spiega candidamente Hissan Mohammed. La “base” dei pachistani è una casa abbandonata in mattoni rossi a un chilometro dal confine. All’ombra di un albero giocano a carte per ingannare l’attesa. Mohammed, smilzo e con un cappello da boss anni trenta, viene da Peshawar. Tutti lo chiamano “bacha”, il re. È lui che decide le fasi dell'”assalto” alla fortezza Europa dividendo le “truppe” e indicando i passaggi. Le colline della Croazia sono di fronte e dalle abitazioni bosniache a un tiro di schioppo dalla base nessuna sembra fare caso alla trentina di pachistani che si preparano al “gioco”, come chiamano il terno al lotto della marcia di dieci giorni verso l’Italia attraverso Croazia e Slovenia. I migranti nella zona di Velika Kladusa, la città bosniaca sul confine croato più ad ovest, si piazzano alla stazione degli autobus con zaino in spalla, sacco a pelo e vivande. Qualche autista compiacente li fa salire su minibus grigi facendo pagare il biglietto il doppio del prezzo normale. Ne seguiamo uno pieno di bengalesi scaricati all’incrocio per la frontiera non sorvegliata di Bojna. La polizia bosniaca chiude un occhio. L’ultima manciata di chilometri i migranti la percorrono a piedi in fila indiana per poi nascondersi di notte nelle case diroccate vicino al confine. Gli automobilisti non ci fanno più caso, ma la gente del posto è esasperata. “Il via vai è continuo – spiega un bosniaco che vive sul punto di passaggio di Sturlic – All’inizio erano pochi e li aiutavamo se avevano bisogno di un riparo o dell’acqua, ma adesso non si vive più”. A Bosanska Otoka, dove arriva ogni sera un treno da Sarajevo zeppo di migranti, incrociamo una ragazza bionda che guida un gruppo di clandestini in marcia sul lato della strada. Capelli lunghi, fisico da modella, cappellino da baseball calcato sulla testa e pancia di fuori è la “taxista dei migranti” diventata una leggenda. Quando capisce che siamo giornalisti si irrigidisce, impreca e accelera il passo. Un trio di tunisini ha ordito un piano camaleontico grazie alla loro pelle chiara. Dopo aver preso l’autobus di linea fino a una località poco frequentata dai migranti passeranno illegalmente il confine. “Una volta dall’altra parte ci laviamo, pettiniamo e rasiamo la barba – ridacchia Massouf – Poi andiamo a comprare un biglietto alla stazione dell’autobus più vicina per Zagabria parlando in francese, come se fossimo dei turisti”.
· Gli illeciti del Sistema dell’accoglienza.
La Guardia di Finanza scopre illeciti nei servizi di accoglienza ed assistenza a stranieri:14 indagati, scrive il 17 Aprile 2019 Il Corriere del Giorno. Operazione della Guardia di Finanza a Taranto: i responsabili delle associazioni e delle cooperative sociali, unitamente agli imprenditori coinvolti, dovranno rispondere a vario titolo davanti alla giustizia penale dei reati di frode e falsità in atti pubblici. Militari del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Taranto guidati dal capitano Angelo Ferraro hanno proceduto alla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, emesso dal dr. Maurizio Carbone procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, nei confronti di 14 persone, tra i quali imprenditori, rappresentanti di associazioni e cooperative sociali, nonché di un appartenente alla Pubblica Amministrazione. Il provvedimento è conseguente ad attività investigative eseguite dalle Fiamme Gialle nell’ambito delle procedure di appalto poste in essere dalla Prefettura di Taranto per l’acquisizione di “servizi di temporanea accoglienza di immigrati richiedenti asilo o protezione internazionale“. All’esito di tali attività è stato appurato che tre diversi enti associativi affidatari dei predetti servizi, al fine di garantire “gli interventi materiali di base” (vitto e alloggio), in concorso con imprenditori titolari di strutture alberghiere e di altri soggetti privati – questi ultimi locatori di immobili con requisiti di abitabilità non adeguati – non hanno dato esecuzione agli obblighi contrattuali assunti con la Prefettura di Taranto, omettendo di somministrare ai cittadini extracomunitari i pasti secondo quanto previsto dal capitolato d’appalto, non consegnando loro vestiario adeguato alla stagione invernale e, comunque, ospitando gli stessi in strutture non idonee, carenti delle condizioni minimali di vivibilità (ovvero sprovviste di impianti idrici con acqua potabile, di impianti di riscaldamento ed altri requisiti). Nel corso delle indagini è anche emersa la responsabilità degli amministratori di uno dei predetti Enti affidatari, i quali, al fine di ottenere l’assegnazione di ulteriori posti letto in un immobile privo di agibilità – in quanto dotato di impianto di scarico delle acque reflue domestiche non conforme alla vigente normativa – avevano esibito una falsa autorizzazione comunale che ne attestava la regolarità. Per ottenere tale autorizzazione era stata esibita una relazione tecnica redatta da un architetto compiacente ed un parere favorevole ai fini sanitari, ottenuto corrispondendo una somma di denaro contante (alcune centinaia di euro !) al funzionario della A.S.L. Domenico De Carlo responsabile dell’ufficio comunale di Igiene degli Alimenti e della Nutrizione, ben consapevole della irregolarità dell’impianto, nei cui confronti è stato contestato il delitto di corruzione. Adesso responsabili delle associazioni e delle cooperative sociali, unitamente agli imprenditori coinvolti, dovranno rispondere davanti alla giustizia penale a vario titolo dei delitti di frode e falsità in atti pubblici. Ancora una volta gente senza scrupoli cerca di lucrare su un’attività sociale per l’accoglienza ed assistenza ai migranti.
Le Ong ed il lavoro precario, scrive l'1 aprile 2019 Panorama. Molte organizzazioni hanno bilanci milionari grazie a ricche donazioni ma utilizzano persone con contratti a termine, a progetto se non a costo zero. Ostinate, nonostante la chiusura dei porti italiani, hanno annunciato che torneranno nel Mediterraneo per fare da taxi ai migranti che si rivolgono agli scafisti trafficanti di esseri umani per la traversata verso l’Italia. E lo faranno con una marea di lavoratori precari a bordo. Molte di loro hanno bilanci da capogiro (le stime parlano di oltre 906 milioni di euro incassati nel 2017 tra tutte le Ong in Italia) ma, come la Mediterranea saving human del neo armatore veneziano Luca Casarini (consulente dell’ex ministro per la Solidarietà sociale Livia Turco durante il primo governo Prodi), che da sette anni vive a Palermo dove ha trasformato un rimorchiatore degli inizi degli anni Settanta, la Mare Jonio, in una nave da salvataggio, per esempio, difettano di trasparenza. Sul sito web della Ong non c’è un’area dedicata ai bilanci. Viene diffuso un unico dato: sono stati raccolti 589.333 euro tramite 2.858 sostenitori. In Open cooperazione, l’aggregatore open data delle Organizzazioni non governative, la Mediterranea non compare. Con un mega file excel da scaricare sulla piattaforma, Open cooperazione permette di monitorare il quadro complessivo del comparto. Ovviamente non tutte le organizzazioni hanno deciso di contribuire volontariamente alla diffusione di bilanci e dettagli: mancano all’appello Medici senza frontiere, che è censita ma ha fornito il minimo indispensabile (entrate, uscite e poco altro), e l’Unicef che rende noti solo i bilanci e il numero complessivo di donatori. Le voci sui dipendenti sono vuote. Tante altre, invece, in nome della trasparenza lo hanno fatto. Ma l’analisi complessiva non è tra le più confortanti. Soprattutto emerge un dato: viene utilizzato il lavoro precario. I numeri forniti fanno riflettere: i contratti a tempo indeterminato per i lavoratori delle Ong sono solo il 48,7 per cento del totale. I precari, invece, sono suddivisi così: l’8,4 per cento ha un contratto a termine, il 13,6 per cento fattura tramite partita Iva e il 29,3 per cento, fetta consistente, ha un contrattino a progetto. Il totale delle risorse umane impiegate nella cooperazione by Ong in Italia ammonta a 2.816 lavoratori (17.287 nel mondo). La bilancia pende verso la manodopera maschile, con il 54 per cento di impiegati. Per i full time della cooperazione da Ong la retribuzione media ha una forbice larga: dai 10 mila euro lordi agli oltre 99 mila per i più ricchi. Per far funzionare la macchina, oltre ai 83.246 volontari attivi (possono contare al più su rimborsi spese), da molte Ong viene sfruttata un’altra opportunità: il servizio civile nazionale, che non crea l’instaurazione di un rapporto di lavoro, offre giovani menti e braccia all’organizzazione che partecipa al bando governativo e per la Ong è a costo zero. Il compenso viene totalmente corrisposto dal Dipartimento per le politiche giovanili con accreditamento diretto delle somme: 14,46 euro netti al giorno, per un totale di 433,80 euro netti mensili. Il pagamento avviene in modo forfettario per complessivi trenta giorni al mese e per la durata prevista del progetto. E, così, nell’ultimo anno, ai 2.816 dipendenti contrattualizzati si aggiungono i 1.322 volontari del Servizio civile. Come le aziende, anche le Ong hanno alti e bassi. Dicono le statistiche di Open cooperazione che il bilancio complessivo umanitario in Italia è costituito prevalentemente da fondi istituzionali (il 65 per cento) e dal 35 per cento di donazioni private (in varie forme: dalla tessera d’iscrizione al finanziamento per singolo progetto, dalla donazione alla scelta del 5 per mille in sede fiscale). Le previsioni sul calo delle donazioni per il 2018 varia tra 5 e 10 per cento. Con gli sbarchi quasi a zero, molte organizzazioni hanno avuto una riduzione vistosa nei fatturati. Una delle prime a soffrire è stata la Gus, Gruppo umano solidarietà di Macerata: 31 milioni di euro di fatturato nel 2017 e dipendenti pagati a singhiozzo nel 2018. Così, anche il lavoro di chi è a tempo indeterminato si fa precario. A difesa dei diritti dei dipendenti sono dovuti intervenire, non senza imbarazzi, i sindacati. Le prime bacchettate sono arrivate proprio dalla Cgil, che di solito tiene le Ong sotto la sua ala protettrice. Ma a ricorrere al lavoro flessibile sono anche le organizzazioni big del settore. Save the children, la Ong più finanziata dai governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, per esempio, con oltre 400 mila donatori e fondi che arrivano soprattutto da ministeri, fondazioni, società e associazioni, ha 31 dipendenti a tempo determinato, 126 dipendenti a progetto e 89 consulenti a partita Iva. I contratti a tempo indeterminato invece sono solo 153. I volontari attivi? Quelli dichiarati sono 1.967. Il bilancio di Save the children cresce grazie alle riuscitissime campagne di comunicazione, il cui obiettivo principale, si legge sul sito web, «è contribuire a far riconoscere Save the children in Italia quale organizzazione leader nel settore dei diritti dei minori». La comunicazione, lo sanno bene a Save the Children, svolge un ruolo strategico strettamente funzionale proprio alla raccolta fondi. I numeri sono da record: la rassegna stampa annuale conta un totale di oltre 18 mila uscite sui media nel 2016. Tra le figure più richieste ci sono comunicatori e social media manager. Le altre sono diverse: si va dai comandanti e marinai, spesso professionalmente preparati ed esperti, quindi con una retribuzione medio alta, agli addetti alla security (come nel caso della nave Vos Hestia di Save the Children, che aveva ingaggiato la Imi Security Service, i cui uomini denunciarono per primi lo scandalo dei soccorsi organizzati a largo delle coste libiche, inchiesta archiviata a giugno 2018). Su tutti, però, spiccano i project manager, il profilo professionale più ricercato. La maggior parte dei proventi, infatti, arriva dai progetti finanziati soprattutto da ministeri e Comunità Europea. Le Ong dunque cercano di fare incetta di progettisti. Attualmente, stando ai dati diffusi dal portale Info cooperazione, le 108 organizzazioni che hanno cercato 800 figure, da inserire professionalmente in 68 nazioni diverse, sono alla ricerca di 306 esperti capaci di realizzare un progetto credibile per intercettare fondi. Al secondo posto di questa classifica, la domanda di tecnici (ingegneri, medici e infermieri), con 125 richieste. Ma c’è bisogno pure di funzionari amministrativi che, con 112 richieste, si piazzano al terzo posto, raggiungengo il 14 per cento del totale. Anche i capi missione la fanno da padrone. Si va dalla logistisca ai deskisti, a chi si occupa di monitoraggio dei progetti. In calo sociologi e mediatori, visto che gli sbarchi, con le misure messe in campo dal nuovo governo, sono ormai prossimi allo zero.
Come funziona il permesso di soggiorno per omosessualità. Lo status di rifugiato può essere concesso anche a chi scappa da paesi dove i gay sono perseguitati. Ma c'è chi ci marcia. Barbara Massaro il 23 ottobre 2019 su Panorama. 1 agosto 2014. A Kampala, militanti della comunità LGBT (lebiche, gay, bisessuali e transessuali) ugandese gioiscono per l'annullamento, da parte della Corte costituzionale dell'Uganda, della legge anti-gay votata dal Parlamento nel dicembre del 2013. Tra le più dure al mondo, la legge aveva suscitato un'ondata di proteste in tutto il mondo e sanzioni USA contro il Paese africano. "L'adozione della legge anti-omosessuali senza il quorum ha violato diversi articoli della Costituzione, non ha rispettato la procedura parlamentare ed è quindi nulla", ha stabilito la Corte. La legge vietava la promozione dell'omosessualità, rendeva obbligatoria la denuncia dei gay alla polizia e stabiliva pene fino all'ergastolo. Per il portavoce del governo Ofwono Opundo "la legge non è stata annullata. La Corte si è solo pronunciata sulla procedura." La mia parola contro la tua. Rispetto della privacy e della personale morale vietano alla giustizia di sottoporre chi si dichiara gay a test psicologici per verificarne la veridicità. Specie se il presunto omosessuale è straniero, in cerca di permesso di soggiorno e arriva da Paesi in cui l'omosessualità è un reato. Sembra che siano sempre più numerosi i casi di immigrati che, dopo essersi visti respinta la richiesta di permesso di soggiorno in quanto non rifugiati, si appellano alla convenzione dei diritti dell'uomo e rivendicano un'omosessualità spesso falsa pur di non dover lasciare il nostro paese.
Come funziona la legge sul permesso di soggiorno agli omosessualità. L'escamotage viene offerto su un piatto d'argento dalla stessa legge direttamente dagli avvocati d'ufficio che, a spese degli italiani, vengono assegnati ai migranti dopo che le Commissioni territoriali del Ministero dell'Interno respingono le richieste d'asilo in quanto si tratta di emigrazione per motivi economici. Ad ammetterlo candidamente sono gli stessi migranti che confermano di essere tutt'altro che gay e che riferiscono di essere stati invitati a frequentare le associazioni gay e a prendere tessere d'appartenenza al movimento Lgbt per appellarsi ai protocolli collegati alla Convenzione sui Rifugiati e per l’Italia al decreto legislativo n.251, 2017. Secondo quanto recita la legge, infatti, lo status di rifugiato non spetta solo a chi scappa da guerre e persecuzioni politiche ma anche a chi si trovi in pericolo di vita a causa del proprio orientamento sessuale. Solo in Africa ci sono almeno 33 Stati dove l’omosessualità è reato e in 4 di questi (Mauritania, Sudan, Nigeria e Somalia) è prevista la pena di morte; in un terzo del mondo, ancora oggi essere omosessuali è un reato.
Come aggirare la legge. Una volta che il migrante scopre di poter utilizzare la "carta gay" viene consigliato di frequentare ambienti gay per apprendere le migliori risposte da fornire in sede giudiziaria alle eventuali (poche in nome della privacy) domande circa il proprio orientamento sessuale e il proprio passato persecutorio nel paese d'origine. Corriere della Sera cita le parole riferite da uno dei coordinatori di un'associazione gay di Roma che ammette: "Nel 99,9 % dei casi i migranti che vengono da noi non sono gay, sono qui solo perché hanno bisogno dei documenti. Per ottenerli però devono risultare convincenti di fronte ai giudici e per chi è eterosessuale e proviene da Paesi dove i gay non sono accettati, non è certo facile. Noi proviamo ad aiutarli a combattere la loro omofobia e a sentirsi a loro agio nei panni gay. Il giudice in questo modo viene di sovente messo con le spalle al muro perché è quasi impossibile verificare l'orientamento sessuale di una persona in maniera non invasiva e rispettosa dei diritti personali e, il più delle volte, passando da una sentenza all'altra, si finisce per firmare il nulla osta alla concessione dello status di rifugiato.
Permessi di soggiorno e orientamento sessuale, le precisazioni di magistrati e associazioni. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 da Corriere.it. Il 23 ottobre, il Corriere della Sera ha pubblicato una videoinchiesta relativa a un potenziale abuso del diritto. In merito a questa vicenda, il Corriere ha ricevuto due lettere di precisazione, che pubblichiamo qui sotto.
Egregio Direttore, con riferimento al video e all’articolo pubblicato sulla versione online del Corriere della Sera in data 23 ottobre 2019 a firma Francesca Ronchin dal titolo «Permessi di soggiorno per i migranti, l’escamotage dell’orientamento sessuale», in qualità di Presidente della sezione specializzata immigrazione e diritti della persona del Tribunale di Roma desidero precisare quanto segue: il dato riportato dall’inchiesta relativo all’accoglimento del 50% delle domande di asilo presentate sulla base dell’orientamento sessuale è improprio e rischia di essere fuorviante, perché i dati statistici del Ministero della Giustizia non consentono di individuare i motivi per i quali la domanda di asilo viene accolta. Al giudice è sempre richiesto un esame attento dei fatti e delle circostanze indicate nel ricorso e tale esame comporta uno scrutinio rigoroso delle prove raccolte, che può risultare «difficile» ma non certo «impossibile» nei casi di migranti omosessuali tenuti - come gli altri richiedenti asilo - a fornire adeguati riscontri dei fatti posti a fondamento della loro domanda. Anche in tali casi il giudice è vincolato all’esame della credibilità del racconto e la domanda di asilo può essere accolta se la vicenda della fuga dal Paese di origine risulta dettagliata, coerente al suo interno, supportata da riscontri documentali e dalle informazioni sui paesi di origine. Luciana Sangiovanni, Presidente della sezione specializzata immigrazione e diritti della persona del tribunale di Roma.
Egregio Direttore, le scriviamo per comunicarle la nostra preoccupazione per l’articolo «Permessi di soggiorno per i migranti, l’escamotage dell’orientamento sessuale» di Francesca Ronchin, pubblicato il 23 ottobre scorso. Siamo preoccupati per l’immagine poco accurata e dannosa della protezione internazionale dei migranti che emerge da questo articolo. L’inchiesta ha messo in luce pratiche che non rappresentano il lavoro serio di quanti operano nel settore e che vanno contrastate. Tuttavia, ridurre il sistema di protezione internazionale e di accoglienza dei richiedenti asilo LGBTI+ a gestioni scorrette, non è fare buona informazione. Espressioni quali «l’escamotage deve essere prassi piuttosto comune», oppure espressioni riferite – come controllarle? Esistono statistiche? Se sì, qual è la metodologia? – come «Nel 99,9 % dei casi, i migranti che vengono da noi [n.d.r. all’Arcigay Roma] non sono gay» sono grossolane e fanno danno. Dipingono un quadro fosco, in cui la protezione internazionale dei migranti LGBTI+, cui l’Italia è tenuta in base agli obblighi internazionali ed europei in materia di asilo e diritti umani, sarebbe in pratica un espediente per aggirare le – peraltro molto contestabili – regole restrittive all’immigrazione economica. Ma non è così, e lo diciamo con forza. La protezione internazionale dei migranti LGBTI+ salva vite. Fornisce speranza. Fornisce futuro a tante persone che cercano protezione a causa della loro diversità e alle quali, ove necessario, va riconosciuto il beneficio del dubbio. Ci sono «frodi»? In ogni contesto umano sono presenti. Ciò nonostante, il sistema deve essere protetto. Specialmente da attacchi poco contestualizzati, in una materia che merita molta, moltissima, cautela. Specialmente se alimentano la retorica anti-immigrazione, alla luce delle circostanze politiche attuali. Se la giornalista si fosse data pena di consultare anche altre fonti, il quadro da lei dipinto sarebbe stato molto diverso. La protezione internazionale dei migranti ha salvato tante vite. Quando viene discussa – e tutto può essere discusso, poiché tutto è perfettibile – bisognerebbe però avere la cautela di ricordarsene. Altrimenti si finisce per fissare il dito, e dimenticarsi della luna.
Rete Lenford – Avvocatura per i diritti LGBTI APS
Associazione radicale Certi Diritti SOGICA - ERC Project
University of Sussex, UK
Davide Podavini, Arcigay Pavia
Stefano Osella, Max Plack Insitute fo Social Anthropology
Niccolò Angelini, Foro di Pavia
Carmelo Danisi, University of Sussex
Massimo Prearo – Politologo, Università di Verona
Maria Grazia Sangalli – ex componente Commissione Territoriale per le richieste di Protezione Internazionale di Bergamo
Antonio Rotelli - Avvocatura per i diritti LGBTI APS
Marta Bonavolontà – Foro di Napoli
Alessandro Beretta – Foro di Monza
Circolo Pink LGBTQI+ Verona
Pink Refugees LGBTQI+ Verona
Giulia Bodo - Presidente Arcigay Rainbow Vercelli Valsesia, Responsabile progetto AfricArcigay Jonathan Mastellari - presidente di IAM - Intersectionalities And More
Gaia Papetti - Coming-Aut LGBTI+ Community Center Pavia
Francesco Bilotta – Università degli Studi di Trieste
Circolo Maurice GLBTQ di Torino
Michael Crisantemi – Foro di Terni
Giulio Farronato e Nicola Noro - referenti dello sportello migranti LGBT+ Ass. GAGA Vicenza
Giuseppa Arena - Foro di Catania
Miryam Camilleri – Foro di Roma
Valentina Pontillo – Foro di Milano
Giuseppe Enrico Berti – Foro di Milano
Susanna Lollini – Foro di Roma
Piergiorgio Masi – Foro di Pisa
I permessi di soggiorno e l’escamotage dell’omosessualità, Risponde l’Arci Gay: «Gli avvocati la smettano di usare simili trucchi». Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 su Corriere.it da Francesca Ronchin. Il segretario generale dell’associazione Gabriele Piazzoni: «Non chiediamo l’orientamento sessuale a nessuno. Deve essere una libera scelta parlarne». «Agli avvocati che consigliano ai migranti non Lgbt di utilizzare l’escamotage dell’orientamento sessuale per ottenere l’asilo, una volta per tutte chiediamo loro di smetterla». In seguito alla nostra videoinchiesta, finalmente l’Arcigay prende una posizione ufficiale anche perché, come ci spiega il Segretario Nazionale Gabriele Piazzoni, il fenomeno è conosciuto da tempo. «Lo sappiamo che c’è chi prova ad ottenere la protezione internazionale con qualsiasi mezzo e questo è un grande problema che finisce per falsare la situazione a discapito di chi ha davvero bisogno. Questo però dipende dal fatto che l’attuale sistema della migrazione è disfunzionale. Ci sono intere popolazioni per le quali l’unico modo di ottenere un permesso di soggiorno è cercare escamotage come questi. Bisognerebbe aprire canali legali anche per i migranti economici».
Lei dice che la nostra inchiesta lascia intendere che Arcigay faccia da sponda a questi avvocati. Cosa potete fare per non lasciare spazio a dubbi?
«In realtà c’è ben poco che possiamo fare perché siamo noi stessi vittime. Noi siamo aperti a tutti e i Tribunali sanno bene che la tessera non è un certificato di omosessualità. Più di dirlo non possiamo fare altro perché non siamo né la polizia né la magistratura, non abbiamo poteri di indagine e non possiamo certo fare controlli».
Considerando che in molti degli oltre 50 circoli territoriali di Arcigay sono presenti sportelli che si occupano dell’accoglienza dei migranti Lgbt, è possibile che molti migranti vengano da voi solo per ottenere un permesso di soggiorno?
«I nostri gruppi possono avere diverse funzioni, dalla socializzazione al contrasto dell’omofobia interiorizzata, pensi che in tanti paesi africani non esiste nemmeno la parola “omosessualità”. Sicuramente tanti vengono per capire come ottenere l’asilo e a questi offriamo un servizio informativo».
Ma lei è a conoscenza del fatto che i vostri gruppi per migranti Lgbt, perlomeno su Roma, sono frequentati in larga parte da eterosessuali?
«Quando si presenta un migrante noi non chiediamo mai se è gay, così come non lo chiediamo a nessuno. A volte questo può emergere dalla storia che racconta ma deve essere una libera scelta parlarne».
Dunque se i migranti che frequentano i vostri centri dovessero essere in maggioranza eterosessuali, per voi non è un problema?
«Questo lo dice lei».
In realtà non lo dico io, lo dice un vostro operatore di Roma e le assicuro l’intervista era molto puntuale, si parlava proprio dei gruppi per migranti Lgbt.
«Non so quale sia la percezione dell’operatore con cui ha parlato, magari ha assistito a casi di persone che si sono presentate una o due volte solo per ottenere la tessera e se ne sono andate. Non escludo che vi siano eterosessuali che frequentano questi gruppi spinti dall’idea che riusciranno a ottenere il permesso come gay ma non credo siano molti. Penso sia difficile per chi non è omosessuale ottenere la protezione. Magari con un bravo avvocato può riuscirci ma credo che capiti più spesso il contrario, che chi è davvero omosessuale non riesce a dimostrarlo perché a fronte di un incremento sospetto delle domande il giudice non si fida. Non vorrei comunque che si pensasse che l’associazione ha qualcosa da guadagnarci da tutto questo, ci reggiamo sul volontariato e non cerchiamo altri fondi pubblici».
Dal bilancio 2018 e da quello preventivo per il 2019 risulta che l’Arcigay si regge in buona parte proprio sui finanziamenti devoluti da associazioni impegnate nella difesa dei diritti dei migranti come Osife e Chiesa Valdese, nonché di progetti ministeriali ed europei finalizzati all’accoglienza come «Migranet» di Unar del Dipartimento per le Pari Opportunità, «Accept” e “Integrate». Piazzoni, per non lasciare spazio a malintesi non sarebbe più coerente togliere la specifica «LGBT» in modo che i vostri gruppi siano riferimento per tutti i migranti al di là dell’orientamento?
«Colgo il suo invito, rifletteremo su questo anche perché già è così. Comunque me lo faccia ribadire, spero che il vostro lavoro possa servire a che gli avvocati senza scrupoli si mettano una mano sulla coscienza. Fenomeni distorsivi come questo ledono il diritto d’asilo e penalizzano chi ne ha bisogno».
Migranti: la truffa del permesso di soggiorno. La maxi inchiesta di Panorama sulle migliaia di casi di lavori fittizi illegali creati ad hoc per fornire il prezioso documento. Antonio Rossitto l'1 aprile 2019 su Panorama. L’insegna del semivuoto bugigattolo dietro la stazione di Padova poteva ingannare: «Bar planet plaza». Il nome americaneggiante celava invece un usuale kebab. Di strabiliante c’era però la forza lavoro reclutata, capace di mandare avanti uno stabilimento di insaccati. Centoquarantadue assunti in appena un anno. In quel negozietto di venti metri quadrati tutti i dipendenti erano nigeriani. Tutti immigrati clandestini, assoldati fittiziamente da un connazionale con l’aiuto di due consulenti del lavoro. I clandestini pagavano 1.200 euro: in cambio, ottenevano un finto lavoro e un vero nullaosta per restare in Italia. Fino a quando la procura di Padova non ha scoperto il gigantesco raggiro. E una settimana fa è cominciato il processo ai raffinati, e supposti, ideatori della gabola. Non c’è solo l’accoglienza a delinquere. Quella dell’incessante lucro che spesso si cela dietro sbarchi e richiedenti asilo. C’è un altro business, sempre più diffuso e fiorente. S’è insinuato tra le maglie della legge Bossi-Fini e s’è ormai diffuso ovunque: il commercio dei falsi permessi di soggiorno. Decine di inchieste stanno svelando presunti e colossali illeciti, con migliaia di indagati e giri d’affari sempre più cospicui. Nel calderone finiscono disoccupati, pregiudicati, spacciatori, mendicanti. Un incalcolabile esercito di clandestini pronti a ogni cosa pur di ottenere quella tesserina rosa rilasciata dalle questure: necessario viatico per rimanere in Italia. E cosa serve per averla? Conoscere la lingua, certo. Avere una residenza, ovviamente. Ma, soprattutto, un lavoro. Allora basta inventarselo. Letteralmente. A suon di finte assunzioni, aziende di facciata, loschi accordi e sostanziose mazzette. Un permesso farlocco, rivelano i magistrati, può arrivare a costare 10 mila euro. E il meccanismo s’è trasformato in un sistema talmente rodato da permettere perfino di ottenere l’assegno di disoccupazione da parte dell’Inps. A Padova il sostituto procuratore Sergio Dini ha scoperto almeno 600 carte di soggiorno farlocche. L’ultima inchiesta nasce casualmente, dopo l’arresto di una prolifica banda di ladri d’appartamento albanesi: due ragazzi, scopre il magistrato, sono regolarmente ingaggiati come operai. In una ditta fantasma, però. Le successive indagini svelano un meccanismo affinato, preciso e diabolico. I presunti ideatori dell’imbroglio, una coppia di italiani e una moldava, finiscono in carcere per associazione a delinquere. Mentre 74 immigrati vengono accusati di aver pagato per avere un contratto e, quindi, il lasciapassare della questura. L’ideatore sarebbe un «imprenditore» padovano di 77 anni, Umberto Tiranti, pluripregiudicato, amministratore unico di sei società: scatole vuote da riempire con assunzioni di comodo. In un’intercettazione, la sospetta sodale prima lo informa di aver stampato «anche gli altri contratti», poi aggiunge maliziosa: «Cusì vedemo se riusimo a incassar un poco de schei». Eccome se li incassano: 600 euro per avviare la pratica e 200 per ogni busta paga. Gli stranieri, in cambio, vengono arruolati a tempo indeterminato. I documenti finiscono regolarmente nei centri per l’impiego. Tutto fila liscissimo. I cedolini sono trasferiti all’Inps per i contributi previdenziali. A richiesta dell’interessato, si può perfino simulare il licenziamento. In un’altra chiamata, l’evidente vantaggio è spiegato da una escort all’interessatissima collega: «Ora vale la pena di andare in disoccupazione perché prendo anche l’Inps. Poi, dopo un anno e mezzo, torno a lavorare. Ma adesso devo approfittare, poi si vedrà». Ineccepibile. Chissà in quanti casi il nostro malconcio istituto previdenziale versa a finti dipendenti senza batter ciglio. Contributi gratis, che magari in futuro si trasformeranno in pensioni. Una manna. Illuminante pure l’interrogatorio del pm Dini a uno degli indagati: un marocchino fermato per spaccio. Invece che andare in carcere, riesce a ottenere dal tribunale l’affidamento in prova, grazie a un impiego farlocco da magazziniere. Basta pagare, del resto. «Quando sono stato affidato ai servizi sociali, l’assistente mi ha detto che era andato nella sede della ditta, ma non aveva trovato nessuno» rivela l’uomo al magistrato. Poi però l’imprenditore arrestato fornisce ampie rassicurazioni sul redento cliente. E lo spacciatore diventa ufficialmente uccel di bosco. Diciamolo chiaro: il business dei permessi di soggiorno continua anche grazie a un sistema che imbarca più acqua dei barconi in balia del mare. Le truffe vengono scoperte casualmente. I controlli sono scarsissimi. E purtroppo ci sono pure i correi: dipendenti pubblici e poliziotti che intascano tangenti. Due settimane fa, l’11 marzo 2019, il pm padovano ha chiesto il rinvio a giudizio per 11 persone, accusate di far parte di un sodalizio criminale da record: 400 tesserine rosa concesse allegramente a cittadini cinesi. Tra loro, ci sono diversi poliziotti della questura di Padova e l’ex sovrintendente Renzo Dalla Costa: dal traffico, quantifica il giudice Margherita Brunello, avrebbe guadagnato 200 mila euro. Mille euro a pratica, 2 mila i nuclei. Sconto famiglia. Insomma: per ottenere il via libera bastava truccare i documenti. Taroccare la conoscenza dell’italiano, assumere fittiziamente, allegare residenze fasulle. Oppure far passare due trentenni per dodicenni, in modo da renderli adottabili per l’ignaro genitore. Ingegnosi espedienti a cui non si sono sottratte nemmeno un avvocato padovano e la sua assistente: lo studio legale, in un mese, ha chiesto di regolarizzare 157 stranieri. Tutti assunti, si fa per dire, come badanti, colf o tirocinanti. Compresa la rumena assoldata per accudire un anziano a Padova, ma scovata a Varese: era ai domiciliari per spaccio di droga. Insomma: solo a Padova un solerte sostituto procuratore ha scoperto centinaia e centinaia di casi. Il classico ago nel pagliaio. Pensate a cosa succede nel resto d’Italia…Immigrati che vogliono restare o arrivare in Italia, da una parte. Pseudoimprenditori e pseudoprofessionisti che fiutano l’affare, dall’altra. Tutti pronti ad approfittarne. In definitiva, cosa serve? Aziende fasulle, menti fini, soldi per oliare. E una robustissima dose di spregiudicatezza. Eppure basterebbe poco per evitare i raggiri. Con una banale visura camerale, per esempio, si potrebbero subito individuare le aziende fantasma: come la piccola ditta di un pachistano che, a Pistoia, assumeva decine di imbianchini. Le indagini ormai si susseguono. Oristano, febbraio 2019: arrestano un professionista e un indiano. Il core business, stavolta, sono gli ingressi dall’estero. Senegalesi, indiani, bengalesi: pronti a pagare dai 5 ai 10 mila euro prima di arrivare in Italia, in contanti o con money transfer. Dopo che il contratto falso è registrato all’Inps, l’extracomunitario riceve l’invito a entrare in Italia. Quindi visita il consolato italiano, ottiene regolare visto d’ingresso, arriva in Sardegna e sparisce nel nulla. Saluti e baci. Monza, gennaio 2019: viene scoperta quella che la procura definisce un’associazione a delinquere. Ne farebbero parte un commercialista, un finanziere, un poliziotto e un impiegato comunale. Ma il capo è un egiziano. Documenti, buste paga, dichiarazioni fiscali: tutto contraffatto. La tariffa è di almeno 5 mila euro, da saldare in contanti o con carte prepagate. Salerno, dicembre 2018: finiscono sotto inchiesta due ragionieri di Baronissi. Negli ultimi anni hanno confezionato ben 10.027 dichiarazioni dei redditi fasulle, poi trasmesse all’agenzia delle entrate. Basta documentare il reddito minimo necessario per il rilascio o il rinnovo del permesso. Gli immigrati pagano, felici e contenti. Insomma, così anche i decreti di espulsione diventano una pura formalità. In ogni città basta rivolgersi alle persone giuste per risolvere ogni assillo. Hai perso il lavoro? Non l’hai mai avuto? Ti piacerebbe continuare a malversare? Nessun problema. Basta pagare e affidare l’anima a disinvolti affaristi. Lo smercio delle pratiche con il tempo si affina. Definisce target e tipologie. A Genova si sono dedicati anima e cuore agli extracomunitari fermati per droga. Grazie a ingaggi fittizi, gli sfortunati rimangono in Italia: continuando a spacciare, presumibilmente. A Palermo hanno prediletto le famiglie. Nove arrestati: tra i fermati, c’è anche un poliziotto. La moglie gestisce, invece, un Caf nel trapanese. Ogni carta di soggiorno arriva a costare mille euro. Le intercettazioni sono fin troppo esplicite: «Ti serve il permesso? Preparo tutto io…» assicura il commercialista all’immigrato. «Cosa devi fare, il rinnovo?». Lo straniero, dimostrando ampia conoscenza dei meandri del fisco, dettaglia: «No, devo prima richiedere l’Isee e il permesso, poi la cittadinanza. Quindi ci vogliono 18 mila euro di reddito: siamo cinque in famiglia». A Torino si sono specializzati nella migrazione economica. Funziona così: il gruppo, con mirati annunci sulle chat, individua cinesi desiderosi di emigrare. Poi propone tirocini immaginari: la pratica costa fino a 3 mila euro. Alcune aziende in crisi si prestano al tranello: intascano un migliaio di euro e in cambio presentano domande fittizie di tirocinio. Voilà: il gioco è fatto. Gli indagati sono 37. A Bologna hanno invece arruolato un esercito di badanti fantasma: più di 200 falsi collaboratori domestici, che sono riusciti perfino a incassare assegni di disoccupazione per mezzo milione di euro. A questo punto vi chiederete: cosa rischiano gli immigrati che comprano la loro permanenza in Italia? Poco o nulla. Quando li beccano, si dileguano. Per la giustizia diventano contumaci. Del resto, istruire un processo con centinaia di clandestini senza un domicilio né un lavoro, una marea di inacciuffabili, è impresa ardua. Così, è stata appena chiusa la maxi inchiesta della procura di Ancona. Solita solfa: centinaia di stranieri che ottengono la tesserina rosa o, ancora una volta, il sussidio previdenziale. Il numero degli indagati è sterminato: 429. Ma davanti ai giudici finiranno probabilmente solo in 14: quelli accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, falso e truffa allo Stato. Per carità: paghino innanzitutto i supposti geni della truffa. Ma una cosa è chiara: se comprare un nullaosta non comporta alcun rischio, la richiesta aumenta. Inevitabile. A Siracusa, per esempio, è appena cominciato il processo a dieci persone, tra cui diversi imprenditori agricoli di Avola. Mille braccianti agricoli avrebbero pagato per ottenere un’assunzione fraudolenta. Dove sono finiti? Boh. Nessuno lo sa. Così il commercio dei permessi di soggiorno continua. Più lucroso che mai.
Migranti: la truffa del permesso di soggiorno. La maxi inchiesta di Panorama sulle migliaia di casi di lavori fittizi illegali creati ad hoc per fornire il prezioso documento, scrive Antonio Rossitto l'1 aprile 2019 su Panorama. L’insegna del semivuoto bugigattolo dietro la stazione di Padova poteva ingannare: «Bar planet plaza». Il nome americaneggiante celava invece un usuale kebab. Di strabiliante c’era però la forza lavoro reclutata, capace di mandare avanti uno stabilimento di insaccati. Centoquarantadue assunti in appena un anno. In quel negozietto di venti metri quadrati tutti i dipendenti erano nigeriani. Tutti immigrati clandestini, assoldati fittiziamente da un connazionale con l’aiuto di due consulenti del lavoro. I clandestini pagavano 1.200 euro: in cambio, ottenevano un finto lavoro e un vero nullaosta per restare in Italia. Fino a quando la procura di Padova non ha scoperto il gigantesco raggiro. E una settimana fa è cominciato il processo ai raffinati, e supposti, ideatori della gabola. Non c’è solo l’accoglienza a delinquere. Quella dell’incessante lucro che spesso si cela dietro sbarchi e richiedenti asilo. C’è un altro business, sempre più diffuso e fiorente. S’è insinuato tra le maglie della legge Bossi-Fini e s’è ormai diffuso ovunque: il commercio dei falsi permessi di soggiorno. Decine di inchieste stanno svelando presunti e colossali illeciti, con migliaia di indagati e giri d’affari sempre più cospicui. Nel calderone finiscono disoccupati, pregiudicati, spacciatori, mendicanti. Un incalcolabile esercito di clandestini pronti a ogni cosa pur di ottenere quella tesserina rosa rilasciata dalle questure: necessario viatico per rimanere in Italia. E cosa serve per averla? Conoscere la lingua, certo. Avere una residenza, ovviamente. Ma, soprattutto, un lavoro. Allora basta inventarselo. Letteralmente. A suon di finte assunzioni, aziende di facciata, loschi accordi e sostanziose mazzette. Un permesso farlocco, rivelano i magistrati, può arrivare a costare 10 mila euro. E il meccanismo s’è trasformato in un sistema talmente rodato da permettere perfino di ottenere l’assegno di disoccupazione da parte dell’Inps. A Padova il sostituto procuratore Sergio Dini ha scoperto almeno 600 carte di soggiorno farlocche. L’ultima inchiesta nasce casualmente, dopo l’arresto di una prolifica banda di ladri d’appartamento albanesi: due ragazzi, scopre il magistrato, sono regolarmente ingaggiati come operai. In una ditta fantasma, però. Le successive indagini svelano un meccanismo affinato, preciso e diabolico. I presunti ideatori dell’imbroglio, una coppia di italiani e una moldava, finiscono in carcere per associazione a delinquere. Mentre 74 immigrati vengono accusati di aver pagato per avere un contratto e, quindi, il lasciapassare della questura. L’ideatore sarebbe un «imprenditore» padovano di 77 anni, Umberto Tiranti, pluripregiudicato, amministratore unico di sei società: scatole vuote da riempire con assunzioni di comodo. In un’intercettazione, la sospetta sodale prima lo informa di aver stampato «anche gli altri contratti», poi aggiunge maliziosa: «Cusì vedemo se riusimo a incassar un poco de schei». Eccome se li incassano: 600 euro per avviare la pratica e 200 per ogni busta paga. Gli stranieri, in cambio, vengono arruolati a tempo indeterminato. I documenti finiscono regolarmente nei centri per l’impiego. Tutto fila liscissimo. I cedolini sono trasferiti all’Inps per i contributi previdenziali. A richiesta dell’interessato, si può perfino simulare il licenziamento. In un’altra chiamata, l’evidente vantaggio è spiegato da una escort all’interessatissima collega: «Ora vale la pena di andare in disoccupazione perché prendo anche l’Inps. Poi, dopo un anno e mezzo, torno a lavorare. Ma adesso devo approfittare, poi si vedrà». Ineccepibile. Chissà in quanti casi il nostro malconcio istituto previdenziale versa a finti dipendenti senza batter ciglio. Contributi gratis, che magari in futuro si trasformeranno in pensioni. Una manna. Illuminante pure l’interrogatorio del pm Dini a uno degli indagati: un marocchino fermato per spaccio. Invece che andare in carcere, riesce a ottenere dal tribunale l’affidamento in prova, grazie a un impiego farlocco da magazziniere. Basta pagare, del resto. «Quando sono stato affidato ai servizi sociali, l’assistente mi ha detto che era andato nella sede della ditta, ma non aveva trovato nessuno» rivela l’uomo al magistrato. Poi però l’imprenditore arrestato fornisce ampie rassicurazioni sul redento cliente. E lo spacciatore diventa ufficialmente uccel di bosco. Diciamolo chiaro: il business dei permessi di soggiorno continua anche grazie a un sistema che imbarca più acqua dei barconi in balia del mare. Le truffe vengono scoperte casualmente. I controlli sono scarsissimi. E purtroppo ci sono pure i correi: dipendenti pubblici e poliziotti che intascano tangenti. Due settimane fa, l’11 marzo 2019, il pm padovano ha chiesto il rinvio a giudizio per 11 persone, accusate di far parte di un sodalizio criminale da record: 400 tesserine rosa concesse allegramente a cittadini cinesi. Tra loro, ci sono diversi poliziotti della questura di Padova e l’ex sovrintendente Renzo Dalla Costa: dal traffico, quantifica il giudice Margherita Brunello, avrebbe guadagnato 200 mila euro. Mille euro a pratica, 2 mila i nuclei. Sconto famiglia. Insomma: per ottenere il via libera bastava truccare i documenti. Taroccare la conoscenza dell’italiano, assumere fittiziamente, allegare residenze fasulle. Oppure far passare due trentenni per dodicenni, in modo da renderli adottabili per l’ignaro genitore. Ingegnosi espedienti a cui non si sono sottratte nemmeno un avvocato padovano e la sua assistente: lo studio legale, in un mese, ha chiesto di regolarizzare 157 stranieri. Tutti assunti, si fa per dire, come badanti, colf o tirocinanti. Compresa la rumena assoldata per accudire un anziano a Padova, ma scovata a Varese: era ai domiciliari per spaccio di droga. Insomma: solo a Padova un solerte sostituto procuratore ha scoperto centinaia e centinaia di casi. Il classico ago nel pagliaio. Pensate a cosa succede nel resto d’Italia… Immigrati che vogliono restare o arrivare in Italia, da una parte. Pseudoimprenditori e pseudoprofessionisti che fiutano l’affare, dall’altra. Tutti pronti ad approfittarne. In definitiva, cosa serve? Aziende fasulle, menti fini, soldi per oliare. E una robustissima dose di spregiudicatezza. Eppure basterebbe poco per evitare i raggiri. Con una banale visura camerale, per esempio, si potrebbero subito individuare le aziende fantasma: come la piccola ditta di un pachistano che, a Pistoia, assumeva decine di imbianchini. Le indagini ormai si susseguono.
Oristano, febbraio 2019: arrestano un professionista e un indiano. Il core business, stavolta, sono gli ingressi dall’estero. Senegalesi, indiani, bengalesi: pronti a pagare dai 5 ai 10 mila euro prima di arrivare in Italia, in contanti o con money transfer. Dopo che il contratto falso è registrato all’Inps, l’extracomunitario riceve l’invito a entrare in Italia. Quindi visita il consolato italiano, ottiene regolare visto d’ingresso, arriva in Sardegna e sparisce nel nulla. Saluti e baci.
Monza, gennaio 2019: viene scoperta quella che la procura definisce un’associazione a delinquere. Ne farebbero parte un commercialista, un finanziere, un poliziotto e un impiegato comunale. Ma il capo è un egiziano. Documenti, buste paga, dichiarazioni fiscali: tutto contraffatto. La tariffa è di almeno 5 mila euro, da saldare in contanti o con carte prepagate.
Salerno, dicembre 2018: finiscono sotto inchiesta due ragionieri di Baronissi. Negli ultimi anni hanno confezionato ben 10.027 dichiarazioni dei redditi fasulle, poi trasmesse all’agenzia delle entrate. Basta documentare il reddito minimo necessario per il rilascio o il rinnovo del permesso. Gli immigrati pagano, felici e contenti. Insomma, così anche i decreti di espulsione diventano una pura formalità. In ogni città basta rivolgersi alle persone giuste per risolvere ogni assillo. Hai perso il lavoro? Non l’hai mai avuto? Ti piacerebbe continuare a malversare? Nessun problema. Basta pagare e affidare l’anima a disinvolti affaristi. Lo smercio delle pratiche con il tempo si affina. Definisce target e tipologie.
A Genova si sono dedicati anima e cuore agli extracomunitari fermati per droga. Grazie a ingaggi fittizi, gli sfortunati rimangono in Italia: continuando a spacciare, presumibilmente.
A Palermo hanno prediletto le famiglie. Nove arrestati: tra i fermati, c’è anche un poliziotto. La moglie gestisce, invece, un Caf nel trapanese. Ogni carta di soggiorno arriva a costare mille euro. Le intercettazioni sono fin troppo esplicite: «Ti serve il permesso? Preparo tutto io…» assicura il commercialista all’immigrato. «Cosa devi fare, il rinnovo?». Lo straniero, dimostrando ampia conoscenza dei meandri del fisco, dettaglia: «No, devo prima richiedere l’Isee e il permesso, poi la cittadinanza. Quindi ci vogliono 18 mila euro di reddito: siamo cinque in famiglia».
A Torino si sono specializzati nella migrazione economica. Funziona così: il gruppo, con mirati annunci sulle chat, individua cinesi desiderosi di emigrare. Poi propone tirocini immaginari: la pratica costa fino a 3 mila euro. Alcune aziende in crisi si prestano al tranello: intascano un migliaio di euro e in cambio presentano domande fittizie di tirocinio. Voilà: il gioco è fatto. Gli indagati sono 37.
A Bologna hanno invece arruolato un esercito di badanti fantasma: più di 200 falsi collaboratori domestici, che sono riusciti perfino a incassare assegni di disoccupazione per mezzo milione di euro. A questo punto vi chiederete: cosa rischiano gli immigrati che comprano la loro permanenza in Italia? Poco o nulla. Quando li beccano, si dileguano. Per la giustizia diventano contumaci. Del resto, istruire un processo con centinaia di clandestini senza un domicilio né un lavoro, una marea di inacciuffabili, è impresa ardua. Così, è stata appena chiusa la maxi inchiesta della procura di Ancona.
Solita solfa: centinaia di stranieri che ottengono la tesserina rosa o, ancora una volta, il sussidio previdenziale. Il numero degli indagati è sterminato: 429. Ma davanti ai giudici finiranno probabilmente solo in 14: quelli accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, falso e truffa allo Stato. Per carità: paghino innanzitutto i supposti geni della truffa. Ma una cosa è chiara: se comprare un nullaosta non comporta alcun rischio, la richiesta aumenta. Inevitabile.
A Siracusa, per esempio, è appena cominciato il processo a dieci persone, tra cui diversi imprenditori agricoli di Avola. Mille braccianti agricoli avrebbero pagato per ottenere un’assunzione fraudolenta. Dove sono finiti? Boh. Nessuno lo sa. Così il commercio dei permessi di soggiorno continua. Più lucroso che mai.
Falsi attestati a 6mila immigrati: permessi di soggiorno in regalo. Falsificavano gli esami per concedere falsi attestati di conoscenza della lingua italiana. I questo modo gli immigrati potevano ottenere i permessi di soggiorno, scrive Sergio Rame, Martedì 26/03/2019, su Il Giornale. Falsificavano gli esami per concedere agli immigrati falsi attestati di conoscenza della lingua italiana, così da ottenere i permessi di soggiorno. Una maxi truffa che ha coinvolto più di 6mila stranieri e che ha fatto scattare cinque arresti per "corruzione, falsità ideologica, truffa, contraffazione di documenti e indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato". Il tutto mentre la sinistra vorrebbe addirittura allargare le maglie della legge che regola la concessione della cittadinanza italiana agli extracomunitari. "Altro che ius soli e cittadinanze in regalo - mette in chiaro Matteo Salvini - in Italia servono regole, controlli e rispetto". Al centro del traffico criminoso di attestati c'erano due italiani, un marocchino e un tunisino. Producevano documenti falsi che venivano poi usati dagli immigrati per farsi rilasciare la carta di soggiorno per lungo periodo. Questa mattina, la polizia di Modena li ha arrestati tutti e quattro: uno è finito in carcere, mentre gli altri tre sono stati messi ai domiciliari. Su di loro pendono accuse pesantissime che vanno dalla corruzione alla truffa. L'attività di indagini dei poliziotti della squadra mobile, nella quale risultano indagate altre 25 persone, ha fatto luce su un sistema che faceva capo a "un centro di formazione linguistico" accreditato presso l'Università per Stranieri di Perugia che permetteva agli stranieri non in regola di conseguire, dopo aver sostenuto un esame, l'attestato di conoscenza della lingua italiana che serviva, appunto, a farsi rilasciare il permesso di soggiorno di lungo periodo. Esame che, attraverso le telecamere installate dai poliziotti della squadra mobile, si è dimostrato essere assolutamente fittizio visto che gli stranieri venivano forniti delle risposte già compilate da cui copiare o comunque venivano aiutati dalla commissione compiacente. Il giro di affari, sgominato in queste ore, ha coinvolto più di seimila stranieri nelle sedi d'esame sparse in varie città del nord Italia. Dalla Lombardia al Veneto, passando per il Trentino-Alto Adige e l'Emilia Romagna, gli immigrati potevano richiedere e ricevere, pur non ricorrendone i requisiti, l'ambito certificato Celi (Certificato di lingua italiana) da cui è derivato il nome dell'operazione di polizia. Ovviamente all'organizzazione versavano svariate centinaia di euro per poter passare l'esame senza problemi.
Così il sindaco leghista ha sventato la truffa del clandestino. Il marocchino non è in regola e organizza un matrimonio combinato. Ma il sindaco, che deve celebrare le nozze, se ne accorge e sventa la truffa, scrive Sergio Rame, Mercoledì 27/03/2019, su Il Giornale. Ci aveva provato a truffare lo Stato italiano con un matrimonio combinato. L'obiettivo dell'immigrato, un marocchino senza permesso di soggiorno ma residente comunque in Piemonte, era ottenere un pezzo di carta per riuscire a rimanere in Italia. Fortunatamente il sindaco di Treviglio, Juri Imeri, ha fiutato che qualcosa non tornava e così ha fatto saltare il matrimonio di convenienza che aveva ordito insieme a una italiana. Ora l'impostore verrà rimpatriato nel suo Paese d'origine. "Complimenti al sindaco", ha commentato Matteo Salvini che si è subito speso per velocizzare l'esplosione del marocchino. I documenti per il matrimonio provenienti dal Comune di residenza erano tutti regolari. Tuttavia Imeri si è accorto che alcune segnalazioni a carico dello sposo non andavano affatto bene. "Mi hanno insospettito", spiega il sindaco leghista a SkyTg24. "Ho quindi chiesto supporto al commissariato e, dopo varie verifiche, abbiamo avuto evidenza del fatto che il futuro sposo fosse irregolare sul territorio italiano, e che il matrimonio fissato per sabato 23 marzo sarebbe stato, presumibilmente, una truffa". Giovedì scorso il marocchino è stato, quindi, fermato e trasferito all'ufficio immigrazione della Questura di Bergamo dove è stato accertato che l'immigrato non era in possesso di un regolare permesso di soggiorno. Da qui l'immediata espulsione: già l'indomani, infatti, è stato imbarcato su un volo che lo ha riportato in Marocco. Durante le indagini la finta sposa ha ammesso che il matrimonio era stato messo in piedi unicamente per ottenere il permesso di soggiorno. Con Imeri, a cui va tutto il merito di essersi accorto che qualcosa non andava, si sono complimentati anche Simona Pergreffi e Cristian Invernizzi. "Ci congratuliamo con il sindaco Juri Imeri e con il commissariato di Treviglio per l'azione congiunta che ha permesso di smascherare un matrimonio farlocco, combinato esclusivamente per far ottenere la cittadinanza italiana al marocchino". Per i due parlamentari del Carroccio, l'immediata espulsione è "la dimostrazione che con la Lega al governo siamo passati dalle parole ai fatti e non si faranno più sconti a chi cerca di aggirare le leggi italiane pensando di farla franca". "L'operazione di Treviglio - concludono - deve essere un esempio di come l'azione combinata tra l'amministrazione comunale e le forze dell'ordine sia efficace nella prevenzione e nella repressione delle irregolarità".
· La cultura della Solidarietà.
Partiti politici, ong e onlus: ecco i finanziamenti di Soros. Oltre 8,5 milioni di dollari in 70 progetti: così Soros, tramite la Open Society Foundations, plasma la nostra società. Ecco a chi fa avere i soldi. Andrea Indini e Roberto Vivaldelli, Mercoledì 16/10/2019, su Il Giornale. Partiti politici, organizzazioni non governative politicizzate, onlus che favoriscono l'immigrazione e associazioni che sostengono le comunità rom. La mappatura dei finanziamenti con cui, tramite la Open Society Foundations, George Soros inonda il nostro Paese di soldi per plasmarlo a sua immagine e somiglianza, svela un progetto ben preciso che, al di là delle strenue difese dei progressisti, rischia di minare la sovranità dell'Italia. Tra il 2017 e il 2018, stando all'inchiesta pubblicata dall'agenzia Adnkronos, si parla di oltre otto milioni e mezzo di dollari versati nelle casse di quegli enti che si prefiggono come obiettivo la creazione di una società più aperta e accogliente.
Lo squalo della Finanza. L'attività in Italia del finanziere di origine ungheresi con ambizioni filantropiche, che si ispira al filosofo Karl Popper, è storia degli ultimi 30 anni. Amico di Romano Prodi, Soros diventa celebre nel nostro Paese durante il cosiddetto "mercoledì nero" del 16 settembre 1992, quando la lira italiana e la sterlina inglese sono costrette ad uscire dal Sistema Monetario Europeo (Sme) a seguito di una speculazione finanziaria da lui condotta attraverso il fondo Quantum. Quel giorno, lo "squalo" della finanza vende lire allo scoperto comprando dollari, costringendo così la Banca d'Italia a vendere 48 miliardi di dollari di riserve per sostenere il cambio e portando la nostra moneta a una svalutazione del 30%. Come ha dichiarato in seguito all'Huffington Post nel 2013, "gli speculatori fanno il loro lavoro, non hanno colpe. Queste semmai competono ai legislatori che permettono che le speculazioni avvengano. Gli speculatori sono solo i messaggeri di cattive notizie". L’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi racconta quei giorni drammatici in una rara intervista (guarda qui): "Il finanziere squalo Soros fece una colossale speculazione sulla lira, guadagnando non so quale cifra colossale. Dopo questa sua impresa, a riconoscimento, ebbe la laurea ad honoris causa dell’Università di Bologna. Grandi intrighi, grandi avventure, alle quali sono portati grandi gruppi finanziari". Laurea che Soros ricevette nel 1995 su indicazioni di chi? Del professor Prodi, amico personale del milionario americano. Sono passati più di vent'anni ma i "tentacoli" del magnate e della sua rete di organizzazioni filantropiche si è diramata ovunque, con il benestare della sinistra, che l'ha sempre coccolato e protetto, nonostante quel tristemente famoso "mercoledì nero".
La politica (attiva) di Soros. La chiamano filantropia, in realtà è politica attiva. La scelta delle sigle a cui la Open Society Foundations decide di versare vagonate di euro è ben mirata. Basta scorgere la lista pubblicata dall'Adnkronos: tra i beneficiari troviamo movimenti politici come i Radicali Italiani, l'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi), che in passato ha fatto causa a quei Comuni che avevano combattuto in prima linea l'immigrazione clandestina, e organizzazioni internazionali come Purpose Europe Limited che opera in Italia per promuovere una maggiore accoglienza. Il minimo comun denominatore dei 70 progetti finanziati nell'ultimo biennio (32 nel 2017 per un totale di 4.140.318 dollari e 38 nel 2018 per 4.387.630 dollari) è, manco a dirlo, il sostegno alle migrazioni attraverso la creazione di una società liquida senza frontiere. "Noi non finanziamo le organizzazioni che fanno salvataggio in mare", ha spiegato in passato al Giornale.it il direttore catalano della Open Society Foundations in Europa, Jordi Vaquer . E, anche di fronte al fatto che una ong, l'Avaaz, sostenuta sin dalla sua fondazione da Soros, abbia donato mezzo milione di euro alla Migrant Offshore Aid Station (Moas), l'organizzazione che recuperava i disperati salpati dalle coste libiche e li portava direttamente in Italia, si è sempre schermito spiegando che questo non è abbastanza per asserire che "la fondazione appoggi l'ong in tutte le sue attività”.
Il sostegno all'immigrazione. "Ci occupiamo dei diritti dei migranti una volta che sono arrivati (nel Vecchio Continente, ndr) oppure nei Paesi di transito", ci ha spiegato Vaquer nel 2017. Ed è per questo, per esempio, che nel 2018 la Open Society Foundations ha fatto arrivare 387.715 dollari all'Asgi che tra le altre cose ha anche pubblicato la rivista Diritto Immigrazione e Cittadinanza in collaborazione con Magistratura democratica. In un'occasione uno degli avvocati di questa associazione, Maurizio Veglio, aveva presentato il libro L'attualità del male, la Libia dei lager è verità processuale insieme alla portavoce della ong di Luca Casarini & Co., "Mediterranea Saving Humans", Alessandra Sciurba, e alla presidente della sezione specializzata per l'immigrazione e la protezione internazionale del tribunale di Firenze, Luciana Breggia, che quest'anno si è impegnata in prima persona per smontare il decreto Sicurezza di Matteo Salvini. Non stupisce. Tutte le sigle, gli enti pubblici e privati, le ong e le onlus, che si sono visti staccare un assegno da Soros, sembrano accomunate da questa crociata a favore dei porti aperti. "L'opposto della morte delle persone in mare sono frontiere dove le persone non muoiono - è ancora Vaquer a parlare - non significa aprire le frontiere, ma vogliamo un passaggio più sicuro". Se si continua a spulciare il lungo elenco pubblicato dall'Adnkronos, troviamo che l'anno scorso, "per educare e favorire il dialogo con gli attori politici sui nuovi approcci all'immigrazione e alle politiche di asilo europee, a beneficio di migranti, rifugiati e società ospiti", l'Istituto Affari Internazionali presieduto dall'ex commissario europeo Ferdinando Nelli Feroci ha ricevuto 230.192 dollari. Poca cosa rispetto al milione di dollari che, invece, è stato versato nel 2017 alla Purpose Europe Limited, un'organizzazione che il primo luglio del 2018 ha pubblicato il report Attitudes towards National Identity, Immigration and Refugees in Italy (leggi qui). Nel settore delle politiche di accoglienza e inclusione troviamo, poi, due versamenti all'Associazione 21 luglio per un totale di 170.144 dollari.
Le mani sulla politica italiana. In linea generale la Open Society Foundations spazia dai progetti per la difesa dei diritti umani all'assistenza sanitaria agli immigrati, dalle iniziative ambientaliste al monitoraggio dell'industria degli armamenti. Non deve, quindi, stupire se prima delle elezioni politiche del 2018 ha messo a dosposizione dell'Università di Urbino 25mila dollari per mappare "l'informazione politica sui media italiani". E, sempre in quella tornata elettorale, ha staccato al partito di Emma Bonino un assegno da 298.550 dollari per "promuovere un'ampia riforma delle leggi italiane sull'immigrazione attraverso iniziative che puntino a fornire aiuto agli immigrati e avanzare il loro benessere sociale". Davvero curioso che la sinistra, ossessionata dagli hacker russi, dalle presunte ingerenze di Paesi stranieri (il Cremlino), non spiccichi una parola nei confronti di milioni spesi da Soros in Italia.
Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 16 ottobre 2019. Da magnanimo filantropo ad avido finanziatore il passo può essere breve. George Soros, 8,3 miliardi di dollari il patrimonio stimato, è uno dei trenta uomini più ricchi al mondo. L' imprenditore e attivista ungherese naturalizzato americano si è messo in testa di realizzare la società aperta teorizzata dal suo maestro, il filosofo Karl Popper, e da tempo ha deciso di investire parte dell' immensa riserva di quattrini in associazioni, istituti e movimenti di mezzo mondo. Lo fa attraverso la sua Open Society Foundations, attiva anche in Italia dal 2008, quando il plurimiliardario ha cominciato a offrire supporto legale a chi osteggiava lo strapotere mediatico di Silvio Berlusconi e ad aiutare le minoranze Rom e Sinti. Ognuno, naturalmente, dei propri soldi è libero di fare ciò che vuole, purché la provenienza sia lecita. Sul fatto che il riccone progressista agisca esclusivamente di buon cuore abbiamo parecchi dubbi, ma la cosa è nota. Semmai ci chiediamo come faranno ora i signori della Sinistra a continuare a negare l' ingente quantità di denaro investita dalla Open Society nel nostro Paese, un fiume di soldi che - stando ai dati riportati con dovizia di particolari dall' agenzia di stampa AdnKronos - sarebbe stato erogato a favore di una pletora di enti e ong che si occupano di immigrazione e Rom. Ma non solo, perché tra i beneficiari accertati vi sarebbero anche due partiti: i Radicali e pur indirettamente il Pd, come vedremo in seguito.
I VERSAMENTI. Al partito di Emma Bonino, in base alla ricostruzione dell' Adn, nel 2017 sarebbero stati versati 298 mila 550 dollari "per promuovere un' ampia riforma delle leggi italiane sull' immigrazione attraverso iniziative che puntino a fornire aiuto agli immigrati e avanzare il loro benessere sociale". Nel 2018 Soros avrebbe elargito 385 mila 715 bigliettoni all' Asgri, l'"Associazione per gli studi giuridici sull' immigrazione" che in passato ha pubblicato la rivista "Diritto, Immigrazione e Cittadinanza" in collaborazione con Magistratura Democratica. E ancora: l' anno scorso 230 mila 192 euro sarebbero stati destinati all' Istituto Affari Internazionali presieduto dall' ex commissario europeo Ferdinando Nelli Feroci. Il motivo della donazione? "Educare e favorire il dialogo con gli attori politici sui nuovi approcci all' immigrazione e alle politiche di asilo europee, a beneficio di migranti, rifugiati e società ospiti". Le donazioni in territorio italiano tra il 2017 e il 2018 sarebbero state 70. Non spicca per importo, ma è sicuramente curiosa, quella di 25 mila dollari all' Università di Urbino "Carlo Bo" per un progetto riguardante la "mappatura dell' informazione politica sui media italiani in vista delle elezioni politiche 2018".
BENEFICIARI. Chi avrà voluto favorire con questa ricerca il plurimiliardario? Tendiamo a escludere Salvini o la Meloni, ma potremmo sbagliarci. Soros avrebbe poi dato un milione di dollari a Purpose Europe Limited. Cosa c'entra con l'Italia? Nulla, apparentemente. Se non fosse che l' organizzazione a luglio dell' anno scorso ha pubblicato il rapporto "Attitude towards National Identity, Immigration and Refugees in Italy". Nel 2017 invece la Open Society avrebbe regalato 24.828 al dipartimento di Scienze Politiche dell' Università di Perugia per una serie di incontri dedicati ai social media e alla comunicazione politica. Cambiando tipo di destinatario, l'Associazione 21 luglio avrebbe incassato 170.144 dollari per il sostegno alle comunità Rom e Sinti, una nobile causa, si capisce. Dicevamo del Partito Democratico: appare bizzarra, anche se sarà stata sicuramente del tutto lecita, la presunta elargizione nel 2018 di 83.500 bigliettoni americani per la "rivitalizzazione del parco pubblico di Ventimiglia". Della somma, 58 mila 500 dollari sarebbero confluiti direttamente nelle casse del Comune allora guidato dal sindaco Dem Enrico Ioculano. Una coincidenza o c' è stato dell' altro? Noi siamo fermamente convinti della bontà e dell' innocenza del gesto di Soros, e che quel parco fosse ridotto davvero male.
Così le associazioni cattoliche e la sinistra si spartiscono il business dell’immigrazione. Francesca Totolo su Il Primato nazionale il 2 Maggio 2018. Da anni assistiamo ad una curiosa convergenza di interessi riguardante la questione migratoria tra le più importanti associazioni religiose cattoliche italiane e le associazioni laiche spesso radicali e distanti dalla dottrina cristiana. Come dei moderni Don Camillo e Peppone non più in lotta, ma pacificati per combattere una battaglia comune. Questa inchiesta chiarirà le motivazioni che hanno spinto i santi e i profani a stringere alleanze così strette. Non dimenticando che si avvicinano le dichiarazioni dei redditi e la relativa destinazione dell’8×1000. Caritas Italiana ha realizzato una sezione apposita per la questione migratoria: Caritas InMigration. Nasce con l’obiettivo di realizzare un canale unitario di comunicazione sul tema delle migrazioni ed essere un punto di riferimento per quanto concerne la conoscenza di tale fenomeno. E quindi per indottrinare i fedeli “promuovendo l’uso di una terminologia esatta”. Caritas In Migration si avvale di un network formato da diverse associazioni per meglio affrontare l’immigrazione in Italia: le sorosiane Amnesty International, Oxfam, ARCI, ASGI, CIR Rifugiati di Roberto Zaccaria e Medici per i Diritti Umani (MEDU), le cattoliche ACLI, Fondazione Migrantes della CEI, il gesuita Centro Astalli e Comunità di Sant’Egidio (analizzati in seguito), e poi Emergency, Medici Senza Frontiere, Save The Children. I progetti di Caritas per sostenere i migranti sono otto.
Il progetto “Protetto. Rifugiato a casa mia – Corridoi umanitari” parte dal corridoio umanitario promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana (Caritas e Fondazione Migrantes), dalla Comunità di Sant’Egidio e dal governo italiano, che garantisce un canale legale verso l’Italia a centinaia di presunti profughi etiopi. Questi verranno poi ospitati grazie al progetto “Rifugiato a casa mia” sostenuto dai fondi SPRAR del governo, mentre i costi del trasferimento nel nostro Paese sono finanziati dai fondi raccolti grazie all’8×1000 della Chiesa Cattolica.
Il progetto “PIER – Protection, Integration and Education for Refugees”, finanziato dalla Coca Cola Foundation, coinvolge Caritas Austria, Caritas Italiana e l’associazione greca Arsis. L’obiettivo del progetto è quello di consolidare le attività di accoglienza ed integrazione dei richiedenti asilo già svolte da questi organismi nei rispettivi Paesi.
L’obiettivo del “Progetto Presidio di Caritas Italiana” è quello di costruire presidi permanenti dove operatori specializzati e volontari possono assistere gli immigrati impiegati nel settore agricolo e di tutelarli nelle questioni giuridiche, sanitarie e professionali. Progetto Presidio è presente in 18 Caritas diocesane distribuite in tutta Italia ed in particolare nelle regioni del Sud.
“Prointegra” è un progetto ideato per garantire, nell’ambito del sistema SPRAR, la protezione e accoglienza ai cittadini afghani che avevano precedentemente collaborato nel loro Paese con il Governo italiano, “si va dai percorsi di alfabetizzazione, alla frequentazione di palestre per sostenere le attività di socializzazione”.
Il Festival diffuso delle culture mediterranee, Sabir, promosso anche da Arci e ACLI in collaborazione con le sorosiane A Buon Diritto, Asgi e Carta di Roma, e con il patrocinio dell’ANCI, ha l’obiettivo di “costruire una rappresentazione pubblica alternativa della società civile del Mediterraneo dando visibilità a un progetto di costruzione di democrazia dal basso”. Si è svolto a Lampedusa, Pozzallo e Siracusa.
“Migramed Meeting” è l’annuale conferenza di Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo attive in processi di supporto, accoglienza e tutela in favore degli immigrati, dove “si stabiliscono linee d’azione congiunta per l’elaborazione di proposte in favore di politiche rispettose dei diritti umani da portare all’attenzione dei decisori politici nazionali ed europee”. Una vera lobby cattolica creata per fare pressione sui governi nazionali e sull’Unione Europea contro gli accordi stipulati con le autorità libiche e la politica ungherese di Viktor Orbán tesa ad arrestare il flusso migratorio insostenibile.
Il Coordinamento Nazionale Immigrazione (CNI) assicura alla rete delle Caritas, distribuite su tutto il territorio italiano, un confronto continuo sui temi collegati alle migrazioni al fine di monitorare costantemente quanto accade a livello nazionale, internazionale e territoriale: “L’obiettivo del CNI è quello di costruire un percorso di reciproco scambio e rafforzamento, con la condivisione di informazioni e strumenti formativi importanti per il quotidiano impegno delle Caritas diocesane e della Caritas Italiana su un tema così attuale e complesso”.
Agli incontri del CNI, di solito ogni tre mesi, partecipano i direttivi di Caritas, di altre associazioni religiose e di diverse ONG, ed esponenti del governo italiano.
Caritas InMigration è intervenuta anche nelle procedure di trasporto e sbarco nei porti italiani con il progetto “Warm Up” che ha previsto la distribuzione di vestiti e calzature ai migranti tramite la Marina Italiana, le Caritas Diocesane del territorio e la ONG maltese MOAS: “l’obiettivo di Warm Up è di dare un primo segnale di solidarietà e di accoglienza al momento del recupero in mare dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa”. Kit nuovo e logato “Caritas InMigration” dal costo unitario di 20 euro, con buona pace dei poveri italiani che ricevono abbigliamento dismesso dalla stessa associazione religiosa.
Oltre agli 8 progetti appena esposti, Caritas, grazie alla rete delle Caritas Diocesane, riserva altri servizi agli immigrati: accoglienza notturna, centri di accoglienza straordinaria (piccoli appartamenti, strutture di medie dimensioni o anche grandi centri con oltre 100 presenze), centri SPRAR ovvero sostenuti grazie ai fondi del governo italiano, corsi d’italiano, il servizio Emporio (l’immigrato può accedere al servizio tra gli scaffali e scegliere lui stesso i generi alimentari tra i prodotti presenti), mense rispettose delle tradizioni alimentari degli immigrati, progetti interculturali, servizi sanitari, e sportello legale. Nel 2016, Caritas ha raccolto quasi 52 milioni di euro anche grazie ai fondi dell’8×1000 della Chiesa Cattolica. Non è dato sapere i costi non aggregati per la gestione dei servizi offerti agli immigrati. Sappiamo solo che più di 37 milioni di euro sono stati spesi per attività in Italia.
Riportiamo alcuni passi del comunicato stampa “La grande bugia delle navi-taxi” di Don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana, redatto in occasione della conferenza stampa tenutasi il 5 maggio dello scorso anno presso Palazzo Madama, dai tratti chiaramente politici e assolutori Urbi et Orbi delle ONG coinvolte nelle prime indagini del Procuratore Carmelo Zuccaro: “Stiamo assistendo ad un processo mediatico contro chi ha creduto che salvare delle vite fosse un gesto necessario di umanità. Ma così non sembra. Le accuse, spesso non circostanziate, che piovono su queste organizzazioni, a mio parere, appaiono un pretesto per distogliere l’attenzione dalle evidenti fatiche nel trovare soluzioni politiche a più ampio spettro nella gestione di questo fenomeno. Affermare semplicemente che le navi che svolgono il salvataggio in mare costituiscono un pull factor, significa non solo condannare molte persone a morte certa, ma allo stesso tempo costituisce un’ammissione di responsabilità nell’incapacità di individuare soluzioni durature a partire dalla stabilizzazione dei contesti di origine e di transito.(…) Anche sul fronte dell’accoglienza abbiamo vissuto una situazione simile all’indomani della vicenda di mafia capitale quando non si è fatto alcuno scrupolo nel condannare indistintamente tutto il mondo delle organizzazioni impegnate in questo settore, gettando un’ombra che si allunga fino ad oggi e condiziona non poco le dinamiche territoriali.(…) Anche in questo caso la domanda sorge spontanea: in un sistema nel quale il ruolo delle organizzazioni del privato sociale è essenziale per garantire la tenuta dell’accoglienza, nel quadro degli accordi con lo Stato, quale vantaggio traggono alcuni rappresentanti delle istituzioni dal costante discredito nei confronti delle ONG?”
Nata nel 1987, la Fondazione Migrantes è l’organismo costituito dalla Conferenza Episcopale Italiana (Cei) per assicurare l’assistenza religiosa ai migranti, italiani e stranieri, per promuovere nelle comunità cristiane atteggiamenti ed opere di fraterna accoglienza nei loro riguardi, per stimolare nella stessa comunità civile la comprensione e la valorizzazione della loro identità in un clima di pacifica convivenza rispettosa dei diritti della persona umana. Le attività operative di Fondazione Migrantes sono l’organizzazione e la promozione della Giornata Nazionale delle Migrazioni, convegni periodici di coordinamento, e la pubblicazione della rivista Migrantes ed di altri compendi come i Quaderni di “Servizio Migranti”.
La fondazione della Cei è anche molto attiva sulla questione riguardante l’integrazione di rom, sinti e caminanti. Per questo motivo, collabora attivamente con l’Associazione 21 Luglio, tra le più finanziate dalla Open Society Foundations di George Soros. Sempre affiancata da Caritas Italiana, Fondazione Migrantes è stata tra i promotori di diversi eventi e campagne organizzate a favore degli immigrati e dell’immigrazione no border. Tra questi ricordiamo: la marcia dello scorso anno a Milano “20 maggio senza muri”, la campagna “Ero straniero – L’umanità che fa bene”, la sottoscrizione dell’appello “No ai decreti Minniti-Orlando su Immigrazione e Sicurezza” e la petizione “L’Italia sono anch’io” per chiedere l’introduzione immediata della legge sullo ius soli. Come Don Francesca Soddu di Caritas Italiana, anche Monsignor Perego, direttore generale di Fondazione Migrantes, si è scagliato contro le inchieste che hanno visto coinvolte le ONG: “Credo che queste accuse abbiano dietro una visione ipocrita e vergognosa di chi non vuole salvare in mare persone in fuga.(…) Voltare la faccia dall’altra parte o puntare il dito contro le organizzazioni internazionali, che stanno dando una grossa mano nel salvataggio in mare nel Mediterraneo, credo che sia un’operazione da condannare”. E non solo, Perego sulla situazione demografica italiana dichiara: “in un Paese che sta morendo, nel 2016 150.000 morti in più rispetto alle nascite, e che può trovare un suo futuro in percorsi di “meticciato”, come più volte ha detto il card. Scola”.
Nel 2000, nasce la Fondazione Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (JRS), con l’obiettivo principale di contribuire a promuovere una cultura dell’accoglienza e della solidarietà, a partire dalla tutela dei diritti umani. Il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, legato appunto alla Compagnia di Gesù, è attivo in più di 40 nazioni e la sua attività missionaria è stata costellata da numerosi scandali legati alla pedofilia e alla violenza sui minori. Nel 2007, l’ordine dei Gesuiti pagò 50 milioni di dollari per risarcire 110 eschimesi abusati in una loro struttura tra il 1961 e il 1987, mentre in Oregon, nel 2011, dovette risarcire con 166 milioni di dollari centinaia di nativi americani che avevano subito abusi sessuali da parte di alcuni preti tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta. In Germania nel 2010, grazie alle indagini della dottoressa Ursula Raue, incaricata dalla Chiesa dell’allora pontefice Ratzinger, si scoprì che centinaia di bambini e ragazzi furono violentati o brutalmente percossi per decenni nelle istituzioni scolastiche dei gesuiti, e per decenni l’ordine preferì sistematicamente coprire e insabbiare le denunce. La missione del Centro Astalli è “accompagnare, servire e difendere i diritti dei rifugiati” e questa si sostanzia in numerose attività rivolte all’accoglienza degli immigrati nel nostro Paese (per i gesuiti tutti gli immigrati sbarcati in Italia diventano immediatamente rifugiati). I servizi di Astalli direttamente rivolti agli immigrati sono: strutture di accoglienza come il Centro San Saba, la Casa di Giorgia (con servizio di baby sitting incluso), Il Faro (con corsi di preparazione all’esame per la patente di guida) e il Centro Pedro Arrupe (con annesso campo sportivo), tutti beneficiari del circuito dei fondi pubblici per l’accoglienza del sistema SPRAR; ambulatori e mense; il Centro SaMiFo che offre agli immigrati assistenza medica sia di base sia specialistica presso diversi ambulatori di psichiatria, psicologia, ginecologia, ortopedia e medicina legale, con un approccio “particolarmente sensibile all’identità culturale dei pazienti e alla questione di genere”; corsi di italiano e di inglese, formazione scolastica per conseguire diplomi e laboratori musicali; centro d’ascolto e orientamento socio-legale con annessa “preparazione all’intervista con la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale” e visite settimanali degli operatori legali negli uffici della Questura e nel centro di identificazione ed espulsione di Roma per offrire agli immigrati la possibilità di presentare domanda d’asilo in Italia; corsi professionali e tirocini; sostegno economico iniziale (canone di affitto, utenze domestiche). Oltre alle attività direttamente legate all’accoglienza degli immigrati, il Centro Astalli entra anche nelle scuole italiane “puntando sui giovani per gettare le basi di una società interculturale e inclusiva, in cui le diversità etniche, linguistiche e religiose siano considerate una ricchezza e non un ostacolo per il nostro futuro”. I progetti organizzati nelle scuole, Finestre – Storie di Rifugiati (patrocinato da UNHCR) e Incontri, hanno già coinvolto migliaia di studenti che hanno avuto la possibilità di ascoltare diverse testimonianze dirette di immigrati di religioni differenti. Un vero percorso di indottrinamento ideologico dei bambini e dei ragazzi delle scuole. Centro Astalli ha avviato altresì dei progetti ad hoc per sostenere l’accoglienza degli immigrati “cogliendo l’opportunità dei progetti finanziati per accompagnare i rifugiati nel loro difficile percorso verso l’integrazione in Italia, in una stagione di crisi economica e in un clima di indifferenza, se non di ostilità, nei loro confronti”. Tra questi: TOGETHER – Costruiamo insieme il futuro, finanziato da Fondazione Cariplo e in partenariato con Save The Children, rivolto ai minori non accompagnati; RICO – Rafforzare #Integrazione, Costruire #Ospitalità, finanziato dal ministero dell’Interno e in partenariato con la CRS (Cooperativa Roma Solidarietà) di Caritas Roma e il Dipartimento Politiche Sociali, Sussidiarietà e Salute di Roma Capitale; COH – Communities of Hospitality e PEB – Protection at External Border (progetto avviato lungo i confini dell’Unione Europea “per accompagnare i migranti nei loro bisogni essenziali, ma anche per documentare le violazioni dei diritti umani che si verificano sempre più spesso, nella convinzione che la tutela della vita umana debba essere sempre anteposta alla protezione delle frontiere”), finanziati da occulti donatori privati e in partenariato con gli altri Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati europei; FARI – Formare Assistere Riabilitare Inserire, finanziato dal ministero dell’Interno e in partenariato con Azienda Sanitaria Locale Roma 1, Programma Integra di Caritas Roma e CeSPI (Centro Studi di Politica internazionale presieduto da Piero Fassino). Molti dei progetti conclusi sono stati finanziati dalla Commissione Europea. Il 9 aprile scorso, il Centro Astalli ha presentato il report annuale alla presenza di Monica Maggioni, presidente della Rai, Marco Damilano, direttore de L’Espresso, Felipe Camargo, rappresentante dell’Ufficio Regionale per il Sud Europa dell’UNHCR, Padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli. I saluti iniziali sono stati tenuti da Padre Fabio Baggio, sottosegretario di Bergoglio per la Sezione Rifugiati e Migranti del Dicastero per lo sviluppo umano integrale. Ovviamente non poteva mancare una chiara propaganda pro-immigrazione contro le autorità libiche che stanno di fatto diminuendo, con le operazioni della propria Guardia Costiera, il flusso migratorio verso l’Italia: “Ad aprire la conferenza la testimonianza di Moussa, rifugiato maliano, che ha vissuto l’esperienza del carcere in Libia”. Uno degli eventi caratterizzanti del Centro Astalli del 2018 è il corso di formazione “Aiutarli a casa loro?” in collaborazione con la Pontificia Università Gregoriana. L’incipit del comunicato stampa spiega dettagliatamente l’ideologia alla base del corso: “Protezione è sentirsi a casa. I rifugiati non possono sentirsi a casa nei Paesi europei, dove la legislazione spinge ad autorizzare soggiorni sempre più temporanei e precari e, allo stesso tempo, nazionalismi e movimenti identitari marginalizzano e discriminano anche chi è presente da tempo. Si argomenta – e anche la riforma del Sistema Comune d’Asilo Europeo va in questo senso – che le persone possono ottenere protezione sufficiente anche nei Paesi di transito, dove in varie modalità sono trattenuti o respinti i migranti che tentano il viaggio verso l’Europa. Ma qual è la realtà di questi Paesi? Come viene trasformata dall’intervento e dalle politiche dell’Unione europea e dei singoli Stati membri? Infine un numero crescente di persone non avrebbe titolo alla protezione internazionale e viene quindi rimpatriata, in forma volontaria o forzata. Che situazioni si trovano ad affrontare le persone dopo il rimpatrio? E quali sono le cause di queste situazioni, che non di rado si intrecciano con gli interessi economici e politici degli stessi Stati europei che valutano sicuri quei territori?” Coerentemente con la propaganda pro-immigrazione, subito dopo le prime inchieste delle procure italiane sull’ambiguo operato delle Ong davanti alle coste libiche, il Centro Astalli pubblica un comunicato stampa dal titolo “Vittime in mare davanti a un’Europa in cui soccorrere sembra essere un reato”. Ovviamente, neanche i gesuiti vogliono la fine del flusso migratorio verso l’Italia: come potrebbero altrimenti beneficiare dei fondi Sprar del governo italiano? Il Centro Astalli, come Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, partecipa attivamente alle campagne e agli eventi organizzati dalle associazioni finanziate dalla Open Society Foundations di George Soros: “Ero straniero. L’umanità che fa bene”, “Non aver paura. Apriti agli altri, apri ai diritti”, “L’Italia sono anch’io”, “Fermare la strage. Subito!”, “Not my Europe”, solo per citarne qualcuno. Allo stesso tempo, il Centro Astalli è partner diretto di diverse associazioni sorosiane come Associazione Carta di Roma, Associazione 21 Luglio e A Buon Diritto. I principali finanziatori del Centro Astalli sono Roma Capitale, la Conferenza Episcopale Italiana (Cei), la Fondazione Migrantes, l’Elemosineria del Santo Padre, la Fondazione BNL, il Segretariato Sociale Rai, la Federazione delle Chiese Evangeliche e ovviamente i fondi Sprar. Nel 2017, i fondi raccolti sono stati pari a 3,2 milioni di euroanche grazie ai contributi del 5×1000. I donatori privati sono stati solo il 22% del totale: un’associazione quindi operativa grazie alle donazioni del Vaticano e del governo italiano. Come relatrice della conferenza di presentazione del report annuale 2017, il Centro Astalli ha invitato l’anticlericale, abortista e favorevole all’eutanasia Emma Bonino, forse seguendo le linee-guida di Bergoglio che, nel 2016, ricevette l’esponente radicale in udienza privata in Vaticano. Non potevano quindi mancare progetti sviluppati grazie ai finanziamenti della Open Society Foundations di George Soros: uno di questi è “eUnify!”, video contro la xenofobia girato presso la sede di Palermo del Centro Astalli. Nel 1993, il Sinodo delle chiese valdesi e metodiste ha deciso di avvalersi della norma di legge che consente a una confessione religiosa riconosciuta dallo stato italiano ai sensi di un’intesa (articolo 8 della Costituzione) di accedere alla riscossione di una quota del gettito dell’otto per Mille dell’Irpef. Così nasce 8×1000 Chiesa Valdese. I fondi ottenuti dalla Chiesa Valdese sono “unicamente per progetti di natura assistenziale, sociale e culturale”, e negli ultimi anni la maggioranza di questi sono serviti per finanziare programmi riguardanti l’accoglienza in Italia. Nel 2016, i fondi ricevuti grazie all’8×1000 sono stati quasi 38 milioni di euro. Il progetto, che vede esplicitamente impegnata la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) e l’impiego diretto dei fondi dell’8×1000 è Mediterranean Hope (MH). Il progetto MH nasce nei primi mesi del 2014 “dalla consapevolezza della drammaticità delle migrazioni via mare dai paesi del Nord Africa, Africa subsahariana e Medioriente verso le coste siciliane e, in particolare, verso l’avamposto più meridionale costituito dall’isola di Lampedusa”. Si struttura in due attività correlate: da una parte la tradizionale accoglienza e dall’altra la propaganda e le pressioni politiche di denuncia a proposito delle violazioni dei diritti umani dei migranti e della mancanza di norme in materia di diritto d’asilo. Il progetto si sostanzia in tre strutture di accoglienza (Lampedusa, Scicli e Casal Damiano a Campoleone) e nell’organizzazione e gestione dei corridoi umanitari da Libano, Marocco ed Etiopia, in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio. L’8×1000 della Chiesa Valdese finanzia una miriade di progetti di associazioni chiaramente pro-immigrazione irregolare e indotta[15]. Tra queste troviamo le sorosiane Associazione 21 Luglio, A Buon Diritto, ASGI, MEDU, Arci, Lunaria, Antigone, Naga, Associazione Carta di Roma, CIR Rifugiati e Cospe Onlus. Francesca Totolo
· Il business dell’accoglienza.
Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.
L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.
Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.
Luca Casarini e la cena in oratorio per Mediterranea. Il sindaco: "Vergogna, soldi per aiutare gli scafisti". Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. "Una vergogna". Così Roberto Di Stefano, primo storico sindaco di centrodestra di Sesto San Giovanni, definisce la "cena solidale per Mediterranea" organizzata dall'Oratorio della parrocchia della Resurrezione della ex Stalingrado d'Italia per, parola del primo cittadino, "aiutare gli scafisti". L'evento è previsto per il 27 novembre e il costo per partecipare alla serata è di 25 euro per gli adulti e 15 per i bambini. "Il ricavato - sottolinea ancora Di Stefano - verrà interamente devoluto alla ong che si vanta di salvare vite umane in mare, quando invece nei fatti aiuta gli scafisti a riempire di clandestini il nostro paese. Trovo assurdo, inoltre, che l'evento si svolga all'interno di un oratorio: è inconcepibile che la parrocchia presti il fianco a una iniziativa puramente politica e ovviamente orientata a sinistra come fosse un circolo del Pd o un centro sociale". Tra i capi-missione di Mediterranea, ricorda ancora polemicamente il sindaco di Forza Italia, c'è Luca Casarini, diventato noto alle cronache nazionali per essere stato uno dei leader carismatici dei No Global che 18 anni fa "misero a ferro e fuoco Genova durante il G8". "La scorsa primavera – continua Di Stefano – Casarini è stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dopo aver caricato illegalmente 49 migranti sulla sua nave Mar Jonio per portarli nel nostro paese sfidando apertamente lo Stato italiano". "I cittadini - conclude -, come dimostrato in diverse tornate elettorali, vogliono infatti porti chiusi e non spalancati a finti profughi: la sinistra se ne faccia una ragione, anziché concentrarsi continuamente sugli immigrati".
Cena per Mediterranea all'oratorio, il sindaco di Sesto attacca: "Amici degli scafisti". La Ong annuncia querela. Il 27 la Ong che salva vite umane organizza una serata di finanziamento, il sindaco di centrodestra scrive: "Inconcepibile, la chiesa non è un centro sociale". Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 15 novembre 2019. Il sindaco di Sesto San Giovanni Roberto Di Stefano l'ha ribattezzata "la cena per finanziare chi aiuta gli scafisti". E per questo Mediterranea, che gratuitamente salva esseri umani in mare, è pronta a querelare. E' polemica sull'incontro organizzato per il 27 novembre nell'oratorio della parrocchia della Resurrezione del comune alle porte di Milano, la 'Stalingrado d'Italia', passata nel 2017 al centrodestra per la prima volta dal Dopoguerra. L'incontro serve per finanziare la Ong che in questi ultimi anni ha aiutato i migranti nel Mediterraneo, alla cena sarà presente Luca Casarini, storico leader dei no global. "E' inconcepibile che la parrocchia presti il fianco ad una iniziativa politica come fosse un centro sociale qualsiasi", ha spiegato Di Stefano, che oltre a guidare il Comune è anche marito della europarlamentare leghista Silvia Sardone. Sotto il suo post su Facebook, si leggono decine di insulti alla Ong. Così risponde Mediterranea: "Non fossero bastate le parole del sindaco, abbiamo deciso di farci del male leggendo i commenti sotto il post. Abbiamo, è proprio il caso di dirlo, nuotato in un mare di odio che non credevamo fosse possibile. Se ci siamo imbarcati nell'organizzazione di questo evento è perché non vogliamo più vedere immagini di corpi inermi in quel mare che chiamavamo "nostro" e che oggi è diventato un confine tra la vita e la morte. Se lo facciamo è perché sentiamo il peso di tanto male". La cena appena lanciata e pensata per 100 persone alla parrocchia Resurrezione di via Pisa, dopo l'attacco di Di Stefano ha già avuto 80 prenotazioni. Effetto alla rovescia di quello sperato dalla destra. "A chi odia rispondiamo con il sorriso", replicano da Mediterranea Saving Humans. "Quando un sindaco utilizza argomenti così meschini e falsi per offendere e incitare all’odio - aggiunge Erasmo Palazzotto di Sinistra Italiana - LeU - vuol dire che siamo ben oltre il livello di guardia: che poveretto un sindaco come quello di Sesto San Giovanni che definisce scafisti chi salva le vite in mare per raggranellare un po’ di visibilità".
Adesso la Cgil ci fa sborsare 160 milioni per gli immigrati. Cgil e Asgi (finanziata da Soros) fanno ricorso contro la tassa di soggiorno. Un giudice dà loro ragione. E lo Stato paga. Mauro Indelicato, Venerdì 15/11/2019, su Il Giornale. Una vicenda che si è trascinata per anni si è conclusa con la prospettiva, oramai molto concreta, di un esborso dei contribuenti italiani da 160 milioni di euro. Un giudice di Lecco ha dato ragione a Cgil ed Asgi (Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione) in merito ad una disputa giudiziaria che andava avanti da almeno sei anni e che ha avuto come oggetto l’imposta applicata a chi ha il permesso di soggiorno. Adesso lo Stato italiano dovrà restituire una media di 160 euro a testa a qualcosa come 1.134.000 titolari di permesso determinato. Ma, per ricostruire per intero la vicenda, occorre andare per ordine: nel 2011 il governo Berlusconi IV ha introdotto un’imposta sul permesso di soggiorno variabile dagli 80 ai 200 euro, a secondo delle motivazioni e della durata della concessione. Si è trattato, in un momento storico in cui la crisi iniziava a scalpitare ed in cui si iniziava a parlare di spending review, di un contributo aggiuntivo richiesto a coloro che ottenevano il diritto di rimanere in Italia volto a fornire loro servizi e diritti. Prima dell’introduzione dell’imposta, come ricorda La Verità, lo straniero che otteneva il permesso pagava solo una marca da bollo di 16 euro, il costo di stampa del documento e la spedizione postale. Il provvedimento varato da Berlusconi è stato poi confermato negli anni successivi. Poi nel 2013 è arrivata l’impugnazione da parte di Cgil. Il sindacato, in particolare, ha ritenuta ingiusta l’imposta in quanto in poche parole andrebbe a gravare su soggetti più vulnerabili, quali i migranti titolari di permesso di soggiorno. Ed è iniziata così la lunga trafila giudiziaria tra ricorsi al Tar, al Consiglio di Giustizia Amministrativa ed alla fine anche alla Corte di Giustizia Europea, che nel 2015 ha giudicato l’imposta “sproporzionata”. Una sentenza quella che ha poi aperto molte maglie, con lo stesso Tar che ha annullato il decreto del 2011 invitando la pubblica amministrazione ad una più equa disposizione dell’imposta e, contestualmente, anche alla restituzione di quanto pagato ai titolari di permesso. Nel 2016 il governo Renzi ha varato una nuova tassa con tariffe ridotte, le quali hanno previsto un importo di massimo 130 euro. Il caso è poi arrivato a Lecco in quanto il locale Caf della Cgil ha sollevato la questione della restituzione del pregresso. Ovvero, vista la sentenza del 2015 e la nuova legge del 2016, il sindacato ha iniziato a premere sulla restituzione di quanto pagato dai titolari di permesso di soggiorno dal 2011 al 2016. L’avvocato Cinzia Gandolfi ha assistito 50 soggetti per conto del Caf della Cgil che reclamavano per l’appunto la restituzione di quanto pagato. A conti fatti, una media di 160 euro a testa. Ed ecco che si è arrivati dunque alla sentenza dei giorni scorsi: il giudice del tribunale di Lecco ha dato ragione alla Cgil, accogliendo la class action portata avanti assieme ai legali dell’Asgi. Lo Stato non dovrà soltanto risarcire i 50 titolari di permesso in questione, ma tutti coloro che hanno avuto applicate quelle tariffe ritenute poi sproporzionate. Come detto in precedenza, nel nostro paese ad essere interessati dalla restituzione delle 160 euro sono almeno 1.340.000 soggetti titolari di permesso determinato. La sentenza arrivata dalla cittadina lombarda dunque, potrebbe costare 160 milioni di euro.
Il Pd si rituffa nel business-migranti. Fanno gola i fondi per l'accoglienza: 700 euro l'anno a straniero. Antonella Aldrighetti, Lunedì 11/11/2019, su Il Giornale. La tentazione del Pd di accaparrarsi anche una fetta delle politiche sull'accoglienza mettendo in piedi l'Authority per gli immigrati cresce di ora in ora. Tanto più che l'ente sarebbe totalmente svincolato dalla durata del traballante governo Conte due. Tre anni almeno e con i vertici ripartiti tra Italia Viva e Leu oltre alla schiera d'apparato di segretari e portaborse: una svolta per rastrellare un po' di voti, in caso di elezioni anticipate, da onlus, enti benefici e cooperative. Senza nulla togliere alle politiche del Viminale, i commissari si metterebbero subito all'opera per accaparrarsi anche i consensi di quei sindaci che hanno storto il naso quando è entrato in vigore il primo Decreto Sicurezza di Matteo Salvini. Il provvedimento infatti ha depauperato tutti gli Sprar (i servizi di accoglienza per i richiedenti asilo), escludendo chi ancora non aveva il titolo di rifugiato, lasciando nelle comunità solo una manciata di minori. L'Authority potrebbe riformulare la ripartizione dei richiedenti asilo con un espediente in modo tale da riservargli un trattamento di favore, fuori sì dalle grandi città, ma non distante dalle comunità dell'hinterland. E non è marginale neppure l'introito che ogni sindaco recupererebbe mettendo in piedi uno o più progetti per l'accoglienza. Almeno 700 euro l'anno a straniero ospitato come previsto dall'ultimo decreto Minniti già per gennaio 2018. Piaceva parecchio ai sindaci il motto «più l'ente locale accoglie più viene finanziato, meno accoglie più è penalizzato». A dicembre 2017 con il decreto Mezzogiorno l'allora governo Gentiloni aveva conteggiato che l'entità della prima tranche di soldi da sborsare nel 2018 per l'accoglienza diffusa si aggirava sui 150 milioni di euro indirizzati ai comuni parte attiva nei servizi di protezione per i richiedenti asilo. Lo scopo era quello di incoraggiare le realtà locali a occuparsi direttamente dei progetti di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento e costruire percorsi di inserimento socio-economico. Ecco qui che l'Authority di garanzia dei migranti andrebbe a innestare il suo ruolo anche in questo settore. Non è peregrino rammentare il famoso modello allestito dall'ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, che fin dal 2004 aveva utilizzato le molte case abbandonate del paese per ospitare centinaia di richiedenti asilo. Ma non solo. Lavorava sul doppio binario: favoriva l'accoglienza diffusa e anche su quella straordinaria dei Cas. Il Pd, con i commissari per l'immigrazione, vorrebbe ritornare indietro nel tempo. Come se i 15 mesi di Salvini al Viminale potessero essere cancellati con un colpo di spugna. E con essi anche le tendenze di voto degli italiani, il pentimento di aver votato Cinquestelle e il disappunto - per essere cortesi nei confronti di Giuseppe Conte. Lui che per Salvini oramai è anche «l'avvocato delle cause perse e dei clandestini».
Da Mineo a Cona, il piano Pd per riaprire i centri. I dem e l'idea di rimettere in piedi il sistema di accoglienza. I costi: 150 milioni per partire. Antonella Aldrighetti, Mercoledì 28/08/2019 su Il Giornale. Governo giallorosso o governo di scopo per traghettare gli italiani alle elezioni della prossima primavera, per gli strenui propugnatori dell'accoglienza, non è sostanziale. L'obiettivo piuttosto, una volta allontanato Matteo Salvini dal Viminale, risiede nel riaprire velocemente i centri Cas chiusi in questi 15 mesi. Non riuscendo a cancellare con un colpo di spugna i decreti Sicurezza e Sicurezza bis l'obiettivo che si prefiggono i fiancheggiatori del Partito democratico è diventato piuttosto quello di accogliere i neo arrivati, presunti profughi, scaricati dalle navi delle Ong e rimettere in moto la macchina dell'invasione. Di fatto è stata interrotta sia l'era dei porti chiusi che quella degli sbarchi fantasma nelle calette e rade siciliane. Onlus, cooperative sociali, enti benefici ripartono proprio da dove aveva lasciato il governo Gentiloni. Tant'è che l'esercito dei benefattori si sta rimettendo all'opera assieme a sindacati e patronati per realizzare velocemente un progetto da sottoporre al futuro ministro dell'Interno e ridare ossigeno a quell'elettorato attivo che costituisce l'esercito degli operatori umanitari, degli assistenti di comunità e collaboratori del mondo dell'interpretariato sociale che era rimasto a secco di risorse fresche. Matteo Salvini ha chiuso, in ordine, i centri di accoglienza straordinaria di Cona e Bagnoli in Veneto, di Borgo Mezzanone in provincia di Foggia, quello di Castelnuovo di Porto a due passi da Roma e la smisurata realtà di Mineo a pochi chilometri da Catania. Non ultimo ha abbattuto la baraccopoli di San Ferdinando a Reggio Calabria. Riavviando le pratiche per aprirli di nuovo la sinistra sa bene di riuscire a mettere le mani su un plafond di 150 milioni almeno. Conteggiati solo come spesa preventiva. A oggi l'idea che campeggia tra i Dem è proprio quella di è rimettere in moto la macchina dell'ospitalità facendo leva sul buon cuore degli italiani contro la cattiveria dell'orco Salvini. Obiettivo prioritario è riaprire Mineo. Che consentirebbe di distribuire soldi a pioggia pari a circa 41 milioni di euro e riattrezzare i 2.400 posti. Senza contare l'appalto milionario per la ristrutturazione delle casette e dei giardinetti circostanti. A seguire la riattivazione di Borgo Mezzanone. Qui la torta, a preventivo, sarebbe di 32 milioni annui per 650 posti. E ancora Castelnuovo di Porto dove la cooperativa Auxilium è in trepidazione per partecipare a quello che potrebbe essere il nuovo appalto milionario: 21 milioni iniziali all'anno per 500 ospiti. Più cauti si dovrà andare in Veneto tra Cona e Bagnoli (gli ultimi impegni di spesa sono stati di 20 e 30 milioni rispettivamente): qui però la popolazione locale e altrettanto l'amministrazione ha intenzione di opporsi con tutte le proprie forze alla riapertura d'imperio dei ghetti. Allo stesso modo non sono da sottovalutare gli appalti assegnati e poi congelati per le tensostrutture portuali a Reggio Calabria. Risorse complessive dell'ordine di qualche milione. Insomma conclusasi l'era salviniana si riparte peggio di prima. La corsa per il recupero dei 15 mesi perduti potrebbe interessare anche altri capitoli dei decreti Sicurezza: la rievocazione dello spauracchio della protezione umanitaria e l'ospitalità negli ex centri Sprar (ora Siproimi) non soltanto dei minori non accompagnati, come stabilito dalla normativa in vigore, ma riaprire le porte ai richiedenti asilo e ai diniegati che hanno fatto ricorso a certa magistratura docile dinanzi ai clandestini dichiarati.
L'uso della nave madre da parte degli scafisti non è affatto una novità. Venerdì la procura di Agrigento blocca nove scafisti e viene sequestrato un peschereccio definito come "nave madre" per piccoli barchini, che poi toccano terra lungo le coste italiane. Una tecnica non affatto nuova e già in passato nel mirino degli inquirenti. Mauro Indelicato, Sabato 22/06/2019, su Il Giornale. Desta non poco clamore l’operazione resa nota dalla procura di Agrigento nella giornata di venerdì, nella quale oltre a procedere con l’arresto di sette scafisti (che si vanno ad aggiungere ad altri due fermati in un’altra operazione ravvicinata) si pone sotto sequestro una cosiddetta “nave madre”. Un peschereccio che traina un barchino il quale, non molto lontano dalla costa (ma nemmeno tanto vicino) viene sganciato per farlo arrivare autonomamente a Lampedusa. Il video registrato da un drone dell’operazione Frontex, immortala questa situazione: si nota, in particolare, il peschereccio più grande con a bordo gli scafisti, alcuni egiziani ed altri libici, il quale traina il barchino di legno con almeno 81 migranti stipati al suo interno. Un video che desta ovviamente scalpore, ma che sembra anche arrecare con sé nell’opinione pubblica un certo “effetto sorpresa”. Eppure non è la prima volta che questo accade e viene notato dalla stessa procura di Agrigento. Lo scorso 26 novembre ad esempio, al quinto piano del palazzo che ospita gli uffici della procura della città dei templi si tiene un’importante conferenza stampa. Sul tavolo dinnanzi il procuratore Luigi Patronaggio, sono posizionate alcune foto che ritraggono la stessa scena visionata nelle immagini diffuse nelle scorse ore: in particolare, si nota un peschereccio che traina una piccola imbarcazione. In quel caso quest’ultimo natante sembra vuoto: i migranti a bordo infatti, vengono stipati all’interno della stiva, per evitare che proprio i mezzi aerei della Frontex possano notare la loro presenza. L’operazione dello scorso novembre, coordinata dalla procura agrigentina e svolta dalla Marina Militare a dalla Finanza, è la prima del genere ed è una delle più importanti nella storia del contrasto all’immigrazione clandestina. Infatti è la prima prova tangibile che, dietro il fenomeno degli sbarchi fantasma e degli approdi lungo le spiagge di Lampedusa e della Sicilia meridionale, vi sia la presenza di una “nave madre”. Contrariamente a quanto detto a più riprese nelle scorse ore, la tecnica di un peschereccio che poi molla il barcone a poche miglia dalla costa non è affatto nuova. A novembre il procuratore Patronaggio, in un’intervista proprio a margine di quella conferenza stampa, parla dell’importanza di quell’intervento investigativo peraltro molto rischioso: la nave madre in quel caso viene bloccata a poche miglia dalle acque territoriali tunisine al culmine di un lungo inseguimento in mare. “Questa procura – rivendica Patronaggio durante l’incontro con i giornalisti di novembre – Ha sempre avuto grande attenzione verso il contrasto dell’immigrazione. Voglio ricordare che proprio da qui lo scorso anno è partito l’allarme sul rischio terrorismo derivante dagli approdi lungo le coste agrigentine. Gli sbarchi fantasma non ce li siamo inventati noi”. Il vantaggio per le organizzazioni criminali di questo tipo di sbarchi, è multiplo: in primis, i veri scafisti hanno la possibilità di scappare trovando una via di fuga nelle acque internazionali, in questa maniera arrivano più facilmente nel porto di partenza lungo le coste libiche. In secondo luogo, è possibile utilizzare lo stesso mezzo per più traversate, “sacrificando” soltanto piccole imbarcazioni di legno. Infine, gli scafisti evitano di scendere assieme ai migranti con il forte rischio di essere poi identificati ed arrestati. Già da anni vige forte il sospetto delle azioni di navi madri nel Mediterraneo. Semplicemente venerdì si ha un’ulteriore conferma di questa modalità. Il clamore mediatico è forse più dettato dall’attuale braccio di ferro politico tra la nave Sea Watch 3 ed il governo italiano, con la procura di Agrigento più volte accusata in questo contesto di avvantaggiare indirettamente l'organizzazione non governativa. L'operazione in sé però, non rappresenta alcuna vera novità. Intanto, a proposito di sbarchi fantasma, il bel tempo oramai tipicamente estivo lungo le coste del Mediterraneo centrale pone molti timori soprattutto nella fascia costiera agrigentina. In particolare, vi è lo spauracchio dell’estate del 2017, quella caratterizzata da numerosi sbarchi fantasma che durante i mesi di quella stagione raggiungono ritmi anche di due o tre al giorno. Sbarchi che, in più occasioni, destano l’attenzione degli investigatori delle procure siciliane e dell’anti terrorismo.
Tutti i voli segreti degli aerei ong: così da Lampedusa portano in Italia le navi dei migranti. Alle barche vietato l’ingresso nelle acque territoriali, eppure due velivoli non governativi operano stabilmente da Lampedusa. Sono state registrate 78 missioni da gennaio agli inizi di giugno Anche due al giorno. E ogni ora arriva a costare 300 dollari. Fausto Biloslavo, Domenica 23/06/2019, su Il Giornale. Gli aerei delle Ong decollano da Lampedusa per individuare i gommoni dei migranti partiti dalla Libia poi raccolti in mare dai talebani dell’accoglienza come Sea watch. Il Giornale è in possesso delle documentazione sulle 78 missioni dei velivoli Colibrì e Moonbird, dal primo gennaio agli inizi di giugno. Solo 24 sono partite da Malta, che rimane un punto di appoggio. Però la base principale è Lampedusa. Secondo un ex pilota militare «volano tanto, anche una o due missioni al giorno. La durata è spesso lunga con un costo che può aggirarsi sui 300 dollari all’ora». I bilanci di Sea watch certificano che «l’operazione Moonbird» è costata nel 2017 e 2018 ben 622.376 euro donati in gran parte dalla Chiesa evangelica tedesca. Da gennaio tutti i casi di braccio di ferro fra gli irriducibili tedeschi di Sea watch 3 e il Viminale, compreso l’ultimo in corso, con una quarantina di migranti a bordo della nave al limite delle acque territoriali, sono nati da un avvistamento di uno dei due aerei che decollano da Lampedusa. Moonbird, il velivolo di Sea watch in collaborazione con la svizzera «Humanitarian pilote initiative», ha effettuato dal primo gennaio al 4 giugno ben 49 voli, in gran parte dall’isola italiana. Nella tabella delle partenze è decollato solo 15 volte da Malta, base principale fino alla cacciata dello scorso anno. Moonbird è protagonista della prima sfida al governo italiano di quest’anno del 18 gennaio. Alarm phone, il centralino dei migranti, riceve la telefonata da un natante partito dalla Libia. E allerta il velivolo che individua il gommone. I dati in possesso del Giornale indicano che Moonbird è partito da Lampedusa il 18 gennaio, poi è rientrato, dopo oltre 4 ore di volo ed è ripartito atterrando in serata a Malta. Dopo l’avvistamento i piloti inviano le coordinate del gommone alla nave Sea watch 3, che recupera 47 migranti 30 miglia a nord di Zwara, in zona di soccorso (Sar) libica. I tedeschi puntano sull’Italia e il 30 gennaio, dopo un braccio di ferro durato 13 giorni, sbarcano i migranti a Catania. Sea watch viene sequestrata, ma il 22 febbraio è libera di salpare verso Marsiglia per lavori e l’11 maggio torna in mare. Quattro giorni dopo l’altro aereo delle Ong, Colibrì, decolla da Lampedusa poco dopo le 8 del mattino e individua un gommone con 65 migranti sempre salpati dalla Libia. Sea watch 3 li recupera come da copione e si dirige verso le coste italiane. Il Viminale nega lo sbarco, ma il 19 maggio il procuratore di Agrigento autorizza l’ingresso in porto per sequestrare la nave e far scendere i migranti. Il fermo dura poco: il 10 giugno gli irriducibili tedeschi sono già in mare. L’unico indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è il comandate italiano, Arturo Centore. Il resto dell’equipaggio non subisce alcuna restrizione e tanto meno i piloti del Colibrì. Il velivolo di ricognizione è della piccola Ong francese, Pilotes Volontaires. L’Organizzazione umanitaria fondata a Chamonix è presieduta da Jose Benavente Fuentes «con 25 anni di esperienza in aiuti umanitari e pilota dal 2006» secondo il sito ufficiale. Il pilota di linea esperto è Benoit Micolon che ha 6mila ore di volo sui Boeing 747. Gli «umanitari» avrebbero investito 130mila euro per comprare Colibrì, ma in realtà sono aiutati da Sea watch. «Al costo delle ore di volo va aggiunta la manutenzione, l’assicurazione, che può incidere per 80mila euro l’anno e le tasse aeroportuali. Un discreto giro di soldi» spiega la fonte del Giornale, che ha servito nell’Aeronautica militare.
Chi finanzia, come e quanto la Sea Watch ed i suoi "volontari". Stipendi da 2000 euro per i "marinai" e finanziamenti per milioni di euro l'anno. Ecco i conti della Ong che gestisce la nave dei migranti. Panorama il 28 giugno 2019. Sulla vicenda della Sea Watch, la nave della Ong tedesca ma battente bandiera olandese bisogna fare subito due precisazioni. La prima: i sedicenti «volontari» della Sea Watch 3 percepiscono uno stipendio che oscilla tra i 1.500 e i 2.000 euro per tre settimane di lavoro, quindi sono tutt' altro che volontari, almeno nell' accezione corrente italiana. La seconda: la Ong tedesca - armatore del peschereccio trasformato in nave acchiappa migranti nel Mediterraneo - ha un fatturato da piccola e florida azienda di navigazione. Tra il 2017 e il 2018 ha incassato infatti ben 3,5 milioni di euro, provenienti da donazioni e liberalità, coi quali ha finanziato i viaggi e pagato le spese di struttura. Ancora oggi, sul sito dell'organizzazione non governativa, è aperta una sottoscrizione (a cui si può partecipare versando pure in bitcoin) per «sponsorizzare» nuove spedizioni al largo della Libia: la colletta ha raggiunto 50.000 euro, mentre altri 100.000 sono stati raccolti online per sostenere le spese legali della «capitana» Carola Rackete quando l'autorità giudiziaria le contesterà la violazione delle disposizioni previste dal decreto Sicurezza bis e l'ingresso non autorizzato nelle acque territoriali italiane. Tra i simpatizzanti che sostengono l'ente ci sono la Chiesa evangelica tedesca; Anton Hofreite (capogruppo dei Verdi al Bundestag); Gregor Gysi (ex leader della Germania Est all' epoca di Michail Gorbaciov); l' ex europarlamentare del Pd Elena Ethel Schlein; solo per citarne alcuni. Gli schemi contabili dell' organizzazione non governativa raccontano ciò che la narrazione progressista mainstream tenta di ridurre a insignificanti note a piè di pagina e, se possibile, di nascondere del tutto, perché con i numeri le manipolazioni politiche sono impossibili. E allora leggiamole, queste cifre riferite all' anno appena trascorso. Il monte salari dell'equipaggio è stato di 784.000 euro. Dunque, chi sfida le onde per «salvare i migranti» lo fa dietro compenso. Come un qualsiasi lavoratore dipendente.
Sea Watch, i costi dell'equipaggio: buonisti a 2mila euro al mese. I capitani e gli equipaggi a bordo delle navi delle ong non fanno volontariato. Ma hanno uno stipendio: ecco quanto guadagnano. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Non chiamatelo volontariato. Perché quella delle Ong che fanno politica con gli immigrati è tutt'altro che semplice solidarietà. Fiumi di denaro scorrono nelle casse di tutte queste organizzazioni che vanno in tivù a predicare l'accoglienza e a sbraitare contro Matteo Salvini. Tutti ci guadagnano, anche il capitano e l'equipaggio delle imbarcazioni che pattugliano il Mediterraneo in cerca di disperati da portare sulle nostre coste. Spulciando tra i conti pubblicati su internet, si scopre infatti che il personale (di terra e di mare) arriva a prendere fino a 2mila euro al mese. "La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, a 23 anni mi sono laureata...". Carola Rackete è il capitano della Sea Watch 3. È stata lei a prendere la decisione di forzare il blocco imposto da Salvini e a portare la nave davanti al porti di Lampedusa. Ha detto di averlo fatto per i migranti. E per la stessa ragione ha raccontato di essersi imbarcata con l'ong tedesca. "Sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto, ho sentito l'obbligo morale di aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità". Come lei anche altri ultrà dell'accoglienza cercano di spacciare la vulgata del volontariato. Tra questi, per esempio, ci sono anche gli antagonisti guidati dall'ex tuta bianca Luca Casarini che hanno messo in piedi la "Mediterraneo Saving Humans" per aggirare il blocco del Viminale alle ong internazionali. In realtà tutti questi "volontari" sono tutti lautamente stipendiati. Le buste paga, come spiega QN, "variano da caso a caso" e "da mansione a mansione, ma ballano tra i 1.500 e i 2mila euro". Queste cifre trovano conferma nei conti della stessa Sea Watch. Stando ai registri, che l'ong ha pubblicato su internet e che risalgono fino all'ottobre del 2018, il team di terra e gli uffici di Berlino e Amburgo sono costati in totale 304.069,65 euro. Di questi, 230.060,08 sono serviti a coprire i costi del personale. Il "camp Malta" è costato altri 55mila e il team italiano ben 62mila, di cui 26.388,68 euro sono serviti a coprire gli stipendi del personale. Per quanto riguarda la nave, l'organizzazione non governativa non indica nello specifico il personalkosten (costo dell'equipaggio) come avviene, invece, per altre voci di spesa. Tuttavia, 102.172,57 euro sono segnati come externe dienstleister, ovvero "fornitori di servizi esterni". Di cosa si tratti di preciso, non è dato saperlo. Ma nel bilancio del team italiano, la stessa voce "externe dienstleister" è specificata come "costo del personale". È quindi plausibile che lo stesso valga per la Sea Watch 3, che avrebbe dunque sborsato oltre 102mila euro per stipendiare chi governa l'imbarcazione. Non poco rispetto all'1,2 milioni di euro raccolti l'anno scorso grazie alle donazioni. Che l'equipaggio e il capitano siano un costo ingente lo mette nero su bianco la stessa ong tedesca. "Con la messa in servizio di Sea Watch 3 - si legge nel documento consultato dal Giornale.it - la maggiore professionalizzazione e le nostre operazioni SAR vanno di pari passo, anche se vengono un po’ “schiacciate” dai costi. Il motivo? "La nave - si legge ancora - essendo grande ha bisogno di personale (capitani, meccanici, nostromi) addestrato con specifiche certificazioni e che venga assunto e pagato da noi almeno per la durata dell’intervento". Con simili spese si trovano a dover fare i conti tutti gli ultrà dell'immigrazione che hanno deciso di mettere in mare una nave per andare a recuperare i migranti fin davanti alle coste libiche. Stesso discorso vale, per esempio, anche per la Mare Jonio, l'imbarcazione della Mediterranea Saving Humans. Qui solo gli stipendi dell'equipaggio marittimo sono costati 81.177,13 euro, a cui poi vanno ad aggiungersi 30.880,61 euro per la logistica e i trasferimenti dello stesso equipaggio e 32.899,98 euro per coprire consulenze professionali di "legali, ingegneri, periti nautici, consulenti del lavoro e tecnici ambientali, per la sicurezza del lavoro e alimentari". Una montagna di denaro. Sapientemente utilizzata per far pressione sull'Italia e sbarcare immigrati sulle coste nostrane.
Fausto Biloslavo per ''il Giornale'' il 27 giugno 2019. La Chiesa evangelica tedesca, Anton «Toni» Hofreite, capogruppo dei Verdi nel Bundestag, Gregor Gysi, l'ultimo leader della Germania Est pro Gorbaciov, l'ex europarlamentare del Pd, Elena Ethel Schlein, sono alcuni dei principali sostenitori di Sea watch, la Ong talebana dell'accoglienza. Fra i testimonial è spuntato pure il cardinale Reinhard Marx. E per il 2019 il fabbisogno, come raccolta fondi, è di «110-130mila euro al mese» secondo l'Ong tedesca. In Italia la nave Mare Jonio, sotto sequestro dopo sbarchi illegali di migranti, è appoggiata addirittura dall'Arci con il 5 per mille, sindaci e organizzazioni di sinistra. L'Ong Open arms, appena attraccata a Napoli con la nave omonima, è nata con i fondi di una compagnia marittima spagnola, il Gruppo Ibazibal, ma ha ricevuto donazioni pure dall'attore americano Richard Gere e da una società calcistica come il Manchester city. Lo scorso anno Sea watch aveva raccolto 1.797.388,49 euro spendendo oltre il 55%, ovvero 784.210 euro per la sua nave già sequestrata tre volte dall'Italia e da Malta, che sta ciondolando davanti a Lampedusa con una quarantina di migranti a bordo. I principali sostenitori, che ci mettono la faccia, pubblicata sul bilancio della Ong estremista tedesca, sono un gruppo variegato di personaggi molto noti in Germania. Uno dei più attivi è il capogruppo dei Verdi nel Parlamento di Berlino, Hofreite, deputato dal 2005. Al suo fianco per aiutare Sea watch il discusso Gregor Gysi, leader riformista alla fine della Germania Est sopravvissuto al crollo del muro di Berlino. Anche l'attrice tedesca Katja Hannchen Leni Riemann e il gruppo rock di Amburgo, Revolverheld, sono testimonial e finanziatori di Sea watch. Una delle sostenitrice più influenti è Barbara Lochbihler, europarlamentare dal 2009 fino a quest'anno ed ex segretario di Amnesty international in Germania. A Strasburgo ha fatto proseliti: Elena Ethel Schlein è stata eletta eurodeputata del Pd nell'ultima legislatura, anche se nel 2015 ha lasciato il partito per aderire al movimento di Giuseppe Civati. In febbraio, dopo il primo sequestro di Sea watch 3, ha organizzato una raccolta fondi per i talebani dell'accoglienza. In quattro mesi ha raccolto da 48 sostenitori appena 3.567 euro che sono andati «direttamente a Sea watch per sostenere le loro operazioni». I talebani dell'accoglienza tedesca, Sea watch e Sea eye, su un portale ad hoc, «ringraziano le Chiese per la promozione del salvataggio in mare nel Mediterraneo». E pubblicano le dichiarazioni ed i volti di alti esponenti ecclesiastici come testimonial per le donazioni. Fra i sostenitori c'è anche il cardinale cattolico Reinhard Marx che si appella ai cristiani: «Finché ci sono persone che nella loro angoscia e disperazione si fanno strada attraverso il Mediterraneo, la nostra missione è la misericordia». E sotto si può donare qualsiasi cifra, che verrà così suddivisa: 10% ad Alarm phone, il centralino dei migranti che vuole sostituirsi ai Centri di soccorso degli Stati, 40% a Sea eye e Sea watch ed il rimanente 10% a Solidarity at sea, che sostiene legalmente gli equipaggi delle Ong «minacciati da un processo» per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Nel bilancio 2018 di Sea watch l'esborso dei 262.435 euro per l'aereo di ricognizione Moonbird, che decolla da Lampedusa individuando i gommoni dei migranti, è stato «sostenuto in modo significativo dalla Chiesa evangelica in Germania». È interessante spulciare nella raccolta fondi odierna di Sea watch organizzata sulla piattaforma tedesca Better place, dove sono stati già donati oltre 370mila euro. I finanziatori sono quasi 7mila, ma nella stragrande maggioranza anonimi con cifre che variano da 5 ad un massimo di 790 euro. Pochissimi i donatori che pubblicano il nome intero, come Ines Schimidt, 252 euro donati e raccolti per il suo compleanno. Alcuni rendono noto solo il nome con l'iniziale del cognome come Rosa R., che ha finanziato Sea watch due volte per un totale di 232 euro. In Italia la pseudo Ong Mediterranea, di nave Jonio sotto sequestro, ha raccolto 769.748,50 euro con 3306 sostenitori. Sulla sua pagina in rete cita come supporter i sindaci Leoluca Orlando di Palermo e Luigi de Magistris di Napoli, Greenpeace Italia e Fondo Fuocoammare creato sulla scia del successo del film che ha vinto l'Orso d'oro a Berlino nel 2016. Non mancano Comitato Addiopizzo, la Cgil, i Giuristi democratici, la Lega coop sociali Friuli-Venezia Giulia e Potere al Popolo di Palermo, orfani del comunismo duro e puro. Non solo: L'Arci fa strenua campagna per raccogliere il 5xmille a favore di Mediterranea. E Banca Etica, preferita dai parlamentari grillini, ha permesso l'acquisto della nave sotto sequestro con quasi mezzo milione di euro.
Simone Di Meo per “la Verità” il 28 giugno 2019. Subito due precisazioni. La prima: i sedicenti «volontari» della Sea Watch 3 percepiscono uno stipendio che oscilla tra i 1.500 e i 2.000 euro per tre settimane di lavoro, quindi sono tutt' altro che volontari, almeno nell' accezione corrente italiana. La seconda: la Ong tedesca - armatore del peschereccio trasformato in nave acchiappa migranti nel Mediterraneo - ha un fatturato da piccola e florida azienda di navigazione. Tra il 2017 e il 2018 ha incassato infatti ben 3,5 milioni di euro, provenienti da donazioni e liberalità, coi quali ha finanziato i viaggi e pagato le spese di struttura. Ancora oggi, sul sito dell'organizzazione non governativa, è aperta una sottoscrizione (a cui si può partecipare versando pure in bitcoin) per «sponsorizzare» nuove spedizioni al largo della Libia: la colletta ha raggiunto 50.000 euro, mentre altri 100.000 sono stati raccolti online per sostenere le spese legali della «capitana» Carola Rackete quando l'autorità giudiziaria le contesterà la violazione delle disposizioni previste dal decreto Sicurezza bis e l'ingresso non autorizzato nelle acque territoriali italiane. Tra i simpatizzanti che sostengono l'ente ci sono la Chiesa evangelica tedesca; Anton Hofreite (capogruppo dei Verdi al Bundestag); Gregor Gysi (ex leader della Germania Est all' epoca di Michail Gorbaciov); l' ex europarlamentare del Pd Elena Ethel Schlein; solo per citarne alcuni. Gli schemi contabili dell' organizzazione non governativa raccontano ciò che la narrazione progressista mainstream tenta di ridurre a insignificanti note a piè di pagina e, se possibile, di nascondere del tutto, perché con i numeri le manipolazioni politiche sono impossibili. E allora leggiamole, queste cifre riferite all' anno appena trascorso. Il monte salari dell'equipaggio è stato di 784.000 euro. Dunque, chi sfida le onde per «salvare i migranti» lo fa dietro compenso. Come un qualsiasi lavoratore dipendente. Nel 2018 le spese hanno assorbito 1,4 milioni mentre 784.000 euro sono serviti a finanziare l' organizzazione con sede Berlino. La quale, da qualche tempo, ha allargato la flotta a disposizione con un piccolo velivolo, di solito di stanza a Lampedusa, che viene fatto decollare per localizzare dall' alto i barconi e i gommoni dei trafficanti di esseri umani dai quali farsi consegnare i migranti. Non tutto è però facile come si immagina. I contrattempi (giudiziari) sono frequenti, facendo questo tipo di attività (favoreggiamento dell' immigrazione clandestina) ma non è un grosso problema, almeno dal punto di vista delle coperture finanziare. Per le spese legali sono stati staccati assegni per 31.000 euro mentre le tasse portuali hanno pesato per circa 100.000 euro sui conti della Ong. E per mangiare in mezzo al mare? Sono stati necessari 36.000 euro. Per le attività tecniche (telecomunicazioni e manutenzione dello scafo) la somma stanziata è stata di 99.000 euro. Il carburante è un' altra voce di bilancio particolarmente gravosa: l' anno scorso ha impegnato complessivamente 80.000 euro (il costo di un pieno mensile è di 25.000 euro, invece). Ai fornitori esterni, la Sea Watch ha pagato 102.000 euro mentre per la certificazione di classe di navigazione e di diritti di garanzia per la nave è stato necessario un bonifico di 192.000 euro. Il rigore nella tenuta contabile e l' abilità di far quadrare i conti dell' organizzazione si rispecchiano anche nella pianificazione quasi aziendalistica delle attività. A terra e in mare. Di solidarietà improvvisata la Sea Watch 3 ha niente. Anche il metodo di reclutamento è estremamente professionale come professionale dev'essere l' equipaggio che di volta in volta viene imbarcato in occasione delle missioni. Ogni viaggio dura in media 20 giorni, e il turnover è assai frequente perché le domande sono tante e i posti limitati: appena 22. Le posizioni lavorative aperte, fino ad aprile scorso, riguardavano i ruoli di capitano, ufficiali, ingegneri, elettricisti navali e social media-addetti stampa. Perché la comunicazione ha un ruolo fondamentale nella strategia di questa Ong fondata nel 2014 da Harald Hoppner, piccolo commerciante, nato in una famiglia della sinistra chic di Berlino, che gestisce due negozi di mobili e uno di abbigliamento. Analizziamo proprio la figura del capitano, ad esempio. La Ong richiede ovviamente una particolare preparazione tecnica («specialized skills», sono chiamate sul sito queste abilità) e psicofisica oltre che specifiche attitudini nel coordinamento dei collaboratori e nella gestione delle crisi. Tutto perfetto, solo che una piccola postilla nei requisiti ci ha incuriosito: viene considerato titolo preferenziale per la scelta del candidato la capacità di padroneggiare la lingua italiana. Una richiesta insolita considerato che l' inglese è l' idioma ufficiale che si parla a bordo del peschereccio dove convivono soggetti di diversa nazionalità in costante comunicazione tra loro. Sarà forse perché la sola e unica destinazione dei viaggi della Sea Watch 3 sono sempre le coste del nostro Paese? Sarà forse perché un capitano che parla italiano può agevolmente essere intervistato e accusare di fascismo il nostro governo?
Fatture false per 17 milioni: arrestato gestore centro accoglienza. L'impenditore Stefano Mugnaini, gestore di centri di accoglienza per migranti in provincia di Firenze, è stato arrestato con l'accusa di evasione fiscale di 3 milioni attraverso fatture false per 17 milioni. Lega: "Accoglienza come business". Gianni Carotenuto, Martedì 23/07/2019, su Il Giornale. Avrebbe evaso 3 milioni di euro tra il 2012 e il 2017 attraverso l'emissione di fatture false per circa 17 milioni di euro. Questa, riporta Adnkronos, l'accusa nei confronti dell'imprenditore fiorentino Stefano Mugnaini, gestore di centri di accoglienza per migranti in provincia di Firenze, in particolare nell'Empolese e in Valdelsa, ma che in passato è stato attivo anche a Firenze e in altre città toscane. Mugnaini, 44 anni, presidente del consorzio di coop Multicons, è stato posto agli arresti domiciliari dai militari del comando provinciale della Guardia di Finanza di Firenze e dai carabinieri della sezione di polizia giudiziaria della Procura della Repubblica. A firmare il provvedimento, con il quale è stato disposto anche il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, di denaro e beni mobili e immobili per 3 milioni di euro, è stato il Gip del Tribunale di Firenze Angelo Antonio Pezzuti. Complessivamente a Mugnaini, residente nel comune di Capraia e Limite (Firenze) sono state sequestrate tre case, tra cui una residenza estiva, nonchè diversi conti correnti, le cui disponibilità finanziarie sono in corso di accertamento. L'indagine, coordinata dal sostituto procuratore Leopoldo De Gregorio e dal procuratore Giuseppe Creazzo, è partita a seguito di un controllo su alcuni fondi pubblicierogati per l'accoglienza dei migranti dal consorzio. Consorzio che, di recente, ha gestito diversi centri attraverso le cooperative consociate.
Lega: "L'accoglienza è un business". Soddisfazione per l'operazione della Gdf è stata espressa dal consigliere regionale toscano Jacopo Alberti (Lega): "Voglio complimentarmi innanzi tutto con la Guardia di Finanza per le indagini svolte. Oggi è stato demolito il tanto incensato sistema toscano dell'accoglienza. L'arresto del gestore della più importante cooperativa di accoglienza dell'Empolese-Valdelsa - spiega Alberti - squarcia il velo su ciò che abbiamo sempre sostenuto: l'accoglienza è un business, un modo per lucrare sulla pelle dei migranti. Oggi, anche in Toscana, qualcuno si sveglia dall'incanto. Spero che anche il governatore Rossi ora avrà più chiaro perché la Lega si è sempre opposta a questi continui finanziamenti al sistema dell'accoglienza".
La legge della sinistra per aggirare il dl Sicurezza. Il riferimento di Alberti al presidente della Toscana, Enrico Rossi, è legato al recente stanziamento di 4 milioni di euro da parte della regione a favore dell'accoglienza degli extracomunitari, compresi gli immigrati clandestini. "Nel 2016 questo gestore andava su Rai 1 a dire quanto erano bravi in Toscana a fare accoglienza, oggi lo hanno arrestato e gli hanno sequestrato 3 milioni di beni. Oggi i fatti ci danno ragione, e spero - prosegue Alberti - che tanti toscani riconoscano in questa vicenda l'apice della cattiva fede della sinistra. Quella legge che chiamano samaritana, non è altro che una legge ad hoc per gli amici delle cooperative".
Il precedente. Non è la prima volta che in Toscana alcuni "samaritani" dediti all'accoglienza dei migranti vengono pizzicati a frodare lo Stato. Era già successo nell'agosto 2018, quando due soggetti operanti nel terzo settore erano stati arrestati per non avere erogato i servizi previsti dal bando della Prefettura che si erano aggiudicati. In quel caso, l'indagine era partita nel 2014 e aveva portato alla scoperta di gravi condotte come la mancata fornitura ai migranti di pocket money, tessere telefoniche e assistenza sanitaria.
"Migranti trattati come bestie". E la coop si teneva i contributi. La Guardia di Finanza di Imperia ha sgominato un'associazione a delinquere che dietro il controllo "occulto" di una cooperativa sociale, tratteneva i contributi statali destinati ai migranti, trattando quest'ultimi come bestie. Fabrizio Tenerelli, Mercoledì 17/07/2019, su Il Giornale. La cooperativa sociale trattava i migranti come bestie, dando loro da mangiare polmoni e altre frattaglie di pollo, il tutto per trattenere, a detta dell’accusa, dal 50 al 70 per cento dei contributi statali. Un circolo vizioso, che andava avanti da circa un anno e al quale è stata messa la parola fine, oggi, con un blitz della Guardia di Finanza, coordinato dalla Procura di Imperia, che ha portato all’arresto quattro persone. Tre gli indagati in stato di libertà, tra cui un alto funzionario all’epoca dei fatti in servizio alla Prefettura di Imperia, oggi trasferito a Torino.
In manette sono finiti: Gianni Morra, 62 anni, residente a Cuneo, considerato il personaggio chiave dell’organizzazione criminosa; la sua compagna Manuela De Mita, 48 anni, di Asti; Guido Tabasso, 67 anni, avvocato di Torino, col ruolo di consulente e Antonella Morra, 58 anni, residente a Cuneo. Mentre per Gianni Morra, De Mita e Tabasso - considerati soci occulti della coop sociale - l’accusa è di associazione per delinquere finalizzata, a vario titolo alla truffa e alla frode e altri reati; per Antonella Morra, l’accusa in concorso è quella di autoriciclaggio.
Indagati in stato di libertà: Alessandra Lazzari, alto funzionario all’epoca dei fatti della Prefettura d’Imperia, ora trasferita a Torino ed accusata di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente e due commercialisti del Torinese incaricati di tenere la gestione contabile dei soldi proventi della frode che venivano investiti in alcune società di famiglie.
Al centro delle indagini, decollate nel 2017, la cooperativa sociale Caribu, di Cuneo, che gestiva i due centri, della quale Gianni Morra, De Mita e Tabasso vengono considerati soci occulti. Gli inquirenti hanno messo in luce un giro stimato in 1,3 milioni di euro di contributi statali che erano stati intascati e riciclati, relativi alla gestione quotidiana di 120-130 migranti dei centri accoglienza di Vallecrosia e Sanremo, in provincia di Imperia. Il sistema si basava sulla comunicazione quotidiana alla Prefettura di Imperia di un numero di ospiti, nei due centri, superiore a quello reale e sulla sovrafatturazione dei costi, mai o solo potenzialmente affrontati per erogare ai migranti i servizi previsti in base all’appalto pubblico. La sovrafatturazione avveniva grazie all’interposizione di una serie di società di capitali, tra cui la Libra srl, di Cuneo, utilizzate per drenare dai conti della cooperativa quasi il settanta per cento dei fondi erogati dal ministero dell’Interno. In particolare, l’immobile acquistato dai due fratelli Gianni e Antonella Morra, tramite mutuo, veniva affittato alla Libra srl, sempre di proprietà degli indagati, per trentottomila euro all’anno (pari al premio annuale del mutuo), a fronte di una richiesta di rimborso alla Prefettura di quasi il triplo dell’importo, pari a novantamila euro. "Tra i metodi per risparmiare c'era lo sfruttamento del lavoro e un trattamento inaccettabile delle condizioni fisiche e psichiche dei migranti. Il gip nella sua ordinanza dice che venivano trattate come bestie". Ad affermarlo è stato il procuratore aggiunto di Imperia, Grazia Pradella, nell'illustrare i particolari dell'indagine. E poi. "Abbiamo delle intercettazioni dove si disquisisce sul tipo di cibo da dare e viene deciso di dare polmone con varie frattaglie per ottimizzare i costi - ha aggiunto - un tipo di cibo che probabilmente le persone non danno neppure ai loro gatti. Chi provava a ribellarsi, abbiamo la prova in un'intercettazione, è stato picchiato e umiliato".
Le intercettazioni. “Polmone costa un euro, un euro e mezzo al chilo… costa niente…". Risposta: "Non pensavo lo mangiassero!". E poi. "No, no! Lo mangiano il polmone…cuore, polmone, quella roba lì…costa poco, costa meno del pollo…". Sono questi i contenuti di una delle tante intercettazioni della Procura di Imperia, a margine dell'oerazione. La telefonata, in particolare, risalente al 29 dicembre del 2017, è quella tra Gianni Morra e la sorella Antonella. E ancora. "Centoventi [migranti] per 30 vuol dire che fanno 3.600 euro al giorno […] per 31 giorni sono 111mila euro al mese…", afferma Gianni Morra in un'altra conversazione del 4 gennaio 2018. E aggiunge: "Bon, quindi fa già una bella cifra, eh?... Sì, diciamo che poi hai le spese per i pasti, per queste cose qua… però… Cinquan… cinquanta e cinquanta!".
C'è anche una telafonata del 29 marzo 2018 tra Gianni Morra e la fidanzata Emanuela De Mita. "... Allora eeh, sia su Ubi che su San Paolo i soldi sono già arrivati", dice Gianni e risponde la fidanzata: "Sì, girali, girali! quanti sono arrivati?". Replica Gianni: "Venticinque da una parte e venticinque dall'altra". Quindi una telefonata del 9 febbraio 2018 tra l'avvocato Guido Tabasso e Gianni Morra. "Vanno bene?", dice Tabasso. Risposta: "…Nella riunione, io seduto e loro tutti in piedi. A un certo punto dico 'questa è una famiglia', qua e là, su e giù. Esce fuori uno con il dito puntato (riferito a un migrante, ndr) e mi dice: 'il business è tuo, guadagni te i soldi' […]. L'ho preso per i capelli, gli ho tirato un calcio nelle giunture delle gambe, si è inginocchiato da solo…". Risponde l'avvocato: "…Eeh appunto…". Ancora Morra: "… Subito, subito! Poi stava andando via questo qua e altri due un po' 'schiena', vieni un po' qua! Vai a cambiarti va! che adesso ti faccio diventare bianco, dai il bianco, ai muri!".
Il commento del ministro dell'Interno Matteo Salvini. “Arrestate quattro persone che, facendo business sulla pelle degli immigrati, si erano intascate 1,3 milioni di euro. Altro che solidarietà. Complimenti alla Guardia di Finanza e alla magistratura per l'operazione. Tolleranza zero per i furbetti dell'accoglienza. Avanti così". Lo ha dichiarato dalla propria pagina Facebook il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, che così è intervenuto sull'odierna operazione della Guardia di Finanza di Imperia.
I profughi non rendono: "Per 18 euro al giorno niente più accoglienza". Le coop contro il bando della Prefettura: "A queste condizioni non si può lavorare". Marta Bravi, Martedì 02/07/2019 su Il Giornale. Le cooperative sociali della Lombardia non ci stanno e hanno deciso di non partecipare al bando della Prefettura di Milano per protesta: «Così non possiamo fare accoglienza» spiegano all'indomani della chiusura delle strutture che hanno gestito fino al 30 giugno 2019. Già a marzo Coop Lotta Contro l'Emarginazione Onlus, Diapason Cooperativa Sociale, Fuori Luoghi Onlus, Il Melograno Onlus, Passapartout Consorzio di Imprese Sociali avevano depositato un ricorso al Tar del Lazio per chiedere l'annullamento con sospensiva del nuovo bando «perché non rispetta gli standard di qualità definiti dalla Carta della Buona Accoglienza», promossa da Confcooperative, Legacoop e poi sottoscritta nel 2016 da ANCI e dal Ministero degli Interni. Il problema di fondo? «Con 18 euro al giorno a persona previsti dal decreto Sicurezza non si possono sostenere e coprire i costi necessari per gestire il servizio». Il nuovo bando della Prefettura prevede l'affidamento dell'accoglienza per stranieri richiedenti protezione internazionale per 2900 posti di cui 750 presso unità abitative con capienza complessiva fino a 50 ospiti, 500 in strutture collettive e 1650 posti in strutture collettive con capienza tra i 51 e 300 ospiti. Con delle grandi differenze rispetto al modello precedente: da 100 ore alla settimana per operatore, che si integravano con i mediatori culturali, assistenti sociali, medici, infermieri e legali si è passati a 8 ore alla settimana per un educatore dedicato a 50 persone. Il modello precedente al decreto sicurezza prevedeva corsi di italiano per stranieri, formazione professionale, tirocini e l'affitto degli appartamenti e delle microcomunità - spiega Tiziana Bianchini dell'esecutivo regionale del Cnca Lombardia -. Ora non è possibile praticare buona accoglienza in un sistema che ha tolto tutte le misure di supporto all'inclusione, a partire dall'insegnamento della lingua italiana. Le cooperative hanno rifiutato di aderire a un modello di accoglienza che si riduce alla semplice custodia degli ospiti e che prevede tra l'altro l'uso di piatti di plastica e lenzuola monouso da buttare ogni tre giorni». Ieri dunque sono state restituite le chiavi degli appartamenti che hanno ospitato i richiedenti asilo, smistati dalla Prefettura: «Le associazioni che hanno vinto il bando sono venute a prenderli, addirittura in metropolitana - polemizza Bianchini - perché non hanno nemmeno i fondi per un pulmino. Non sappiamo che fine hanno fatto le circa 200 persone che sono uscite dalle nostre strutture, certo è che finiranno in caserme e in grandi centri da 300 posti, con quel che ne consegue in termini di impatto sul territorio. Il disegno politico di continuare a creare insicurezza prosegue, alimentando una paura ingiustificata alla quale la gente crede, piegando testa e cuore». Gli unici problemi che dicono di aver avuto le cooperative nel gestire i appartamenti sono stati «i soliti screzi che si possono verificare in qualsiasi condominio: liti per la raccolta differenziata sbagliata e per gli odori che escono dalle cucine. Abbiamo gestito anche questo e il risultato sono i rapporti di amicizia nati tra richiedenti asilo e condomini». Che cosa faranno adesso le cooperative? «Vigileremo, cercheremo di informarci dall'esterno su come viene gestita l'accoglienza di queste persone. Cosa pensiamo della capitana della Sea Watch? Tutta la nostra solidarietà a una donna che ha salvato vite umane, e che ha ricevuto una condanna sproporzionata e ingiusta» conclude Bianchini.
Così le mafie lucrano sull'accoglienza dei migranti. Il lavoro degli inquirenti negli ultimi anni svela come quello dell'accoglienza sia uno dei business più fiorenti per le mafie. Mauro Indelicato, Mercoledì 10/07/2019 su Il Giornale. Il vero filo conduttore che riguarda tutte le mafie riguarda senza dubbio i soldi: la criminalità organizzata, in ogni parte del mondo, va soltanto lì dove ci sono interessi di natura economica. Un appalto, una fornitura, anche un singolo lavoro per i clan e per ogni gruppo che si rifà ad un consorzio mafioso vuol dire soldi, potere e prestigio ed entra automaticamente nelle sue mire. L’impermeabilità contro le infiltrazioni di stampo mafioso dipende ovviamente poi dal livello basso od alto di corruzione, specie all’interno della pubblica amministrazione. In un momento in cui le “mafie tradizionali” sono paradossalmente esse stesse vittima della crisi economica che attanaglia territori in cui originariamente è arroccata, è chiaro che il loro sguardo vira verso settori in grado di rivitalizzare il proprio business. Quello dei migranti e della loro accoglienza appare ovviamente molto redditizio. Del resto nell’ambito dell’inchiesta “mafia capitale”, un indagato in un’intercettazione parla chiaramente di come “con i migranti si fanno più soldi che con la droga”, in riferimento ad affari interni al Cara di Mineo. Non è dunque un mistero che il sistema dell’accoglienza faccia gola alla criminalità organizzata. È proprio di pochi giorni fa il blitz che porta all’arresto di undici persone tra Lodi e Parma. Per loro le accuse sono quelle di associazione a delinquere, truffa allo Stato e autoriciclaggio. Secondo chi conduce le indagini, i protagonisti sarebbero riusciti nell’intento di appropriarsi indebitamente di 7.5 milioni di Euro grazie alla gestione di alcune strutture di accoglienza tramite quattro Onlus impegnate nel settore. Fatture gonfiate, ma anche posti di lavoro da assegnare a gente vicina ai clan, tutto un giro dunque per far guadagnare le ‘ndrine dietro le gestioni dei centri d’accoglienza finiti nel mirino. Di quei 7.5 milioni di Euro sopra menzionati, più della metà sarebbero finiti anche direttamente all’interno delle tasche delle cosche. Ma questo è solo l’ultimo caso. Proprio nei giorni scorsi arrivano le prime sentenze in Calabria nell’ambito del processo scaturito dal blitz Jonny, lo stesso che nel 2017 mette luce sugli affari della potente cosca Arena nella gestione del Cara di Isola Capo Rizzuto. Un’intera struttura in mano alle cosche, che garantisce alla locale ‘‘ndrangheta profitti superiori rispetto a quelli prodotti dallo spaccio di sostanze stupefacenti. Un affare che coinvolge anche professionisti, che porta ad infliggere pene pesanti tra gli altri a Leonardo Sacco, ex gestore regionale delle Misericordie. In Sicilia più volte poi si parla del Cara di Mineo come un centro dove la mafia più volte mette gli occhi, mentre in Campania nel corso degli anni vengono riscontrati casi in cui la camorra impone il pizzo alle cooperative che gestiscono centri d’accoglienza. In provincia di Agrigento il blitz Montagna condotto nel 2018, scaturisce dalle dichiarazioni del pentito Giuseppe Quaranta: “Per ogni nero noi intaschiamo 45 Euro”, afferma il collaboratore di giustizia agli inquirenti. Ed è dunque da qui che scaturisce l’ipotesi più inquietante, su cui da anni si cerca di fare definitiva chiarezza: è possibile che siano le stesse mafie ad essere in contatto con gli scafisti? Il lavoro degli ultimi anni svela grossomodo come il sistema d’accoglienza è, a tutti gli effetti, da considerare un settore redditizio per le mafie. Adesso occorre capire se le cosche favoriscano gli sbarchi o se, ipotesi questa ancora più inquietante, diano appoggio logistico alle organizzazioni criminali che operano dall’Africa. Il pensiero va soprattutto agli sbarchi fantasma, approdi che fanno scomparire nel nulla spesso i migranti arrivati lungo le spiagge siciliane e su cui, da almeno due anni, gli inquirenti provano a fare definitivamente luce.
Il business delle coop: "Se ci fanno le pulci... andiamo tutti in galera". Le indagini su chi gestiva i centri nel mirino tra traffici, truffe e la paura di essere scoperti. Maria Teresa Santaguida, Giovedì 04/07/2019, su Il Giornale. «Perché se qualcuno si mette a controllare, ci fa le pulci come fanno a Lodi siamo rovinati: io non ho un giustificativo, non ho uno psicologo che mi ha fatto fattura, niente». Era preoccupata Letizia Barreca, consigliera di Area Solidale, e legale rappresentante di Volontari senza frontiere, due delle coop coinvolte nel business dell'accoglienza sgominato dalla guardia di finanza e dalla procura di Milano con una maxi indagine conclusa martedì. Sapeva che quello che stava facendo era totalmente irregolare, anzi di più, sapeva che non ci sarebbe stato scampo: «Se ci fanno la verifica fiscale io sono nella m...» e ne parlava al telefono, temendo quello che poi sarebbe avvenuto e che la sua interlocutrice, Katia Pinto (anche lei ai domiciliari) le paventava: «Guarda che se fanno un controllo incrociato andiamo tutti in galera, questa volta». In galera Barreca e Pinto non sono finite, ma ai domiciliari sì: l'unica in carcere (delle 11 misure cautelari disposte) è infatti la «domina» delle onlus dell'accoglienza tra Milano, Lodi e Pavia, Daniela Giaconi. Lei muoveva come pedine le cooperative che beneficiavano dei fondi pubblici in mano alle prefetture per gestire quella che tra il 2014 e il 2017 fu l'emergenza sbarchi. In particolare, secondo il gip, Carlo De Marchi, che ha accolto le accuse formulate da Ilda Boccassini e Gianluca Prisco, Barreca ha fornito un «rilevantissimo apporto all'associazione a delinquere» di cui Giaconi è considerata al vertice. La 53enne teneva i rapporti con i funzionari, faceva da prestanome, ed era consapevole delle operazioni commerciali fittizie. Da un lato ammetteva che «i giri di soldi li sa solo lei», ovvero Giaconi, ma dall'altro sapeva dei giroconti delle onlus a società immobiliari come la Simul. L'avidità della Giaconi era diventata tale che i prelievi erano cresciuti esponenzialmente: «prima 10mila, poi 20mila, si lamentava una collaboratrice, fino all'esigenza di portare 130mila euro in Spagna», altra terra di approdi appetibile per i suoi affari. La Spagna è nominata in un'intercettazione da Sandra Ariota, presunta collaboratrice della numero uno dell'organizzazione, talmente addentro alle questioni della fabbrica di onlus da aver inserito sua figlia (ora all'obbligo di firma) tra i legali rappresentanti della Milano Solidale (la più grossa, con oltre 4 milioni di fondi intascati). Quest'ultima ammetteva: «Mi sono sempre arrivati i soldi, tutti i mesi, non sono mai rimasta senza. Qualcuno, però, nel corso del tempo in cui sono andate avanti le intercettazioni aveva provato a sfilarsi: è il commercialista della Volontari senza frontiere. Nelle carte si evince che era intenzionato a lasciare la gestione «perché troppo incasinata», ma ancora una volta è proprio la Barreca ad ammettere: «Lui mi ha detto che è un casino allucinante e che anche lui non sa dove mettere le mani», mentre le consigliava: «Io ti consiglio di scappare il più lontano possibile, allontanati da lei (Giaconi, ndr.) non c'è alternativa».
Migranti, blitz sull'accoglienza. Ecco la truffa delle "false onlus". Perquisizioni della Finanza e 11 arresti a Lodi. Le accuse: associazione a delinquere e truffa ai danni dello Stato. Luca Romano, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. L'inchiesta si chiama: "Fake onlus". False onlus dell'accoglienza ai migranti. La notizia arriva da Lodi, dove i finanzieri del comando provinciale locale, su disposizione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, stanno eseguendo numerose perquisizioni e ordinanze di custodia cautelare nei confronti di 11 persone (cinque arresti ai domiciliari, uno in carcere, poi obblighi di dimora e presentazione giornaliera alla polizia giudiziaria). I soggetti sono indagati per associazione a delinquere, truffa ai danni dello Stato e per autoriciclaggio. Sul posto sono impiegati oltre 100 finanzieri. Come spiega la Finanza, tra il 2014 e il 2019, le Onlus e le Cooperative sociali indagate avrebbero "beneficiato, complessivamente, di somme pubbliche per oltre 7 milioni di euro ma la gestione economico-finanziaria ha permesso di far luce su un articolato e complesso sistema distrattivo di fondi pubblici". Quattro le Onlus coinvolte. L'inchiesta, guidata dai pm Bocassini e Prisco, punta sui falsi documenti che le associazioni avrebbero presentato per partecipare ai bandi dell'accoglienza. Non solo. Stando sempre a quanto trapela dalla procura milanese, alcune delle onlus investite dall'inchiesta sarebbero collegate a "noti pluripregiudicati" appartenenti alla 'ndrangheta. Le indagini, si legge in una nota della Guardia di Finanza di Lodi, hanno fatto emergere "un pericoloso sodalizio criminale che si è stabilmente inserito nelle gare pubbliche per la gestione dell'emergenza dei migranti indette dalle prefettura di Lodi, Pavia e Parma". In questo modo, spiega la Gdf, pluripregiudicati legati alla 'ndrangheta avrebbero sfruttato le onlus "per far ottenere a persone recluse, attraverso il rilascio di documentazione falsa, la concessione della misura alternativa alla detenzione da parte del magistrato di sorveglianza; infatti veniva attestata, falsamente, la possibilità/necessità di poter accedere ai benefici di legge attraverso l'assunzione presso le predette cooperative". Nel corso delle indagini, durate due anni, gli investigatori hanno registrato "la progressiva costituzione di Onlus-Cooperative, collegate tra loro da mirati interscambi di cariche amministrative appositamente costituite al sol fine di partecipare ed aggiudicarsi le gare/convenzioni indette dalle citate prefetture offrendo, spesso, il prezzo più conveniente a ribasso, producendo a supporto documentazione non veritiera sui servizi offerti ai migranti". Immediato il commento di Matteo Salvini. "Il business dell'immigrazione ha fatto gola ad alcune onlus di Lodi", dice il ministro dell'Interno. "Meno sbarchi e meno soldi per i professionisti dell'accoglienza, così risparmiamo, difendiamo l'Italia e investiamo per assumere più forze dell'ordine. La pacchia è finita".
Lodi, inchiesta su quattro onlus per accoglienza migranti: sei arresti, collegamenti con la 'ndrangheta. Le ordinanze di custodia firmate dalla procura di Milano ed eseguite dalla guardia di finanza. Contestati i reati di truffa aggravata, autoriciclaggio e associazione a delinquere. La Repubblica il 2 luglio 2019. Associazione per delinquere, truffa allo Stato e autoriciclaggio. Sono queste le accuse mosse dalla procura di Milano alle 11 persone coinvolte nell'inchiesta 'Fake Onlus'. Inchiesta nata sulle ipotesi di malversazioni e illeciti commessi all'interno di alcune organizzazioni senza scopo di lucro che si occupano di accoglienza dei migranti. Stamattina il blitz della guardia di finanza di Lodi. Una donna. Daniela Giaconi, è finita in carcre, in cinque sono ai domiciliari e altri cinque hanno l'obbligo di dimora. Le onlus coinvolte sono quattro, si chiamano 'Volontari senza frontiere', 'Milano Solidale', 'Amici di Madre Teresa' e 'Area solidale', tutte operanti tra Lodi, Pavia e Parma. Il pm Gianluca Prisco ha sottolineato che si tratta di "eccezioni. "Non bisogna sottovalutare - ha aggiunto - che ci sono altre onlus che invece hanno ben gestito la accoglienza di migranti". Le onlus sotto accusa avrebbero tra l'altro utilizzato falsi documenti per partecipare ai bandi pubblici per ottenere fondi destinati all'accoglienza di centinaia di migranti. Dalle indagini risulterebbero profitti illeciti su un giro di finanziamenti di circa 7,5 milioni di euro. I rappresentanti legali delle onlus al centro dell'inchiesta avrebbero utilizzato per "scopi personali" oltre 4,5 milioni di euro dei circa 7,5 milioni ottenuti illecitamente. Questo emerge dalle indagini della finanza di Lodi sul consorzio di onlus che ha partecipato, tra il 2014 e il 2018, a bandi indetti dalle Prefetture di Lodi, Parma e Pavia. Le onlus al centro dell'operazione risultano collegate "a noti pluripregiudicati appartenenti alla 'ndrangheta" e sarebbero state utilizzate per consentire a persone recluse di "accedere ai benefici di legge attraverso l'assunzione presso le predette cooperative". Le onlus sarebbero state "sfruttate per fare ottenere a persone recluse, attraverso il rilascio di documentazione falsa, la concessione della misura alternativa alla detenzione da parte del magistrato di sorveglianza". Le misure cautelari sono state eseguite in Lombardia e in Campania. Le indagini del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del pm Gianluca Prisco, condotte dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Gdf di Lodi, vedono al centro, spiegano i finanzieri, "un pericoloso sodalizio criminale che si è stabilmente inserito nelle gare pubbliche per la gestione dell'emergenza migranti indette dalle Prefetture di Lodi, Pavia e Parma". Nelle indagini durate due anni è stata accertata "la progressiva costituzione di onlus cooperative, collegate tra loro da mirati interscambi di cariche amministrative, appositamente costituite" solo per "partecipare ed aggiudicarsi le gare" indette dalle Prefetture "offrendo, spesso, il prezzo più conveniente a ribasso, producendo a supporto documentazione non veritiera sui servizi offerti ai migranti". L'alternarsi delle cariche rappresentative nelle onlus nasceva "dalla necessità di partecipare ai bandi in modo da evitare che emergessero i precedenti penali di alcuni indagati", che avrebbero rappresentato "una causa ostativa". Dal 2014 ad oggi le onlus e le cooperative sociali indagate "hanno beneficiato, complessivamente, di somme pubbliche per oltre 7 milioni di euro ma la gestione economico-finanziaria ha permesso di far luce su un articolato e complesso sistema distrattivo di fondi pubblici". Inoltre, le onlus, chiarisce la Gdf, "risultano essere collegate a noti pluripregiudicati appartenenti alla 'ndrangheta, i quali le hanno sfruttate per far ottenere a persone recluse, attraverso il rilascio di documentazione falsa, la concessione della misura alternativa alla detenzione da parte del magistrato di sorveglianza". Veniva "attestata, falsamente, la possibilità-necessità di poter accedere ai benefici di legge attraverso l'assunzione presso le cooperative". "Il business dell'immigrazione - ha dichiarato il ministro dell'Interno Matteo Salvini commentando l'inchiesta - ha fatto gola ad alcune onlus di Lodi: stamattina è scattata l'operazione con l'impiego di più di cento finanzieri. Meno sbarchi e meno soldi per i professionisti dell'accoglienza: così risparmiamo, difendiamo l'Italia e investiamo per assumere più forze dell'ordine. La pacchia è finita".
Accoglienza, il business che piace alla malavita. Dal Lazio alla Calabria fino alla Lombardia: fondi pubblici finiti alla criminalità. Luca Fazzo, Mercoledì 03/07/2019, su Il Giornale. Ci sono i personaggi delle fiction come Sara Monaschi di Suburra, la signora della Roma bene che capisce in fretta qual è l'affare del secolo. E poi ci sono gli sciacalli in carne e ossa, i boss malavitosi come Massimo Carminati, «er Cecato» dell'inchiesta «Mondo di mezzo», anche loro con le idee chiare sulla fonte di guadagno a basso rischio. E come lui - in piccolo, a volte meschinamente, ma con altrettanta determinazione - centinaia di furbacchioni, di faccendieri, di spregiudicati, di politici. Sul tavolo, c'è una torta da cinque miliardi di euro: il grande affare della accoglienza. Intorno a loro, centinaia di migliaia di comparse senza volto: sono i profughi, i disperati che piombano sulle nostre coste e che spesso della gigantesca truffa allo Stato sono le prime vittime. Perché l'accoglienza è spesso una finta accoglienza: che però costa soldi veri. Lo racconta bene l'inchiesta che ha portato ieri alla retata della Procura di Milano: i mediatori, gli psicologi, gli educatori che dovevano servire a integrare i profughi esistevano solo sulla carta; la vita quotidiana nei centri non era un percorso verso la normalità ma solo parcheggio e degrado. Ad altri profughi ospitati da altre onlus in questi anni è andata peggio. Ci sono quelli che venivano spediti a lavorare nei campi a quattro euro all'ora, dai caporali collusi con gli pseudovolontari. O quelli costretti a vivere come bestie, in condizioni igieniche inimmaginabili, nutriti con cibo che valeva un decimo dei soldi stanziati dallo Stato. Per essere precisi, ad essere effettivamente alla portata dei criminali non sono tutti i cinque miliardi stanziati annualmente dallo Stato: circa un miliardo e mezzo se ne va tra soccorsi in mare e sanità, e qui (in teoria) le mani dei disonesti non arrivano. Ma restano 3,4 miliardi, spesi interamente per l'accoglienza. Più che sufficienti a supportare il teorema di Carminati: «I migranti rendono più della droga». Si tratta di esseri umani, ma l'approccio criminale è grossomodo il medesimo usato verso un altro affare emergente, il traffico di rifiuti: pochi controlli, molti soldi, pochi rischi. Così si spiega la passione che per l'affare migranti sviluppano vecchi narcotrafficanti come Santo Pasquale Morabito e Pietro Mollica, divenuti soci di una delle onlus sgominate ieri a Milano. O quella dei boss di Isola Capo Rizzuto, che per mettere le mani sulla cassa erano riusciti a tirare dalla loro parte persino il parroco della zona. O la decisione con cui Calogerino Gambrone, il vecchio capomandamento di Cammarata, aveva deciso di impadronirsi della coop San Francesco: le onlus che si occupano di migranti hanno sovente nomi pii ed umanitari, ma i boss non si formalizzano. L'importante è che ci siano i soldi, i 35 euro (poi ridotti a 20) stanziati dallo Stato. Da Foggia a Brescia, da Gorizia a Crotone: sono innumerevoli (e equamente sparse sul territorio nazionale) le realtà in cui è stato assodato che l'accoglienza era diventata truffa. Non sempre c'è di mezzo la mafia o la 'ndrangheta. Per creare una falsa onlus basta poco, un consulente amico, un commercialista di bocca buona. Il sistema di controlli quasi non esiste, anche se ancora quattro anni fa Raffaele Cantone, garante anticorruzione, aveva chiesto che si aprissero gli occhi, dopo lo scandalo che aveva investito la onlus «Ala di riserva», con i fondi pubblici finiti addirittura in Montenegro. Ma da allora nulla è cambiato. A scegliere le onlus sono le prefetture, che di strumenti di controllo reali ne hanno pochi, di fronte ai numeri in continua crescita; per non parlare dei casi in cui è il viceprefetto di turno a chiudere deliberatamente un occhio e poi (è accaduto anche questo) finisce anche lui sotto processo insieme ai truffatori. A venire inquisiti per avere imbrogliato lo Stato capita che siano anche personaggi in vista: come Mimmo Lucano, sindaco di Riace, che per favorire le onlus a lui vicine bypassò allegramente tutte le regole su affidamenti e appalti. Ma almeno Lucano lo fece (secondo lui) a fin di bene, e senza mettersi in tasca quattrini. Gli altri, le decine e decine di faccendieri dal volto accogliente scoperti in questi anni dalla Guardia di finanza qua e là per l'Italia avevano invece in mente solo quelli: i soldi, i piccioli. Per questo si inventavano migranti inesistenti, o spariti da tempo verso altre nazioni europee, o tornati in patria, o finiti in galera. E c'è stato persino chi ha fatto la cresta sulle sepolture, buttandone i corpi in un camposanto senza neanche la bara di legno, per risparmiare. Tanto sono solo migranti.
Ecco come i migranti diventavano un (mal)affare. Scatole cinesi per incassare i fondi statali durante l'emergenza sbarchi e investire nel mattone. Maria Teresa Santaguida, Mercoledì 03/07/2019, su Il Giornale. Nel 2007 dichiarava 3mila e 400 euro scarsi, nel 2015 22mila e rotti, nel 2017 oltre 31mila in concomitanza con i tre anni (2014-2017) dell'emergenza sbarchi. Nel frattempo a schizzare in altro era l'asticella della galassia di concorrenti a lei intestati o collegati: 100mila euro in una banca, 119mila nell'altra (le cifre più consistenti sui conti online), 12mila su una ricaricabile, fino ad arrivare ad oltre 700mila euro. I magistrati ne sono convinti, «la disponibilità delle somme di denaro che aveva in mano è sproporzionata rispetto ai redditi dichiarati» e infatti Daniela Giaconi era - secondo l'accusa - l'ideatrice e la presunta «manovratrice» dell'associazione a delinquere finalizzata alla truffa ai danni dello Stato, portata a galla dall'indagine «Fake onlus», di cui sono titolari i pm di Milano Ilda Boccassini e Gianluca Prisco. Le sue pedine erano le onlus per la gestione dell'accoglienza dei migranti: come scatole di latta le «collezionava» e le inseriva una nell'altra facendo in modo che amministratori, soci e commercialisti si alternassero nei ruoli, per poterne controllare l'operato. «Non ho mai fatto nulla di mia iniziativa, ho sempre eseguito» ammetteva Roberto Tirelli, uno dei cinque indagati finiti ai domiciliari che aveva il ruolo - stando alle carte - di socio fondatore della onlus Area solidale, ma soprattutto di «prestanome per assicurare i rapporti della Giaconi con i funzionari prefettizi» (gli enti sono da considerarsi «parte lesa» nell'inchiesta). I bonifici della prefettura di Lodi, insieme a quelle di Parma e Pavia, erano puntuali come un orologio svizzero. A tardare, o a non arrivare mai, invece erano i servizi per i migranti: niente assistenti sociali, né «pocket money» (la piccola somma diaria prevista per chi viene accolto), tanto che il 7 febbraio scorso gli stessi richiedenti asilo avevano protestato davanti alla prefettura di Lodi perché quei soldi non li avevano mai visti. Con tutta probabilità una parte del denaro è finito in un investimento nel mattone: d'altra parte Giaconi nel suo cv dichiarava un «master in Sociologia e gestione e valorizzazione dei patrimoni immobiliari e urbani». Si tratta di un immobile in viale Abruzzi 88, dove non c'è nessuno Sprar né un Cas, ma che è stato acquistato - in base a quanto scrive il gip Carlo Ottone De Marchi - «con denaro proveniente dalle erogazioni percepite in modo indebito per l'attività di accoglienza dei migranti». Circostanza che configura anche il riciclaggio. L'immobile ora è «oggetto di sequestro finalizzato alla confisca»: ironia della sorte, una delle coop coinvolte nell'indagine, «Milano Solidale», la faceva da padrona nell'arraffare i fondi pubblici, con 4 milioni di entrate, ma la sua coop madre, «Area solidale», aveva partecipato nel 2018 proprio al Festival dei beni confiscati a Milano.
“NO PROFIT”, MA DE CHE? Lorenzo Mottola per “Libero Quotidiano” il 17 giugno 2019. Volontari sì, ma a pagamento. È questa la condizione di buona parte degli operatori delle Ong che si occupano di immigrazione, partendo dai centri profughi per arrivare ai marinaretti che pattugliano le coste al largo della Libia per rastrellare e trasportare in Italia clandestini. Per qualcuno il cosiddetto no-profit è una pacchia, per usare una definizione cara a Matteo Salvini. Ad esempio, per i vertici delle organizzazioni più importanti. Recentemente ha fatto molto discutere lo stipendio del presidente dell' americana Save the Children, che si mette in tasca 365 mila dollari l' anno. E parliamo di un' associazione che con la sua nave - la Vos Hestia - ha collaborato a riempire l' Italia di profughi. Un altro dirigente fortunato è quello di Care, che prende 250 mila dollari l' anno. Belle buste paga, insomma, anche se ovviamente non per tutti va così: sui battelli si inizia a lavorare guadagnando meno di 2.000 euro al mese. Fare carriera, tuttavia, non è impossibile. Le organizzazioni in questione, però, fanno molta fatica a fornire le cifre esatte, per ragioni facilmente intuibili. In questi giorni si parla molto della SeaWatch, nave armata da un' organizzazione creata da cittadini tedeschi che continuano a sfidare la dottrina del governo italiano dei "porti chiusi". A furia di campagne contro la Lega, la Ong di Berlino ha raccolto nel 2018 circa 1.800.000 euro in donazioni da parte di privati. Una somma che quest' anno, grazie proprio all' esposizione mediatica data dalle polemiche con il Viminale, dovrebbe crescere considerevolmente. Dirà qualche insolente: sarebbe molto bello se queste cifre finissero realmente nelle tasche dei poveracci in fuga da miseria e guerre. In realtà circa il 30% delle spese serve a pagare gli stipendi di persone che il mar Mediterraneo lo vedono al massimo durante le ferie estive. La gran parte finisce ad attivisti che restano tranquillamente a organizzare le grandi manovre contro il Viminale a Berlino. Poi troviamo un minuscolo "distaccamento" italiano. In pratica, c' è una persona sola, la portavoce: Giorgia Linardi. Un volantino circolato sui social network in questi mesi denunciava gli incassi della signora: 5.000 euro al mese. Sicuramente si tratta di un' esagerazione: effettivamente il bilancio rivela che i coordinatori hanno stanziato nel 2018 circa 60mila euro per la delegazione nel nostro paese, ovvero 5.000 ogni trenta giorni, ma in questo conto bisogna inserire anche le spese per i viaggi i telefoni e altro. Difficile stabilire una cifra esatta, visto che SeaWatch - contattata da Libero - non ha risposto. La trasparenza, d' altra parte, non è la priorità di chi si avventura a caccia di disperati del canale di Sicilia. Open Arms, per esempio, si limita a dire che il 91% delle risorse vengono spese per la missione, senza degnarsi di dettagliare. I più disponibili a parlare dei loro incassi sono gli italiani di Mediterranea, ovvero l' imbarcazione messa in acqua grazie a una grande colletta tra politici e notabili della sinistra italiana. In tutto, sono stati raccolti 769mila euro, per portare in Italia meno di 80 persone da ottobre a oggi (due gommoni intercettati al largo dell' Africa, peraltro ancora in grado di stare a galla. I passeggeri potevano essere riportati in Libia). In pratica, hanno speso 10mila euro per ogni persona traghettata in Europa. Pagare a tutti un biglietto aereo sarebbe costato parecchio meno. Intanto, stando ai bilanci pubblicati sul sito di Mediterranea, da ottobre i dipendenti della Ong hanno percepito 81.177 euro. Un altro vascello reso celebre dagli scontri con Salvini è l' Aquarius. In un' intervista al Fatto Quotidiano, uno dei marinai ha risposto a quanti gli chiedevano conto dei loro emolumenti: «Per caso qualcuno pretende che i vigili del fuoco non vengano pagati? O i dottori?. Qui siamo tutti professionisti. Non ci si può improvvisare soccorritori. Quindi le persone sono pagate. Certo non si arricchiscono: fanno questo lavoro non per soldi ma per altre ragioni». Insomma, si sentono missionari, ignorano la legge italiana, ma gradiscono essere stipendiati. E va detto che quelli di Aquarius sono tra i meno pagati: circa 1.760 euro al mese. Meglio non raccontargli la storia del penultimo presidente di Amnesty International, che lasciò l' incarico pochi anni fa con una buonuscita di mezzo milione.
I talebani dell'accoglienza: i bilanci di Sea Watch ai raggi X. Solo la nave costa 1,5 milioni di euro. Oltre 260mila vanno per gli aerei di appoggio. E 31mila euro per le spese legali. Fausto Biloslavo, Mercoledì 26/06/2019, su Il Giornale. Solo la nave Sea Watch 3, al largo di Lampedusa con una quarantina di migranti a bordo, è costata nel 2018 oltre un milione e mezzo di euro sommando i lavori in cantiere dell'anno prima e l'acquisto di due gommoni di soccorso. E poi vanno aggiunte le spese per gli equipaggi, oltre al personale a Berlino e Amburgo di 304.069,65 euro. Non poco per aver «soccorso» in mare, come sostiene l'Ong tedesca, 5mila persone nel 2018, anche se il numero sembra un po' alto. Lo scorso anno la nave dei talebani dell'accoglienza è rimasta sotto sequestro a Malta per quattro mesi. Non a caso nel bilancio dell'Organizzazione non governativa si scopre che per Sea Watch 3 sono stati sborsati oltre 31mila euro di spese legali. Nel 2018 la nave, a parte le paghe degli equipaggi, è costata 784.210,41 euro, in pratica il 55,9% dei costi totali. Una cifra ampiamente coperta dalle donazioni, che lo scorso anno sono arrivate, fino al 31 ottobre a 1.797.388,49 euro. La nave della discordia è lunga 55 metri e ogni volta che viene sequestrata cambia comandante, l'unico a venire indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. La mossa furbesca evita l'aggravante della reiterazione del reato. Anche questo è un costo legato alle spese legali e agli ingaggi del capitano, ma ci sono altre sorprendenti spese. Una voce riguarda i «viaggi e voli» probabilmente degli equipaggi e degli attivisti di Sea Watch legati alla nave, che ammonta a 61.980,36 euro. Fra assicurazione, ormeggi e tasse portuali i talebani dell'accoglienza hanno speso quasi 100mila euro. I viveri per equipaggio e migranti sono costati 36.456,76 euro, le telecomunicazioni, comprese quelle satellitari, ben 22.661,23 euro. Le voci maggiori sono il carburante diesel costato circa 80mila euro, ma poteva gravare ben di più se Sea Watch non fosse stata sequestrata per un terzo dell'anno dai maltesi. Anche le «manutenzioni e riparazioni» hanno inciso per oltre 77mila euro. La seconda voce più ingente, 102.172,57 euro, riguarda «fornitori di servizi esterni» non meglio specificati. E poi l'esborso più alto, poco più di 192mila euro, si riferisce al mantenimento del certificato di classe di navigazione e ai diritti di garanzia di Sea Watch 3. Gran parte delle voci di bilancio del 2018 sono provvisorie ovvero calcolate fino al terzo trimestre dell'anno. Oltre alla nave i talebani dell'accoglienza sostengono due aerei delle Ong che decollano da Lampedusa. «L'operazione Moonbird», dal nome di uno degli aeroplani di ricognizione di Sea Watch, è costata nel 2018 262.435,00 euro. La voce più alta, 162.360,00 euro, riguarda il carburante e le tasse aeroportuali. Non è chiaro quanto e chi paghi i piloti, che non volano certo gratis. Nel 2017 l'Ekd, una potente federazione di una ventina di chiese protestanti e luterane tedesche, hanno «sostenuto l'acquisto di Moonbird con 100mila euro» si legge nel bilancio di Sea Watch. Non solo: «i costi del progetto dal 2018 al 2020 sono coperti» dalla federazione evangelica. Peccato che i migranti individuati dagli aerei della Ong e raccolti da Sea Watch, come gli ultimi a bordo della nave al largo di Lampedusa, alla fine sbarchino sempre in Italia e non arrivino quasi mai in Germania. Nelle pieghe del bilancio dei talebani dell'accoglienza tedeschi spicca la voce «team italiano», che costa 62.815,17 euro l'anno. L'obiettivo è un vero e proprio lavorio di lobbyng, a cominciare dal progetto Mediterrana, «in modo tale che i politici, a livello nazionale e internazionale, ascoltino le nostre richieste» per aprire le porte ai migranti.
Ong, ecco quanto guadagna chi tifa invasione: Sea Watch, la "paga stellare" di Giorgia Linardi. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 17 Giugno 2019. Volontari sì, ma a pagamento. È questa la condizione di buona parte degli operatori delle Ong che si occupano di immigrazione, partendo dai centri profughi per arrivare ai marinaretti che pattugliano le coste al largo della Libia per rastrellare e trasportare in Italia clandestini. Per qualcuno il cosiddetto no-profit è una pacchia, per usare una definizione cara a Matteo Salvini. Ad esempio, per i vertici delle organizzazioni più importanti. Recentemente ha fatto molto discutere lo stipendio del presidente dell' americana Save the Children, che si mette in tasca 365 mila dollari l'anno. E parliamo di un' associazione che con la sua nave - la Vos Hestia - ha collaborato a riempire l' Italia di profughi. Un altro dirigente fortunato è quello di Care, che prende 250 mila dollari l' anno. Belle buste paga, insomma, anche se ovviamente non per tutti va così: sui battelli si inizia a lavorare guadagnando meno di 2.000 euro al mese. Fare carriera, tuttavia, non è impossibile. Le organizzazioni in questione, però, fanno molta fatica a fornire le cifre esatte, per ragioni facilmente intuibili.
LE DONAZIONI. In questi giorni si parla molto della SeaWatch, nave armata da un' organizzazione creata da cittadini tedeschi che continuano a sfidare la dottrina del governo italiano dei "porti chiusi". A furia di campagne contro la Lega, la Ong di Berlino ha raccolto nel 2018 circa 1.800.000 euro in donazioni da parte di privati. Una somma che quest' anno, grazie proprio all' esposizione mediatica data dalle polemiche con il Viminale, dovrebbe crescere considerevolmente. Dirà qualche insolente: sarebbe molto bello se queste cifre finissero realmente nelle tasche dei poveracci in fuga da miseria e guerre. In realtà circa il 30% delle spese serve a pagare gli stipendi di persone che il mar Mediterraneo lo vedono al massimo durante le ferie estive. La gran parte finisce ad attivisti che restano tranquillamente a organizzare le grandi manovre contro il Viminale a Berlino. Poi troviamo un minuscolo "distaccamento" italiano. In pratica, c' è una persona sola, la portavoce: Giorgia Linardi. Un volantino circolato sui social network in questi mesi denunciava gli incassi della signora: 5.000 euro al mese. Sicuramente si tratta di un' esagerazione: effettivamente il bilancio rivela che i coordinatori hanno stanziato nel 2018 circa 60mila euro per la delegazione nel nostro paese, ovvero 5.000 ogni trenta giorni, ma in questo conto bisogna inserire anche le spese per i viaggi i telefoni e altro. Difficile stabilire una cifra esatta, visto che SeaWatch - contattata da Libero - non ha risposto. La trasparenza, d' altra parte, non è la priorità di chi si avventura a caccia di disperati del canale di Sicilia. Open Arms, per esempio, si limita a dire che il 91% delle risorse vengono spese per la missione, senza degnarsi di dettagliare. I più disponibili a parlare dei loro incassi sono gli italiani di Mediterranea, ovvero l' imbarcazione messa in acqua grazie a una grande colletta tra politici e notabili della sinistra italiana. In tutto, sono stati raccolti 769mila euro, per portare in Italia meno di 80 persone da ottobre a oggi (due gommoni intercettati al largo dell' Africa, peraltro ancora in grado di stare a galla. I passeggeri potevano essere riportati in Libia). In pratica, hanno speso 10mila euro per ogni persona traghettata in Europa. Pagare a tutti un biglietto aereo sarebbe costato parecchio meno. Intanto, stando ai bilanci pubblicati sul sito di Mediterranea, da ottobre i dipendenti della Ong hanno percepito 81.177 euro.
MISSIONARI? Un altro vascello reso celebre dagli scontri con Salvini è l' Aquarius. In un' intervista al Fatto Quotidiano, uno dei marinai ha risposto a quanti gli chiedevano conto dei loro emolumenti: «Per caso qualcuno pretende che i vigili del fuoco non vengano pagati? O i dottori?. Qui siamo tutti professionisti. Non ci si può improvvisare soccorritori. Quindi le persone sono pagate. Certo non si arricchiscono: fanno questo lavoro non per soldi ma per altre ragioni». Insomma, si sentono missionari, ignorano la legge italiana, ma gradiscono essere stipendiati. E va detto che quelli di Aquarius sono tra i meno pagati: circa 1.760 euro al mese. Meglio non raccontargli la storia del penultimo presidente di Amnesty International, che lasciò l' incarico pochi anni fa con una buonuscita di mezzo milione. Lorenzo Mottola
Messico, il governo di sinistra azzera i fondi pubblici alle ong pro-migranti. Le ong hanno reagito alla linea dura del governo accusando quest’ultimo di lanciare “accuse vergognose” contro i privati attivi nell’assistenza ai richiedenti asilo presenti in Messico. Gerry Freda, Martedì 18/06/2019 su Il Giornale. Il governo di sinistra del Messico ha ultimamente deciso una stretta ai danni delle ong pro-migranti. Il presidente della nazione centroamericana, il socialista Andres Manuel Lopez Obrador, ha infatti annunciato l’interruzione di ogni finanziamento pubblico alle associazioni impegnate finora nel settore dell’accoglienza dei rifugiati e nella gestione dei 18 centri-profughi presenti sul territorio nazionale. Durante una recente conferenza-stampa al palazzo presidenziale di Città del Messico, Lopez Obrador ha denunciato la “corruzione endemica” che affliggerebbe, a suo dire, le istituzioni private preposte all’assistenza ai migranti. Queste ultime, ha accusato l’esponente socialista, non farebbero nient’altro che “intascare i contributi statali senza preoccuparsi di migliorare realmente le condizioni di vita dei profughi”. Di conseguenza, il leader messicano ha dichiarato di volere mettere fine alle “mangiatoie sulla pelle dei più deboli” ordinando, in primo luogo, lo stop ai finanziamenti pubblici alle ong e, in aggiunta, assegnando alla gestione diretta dello Stato le 18 strutture ricettive per richiedenti asilo finora amministrate da tali enti privati. Secondo Lopez Obrador, l’estromissione delle associazioni pro-migranti dal settore nazionale dell’assistenza ai profughi determinerà il “ripristino della legalità e della trasparenza” sul fronte della gestione dei fenomeni migratori. Oltre ad accusarle di corruzione e di appropriazione indebita di risorse statali, il governo di sinistra ha biasimato le ong anche per avere finora condotto “controlli inesistenti”sull’identità dei clandestini ospitati nei centri per rifugiati. Il ministro degli Esteri messicano, Marcelo Ebrard, ha appunto incolpato le associazioni umanitarie di non essersi finora “minimamente accorte” del fatto che, tra i soggetti assistiti negli ultimi mesi nelle strutture ricettive, vi fossero numerosi “trafficanti di esseri umani” e “narcotrafficanti”. La stretta dell’esecutivo Lopez Obrador contro l’accoglienza gestita da enti privati ha subito indotto questi ultimi a rilasciare dichiarazioni dai toni duri all’indirizzo della leadership del Paese centroamericano. Ad esempio, Monica Salazar, rappresentante dell’ong Dignificando el Trabajo, ha innanzitutto respinto come “vergognose” le accuse di corruzione avanzate dal presidente socialista contro le associazioni impegnate a dare assistenza agli immigrati. La donna ha quindi bollato come “disastrosa” la scelta del Capo dello Stato di avocare alle autorità pubbliche il compito di amministrare le 18 strutture ricettive presenti in Messico, in quanto, a suo dire, i funzionari statali non avrebbero le “competenze necessarie” a gestire i centri in questione.
Politici, attori e rockstar: ecco chi finanzia la Ong pro migranti. Alla Ong pro migranti arrivano donazioni da Richard Gere e dal Manchester United. Ma gran parte di chi contribuisce lo fa in maniera anonima. Fausto Biloslavo, Lunedì 17/06/2019, su Il Giornale. La Chiesa evangelica tedesca, Anton «Toni» Hofreite, capogruppo dei Verdi nel Bundestag, Gregor Gysi, l'ultimo leader della Germania Est pro Gorbaciov, l'ex europarlamentare del Pd, Elena Ethel Schlein, sono alcuni dei principali sostenitori di Sea watch, la Ong talebana dell'accoglienza. Fra i testimonial è spuntato pure il cardinale Reinhard Marx. E per il 2019 il fabbisogno, come raccolta fondi, è di «110-130mila euro al mese» secondo l'Ong tedesca. In Italia la nave Mare Jonio, sotto sequestro dopo sbarchi illegali di migranti, è appoggiata addirittura dall'Arci con il 5 per mille, sindaci e organizzazioni si sinistra. L'Ong Open arms, appena attraccata a Napoli con la nave omonima, è nata con i fondi di una compagnia marittima spagnola, il Gruppo Ibazibal, ma ha ricevuto donazioni pure dall'attore americano Richard Gere e da una società calcistica come il Manchester city. Lo scorso anno Sea watch aveva raccolto 1.797.388,49 euro spendendo oltre il 55%, ovvero 784.210 euro per la sua nave già sequestrata tre volte dall'Italia e da Malta, che sta ciondolando davanti a Lampedusa con una quarantina di migranti a bordo. I principali sostenitori, che ci mettono la faccia, pubblicata sul bilancio della Ong estremista tedesca, sono un gruppo variegato di personaggi molto noti in Germania. Uno dei più attivi è il capogruppo dei Verdi nel Parlamento di Berlino, Hofreite, deputato dal 2005. Al suo fianco per aiutare Sea watch il discusso Gregor Gysi, leader riformista alla fine della Germania Est sopravvissuto al crollo del muro di Berlino. Anche l'attrice tedesca Katja Hannchen Leni Riemann e il gruppo rock di Amburgo, Revolverheld, sono testimonial e finanziatori di Sea watch. Una delle sostenitrice più influenti è Barbara Lochbihler, europarlamentare dal 2009 fino a quest'anno ed ex segretario di Amnesty international in Germania. A Strasburgo ha fatto proseliti: Elena Ethel Schlein è stata eletta eurodeputata del Pd nell'ultima legislatura, anche se nel 2015 ha lasciato il partito per aderire al movimento di Giuseppe Civati. In febbraio, dopo il primo sequestro di Sea watch 3, ha organizzato una raccolta fondi per i talebani dell'accoglienza. In quattro mesi ha raccolto da 48 sostenitori appena 3.567 euro che sono andati «direttamente a Sea watch per sostenere le loro operazioni». I talebani dell'accoglienza tedesca, Sea watch e Sea eye, su un portale ad hoc, «ringraziano le Chiese per la promozione del salvataggio in mare nel Mediterraneo». E pubblicano le dichiarazioni ed i volti di alti esponenti ecclesiastici come testimonial per le donazioni. Fra i sostenitori c'è anche il cardinale cattolico Reinhard Marx che si appella ai cristiani: «Finché ci sono persone che nella loro angoscia e disperazione si fanno strada attraverso il Mediterraneo, la nostra missione è la misericordia». E sotto si può donare qualsiasi cifra, che verrà così suddivisa: 10% ad Alarm phone, il centralino dei migranti che vuole sostituirsi ai Centri di soccorso degli Stati, 40% a Sea eye e Sea watch ed il rimanente 10% a Solidarity at sea, che sostiene legalmente gli equipaggi delle Ong «minacciati da un processo» per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Nel bilancio 2018 di Sea watch l'esborso dei 262.435 euro per l'aereo di ricognizione Moonbird, che decolla da Lampedusa individuando i gommoni dei migranti, è stato «sostenuto in modo significativo dalla Chiesa evangelica in Germania». È interessante spulciare nella raccolta fondi odierna di Sea watch organizzata sulla piattaforma tedesca Better place, dove sono stati già donati oltre 370mila euro. I finanziatori sono quasi 7mila, ma nella stragrande maggioranza anonimi con cifre che variano da 5 ad un massimo di 790 euro. Pochissimi i donatori che pubblicano il nome intero, come Ines Schimidt, 252 euro donati e raccolti per il suo compleanno. Alcuni rendono noto solo il nome con l'iniziale del cognome come Rosa R., che ha finanziato Sea watch due volte per un totale di 232 euro. In Italia la pseudo Ong Mediterranea, di nave Jonio sotto sequestro, ha raccolto 769.748,50 euro con 3306 sostenitori. Sulla sua pagina in rete cita come supporter i sindaci Leoluca Orlando di Palermo e Luigi de Magistris di Napoli, Greenpeace Italia e Fondo Fuocoammare creato sulla scia del successo del film che ha vinto l'Orso d'oro a Berlino nel 2016. Non mancano Comitato Addiopizzo, la Cgil, i Giuristi democratici, la Lega coop sociali Friuli-Venezia Giulia e Potere al Popolo di Palermo, orfani del comunismo duro e puro. Non solo: L'Arci fa strenua campagna per raccogliere il 5xmille a favore di Mediterranea. E Banca Etica, preferita dai parlamentari grillini, ha permesso l'acquisto della nave sotto sequestro con quasi mezzo milione di euro.
Le mani degli evangelici sugli sbarchi: milioni di euro e aiuti alle Ong. Non solo la Chiesa cattolica. A Lampedusa opera Mediterranean Hope: così gli evangelici italiani e europei operano per "aprire i porti" italiani. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 21/06/2019, su Il Giornale. L’ultimo sbarco di 81 migranti a Lampedusa lo hanno segnalato loro, sui social, con l’immancabile fotografia della nave. Lo stesso avevano fatto pochi giorni fa, dando risalto all'arrivo prima di 21 e poi di 23 immigrati, oltre ad altri 45 in sbarchi fantasma. Gli attenti osservatori fanno parte di Mediterreanean Hope (MH), un progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) cui aderiscono i valdesi, i metodisti, la chiesa luterana, quella evangelica battista, l’Esercito della Salvezza, le chiese libere e quella apostolica italiana. Anche i protestanti tifano immigrazione. Chiesa che vai, insomma, accoglienza che trovi. Ormai che sia quella cattolica o che professi una fede protestante, al centro dell’attenzione di fedeli e religiosi finiscono sempre con l’esserci gli stranieri. Le migrazioni aiutano l’ecumenismo più delle preghiere di Giovanni Paolo II.
Mediterranean Hope (MH) è un programma che si occupa di osservazione, accoglienza, corridoi umanitari e salvataggi in mare al seguito delle Ong. Sono loro a segnalare molti degli sbarchi a Lampedusa perché è lì che dal 2014 ha base l’"osservatorio sulle migrazioni". Nella pratica si occupa di “primissima accoglienza, mediazione, ricerca e analisi”, fornendo coperte, bevande calde e un internet point. Non mancano ovviamente le sortite politiche. Le Chiese evangeliche appaiono tra i promotori della campagna Io Accolgo, che tra le altre cose sostiene “vertenze” per cancellare “le scelte discriminatorie" e superare "gli effetti perversi del Decreto sicurezza”. E ti pareva. Non solo: in segno di solidarietà ai 43 migranti a bordo della Sea Watch, bloccata al largo per il braccio di ferro con il Viminale, gli evangelici si sono messi a dormire sul sagrato della chiesa insieme al parroco locale e al Forum Lampedusa Sociale. "Continueremo finché non sarà consentito alle persone di scendere a terra in un porto sicuro”, scrivono online sfidando Matteo Salvini. “Aprite i porti”, è l'imperativo degli attivisti che a Lampedusa lo hanno pure scritto su un enorme striscione rosso. E Mediterranean Hope ci sta pure provando a spezzare il blocco imposto da Salvini. Insieme alla Comunità di Sant’Egidio e alla Tavola Valdese, organizza infatti corridoi umanitari per far arrivare i migranti attraverso "vie legali e sicure”. Nel 2017 ne hanno portati in Italia 1000 e altri mille ne sbarcheranno, in accordo col Viminale, nel biennio 2018/2019. Per non farsi mancare nulla, poi, MH ha avviato una collaborazione con l’Ong spagnola Proactiva Open Arms nelle missioni alla ricerca di immigrati nel Mediterraneo. La Fcei assicura un “sostegno finanziario” (quanto non è dato sapere) alla Ong e gli operatori di Mediterranean Hope partecipano ai vari equipaggi che si alternano sui natanti della Open Arms. Inoltre, MH “supporta” nella logistica e nella comunicazione sia i volontari spagnoli che i tedeschi di Sea Watch. Servizio completo. Il problema, se così possiamo chiamarlo, è che l’attività pro-immigrati costa e per portare avanti la battaglia politica dei “porti aperti” occorrono fondi ingenti. Mediterranean Hope è finanziato in larga parte dall’8x1000 alla Chiesa evangelica valdese. Non parliamo di spiccioli. Nell’elenco dei progetti approvati per il 2018, appaiono due capitoli di spesa in favore della Fcei: ben 500mila euro finiscono col finanziare i corridoi umanitari, altri 550mila, invece, per gli altri progetti di Mediterranean Hope (tra cui il sostegno alle Ong). Pallottoliere alla mano, dal 2014 al 2018, nel conto corrente di MH sono finiti oltre 3 milioni di euro provenienti dall’8x1000 alla chiesa valdese. Mica male. Senza contare che al progetto partecipano anche l’Unione cristiana evangelica battista (che versa 30mila euro per Medical Hope) e la Chiesa evangelica luterana (che finanzia uno sportello in favore dei migranti "dublinanti"). Tra i sostenitori figurano pure enti esteri, come la Chiesa evangelica della Vestfalia (EkvW), la Church of Scotland, la HECKS e la Chiesa riformata degli Stati Uniti. E non è un caso neppure se sul sito di MH viene dato ampio risalto alla discesa a Licata del capo della Chiesa Evangelica Tedesca (EkD). Il bishopHeinrich Bedford-Strohm è venuto in Italia per incontrare l’equipaggio della Sea Watch 3 e chiedere la “fine della criminalizzazione delle Ong”. Ne ha motivo: la EkD, infatti, è la stessa che nel 2017 ha versato 100mila euro sui conti dell’Ong tedesca per l’acquisto del Moonbird, l’aereo da ricognizione che avvista barconi in mare e li segnala ai soccorritori. Ogni decollo brucia 2.800 euro, ma la Chiesa evangelica tedesca ha messo a disposizione per il biennio 2018-2020 una “generosa sovvenzione” che ne coprirà gli ingenti costi. Perché dove ci sono i migranti, lì arrivano anche le chiese protestanti. E diversi milioni di euro.
Quello che c'è da sapere sulla Ong Open Arms. La storia e le controversie che riguardano l'Ong spagnola "Open Arms", una delle più attive nel Mediterraneo ed in special modo lungo la rotta libica. Mauro Indelicato, Venerdì 23/08/2019 su Il Giornale. La Open Arms è un’organizzazione non governativa che opera nel Mediterraneo con alcune navi addette al soccorso di barconi in difficoltà. Si tratta di dunque di una delle Ong che dal 2015 in poi intraprendono attività di ricerca lungo il Mediterraneo ed in special modo all’interno della tratta libica.
La fondazione di Open Arms. Open Arms viene fondata come organizzazione non governativa della Pro-Activa Serveis Aquàtics, una compagnia di salvataggio e recupero in acqua che ha sede nei pressi di Barcellona. Il suo fondatore è il catalano Oscar Camps, il quale nel 2015 riesce a porre in essere la nuova Ong sfruttando per l’appunto la base organizzativa della compagnia sopra citata. La Open Arms, dunque, prende il via come Ong nello stesso anno in cui molte altre organizzazioni impegnate nei soccorsi nel Mediterraneo iniziano con le proprie attività. Sotto questo punto di vista, il 2015 è l’anno della svolta per le tratte migratorie del Mediterraneo.
L’avvio delle attività nell’Egeo. E proprio come altre Ong, come tra tutte la Sea Watch, anche la Open Arms inizia le sue attività nel Mar Egeo. È qui che si concentra la maggior parte degli sbarchi nel 2015, in quanto la rotta più trafficata è quella balcanica, la quale prende il via con le traversate dalla Turchia alla Grecia. Oscar Camps viaggia assieme ad altri volontari nell’isola di Lesbo: questa località ellenica viene definita la “Lampedusa dell’Egeo”, in quanto primo approdo per tanti migranti che partono dalla Turchia, perlopiù rifugiati siriani. Camps, assieme alla neonata Ong, si avvale di attrezzature subacquee per guidare i migranti in sicurezza verso le coste greche attuando così i primi soccorsi lungo l’Egeo. Successivamente le attività si avvalgono anche dell’ausilio di alcune navi.
L’arrivo di Open Arms nel Mediterraneo centrale. Gli accordi tra Unione europea e Turchia del 2016, che prevedono tre miliardi di euro all’anno da destinare ad Ankara per l’accoglienza dei profughi siriani evitando in tal modo il loro approdo in Grecia, fa spostare l’attenzione sul fenomeno migratorio verso il Mediterraneo centrale. È qui che inizia ad operare anche Open Arms, la quale risulta tra le più attive lungo soprattutto la rotta libica. Con i suoi mezzi, i membri della ong spagnola portano in Italia diversi migranti raccolti in mare nel periodo più caldo dell’immigrazione dalla Libia verso l’Europa. Per tal motivo, la Open Arms è tra le organizzazioni che diventano più controverse e criticate dai detrattori delle attività in mare delle Ong, al contrario il suo è un nome sempre più diffuso tra chi approva il loro operato. A partire dal 2017 comunque, anche la Open Arms deve sottostare alle norme del codice delle Ong, le norme cioè volute in primo luogo dall’allora ministro dell’interno Marco Minniti il cui fine è quello di dare un codice comportamentale alle organizzazioni impegnate nel Mediterraneo centrale ed in special modo lungo la rotta libica.
Le navi usate da Open Arms. Sono tre le navi più utilizzate da parte dell’Ong Open Arms. La prima è lo yatch Astral, il quale viene usato maggiormente per operazioni di perlustrazioni e ricerche in alto mare. Le navi per il soccorso invece, soprattutto lungo le rotte del Mediterraneo centrale, sono quelle denominate “Golfo Azzurro” e “Open Arms”. Per motivi relativi a fondi e budget a disposizione, da qualche anno soltanto quest’ultima risulta attiva. La Open Arms anche negli ultimi mesi si trova nel Mediterraneo centrale, operativa assieme ad altre Ong che si occupano di soccorsi.
Le controversie. Nel corso di questi anni di attività, su Open Arms si concentrano alcune inchieste da parte delle procure siciliane. Si tratta di procedimenti in parte ancora in corso, in parte archiviati e che scavano sui comportamenti tenuti dalla Ong in alto mare. Il primo procedimento penale in tal senso è ad opera della procura di Palermo, la quale ad inizio maggio del 2017 indaga nei confronti dell’equipaggio della nave Golfo Azzurro ed in particolare sulle modalità di soccorso di oltre 220 migranti sbarcati successivamente a Lampedusa. Nel giugno 2018, i magistrati di Palermo archiviano però l'inchiesta per vi del fatto che non vengono colti “elementi concreti che portano a ritenere alcuna connessione tra i soggetti intervenuti nel corso delle operazioni di salvataggio a bordo delle navi delle Ong e i trafficanti operanti sul territorio libico”. Un secondo procedimento si ha invece nel marzo 2018 dalla procura di Catania. In questo caso, Open Arms viene accusata di associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. Di questa inchiesta una parte risulta ancora attiva, con un fascicolo aperto presso la procura di Ragusa che nel luglio 2019 chiede il rinvio a giudizio per alcuni membri dell’Ong. Sotto torchio alcune intercettazioni, in cui soccorritori di Open Arms dicono apertamente ai migranti ancora in alto mare che li avrebbero fatti entrare in Italia. Una parte dell’inchiesta invece viene archiviata. La Open Arms, è inoltre famosa per uno scontro con la guardia costiera libica con quest’ultima che spara colpi di avvertimento contro la nave Golfo Azzurro mentre si trova in acque internazionali. In particolare, una motovedetta libica posizionatasi tra l’imbarcazione dei migranti e la nave dell’Ong, intima agli uomini della Golfo Azzurro di non continuare il soccorso si circa 220 persone affermando il principio secondo cui spetta solo a Tripoli recuperare i migranti. Vengono sparati anche alcuni colpi in aria di avvertimento, la situazione di tensione dura diverse ore, fino a quando i libici si ritirano con Open Arms che ultima i soccorsi. Nel mese di marzo 2018 inoltre, si ha la notizia che la nave di Open Arms risulta sequestrata dalle autorità italiane e che il capitano e altre due persone sono indagate con l'accusa di traffico di esseri umani, il tutto dopo essere sbarcati a Pozzallo con 216 dei 218 migranti che recuperano a 117 chilometri dalle coste libiche.
Il caso dell'agosto 2019. La Open Arms torna alla ribalta della cronaca quando, a partire dai primi di agosto del 2019, la nave dell'Ong spagnola risulta stanziata a largo di Lampedusa con 163 migranti a bordo recuperati non lontano dalla Libia. Il copione appare molto simile a quanto accaduto, nei mesi precedenti, ad altre navi di altre Ong, Sea Watch e Mediterranea in primis: il mezzo con i migranti a bordo rimane per giorni in attesa del via libera per l'approdo in acque italiane, ingaggiando con il governo di Roma un vero e proprio duello. Il disco verde per lo sbarco viene negato dalle autorità italiane in virtù del cosiddetto "decreto sicurezza bis", voluto soprattutto dal ministro dell'interno Matteo Salvini. La Open Arms rimane quindi a largo di Lampedusa per 19 giorni, gli ultimi dei quali trascorsi in rada grazie alla sospensione del divieto di ingresso in acque italiane decretato dal Tar del Lazio. La situazione riguardante la Open Arms risulta delicata sotto il profilo politico in quanto giunge nel pieno della crisi di governo che attanaglia l'esecutivo gialloverde del premier Giuseppe Conte. Nel corso delle settimane trascorse in mare, vengono fatti scendere dalla Open Arms i minorenni e le persone bisognose di assistenza medica, mentre da Madrid emergono voci di critica al governo italiano ma anche di disponibilità ad accogliere i migranti. La situazione subisce un repentino cambiamento il 20 agosto: mentre dalla Spagna è in arrivo una nave militare per prendere i migranti, si diffondono voci circa la presenza di migranti che si gettano in acqua per via delle condizioni a bordo. Una volta arrivata la conferma di tali voci ad opera di alcuni soccorritori della Guardia Costiera, il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio decide di andare a bordo della Open Arms per verificare di persona la situazione. A seguito dell'ispezione, la nave viene posta sotto sequestro ed i migranti vengono quindi fatti sbarcare. Intanto dal Viminale si fa presente che, tramite un accordo raggiunto nelle ore precedenti, si può procedere ad una suddivisione delle quote di migranti da ospitare tra altri paesi europei. Attualmente la Open Arms è sotto sequestro all'interno del porto di Porto Empedocle, nell'agrigentino.
Ville e chalet di lusso: tutte le proprietà del patron di Open Arms. Un'inchiesta realizzata in Spagna rivela che Oscar Camps, fondatore della ong Open Arms tra le più attive nel salvataggio di naufraghi nel Mediterraneo, paga oltre 4 mila euro al mese per due mutui e l'affitto di uno chalet di lusso. Gianni Carotenuto, Mercoledì 04/09/2019 su Il Giornale. Tra i principali nemici di Matteo Salvini nei suoi ultimi mesi trascorsi al Viminale, Oscar Camps si è scontrato a ripetizione con il segretario della Lega. Fondatore della ong Proactiva Open Arms, Camps ha criticato più volte il leader del Carroccio per la sua indisponibilità ad aprire i porti italiani allo sbarco delle centinaia di migranti caricate dalla sua imbarcazione, la Open Arms. Un capitolo che ora è chiuso, almeno per quanto riguarda il rapporto tra Salvini e il presidente di una delle ong più battagliere nel trasporto di migranti in Italia. Ma Camps resta al centro dell'attenzione mediatica. E non solo per le attività della sua ong. Infatti, Camps è finito nella bufera in Spagna per un'inchiesta del portale Ok Diario, che rivela come - almeno fino a pochi mesi fa - il fondatore di Open Arms spendesse 4.168 euro al mese per due mutui e l'affitto di uno chalet di lusso. Nello specifico, Camps dispone di tre proprietà immobiliari: una casa bifamiliare in un comune di Barcellona vicino a Mataró, un palazzo a Girona e un'altra villa vicino alla città portuale di Denia (Alicante).
Il patrimonio immobiliare di Oscar Camps. La prima abitazione è una villetta a Tiana (Catalogna), grande 256 metri quadrati. Camps l'ha acquistata nel 2018 insieme alla moglie e con un mutuo dal valore di 408.000 euro. Ogni mese, il fondatore di Open Arms - finanziata dalle Open Society Foundations di George Soros - paga circa 1.700 euro. La villetta, valutata oltre mezzo milione di euro, ha due piani, diverse camere da letto e un garage di 83 mq. Ha anche un allarme e diverse telecamere di sicurezza per prevenire i furti. La casa si trova a poco più di un km dall'esclusivo Maritime Club di Montgat. Camps e la sua famiglia vivono qui da alcuni mesi. Camps dispone poi di un secondo immobile. Si tratta di un palazzo situato a Santa Coloma de Farners, vicino a Girona, in Catalogna. La casa si trova su un terreno di 937 metri quadrati e si compone di tre piani, ognuno largo 117 mq. Come si legge nel documento registrato al catasto, il piano terra è composto da soggiorno, sala da pranzo e cucina. Il primo piano è formato da quattro camere da letto, due bagni e uno studio, mentre al secondo piano c'è un monolocale. L'edificio, costruito nel 1983, è stato ereditato da Camps che ne è comproprietario insieme a una persona con cui condivide il secondo cognome. Non c'è due senza tre. E infatti Camps possiede anche uno chalet a Els Poblets (Alicante), situato tra le città di Gandia e Denia. Questa proprietà è stata acquisita con la moglie nel gennaio 2010 ed è tassata con un mutuo di 229.058,60 euro. Per questa proprietà esclusiva, secondo Ok Diario, Oscar Camps dovrebbe pagare 968 euro al mese. Lo chalet ha una superficie costruita di 205 metri quadrati distribuita su due piani. Il primo di questi, 126 metri quadrati, ha un bagno, una camera da letto, un soggiorno e una cucina. Il secondo piano ha altre due camere da letto, spogliatoio, bagno e terrazza di 30 metri quadrati. Ha anche un giardino privato e una piscina per uso privato.
Sos Mediterranée, che cos'è e chi l'ha fondata. Ecco quello che c'è da sapere sulla Ong Sos Mediterranée, impegnata assieme a Medici Senza Frontiere nel Mediterraneo e soprattutto lungo la rotta libica dell'immigrazione. Mauro Indelicato, Lunedì 05/08/2019, su Il Giornale. La Sos Mediterranée è un’organizzazione non governativa con sede a Marsiglia che collabora con un'altra ong: "Medici Senza Frontiere". La sua attività è incentrata soprattutto sul recupero di migranti nel Mediterraneo.
La fondazione di Sos Mediterranée. L’organizzazione viene fondata nel 2015, in uno degli anni di maggiore emergenza sul fronte degli sbarchi lungo le rotte del Mediterraneo. A preoccupare maggiormente i governi in quei mesi è soprattutto il Mediterraneo orientale, visto che la gran parte dei migranti sopraggiunti in Europa nel 2015 lo fa tramite la cosiddetta "rotta balcanica", ossia la rotta che parte dalla Grecia e tramite la quale i migranti risalgono per intero la penisola balcanica fino ad arrivare in nord Europa. Per questo motivo, sono diversi i barconi che partono dalla Turchia con l'obiettivo di approdare nella penisola ellenica. È questo anche il periodo in cui, in generale, partono le varie attività delle ong impegnate nel soccorso in mare. Sos Mediterranée nasce con l’intento di operare assieme a Medici senza frontiere e stabilisce la sua sede a Marsiglia. A fondare l’organizzazione, sono l'ex capitano tedesco Klaus Vogel e la francese Sophie Beau.
Le attività nel Mediterraneo centrale. La vera svolta per Sos Mediterranée si ha nel febbraio 2016, quando l’organizzazione noleggia con i fondi raccolti grazie a diverse iniziative private sia in Francia che in Germania, oltre che in Svizzera ed in altri Paesi europei, la nave Aquarius. Si tratta di un’ex nave oceanografica, varata nel 1976 con il nome di Meerkatze. Con la Aquarius i membri dell’associazione iniziano ad operare soprattutto nel Mediterraneo centrale, intercettando numerosi barconi a largo della Libia. È lungo la rotta libica che Sos Mediterranée, sempre grazie al supporto di Medici Senza Frontiere, opera maggiormente portando buona parte dei migranti soccorsi verso l’Italia. Una circostanza questa che attira ire e prime polemiche di natura politica in seno al panorama italiano.
Il codice delle Ong del 2017. Nell’estate del 2017, quando al ministero dell’interno siede Marco Minniti, l’allora governo di Paolo Gentiloni decide di varare un codice di comportamento per tutte le organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo centrale e che trasportano migranti soccorsi in alto mare verso l’Italia. Si tratta di una serie di norme volte a limitare non tanti i salvataggi, quanto quei comportamenti in cui le stesse ong sembrano più volte voler forzare la mano e portare a tutti i costi i migranti nel nostro Paese, scaricando sull’Italia buona parte del peso del flusso migratorio di quei mesi lungo la sempre più trafficata rotta libica. Anche Sos Mediterranée deve sottostare a questo codice, aspramente criticato dalla stessa organizzazione al pari delle altre Ong che operano lungo le rotte del Mediterraneo.
Gli attriti con il governo italiano ed il caso della nave Aquarius. Ma i veri scontri con l’esecutivo di Roma si hanno a partire dal mese di giugno 2018, da quando cioè a Palazzo Chigi si insedia Giuseppe Conte e viene varato l’esecutivo cosiddetto “gialloverde”. Al ministero dell’interno siede adesso il leader leghista Matteo Salvini, il quale introduce il principio del non ingresso nei porti italiani delle navi delle organizzazioni non governative. Secondo Salvini, i soccorsi a largo della Libia ed il successivo trasporto in Italia costituiscono nella migliore delle ipotesi un indiretto aiuto agli scafisti ed a coloro che organizzano i viaggi della speranza. Il primo braccio di ferro tra una ong ed il nuovo governo italiano, riguarda proprio il caso della nave Aquarius, quella cioè noleggiata da Sos Mediterranée. Il mezzo, nel giugno del 2018, soccorre almeno sei gommoni in difficoltà caricando a bordo complessivamente 628 migranti. Un numero molto elevato, dovuto al fatto che in quel momento la Aquarius è l’unica nave di una Ong operante nel Mediterraneo. Il ministero dell’interno italiano nega l’accesso nei porti del nostro Paese e inizia dunque un lungo tira e molla tra autorità di Roma ed Sos Mediterranée. La nave Aquarius rimane fuori dai porti per diversi giorni ed è al centro delle polemiche politiche. La situazione si risolve solo con il via libera allo sbarco da parte del governo spagnolo, con la nave che quindi vira verso il porti di Valencia.
Le navi usate da Sos Mediterranée. La Aquarius, come detto, è la prima nave che si imbatte nella nuova politica del governo italiano inaugurata dal ministro dell’interno Matteo Salvini. Per questo la nave di Sos Mediterranée diventa subito molto nota nel panorama dei messi usati dalle ong, ma attualmente essa risulta inattiva. Anche perché nei mesi successivi al braccio di ferro con il governo italiano, sulla ong di appartenenza arrivano diverse inchieste che pongono per mesi la Aquarius sotto sequestro.
L’inchiesta più importante riguarda un presunto illecito smaltimento dei rifiuti dalla Aquarius operato da Sos Mediterranée, che porta ad un sequestro molto lungo del mezzo. Oggi però l’Ong, sempre assieme a Medici Senza Frontiere, punta su un’altra nave: la Ocean Viking. Salpata nel luglio 2019 per una nuova missione nel Mediterraneo, è con questo mezzo che l’organizzazione punta a diventare nuovamente riferimento per il soccorso in mare.
Ecco i bilanci d’oro dell'Ong che produce utili milionari. Sos Mediterranee torna in mare con l'Ocean Viking. E i bilanci sono in positivo: ecco tutti i conti della Ong. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 07/08/2019, su Il Giornale. La nuova protagonista della grande commedia delle Ong nel Mediterraneo si chiama Ocean Viking, la nave di 69 metri di Sos Mediterranee. Un gigante del mare, un colosso da 14mila euro al giorno. Per portarlo fino in Libia l'associazione ha dovuto affittarlo, modificarlo, attrezzarlo e via dicendo. I costi sono ingenti. Ma i bilanci pubblicati dall'associazione e ricostruiti dal Giornale.it dicono che i fondi non sono un problema. Non in questo momento, almeno. Visto che negli ultimi due anni la Onlus nel complesso ha prodotto un utile da diversi milioni di euro. Cifre da far invidia a qualsiasi azienda italiana. Sos Mediterranee è un'associazione particolare (leggi qui come è nata). Non ha un'unica bandiera, ma è come una rete formata da una federazione di "filiali" europee. Le sue sedi sono a Marsiglia (la prima e più grande), Milano, Berlino e Ginevra. Ognuna ha un bilancio proprio e raccoglie le donazioni in maniera autonoma.
I fondi tedeschi. Iniziamo dalla Germania, di cui abbiamo trovato solo la relazione dell'attività con i bilanci aggiornati al 2017. "Le donazioni totali - si legge - (esclusi i contributi delle associazioni partner e Medici senza frontiere) sono state pari a 190mila euro nel 2015, 1,1 milioni nel 2016 e 887mila nel 2017". I costi sono ingenti, certo, ma nel 2015 Sos Mediterranee Germania è riuscita a assicurarsi "utili non distribuiti" per 158mila euro. Nel 2016 la distanza tra entrate e uscite si è ridotta, garantendo un attivo di "solo" 46mila euro che si è andato a sommare a quello dell'anno precedente. In totale, nel 2016 l'Ong ha creato un tesoretto da 204.643,59 euro di utili non distribuiti. Ci sarebbe poi da valutare il bilancio di Sos Mediterranee Operations gGmbH, una società senza scopo di lucro nata internamente e al fine di gestire "l'attività operativa" in mare negli anni scorsi. A finanziarla ci hanno pensato Msf e le filiali italiana, tedesca e francese. Dunque sono trasferimenti interni che non prenderemo in considerazione.
Il bilancio italiano. Più semplice valutare lo stato finanziario della sezione nostrana. Sos Mediterranee Italia rende noti online i bilanci e i conti economici degli ultimi tre anni. E non sono ricchi come quelli tedeschi: nel 2016 tra contributi dei soci fondatori, fondazioni e donazioni varie, il contatore delle entrate è arrivato a toccare i 297.916 euro. Le uscite hanno prevalentemente contribuito alle spese della Aquarius (200mila euro), ma risultano anche 82mila euro alla voce "fondi disponibili per l'impiego" non meglio specificata. Nel 2017 la musica non è cambiata molto. Ai 223mila euro di ricavi registrati dall'Ong fanno fronte 222mila euro di uscite (133mila solo per la nave). Una precisazione: due anni fa Sos Mediterranee Italia apparve anche tra i destinatari del 5x1000 per un totale di 4.002,18 euro. Il 2018, infine, ha visto una contrazione delle donazioni incassate (112mila euro) per 118mila euro di spese (solo 30mila per Aquarius e ben 88mila di costi di amministrazione).
I finanziamenti svizzeri. L'associazione che sfida il Viminale è una vera e propria macchina da donazioni. Nel 2017 la casa madre francese ha elargito un prestito per far partire l'esperienza elvetica. Sos Mediterranee Suisse "ha concluso l'esercizio finanziario 2018 con un utile netto di 129.613 franchi", cui vanno però tolti circa 9mila euro di passivo dell'anno precedente: il totale (119mila franchi) finirà nella “riserva associativa”, ovvero a disposizione. Se andiamo a leggere i dettagli, notiamo l'enorme circolazione di denaro. L'associazione ha incassato 175mila franchi da donatori privati, 154mila da fondazioni o associazioni, 11mila da aziende private, 38mila da alcuni Comuni svizzeri e 6mila euro di altri contributi. In totale fanno 386mila franchi (e rotti). Le uscite sono state nettamente inferiori (256.919 euro): oltre ai 147mila franchi di spese operative (di cui 60mila per la nave e 86mila per la sensibilizzazione dei cittadini), ci sono altri 53mila franchi per la ricerca dei fondi. Ecco spiegato quell'utile finale, che al cambio vale oltre 109mila euro.
L'oro francese. La vera gallina dalle uova d'oro risiede però in Francia. I bilanci raccontano di un'attività florida e un budget annuale nel 2018 da 6,8 milioni di euro (+90% rispetto al 2017). A sovvenzionarla sono oltre 38mila donatori che hanno regalato circa 4,1 milioni di euro. Altri 808mila sono stati invece elargiti da società private, fondazioni e associazioni. Poi ci sono i 380mila euro versati dalla rete europea di Sos Mediterranee e 1,4 milioni da Medici senza frontiere. Solo il 2% (135mila euro) arriva da sovvenzioni pubbliche. Per quanto ingenti, le spese operative sono state di "appena" 3,9 milioni di euro (di cui 3,4 per la Aquarius). A questi vanno aggiunti 478mila euro di costi per la raccolta fondi e 371mila per il funzionamento dell'intera macchina. In totale fanno circa 4,8 milioni di euro, molti meno di quanti ne sono stati incassati. Tolti i 254mila euro di ammortamenti, infatti, nel 2018 Sos Mediterranee Francia ha prodotto un utile di esercizio di 1,8 milioni di euro. Il tesoretto si è andato così via via ingrossando: ai 669mila euro messi nelle "riserve" nel 2016, l'Ong ha potuto aggiungere l'utile di 972mila euro del 2017 e quello da 1,8 milioni del 2018. Generando così un gruzzoletto di circa 3,5 milioni di euro. Un ottimo affare.
La storia di Ocean Viking, la nave dell'ong Sos Mediterranée. Varata nel 1985, fino allo scorso anno la Ocean Viking è stata utilizzata per il trasporto di piattaforme galleggianti: dal 2019 è invece usata da Sos Mediterranée per le missioni di salvataggio nel Mediterraneo. Mauro Indelicato, Venerdì 20/09/2019, su Il Giornale. La nave Ocean Viking è un mezzo utilizzato dall’Ong francese Sos Mediterranée, che opera insieme a Medici Senza Frontiere, per navigare nel Mediterraneo e soccorrere barconi in difficoltà. Di recente, la Ocean Viking è stata al centro di alcuni dei casi più importanti riguardanti il controverso sistema di soccorso delle organizzazioni non governative.
Il varo della nave Ocean Viking. La Ocean Viking è una nave che ha più di 30 anni di vita. Il suo varo risale al 1985, anno in cui viene commissionata e costruita in Norvegia dalla Wilhelmsen Offshore Services. La sua costruzione avviene nei cantieri della città norvegese di Brevik, l’equipaggiamento invece a Ulsteinvik. Dal 1991, la nave è nota con il nome di Viking Fighter, mentre è solo nel 2005 che prende la denominazione attuale di Ocean Viking. Il suo utilizzo consiste, durante questi anni, principalmente nel trasporto di piattaforme galleggianti. Nel 2011 la Ocean Viking viene acquista dal suo attuale operatore, ossia la società Hoyland Offshore.
Il suo utilizzo come nave di salvataggio da parte di Sos Mediterranée. Nel mese di giugno del 2019, l’Ong francese Sos Mediterranée noleggia da Hoyland Offshore la Ocean Viking con l’intento di effettuare missioni di salvataggio nel Mediterraneo assieme a Medici Senza Frontiere. L’esigenza da parte delle organizzazioni di noleggiare una nuova nave nasce dalla cessazione delle attività della Aquarius II, il mezzo utilizzato negli anni precedenti nelle rotte del Mediterraneo. La Ocean Viking viene quindi accessoriata con un centro medico e con alcune sale dedicate all’igiene e la Sos Mediterranée annuncia, a fine luglio del 2019, di essere pronta a salpare per le proprie missioni.
La prima missione della Ocean Viking come nave Ong. L’esordio della Ocean Viking come nave di Sos Mediterranée è del 4 agosto 2019: quel giorno, il mezzo con a bordo 13 membri dell’equipaggio salpa dal porto di Marsiglia per dirigersi nella parte del Mediterraneo dove si presume la presenza di barconi che partono dalla Libia. L’8 agosto Sos Mediterranée risponde ad un appello del network telefonico Alarm Phone, il quale rilancia l’allarme per un’imbarcazione in difficoltà tra la Libia e Malta. La Ocean Viking si dirige nel punto dove si trova il barcone e carica a bordo 80 migranti. Sono i primi salvati da Sos Mediterranée e Medici Senza Frontiere con la nuova nave. Nei giorni successivi vengono svolte altre tre azioni del genere, con la Ocean Viking che fa salire a bordo un totale di 356 persone. Nasce un lungo tira e molla tra la Sos Mediterranée ed alcuni governi dell’area, tra cui Italia e Malta. Da Roma, in particolare, il ministro dell’interno Matteo Salvini nega l’accesso alla Ocean Viking. Il mezzo si dirige quindi verso Malta, ma anche La Valletta non concede la possibilità di ingresso nelle proprie acque territoriali. Dopo circa una settimana trascorsa a vagare nel Mediterraneo centrale, Sos Mediterranée risponde negativamente ad un’offerta di attracco in Libia da parte delle autorità di Tripoli. Questo perché il Paese nordafricano non viene considerato come porto sicuro. La diatriba termina il 23 agosto, quando la Ocean Viking fa rotta verso Malta in quanto da La Valletta arriva il via libera allo sbarco. Il governo maltese, in particolare, autorizza l’approdo per via della proposta europea di redistribuzione dei migranti a bordo della Ocean Viking.
La seconda missione di salvataggio. Ad un mese esatto dalla prima missione, la Ocean Viking torna ad operare lungo la rotta libica dell’immigrazione. L’8 settembre infatti, recupera a bordo 50 migranti i quali si trovano all’interno di un’imbarcazione in difficoltà. Pochi giorni dopo, salgono a bordo altri 34 migranti presi dal veliero Josefa ed in difficoltà a causa di un forte maltempo. Complessivamente, la Ocean Viking viaggia tra Italia e Malta con 84 migranti a bordo. Rispetto al mese precedente, sono cambiate le circostanze politiche. In Italia al governo non c’è più la Lega assieme al Movimento Cinque Stelle, al suo posto vi è un esecutivo sì guidato ancora da Giuseppe Conte ma con l’alleanza tra Movimento cinque stelle e Partito democratico. Il principale protagonista dello stop all’ingresso di mezzi delle ong, ossia l’ex ministro Matteo Salvini, è adesso all’opposizione. Quello della Ocean Viking rappresenta il primo caso inerente l’immigrazione affrontato dal nuovo esecutivo. La linea appare diversa rispetto a prima: da Roma infatti arriva l’ok allo sbarco, anche se solo dopo la promessa di una ripartizione degli 84 migranti a bordo. La Ocean Viking sbarca quindi a Lampedusa, tra le proteste del sindaco dell’isola che lamenta una crescita della pressione migratoria.
Le prospettive future. A differenza delle altre navi delle png che durante l’estate ingaggiano duelli con il governo di Roma, la Ocean Viking non viene sequestrata una volta all’interno del territorio italiano. La nave subisce solo un’ispezione durata nove ore da parte della Guardia Costiera, ma il giorno dopo ha il permesso di ripartire. Il 16 settembre, sempre a largo della Libia, effettua un’altra azione di salvataggio, seguite da analoghe operazioni. Complessivamente la Ocean Viking ha a bordo 109 migranti. Una vicenda che la dice lunga su come la Sos Mediterranée, tramite questa nave, intende operare nel Mediterraneo sfruttando anche la nuova linea del governo italiano.
CAROLA E LA MEZZALUNA. Maurizio Belpietro per “la Verità” il 5 luglio 2019. Non bastava la Chiesa Evangelica, il capo dei verdi tedeschi e Gregor Gysi, ultimo leader della Germania comunista prima del crollo del muro di Berlino. Adesso a finanziare la Sea Watch ci si mettono pure gli islamici, i quali evidentemente vedono di buon occhio chiunque aiuti i musulmani a sbarcare in Europa. A Colonia l' associazione Milli Görüs e l' organizzazione umanitaria Hasene international (stessa parrocchia con il simbolo della mezzaluna turca) hanno infatti deciso di donare 10.000 euro alla Ong della Capitana Carola Rackete, lanciando in contemporanea un invito a tutti i fedeli dell' islam affinché sostengano chi «salva vite nel Mediterraneo». Milli Görüs e Hasene nel comunicato in cui annunciano l' iniziativa criticano la politica europea sui rifugiati e se la prendono pure con Salvini. «Chiediamo ai musulmani di contribuire alle donazioni per i salvataggi in mare», sono le parole di Bekir Altas, segretario del gruppo islamico, il quale per l' occasione ha aggiunto che la politica dei rifugiati dell' Europa gli provoca vergogna da molto tempo. «Con la criminalizzazione e l' arresto dei soccorritori però si è varcata la soglia della tollerabilità», ha infine concluso. Dunque, via alla colletta pro Rackete. Chi non viva in Germania o in Turchia è probabile che non sappia niente di Milli Görüs, ma è sufficiente scavare appena un poco per scoprire i molti interessi di questa associazione che fu fondata negli anni Settanta da un ex primo ministro turco. Necmettin Erbakan, questo il suo nome, guidò il governo di Ankara e fu il primo politico islamista dalla fondazione della Repubblica voluta da Mustafa Kemal Atatürk. Morto nel 2011, di fatto fu colui che aprì la strada a Recep Tayyip Erdogan e alla islamizzazione della Turchia, che Atatürk aveva voluto laica, proibendo l' uso dei simboli religiosi e del velo. Tanto per far capire come la pensasse e quali fossero i principi ispiratori dell' associazione da lui fondata, basti ricordare alcune sue frasi: «Gli europei sono malati, daremo loro il farmaco giusto. Tutta l' Europa diventerà islamica. Conquisteremo Roma», disse in una delle sue uscite più famose. Di lui ci si ricorda in uno dei suoi ultimi interventi il no alla visita di Papa Benedetto XVI in Turchia, un no che era anche una bocciatura dell' Europa, che Erbakan chiamava con un certo disprezzo «il club cristiano». Essendo ferocemente antisemita, sugli ebrei diceva cose come questa: «Tutte le nazioni infedeli sono un' entità sionista; gli ebrei vogliono governare dal Marocco all' Indonesia, i sionisti hanno lavorato per 5.767 anni per costruire un ordine mondiale in cui tutti i soldi e il potere dipendono dagli ebrei, il dollaro Usa è denaro sionista, i "batteri" ebraici devono essere diagnosticati per una cura da trovare; i sionisti iniziarono le crociate, gli ebrei fondarono il protestantesimo e l' ordine capitalista; e Bush ha attaccato l' Iraq per costruire la Grande Israele, così Gesù può tornare». Tanto per dire chi si stia mobilitando per finanziare Sea Watch e dunque gli sbarchi in Italia serve ricordare che gli aderenti all' associazione sono almeno 87.000, ma i sostenitori superano il mezzo milione in Europa, molti dei quali concentrati in Germania, ma non solo. Nella Ue il movimento può contare su 514 moschee, 313 sale di preghiera e diverse scuole coraniche. In Germania - nonostante in passato sia stata inserita nella black list delle organizzazioni islamiche integraliste - Milli Görüs ogni anno fa lezione di Corano a 70.000 ragazzi e in 20.000 partecipano ai campi estivi che l' associazione organizza. A lungo sospettata di avere affinità con i Fratelli musulmani e di finanziare Hamas, Milli Görüs (che in turco vuol dire «punto di vista») è presente anche in Francia, dove controlla numerose moschee, nel Regno unito, nei Paesi Bassi, in Austria, Danimarca, Svezia, Norvegia, Belgio e Svizzera. Con una struttura così capillare in tutta Europa, poteva dunque mancare una presenza in Italia? Ovviamente no. E infatti a Milano Milli Görüs è molto attiva, al punto da voler trasformare la sede dell' associazione in via Maderna in una vera e propria moschea, con tanto di minareti. Insomma, per usare le parole di Necmettin Erbakan, l' organizzazione da lui fondata persegue con un certo impegno l' idea di conquistare il vecchio continente e di conseguenza Roma. Tutto ciò per dire che da oggi Sea Watch ha un nuovo alleato, ossia il più importante movimento islamico presente in Europa. Non ci sono più solo gli esponenti della Chiesa evangelica, i verdi, gli ex comunisti e le varie organizzazioni umanitarie a tenerle bordone. Ora a sostenere la capitana c' è anche la comunità musulmana e il disegno appare perfetto. Consentire lo sbarco di extracomunitari spacciati per profughi e naufraghi quando in realtà si tratta di immigrati che non fuggono dalla guerra e neppure sono stati tratti in salvo mentre rischiavano di annegare, serve all' obiettivo che piaceva tanto al defunto fondatore di Milli Görüs, il teorico dell' islam politico in Turchia. Altro che ragioni umanitarie, in questa faccenda di Ong che fanno la spola tra una sponda e l' altra del Mediterraneo scaricando migliaia di persone sulle nostre coste c' è un piano ed è preciso, ben spiegato in un articolo di Milli Gazzette, il giornale del movimento: «Anche se loro (gli imperialisti) cercano di nascondere le loro intenzioni, dobbiamo esporli e creare un nuovo mondo su una base giusta. Perché siamo sulla soglia di una nuova conquista. Conquista significa una nuova fase. Una nuova fase significa un nuovo mondo. Un nuovo mondo significa Milli Görüs. Milli Görüs rappresenta il nostro popolo nobile. Il nostro popolo nobile è sinonimo di vittoria. La vittoria è nostra e la vittoria è vicina». Del resto, sapete qual è il simbolo di Milli Görüs in Italia? Una penisola verde islam sormontata da una mezzaluna
Quelle basi operative in Italia: ecco dove decollano i voli Ong. I due aerei da ricognizione non fanno più base a Malta. Ogni volo costa 2.800 euro: ecco chi (e come) li finanziano. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 18/06/2019, su Il Giornale. Nel mar Mediterraneo non ci sono solo navi umanitarie. Le Ong, oltre ad una discreta flotta, possono vantare anche due piccoli (ma attivissimi) aerei da ricognizione. Sono loro la vedetta sul mare nostrum: decollano, avvistano il barcone e lo segnalano ai soccorritori. Già in passato l'attenzione mediatica si era concentrata sui velivoli non governativi. Stavolta, però, la questione è un'altra: perché se in passato il Colibrì e il Moonbird decollavano da Malta, ora hanno spostato la loro base operativa altrove. Anche in Italia. Facciamo un esempio. Lo scorso 15 maggio il gommone con 65 migranti in mare, poi recuperati dai tedeschi di Sea Watch, era stato avvistato proprio dal Colibrì, guidato dai Pilotes Volontaires francesi. Il decollo, come ha rivelato Fausto Biloslavo, era avvenuto dall'aeroporto dell'isola italiana. Come mai? Semplice: La Valletta ha negato le autorizzazioni al volo sui cieli nazionali agli aerei che individuano barconi nel Mediterraneo e così ora i due velivoli hanno diverse basi operative, tra cui almeno una nel Belpaese. "Malta non è più una base delle operazioni - spiega Ruben Neugebauer, portavoce di Sea Watch a Quarta Repubblica - Ma non ci ha detto la ragione". Oggi quindi partono da Lampedusa e vantano "più basi" che però, "per ragioni di sicurezza", non vogliono dire quali sono e dove si trovano. Sia chiaro: far alzare in volo degli aerei, per quanto di piccole dimensioni, costa caro. Ma questo non sembra essere mai stato un problema per le Ong. Stando al bilancio di Sea Watch, nel 2018 i fondi a disposizione del Moonbird erano di ben 262mila euro. Vi sembrano tanti? Sono necessari: si tratta infatti di un Cirrus SR22 monomotore e consuma ben 2.800 euro di risorse ogni volta che si lancia sulla pista di decollo. Non proprio spiccoli. Una volta che si trova tra le nuvole, ha il compito di "assistere le navi di soccorso nella ricerca di imbarcazioni in pericolo", di "aiutare il coordinamento delle missioni" e di "documentare le violazioni dei diritti umani da parte di attori libici o europei". Il tutto finanziato grazie al sostegno significativo della Chiesa evangelica tedesca. Non è un caso quindi se sia Sea Watch che Sea Eye ringraziano "le Chiese per la promozione del salvataggio in mare nel Mediterraneo" e in un sito loro dedicato rendono visibile "l'impegno della Chiesa" in favore dei migranti. Online mostrano anche i volti e le dichiarazioni dei fan della flotta buonista. Tra loro, come sottolineava Biloslavo sul Giornale, spiccano il cardinale cattolico Reinhard Marx e Heinrich Bedford-Strohm, Presidente del Consiglio della Chiesa evangelica tedesca (quella che ha danato 100mila euro per l'acquisto dell'aereo e che copre i costi del progetto per due anni). "Non può essere che i profughi che vengono dai lager libici, quando vengono salvati poi le autorità non permettano loro di sbarcare - dice Bedford-Strohm a Quarta Repubblica - riportare queste persone in Libia è inaccetabile, è uno scandalo morale". Amen.
C'è un prete dietro il centralino che diffonde bufale sui naufragi. Don Zerai, il parroco eritreo soprannominato anche "don Barcone", è fondatore dell'agenzia che gestisce il network telefonico Alarm Phone. Mauro Indelicato, Martedì 18/06/2019, su Il Giornale. Nei giorni scorsi si assiste ad una ripresa non solo delle partenze dalla Libia, ma anche del braccio di ferro tra Ong e governo italiano con riferimento soprattutto alle politiche del ministro dell’interno Matteo Salvini. Delle partenze dalle coste del paese africano, si viene a conoscenza il più delle volte con i Tweet delle stesse organizzazioni non governative le quali a loro volta però danno spazio alle segnalazioni di Alarm Phone. Un nome quest’ultimo che proprio in queste settimane appare sempre più citato sia sui social, che sui media: tutto parte proprio dal canale Twitter di Alarm Phone, network telefonico i cui centralinisti ricevono chiamate direttamente dai barconi. Per questo spesso, nelle segnalazioni social, spuntano sia le foto dei natanti che le coordinate esatte della loro posizione. Una precisione, per l’appunto, che si può avere solo grazie a diretti contatti telefonici e satellitari con alcune delle persone a bordo dei barconi o dei gommoni. E qui sorge la prima domanda: come avvengono questi contatti? Del resto ben si intuisce il fatto che a determinate miglia dalla costa i normali cellulari non hanno alcun segnale. I contatti dunque non possono che avvenire con mezzi satellitari, i quali certamente hanno dei costi che singoli migranti che già spendono cifre esose per partire dalla Libia non possono permettersi. Una “traccia” di come avvengono i contatti tra un barcone ed Alarm Phone, si ha grazie ad un episodio risalente allo scorso 20 gennaio descritto da Fausto Biloslavo su Panorama. In particolare, un tweet di Alarm Phone segnala la presenza di un barcone non lontano dalla Libia che rischia di affondare. Scattato l’allarme, sul posto arriva un aereo della missione Sophia le cui foto dimostrano come in realtà il mezzo non sta imbarcando acqua. Ma la bufala lanciata per mezzo del canale di Alarm Phone non è la circostanza più grave di questo episodio. Gli stessi uomini della missione Sophia infatti, individuano un uomo in possesso di un telefono satellitare Thuraya. È lui alla guida del barcone ed è al contempo anche il principale sospettato di essere lo scafista del mezzo, tanto da essere segnalato alla polizia italiana. Ma anche in altri episodi si riscontra come, il più delle volte, è proprio la scafista ad essere in possesso dei telefoni satellitari Thuraya. Ecco quindi che emergono i sospetti di contatti diretti tra scafisti ed Alarm Phone. E qui arriva la seconda domanda: chi gestisce Alarm Phone? Sul sito della stessa agenzia si fa riferimento alla missione dei volontari ed ai propri obiettivi. Su Agensir, un’agenzia di stampa cattolica, appaiono invece delle descrizioni più precise. In particolare, in un articolo del 12 agosto 2015, si afferma che Alarm Phone “è un network telefonico dell’agenzia Habeshia, la rete di volontari fondata nel 2006 dal sacerdote eritreo don Mussie Zerai”. Ed ecco che ritorna un nome più volte in passato alla ribalta quando si parla di migranti: Zerai è al centro del circuito mediatico già nel 2013, anno della strage del 3 ottobre a Lampedusa. È lui a scendere in Sicilia dal Vaticano rilasciando numerose interviste, presenzia anche alle celebrazioni in suffragio delle vittime svoltesi al porticciolo di Agrigento. Una notorietà che gli vale anche la candidatura al nobel per la pace nel 2015. Da allora sono diversi i nominativi a lui affibbiati: si va da quelli positivi, in cui Zerai è “angelo dei migranti”, a quelli più negativi in cui il sacerdote viene dipinto come “don Barcone”. Negli anni più bui dell’emergenza immigrazione, in tanti si chiedono come mai gli scafisti abbiano il suo numero e conoscano quelli dei centralini del suo network telefonico, Alarm Phone per l’appunto. Lui si difende affermando, sempre su Agensir, che in realtà il suo numero in Libia è molto diffuso già nel 2003, quando si trova all’interno di alcune missioni nei campi profughi del paese africano: “Il mio numero da allora inizia ad essere scritto anche sui muri, nel 2011 viene anche enunciato da diverse emittenti”. Ma su questa questione a voler vedere chiaro sono anche i magistrati di Trapani, che nel 2017 aprono un fascicolo contro don Zerai con l’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Il nome del parroco eritreo ritorna comunque alla ribalta: Alarm Phone è quindi un network della rete di volontari fondata dal sacerdote eritreo. Un network però non esente da sospetti e soprattutto da conclamate bufale, come quella del barcone in avaria del 20 gennaio scorso o come quella di pochi giorni fa, che parla di una bimba morta a bordo di un gommone a largo della Libia, circostanza poi smentita dalla nostra marina miliare accorsa sul posto. Un modo, quello della narrazione sui social di Alarm Phone, per mettere pressione e spingere i governi ad avallare il lavoro delle Ong. Una finalità dunque più politica che umanitaria, ben inserita nel contesto dell’attuale braccio di ferro tra le organizzazioni non governative ed il governo italiano.
Sea Watch, chi è la bosniaca amica delle Ong che ci fa la moraletta sui clandestini. Il Secolo d'Italia martedì 18 giugno 2019. Ci fa la moraletta sugli immigrati intimandoci di aprire i portie accoglierli a braccia aperte ma quello che non dice la bosniaca Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa e amica delle Ong che, come la Sea Watch, stanno scaricando in Italia vagonate di clandestini, è quanti immigrati ha accolto il suo Paese. «Sono molto preoccupata – fa il piagnisteo la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa accusando esplicitamente l’Italia – per l’attuale approccio del governo italiano sulla questione. Le Ong, come Sea Watch, sono cruciali per salvare vite in mare, specialmente dopo che i Paesi europei hanno lasciato un vuoto negli ultimi anni nella capacità di soccorso». «Piuttosto che stigmatizzare, attaccare e criminalizzare le Ong, bisognerebbe sostenerle – dice la commissaria bosniaca cercando di generare sensi di colpa negli italiani – penalizzare loro o altri perché salvano vite in mare è contro la legge del mare ed il diritto umanitario». Quanto alla situazione in Libia, Dunja Mijatovic sostiene come «le prove dimostrino che questo Paese non è sicuro: è in corso una guerra e i migranti affrontano un trattamento disumano, come torture, schiavitù, violenza sessuale, detenzione arbitraria e a tempo indefinito. I migranti ed i rifugiati non dovrebbero essere rimandati lì: è dunque non solo ragionevole, ma necessario, che i capitani di queste navi esercitino la loro discrezione nel rifiutarsi di rimandare i migranti ed i rifugiati in Libia e questo non dovrebbe essere sanzionato in alcun modo dagli Stati». Insomma il concetto che la bosniaca Dunja Mijatovic vorrebbe sostenere è che se una Ong come la Sea Watch vuole portare gli immigrati nel nostro Paese l’Italia si deve inchinare alla Ong e al capitano della nave. Una follia vera e propria. Non c’è dubbio, concede la commissaria bosniaca «che l’Italia sia tra i Paesi in prima linea che hanno affrontato sfide enormi nel soccorso e nell’accoglienza dei migranti: è dunque necessario che altri Paesi europei si assumano la loro parte di responsabilità nel fare questo» ma, comunque, «i disaccordi politici sugli sbarchi non devono mai superare i diritti umani e le preoccupazioni umanitarie: è per questo – conclude Dunja Mijatovic – che Sea Watch 3 deve presto ricevere un porto sicuro e rapidamente accessibile, le vite umane devono sempre venire prima degli accordi politici». «È incredibile che il Consiglio d’Europa – un organismo che con i fatti ha dimostrato di essere antidemocratico, impedendo la nascita del nostro nuovo gruppo, cambiando in corsa le regole e facendo attività di dossieraggio sui parlamentari ritenuti scomodi di forze politiche come la Lega, il Front national, l’Fpo, l’Afd – oggi arrivi a bacchettare l’Italia – accusano i parlamentari della Lega nella delegazione italiana al Consiglio d’Europa, Paolo Grimoldi e Alberto Ribolla – attraverso Dunja Mijatovic, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, nel documento sulla protezione di rifugiati e migranti nel Mediterraneo reso noto oggi, mettendo sotto accusa le politiche migratorie italiane». «Da che pulpito – aggiungono Grimoldi e Ribolla – parla la signora Mijatovic che intima all’Italia di “mettere fine alla politica di chiudere i porti per tutte le Ong, di proibire la navigazione in acque territoriali”. Siamo uno Stato sovrano e decidiamo noi chi entra nelle nostre territoriali, in base alle nostre leggi per la nostra sicurezza. Detto questo, signora Mijatovic la sua Bosnia in questi anni quanti immigrati africani si è presa in carico? Facile sentenziare dal pulpito, facile predicare bene, quando poi con i fatti si razzola male…».
SALUTAME A SOROS! Gad Lerner per “la Repubblica” il 17 Giugno 2019. Non abituiamoci proprio a tutto. Rischia di passare in cavalleria l'ultima mascalzonata della propaganda che ormai equipara il finanziere George Soros al diavolo in terra. E siccome è molto ricco, siccome fu tra gli speculatori che nel 1992 scommisero vittoriosamente sulla svalutazione della sterlina e della lira, siccome devolve in opere di filantropia quasi la metà del suo patrimonio da 32 miliardi di dollari, siccome lo detestano all' unisono Trump, Putin e Netanyahu, Soros è stato elevato a malvagio burattinaio della Grande Sostituzione etnica, cioè l' immigrazione pianificata attraverso cui, per saziare la propria avidità, la finanza mondialista starebbe abbattendo il costo della manodopera europea. Quando vi domandate come sia stato possibile abusare della credulità popolare col falso libello dei Protocolli dei Savi di Sion (rabbini e banchieri riuniti in segreto per pianificare lo sfruttamento delle ricchezze del pianeta), e poi convincere i tedeschi che erano diventati poveri per colpa della finanza ebraica che li depredava, ecco, la risposta la troverete nella velenosa capacità persuasiva della campagna scatenata oggi contro l' ottantanovenne finanziere Soros. Sabato scorso, per criticare il finanziamento pubblico di Radio Radicale, il blog del Movimento 5 Stelle l' ha definita Radio Soros; pubblicando un' immagine arcigna del finanziere, identica a quelle con cui Victor Orbàn tappezza da anni le strade d' Ungheria. Per costoro, scrivere Radio Soros dovrebbe essere di per sé considerato già un insulto; un po' come - si parva licet - di recente alcuni ceffi di Forza Nuova pensarono di insultarmi dandomi dell' ebreo. Non c' è da stupirsi per questo allineamento del M5S alla campagna di Fratelli d' Italia ("Soros usuraio"), della Lega di Salvini ("È in atto un tentativo di genocidio delle popolazioni che abitano l' Italia", testuale), di CasaPound e compagnia bella. Da tempo il loro senatore Elio Lannutti invoca l' arresto immediato del "criminale Soros" qualora rimettesse piede in Italia; proponendo in sovrappiù "l' affondamento immediato delle navi delle Ong finanziate da Soros". Quando poi si è lasciato scappare la mano ritwittando - non importa se per ignoranza o per malizia - un elogio dei Protocolli dei Savi di Sion, il capo del suo movimento non ha ritenuto di chiedere alcun provvedimento disciplinare. Per scrollarsi di dosso l' accusa di antisemitismo, gli orchestratori della campagna anti-Soros si sono inventati di sana pianta l' accusa secondo cui - benché ebreo e benché adolescente - durante l' occupazione nazista egli avrebbe svolto opera di delazione collaborazionista. Perfido fin da ragazzino! Neanche possono concepire che un ungherese scampato alla persecuzione razziale e al giogo del regime comunista, seduto su una montagna di denaro come tanti altri finanzieri statunitensi (vive a New York dal 1956), egli si sia preso il lusso di fare i conti con la propria biografia investendo in progetti umanitari una quota significativa dei suoi profitti. Certo non ha giovato alla popolarità di Soros la scelta di finanziare piani d' integrazione dei Rom nell' Europa centro-orientale dove sono tuttora vittime di pregiudizio generalizzato. E in seguito di allargare il suo raggio d' azione a opere di sostegno dei migranti, attraverso le Ong che praticano il soccorso e l' accoglienza. Se un riccone sceglie di esporsi manifestando le sue idee liberal e persegue la visione di società aperta del suo maestro Karl Popper - secondo la mentalità reazionaria dei cospirazionisti - deve per forza esserci sotto qualcosa. Egli vorrebbe sembrare generoso, ma è un subdolo calcolatore. E chiunque lo appoggi, anch' egli lo farà solo per vil denaro. Provvidenziale giunge ai pianificatori della demonizzazione di Soros l' ostilità manifestata nei suoi confronti dal premier israeliano Netanyahu, al quale risulta insopportabile che Open Society finanzi anche delle Ong filopalestinesi. Questa è la foglia di fico con cui si proteggono dal disagio crescente nel mondo ebraico, che non può non riconoscere con sgomento la facilità con cui vengono riproposte le caricature, gli slogan, la visione deformata di un potere occulto, che funestarono la prima metà del secolo scorso per legittimare l' antisemitismo. Ricordiamocelo: la falsa credenza del grande vecchio, diavolo in terra, perfido orchestratore di manovre economiche a danno dei popoli innocenti, è stata e continuerà a essere l' anticamera della barbarie.
Lerner fa il megafono di Soros e difende le sue "mascalzonate". Su Repubblica Lerner attacca chi critica Soros: "Mascalzonate". Poi lo difende: "Se un riccone manifesta le sue idee liberal deve esserci sotto qualcosa". Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Lunedì 17/06/2019, su Il Giornale. La difesa a spada tratta arriva dalle colonne di Repubblica. Il commento Se Soros diventa il diavolo porta la firma di Gad Lerner che si scaglia contro chi lo accusa di orchestrare l'invasione degli immigrati dal Nord Europa, finanziando quelle ong che fanno da staffetta dalle coste libiche ai porti italiani, e di versare soldi nelle casse dei partiti filo europeisti. Le definisce delle "mascalzonate" e si scaglia contro la Lega, che in Italia si è schierata più volte contro il magnate ungherese, e contro leader internazionali come Donald Trump, Vladimir Putin e Viktor Orban che ne hanno smascherato pubblicamente le mire. Nel farlo arriva addirittura a scusargli la speculazione contro il sistema Italia che nel 1992 lo portò ad attaccare pesantemente la lira. "Siccome è molto ricco, siccome fu tra gli speculatori che nel 1992 scommisero vittoriosamente sulla svalutazione della sterlina e della lira, siccome devolve in opere di filantropia quasi la metà del suo patrimonio da 32 miliardi di dollari, siccome lo detestano all'unisono Trump, Putin e Netanyahu, è stato elevato a malvagio burattinaio della Grande Sostituzione etnica, cioè l'immigrazione pianificata attraverso cui, per saziare la propria avidità, la finanza mondialista starebbe abbattendo il costo della manodopera europea". L'assoluzione di Lerner per George Soros è completa. Non importa se le ingerenze del magnate ungherese nelle scelte politiche di molti Paesi (occidentali e non) siano ormai alla luce del sole. Alle ultime elezioni europee aveva fatto arrivare 200mila euro nelle casse di +Europa, il partito di Emma Bonino che nel panorama dei candidati era sicuramente quello che maggiormente difendeva gli interessi di Bruxelles in Italia. Proprio per fermare queste ingerenze, in Ungheria, Orban ha fatto approvare dal parlamento leggi ad hoc per limitare le donazioni da associazioni internazionali (come, appunto, Open Society) e per cacciare dal Paese l'ateneo del finanziere.
Per Lerner la reazione dei governi sovranisti all'ingerenza di Soros va equiparata alla propaganda nazista e alle persecuzioni di Adolf Hitler contro la comunità ebraica. "Quando vi domandate come sia stato possibile abusare della credulità popolare col falso libello dei Protocolli dei Savi di Sion (rabbini e banchieri riuniti in segreto per pianificare lo sfruttamento delle ricchezze del pianeta), e poi convincere i tedeschi che erano diventati poveri per colpa della finanza ebraica che li depredava - scrive il giornalista su Repubblica - ecco, la risposta la troverete nella velenosa capacità persuasiva della campagna scatenata oggi contro l'ottantanovenne finanziere Soros". Quindi passa a elencare le critiche mosse dai politici al finanziere ungherese. Se la prende con un post del blog del Movimento 5 Stelle che definisce Radio Radicale "Radio Soros", denuncia la campagna di Fratelli d'Italia in cui gli dà dell'"usuraio" e accusa Matteo Salvini perché, in più di un'occasione, ha parlato del tentato "genocidio delle popolazioni che abitano l'Italia". "Certo - scrive Lerner su Repubblica - non ha giovato alla popolarità di Soros la scelta di finanziare piani d'integrazione dei Rom nell' Europa centro-orientale dove sono tuttora vittime di pregiudizio generalizzato. E in seguito di allargare il suo raggio d' azione a opere di sostegno dei migranti, attraverso le Ong che praticano il soccorso e l'accoglienza". Per capire certe invettive, soprattutto quelle dei partiti di destra, basta fare un salto indietro di un paio di anni, quando nel Mediterraneo le navi delle Ong facevano avanti e indietro dalle coste libiche ai porti italiani. Il mare era davvero affollato. Moas, Jugend Rettet, Stichting Bootvluchting, Médecins sans frontières, Save the children, Proactiva Open Arms, Sea Watch, Sea Eye e Life boat ci riempivano di disperati che fuggivano dall'Africa per cercare fortuna nel Vecchio Continente. Si parlava di oltre 150mila arrivi all'anno. A finanziare quelle missioni c'era anche Soros con la sua Open Society. Già allora la Sea Watch si batteva per il "diritto alla libertà di movimento" dicendo apertemente che non accetta "arbitrarie distinzioni tra profughi e migranti". Oggi l'ong tedesca è rimasta una delle ultime a resistere alla stretta di Salvini e alla chiusura dei porti italiani. Una stretta fortemente criticata anche da Lerner, da sempre sostenitore dell'accoglienza a oltranza per chiunque bussi alle porte dell'Europa. Da qui il proprio sostegno a Soros: "Se un riccone sceglie di esporsi manifestando le sue idee liberal e persegue la visione di società aperta del suo maestro Karl Popper - secondo la mentalità reazionaria dei cospirazionisti - deve per forza esserci sotto qualcosa. Egli vorrebbe sembrare generoso, ma è un subdolo calcolatore. E chiunque lo appoggi, anch'egli lo farà solo per vil denaro".
Insomma, Soros è un santo, un benefattore, un filantropo. E "le caricature, gli slogan" e "la visione deformata di un potere occulto" sono identici a quelli che "funestarono la prima metà del secolo scorso per legittimare l'antisemitismo". I sovranisti di oggi come i nazisti di ieri. È questa la tesi di Lerner, che avverte il lettore di Repubblica: "La falsa credenza del grande vecchio, diavolo in terra, perfido orchestratore di manovre economiche a danno dei popoli innocenti, è stata e continuerà a essere l'anticamera della barbarie". Certo, Soros non sarà il grande burattinaio in grado di decidere le sorti dell'universo mondo, ma è incontestabile il suo ruolo determinante nelle scelte politiche di alcuni Paesi. Basti pensare a quanto disse in un'intervista alla Cnn: "Ho creato una fondazione in Ucraina prima che il paese diventasse indipendente dalla Russia. Questa fondazione ha continuato a operare e ha avuto un ruolo importante negli eventi recenti". E l'elenco potrebbe essere molto più lungo...
Difesa a senso unico di Soros: la crociata di Gad Lerner su Rai3. Dopo l'articolo pubblicato su Repubblica, Gad Lerner è tornato a difendere il finanziere su Rai3 durante la sua nuova trasmissione. Una puntata a senso unico sulla tv pubblica. Roberto Vivaldelli, Martedì 18/06/2019, su Il Giornale. Gad Lerner corre in soccorso del finanziere George Soros. Quest’ultimo non ne avrebbe nemmeno bisogno, dato che è presidente e fondatore di una potentissima e ricchissima rete filantropica - la Open Society Foundations - osannata da tutta la stampa progressista mondiale. Il miliardario e donatore "liberal", promotore della diffusione della “democrazia” e dei "diritti umani" prima nei Paesi ex sovietici e poi in tutto il mondo, è stato mitizzato nella puntata del nuovo programma di Gad Lerner, L’approdo su Rai3, dal titolo Dagli al buonista!. In studio con lui il professor e storico Adriano Prosperi e Sofia Ventura, docente di comunicazione politica presso l’Università di Bologna. “In questa puntata - si legge - andiamo in Guascogna, nella Francia occidentale, per incontrare nel suo castello Renaud Camus, ideologo della teoria della 'Grande Sostituzione' etnica cara alle destre europee, secondo cui l'immigrazione africana e islamica sarebbe favorita dalla grande finanza mondialista. George Soros ne sarebbe il burattinaio, Papa Francesco il profeta, i radical-chic i detestabili propugnatori, amici degli immigrati e quindi nemici del popolo”. Naturalmente, la narrazione proposta da Lerner è tutta a senso unico, senza possibilità di un confronto aperto con persone che la pensano diversamente dal giornalista. Dopo l’elogio pubblicato su La Repubblica, Lerner torna a prendere le difese del finanziere liberal sul servizio pubblico in una trasmissione che trasuda dell’ego smisurato del conduttore. Gad Lerner fa apparire i critici dello speculatore come degli "antisemiti", che criticano il suo operato soltanto perché è ebreo, o perché sono dei “complottisti” che credono alla bufala dei Protocolli dei Savi di Sion. "Soros rappresenta lo stereotipo perfetto di questo tipo di narrazione - spiega Sofia Ventura in studio, stuzzicata da Lerner - il complottismo si presenta sotto forma di un racconto, di una trama". Lerner ricorda poi che "Soros viene definito uno schiavista" soltanto perché ha il buon cuore di finanziere le ong che operano nel Mediterraneo (ma non era una bufala?). Il tentativo - maldestro - del conduttore è chiaro: prendere come esempio i critici del finanziere più ridicoli e deprecabili al fine di far passare il messaggio che tutti quelli che mettono in discussione le numerose iniziative del milionario di origine ungherese non hanno argomentazioni ma pregiudizi e sono, nel migliore dei casi, poco preparati e plagiati dalla "narrazione" sovranista. Nell'articolo pubblicato su Repubblica, il giornalista ha affermato che il fondatore dell'Open Society è stato demonizzato e spesso viene considerato, specialmente dalla destra populista come una sorta di 'burattinaio' degli attuali flussi migratori di massa e della 'grande sostituzione' che interesserebbe l’Europa. Gad Lerner evita accuratamente di menzionare le critiche più strutturate e documentate mosse all’operato dello speculatore. Per quanto riguarda l’Italia, il finanziere divenne tristemente famoso durante il cosiddetto “mercoledì nero” del 16 settembre 1992, quando la lira italiana e la sterlina inglese furono costrette ad uscire dal Sistema Monetario Europeo (Sme) a seguito di una speculazione finanziaria da lui condotta attraverso il fondo Quantum: operazione che lo stesso Soros non ha mai rinnegato e di cui non si è mai pentito, come confermava in un'intervista pubblicata sull'Huffington Post. Quel giorno lo “squalo” della finanza vendette lire allo scoperto comprando dollari, e ciò costrinse la Banca d’Italia a vendere 48 miliardi di dollari di riserve per sostenere il cambio, portando a una svalutazione della nostra moneta del 30%. Soros è stato così vittima delle critiche che, nel 1995, soltanto tre anni dopo quella spericolata speculazione finanziaria, ricevette la Laurea honoris causa presso l'Università di Bologna per volontà di Romano Prodi. L’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi raccontò, in una rara intervista, ciò che successe in quei giorni: "Il finanziere squalo Soros fece una colossale speculazione sulla lira, guadagnando non so quale cifra colossale. Dopo questa sua impresa, a riconoscimento, ebbe la laurea ad honoris causa dell’Università di Bologna. Grandi intrighi, grandi avventure, alle quali sono portati grandi gruppi finanziari”. Negli ultimi 20 anni George Soros ha finanziato, per mezzo della “Open Society Foundations”, tutte le organizzazioni e associazioni capaci di diffondere i suoi valori e ideali, sia negli Stati Uniti che in Europa. Nessuna “teoria del complotto”, ma tutto documentato nero su bianco grazie al lavoro degli hacker di DC Leaks, i quali hanno pubblicato migliaia di file trafugati dai server dei principali funzionari e partner della Open Society Foundations, rendendo pubbliche le strategie messe in atto dall’organizzazione al fine di influenzare l’esito delle elezioni e l’opinione pubblica. Negli Stati Uniti, oltre ad aver finanziato la campagna elettorale dell'ex Segretario di Stato Hillary Clinton con 8 milioni di dollari, sono innumerevoli le ong di area “progressista” sponsorizzate dalla Open Society Foundations al fine di accrescere il potere politico e l’influenza di George Soros nel Paese, tra cui vale la pena citare l’associazione umanitaria “Human Rights Watch”, “Media Matters for America” di David Brock e, non ultime, “MoveOn.Org” e “USAction”. In una intervista del maggio 2014 rilasciata dalla Cnn, Soros ammise inoltre di essere responsabile della creazione di una fondazione in Ucraina che contribuì alla deposizione dell’allora legittimo leader del governo Yanukovych. Imporre la democrazia liberale a suon di milioni rappresenta un’ingerenza negli affari interni di uno stato che forse può piacere a Lerner e ai sostenitori delle esportazioni di democrazia, ma rappresenta un chiaro progetto politico. E Soros non è stato votato da nessuno, tantomeno in Italia. Strano che durante la trasmissione nessuno lo abbia fatto notare, soprattutto quando si è parlato di immigrazione e delle ong: la volontà degli italiani è quella di limitare fortemente l'immigrazione che hanno subito dal 2014 al 2017, così come stanno facendo gli altri paesi europei che predicano bene ma razzolano malissimo (vedi Germania e Francia) e se non simpatizzano con Soros non è perché credono a chissà quale complotto ma semplicemente perché pensano che uno stato debba poter agire in tal senso senza che un milionario "benefattore" s'intrometta finanziando le organizzazioni non governative, solo perché secondo il finanziere gli immigrati - compresi quelli economci - rappresentano un valore. Soros finanzia le ong perché sa benissimo che, come illustrato Kelly M. Greenhill, insegnante di scienze politiche e relazioni internazionali alla Tufs University nel suo libro "Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera", queste ultime possono esercitare una grande pressione politica sui governi e fungono da "agents provocateurs" in grado di "alternare le minacce alle misure dirette a trasformare migrazioni di proporzioni limitate in crisi su vasta scala, facendo pressione o pubblicizzando le emergenze"; ong che "possono perfino incoraggiare flussi migratori per stimolare cambiamenti di regime". Critiche e argomentazioni che Gad Lerner ha preferito ignorare, sposando una narrazione a senso unico, con l'aggravante di averlo fatto sulla tv pubblica.
Le navi Ong praticano in mare la disobbedienza civile. "Non sta a loro scegliere i porti di sbarco", dice l'ex ammiraglio, Fabio Caffio a proposito dei migranti nel Mediterraneo. Fausto Biloslavo il 5 giugno 2019 su Panorama. Fabio Caffio, ammiraglio in congedo ed esperto di diritto marittimo, non ha peli sulla lingua parlando con Panorama.
Cosa pensa della nave Sea Watch messa sotto sequestro?
«È l’ennesimo scontro sui migranti tra Stato e Ong che fanno disobbedienza civile sfidando la nostra sovranità e assumendosi la funzione Sar (Ricerca e soccorso, ndr), che è pubblica. Il diritto internazionale non prevede sia una Ong a scegliere il porto di sbarco. Tra il 2013 e il 2017 sono arrivate da noi via mare 650 mila persone, qualche migliaia in Spagna, qualche centinaio a Malta, zero in Francia».
Le Ong scelgono spesso momenti politici per gli sbarchi, come le elezioni europee...
«Il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, si è chiesto se sia «consentito a organizzazioni private sostituirsi alle forze politiche e alle volontà delle nazioni». Le Ong fanno leva sulle garanzie dell’ordinamento giuridico italiano non esistenti in alcun altro Paese europeo».
I porti vanno chiusi?
««Chiusura dei porti» è un’espressione impropria. Si tratta di evitare, come previsto dal diritto del mare, che nelle nostre acque territoriali avvengano violazioni all’ordine e alla sicurezza pubblica con il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina».
Come giudica le accuse dell’Onu all’Italia sui migranti?
«Sono orientate contro il nostro Paese. L’Onu dovrebbe spingere gli Stati mediterranei ad avere un ruolo attivo nel soccorso, nell’accoglienza e nella punizione dei trafficanti».
Ong, le navi dei "talebani" dell'accoglienza. Quali sono e chi sostiene le 4 navi che continuano a sbarcare migranti in Italia. Fausto Biloslavo il 4 giugno 2019 su Panorama. Quattro navi, due aerei, finanziatori come la Chiesa evangelica tedesca e l’Arci, testimonial del calibro di Gregor Gysi, uno degli ultimi esponenti di spicco della Germania Est e «armatori no global» con una lunga lista di denunce e processi. I «talebani» dell’accoglienza, che continuano a sbarcare migranti in Italia, sono l’ombra della flotta targata Ong del passato, ma sono ancora insidiosi. Nel 2017 il Mediterraneo centrale era solcato da 12 navi «umanitarie», quando arrivavano 170 mila migranti l’anno. Oggi sono solo quattro, comprese due, al momento sotto sequestro nel porto di Licata. Da gennaio gli irriducibili dell’accoglienza hanno stretto un patto chiamato United4Med. «Un’alleanza che nel momento in cui si voleva desertificare il Mar Mediterraneo, mette in moto una flotta solidale europea (…) di fronte al tentativo di criminalizzare l’atto umanitario» ha annunciato Alessandro Metz, armatore di Mare Jonio, una delle navi sotto sequestro. Il comandante Pietro Marrone e il capo missione Luca Casarini, noto antagonista dei centri sociali del Nord Est, sono indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
United4Med unisce le Ong (Organizzazioni non governative) superstiti e le loro navi: Mare Jonio di Mediterranea, la spagnola Open arms e i tedeschi di Sea Watch 3, l’ultima a venire sequestrata. Il 15 maggio aveva recuperato 65 migranti al largo della Libia senza sognarsi di portarli in Tunisia, porto sicuro più vicino, o di fermarsi a Malta, solo sfiorata nella rotta che puntava verso l’Italia. Fino al 22 maggio, l’unico natante «umanitario» di fronte a Tripoli, in funzione civetta per i migranti, era il piccolo veliero Yosefa con bandiera tedesca della Ong Resqship. L’ex Burlesque di Open Arms, ribattezzata nel luglio 2018 con il nome dell’unica sopravvissuta del Camerun a un naufragio al largo della Libia. Il capo missione, Josef Werth, è un veterano della flotta delle Ong.
Il capitano di Sea Watch 3, Arturo Centore, è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E fra gli ultimi 47 africani che era riuscito a sbarcare, la polizia ha scoperto un migrante con due telefoni compreso un satellitare solitamente utilizzato dagli scafisti. «Questa volta non va a finire in una bolla di sapone. Non posso spiegare i dettagli, ma la procura di Agrigento ha tutte le informazioni fornite dalla Guardia costiera per procedere contro la Sea Watch» rivela una fonte di Panorama in prima linea nella lotta all’immigrazione clandestina. Il 15 maggio il gommone con 65 migranti, poi imbarcati sulla nave dell’Ong tedesca, era stato individuato dal Colibrì, un piccolo aereo di ricognizione dei Pilotes volontaires francesi. Solitamente fa base a Malta, ma quella mattina era decollato da Lampedusa. Colibrì, assieme a Moonbird, sono i due aerei delle Ong che sorvolano il mare sponsorizzati dai tedeschi di Sea Watch.
Un’operazione che non costa poco: per il 2018 la cifra stanziata sfiorava i 200 mila euro. Ogni decollo di Moonbird, un Cirrus SR22 monomotore, prevede un esborso di 2.800 euro; e come si legge nel bilancio dell’organizzazione non governativa, la spesa «è sostenuta in modo significativo dalla Chiesa evangelica in Germania». Gli sponsor dell’accoglienza tedeschi «a tutti i costi» sono personaggi come Gregor Gysi, uno dei leader pro Gorbaciov della Germania comunista prima del crollo del muro di Berlino; Anton Hofreite («Toni»), esponente dei Verdi e parlamentare dal 2005; l’attrice tedesca Katja Hannchen Leni Riemann; il gruppo rock Revolverheld: tutti testimonial e finanziatori di Sea Watch. La più influente, come sostenitrice, è Barbara Lochbihler, europarlamentare dal 2009 ed ex responsabile di Amnesty international in Germania. Grazie a questi personaggi famosi l’Ong tedesca ha raccolto 1.797.388 euro nel 2018 spendendo il 55 per cento per Sea Watch 3, la nave sotto sequestro.
In Italia i talebani dell’accoglienza sono sostenuti dall’Arci e da Banca etica, l’istituto preferito dai grillini. L’organizzazione delle Case del popolo e dei circoli ricreativi di sinistra è fra i fondatori di Mediterranea, il «cartello della disobbedienza morale» di Mare Jonio, la nave sequestrata due volte negli ultimi mesi per aver fatto sbarcare migranti in Italia. L’Arci fa campagna per raccogliere il 5xMille a favore di Mediterranea. E Banca etica, nonostante le critiche di diversi correntisti, ha permesso l’acquisto della nave con una linea di credito di quasi mezzo milione di euro. Oltre a gestire la raccolta fondi pubblica di «Produzioni dal basso», che fino al 22 maggio era arrivata a 740.096 euro grazie a 3.249 sostenitori. Uno degli «armatori» di Mare Jonio è il triestino Alessandro Metz, ex no global e consigliere regionale dei Verdi coinvolto in tafferugli con la polizia, assalti ai centri dove sono rinchiusi i migranti e provocazioni varie che lo hanno portato a diverse condanne. In una recente intervista al quotidiano di Syriza, della coalizione di sinistra radicale in Grecia, si scagliava contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini, sostenendo che Mare Jonio gode «della solidarietà dell’Italia che alza la testa davanti al razzismo, alla xenofobia e al fascismo». Personaggi come don Luigi Ciotti e lo scrittore Roberto Saviano si sono spesi pubblicamente a favore della nave recupera migranti, che in marzo è stata sequestrata per poi ripartire liberamente il 13 aprile e venire bloccata di nuovo in maggio. Mediterranea non demorde e organizza corsi di salvataggio dei migranti, che si sono svolti a metà maggio fra Bologna e Cervia. Della flotta non governativa ancora in azione fa parte l’Ong spagnola Proactiva Open Arms con un nave omonima, che ha sfidato il Viminale. Il 18 marzo è stata bloccata nel porto di Pozzallo per lo sbarco di 218 migranti raccolti davanti alla Libia. Il Gip di Ragusa, Giovanni Giampiccolo, ha disposto il via libera riconoscendo «lo stato di necessità» del salvataggio. L’Ong è stata fondata nel 2015 da due bagnini catalani. Uno è Oscar Camps, che per iniziare ha ottenuto una ingente donazione del Gruppo Ibaziba: non è un’associazione caritatevole ma una compagnia marittima spagnola. Grazie alla flotta delle Ong, le navi mercantili hanno perso molti meno soldi per l’obbligo di soccorrere i migranti alla deriva. Fondi sono arrivati anche dall’attore americano Richard Gere e da società calcistiche come il Manchester city. Dopo il dissequestro, Open Arms ha operato nel Mar Egeo, dove arriva ancora qualche profugo siriano o afghano. Al momento è l’unica nave degna di questo nome delle Ong superstiti che continua a navigare nel Mediterraneo.
Inferno SPA: quando la pietà diventa la nemica della verità. Anna Valerio l'11/05/2019 su Il Giornale Off. C’è un punto di equilibrio tra gli appelli umanissimi di Papa Francesco all’accoglienza e il razzismo da bar: è studiare il fenomeno migratorio. Questo fa Francesca Totolo nel suo Inferno SPA. Viaggio tra i protagonisti del business dell’accoglienza (AltaForte Edizioni, 2019, pp. 264, € 20). Va, avventurosamente e faticosamente, a vedere tutto da vicino. A verificare cosa c’è nella pancia delle navi delle ONG. S’impegna ad analizzare i bilanci, le liste dei finanziatori. Riporta le fonti. Tiene il conto dell’andirivieni degli irregolari, che giurano spesso, appena espulsi, «tornerò». Si accorge della complicità tra i gommoni per il trasbordo dei migranti e i barchini degli scafisti. Registra l’ignavia di una capitaneria di porto svuotata di senso e della guardia costiera: non arrestano i criminali che gestiscono il traffico di uomini, fanno finta addirittura di non vederli. Prima della chiusura dei porti, c’erano weekend estivi in cui arrivavano in Italia anche 12.000 migranti. Magari bastonati durante la loro traversata terribile sotto gli occhi dei team dell’ONG. Dopo aver monitorato le rotte delle navi umanitarie, la Totolo ne ricava l’impressione che abbiano un volto di Caronte. Troppo business, sotto quelle acque agitate. È evidente che, una volta in Italia, i migranti gonfieranno i portafogli delle cooperative dell’accoglienza. È evidente che a molti furbastri facciano gola. L’autrice parla, con ironia amara, di “filiera dell’immigrazione”. Nei gironi di questo inferno, che la Totolo racconta con un incalzare di prove anche fotografiche, s’incontrano poi i traditori della Patria in giacca e cravatta: i politici che siglano accordi per la gestione dei migranti contro l’interesse dei propri connazionali. Tutti contagiati dalla stessa smania di guadagnarci qualcosa, come l’ultimo scafista. Ed è il potere pervertitore del denaro la lezione di politica più dura di un libro che con la politica non vuole connivenze e che è antiideologico dalla prima alla ultima pagina, nella sua professione di oggettività. Dietro l’appello alla pietà della Giornata dell’Accoglienza, la Totolo scopre invece un sistema di speculazioni con ramificazioni istituzionali, giuridiche, ma pure culturali e mediatiche. Ed ecco che al suo editore si vorrebbe negare, con pretesti ideologici, la presenza al Salone del Libro di Torino. Ma che cosa succederà quando la pietà sarà diventata nemica della verità?
Leggere Pasolini contro il fascismo "antifascista". Nicola Porro, Domenica 12/05/2019, su Il Giornale. «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli». Quando Italo Calvino scrive queste parole sul Messaggero del 18 giugno 1974, Pier Paolo Pasolini s'infuria e risponde con una lettera aperta su Paese Sera: «Augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male». «Pasolini non c'è più. Però - ha rassicurato Michela Murgia, in un servizio andato in onda su Quarta Repubblica - ci siamo noi». Cioè, loro: i nuovi intellettuali della sinistra impegnata. Che, come Calvino, non hanno nessuna voglia di incontrare un fascista. Nemmeno per sbaglio, tra gli stand del Salone del Libro. Pasolini, invece, con i fascisti parlava. La sua ultima poesia, Saluto e augurio, inizia così: «voglio parlare a un fascista,/ prima che io, o lui, siamo troppo lontani». Contro l'atteggiamento di Calvino e degli altri antifascisti militati, Pasolini scrive: «Ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti». È il famoso fascismo degli antifascisti. Così lo definisce Pasolini negli Scritti corsari. Mentre nelle Lettere luterane, testo più nascosto, e per questo lo suggeriamo, Pasolini si spinge ancora più in là: fa a pezzi i giovani della nuova sinistra, tutti con il certificato dell'antifascismo doc. Perché, scrive, «essi aggiungono, dentro lo schema del conformismo assimilato - come ai tempi delle orde - dall'ordine sociale paterno, una nuova dose di conformismo: quello della rivolta e dell'opposizione».
Quante balle dietro la propaganda delle Ong. Dalle persone in "fuga dalle guerre" al numero dei morti in mare: la realtà è diversa. Gian Micalessin Venerdì 31/05/2019 su Il Giornale. Indifferenti al ridicolo e alla vergogna l'ex leader dei Centri Sociali Luca Casarini e i compagni di «Mediterranea Saving Humans» hanno trascorso la mattinata di ieri a sputar fango sulla Marina Militare accusandola di aver ritardato i soccorsi a un barcone di migranti. Non paghi hanno denunciato la morte di una bambina di 5 anni deceduta, stando ai loro comunicati, per la premeditata lentezza dei soccorsi. Alla fine erano solo balle. Non c'era nessuna bimba morta e nessun ritardo al di là delle due ore impiegate dal pattugliatore Cigala Fulgosi, per coprire gli 80 chilometri di distanza dal barcone e trarre tutti in salvo. Non è una novità. Da cinque anni la propaganda delle organizzazioni umanitarie si basa sulle fandonie. La madre di tutte le balle, ripetuta allo sfinimento nel nome dell'accoglienza indiscriminata è quella dei migranti in fuga da guerre e carestie. Dal 2015 nello Yemen si combatte uno dei conflitti più crudeli di questo decennio eppure dalla Libia non è arrivato un solo rifugiato in fuga da quella guerra. Per anni, invece, migliaia di bengalesi o pakistani volati da Dacca a Tripoli su regolari voli di linea hanno affollato i barconi diretti all'appuntamento con le Ong schierate davanti alle coste libiche. E assieme a pakistani e bengalesi sono approdati migliaia di senegalesi e nigeriani. Peccato che il Senegal sia un Paese dove si vive in santa pace e dove un Pil cresciuto a ritmi del 7% annuo garantisca da un decennio, un generale miglioramento della vita. Dalla Nigeria tormentata dai Boko Haram sarebbero dovuti arrivare, in base al teorema delle Ong, migliaia di cristiani perseguitati. Invece ne sono arrivati pochissimi per il timore di venir fatti a pezzi, strada facendo, dai fanatici musulmani. In compenso le navi delle Ong si sono trasformate in littorine della prostituzione e del crimine. Per anni hanno traghettato migliaia di ragazzine nigeriane destinate al racket della prostituzione sotto gli occhi omertosi dei cosiddetti operatori umanitari. E assieme a quelle schiave sono approdati in Italia criminali del rango di Innocent Oseghale, lo spacciatore condannato per aver ucciso e fatto a pezzi Pamela Mastropietro. Un'altra litania ripetuta allo stremo dalle Ong e dai loro sostenitori ci metteva in guardia da un flusso migratorio ormai inarrestabile perché legato all'irreversibile implosione di un'Africa saccheggiata dall'Occidente e devastata dai cambiamenti climatici. Invece è bastato chiudere i porti, limitare l'attività delle Ong e favorire quella della Guardia Costiera libica per ridurre drasticamente gli sbarchi portandoli dai 181mila del 2016 ai poco più di 23mila del 2018. Un trend proseguito nei primi cinque mesi di quest'anno quando sono stati registrati 1,561 arrivi a fronte dei 13.430 del 2018 e degli addirittura 73.658 del 2017. Quei numeri rappresentano l'inconfutabile dimostrazione del ruolo giocato dalle navi di soccorso nel moltiplicare le partenze e, con esse, i lucrosi affari dei trafficanti di uomini. Ma per le Ong abituate a giocare con le vite degli esseri umani la nuova «verità» è quella dei cosiddetti morti marginali. Stando a questa spregiudicata tesi la «cura Salvini» avrebbe incrementato drammaticamente la percentuale dei morti nel Mediterraneo facendola salire dall'1,7% del 2018 all'8,7 registrato quest'anno. Ma mentre le Ong si divertono a giocare con i numeri, e con le vite, le cifre assolute ci raccontano una verità assi diversa. I migranti morti in mare al 30 maggio di quest'anno sono stati appena 321, uno dei numeri più bassi registrati negli ultimi 20 anni. Nel 2016 quando le navi delle Ong erano al massimo della loro attività e operavano senza limiti davanti alle coste della Libia sono scomparsi in mare 4.581 esseri umani. Tra balle e realtà, insomma, ben 4.200 vite di differenza.
Le Ong rischiano multe ma i loro affari volano. I bilanci delle dieci organizzazioni italiane più grandi cresciuti del 12%. Business da 560 milioni. Lodovica Bulian, Lunedì 13/05/2019, su Il Giornale. Le ong sono in rivolta di fronte all'annunciato decreto Sicurezza bis, con cui il ministro dell'Interno Matteo Salvini mira a sanzionare le navi umanitarie che effettuino soccorsi nel Mediterraneo «senza rispettare le regole». Lo schema del provvedimento prevede multe fino a cinquemila euro per ciascun migrante trasportato: una tegola finanziaria insostenibile che manderebbe in rosso i bilanci delle associazioni compromettendone l'attività di soccorso in mare. Ma i conti delle organizzazioni non governative per ora godono di ottima salute. Nonostante i loro rappresentanti si siano scagliati a più riprese contro la Lega e Movimento cinque stelle e temessero le conseguenze delle campagne «diffamatorie» ai loro danni, cominciate prima ancora che si insediasse il nuovo governo (Di Maio quando era all'opposizione le definì «taxi del mare» e l'ex ministro Minniti, del Pd, varò appositamente per loro un codice di condotta), le loro casse invece sono in crescita. Il trend di donazioni incamerate per le loro attività umanitarie si è confermato positivo e ha fatto volare i bilanci. Secondo i dati di Open cooperazione, nell'ultimo anno i consuntivi delle dieci più grandi organizzazioni non governative italiane sono cresciuti del 12,4%: da quasi 500 milioni del 2016 sono arrivati a sfiorare i 560 milioni nel 2017. Un balzo definito «esponenziale» dall'elaborazione, lo hanno registrato soprattutto ong come Coopi, Cesvi, Intersos e Cisp, «che aumentano del 30-40% le loro entrate». Secondo il dossier in aumento, sebbene più contenuto, sono state anche Save the Children e Medici senza frontiere, le organizzazioni che con le loro navi sono state le più coinvolte nelle attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo. In leggera flessione invece ActionAid, Unicef ed Emergency. Va ricordato che si tratta comunque di dati che si riferiscono ai bilanci approvati nel 2018 dalle organizzazioni e che quindi riportano i conti delle attività riferite al 2017. Saranno quelli dell'anno prossimo a rivelare se le politiche anti immigrazione e anti ong dell'attuale ministro dell'Interno abbiano avuto effetti sulle loro finanze, come più volte da loro denunciato. Per il momento i dati aggiornati fotografano un bilancio totale delle prime dieci organizzazioni italiane che ammonta per il 2017 a oltre a 559 milioni di euro, in aumento rispetto a 497 milioni dell'anno prima, il 2016. «Ancora più rilevante - scrive Open cooperazione - è il tasso di crescita delle ong italiane se si allarga lo spettro a un numero più ampio di organizzazioni. Prendendo in considerazione un campione omogeneo di 68 ong il trend di crescita dell'ultimo quadriennio sfiora il 30% passando da un totale dei bilanci di 529.647.865 milioni a 685.206.723 (più 155.558.858 euro)», si legge ancora nel dossier. Dunque a dispetto delle fosche previsioni la galassia umanitaria registra una crescita del 11,43% dal 2016 al 2017. Un piccolo boom. Insieme con i conti migliorano anche, secondo gli analisti, la trasparenza e la predisposizione delle organizzazioni a rendere pubbliche le informazioni economiche. «Se nel 2015 erano solo sei le Ong con rank di trasparenza compreso tra 100 e 97% oggi, sono ben 21». E la percentuale di organizzazioni non governative che hanno un bilancio certificato da revisori esterni è del 78%.
Saviano si fionda sul business migranti. L'ultima sua "fatica" letteraria è un libro di foto. Che non ha scattato lui. Massimiliano Parente, Martedì 30/04/2019, su Il Giornale. Ah, il business dei migranti! In Italia non si parla d'altro, come fossero la soluzione di ogni problema mentre l'Italia affonda economicamente: un tweet su due di Matteo Salvini è sui migranti bloccati grazie a lui, ma ormai anche un libro su due è sui migranti, di chi pensa che non vadano mai bloccati. Sono due retoriche che da una parte portano voti, e dall'altra guadagno. Con il migrantismo e l'antimigrantismo non ci perde mai nessuno, una figata. Essere pro o contro i migranti da noi è la topica più mainstream ci sia. E dove c'è mainstream non poteva mancare Roberto Saviano, che dopo aver fatto diventare la lotta alla mafia un best seller e una serie Netflix, ora trasforma il problema dei migranti in un libro fotografico, titolo In mare non esistono taxi, editore Contrasto, le foto non sono le sue ma «l'autore dialoga con la fotografia come testimonianza della realtà». Una meraviglia, questo dialogo, sicuramente commovente, strappalacrime, praticamente un Harmony illustrato in mare aperto. Perché «in mare aperto basta lo schiaffo di un'onda per ribaltare un'imbarcazione, in mare aperto non c'è nessuno e non c'è nessun taxi da chiamare». Che verità profondissime, io non ci avevo mai pensato che in mare aperto non ci fossero i taxi, magari è possibile anche che ci spieghi che in centro a Milano o a Roma non ci sono squali. Come quando dice che «raccontare tutto questo è difficile, smontare le menzogne è difficile, ma contro la bugia non c'è altra pratica che la testimonianza». E quando la testimonianza non basta c'è lui, Saviano, che te la commenta. Perché lui vede quello che altri non vedono e anche se uno te lo mostra con una foto lui te la fa vedere meglio. Non state lì a chiedervi quali soluzioni serie vengano proposte per i flussi migratori, di certo non sono quelle di Salvini, ma neppure quelle di chi sarebbe pronto a far sbarcare tutta l'Africa in Italia, oltre un miliardo di persone. Non state a chiedervelo perché le soluzioni sono complesse, ma il business è semplice, più semplice è e meglio è, e Saviano ha sempre saputo quello che fa, non per altro io come scrittore sono potuto entrare in Mondadori solo quando se ne andò Saviano (quando Saviano si accorse che la Mondadori era di Berlusconi), a causa delle mie critiche ai romanzi di Saviano (quando nessuno osava toccarlo). Al mio amico Antonio Franchini chiesi: «Ma cos'è, una mafia?», mi rispose «no, purtroppo è il mercato». Il mainstream è un potere, è farsi il giro di tutte le trasmissioni importanti con il proprio prodotto confezionato, è andare da Fabio Fazio e essere trattato come se tu fossi Jean Paul Sartre, è questo struggente libro dove si dialoga con delle foto, senza neppure essere andato lì a scattarle tu, perché mica è un fotografo, Saviano, lui dialoga, ci apre gli occhi e ce li inumidisce, ci fa battere il cuore come neppure Liala. Dal 9 maggio in libreria, dall'11 maggio a Torino, preparate i soldi. Io a questo punto ci vedrei bene una nuova serie Netflix. Così, tanto per arrotondare le entrate. Non dei migranti, ma del proprio conto in banca.
Toscani insulta ancora: "Gli immigrati? Meglio di quei coglioni degli italiani". Il fotografo nega l'invasione: "Quei coglioni degli italiani non capiscono niente". Poi insulta Salvini ("È un incivile") e minaccia i suoi figli. Sergio Rame, Sabato 04/05/2019 su Il Giornale. "Ma dov'è l’invasione? Ma smettetela". Insulti a destra e a manca, e pure minacce. Ai microfoni della Zanzara su Radio 24 Oliviero Toscani attacca a testa bassa e finisce per gettare fango su tutti. "Lasciar entrare gli immigrati sarà la nostra fortuna - dice - invece di quei quattro coglioni di italiani che non capiscono niente". Parole al vetriolo che lasciano sbigottiti perché fano seguito a un'intimidazione (tutt'altro che velata) ai figli di Matteo Salvini. "Gli auguro che succeda a suo figlio di essere su una barca e non gli permettono di sbarcare- tuona il fotografo - può darsi che gli succeda". L'intervista a Toscani, riportata dal sito Dagospia, è un profluvio di odio contro Salvini, contro la Lega, contro la destra e, più in generale, contro gli italiani. Parole violentissime infarcite di insulti che sono state pronunciate alla Zanzara e che sono destinate a scatenare una polemica senza fine. Ovviamente al centro della sua invettiva c'è l'emergenza immigrazione e la direttiva del Viminale che ha portato alla chiusura dei porti italiani ai barconi partiti dalle coste del Nord Africa. "Salvini è un incivile", tuona il fotografo schierandosi totalmente al fianco dei clandestini. "Ma che clandestino del cazzo - sbotta in radio - cosa vuol dire clandestino? Non sono clandestini sui barconi, c’è della gente. Clandestino è il Padre Eterno, che non l’ho mai visto". A suo dire l'invasione non esiste. E, infischiandosene dei numeri dei disperati che negli ultimi anni si sono riversati sulle nostre coste, auspica che ne arrivino altri. Li considera migliori "di quei quattro coglioni di italiani che non capiscono niente”. Toscani non porta argomenti. Solo insulti. E, anche quando si trova d'accordo con Salvini (per esempio sul fatto che non bisogna farsi le canne), si inventa un distinguo dopo l'altro e finisce nel solito sproloquio. "Non gli tira più l’uccello", dice riferendosi al leader del Carroccio. Quindi passa a inveire contro i sovranisti in generale ("Abbiamo una destra ignorante") e a lodare i francesi. "La Gioconda è italiana perché l'ha fatta Leonardo da Vinci. Ma è meglio resti in Francia perché è curata meglio che se ce l’avessimo noi". Uno sproloquio, appunto. Senza capo né coda. "Smettiamola con questo campanilismo che ci rincretinisce - incalza - io mi sento più vicino a Parigi che a Canicattì”. A sentirlo parlare alla Zanzara si capisce proprio che a Toscani no va proprio giù il concetto di patria. Proprio non gli piace. "Mi fa schifo", mette pure in chiaro. "È una roba ottocentesca". Poi, dulcis in fundo, eccolo fiondarsi contro Benito Mussolini, il cui fantasma ormai la sinistra nostrana vede ovunque. "Si dice che Mussolini dovesse scopare una donna al giorno - argomenta - quelli che devono dimostrare di scopare una donna al giorno secondo me sono degli impotenti che devono dimostrare di non esserlo".
I sommersi, i salvati e noi. Hanno infangato le Ong, hanno chiuso i porti, dicono: aiutiamoli a casa loro. Ma quale casa? Il libro testimonianza di Roberto Saviano: "In mare aperto non c’è nessuno e non c’è nessun taxi da chiamare". Roberto Saviano il 05 maggio 2019 su La Repubblica. In mare aperto ti viene detto di andare sempre dritto e che lì troverai l'Italia, ma l'orizzonte muta e quell'andare dritto potrebbe non esistere. In mare aperto non c'è nessuno e non c'è nessun taxi da chiamare. Taxi è un sistema di comunicazione e di trasporto comodo, veloce, metropolitano e non ha nulla a che fare con i soccorsi in mare. Immaginate persone che rischiano la vita, che stanno annegando; immaginate ora persone in un palazzo che prende fuoco, qualcuno chiama i vigili del fuoco che portano in salvo persone, che non hanno appiccato l'incendio per poterlo poi spegnere e guadagnare spegnendolo. Allo stesso modo le Ong non sono taxi del mare perché vanno in soccorso, ma non creano la tragedia. Le Ong vengono definite "taxi del mare" per una ragione precisa, grottesca ed elementare: bisogna eliminare il "problema" migranti e l'unico modo per farlo è eliminare prima di tutto i testimoni oculari delle condizioni disumane in cui i migranti si trovano quando raggiungono le coste libiche e prendono il mare verso l'Europa. Oltre a trarre in salvo migliaia di esseri umani, le Ong, infatti, sono anche in grado di testimoniare sulle loro condizioni. Ecco quindi che eliminare i testimoni significa avviarsi a una risoluzione non ortodossa del problema. Per farlo si dà spazio e credito a una galassia di mistificatori e complottisti che in Italia troveranno perfetta sintesi, il 21 aprile 2017, sulla pagina Facebook di Luigi Di Maio che condivide un articolo pubblicato sul blog di Beppe Grillo dal titolo: "Più di ottomila sbarchi in tre giorni: l'oscuro ruolo delle Ong private". Ma Di Maio ci mette del suo e introduce l'articolo con questo commento: "Chi paga questi taxi del Mediterraneo? E perché lo fa? Presenteremo un'interrogazione in Parlamento, andremo fino in fondo a questa storia e ci auguriamo che il ministro Minniti ci dica tutto quello che sa". È in questo preciso momento che in Italia nasce la bufala delle Ong "taxi del mare". Di Maio, incalzato sulla menzogna, risponderà di non aver inventato nulla, ma che quanto ha scritto era contenuto nel rapporto di Frontex "Analisi del rischio 2017", che accusava i mezzi di soccorso delle Ong di funzionare come "taxi del mare", inviati intenzionalmente verso le acque territoriali libiche per raccogliere i migranti e trasportarli in Italia. Ma ad analizzare il rapporto di Frontex, mai si parla di "taxi del mare". A pagina 32 si fa riferimento a qualcosa di totalmente diverso e precisamente a presunte "conseguenze involontarie" che metterebbero in connessione le partenze dei barconi con le attività, nelle acque a ridosso della costa libica, di Eunavfor Med e delle Ong. Ma è un'ipotesi smentita dai fatti, perché che le Ong operino in mare o meno, i flussi non ne sono influenzati. Ecco la prova: a luglio 2017, quando la campagna di delegittimazione è appena iniziata e tutte le Ong sono ancora in mare, il clan Dabbashi di Sabratha decide di bloccare le partenze dalla Libia e ci riesce. Inoltre l'unico vero pull factor non è la possibilità di essere soccorsi in mare, ma l'Europa proprio lì: l'El Dorado a pochi chilometri di mare. Eppure l'espressione "taxi del mare" funziona e diventa virale. E dopo i "taxi del mare" di Luigi Di Maio, arriva il Codice di condotta voluto da Marco Minniti, secondo cui le Ong che vogliano continuare a fare salvataggi in mare devono sottoscrivere un documento che prevede, tra le altre norme, la presenza della polizia giudiziaria a bordo delle imbarcazioni con le armi di dotazione e il divieto di trasferire persone da una nave all'altra. La locomotiva si è messa in moto e non si arresterà; il Codice di Minniti è la risposta ai taxi del mare. Nessun cenno mai, sia in quel documento che nelle dichiarazioni dei politici coinvolti, all'importanza del principio di salvare vite in mare: come se ormai la guerra alle Ong si combattesse per altri fini. Minniti arriva a giustificare il cambio di passo con queste parole: "A un certo momento ho temuto che, davanti all'ondata migratoria e alle problematiche di gestione dei flussi avanzate dai sindaci, ci fosse un rischio per la tenuta democratica del Paese". Nessun rischio può giustificare quanto è accaduto e non ho dubbi che, un giorno, il modo di procedere dell'Italia e dell'Unione Europea verrà considerato crimine contro l'umanità per il numero di vite umane considerate sacrificabili e per aver consapevolmente violato i diritti delle persone attualmente detenute in Libia. Tutte queste azioni hanno iniziato a farci considerare scontato, come rimedio al fallimento che ci circonda, un'Italia popolata da soli italiani, quando già milioni di persone di origini diverse vivono insieme perfettamente integrate. E questa retorica della difesa delle frontiere non ha solo causato la morte di migliaia di persone in mare, ma ha anche reso la vita difficilissima per centinaia di migliaia di stranieri che in Italia vivono da molti anni. Siamo preda di false informazioni: è la realtà capovolta in cui a essere creduto è il falso. E il vero? Il vero non è semplicemente ignorato o non creduto, sarebbe già qualcosa. Al vero tocca una sorte indegna: l'esser dileggiato. Ecco, vorrei fosse chiaro una volta per tutte che affrontare il tema migranti conviene. Sì esatto, conviene. Ma bisogna maneggiarlo utilizzando slogan - #primagliitaliani, #aiutiamoliacasaloro, #chiudiamoiporti. Se invece si prova a uscire dall'angusto perimetro del pensiero xenofobo, non conviene più, perché diventi in un attimo il ricco buonista che, invece di parlare di migranti, deve portarseli nel suo attico a Manhattan. Nessun ragionamento, solo l'insulto. Se diciamo: fermiamoci un attimo... ma cosa stiamo facendo? Siamo isolati, perché non c'è tempo per fermarsi e porsi domande. È tutta una rincorsa, una rincorsa a saturare ogni spazio disponibile e a farlo utilizzando le stesse argomentazioni. Se diciamo: "fermiamoci un attimo", restiamo soli e restiamo indietro. Ma ci sono momenti in cui non dobbiamo aver paura a restare indietro. Non dobbiamo aver paura a far correre avanti gli altri perché se rallentiamo, abbiamo finalmente la possibilità di guardarci attorno, di guardarci in faccia, di capire chi cammina con noi e come renderci utili. In mare non esistono taxi nasce dalla volontà di rallentare e, con passo umano, riesci persino a guardare negli occhi i tuoi compagni di viaggio, li riconosci, ti confronti con loro, fai domande e ottieni risposte che la velocità non ti consentirebbe di ascoltare. Quando fermi l'attimo, quando lo fotografi, fai testimonianza. Ecco, questo libro vuole essere testimonianza. Testimonianza è raccogliere su di sé la conseguenza della propria decisione, rendere di carne la propria conoscenza, dilatare la propria presenza accanto alle cose. Testimonianza non è diffondere un dato, ma portare la prova con il proprio corpo di ciò che si sta dicendo. Ecco perché a essere allontanati per primi, imprigionati, condannati, accusati, vilipesi, screditati e soprattutto temuti sono coloro i quali hanno la possibilità di portare testimonianza. I primi a essere allontanati dai luoghi in cui si consumano tragedie sono proprio i testimoni. E testimoni scomodi sono stati, nel Mediterraneo, le Ong che con le loro imbarcazioni, per anni, hanno portato in salvo i migranti. Migliaia di uomini, donne e bambini, in loro assenza, sarebbero morti annegati. Quando tra cento anni - diceva Alessandro Leogrande, alla cui memoria e al cui lavoro ho dedicato questo libro - studieranno i fondali del Mediterraneo, trovando le decine di migliaia di cadaveri e di relitti, crederanno che si sia combattuta una guerra di cui le cronache non portano traccia, una guerra che, in effetti, si combatte ogni giorno senza che se ne abbia realmente consapevolezza. Ma cosa significa portare testimonianza? Significa riuscire a raccontare, fotografare, ritrarre, restituendo al soggetto della propria attenzione un valore aggiunto che lo sottrae al tempo presente. Significa riuscire a trasformare ciò che accade qui e ora in ciò che può accadere ovunque e in qualunque momento. Significa sottrarre all'oblio. Ma serve a cambiare il corso degli eventi? Serve a porre rimedio nel momento esatto in cui la tragedia sta accadendo? Forse no. Probabilmente no. E allora a cosa serve? Serve a riconoscere noi stessi; a dirci che nonostante tutto ciò che abbiamo fatto e che siamo capaci di fare, restiamo esseri umani. Questo libro nasce con il chiaro obiettivo di portare testimonianza perché, di fronte alle menzogne, lo strumento più efficace per provare a smontarle è fondato unicamente sulla testimonianza. Non attaccare, non confortare: TESTIMONIARE. Raccontare cosa accade in Africa nei luoghi dell'esodo, in Libia - destinazione per alcuni, luogo di transito per altri, prigione per tutti - e nel Mediterraneo è difficilissimo. Non basta che ci sia chi ha voglia di raccontare, ma serve soprattutto chi abbia voglia di ascoltare. Di ascoltare e di guardare. Guardare sì, perché raccontare ciò che accade in quell'inferno non basta, servono le prove, serve dire: ecco, vedete? Vedete che ciò che dico è verità? Ma verità è una parola diventata odiosa e che mentre la scrivo già emana balenii di manipolazione, ha il gusto rancido delle pietanze prodotte in serie che sei costretto a mangiare perché non c'è altro. Come recuperare il suo suono di grazia e rispetto? Come ritrovare una verità che sia strada di ascolto, di ricerca e non cibo premasticato, predigerito da dare in pasto a lettori e telespettatori (considerati, in fin dei conti, solo elettori) verso i quali non si nutre alcuna stima? Per farlo non bisogna parlare di verità, non basta. Non basta più nemmeno la prova: l'unica cosa che può fare la differenza è il tempo. La verità istantanea è un sasso in bocca che ti sazia e trasforma i tuoi vuoti in pieni. La verità nel tempo è ricerca e il tempo è l'unico rimedio perché si acquisisca consapevolezza. E quindi la testimonianza che valore ha? Da sola, nessuno. Testimonianza e denuncia devono incontrarsi con il tempo, che non è solo il procedere dei minuti, ma è anche e soprattutto lo spazio in cui una verità può radicarsi. Non basta che oggi un'immagine diventi virale per poter agire sul presente, ma deve trovare la sua dimensione per essere letta. Ecco perché il racconto dell'inferno necessitava di prove e la fotografia è testimonianza e prova regina nel processo che si sta celebrando e che vede alla sbarra chi si occupa e si preoccupa degli altri. Partendo dall'etimologia, scaviamo nel Dna della parola testimonianza per scoprire che forse non ne avevamo compreso il significato fino in fondo. Testis-Monium. Testis ha, tra i suoi diversi significati, anche quello di "prova". Il suffisso monium viene da munere e cioè "dovere", "compito". Quindi etimologicamente "testimoniare" indica il compito di dare e di essere prova. Ecco, questo è esattamente ciò che la fotografia e i loro creatori sono: il dovere della prova. Una prova non è una formula chimica, non è data, non la trovi meccanicamente, ma quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, devi diventare tu stesso prova. La fotografia è ciò che resta, per sempre, del compito che la prova si è data. Ho intervistato Olmo Calvo, Paolo Pellegrin, Giulio Piscitelli e Carlos Spottorno, le loro fotografie e le loro parole - insieme a tutte le altre fotografie contenute in questo libro - hanno aggiunto diottrie al mio sguardo e ne aggiungeranno al vostro. Li ho intervistati per comprendere quale fosse l'elemento che rende le loro fotografie testimonianza e in che misura avessero consapevolmente deciso di testimoniare la tragedia del proprio tempo. Li ho intervistati perché le loro fotografie e le loro parole sono l'unica arma che abbiamo per contrastare le menzogne. E poi ho intervistato una donna minuta ma gigante: Irene Paola Martino, infermiera di Medici senza frontiere. Le ho chiesto cosa l'avesse spinta a imbarcarsi sulla nave di una Ong per salvare e assistere persone in mare. Ecco cosa mi ha risposto: "Appurato che non avevo i superpoteri per cambiare il mondo, ho pensato di cercare di rendere qualche angolo di questo mondo un posto migliore per alcune persone, agendo attraverso le mie nursing skills, ovvero l'arte di prendersi cura degli altri. In realtà non so se ci sia riuscita, ma mi ostino a continuare a provarci. Perché ho scelto la nave? Forse la nave e il mare hanno scelto me. Era arrivato il momento di capire quello che succedeva tutti i giorni non così lontano da casa mia. Mare, terra, aria, deserto, foresta... Io vado dove ho la presunzione di essere utile. Non c'è un perché, ci sono cose che devono essere fatte e basta. O forse perché se fossi io a essere uno dei sommersi, vorrei essere salvata. \[...\] In mare dimentichi tutto quello che sai e ritorni a essere di nuovo umano, e ti volti di lato perché è meglio evitare che gli altri vedano le lacrime che non sempre riesci a cacciare indietro. Realizzi che dove nasci è solo questione di fortuna, che su quel gommone potevi esserci tu, ma invece ti è andata bene. Se sulla nave ritorni a essere umano, quando rientri a casa, nella tua città, ogni volta che incontri un migrante per strada ti scopri a pensare che tu sai cos'è il viaggio, ma non è pietà o buonismo, è solo conoscere per capire. Perché se si continua su questa strada del "noi" e del "loro", non si andrà lontano...".
PiazzaPulita, Susanna Ceccardi scatenata contro le Ong: "Chi sono davvero gli immigrati che ci portano". Libero Quotidiano 19 Aprile 2019. In prima linea contro le Ong e il traffico di uomini. Susanna Ceccardi, la sindaca leghista di Cecina in grande ascesa e ora candidata alle elezioni Europee, punta il dito a PiazzaPulita, il programma di Corrado Formigli in onda su La7. Nei giorni della nuova emergenza migratoria derivante dal conflitto in Libia, la Ceccardi rimarca: "Le Ong non vanno a prendere i profughi che scappano dalla Libia. I libici si spostano verso la Tunisia, chi viene in Italia arriva da paesi dell'Africa sub-sahariana che molto spesso non sono in guerra". Il trucchetto delle Ong e dei finti profughi, insomma, svelato ancora.
Niente fondi agli alberghi che hanno ospitato migranti. La regione Liguria ha approvato una proposta di legge della Lega che escluderà dai fondi regionali per lo sviluppo del turismo e la riqualificazione turistica tutte le imprese alberghiere che negli ultimi tre anni hanno ospitato i migranti. Angelo Scarano, Martedì 30/04/2019 su Il Giornale. Via libera dal consiglio regionale ligure alla nuova legge proposta dalla Lega che integra il provvedimento n.15 del 2008 sugli incentivi alle piccole e medie imprese per la riqualificazione e lo sviluppo dell'offerta turistica. Il documento è stato approvato oggi pomeriggio con 16 voti a favore, dalla maggioranza di centrodestra, e 11 contrari della minoranza, tra le polemiche dell'opposizione. La proposta di legge prevede che, nel caso di piccole e medie imprese che svolgono attività ricettiva, i contributi regionali siano accessibili solo se il ricavato o il fatturato dell'attività ricettiva degli ultimi tre anni derivi prevalentemente dall'attività turistica. Un provvedimento che, accusano dal Pd della Liguria, "esclude dagli incentivi regionali le strutture ricettive come alberghi, b&b ed altri, che negli ultimi anni hanno ospitato migranti è una norma vergognosa e discriminatoria". "Un provvedimento razzista e palesemente incostituzionale -spiegano i consiglieri regionali Pd Giovanni Lunardon e Luca Garibaldi- che viola le norme sulla concorrenza, le norme comunitarie e nazionali sulle imprese turistiche e la loro ammissione ai bandi ed è in contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione, e cioè quello sui doveri di solidarietà politica, economica e sociale e quello sull'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La maggioranza di centrodestra, ancora una volta, propone e vota una norma ideologica che parla alla pancia del suo elettorato più estremista. E lo fa punendo tantissime aziende liguri, già in forte difficoltà, che hanno l'unica colpa di aver rispettato la legge". Alle polemiche aveva risposto in mattinata, prima dell'approvazione, il governatore ligure Giovanni Toti. "Il Pd ogni tanto ha un gusto per l'iperbole che non è più sintonizzato con il gusto dei cittadini italiani e i voti in Liguria lo dimostrano -ha detto il presidente della Regione-. La legge dice una cosa assai banale: cerchiamo semplicemente di destinare soldi dei cittadini allo sviluppo di un settore economico e non darli a qualcuno che, legittimamente secondo le leggi dello Stato, fa tutt'altro nella vita. E come se mi si chiedesse perché non do aiuti regionali per chi aggiusta le biciclette a chi non fa quel lavoro". E ancora: "Siccome spendiamo dei soldi pubblici -ha aggiunto Toti- con un aiuto straordinario pagato ai cittadini per riqualificare il turismo nella nostra regione e aiutare gli imprenditori ad accogliere meglio i visitatori, ne può usufruire solo chi ha un'attività che prevalentemente ospita turisti e ha quello come business principale. Chi invece utilizza quella struttura per la maggior parte dell'anno o del suo sistema di business per ospitare migranti a quella legge non accede perché non lo riguarda".
Se la cooperativa dei migranti non paga gli stipendi da mesi. La denuncia dell'Usb, che mette nel mirino la coop sociale "L'Amicizia", finanziata anche dal Fondo Asilo Migrazione e Integrazione del ministro dell'Interno. Pina Francone, Martedì 30/04/2019, su Il Giornale. Nella provincia di Lecce c9 è una società cooperativa sociale che si occupa (male) dell'accoglienza e dell'integrazione dei migranti minorenni e che da ben sei mesi non paga gli stipendi ai propri dipendenti. L’associazione, peraltro, è affidataria di un progetto finanziato dal fondo FAMI (Fondo Asilo Migrazione e Integrazione) del Ministero dell'Interno, e riceve pertanto soldi pubblici per le sue opere. Peccato però che, oltre alle buste paga arretrate e non pagate i ragazzi ospitati nel centro "Il Rifugio" siano quasi abbandonati a loro stessi, alla pari degli assunti e dei volontari. Nella struttura, infatti, "mancano beni di prima necessità e il frigo è perennemente vuoto! I ragazzi non vanno a scuola perché la cooperativa non acquista loro i biglietti dei mezzi pubblici! I Lavoratori rimasti nel centro acquistano a loro spese il pane e il latte per i ragazzi! Ma più che lavoratori forse li dovremmo chiamare 'volontari'", denuncia Gianni Palazzo, rappresentante Usb, nel comunicato diramato dal sindacato.
A fare scoppiare il caso, infatti, ci ha pensato proprio l'Unione Sindacale di Base (proprio grazie a Palazzo e al collega Salvatore Caricato), che scrive: "Dallo scorso Natale i lavoratori della cooperativa 'L'Amicizia' non ricevono lo stipendio […] La cooperativa in questione gestisce a Campi Salentina un centro di accoglienza per minori stranieri non accompagnati. Attualmente vi sono solo sei ragazzi e sei dipendenti che si occupano di loro". Teatro della vicenda una realtà difficile come quella di Campi Salentina, privo di sindaco dal 9 luglio del 2018 e attualmente gestito dal commissario straordinario Agata Mariano. Il comune ha erogato alla cooperativa tutta la somma che il Viminale aveva predisposto a mo' di acconto e ora il Dicastero non erogherà ulteriori tranche di finanziamento se non dietro accurata e dettagliata rendicontazione delle spese sostenute. Documenti che la coop, dopo numerosi rinvii, avrebbe finalmente inviato all’attenzione del ministro dell'Intero, che ora passerà al vaglio i fogli. Il rischio è che se i conti non saranno in ordine, il Viminale potrebbe anche chiedere alla cooperativa sociale la restituzione dell'acconto già versato. E ora che succede? L'Usb ha annunciato per i prossimi giorni una denuncia alle autorità competente e un'ingiunzione di pagamento. Domani è il primo di maggio: altro che festa dei lavoratori…
Le coop ora minacciano il Viminale: "Via i bandi o andranno deserti". Pochi soldi per gestire l'accoglienza: "Posti di lavoro a rischio". Lodovica Bulian, Venerdì 26/04/2019 per Il Giornale. «Ritirate i bandi o andranno deserti». Le cooperative che operano nel settore dell'accoglienza dei migranti alzano bandiera bianca di fronte al taglio dei costi inaugurato dall'era Salvini al grido di «è finita la pacchia». Non più i famosi 35 euro al giorno ma 18. Ovvero quasi la metà. Una riduzione «inaccettabile». Questa volta per conto dei «piccoli» scendono in campo i colossi che raggruppano le cooperative sociali che gestiscono l'accoglienza nei centri: Legacoop e Confcooperative hanno preso carta e penna e hanno scritto alle prefetture di Padova, Belluno e Verona che in queste settimane hanno pubblicato le gare per aggiudicare i servizi di accoglienza. I costi previsti dal capitolato sono «inaffrontabili - dichiarano - Noi siamo cooperatori sociali, non albergatori, le prefetture devono ritirare queste cifre». Si tratta di 1.400 posti in totale per strutture che non possono accogliere più di 50 persone ciascuna, per scongiurare realtà già viste in Veneto, come quelle di Cona, nell'ex base militare che prima delle svuotamento voluto dal ministro Salvini era arrivata a ospitare oltre mille stranieri creando di fatto in ghetto. Le due associazioni hanno incontrato gli iscritti, alcuni dei quali avrebbero riferito loro di non voler partecipare alle gare a queste condizioni: «Noi abbiamo detto a tutti di agire in autonomia anche se sconsigliamo la partecipazione a bandi di questo tipo che azzerano totalmente la nostra vocazione», denuncia Roberto Baldo presidente di Federsolidarietà di Confcooperative. Non solo. L'allarme è soprattutto sui posti di lavoro: «Basi d'asta come queste non solo ci impediscono di fare una integrazione come si deve ma ci portano a fare considerazioni anche sulle nostre capacità: le cooperative sociali occupano circa 700 persone, se accettiamo di lavorare con queste cifre saremo costretti a perdere 300-400 posti di lavoro», aggiunge Loris Cervato di Legacoop. «A queste condizioni non possiamo offrire alcun servizio, si snatura completamente la nostra missione che è quella di insegnare l'italiano agli stranieri, di creare rapporti di lavoro duraturi e stabili, di inserire i migranti e integrarli sul territorio», precisano ancora da Confcooperative. Si tratta di «persone con elevate competenze, speriamo che non debbano rimanere senza lavoro». Insomma, la richiesta è di fare un passo indietro sulle cifre, altrimenti i bandi, fanno intendere, potrebbero andare deserti. Passo indietro che difficilmente arriverà visto che gli stanziamenti sono stati ridotti per volontà del Viminale. Prima della scure i 35 euro venivano spesi suddividendoli così: 9,3 euro per i pasti, 3,8 euro per i beni personali, 2,5 euro per il pocket money, 2,1 euro per le spese sanitarie, 2,8 per le spese di integrazione come incorsi di lingua, 5,1 euro per affitto e il mantenimento delle strutture di accoglienza, comprese le spese per le bollette. Infine c'erano i 9,4 euro per il personale, dagli operatori sociali agli addetti alle pulizie. Ora i conti potrebbero non tornare.
Salvini smaschera la Caritas: "Accogliete solo per fare quattrini?" Il Viminale taglia i fondi e la Caritas non partecipa più ai bandi per l'accoglienza dei migranti. Salvini: "Lo fate solo per soldi". Andrea Indini, Venerdì 03/05/2019, su Il Giornale. Non appena Matteo Salvini ha deciso di tagliare i fondi per l'accoglienza, in molti si sono tirati indietro dal business per spartirsi i disperati che sbarcano sulle nostre coste. Tra questi c'è anche la Caritas italiana che da settimane ha deciso di non partecipare più ai bandi per l'accoglienza diffusa. "Viste le limitazioni imposte all'accoglienza dal decreto Salvini è l’unica strada rimasta", ha lamentato in una intervista al Corriere del Veneto monsignor Corrado Pizziolo, presidente dell'istituto di carità dei vescovi, spiegando, senza troppi giri di parole, che senza un adeguato sovvenzionamento dalle case pubbliche, la Chiesa non è più "disposta a sostituirsi allo Stato". Una giustificazione che ha dato al leader leghista l'assist per smascherare l'ente diocesano: "Se siete generosi accogliete con meno soldi. O accogliete per far quattrini?". Le prime a disertare i bandi sono state le cooperative. Già il mese scorso si contavano decine di appalti andati a vuoto. Uno dopo l'altro hanno smascherato la finta carità di certi enti che con gli immigrati puntava soltanto a far soldi. Nessuno si è infatti fatto problemi a dire che il passo indietro è una ritorsione alla sforbiciata ai costi per l'accoglienza voluta da Salvini per stroncare il business dell'immigrazione. Il taglio è stato netto: si è passati dai 35 ai 21-26 euro. E così a Genova, Savona, Lecce, Treviso, Ferrara, Reggio Emilia e Viterbo le cooperative che fino a ieri svolgevano le attività di accoglienza e integrazione hanno appunto smesso di presentarsi alle gare che, una dopo l'altra, finiscono per andare deserte. Un caso eclatante è stato quello di Reggio Emilia dove a inizio aprile Reti temporanee di imprese, che avevano in mano la gestione straordinaria di quasi tremila richiedenti asilo, si sono tirate indietro. Dopo le cooperative è stata la volta della Caritas. Stesso discorso. "Le risorse non sono sufficienti", hanno lamentato nei giorni scorsi a Treviso e a Vittorio Veneto. La decisione di chiamarsi fuori non è locale ma avvallata da presidente dell'istituto. "La scelta che coinvolge le Caritas di tutta Italia - ha spiegato al Corriere Veneto monsignor Pizziolo - è indotta dalla nuova normativa, che ha avuto due effetti: ha ridotto all'osso le risorse per l'accoglienza e ne ha ristretto le maglie, imponendo criteri più stringenti". Nel frattempo, per prendere tempo, le Prefetture stanno rinviando i bandi e prorogando i termini di presentazione alle gare, come successo a Siena e Bologna. In altri casi, invece, è stato deciso di riportare i migranti nelle caserme. Le ragioni della scelta della Caritas, come anche delle cooperative rosse, non sono affatto economiche ma prettamente politiche. Ed è lo stesso monsignor Pizziolo ad ammetterlo: "Alcune Caritas non si sentono più di partecipare ai bandi, non solo per il taglio dei finanziamenti ma anche perché non vogliono avallare scelte che non condividono". Da Roma non è partita alcuna direttiva ufficiale. Tanto che ci sono ancora molte diocesi, come quelle di Trento e di Bolzano, che vanno avanti a partecipare ai bandi. Ma i casi di chi si tira indietro sono destinati ad aumentare. Nei mesi scorsi lo stesso Salvini profetizzava: "La mangiatoia è finita. Chi speculava con margini altissimi per fare 'integrazione', spesso con scarsi risultati, dovrà cambiare mestiere". E così è stato. Il velo dell'ipocrisia è stato abbassato una volta per tutte.
Migranti, Caritas contro i tagli. Respinto il bando accoglienza. Il taglio ai 35 euro per migrante per le strutture di accoglienza ha creato non pochi problemi alla Caritas. E Salvini affonda il colpo: "Cambiate mestiere". Angelo Scarano, Giovedì 25/04/2019, per Il Giornale. Poche risorse e scatta la fuga dai bandi delle prefettura per l'accoglienza dei migranti. È il caso della Caritas di Treviso e Vittorio Veneto che ha deciso di rinunciare alla gara di appalto per l'assegnazione dei servizi di accoglienza. Come riporta oggitreviso, con l'entrata in vigore del "Decreto immigrazione e sicurezza" le risorse destinate a questo tipo di servizi sono state ridotte. Da qui il rifiuto da parte delle coop e della Caritas di partecipare alle gare. E la Caritas non usa giri di parole per spiegare la sua scelta parlando proprio di "risorse insufficienti". L'attacco che arriva dalla Caritas è abbastanza chiaro: "Risorse sufficienti per svolgere quello che noi riteniamo essere un adeguato supporto normativo nell'iter legale di riconoscimento del proprio status e la presa in carico delle situazioni di fragilità psicologica o sanitaria. A concludere con noi il progetto - spiegano i rappresentanti degli operatori - sono circa 150 persone, alcune delle quali rischiano di interrompere il percorso di inclusione avviato nelle comunità e sul quale tanti di loro hanno investito molto in termini di impegno e di energie". Poi, sempre gli operatori, dichiarano i motivi per cui è arrivato il passo indietro rispetto al bando: "Constatato che il sistema di accoglienza diffusa da noi costruito viene messo oggi in crisi - è la conclusione - riteniamo non ci siano più le condizioni per poter partecipare agli 'affidamenti ponte' proposti dalla Prefettura di Treviso o all'eventuale nuovo bando sui servizi di accoglienza". E su questo episodio è intervenuto il vicepremier, Matteo Salvini che sulla sua pagina Facebook ha risposto alle critiche: "La mangiatoia è finita, chi speculava con margini altissimi per fare "integrazione", spesso con risultati scarsissimi, dovrà cambiare mestiere".
"Troppo pochi 21 euro a immigrato". E le cooperative disertano i bandi. "Troppo pochi i 21 euro a migrante decisi dal Viminale". Così in tutta Italia le Cooperative disertano i bandi di accoglienza, scrive Stefano Damiano, Giovedì 11/04/2019 su Il Giornale. In tutta Italia i bandi per le attività di accoglienza ai migranti stanno andando deserti. Il motivo è legato all’abbassamento dei costi per l’accoglienza, decisa dal ministro degli Interni, Matteo Salvini. Si è infatti passati di 35 ai 21-26 euro. Un taglio netto di oltre il 40 per cento. Così a Genova, Savona, Lecce, Treviso, Ferrara, Reggio Emilia e Viterbo le Cooperative che dovrebbero svolgere le attività di accoglienza e integrazione non si stanno presentando alle gare che, così, finiscono per andare deserte. Le prefetture, per prendere tempo, hanno deciso di rinviare o prorogare i termini di presentazione alle gare, come successo a Siena e Bologna, ma il rischio che questa protesta silente continui è più che probabile. Caso eclatante è quello di Reggio Emilia, dove i due soggetti (Reti temporanee di imprese) aderenti a Confcooperative, che avevano in mano la gestione straordinaria dei richiedenti asilo (quasi 3mila persone) si sono tirate fuori dalla gara per il nuovo appalto. Fino al 30 giugno prossimo i richiedenti asilo saranno comunque seguiti sulla base dei precedenti accordi dalle cooperative sociali di Reggio Emilia (Dimora d’Abramo e L’Ovile come capofila, il Centro Sociale Papa Giovanni XXIII, Coress - Il Piccolo Principe, La Vigna, Madre Teresa) che in questi anni, insieme al Ceis e alla cooperativa Ballarò, hanno gestito i servizi d’accoglienza. In Toscana invece, sono state Arci e Oxfam a decidere di non partecipare.
Migranti, Matteo Salvini taglia i fondi per l'accoglienza. La "sinistra umana": niente soldi, le coop mollano, scrive il 12 Aprile 2019 Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano. L'Italia esce da una bizzarra epoca nella quale chi sfruttava la presenza di immigrati per far soldi era considerato un filantropo. Poi sono cambiate due cose. I profughi hanno smesso di sbarcare e il Viminale ha tagliato i fondi a chi dava loro un letto: da 35 euro al giorno a 21. Il risultato oggi è sotto gli occhi di tutti: quella ricca rete di presunti benefattori sta sparendo. E quelle stesse persone che scendevano in piazza per chiedere "porti aperti" non trova più così interessante lavorare per gli africani. Preferivano essere altruisti quando la cosa prevedeva una rendita. Per anni abbiamo scritto di Onlus che gonfiavano i fatturati con sistemi curiosi. A Milano, per esempio, c' era chi spediva i propri addetti a intercettare i clandestini in stazione per convincerli a passare una notte in un dormitorio. I poveracci arruolati sulle banchine non volevano rimanere in Italia: la gran parte sognava di vivere a nord delle alpi ed era in Lombardia di passaggio. Alcune associazioni, però, riuscivano a incassare facendo dormire i migranti da loro almeno per una serata. Come un hotel. Ora, però, sta crollando tutto. A Monza il centro Spallanzani ha appena chiuso per mancanza di rifugiati. Poi c' è il caso di Esino Lario, il Comune del Lecchese balzato nei giorni scorsi agli onori delle cronache per aver deciso di mettere in vendita tutte le pubbliche proprietà. Era una delle capitali italiane dell' accoglienza e la cosa rendeva bene. Oggi sta cercando di attrezzarsi con altri espedienti. Un servizio del QN ieri raccontava della situazione in tante altre regioni, dove i bandi per aggiudicarsi gli appalti per l' accoglienza vanno costantemente deserti. In Toscana le cooperative chiedono di rinviare le gare. A Milano e Udine c' è chi si è appellato al Tar sperando di ottenere contratti più vantaggiosi.
Infine ci sono tutte le realtà smantellate dai magistrati. È il caso di Riace, città di uno dei più celebrati eroi delle organizzazioni non governative, il sindaco Mimmo Lucano. Il sistema nato nel piccolo Comune calabrese sta crollando sotto la scure dei magistrati. Troppe irregolarità, dice la Procura, troppi quattrini mal spesi. La scorsa settimana ci avevano raccontato che il primo cittadino era già stato "riabilitato" dalla Cassazione, la quale aveva di fatto già smontato le tesi dei pm. Forse gli amici del buon Mimmo avevano voluto leggere in quelle carte ciò che in effetti non c' era. I giudici non avevano "riabilitato" nessuno, semplicemente avevano cancellato una delle misure cautelari previste dagli inquirenti in attesa del primo grado del processo. L' iter, tuttavia, è tranquillamente andato avanti e Lucano ieri è stato rinviato a giudizio con accuse pesantissime. Con anche la sua compagna Tesfahun Lemlem, e altre 29 persone. I reati contestati, a vario titolo, sono associazione per delinquere, truffa con corrispondente danno patrimoniale per lo Stato per oltre 350.000 euro, abuso d' ufficio ottenendo un ingiusto vantaggio patrimoniale per oltre 2.000.000 di euro, peculato distraendo fondi pubblici per oltre 2.400.000 euro, concussione, frode in pubbliche forniture, falso e favoreggiamento dell' immigrazione clandestina. Per i "buoni", insomma, la situazione resta complicata. Lorenzo Mottola
Migranti, la denuncia degli avvocati: "Le questure non ci fanno entrare". L'ordine dei legali di Napoli e Lecce: "Ci negano di assistere i cittadini stranieri agli sportelli dell'ufficio immigrazione". "Una discriminazione per i nostri clienti e mancanza di rispetto per la nostra categoria", scrive Vladimiro Polchi l'11 marzo 2019 su La Repubblica. Porte chiuse agli avvocati. Le questure sbarrano la strada ai legali diretti all'ufficio immigrazione. Se sei un cittadino straniero e devi rinnovare il permesso di soggiorno, da oggi sbrigatela da solo: nessun professionista potrà più assisterti con le tue difficoltà linguistiche e i mille impacci della burocrazia. Un comportamento senza precedenti. Almeno a stare alle denunce degli avvocati: "Tali condotte pongono gli immigrati in posizione di inferiorità e risultano irrispettose verso la categoria forense". Per l'Arci, "i funzionari più che applicare la legge, paiono interpretare la nuova aria che tira al Viminale: rendere, laddove possibile, più difficile la vita ai migranti". Un passo indietro. Fino a oggi un immigrato poteva pagare un avvocato per farsi assistere davanti allo sportello immigrazione, per ogni pratica: dalla richiesta del permesso di soggiorno, al nulla osta al ricongiungimento familiare. Ora discrezionalmente alcune questure starebbero ostacolando l'accesso dei legali. "I funzionari e il personale addetto all'Ufficio immigrazione - scrive Antonio Tafuri, presidente dell'ordine degli avvocati di Napoli - è solito negare l'ingresso agli avvocati che intendono assistere gli immigrati nel disbrigo delle relative pratiche. Tale prassi che non ci risulta sia fondata su disposizioni normative - prosegue la nota spedita il 5 marzo al questore - pone gli immigrati in posizione di inferiorità e di difficoltà sia per la frequente scarsa conoscenza della normativa, sia per le comprensibili deficienze linguistiche e di espressione del pensiero e della volontà. Tali condotte risultano irrispettose verso la categoria forense e contrarie alla inviolabile e costituzionale funzione dell'avvocato di difendere e assistere anche tecnicamente la persona che reclama i propri diritti". Insomma i legali chiedono chiarimenti. "Finora gli avvocati facevano da tramite per i migranti in questura - spiega a Repubblica il presidente Tafuri - ora accade che non gli venga più consentito l'ingresso, senza che ci risulti un espresso divieto. Insomma adesso è a discrezione dei funzionari, invece ci vuole una regola e per noi la regola è che si deve continuare a poter assistere i clienti all'ufficio immigrazione". Stesso problema a Lecce. Qui il 20 dicembre scorso, 13 avvocati hanno scritto al proprio ordine denunciando "difficoltà di accesso" alla divisione immigrazione della questura. E non solo: "Alcuni nostri assistiti - scrivono - hanno anche appreso che è sconsigliabile l'assistenza di un legale dal momento che il personale dell'Ufficio immigrazione "si arrabbia" e la pratica non va avanti". Ci è voluto l'intervento del presidente dell'ordine degli avvocati di Lecce, con due note ufficiali del 16 gennaio e del 15 febbraio scorso, a indurre la questura a riaprire le porte ai legali. "Non c'è alcuna regola che possa impedire a un avvocato di assistere il suo cliente di fronte alla pubblica amministrazione - commenta Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell'Arci - i funzionari delle questure più che applicare la legge, sembrano ora interessati a interpretare il pensiero del Viminale, aggravando gli ostacoli burocratici che i migranti devono superare. Si tratta dell'ennesima discriminazione".
Migranti nei capannoni precari. Ma il centro sociale incassa soldi pubblici. A Caserta il centro sociale incassava soldi pubblici per fare assistenza legale ai migranti e tenere i corsi dello Sprar. Salvini: "La pacchia è finita", scrive Sergio Rame, Martedì 12/03/2019, su Il Giornale. I capannoni sono fatiscenti e c'è un concreto pericolo che crollino da un momento all'altro. Tutt'intorno, poi, le condizioni igienico-sanitarie sono carenti. La conclusioni dei periti della procura di Santa Maria Capua Vetere hanno portato, questa mattina, i carabinieri del nucleo investigativo di Caserta a sequestrare la sede del centro sociale "Ex Canapificio". In quei capannoni gli antagonisti avevano aperto alcuni uffici a cui gli immigrati si rivolgevano regolarmente per ricevere assistenza legale. Non solo. Nella stessa struttura venivano svolti alcuni corsi dello Sprar di Caserta. "La pacchia è finita!", ha esultato Matteo Salvini al termine dell'operazione dei carabinieri che questa mattina hanno messo sotto sequestro l'Ex Canapificio. Il provvedimento d'urgenza è scaturito a tutela dell'incolumità delle tante persone che si recano ogni giorno nei capannoni della struttura di viale Ellittico. Il centro sociale di Caserta nasce nel 1995 quando occupa l'ex macello di via Laviano, uno stabile abbandonato da anni. Nel 1998, poi, gli antagonisti si sono trasferiti nei capannoni che si trovano praticamente di fronte alla Reggia di Caserta. L'occupazione è stata, poi, regolarizzata dalla Regione Campania. Oggi, sebbene la convenzione fosse scaduta ormai da tempo, il centro sociale gestiva uno dei progetti "Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati" più grandi d'Italia con la benedizione della Giunta di sinistra guidata dal piddì Carlo Marino. Oggi i Carabinieri hanno sequestrato l'edificio, su disposizione della procura di Santa Maria Capua Vetere, per gravi carenze strutturali e per le pessime condizioni igienico sanitarie. "Ma come? - si chiede ora Salvini - il centro sociale incassava fior di soldi pubblici per l'assistenza dei "fratelli immigrati" e non ha mai fatto manutenzione?".
Gli dice "La pacchia è finita!". E il centro sociale querela Salvini. Nonostante i soldi pubblici, i migranti messi in strutture pericolanti. Salvini esulta per il sequestro dei locali e gli antagonisti lo querelano, scrive Sergio Rame, Mercoledì 13/03/2019, su Il Giornale. Ieri i carabinieri del nucleo investigativo di Caserta hanno messo i sigilli alla sede del centro sociale "Ex Canapificio". Nonostante si intascassero i fondi per l'accoglienza degli immigrati, i gestori della struttura non hanno mai ristrutturato i capannoni lasciandoli in condizioni così fatiscenti da far temere un crollo da un momento all'altro. Le condizioni igienico-sanitarie, poi, erano a dir poco carenti. Ora gli attivisti, anziché far mea culpa, presenteranno querela per diffamazione nei confronti di Matteo Salvini. Il motivo? Il ministro dell'Interno ha commentato il blitz dei militari col suo classico "La pacchia è finita!". Sebbene la convenzione fosse scaduta ormai da tempo, il centro sociale "Ex Canapificio" gestiva ancora uno dei progetti "Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati" più grandi d'Italia con la benedizione della Giunta di sinistra guidata dal dem Carlo Marino. Ieri mattina i carabinieri hanno messo sotto sequestro l'intera struttura per le "gravi carenze strutturali" e per "le pessime condizioni igienico sanitarie". "Ma come? Il centro sociale incassava fior di soldi pubblici per l'assistenza dei 'fratelli immigrati' e non ha mai fatto manutenzione?", si era chiesto Salvini. Che, poi, aveva concluso col suo classico slogan "La pacchia è finita!". Adesso, come riporta l'agenzia Adnkronos, gli antagonisti puntano il dito proprio su quel "la pacchia è finita" rivolto ai gestori del centro sociale e, definendo l'espressione "pura speculazione", vogliono portarlo in tribunale. "Il ministro - spiegano - sa fin troppo bene che i controlli svolti dal suo ministero dal lontano 2007 hanno sempre constatato l'eccellenza della relativa gestione, e sa bene che quei fondi sono finalizzati all'assistenza dei titolari di protezione internazionale, per cui dovrebbe il signor ministro guardarsi bene dall'istigare alla commissione di un reato, quello di distrazione di fondi, che avremmo senza dubbio commesso seguendo il suo consiglio di utilizzarli impropriamente per la manutenzione, senza peraltro aver nessuno scudo immunitario come quello che evita a Salvini di andare a processo in quanto ministro e di restituire congruamente 49 milioni di euro di finanziamenti pubblici scomparsi nei conti della Lega, in quanto segretario di questo partito". Da domani gli attivisti del centro sociale faranno partire da un "presidio permanente in piazza della Prefettura", mentre sabato scenderanno in manifestazione per protestare contro il sequestro.
Migranti, ora le coop si lamentano: "Non è più previsto il guadagno". Salvini ha tagliato i costi dell'accoglienza. E ora le associazioni cooperative in Emilia Romagna protestano: "Nelle nuove regole manca l'utile di impresa", scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 07/03/2019, su Il Giornale. Nell'infinito dibattito sull'immigrazione, c'è chi l'accoglienza la definisce un "business" e chi invece la vede con solidale slancio umanitario. Nel mezzo ci sono loro, le cooperative, associazioni e Srl che in questi anni si sono divise la grande torta dei bandi per la gestione dei richiedenti asilo. Molti si sono chiesti: lo fanno per amore del prossimo o (anche) per guadagnarci qualcosa? Una bella domanda, che oggi finalmente ha una risposta senza ipocrisie. A dare un'idea dell'approccio reale al fenomeno immigrazione, infatti, ci hanno pensato le stesse coop: in un documento lamentano che negli ultimi tempi - per colpa di Salvini - è venuto a mancare "l'utile di impresa". Ovvero il guadagno. Avete capito? Il guadagno. Quindi è vero che era tutto un business per ottenere un utile? Entriamo nel dettaglio. L'accordo per "un'accoglienza rispettosa dei diritti e delle persone accolte e dei lavoratori" porta in calce la firma delle sezioni emiliane di Legacoopsociali, Confcooperative e Agci Solidarietà. Le associazioni criticano i tagli voluti dal Viminale che hanno portato i costi a migrante da 35 a 20 euro al giorno. Per farlo è stato rivisto il capitolato delle gare di appalto per "la fornitura di beni e servizi per la gestione e il funzionamento" dei centri di prima accoglienza. L'obiettivo del ministro era (ed è) quello di eliminare "sprechi" biasimati anche dalla Corte dei Conti, garantendo però "i servizi primari e la dignità della persona secondo le regole europee". Le coop non la pensano così. Anzi. Secondo le tre associazioni firmatarie dell'accordo il nuovo "schema del capitolato" ridurrebbe "la qualità" dei servizi forniti ai migranti e rischierebbe così di disperdere il "patrimonio etico e materiale della buona accoglienza". Il motivo? Non aver previsto "l'orientamento formativo e lavorativo, l'insegnamento della lingua italiana, il sostegno nell'accesso ai servizi sanitari e sociali, la presa in carico psico sociale per le situazioni vulnerabili" e via dicendo. In sostanza criticano il fatto di aver deciso di garantire agli immigrati solo "vitto e alloggio". In realtà c'è un motivo se Salvini ha preso le forbici e reciso sprechi a destra e a manca. Non solo perché le cronache raccontano i (molti) casi di servizi pagati dallo Stato e mai veramente elargiti dalle cooperative varie. Ma anche perché è paradossale che lo Stato debba investire nell'erogazione di servizi non essenziali a richiedenti asilo che, nel 70% dei casi, non otterranno lo status di rifugiato. "Chi vedeva l'immigrazione come un mangiatoia da oggi è a dieta - diceva Salini presentando i tagli all'accoglienza - Mafia, 'ndrangheta, pseudocoop non troveranno più conveniente interessarsi dei migranti e a lavorare nel mondo dell'accoglienza rimarranno i veri volontari". Il fatto è che anche le cooperative associate a Legacoopsociali, Confcooperative e Agci Solidarietà ora stanno seriamente pensando di "non partecipare a eventuali gare di appalto indette sulla base del nuovo schema di capitolato". E il motivo non è soltanto la "riduzione dello standard di personale" che "produce effetti negativi sulle condizioni di lavoro", né la presunta "compressione di diritti della persona accolta" a causa dell'assenza di "servizi qualificati" per i migranti. No. Il problema - dicono le associazioni - è economico. Le coop lamentano infatti che "la 'stima dei costi medi di riferimento' non prevede costi aziendali" in merito alle "disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro" (che però l'operatore deve indicare in sede di offerta); criticano inoltre il fatto che non sono previsti "costi indispensabili" per la "manutenzione delle strutture" e la "fornitura di farmaci e prestazioni sanitarie non coperte dal SSN". Infine, ed è questo il punto, il (vero) grande grattacapo è che "non sono previsti utili di impresa" né le "spese generali". Tradotto: il ministero non ha considerato il guadagno di chi si occupa di immigrati. E la solidarietà che fine ha fatto?
OH MY ONG. Migranti raccontano di torture nei centri della Libia finanziati dall'Italia attraverso ong. Da Le Iene il 28 aprile 2019. Sono 7 le ong italiane che hanno ricevuto soldi pubblici dai due governi italiani che si sono succeduti tra il 2017 e il 2018. Con 6 milioni di euro avrebbero dovuto contribuire al miglioramento della vita dei profughi nei centri di detenzione della Libia. Gaetano Pecoraro darà una risposta a queste domande domenica a Le Iene, dalle 21.10 su Italia1. Molte ong non hanno partecipato al bando perché non erano certe che il loro lavoro potesse arrivare a uno standard minimo. Sulla carta le ong avrebbero dovuto offrire servizi come la ristrutturazione e la ricostruzione dei bagni nei centri fino alla distribuzione di kit di sopravvivenza (con vestiti, shampoo, spray anti-insetti per evitare la scabbia e medicinali), avrebbero dovuto occuparsi anche della formazione dei medici assegnati a questi centri. Gaetano Pecoraro è andato a Tunisi, dove ha incontrato 9 ragazzi detenuti in questi centri tra maggio e agosto del 2018. Ci raccontano i trattamenti ricevuti dicendo di non aver mai visto né medici né psicologi. Quello che hanno visto solo le torture e la morte di molti loro coetanei.
Migranti nei lager in Libia: e i nostri soldi dati alle ong? Le Iene il 29 aprile 2019. Lo Stato finanzia alcune ong per dare un aiuto ai migranti detenuti in Libia: ma i capi libici permettono che gli aiuti arrivino davvero a chi ha bisogno? Nove ragazzi raccontano a Gaetano Pecoraro di fame, malattie, torture continue. Qualche giorno fa un gruppo armato è entrato e ha aperto il fuoco in un centro per migranti in Libia. Mentre nella capitale Tripoli si combattono le due fazioni dominanti. In mezzo ci sono i civili e molti migranti chiusi in centri di detenzione in cui operano ong finanziate dal governo italiano. Gaetano Pecoraro ha incontrato nove ragazzi che sono stati in questi centri dove non c’era cibo né lo spazio per sedersi, con appena due bagni per 800-900 persone. Uno di loro racconta di essere stato torturato fino a perdere i sensi, anche con l’elettricità. Raccontano di pestaggi all’ordine del giorno, anche con bastoni e catene. Molti poi finirebbero nelle mani di trafficanti di uomini che chiedono soldi per liberarli. Intanto in condizioni così disumane proliferano malattie come la scabbia ma anche la tubercolosi. La Iena è stata due anni fa in uno di questi centri e la situazione era già disastrosa, prima degli aiuti delle ong italiane. Le ong cosa fanno con i soldi dati dallo Stato italiano per intervenire in aiuto dei migranti? È possibile davvero intervenire in un contesto del genere? Le autorità libiche permettono un’assistenza? Cosa fanno i capi libici dei centri di quanto viene loro consegnato?
I migranti sono odiati ma ci fanno comodo! Il corsivo di Emanuele Macaluso dell'8 Marzo 2019 su Il Dubbio. Sul Corriere della Sera (edizione di Roma) ho letto un servizio che parla di uno studio della Uil in collaborazione con Eures (agenzia di ricerca) sul lavoro. Ci fa sapere che nel Lazio sono circa 200 mila i lavoratori in nero soprattutto stranieri. Sono impiegati nel terziario e nei servizi. Molti sono occupati nell’agricoltura, altri nelle strutture alberghiere, nei ristoranti, in negozi e altre attività commerciali, nell’edilizia e nelle famiglie. Dal 2013 al 2017 si registra un aumento di questi lavoratori in nero pari al 13%. Si tratta di un quinto di tutti i lavoratori del Lazio. Stiamo parlando di un fenomeno che, però, è su scala nazionale. E che tocca, in maggioranza, lavoratori stranieri. E tra loro aumentano gli incidenti sul lavoro. Il dirigente della Uil Lazio, Alberto Civica, giustamente osserva che il decreto sicurezza voluto dal ministro Salvini, fatto proprio dal ministro del Lavoro Di Maio e da tutto il governo, accrescerà questa illegalità perché le limitazioni imposte e le forti difficoltà burocratiche nel rinnovo dei permessi di soggiorno stanno già trasformando in irregolari molte posizioni che erano a norma. Ma, nello stesso tempo, questi dati ci dicono che anche questi immigrarti, sfruttati e senza contratto, sostengono l’economia italiana. Se si tiene conto del fatto che ci sono poi gli immigrati con contratto e lavoratori autonomi, occorre dire che reggono tutti insieme l’economia italiana assicurando la loro presenza in tante famiglie con i ruoli di badante, baby sitter e colf. Questo quadro ci dice che la campagna razzista di Salvini e del leghismo, la guerriglia contro gli immigrati è vergognosa perché nega una realtà che è economica, sociale e civile. Il ministro del Lavoro, Di Maio, che aveva abolito la povertà, non ha speso mai una parola sulla condizione di queste centinaia di migliaia di lavoratori che sono anche poveri. Infine: devo lodare certamente l’iniziativa della Uil- Lazio che ha fatto emergere questa realtà regionale. Ma voglio anche dire a tutti i sindacati che occorre organizzare una lotta nazionale contro questa vergogna non solo per toglierla di mezzo ma anche per fare capire a tutti quali sono le conseguenze che produce la campagna salviniana e governativa sugli immigrati che ha sollecitato e incrementato gli impulsi razzisti.
Nel Cpr sputi, sassi e agenti pestati. Così i migranti dettano legge. Confermati gli arresti per tre stranieri. La rivelazione: polizia costretta a trattare coi migranti per mantenere l'ordine. Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 02/09/2019, su Il Giornale. Il Cpr di Torino è una brutta gatta da pelare, soprattutto per gli agenti costretti - loro malgrado - a presidiare il centro per il rimpatrio dei migranti. Le rivolte sono "all'ordine del giorno" anche se non tutte balzano agli onori della cronaca. Incendi, violenze, sputi. L'ultimo caso risale alla notte tra venerdì e sabato, l'ormai nota aggressione che ha dato vita allo sfogo di un poliziotto: quel "per un po' non parlatemi di accoglienza" è la sintesi perfetta di una situazione esplosiva, sempre al limite, dove poche divise si trovano a fronteggiare 158 persone senza mezzi adeguati. A finire nei Cpr sono per lo più stranieri con precedenti penali che per un motivo o un altro devono essere rispediti in Patria. In attesa delle procedure burocratiche, vengono rinchiusi (per un massimo di 180 giorni) in questi centri controllati dalle forze dell'ordine. Attualmente i Cpr operativi sono nove, di cui tre al Sud, uno a Roma e a Torino l'unico per il Nord Italia. L'idea del Viminale era quella di aumentare il numero di posti a disposizione, aprendone altri 5 in diverse Regioni. L'idea di base è semplice: radunare in un unico posto gli immigrati da espellere per evitare che possano girovagare sul territorio. Il problema è però la carenza di personale. Torino ne è l'esempio lampante: "Gli ospiti sono pregiudicati per reati connessi al traffico e allo spaccio di droga - spiega Pietro Di Lorenzo, segretario generale provinciale del Siap - e questo rende di per sé il Cpr una polveriera". Se poi ci si aggiungono i pochi poliziotti a disposizione, la frittata è fatta. Un dato su tutti: nel centro ad oggi opera lo stesso numero di divise di quando "la capienza era un quarto" dei 200 ospiti attuali. Il rischio è che alla fine si arrivi alla "guerriglia" subita dal poliziotto ferito. L'agente ha riportato 30 giorni di prognosi, "una bella frattura scomposta di due falangi" e si è ritrovato con "due monconi malamente appesi". La "pericolossissima" sassaiola è durata "un tempo interminabile", con il poliziotto e un "manipolo" di cinque carabinieri costretti a subire le violenze degli immigrati. Solo l'intervento della Mobile ha evitato il peggio. Oggi il giudice ha convalidato il fermo di tre stranieri: due marocchini finiranno in carcere, mentre un tunisino è stato rispedito al Cpr perché "le sue responsabilità considerate meno gravi". Restano, però, le polemiche. Una fonte di polizia del Giornale.it fa notare che nell'ultimo anno le rivolte degli immigrati sono state "innumerevoli", almeno "una ventina". Solo a Torino. Casi simili si sono registrati poi anche a Bari e Potenza. Gestire la sicurezza un strutture così complesse è difficile: i migranti non sono "detenuti", ma solo "trattenuti". E così si permettono di fare la voce grossa. "L'autorità viene messa in discussione", spiega l'agente ferito: gli ospiti deridono i poliziotti e le loro funzioni vengono "prese in giro e a sputi". E non è una metafora. Solo la sera prima delle violenze, sempre a Torino i migranti avevano dato fuoco ai materassi e divelto gli arredi per gettarli contro i poliziotti. "Il controllo dell'ordine pubblico - scrive l'agente su Facebook - è diventato una chimera impostato essenzialmente sull'opera di mediazione dei singoli ispettori". In pratica le autorità sono costrette a "parlamentare" e scendere a compromessi con "extracomunitari provocatori pregiudicati". "Lì dentro non contiamo niente - rivela una fonte al Giornale.it - non ci sono pene per chi non ci rispetta e per far andare avanti la baracca bisogna cercare di convincerli" a non creare troppi problemi. Sembra una barzelletta: state buoni, se potete.
Centri di rimpatrio, ricettacolo di violenza e di ogni reato. Dovrebbe essercene uno in ogni regione. Al momento sono solo 6. Dove si spaccia alla luce del sole e prospera la criminalità, scrive l'8 marzo 2019 Panorama. Imam pro-Isis che propagandavano la guerra santa, spacciatori, ex scafisti, stupratori o semplici clandestini. Nei Centri per il rimpatrio (Cpr) c’è spesso il peggio dell’immigrazione e, nonostante le misure di sicurezza alte e in alcuni casi le strutture sembrino dei campi di prigionia, all’interno accade di tutto: dalle aggressioni sessuali al traffico di droga. E poi ci sono i mediatori culturali che si scoprono pusher, le rivolte da sedare, le proteste per il vitto non gradito che culminano in tentativi di incendio e le evasioni rocambolesche. Mentre il Viminale accelera sul fronte dei rimpatri lavorando per stringere accordi con i Paesi di provenienza degli immigrati da espellere, le strutture scoppiano. Il Decreto sicurezza prevede che ci sia un Cpr per ogni regione. Ma al momento sono sei: Bari (riaperto a novembre 2017), Brindisi (attivo dal 2015), Caltanissetta (chiuso a fine 2017 dopo una rivolta e riaperto a dicembre 2018), Roma (l’intero settore maschile è rimasto fuori uso per mesi), Palazzo San Gervasio (dov’è stata adattata una struttura confiscata alla mafia), Torino (il centro più grande d’Italia e anche il più complicato da gestire), Trapani (per un periodo è stato hotspot). A breve è prevista l’apertura di quattro nuovi centri: a Gradisca d’Isonzo, Macomer (in Sardegna), Milano e Modena. È già previsto l’ampliamento del Cpr di Caltanissetta, quello di Torino passerà da 175 a 210 posti entro fine anno, quello di Roma subirà adeguamenti nell’area maschile, quello di Bari passerà da 90 a 126 posti. In Calabria si sta pensando a un ex campo base a Mormanno, in provincia di Cosenza, usato per la costruzione della Salerno-Reggio Calabria. Tra i 100 e i 150 posti, invece, potrebbero essere recuperati a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, dove si sta lavorando per ripristinare un’ex caserma in passato utilizzata per la prima emergenza dal Nord Africa. Le strutture, poi, sono costantemente sotto manutenzione. «E ogni sforzo compiuto, con significativi oneri», sottolinea Gerarda Pantalone, capo del Dipartimento immigrazione, «viene spesso vanificato dai continui e violenti comportamenti degli ospiti in danno dei locali e degli arredi, con dirette negative conseguenze sulle loro stesse condizioni di vita». I danneggiamenti sono all’ordine del giorno, soprattutto a Palazzo San Gervasio, 5 mila abitanti, in Basilicata, al confine con la Puglia, dove il Comune è anche alle prese con uno sbarramento burocratico contro la Regione che vorrebbe piazzare in un ex tabacchificio non a norma anche un centro d’accoglienza per migranti stagionali. Solo due mesi fa è scoppiata una rivolta per impedire che gli agenti provvedessero al rimpatrio di sei nigeriani. Cinque uomini in divisa sono stati aggrediti e c’è stato anche un tentativo di incendio. Due mesi prima era accaduto a Torino, dove gli ospiti della struttura avevano dato alle fiamme i materassi (ma l’aggressione per evitare le espulsioni è una prassi anche a Bari). Le due strutture detengono pure il record di tentativi di fuga. «Uno ogni due giorni», fanno sapere dalla Questura di Torino. Gli immigrati cercano di scavalcare le mura di recinzione utilizzando lenzuola intrecciate alle quali legano un contrappeso da lanciare oltre il muro. Ad aprile, invece, dal centro lucano sono riusciti a scappare in 22. Hanno tenuto per qualche giorno la popolazione col fiato sospeso, poi, però, sono stati bloccati tutti. Ma a togliere il sonno a polizia e carabinieri ci sono anche i continui reati commessi all’interno della struttura: a settembre, per esempio, un tunisino, un marocchino e un libico in attesa di espulsione hanno cercato di violentare sessualmente un altro ospite e sono stati arrestati in flagranza. Le operazioni antidroga sono all’ordine del giorno. E, addirittura, lo scorso luglio è finito in manette un mediatore culturale siriano che aveva portato nel Cpr sei dosi di hashish confezionate e pronte da spacciare e anche un coltellaccio da cucina. A Torino, invece, un italiano si è introdotto nel centro con delle scatole di biscotti da consegnare a un ospite del centro. Gli agenti hanno notato che quattro confezioni presentavano un’anomalia nella sigillatura. Insospettiti, hanno aperto le scatole e, mischiati tra i biscotti, hanno trovato 21 involucri di cocaina. Nella stessa giornata alcuni poliziotti hanno intercettato una mela lanciata dall’esterno della struttura oltre il muro di cinta: dentro c’era un pacchettino con qualche grammo di hashish. A fine settembre, invece, un corriere marocchino ha provato a oltrepassare i controlli nascondendo la droga in alcuni vasetti di yogurt alla frutta. Le confezioni, però, sono risultate di peso superiore rispetto a quello dell’etichetta e sono scattati i controlli: l’immigrato è stato arrestato. Durante le perquisizioni, poi, salta fuori di tutto: spranghe in metallo, lamette, pezzi di plastica dura affilati, bulloni appuntiti, pugnali artigianali, frammenti di metallo acuminati e molto altro ancora. E, così, per i disordini di agosto nel centro Brunelleschi di Torino sono sati espulsi subito otto tunisini e tre marocchini. A guidare le rivolte, di solito, sono i radicalizzati. A settembre 2018 sono stati espulsi tre egiziani che nel Cpr di Roma inneggiavano ad attentati contro i Paesi occidentali. Dal Cpr di Torino, poi, è transitato più volte anche un ex imam considerato molto pericoloso: Abdelghani Otman, 35 anni, pluripregiudicato. Da detenuto ad Alessandria tifava per i miliziani dello Stato islamico e mentre in tv passavano le notizie su alcuni attentati in Europa è stato intercettato mentre affermava: «Cristiani maledetti, devono morire tutti». Il macedone Agim Miftarov, invece, è stato arrestato mentre a Palazzo San Gervasio era in attesa di espulsione. L’accusa: addestramento con finalità di terrorismo internazionale. Il macedone era stato portato nel Cpr dopo una perquisizione. Sul suo profilo Facebook c’erano fotografie di terroristi armati e iconografie riconducibili a organizzazioni terroristiche. Aveva visionato circa 900 video di addestramento dell’Isis sull’uso di armi da guerra. E ovviamente nel centro faceva propaganda. Senza che nessuno se ne fosse accorto, poi, il Cpr di Brindisi ospitava due tunisini ricercati. La loro copertura è saltata per colpa dei controlli incrociati sulle banche dati effettuati dagli agenti dell’Ufficio immigrazione della Questura di Brindisi. Sono stati loro a scoprire che Youssef Ben Chedlj Jouini, 38 anni, era destinatario di un ordine di carcerazione del Tribunale di Napoli per una condanna definitiva a otto anni di reclusione per reati di droga. Nel Cpr, però, ci era arrivato con un altro nome sui documenti. Stessa trafila per Mohamed Tahar Fakraoui, 33 anni, tunisino. Anche lui era uno spacciatore con documenti falsi. E chissà quanti altri clandestini, dopo le loro scorribande criminali in Italia, attendono il rimpatrio con un’altra identità.
Boom delle rimesse verso i propri Paesi: ecco dove va l’oro dei migranti. Pubblicato sabato, 09 novembre 2019 da Corriere.it. Mezzogiorno di metà settimana. L’incrocio tra via Gioberti e via Giolitti, di fronte alla stazione Termini, a quest’ora è strategico. Sul marciapiede invaso dal mercatino delle scarpe a cinque euro, loro aspettano il turno. «Invio danaro Ghana, invio dinero Colombia»: i cartelli del Ria Money Trasfer assicurano velocità, discrezione. Come quelli della Western Union, alla bottega accanto. O di MoneyGram. I soldi partono da posti così, da casse quasi continue in fondo a empori zeppi di magneti, cd, occhiali, cellulari, in un angolo di Roma dove il kebab ha da tempo sopravanzato la pizza. E da altri 35 mila sportelli delle tre multinazionali sparsi in tutta Italia. Per usare questa rete basta un documento, non necessariamente quello giusto. «Chiamatemi Buba, Buba e basta», sorride il ragazzo con la felpa rossa e tre banconote da cinquanta in pugno. Quasi tutti, anche quelli con le carte in regola, ci danno nomi fasulli, sono timorosi. E così il grande giro di rimesse verso l’estero racconta molto di loro — gli immigrati — ma anche molto della nostra economia, della nostra politica, di noi. Nemmeno queste rimesse potevano scampare alla Grande recessione. Gli stranieri spedivano nei Paesi d’origine 7,4 miliardi di euro nel 2011 (quando erano poco meno di quattro milioni) e ancora 6,8 miliardi l’anno dopo, con l’inizio del declino e la crisi del debito: 1.686 euro a testa in un anno; somme che, mandate alle famiglie, rendevano del tutto razionale l’idea di pagare migliaia di euro in un colpo solo a una banda di trafficanti pur arrivare qui. Da allora però le cifre calano. Alla fine del 2017, antivigilia del primo governo dichiaratamente ostile all’immigrazione, gli stranieri residenti salgono a cinque milioni, ma mandano a casa solo cinque miliardi di euro. Mille a testa l’anno, un terzo in meno rispetto ai tempi del governo Monti. In parte perché si sono integrati e spendono i loro redditi più per l’istruzione dei figli in Italia e meno per i cugini ancora al villaggio. In parte perché la crisi morde. Poi, la sorpresa: emerge da un’analisi del Corriere su dati appena aggiornati dalla Banca d’Italia. La rotta si inverte con l’arrivo del governo Cinque Stelle-Lega, all’aprirsi della stagione dei porti asseritamente chiusi, delle quotidiane sortite contro i migranti, della xenofobia in aumento registrata anche dalle denunce nella seconda metà del 2018. È allora che le rimesse dall’Italia tornano a esplodere. Nella seconda metà del 2018, primo semestre del primo governo Conte, l’aumento è del 17% rispetto allo stesso periodo del 2017. È come se crescesse il risparmio precauzionale mandato al sicuro, all’estero. A fine 2018, un anno stagnante per l’economia, il numero degli stranieri è più o meno stabile, ma aumentano di quasi 800 milioni le loro rimesse rispetto al 2017. E la prima metà del 2019 segna un altro più 2%, malgrado la crescita zero in Italia. In parte è tenacia. In parte paura. Non si fidano più, come Buba. Buba avrebbe di che essere orgoglioso della sua vera identità. Ventidue anni, aspirante geometra: con la paga da aiuto cuoco non solo mantiene agli studi in Gambia i quattro fratelli, ma sostiene anche gli ospiti del Villaggio Sos Bambini di Bakoteh, piccoli che, come lui, «hanno perso i genitori troppo presto». Così Buba è diventato una specie di arcipadre per i suoi fratelli e anche per i bimbi di Bakoteh: «Il mio sogno è costruire una scuola dove imparino a leggere e scrivere in inglese e in italiano». A questa doppia famiglia ha appena spedito 150 euro (ne manda fino a 200 al mese tramite Western Union, per sé tiene quasi gli spiccioli). Ma le rimesse non sono solo altruismo e trasparenza. Quelle verso la Cina per esempio crollano dagli 83 milioni a trimestre di inizio 2016 a soli 2,6 milioni a trimestre dell’inizio di quest’anno: poiché il numero dei cinesi in Italia resta più o meno stabile, circa 12 mila, la scomparsa delle rimesse lascia pensare a economia sommersa e reti clandestine. Non alla crisi. Lo stesso andamento erratico delle spedizioni di denaro in Nigeria (3,2 milioni nel primo trimestre 2017, sette volte di più nel secondo semestre 2019) fa ipotizzare riciclaggio ed economia illegale, anche sulla scorta delle indagini della Finanza. Michael, nigeriano, 50 anni, ha in tasca un foglio di espulsione contro cui ha fatto ricorso. Ora aspetta, rannicchiato nelle pieghe dell’accoglienza cattolica (la sola che ha retto davvero). Lavora in nero, ma manda almeno 50 euro al mese al figlio di 12 anni in collegio a Lagos. «Devo farlo, in Nigeria se ti ammali paghi». Un bambino fortunato il suo Tony, si direbbe, non fosse che il padre s’è fatto cinque anni a Rebibbia per traffico di droga. Parla a fatica della galera Michael, dice di essere laureato in economia e forse per questo il giudice ha pensato che tenesse i conti della banda. «Ma io sono innocente e non ci sono bande». Nemmeno i culti della vostra mafia? «La mafia nigeriana è un’invenzione dei giornalisti» (Michael parla a tratti come i mafiosi siciliani che negavano l’esistenza di Cosa Nostra). «Dovessi cambiare una cosa della vita? Non sarei venuto in Italia. Poi penso che potrà venire qui mio figlio e allora resisto». Resistono in tanti, abbiano o meno la legge dalla loro. Un’occhiata alle rimesse verso i sedici Paesi d’origine dei maggiori flussi di sbarchi fra il 2015 e il 2017 — tra cui la stessa Nigeria, il Pakistan, il Ghana, la Siria — apre uno squarcio su «mondo di sotto» della società italiana. Per questi immigrati, decollano le rimesse per abitante fra la prima metà del 2017 e la prima metà del 2019. Come se l’Italia fosse una tigre asiatica, non un Paese con poco lavoro e alti costi della vita. Eppure la Banca d’Italia è chiara. In due anni le rimesse pro-capite degli afghani crescono del 34%, quelle dei bengalesi del 2%, (ma valgono 4.400 euro l’anno a testa, un record), quelle dei nigeriani salgono del 190% e dei pachistani del 42%. È probabile che il boom delle rimesse verso i Paesi di origine dei rifugiati arrivati con i barconi si spieghi perché ad esso partecipano di nascosto anche gli «invisibili»: gli irregolari con richiesta d’asilo negata che però restano qui in nero, sommersi, ma a loro modo integrati. Per capirci: il numero reale degli afgani in Italia dev’essere salito circa del 20% se si contano anche gli irregolari, quello dei nigeriani del 170% e anche i pakistani sono molti di più, fuori dai dati Istat su chi ha un permesso.
Tanti di questi «clandestini» sbarcati dal 2015 sono tali per la burocrazia e per la politica: ma non per chi li mette al lavoro, spesso sfruttandoli. Non pochi pensano di rientrare in patria, domani, per cambiarla: il «piano Marshall per l’Africa», di cui spesso straparliamo, se lo stanno facendo da soli, stringendo i denti. Issa ha 23 anni, sta per diventare biologo, fa il mediatore culturale in uno Sprar a Benevento. Gambiano come Buba, ma più consapevole di un ruolo che va conquistandosi nella nostra università: «Io tornerò a casa a lavorare per la mia gente». Intanto lavora per la famiglia, quattro fratelli piccoli gli costano mille euro l’anno di rimesse. Quando è andato a trovarli dopo cinque anni da noi, il più piccolo l’aveva visto solo su Skype: «Era un uomo! Camminava! Beh, cosa dovevo fare? Mi sono messo a piangere...».(Ha collaborato Riccardo Antoniucci)
Così le rimesse degli emigrati fanno fare parecchi soldi all’Africa, scrive il 27 febbraio 2019 Mauro Indelicato su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. C’è un business a volte sottovalutato quando si parla di fenomeno migratorio, che però vale svariati miliardi di dollari: è quello delle rimesse mandate in Africa o nei Paesi originari da parte di chi lavora in Europa. Un giro di affari che ad esempio solo per l’Egitto vale 25 miliardi di dollari, tanto i cittadini egiziani residenti all’estero hanno rispedito in patria nel 2018.
Cifre da capogiro. Con quello che nel Vecchio continente si guadagna, nel proprio Paese di origine si riesce a mantenere dignitosamente una famiglia. Il fenomeno della rimessa dei soldi verso la propria nazione è tipico delle circostanze migratorie, praticamente da sempre. Già nel 2002 ne parla l’allora segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, secondo cui i soldi delle rimesse valgono complessivamente 80 miliardi di dollari. Oggi probabilmente più del doppio. Se l’Egitto è in testa con i suoi 25 miliardi, frutto soprattutto del fatto che il paese africano manda all’estero soprattutto manodopera specializzata che riesce a trovare sbocchi lavorativi, non sono da meno comunque altre realtà africane. A partire dalla Nigeria, in cui nel 2018 transitano 22 miliardi di dollari di rimesse dai nigeriani residenti fuori. Il Marocco sfiora i sette miliardi di dollari, il Senegal 2.4 miliardi. Ed il trend appare in crescita in gran parte dei principali paesi africani. Oltre il valore del miliardo di Dollari in fatto di rimesse, si trovano paesi quali ad esempio il Kenya, il Ghana, l’Uganda ed il Mali. Nazioni che vedono ogni anno centinaia di giovani partire e, di conseguenza, miliardi di Dollari poi tornare indietro con le rimesse inviate dall’estero. Dall’Europa all’Africa dunque, i soldi compiono il percorso inverso a quello dei migranti. Ed il giro d’affare è in continua crescita.
Pro e contro del fenomeno. In realtà in tanti parlano delle rimesse come di un aspetto positivo. Anzi, non sono pochi i governi africani che vedono nei soldi spediti dall’estero da parte di propri concittadini quasi un investimento. Di certo, il giro d’affari supera per quantità la somma di denaro che ogni anno dall’Europa raggiunge l’Africa per donazioni o solidarietà. Per molte comunità del continente nero, piuttosto che mantenere un giovane disoccupato è più conveniente invece mandarlo in Europa ed usarlo come fonte in grado di portare poi verso casa i soldi. Non a caso a volte ci si rivolge a vere e proprie collette per pagare i viaggi verso l’Europa di potenziali migranti. Le somme da loro rimesse verso il paese d’origine, sono soldi rimessi in circolo e risorse dunque di rilancio economico.
Ma le incognite non mancano. A partire dal rischio che queste somme possano attrarre la mano della criminalità, organizzata e non. Mafia nigeriana, malavitosi tunisini o egiziani, la mole di miliardi che rientra nei Paesi d’origine potrebbe almeno in parte essere intercettata da gruppi criminali e creare anche economia sommersa. Ma vi è anche un altro aspetto da non sottovalutare: se è vero che un giovane in grado di rimettere soldi verso casa è una fonte di reddito e dunque di economia in più, è altrettanto vera la circostanza che in questo modo l’Africa perde una risorsa per il proprio futuro. Il “salto di generazione”, con comunità abitate solo da anziani e giovanissimi e con molti in età lavorativa fuori casa, è un problema che attanaglia non pochi paesi africani. Il continente perde manodopera, perde possibili lavoratori od operai, si svuota di intelligenze e di forze in grado di rilanciare l’economia. Ed è qui che probabilmente si nasconde il vero dato inquietante, oltre che l’elemento maggiormente negativo della vicenda.
Migranti: accoglienza a delinquere - Panorama in edicola dal 23 gennaio 2019. E' dedicata al tema caldo dell'immigrazione la storia di copertina di Panorama, nel numero in edicola dal 23 gennaio 2019. La lite con la Francia. La vicenda dei migranti soccorsi ma rimandati in Libia. La vicenda (era del 2015) strumentalizzata per fini politici del bambino morto con la pagella cucita nella tasca. L'immigrazione resta uno dei temi caldi della politica di questi giorni. Per questo Panorama ha dedicato proprio al tema dell'accoglienza la sua storia di copertina del numero in edicola dal 23 gennaio. Si chiama "Accoglienza a delinquere" è il titolo scelto da Mario Giordano che da anni studia le varie sfaccettature del mondo (anche economico) che ruota attorno all'immigrazione e all'accoglienza dei migranti in Italia. Truffe e malversazioni, business milionari ed arresti. Dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia viaggio nell'Italia dove l'ospitalità a migranti e profughi è diventata un'industria criminale fiorente. Anche con l'aiuto di preti soccorsi e la copertura di funzionari dello Stato.
Migranti, accoglienza a delinquere. Il reportage esclusivo di Mario Giordano che spiega, dati alla mano, come "gli immigrati rendono più della droga", scrive Mario Giordano il 29 gennaio 2019 su Panorama. Accoglienza a delinquere. In questi anni abbiamo raccontato spesso di truffe, inganni, guadagni illeciti, personaggi improbabili che si sono riempiti le tasche alle spalle dei migranti e ancor più alle spalle degli italiani, costretti a pagare e a sopportare l’invasione per l’arricchimento altrui. Ma abbiamo sempre pensato fossero episodi occasionali, compagni che sbagliano o che sbagliavano, servizi caritatevoli deviati. Invece, man mano che le inchieste vanno avanti e svelano nuovi particolari, si scopre che quello nascosto dietro le parole della solidarietà era un vero e proprio sistema di malaffare, organizzato e compiuto, che coinvolgeva pezzi di Stato, pezzi della Chiesa, finte e vere cooperative, immobiliaristi, ras locali, sottopanza della politica, etc. Quasi una Mafia nazionale, insomma, che ha replicato su tutto la Penisola i meccanismi oliati a Roma con Mafia capitale. In base all’indimenticato principio per cui, come è noto, «gli immigrati rendono più della droga». Sì, gli immigrati hanno reso davvero più della droga. Non era solo una boutade. E non era solo in riva al Tevere. Vale la pena ricordarlo oggi che si indica il tentativo di cambiare il modello dell’accoglienza come un attentato alla Costituzione, oltre che una prova di evidente di razzismo e malvagità. Vale la pena ricordarlo ora che si paventano rischi tremendi nello smantellare quel modello che pure è stato sempre inefficiente e molte volte financo malavitoso. Nelle Procure d’Italia, infatti, si stanno certificando, un passo dopo l’altro, i veri danni del sistema d’accoglienza in vigore fino a ieri: un sistema che, ancor prima che fuori dalla Costituzione, è stato troppo spesso fuori dalla legge.
L’ultimo caso arriva da Gorizia. Ci sono 42 persone indagate per il centro di accoglienza di Gradisca d’Isonzo. Fra di loro anche due prefetti, due viceprefetti, alcuni funzionari dello Stato, oltre ai vertici di una cooperativa di sedicente solidarietà. Ma soprattutto dietro c’è una storia assurda di soldi e appalti che per la Procura definisce, per l’appunto, «associazione a delinquere». Tutto comincia con una cooperativa di Trapani, la Connecting people, che nel 2011 vince una gara in Friuli Venezia-Giulia. Una gara che, a giudicare dagli atti, sembra la più pazza del mondo: buste che si chiudono e si riaprono, coop che compaiono e scompaiono, dichiarazioni palesemente fasulle. Pensate che la coop di Trapani, alla fine, viene giudicata vincitrice anche se di fatto non risulta aver mai partecipato al bando. Dicono i funzionari che la sua domanda è stata «smarrita» o «altre ipotesi di diversa natura». Proprio così: vince la domanda smarrita. O ipotesi di altra natura. La Connecting people, per altro, a quel tempo, è già piuttosto discussa. Si presenta come cooperativa no profit («ente privo della necessità di fare utili») ma in realtà viene gestita «come una società commerciale» al punto da distribuire «un premio incentivante del 10 per cento come ripartizione dell’utile». E nel suo curriculum ha alcune gestioni di centri non propriamente brillanti, come il Cie di Bari, definito da Medici per i diritti umani una «struttura al di sotto degli standard minimi di dignità». E qui sorgono i primi dubbi: com’è possibile che vinca proprio lei? Una coop di Trapani? A Gradisca d’Isonzo? Pur avendo un passato così contestato? Al di sotto degli standard minimi di dignità? Pur non avendo portato tutti i documenti in tempo? E come fa a emergere in mezzo a un percorso così accidentato? O, forse, emerge proprio per questo? I sospetti, però, non finiscono qui: la Procura, che nei giorni scorsi ha inviato ai 42 indagati l’avviso di chiusura delle indagini, ritiene infatti che la cooperativa abbia fatto una cresta milionaria sui servizi, sia sottraendo acqua e servizi agli immigrati, sia evitando di costruire le fognature e scaricando tutto nell’Isonzo («con seria preoccupazione in ambito igienico sanitario»), sia soprattutto fingendo che fossero presenti nel centro più ospiti di quelli che c’erano davvero. Così facendo la Connecting people «ha ricavato un profitto di rilevante entità quantificabile in 27.407.244,28 euro, cagionando nel contempo un danno di particolare gravità alla Prefettura». Cioè allo Stato. Cioè ai contribuenti. Cioè a noi. Ma il fatto più bizzarro deve ancora arrivare. Nel luglio 2015, infatti, la Prefettura di Gorizia aveva finalmente deciso di chiudere il contratto con la Connecting people di Trapani, che per altro nel frattempo era pure andata (non si sa come) in crisi finanziaria. E per chiudere il contratto che fece? Versò 4 milioni nella cassa della medesima coop, senza «tener conto delle precedenti frodi in pubbliche forniture e delle sovrafatturazioni di cui gli indagati avevano contezza». La situazione è davvero assurda perché nel 2015 l’inchiesta è già aperta, le Fiamme gialle hanno fatto perquisizioni, i dubbi sono emersi: com’è possibile che da una parte lo Stato, con la Procura, accusi la Connecting people di associazione a delinquere per la gestione del campo di Gradisca e dall’altra il medesimo Stato, con la Prefettura, le riconosce 4 milioni di euro di «bonus» per la gestione di quel campo? Dov’è l’errore? «Lo Stato ha scaricato tutto su di noi», si è lamentato nei giorni scorsi uno dei due prefetti indagati, Vittorio Zappalorto, in un’intervista al Corriere Veneto. E molti, da Massimo Cacciari al sindaco di Venezia Luigi Brugnaro sono scesi in campo per difenderlo. Per carità: bisogna essere garantisti fino alla fine. Ma è lo stesso prefetto Zappalorto ad ammettere papale papale: «Il sistema di accoglienza, così come concepito nel 2014, era fallimentare in sé». Esatto: sistema fallimentare in sé. Praticamente Profugopoli conclamata. Per altro non va dimenticato che l’altro prefetto indagato nella medesima inchiesta, Maria Augusta Marrosu, era già salita agli onori delle cronache quando guidava la Prefettura di Treviso: il ministro dell’Interno fu costretto a rimuoverla dopo che aveva cercato di piazzare 101 immigrati in un condominio di Quinto di Treviso, di proprietà di una famiglia siciliana, i Marinese di Termini Imerese. L’operazione, effettuata attraverso una società di Venezia e una cooperativa di Grosseto, scatenò la rivolta popolare che si concluse, appunto, con il siluramento del Prefetto. Ora, il punto è proprio questo: perché 101 immigrati vengono piazzati in palazzi semi invenduti a Quinto di Treviso di proprietà di una famiglia siciliana, nonostante i locali siano palesemente inadatti allo scopo? Forse per le stesse ragioni per cui una cooperativa trapanese, guidata da un quarantenne di Castelvetrano che accoglie nel suo paese l’allora ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge e organizza quadrangolari di calcetto con i notabili della zona, vince appalti sospetti a Gradisca d’Isonzo? È solo l’emergenza che porta a fare errori? O l’emergenza è stato il passpartout attraverso il quale si è affermata l’accoglienza a delinquere? Nel 2014 gli immigrati gestiti con i Cas, che sono per l’appunto i centri dell’emergenza, erano il 50 per cento del totale. Sembrava già tanto. Nel 2017 si è arrivati al 90 per cento. Davvero non si poteva far altro? O, come sempre accade in Italia, l’emergenza è il trucco per aggirare le regole e creare quello che la Procura di Gorizia definisce un «disegno criminoso»? Di sicuro troppe persone non hanno visto. O hanno fatto finta di non vedere. Quello che succedeva al centro Misericordie di Isola Capo Rizzuto, per esempio, era sotto gli occhi di tutti. I responsabili (don Edoardo Scordio e il suo braccio destro Leonardo Sacco) sono stati arrestati nel maggio 2017 con l’accusa di aver usato l’accoglienza per far arricchire le cosche della ndrangheta, in particolare quelle del clan Arena. Agli ospiti del centro, per risparmiare, avrebbero fatto mangiare addirittura «cibo per maiali». In questo modo avevano messo su un piccolo impero: gestivano bar, polisportive, persino un acquario, erano entrati nel capitale di una società editoriale e della società Aeroporto Sant’Anna Spa. Un fatturato di 10 milioni l’anno, sotto la tonaca. Sulla pelle dei profughi. Possibile che nessuno si fosse mai accorto di nulla? Eppure c’erano state le inchieste giornalistiche. Gli articoli. I libri. I servizi in televisione. C’erano gli attentati. Auto che bruciavano. Ritorsioni, incendi, minacce alle ditte fornitrici. Denunce su denunce. C’erano le audizioni alla Commissione antimafia, i sospetti su quel prete che celebrava i funerali del boss. E allora perché, prima che si muovesse la magistratura, nessuno è intervenuto? Come hanno potuto costoro continuare a vincere appalti su appalti? Quando l’allora capo del dipartimento immigrazione del Viminale, il prefetto Mario Morcone, fu sentito in Commissione antimafia sulla vicenda, se la cavò con una battuta sui magistrati: «Capo Rizzuto? Sono anni che mandano la polizia giudiziaria a fare fotocopie». Minimizzava, ironizzava. E intanto le Misericordie continuavano a incassare milioni di euro. Com’è possibile che nessuno abbia visto? Per capirlo basta tornare a uno dei casi più noti del Business profughi, quello di Edeco, ex Ecofficina, la coop legata all’ex re dei rifiuti Simone Borile e alla moglie Sara Felpati. Anche qui si ipotizza l’associazione a delinquere. Ci sono malversazioni, maltrattamenti, truffe. C’è stata la gestione folle di un campo, quello di Conetta, in provincia di Venezia, che finalmente è stato chiuso nei giorni scorsi, ma che era arrivato ad avere 1.600 ospiti, un’esagerazione in assoluto e tanto più in un paesino di 196 abitanti. Ci sono state rivolte, tensioni, proteste. Ci sono state pure due persone morte. Ma soprattutto ci sono alcuni funzionari dello Stato, fra cui l’ex prefetto vicario di Padova, Pasquale Aversa, accusati di essere collusi con questo sistema: avrebbero tagliato i bandi su misura per Ecofficina e poi avrebbero avvisato quando arrivavano le ispezioni. Era una cosa talmente abituale che nel luglio 2016, quando la Usl si permette di fare una visita al centro di accoglienza a sorpresa, Sara Felpati s’indigna: «Com’è che nessuno mi ha avvisato?». Già: perché nessuno l’ha avvisata? Ecco la pagina di Profugopoli che va riscritta: non erano episodi occasionali, piccoli profittatori di una situazione emergenziale. No, il sospetto che emerge dalle carte delle Procure, è che si fosse creato un vero e proprio sistema, in cui vincevano sempre gli stessi, anche se erano indagati, anche se erano condannati. Per esempio quando, dopo infinite polemiche, la discussa Edeco nell’aprile 2017, lascia la gestione dell’altro grande centro che aveva insieme a Conetta, quello di Bagnoli di sopra (Padova), chi subentra? La cooperativa Badia grande di Trapani (e ridagli con Trapani), già nota per aver gestito in Sicilia il centro di Salinagrande, definito «un lager» dalla delegazione Ue e chiuso con somma vergogna nel 2015. Una coop non certo immacolata: il fondatore, don Sergio Librizzi, all’epoca era già stato condannato a nove anni di carcere per aver gestito una piccola holding del malaffare con la complicità di politici, logge massoniche e presbiteri importanti. Oltre far soldi con i migranti, per altro, usava questi ultimi anche per soddisfare i suoi desideri sessuali. Possibile che per gestire un centro a Padova si dovesse andare a scegliere una coop di Trapani? E dovendo andare a Trapani non si poteva trovare un’associazione senza ombre nel passato? È impressionante come ritornino sempre gli stessi nomi. E gli stessi sistemi. Sempre le cifre gonfiate sulle presenze. Sempre i subappalti sospetti per le mense. Sempre i servizi carenti per fare più soldi. E poi, come se tutto questo non bastasse, ecco gli affari immobiliari, un’altra costante della Business profughi Spa. Un altro caposaldo dell’accoglienza a delinquere. Gli affari immobiliari li abbiamo già trovati e citati a Quinto di Treviso. Sono saltati fuori anche in molte altre parti d’Italia. A Busto Arsizio, per esempio, dove c’è un’inchiesta aperta sull’immobiliarista Roberto Garavello, che dopo aver fatto i soldi con i profughi se la sta spassando in Thailandia, in una delle 10 isole più belle del mondo. A Empoli, in provincia di Firenze, dove Stefano Mugnaini (ora a processo per maltrattamenti ai profughi) subaffittava a se stesso facendo la cresta sui soldi che arrivavano dalla Prefettura. A Eraclea, sempre nella zona di Venezia, dove l’allora responsabile della coop Solaris, Stefano Fuso, metteva i profughi in un residence e poi, quando quello scendeva di valore, si offriva di ricomprarlo con una società con sede nell’Hertfordshire (e facente capo ovviamente a lui). E chissà quante altre volte sarà successo, chissà quanti ne scopriremo ancora…Saranno tutti innocenti, per carità. Si dimostreranno tutti estranei ai fatti. Ma intanto non possiamo fare a meno di guardare con malinconia il moltiplicarsi di inchieste in tutta Italia che sembrano confermare quello che fino a ieri era soltanto un sospetto. Ci chiedevamo: perché a Ferrara vince sempre la cooperativa Camelot? Perché i profughi sono tutti suoi, fino ad arrivare a 14 milioni di fatturato nel 2017, nonostante le denunce dell’Autorità anti corruzione sulla gestione «opaca» dei contratti? Ora su Camelot c’è un’inchiesta in corso, controlli della Guardia di finanza, circa 20 milioni di euro in ballo. Ci chiedevamo: perché a Benevento 770 immigrati finiscono, nonostante le strutture inadeguate, al consorzio Maleventum che fa capo a un ex consigliere comunale Udeur, noto per mostrarsi sui social con la sua Ferrari e mentre si abboffa di gnocchi alla zucca? A maggio quest’ultimo, che si chiama Paolo di Donato, andrà sotto processo. E avanti così: poco a poco, pezzo a pezzo, sta emergendo una trama di malaffare che non era difficile vedere ma che nessuno, forse, ha voluto fermare. Fra il 2015 e il 2017 soltanto la Guardia di finanza ha denunciato 165 persone per reati connessi alla gestione dei profughi, in pratica più di uno alla settimana. Viene da chiedersi dove fossero, in quello stesso periodo, gli altri controllori. Dove erano i prefetti, i viceprefetti, i funzionari del ministero. Dov’erano i deputati della Commissione d’inchiesta parlamentare sull’accoglienza, che in teoria avrebbe avuto poteri per intervenire ovunque e invece non ha combinato nulla, concludendo i lavori con una sterile relazione e niente più. Viene da chiedersi perché nessuno è intervenuto. Perché nessuno ha bloccato le scempio. Perché quelli che adesso gridano scandalizzati davanti all’inevitabile tentativo di cambiare, hanno sempre girato la testa da un’altra parte. E viene il drammatico sospetto che forse tutto questo è successo per un unico motivo: perché c’erano troppe persone che da quel disastro ci guadagnavano davvero. Come in Mafia capitale. Proprio uguale. Ma in tutt’Italia, ahinoi.
Immigrati, il governo taglia l'8 per mille a Onlus e Coop: assistenza ai migranti in ginocchio, scrive il 24 Gennaio 2019 Libero Quotidiano". Lo avevano detto, lo hanno fatto. I fondi dedicati all'assistenza degli immigrati tagliati in modo sostanziale. Non solo quelli messi a disposizione direttamente dallo Stato, ma anche quelli derivanti dall'8 per mille. La presidenza del Consiglio, attraverso un decreto spedito dal sottosegretario Giancarlo Giorgetti alla presidenza del Senato, ha infatti disposto una diversa ripartizione dei fondi.
Citando "particolari caratteri di eccezionalità, necessità e urgenza", il consiglio dei ministri ha disposto la riduzione del 50% delle quote destinate a "fame nel mondo" e "assistenza ai rifugiati" per un ammontare di 3 milioni di euro ciascuna, e ha conseguentemente disposto l'incremento di tale somma per la categoria "calamità naturali", che potrà disporre così di poco più di 12 milioni di euro. La decisione dell'esecutivo andrà inevitabilmente a colpire le onlus e le coop che accedono ai bandi per l'assistenza agli immigrati.
I sindaci perdono 150 milioni Ecco il motivo della rivolta. Altro che solidarietà ai migranti, i Comuni ribelli e le coop amiche non riceveranno più i fondi per gli Sprar, scrive Antonella Aldrighetti, Domenica 06/01/2019, su "Il Giornale". Pur di difendere senza alcuna esitazione l'accoglienza dei migranti senza titolo sono scesi in piazza con tanto di ragazzini al seguito per gridare slogan desueti contro il ministro dell'Interno, hanno volantinato bollettini stampa intrisi di vendetta e inneggiato alla disobbedienza civile, reclamizzato sui social la minaccia di ricorrere alla Consulta contro il Dl Salvini e, non ultimo, spronato il terzo settore a inondare le città con un grande appuntamento di rilevanza nazionale. Sono loro, i sindaci tanto buonisti quanto disperati dimentichi di quella fascia tricolore di cui si fregiano nelle occasioni pubbliche e, altrettanto, di rispettare una legge dello Stato. Leoluca Orlando, Luigi de Magistris, Dario Nardella, Antonio Decaro e l'ordine non è certo d'importanza si sono autonominati nemici del decreto Sicurezza, almeno per quanto riguarda il capitolo sui permessi di soggiorno ai richiedenti asilo, e vorrebbero calpestarlo a suon di insulti. Già ma dietro l'enorme mole di chiacchiere che costoro, assieme al codazzo di altri primi cittadini meno in vista, sta inondando i media ci sarebbero delle mere motivazioni utilitaristiche e profondamente interessate. Ci sono in ballo infatti un bel mucchio di soldi che verranno stornati dai finanziamenti per l'accoglienza diffusa nei comuni e nelle aree metropolitane: poco più di 150 milioni di euro e solo nel primo anno. Già, perché tra permessi umanitari ormai scaduti e richiedenti asilo ospitati negli Sprar che dovranno essere trasferiti nei centri di accoglienza straordinari o, in caso di diniego, nei centri per il rimpatrio il numero di stranieri cui far fronte, a dir poco, si dimezzerà. I comuni quindi non otterranno più tutti quei fondi, previsti negli anni passati dai predecessori del ministro leghista, Angelino Alfano e Marco Minniti. Così non li potranno più ridistribuire a cooperative, enti benefici e onlus per i percorsi di integrazione e formazione. E i comuni dovranno fare a meno anche dei 700 euro a migrante senza titolo, se ospitato nella rete Sprar. Nella stessa misura Cittalia, la fondazione dell'Anci (l'Associazione nazionale dei comuni) non andrà più a gestire la rendicontazione di migranti negli anni a venire intascando oltre 15 milioni di euro a triennio. Insomma più che ottime ragioni per protestare, anche se la solidarietà coi migranti c'entra poco. A voler fare i conti in tasca ai comuni dissidenti si arriva facilmente all'ammontare elargito negli ultimi sette anni a ciascuno di loro. A Palermo, per il 2019, non entreranno più nelle casse ben 14,5 milioni di euro da impegnare nello Sprar: una beffa per Orlando che proprio un anno fa annunciava assieme al suo assessore alla Cittadinanza solidale di voler trasformare tutti i Cas in accoglienza diffusa avendo già incassato il via libera di Minniti e dell'Anci. Il profitto? Ben 100 milioni di euro all'anno nelle casse del capoluogo siciliano. Napoli invece dovrà rinunciare a 5,4 milioni, Bari a 4,2 e Firenze a 3,9. E facendo un'ulteriore disamina delle grandi città accoglienti viene fuori il resto degli impegni di spesa che resteranno nelle casse dello Stato. Torino (6,3 milioni), Milano (14,4), Brescia (4,2), Bologna (14,8), Livorno (3,9), Roma (17,2), Salerno (3,7) e Reggio Calabria (5,6). Insomma non ci provino questi sindaci a nascondersi dietro il dito della pietas. A questa decurtazione solo parziale di fondi, pari a 99,3 milioni circa, si devono aggiungere le risorse dell'ultimo decreto firmato ai primi di febbraio 2018, ossia a un mese dalle elezioni politiche, da Marco Minniti. Ulteriori 50 milioni di euro che andavano ad allargare la platea delle piccole comunità, delle reti costituite da comuni minori consorziati tra loro e aperti all'ospitalità dei richiedenti asilo. Un sonoro stop anche per questi ultimi 170 territori che, assieme a tutti gli altri, andranno a perdere un altro milione e 400 mila euro frutto di quella quota a migrante (700 euro per ciascun ospite) elargita senza vincolo alcuno dal Viminale fino a tutto il 2018. Ed ecco che si arriva a un netto erariale di ben 150,7 milioni. Certo, un buon motivo per scendere in piazza e provare ad appellarsi alla Corte costituzionale. Altro che carità di patria.
Addio al business dell'accoglienza. E le cooperative sono costrette a chiudere. Dopo Trento, anche dalla provincia di Rovigo arrivano le prime voci di dissenso contro gli effetti del Decreto sicurezza: trovandosi senza fondi, molte coop saranno costrette a chiudere o ad effettuare importanti tagli del personale. Rappresentanti Cgil: “Alimentata voragine della disoccupazione”, scrive Federico Garau, Giovedì 03/01/2019, su "Il Giornale". Mentre imperversa lo scontro fra il ministro Salvini ed i sindaci ribelli, anche i centri d’accoglienza, che vedono ridurre drasticamente il numero di stranieri all’interno delle loro strutture, si uniscono alle voci di dissenso contro le nuove norme vigenti. Un caso emblematico è quello di Rovigo, dove nei prossimi mesi gli effetti del Decreto sicurezza porteranno ad un ingente numero di licenziamenti. Gran parte del personale impiegato nelle cooperative non sarà più necessario, considerata l’evidente diminuzione di richiedenti asilo. Dopo Trento, dunque, anche dalla zona del Polesine cominciano ad arrivare le dure condanne dei sindacati, che accusano il governo giallo-verde di stare creando nuovi disoccupati. Col restringimento dell’accoglienza, le casse dei centri saranno sempre più vuote, di conseguenza si renderanno necessari dei tagli che colpiranno tantissimi dipendenti. Qualche struttura più grande resterà mentre altre, invece, saranno destinate a chiudere. Del resto, nel territorio in esame, sono presenti all’incirca 400 richiedenti asilo. Le organizzazioni sindacali rivolgono quindi tutte le loro preoccupazioni nei confronti di quei lavoratori che fino ad oggi hanno prestato servizio nei 7 centri d’accoglienza della provincia. Invocano una soluzione e decidono di rivolgersi direttamente al prefetto. “Assieme alla Cisl abbiamo chiesto un incontro urgente al prefetto Maddalena De Luca vista la situazione d’emergenza che si verrà a creare nei prossimi mesi sul fronte occupazionale. La nuova riorganizzazione decisa dal Governo avrà infatti conseguenze disastrose, non solo nella gestione dell’immigrazione, ma determinerà la morte di decine di posti di lavoro”. Questa la dichiarazione dei rappresentanti Cgil Piero Colombo e Davide Benazzo, riportata da “Il Resto del Carlino”. “Circa una sessantina di persone, per lo più giovani, perderanno, dopo anni di lavoro nel settore dell’accoglienza, la loro occupazione, alimentando la voragine della disoccupazione giovanile in provincia di Rovigo”. Ed i tagli del Governo, in effetti, sono stati tanti. Molti servizi, un tempo garantiti agli ospiti dei centri, sono stati aboliti o ridotti. Si parla, ad esempio, del sostegno psicologico ai soggetti vulnerabili, l’educazione e l’insegnamento della lingua, le pulizie e la manutenzione delle strutture (in alcune abitazioni agli stranieri verrà distribuito il materiale necessario per provvedere da soli all’igiene), biglietti gratuiti per i mezzi pubblici, servizio mensa (alcuni centri potranno fornire solo la spesa), formazione professionale ed altro ancora. A tremare maggiormente, nella zona di Rovigo, la cooperativa “Porto Alegre”, dove hanno trovato impiego sessanta persone. “Figure professionali con una notevole esperienza” commenta Carlo Zagato, presidente della sopra menzionata coop. “Giovani laureati che con impegno e dedizione si sono impegnati in questo non facile compito attraverso la gestione di situazioni anche molto delicate. Molte di queste figure vengono tagliate, creando un danno importante non solo all’occupazione, ma ai tanti migranti che cercano salvezza nel nostro paese”. Ecco quindi che il pensiero torna ai migranti. “È stato tolto l’insegnamento dell’italiano durante il periodo di prima accoglienza. Un migrante, secondo le nuove disposizioni, rischia di restare chiuso in un grosso centro di accoglienza in Italia incapace di comunicare”.
Save the children, così si finanzia la ong: nel 2016 ricavi in salita del 26% grazie alle donazioni (anche del governo). L'organizzazione, la cui nave è stata perquisita nell'ambito di un'inchiesta per presunto favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, è la più importante tra le firmatarie del codice di condotta voluto dal governo. L'anno scorso ha ricevuto oltre 100 milioni contro gli 80,4 del 2015. La Ue ne ha dati 7,4. Per ogni euro raccolto, spende 20 centesimi in attività amministrative, scrive Lorenzo Bagnoli il 23 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". La nave con cui salva i migranti in mare è stata perquisita, lunedì mattina, su richiesta dei pm che indagano su alcune ong sospettate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Save the children è anche tra le organizzazioni non governative che la scorsa estate hanno firmato il codice delle ong voluto dal governo. Il direttore generale Valerio Neri – secondo fonti anonime del mondo ong buon amico del premier Paolo Gentiloni – ha affermato che la ong aveva accettato perché il codice prevede la protezione armata scatti solo in casi già previsti dalla policy di sicurezza adottata dall’organizzazione. Save the children è la maggiore tra le organizzazioni firmatarie del codice di condotta: la Vos Hestia, appena perquisita, è in mare dal 2016 e ha salvato al 31 dicembre dello scorso anno 2.700 persone, di cui 400 bambini. Dalla Vos Hestia sono anche arrivate le segnalazioni sulle irregolarità commesse dalla nave Iuventa. E nell’ultimo anno, insieme alla collaborazione con il governo, è cresciuta l’entità dei fondi ricevuti dai ministeri italiani.
Quanto arriva dal governo – Rispetto al 2015, il 2016 per Save the children è stato un anno molto positivo. Le donazioni complessive sono passate da 80,4 milioni (che già rappresentava quasi un quinto in più del 2014) a 101 milioni: il 26% in più dell’anno precedente. Un contributo importante arriva proprio dal governo italiano. Se nel 2015 le elargizioni sono state di poco superiori a 1,3 milioni (dal Ministero degli Esteri882.355 euro e da quello dell’Interno 535.121), nel 2016 le donazioni sono aumentate parecchio. Solo il Maeci ha messo 1,2 milioni di euro per progetti in Egitto, Palestina, Bosnia ed Albania. Diminuisce il contributo del Viminale (nel 2016 di 145.478 euro), il quale però è ancora in debito con Save the children per circa 420mila euro (per i progetti “Miglioramento della capacità del territorio italiano di accogliere minori stranieri non accompagnati” e “Praesidium IX”). Si aggiungono poi alla lista dei donatori anche il Ministero dei beni culturali e quello dell’Istruzione, per 39mila euro in totale. L’aumento esponenziale dei finanziamenti dalla Commissione europea – Medici senza frontiere, la più influente tra le ong che non hanno firmato il codice di condotta, non riceve donazioni dall’Unione europea e dai 28 Stati membri dal giugno 2016. Al contrario di Save the children, che invece è molto sostenuta da Bruxelles. La ong dei bambini ha ottenuto nel 2015 2,9 milioni di euro, diventati 7,4 nel 2016. Il programma più importante finanziato dalla Commissione riguarda il Malawi e vale 3,7 milioni di euro: il Paese africano è stato duramente colpito da El Niño, fenomeno climatico che dal 2015 ha provocato prima inondazioni poi siccità in tutta l’Africa sud-orientale, con il conseguente rischio di accesso al cibo per milioni di persone. In Italia, invece, la Commissione europea finanzia soprattutto progetti di assistenza legale, di coordinamento tra diverse ong e di prevenzione dai rischi di abusi soprattutto online.
Donatori sempre più costanti – Nel 2016 i donatori attivi sono stati 402.634, di cui il 70% regolari, ossia donatori che hanno aderito a programmi di donazione. Il dato è inferiore rispetto agli oltre 480mila dell’anno precedente, eppure il contributo è stato più alto: 72,5 milioni contro 63,5. Diminuiscono anche i donatori una tantum, dal 7 al 5% del totale. I donatori infatti sono diventati sempre più stabili. La raccolta attraverso il cinque per mille vale poi altri 4 milioni di euro. È cresciuta anche la reputazione e la notorietà di Save the children: secondo la ong il 70% degli italiani la conosceva nel 2015, nel 2016 tre su quattro. Insieme alle donazioni degli individui, in particolare slegate da singole attività, crescono anche i fondi provenienti da aziende e fondazioni, passati da 10,5 milioni a 16,7. Questo ha permesso a Save the children di diventare un’organizzazione più grande e aumentare di conseguenza anche il numero di progetti: nel 2016 la struttura conta 276 membri dello staff e 1.800 volontari, contro i 230 membri staff e i 1.500 volontari dell’anno precedente. I progetti sono passati da 214 (d cui 48 in Italia) a 239 (di cui 64 in Italia). Anche i beneficiari dei progetti sono in aumento: da 3,9 milioni nel 2015 ai 4,2 nel 2016.
Dove spende Save the children – Per ogni euro raccolto, Save the children spende 17 centesimi in comunicazione e altri 3 centesimi circa per la gestione della macchina amministrativa. Il resto viene diviso principalmente tra il programma Italia-Europa, che prende circa 13 milioni di euro, e i Programmi internazionali, che ne prendono 65. In particolare, per il programma Italia-Europa due dei settori dove Save the children ha speso di più sono Protezione abuso e sfruttamento (2,3 milioni) e Povertà alimentare (2,9 milioni). La campagna per il terremoto di Amatrice ha speso invece 212.455 euro.
Il dialogo con il governo – L’organizzazione vanta due risultati ottenuti dalle istituzioni italiane nel 2016. Sono riassunte nella voce Policy change del Bilancio 2016. Nel marzo 2017 la Camera ha approvato infatti un disegno di legge per la realizzazione di un sistema d’accoglienza per i minori stranieri non accompagnati. La proposta era nata un anno prima proprio da Save the children. In più, nel Documento strategico e programmatico per il prossimo triennio il Ministero degli Esteri ha inserito tra i temi prioritari anche educazione inclusiva, migrazione e nutrizione. Il peso della ong è legato anche agli illustri consiglieri che svolgono il loro compito a titolo gratuito. Tra i più celebri ci sono l’ex ministro Enrico Giovannini, Linus di Radio Deejay, il segretario generale della Regione Lazio Andrea Tardiola e il vice presidente del Gruppo Bulgari Silvio Ursini. Fino alla newsletter di giugno e al bilancio 2016 pubblicato nello stesso mese, tra i consiglieri comparivano anche i nomi di Marco De Benedetti, presidente di Gedi, il gruppo editoriale di Repubblica e La Stampa; Andrea Guerra, presidente esecutivo di Eataly e Patrizia Grieco, presidente di Enel spa. È ancora in carica il presidente, Claudio Tesauro, avvocato dello studio BonelliErede e presidente dell’Associazione antitrust italiana (Aai).
Chi è Marco De Benedetti, il marito di Paola Ferrari. Scopriamo chi è Marco De Benedetti, il super manager e marito di Paola Ferrari da oltre vent'anni, scrive il 28 febbraio 2018 Di Lei. Imprenditore, manager d’azienda e presidente di GEDI Gruppo Editoriale: Marco De Benedetti è il marito di Paola Ferrari, celebre conduttrice Rai. I due stanno insieme da vent’anni e formano una delle coppie dello showbiz più longeve di sempre. Classe 1962, Marco De Benedetti è il secondogenito del famosissimo Carlo De Benedetti. Ha due fratelli, Rodolfo ed Edoardo, ed è nato a Torino, non a caso è un grandissimo tifoso della Juventus. Nel 1984 si è laureato in storia ed economia nella prestigiosa Wesleyan University, nel Connecticut, Stati Uniti. Tre anni dopo Marco De Benedetti ha ottenuto un Master in Business Administration presso la Wharton Business School di Philadelphia. Dopo aver lavorato a New York negli anni Novanta Marco De Benedetti è approdato nel settore marketing della Olivetti, collaborando con Elserino Piol, magnate delle telecomunicazioni in Italia. Nella sua carriera ha lavorato in alcune fra le più grandi aziende italiane, da Infostrada a Tim, diventando nel 2005 Amministratore Delegato di Telecom. Nel 2017 ha ricevuto dal padre la presidenza della Gedi, società editoriale creata grazie alla fusione fra il gruppo L’Espresso, La Stampa e Il Secolo XIX. Infine sino al giugno 2017 è stato membro del consigli direttivo della Save the Children Italia Onlus. L’amore della sua vita è Paola Ferrari, sposata nel 1997 e da cui ha avuto due figli: Alessandro, nato nel 1998, e Virginia, arrivata nel 1999. Il primo incontro è avvenuto ad una cena dove la giornalista sportiva era arrivata in compagnia di Alba Parietti. «Se sono felicemente sposata lo devo a lei – ha svelato qualche tempo fa Paola Ferrari a DiPiù – È una mia cara amica da oltre trent’anni ed è proprio grazie a lei che ho conosciuto mio marito. È successo nel 1996: una sera, Alba è venuta a casa mia e mi ha pregato di accompagnarla a una cena con alcuni suoi amici e amici di amici. Io ero stanca, non avevo nemmeno voglia di uscire, ma lei ha insistito così che tanto che alla fine ho detto di sì. Ed è stato a quella cena che ho conosciuto Marco». Paola Ferrari e Marco De Benedetti oggi vivono a Roma in una splendida villa. Il 24 febbraio 2018 la casa è stata presa di mira da una banda di ladri che si è introdotta in casa, portando via un bottino di 100 mila euro.
BUFALA E ACCHIAPPALIKE Marco De Benedetti amministratore dell’ONG “Save the children”, scrive Luca Mastinu il 12 Giugno 2018 su Bufale.net. La disinformazione può maturare come la fermentazione di un cibo mal digerito. Accade quando i mendicanti del web riprendono un vecchio meme su Marco De Benedetti che il nostro staff aveva posto in analisi il 15 maggio 2017. Si diceva, infatti, che il figlio di Carlo De Benedetti fosse amministratore delegato della ONG Save the children, ma nella scheda Chi siamo del portale ufficiale, il suo nome compariva tra i membri del consiglio direttivo che prestavano il loro operato a titolo gratuito, e per questo avevamo parlato di disinformazione e acchiappalike. Vero che Marco De Benedetti è figlio di Carlo De Benedetti, vero che fa(ceva) parte di Save the children. Non ricopriva, però, il ruolo di Amministratore Delegato, carica che nel consiglio direttivo tuttora non esiste. Oggi, la pagina di Danilo Calvani del Movimento Forconi ripropone la stessa cosa, con una grafica e un’impostazione diverse: Toh, il figlio di De Benedetti è l’amministratore dell’ONG Save the children, che ha 2 navi attive su coste Libia. Ora, dalla disinformazione si passa alla bufala, perché nel nuovo consiglio direttivo di Save the children il nome di Marco De Benedetti non compare in alcuna voce. Inutile, dunque, seguitare a condividere e diffondere una notizia falsa, se già in tempi più credibili aveva scarse fondamenta. Abbiamo dunque provveduto a segnalare questa bufalaal diretto interessato, sperando in una sua smentita ufficiale.
La curiosità: nel consiglio di Save the Children uomini dell’alta finanza e manager, scrive Antonella Sferrazza il 6 maggio 2017 su I Nuovi Vespri. C’è Massimo Capuano, ex amministratore di Borsa Italiana e c’è anche Marco De Benedetti, figlio dell’editore di Repubblica. E, ancora, manager di banche e di società come l’Enel. E poi dice che capitalisti ed esponenti della finanza non hanno un cuore…Save the Children e Medici senza frontiere sono due Ong rimaste al di sopra di ogni sospetto in questi giorni di polemiche sul ruolo delle organizzazioni non governative nelle operazioni di soccorso ai migranti nel Mediterraneo. Le ha salvate anche il Procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, che, invece, ha puntato i riflettori sullo strano proliferare di nuove Ong negli ultimi due anni, sulle fonti di finanziamento, e su presunti contatti con i trafficanti. Vale la pena ricordare che il traffico di migranti, secondo quanto statuito da Europol e Interpol, valeva nel 2015 circa 6 miliardi di euro. Molto di più oggi. E che dietro questo traffico ci sono “complesse e sofisticate” reti internazionali di criminali (qui l’articolo sul rapporto Europol dove si parla anche di rischio terrorismo). Al netto delle strumentalizzazioni politiche e delle visioni radical chic (buoniste e parziali), il polverone sollevato sul caso ha avuto il merito di fare cadere un tabù: chi l’ha detto che le organizzazioni umanitarie sono intoccabili? Chi l’ha detto che sono sempre anime pure a finanziarle? Lo stesso tabù, per anni, c’è stato sull’antimafia e sull’antiracket: chi osava denunciare mele marce, diventava esso stesso una mela marcia. I fatti hanno dimostrato che anche queste organizzazioni hanno fornito materiale per indagini giudiziarie. Tra l’altro, come ci ha ricordato Gian Joseph Morici, collega che vive a Parigi e che ha sempre seguito fatti di terrorismo, non sarebbe certo la prima volta che organizzazioni umanitarie di vario genere finiscono nel mirino delle indagini. “Anche Ilaria Alpi indagava sulla cooperazione umanitaria, per non parlare delle inchieste di Antonio Evangelista, che è stato comandante della Polizia Italiana in Kosovo con l’Onu” (qui potete leggere l’articolo sulle ONG islamiche pubblicato dal giornale online di Morici e le sue dichiarazioni sulle polemiche attuali). Insomma, bisogna distinguere tra missione umanitaria e altro tipo di missione. Le missioni umanitarie vanno sostenute, ma se all’interno di queste si fiuta uno strano odore, le indagini sono doverose. E la denuncia pure. Detto questo, e ribadendo che Save the Children e Medici senza frontiere non sono state toccate dai sospetti e che sono famose, fino a prova contraria, per le loro encomiabili missioni umanitarie, scopriamo un fatto curioso che potrebbe anche non significare nulla. Ma è un fatto e va raccontato. Il fatto curioso è il seguente: il consiglio direttivo di Save The Children è formato da nomi molto noti negli ambienti dell’alta finanza italiana. E da nomi molto noti nel campo dell’imprenditoria. Chi c’è? Il nome più noto è certamente quello di Massimo Capuano, Presidente IW Bank Spa- Gruppo Ubi. “Precedentemente- si legge sul suo curriculum- è stato Amministratore Delegato di Borsa Italiana S.p.A dal gennaio 1998, anno della privatizzazione della Società, al 1 aprile 2010″. L’elite della finanza italiana, insomma. Ed’ in buona compagnia. C’è anche Marco De Benedetti, Managing Director e Co-Presidente Europa, The Carlyle Group società internazionale di asset management e tra i maggiori fondi di Private Equity a livello globale. Sarebbe il figlio di Carlo De Benedetti editore di Repubblica.
E ancora: Luigi de Vecchi, Chairman of Continental Europe for Corporate and Investment Banking, Citigroup.
Maria Bianca Farina, Presidente ANIA, Amministratore Delegato, Poste Vita e Poste Assicura.
Enrico Giovannini, professore ordinario di Statistica Economica, all’Università di Roma “Tor Vergata”.
Patrizia Grieco, Presidente Enel SpA.
Andrea Guerra, Presidente Esecutivo Eataly srl.
Auro Palomba, Fondatre e Presidente della società di consulenza di comunicazione aziendale Community.
Paola Rossi, Funzionario Commissione Europea.
Marco Sala, Chief Executive Officer IGT international, Game Technology PLC.
Andrea Tardiola, Segretario Generale Regione Lazio.
Silvio Ursini, Vice Presidente Esecutivo Bulgari Group.
Tesoriere: Vito Varvaro, Presidente Cantine Settesoli.
Presidente: Claudio Tesauro, Avvocato, partner dello studio BonelliErede, Presidente Associazione italiana Antitrust.
Attenzione: “Il presidente, il consiglio direttivo e il tesoriere svolgono i loro incarichi a titolo totalmente gratuito e non hanno nessun ruolo diretto nella gestione dell’organizzazione”. Lo fanno gratis, insomma. Le anime belle della finanza italiana…. Sul sito di Save The Children leggiamo anche che “il Consiglio Direttivo è responsabile di garantire che l’Organizzazione operi in coerenza con la sua missione e i suoi valori. È costituito da un massimo di 15 membri eletti dall’Assemblea. Il Consiglio elegge il Presidente, che ha la rappresentanza legale dell’Organizzazione, e il Tesoriere, che ha il compito di assistere e sovraintendere alla gestione economica e finanziaria”. E poi dice che finanza e capitalismo non hanno un cuore….
Lo scandalo che travolge le Ong tra bonus e investimenti pericolosi. Un'inchiesta della Bbc: buonuscite d'oro per ex manager. Spese a scopo di lucro in armi, alcolici e tabacco. Nel mirino della tv inglese le organizzazioni senza scopo di lucro, Amnesty, Save the children e Comic Relief, scrive Enrico Franceschini il 10 dicembre 2013 su La Repubblica. Paghe d'oro, cene dispendiose e soldi investiti in armi e tabacco. Sarebbero accuse serie nei confronti di qualunque azienda, lo sono ancora di più quando sono rivolte ad alcune delle più importanti Ong mondiali con quartier generale in Gran Bretagna, come Amnesty International, Save The Children e Comic Relief: sono state coinvolte a vario titolo in un’inchiesta di "Panorama", famoso settimanale televisivo di approfondimenti della Bbc. Che è andato a indagare nei conti delle associazioni di beneficenza e un po’ di panni sporchi, o perlomeno non proprio limpidissimi, li ha trovati anche lì. Per esempio, Amnesty International ha concesso una buonuscita d’oro al suo ex-segretario generale, Irene Khan, che ha ricevuto una liquidazione di 500 mila sterline (circa 600 mila euro), apparentemente più del doppio di quanto inizialmente stabilito dal suo contratto. Sempre Amnesty ha organizzato un evento per la raccolta di fondi di beneficenza l’anno scorso a New York con ospiti del calibro della rock band Coldplay e dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, finendo per spendere di più di quanto ha incassato: un "buco" da 750 mila sterline (900 mila euro). Save The Children, per parte sua, avrebbe evitato di criticare uno dei suoi maggiori donatori e sponsor, la British Gas, azienda fornitrice di servizi alla popolazione britannica, per le bollette troppo alte, a detta di molti commentatori, imposte alle famiglie del Regno Unito. E infine si è scoperto che Comic Relief, l’organizzazione che fa mettere un "naso rosso" da clown ai suoi rappresentanti e finanziatori, investe milioni di sterline in fondi di investimento che acquistano tra l’altro azioni di aziende che producono armamenti, alcolici e tabacco, non proprio il massimo per un’associazione che sostiene la pace e le iniziative benefiche per l’infanzia. Il programma dell’emittente pubblica britannica sarebbe stato rinviato più volte per il suo contenuto altamente polemico. In realtà nessuno è accusato di atti illegali. Un portavoce di Comic Relief ribatte per l’appunto che la maggior parte delle associazioni di beneficenza usano fondi di investimento per mettere a frutto i loro soldi prima di distribuirli e tali fondi comprendono aziende di ogni genere, incluse quelle di armi, alcol e tabacco, che del resto sono fra le più solide del mondo e garantiscono quindi buoni guadagni per chi ci punta sopra i propri risparmi. Ma dal punto di vista etico è come minimo una politica sorprendente, commentano il Times e l’Independent, che oggi hanno anticipato i contenuti della trasmissione. In serata, un comunicato di Save the Children Italia: "La sezione inglese di Save the Children viene citata nel pezzo della BBC unicamente in riferimento a mancate azioni di comunicazione sull'eccessivo rialzo delle bollette ad opera di British Gas, partner aziendale dell'Organizzazione in Gran Bretagna", ha commentato Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children. "Save the Children UK ha comunque dichiarato che mai metterebbe a rischio una campagna a favore dei diritti dei bambini per non contrariare un donatore aziendale. "Save the Children, sottolinea che non entrerebbe mai in partnership con aziende le cui attività primarie possano danneggiare gravemente i bambini come il tabacco, gli armamenti e la pornografia. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, a sua volta commenta: La "buonuscita d'oro di 500.000 sterline" versata nel 2010 all'ex Segretaria generale dopo la fine del suo rapporto di lavoro con Amnesty International è in realtà una somma costituita per il 39 per cento dal Tfr e comprende stipendi, adeguamenti pregressi, versamenti pensionistici e altri elementi di un contratto sottoscritto nel 2001 e durato dunque oltre otto anni.
· Migranti morti in mare, ecco chi è a pagare per i funerali.
Migranti morti in mare, ecco chi è a pagare per i funerali. Le Iene il 18 ottobre 2019. Una militante di Fratelli d’Italia ha sollevato il dubbio. Alice Martinelli è andata a incontrarla per spiegarle come stanno le cose: sono le prefetture a fornire il denaro. E anche agli italiani indigenti viene garantita dalla legge la sepoltura gratuita. “Chi ha pagato quelle bare e quei funerali? Ci sono famiglie italiane che non si possono permettere 4mila euro per accompagnare i propri cari al cimitero”. A scriverlo è una militante di Fratelli d’Italia, commentando le immagini dei migranti morti nel mar Mediterraneo. La Iena Alice Martinelli ha deciso di andare a incontrare questa donna per risponderle. Per farlo però è bene ricordare alcune cose importanti: dal 2013 ad oggi nel Mediterraneo sono morte più di 19mila persone. Molti sono affogati, altri hanno ceduto al freddo, altri ancora alla fame e alla sete. Chi si è salvato lo ha fatto nonostante barconi inadeguati, mancanza di giubbotti di salvataggio e naufragi. Molti dei migranti morti nel Mediterraneo cercavano di raggiungere Lampedusa. Quando è possibile recuperarne i corpi, ci sono volontari che si adoperano per dare loro una dignitosa sepoltura. Ma chi paga quindi per queste bare? Sono le prefetture, responsabili di fornire le risorse necessarie. La Iena è andata a dirlo alla militante di Fratelli d’Italia: “Mi dovete però spiegare perché gli italiani indigenti non hanno la stessa possibilità”, risponde. Però agli indigenti è garantito dalla legge la sepoltura gratuita. “Queste persone hanno ovviamente diritto a un funerale dignitoso. Chiedo scusa per averlo scritto male”, aggiunge la militante. Insomma, ricordiamoci sempre di restare umani.
· Irreperibili. Prima migranti, poi fantasmi. Dove finisce chi arriva in Italia?
Prima migranti, poi fantasmi. Dove finisce chi arriva in Italia? I numeri dicono che gli "irriperibili" siano l'8% ma controllare e contarli è sempre più complesso. Fabio Amendolara il 10 ottobre 2019 su Panorama. L’hotspot di Lampedusa, che scoppiava dopo gli sbarchi dalle navi delle Ong, è stato svuotato velocemente. Una parte di migranti finirà nei Paesi europei che hanno accettato di accoglierli, gli irregolari verranno accompagnati nei Centri per il rimpatrio e gli altri, quelli che aspirano a diventare rifugiati, finiranno negli Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, della Sicilia. Da qui, come accade fisiologicamente, alcuni si allontaneranno e faranno perdere le loro tracce. «Irreperibili», li definiscono gli esperti di immigrazione. Sono i fantasmi dell’accoglienza. Di solito lasciano tutto nella propria camera, documenti compresi. E si dileguano. C’è chi cerca di ricongiungersi ai familiari, chi comincia a vivere di espedienti e chi diventa preda della criminalità organizzata. I numeri parlano chiaro e la percentuale non è irrilevante: tra l’1° agosto 2018 e il 31 luglio 2019, a fronte delle 97.410 domande di asilo, l’8 per cento dei richiedenti è risultato irreperibile. E tutto lascia immaginare che anche tra chi è sbarcato dalla Ocean Viking a Lampedusa ci siano dei potenziali fantasmi. Ai quali vanno a sommarsi tutti quegli immigrati che, beffando la Guardia costiera, riescono a raggiungere le coste italiane con i barchini degli scafisti trafficanti di esseri umani. Con il precedente governo questo fenomeno era in calo: le individuazioni a terra in prossimità di uno sbarco fantasma sono stati 5.371 nel 2017, 3.668 nel 2018 e solo 737 nel 2019. Ma il dato, in poche settimane, è già in controtendenza. Solo nella scorsa settimana con tre sbarchi fantasma a Lampedusa ne sono arrivati 171. A questi si aggiungono i 600 nordafricani approdati sull’isola due settimane prima. In 40 hanno inscenato una protesta anti rimpatrio davanti a una chiesa. Tra gli altri, invece, c’è già chi ha preso strade diverse. Proprio come fecero 75 richiedenti asilo arrivati lo scorso anno con la Diciotti. Una quarantina sparirono dal centro di Rocca di Papa e gli ulteriori 35 dagli altri Sprar in cui erano finiti. Dopo le ricerche, le forze dell’ordine ne intercettarono una quindicina. Gli altri sono entrati nella famiglia statistica degli irreperibili. «È allontanamento volontario, non fuga» precisò la vulgata buonista. Don Francesco Soddu, il direttore di Caritas italiana, si affrettò a spiegare che «si fugge da uno stato di detenzione e non è questo il caso». Arrivando perfino a sostenere che «nessuno, si sa, vuole rimanere in Italia». Sarà. Ma anche quando qualcuno lo si riesce a mandare via, poi la polizia lo ritrova sul territorio. Proprio la scorsa settimana due tunisini sono stati arrestati dalla Squadra mobile di Agrigento perché, nonostante un decreto di espulsione emesso dal prefetto a fine luglio, erano riusciti a rientrare in Italia sbarcando a Lampedusa il 25 agosto. Loro non ce l’hanno fatta a diventare dei fantasmi. Operazione che, invece, è riuscita ai testimoni di un’importante inchiesta nella quale sono indagati tre scafisti arrivati a Lampedusa il 7 giugno. Si sono dileguati prima di testimoniare ufficialmente davanti al giudice e, ora, il procedimento si è impaludato. Dopo le dichiarazioni che rilasciarono alla polizia giudiziaria a carico degli indagati, si sono dileguati. E la Questura ha comunicato ufficialmente all’ufficio gip che non sarà possibile portarli in aula per l’incidente probatorio nel quale la loro testimonianza sugli organizzatori dello sbarco di clandestini si sarebbe cristallizzata diventando una prova. Il numero più consistente di migranti fantasma, però, è quello legato ai provvedimenti di respingimento: quando i porti erano ancora aperti e in Italia giungevano immigrati à gogo, tra il 28 settembre 2017 e il 29 gennaio 2018, la Questura di Agrigento ne ha emessi 1.426. Solo 311 sono finiti in un centro per l’espulsione. Agli altri mille e passa è stato consegnato il tradizionale invito «a lasciare il territorio nazionale entro sette giorni». Lo spiegò bene alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza il questore Mario Finocchiaro, che da marzo ha lasciato Agrigento per Perugia, affermando che gli immigrati venivano semplicemente accompagnati alle stazioni ferroviarie per agevolare la loro ripartenza. Ovviamente sono tutti rimasti in Italia assumendo lo status di irregolari. Fu un altro questore, Giuseppe Gammino, a Ragusa, a segnalare che i fantasmi occupavano baracche e creavano siti estemporanei di soggiorno non molto distanti dagli hotspot. Infine, ci sono i baby fantasmi. Sono i minori che arrivano in Italia senza genitori e che, dopo un breve periodo in una casa d’accoglienza, scappano e diventano irrintracciabili. Le Procure, dopo le segnalazioni formali di irreperibilità, sono costrette ad aprire fascicoli. «In teoria» spiegò il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, che da tempo combatte questo fenomeno e ha affinato un’esperienza specifica, «c’è un reato: “Abbandono di minorenne o di persona incapace”». Insomma, c’è il rischio che il tutore legale ne risponda davanti alla legge. E tenere i minori non accompagnati sotto controllo è praticamente impossibile. Le strutture devono essere adeguate agli standard imposti dalla Comunità europea: niente recinzioni, niente mura e niente telecamere. I ragazzi sono liberi di muoversi nelle strutture, ma sono altrettanto liberi di allontanarsi. La situazione è diventata così allarmante che a Genova è stato addirittura il procuratore generale Valeria Fazio a sottolineare una grave preoccupazione: «I numeri, rilevanti, di minori scomparsi certamente comprendono ragazzi che hanno volontariamente raggiunto altri Paesi, dove hanno parenti o altri contatti; ma nascondono anche storie tragiche di abusi e di sfruttamento che, allo stato, non conosciamo neppure». Allarme per questo fenomeno è stato espresso anche dal procuratore di Nizza, Jean-Michel Prêtre, in una riunione di coordinamento tra magistrati italiani e francesi di confine: l’intento è di provare a indagare utilizzando gli strumenti di collaborazione di cui l’Unione europea è dotata; «le difficoltà, però», ha spiegato Fazio, «stanno non nella normativa, ma nelle carenze conoscitive in relazione a una tragedia che pare lasciare indifferente gran parte dell’opinione pubblica». Nel 2018 di minori non accompagnati scomparsi se ne contavano 4.324 (dati del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali). In maggioranza eritrei, somali e afghani, determinati a raggiungere la Germania, la Svezia, la Francia o l’Inghilterra, dove vivono in modo stabile parenti o dove sperano di trovare migliori condizioni economiche. Se invece si prende in considerazione il numero delle ragazze, la maggioranza spetta a Nigeria ed Eritrea: il 58,9 per cento del totale. Sei su dieci. Quasi tutte restano in Italia e finiscono nelle mani di gang che sfruttano la prostituzione. E le inchieste giudiziarie spesso raccontano le loro storie.
· Immigrazione e (dis)integrazione.
Divieto di burqa nei luoghi pubblici: la Corte d'Appello di Milano conferma la scelta della Regione Lombardia. I giudici di secondo grado hanno dato ragione alla Regione Lombardia che nel 2015 aveva firmato una delibera che vieta l'ingresso alle donne con il volto coperto dal velo nei luoghi pubblici: "Necessario identificare chi accede in questi spazi". La Repubblica il 31 ottobre 2019. La corte d'Appello ritiene corretta la delibera della Regione Lombardia che vieta l'ingresso alle donne con il volto coperto dal velo in luoghi pubblici. L'Associazione degli studi Giuridici sull'Immigrazione, gli Avvocati per Niente Onlus, l'Associazione Volontaria di Assistenza sociosanitaria e per i diritti dei Cittadini stranieri, Rom e sinti e la Fondazione Guido Piccini per i Diritti dell'Uomo Onlus avevano portato in tribunale Regione Lombardia dopo l'approvazione della delibera del 2015 che vietava, per ragioni di sicurezza, l'ingresso alle donne con il burqa in luoghi pubblici. La Corte ha confermato quanto già stabilito con sentenza il 20 aprile 2017 in primo grado dal Tribunale di Milano e cioè "il divieto di ingresso a volto coperto posto nella delibera appare giustificato e ragionevole alla luce della esigenza di identificare coloro che accedono nelle strutture indicate, poiché si tratta di luoghi pubblici, con elevato numero di persone che quotidianamente vi accedono per usufruire di servizi; pertanto è del tutto ragionevole e giustificato consentire la possibilità di identificare i predetti fruitori dei servizi".
Paolo Colonnello per “La Stampa” l'1 novembre 2019. Con una sentenza di secondo grado che conferma una decisione già espressa dal tribunale e ribalta un orientamento sin qui seguito dalla giurisprudenza nazionale, la sezione famiglia della Corte d'Appello di Milano ieri ha confermato una delibera della giunta regionale lombarda del 2015 (giunta Maroni) che vietava alle donne di religione musulmana di indossare il burqua e il niqab (i veli che coprono interamente il viso) nei luoghi pubblici della Lombardia, ovvero uffici amministrativi, ospedali e Asl. Ufficialmente per questioni di sicurezza, ovviamente, non certo religiose. Canta vittoria il centrodestra che si vede riconosciuta quella che in realtà fin dall' inizio era da considerarsi una battaglia di principio; affilano le armi per l' ultima battaglia in Cassazione le associazioni umanitarie che si erano costituite contro la decisione del Pirellone ritenendola discriminatoria. In attesa che la Suprema Corte decida cosa fare, è chiaro che la sentenza di ieri fissa un precedente importante e soprattutto ribalta l' orientamento fin qui seguito ed espresso da una decisione del Consiglio di Stato che nel 2008, avverso un' ordinanza simile a quella della Lombardia del sindaco di un paesino, Azzano Decimo, aveva decretato come l' uso del velo, anche integrale, per motivi religiosi non fosse da riconsiderare tra i divieti previsti dall' articolo 5 di una legge "emergenziale" del 1975 (terrorismo/anni di piombo) meglio nota come "legge Reale", per i travisamenti in pubblico. Nella sentenza milanese invece, il principio sembra essere stato invertito. Tutto nasce dalla decisione della Giunta regionale di votare una delibera con la quale, in tutti i luoghi della regione e negli enti pubblici controllati dal Pirellone, venivano esposti cartelli che riportavano "per ragioni di sicurezza" il divieto d' ingresso "con il volto coperto", seguiti da tre immagini di teste con casco, passamontagna e burqa. Decisione presa all' indomani dei gravi attentati in varie parti d' Europa. Ebbene, secondo i giudici milanesi di primo e secondo grado, in questa delibera non c' è nulla di discriminatorio «anzitutto per la sua genericità e per avere correttamente messo in relazione la impossibilità di identificare una persona, in quanto con il volto coperto, in determinati luoghi pubblici con problemi di ordine pubblico e sicurezza (che i gravissimi attentati avevano reso ancor più evidenti) senza che vi sia stata violazione di riserva di legge, avendo richiamato la delibera espressamente la legge 152/1975 (c. d. legge Reale, dal nome del suo autore)». Unica concessione ai ricorrenti delle varie associazioni è sulla grafica dei cartelli definita dai giudici «una modalità comunicativa piuttosto grezza» e soprattutto dalle incerte conseguenze dal momento che, a differenza degli uffici regionali, «negli ospedali non vi sono tornelli né personale addetto all' identificazione e non è noto se vi siano o meno provvedimenti amministrativi che disciplinano l' ingresso nelle strutture sanitarie». Così l'identificazione, che dovrebbe essere istantanea per consentire alle donne musulmane di mostrare il volto e poi coprirlo, non potrà essere completa. In questa incertezza, la Corte d' Appello ha così preferito liquidare le spese di causa compensandole tra le parti, senza cioè condannare le associazioni umanitarie per il ricorso.
Quei migranti che bighellonano tutto il giorno nelle piazze. Gian Paolo Serino 23 settembre 2019 su Nicolaporro.it. Io non ce l’ho con gli stranieri, lo siamo stati anche noi nel ‘900 e non è che ci trattassero meglio. Il problema è che un migrante italiano “in terza classe costa mille lire, odore di spavento e di mare morto” se avesse avuto 10 milioni di allora non avrebbe avuto bisogno di emigrare. Con quei soldi poteva avviare un’attività commerciale o comprare un appezzamento di terreno da coltivare. I nuovi migranti “economici”, invece, pagano migliaia di dollari per traversare il Mediterraneo su un barchino o un gommone. Dove li prendono? Chi li dà? Ma soprattutto, con quei soldi in Africa puoi vivere tranquillamente. E allora? A parte chi fugge dalla guerra (non mi sembra che marocchini o cingalesi abbiano conflitti in atto), gli altri? Molti si “inseriscono”, uso un termine caro alla sinistra (anche se si inseriscono le macchine, non gli esseri umani), altri si “integrano”, ma per lo più sono accolti come “profughi”. Io non ho nulla contro gli stranieri, ma credo che in Italia l’immigrazione, a destra come a sinistra, sia la metafora più evidente della burocrazia. Perché i comunisti al posto di tassare le merendine (ma non mangiavano i bambini?) non ricordano la propria storia? È vero: non esistono più i Gulag e in Siberia i ghiacci si stanno sciogliendo, ma dovrebbero essere coerenti con la propria tradizione. Invece la burocrazia blocca tutto. A un clandestino danno il foglio di via, che più che una legge attuabile nella pratica, ricorda il “Monopoli”: al foglio di via corrisponde al “riparti dal via” del gioco in scatola. Quindi poi, nella maggior parte, questi che per la sinistra sono dei recidivi, da sventolare come simbolo di accoglienza e bontà, finiscono in galera. Tanti stranieri cercano lavoro, lo trovano, alcuni regolarizzati ma la maggior parte lavorano in nero se già va bene. Per lo più sono sfruttati, nei campi come sulle strade a mendicare o a finire schiavi come prostitute e come prostituti. Per lo più, però, bighellonano tutto il giorno nelle piazze: davanti alla Stazione Centrale di Milano come a Roma Termini, come nei parchi di qualsiasi città. Ecco un paese davvero comunista, quello che stiamo vivendo a “cinque stelle”, perché non li deportano? Voglio dire è semplice: se trascorrono tutto il giorno nelle piazze o nei parchi certo non vendono bibite o fanno lavori socialmente utili. E allora perché i comunisti danno le spalle alla propria storia? Si facciano delle retate, si controllino i documenti e chi non è in regola sia caricato su dei voli charter e lanciati in acque internazionali con un paracadute. Hanno affrontato il mare, possono anche affrontare il cielo. Magari, per umanità di facciata, con in tasca delle merendine. Gian Paolo Serino, 23 settembre 2019
Migranti, fantasmi neri tra di noi. Gli extracomunitari sono esseri umani ignoti, con abitudini e pratiche, come la circoncisione, lontane anni luce dalle nostre. Come integrarci? Scrive Giampaolo Pansa il 12 aprile 2019 su Panorama. Il presidente Mattarella deve sbrigarsi se non vuole fare la figura delle tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano. Ha l’obbligo di dichiarare subito che la Repubblica italiana non è più fondata sul lavoro, ma sullo stupro. Leggo i giornali, poi guardo la tivù, e mi rendo conto che l’Italia del 2019 è sempre più uguale alla Germania del 1945. Allora che cosa accadeva a Berlino, dopo l’arrivo delle truppe sovietiche che stavano battendo Hitler e i suoi generali? Accadeva una faccenda vecchia quanto il mondo: i russi andavano in cerca di tre cose: orologi, biciclette e ragazze. Quando trovavano donne appena appena decenti, le violentavano in due, in tre, in dieci, in venti. L’Italia di oggi non è certo la Germania del 1945. Eppure siamo diventati il Paese dello stupro. L’ultima storia che rivela quanto ci troviamo in basso nella scala della civiltà è successa a Catania. Tre giovani barbari, figli della borghesia ricca della città, hanno messo le mani su una ragazza americana che lavora da babysitter presso una famiglia del posto, l’hanno violentata filmando l’impresa con uno dei maledetti telefonini. Poi hanno mostrato il filmetto alla ragazza con la pretesa ignobile di ripetere lo spettacolo, ossia di violentarla tutti e tre una seconda volta. In che modo verranno puniti e quando lo saranno i tre violentatori? È possibile che venga loro imposta la castrazione chimica che rende impotenti? Confesso di non saperlo. Non mi sono documentato anche perché questo Bestiario vuole trattare un altro argomento: la difficoltà di vivere in un’Italia troppo affollata di migranti neri, arrivati dall’Africa subsahariana. Quanti sono quelli rimasti in casa nostra? E in quale modo si comportano? Non lo so. Ho la fortuna di vivere in un piccolo comune toscano dove non si sono mai visti migranti. Qui c’è una stazione termale importante, completa di un albergo di lusso. Nessuno lo dice, ma sospetto che i proprietari delle terme e dell’hotel si siano dati da fare per tenere lontani i «musi neri». Fino a poco tempo fa, i «negri» come li chiama la gente, c’erano in un comune vicino e davano parecchio fastidio. Si piazzavano all’ingresso di un grande centro commerciale e infastidivano le donne con il carrello pieno di merce appena comprata. Le circondavano gridando: «Mami, mami, io aiutare te!». Volevano impossessarsi del carrello per prendere la moneta dell’affitto. Ora mi dicono che siano scomparsi. In compenso girano per le strade del centro: tutti giovani, spavaldi, ben vestiti, con l’aria dei padroni della carrozza. Merito della Caritas, di qualche parrocchia, di volontari dal cuore d’oro? Adesso qualcuno si domanderà se il Bestario non sia diventato un razzista della peggiore specie. Certo che no! Ma anch’io non posso chiudere gli occhi di fronte alla difficoltà di vivere accanto a persone troppo diverse da me. Mi hanno colpito le cronache sulla circoncisione di neonati, praticata in modo clandestino e in ambienti del tutto inadatti o ripugnanti. E i due ragazzini caduti dall’ottavo piano del loro palazzo a Bologna? Erano kenioti come il padre: un dettaglio che c’entra oppure no con la morte atroce dei suoi figli? Infine ci sono i delinquenti organizzati che non hanno nulla da invidiare alla criminalità di casa nostra. Penso alla mafia nigeriana e alla rete che spaccia la droga. Il premier Conte ha già fatto sapere che non appena scaduto il suo mandato ritornerà alla vecchia professione di avvocato civilista. Ecco un signore che dal suo ufficio di Palazzo Chigi deve aver visto e sofferto cose che non racconterà mai. A quel punto dovremo vedercela con un gradasso come il Capitano leghista, il trucido Salvini. La sua attività al Viminale come ministro dell’Interno è disastrosa. Milioni di parole e migliaia di ore alla televisione. Ma senza costrutto, una successione di errori. L’ultimo riguarda la cittadinanza italiana da dare al ragazzino eroe che ha salvato il pullman pieno di ragazzi come lui che rischiavano di morire bruciati. I boss leghista gli ha replicato: «Prima si faccia eleggere». Poi si è lasciato convincere dal più astuto Di Maio e adesso il ragazzino verrà ricevuto da Mattarella. E questo non è l’unico errore grossolano del Capitano. Siamo rimasti a bocca aperta quando ha deciso di chiudere tutti i porti italiani. Ci ha spiegato che lo faceva per impedire l’arrivo degli immigrati grazie al soccorso offerto dalle navi delle Ong, le organizzazioni non governative. Una misura inutile dal momento che gli immigrati clandestini arrivati all’Africa erano già tutti qui. A proposito, c’è una domanda che non possiamo evitare: quanti sono a fine marzo 2919 i neri giunti in Italia dall’Africa? Nessuno lo sa. La verità è che esiste una seconda Repubblica fatta di esseri umani che nessuno conosce, con una cultura che ci è del tutto ignota, che pratica circoncisioni e forse infibulazioni di bambine. Eppure il Salvini aveva giurato che avrebbe rimandato in Africa 500 mila clandestini che vivono fra noi. Adesso non lo dice più, infatti sappiamo tutti che era soltanto una vanteria di bassa lega per ottenere voti nella speranza di diventare il prossimo capo del governo. Volete la previsione del Bestiario? Lo diventerà, statene certi. Noi italiani siamo un popolo che ha un cuore grande così, ma un cervello piccolo piccolo. Prepariamoci a un nuovo regime autoritario. Durerà sino a quando il presidente Mattarella si deciderà a varare un governo di tecnici protetto e affiancato dai militari.
· Migranti, ecco l'ultimo trucco per farsi mantenere i figli dall'Italia.
Lo scandalo dei rimpatri. Buttiamo 4,7 milioni per tenerci i clandestini. Più di 3mila euro al migrante che chiede di tornare a casa. Ma molti rimangono qui. Antonella Aldrighetti, Martedì 26/11/2019, su Il Giornale. Per convincere gli immigrati a tornare a casa propria il governo giallorosso ha impegnato quasi 5 milioni di euro in una nuova campagna di informazione (solo per la pubblicità oltre un milione). Da qui alla fine del prossimo anno l'esecutivo darà un aiuto finanziario a chi vorrà lasciare l'Italia. Non è bastato il costosissimo flop dell'ultimo triennio (quasi oltre 11 milioni per 773 stranieri rimpatriati). Pd e Cinquestelle ci riprovano pensando questa volta di essere più fortunati e mettendo in piedi un nuovo progetto che invita i migranti a fare una telefonata al numero verde 800200071, lasciare i propri dati allo scopo di essere richiamati e iniziare un percorso conoscitivo. Che siano migranti economici, richiedenti asilo, immigrati con protezione sussidiaria o tutelati da protezione internazionale non fa differenza, tutti potranno ricevere assistenza per il rilascio dei documenti di viaggio, copertura dei costi di voli e treni, fino a un ulteriore contributo economico per essere facilitati a un inserimento socio-lavorativo nel proprio paese. Che sia in Egitto, Tunisia, Marocco, Ghana o Niger. Questi i benefit: 400 euro per le spese vive dei primi mesi e altri 3.000 euro per iniziare un'attività agricola o commerciale. Ma sarà davvero così? Se i risultati futuri replicheranno quanto avvenuto in passato saranno soldi buttati al vento. Dal 2008 al 2018 sono stati avviati e conclusi 35 progetti per oltre 15 milioni di euro (come si evince dai documenti del dipartimento Libertà civili e immigrazione del Viminale). Al contempo l'Italia vanta ancora circa 600mila cittadini stranieri presenti senza titolo. Che sia questo il motivo di tanto impegno o che siano mutate le condizioni del rimpatrio non è dato saperlo, rimangono però certezze sui risultati sanciti dall'Oim, l'Organizzazione Internazionale per l'immigrazione, che ha conteggiato quanto effettivamente realizzato in questi ultimi tempi. Il Cies di Elisabetta Melandri (Onlus nata a Roma nel 1983 per contrastare il razzismo, ndr), sorella della più nota Giovanna, per il rimpatrio di 122 stranieri ha incassato 939.922 euro, quando ne avrebbe dovuti rimpatriare 270; il Cir di Roberto Zaccaria (Consiglio italiano per i rifugiati nato nel 1990, ndr) per 130 rimpatri, e anche lui a fronte di 270 sulla carta, ha incassato ben 1.079.988 euro; il Gus, Gruppo umana solidarietà (attiva dal maggio 1993), megacoop umbro marchigiana ha ottenuto 800mila euro per 100 immigrati a fronte di 174; quanto invece all'Arci Napoli che ha gestito il progetto del comune di Giugliano in Campania non si hanno notizie certe sui 21 stranieri rispediti a casa propria per 800 mila euro: «non si sa nulla di questi assistiti» scrivono nel rapporto valutativo. E infine la stessa Oim ha garantito il rimpatrio di 326 immigrati per 8 milioni di euro. Senza contare che intraprendere il percorso di adesione al proprio rimpatrio mette il migrante in una condizione di legalità, pure se non è in regola con il permesso di soggiorno. Già perché a chi ha voglia di tornare a casa sarà garantito da un lasciapassare speciale che gli consentirà di rimanere in Italia legalmente fino alla partenza.
Migranti, ecco l'ultimo trucco per farsi mantenere i figli dall'Italia. I minori kosovari e albanesi arrivano dai parenti in Italia. Poi si fingono soli per avere vitto, alloggio e scuola gratis. Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Mercoledì 11/09/2019, su Il Giornale. La legge parla, o parlerebbe, chiaro. Senza eccezioni: per migrante minore non accompagnato (Msna) si intende un minorenne senza cittadinanza italiana che si trova in italia "privo di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti". Tradotto: dovrebbe essere solo. Nessun contatto, nessun familiare. Alcune volte è così, come nel caso di chi sbarca a Lampedusa. Ma non sempre. Da qualche tempo, infatti, si sta sviluppando una rotta segreta che porta giovani albanesi e kosovari nel Belpaese. Arrivano legalmente, si fingono "non accompagnati" e vengono accolti (a nostre spese) nelle strutture per minori. "Conoscono questo sistema e lo sfruttano per garantirsi l’istruzione ‘a gratis’. Mentre noi mandiamo i nostri figli a fare i master in Inghilterra, i loro genitori li inviano in Italia a fare un po’ formazione professionale senza spendere un euro”. A parlare è una fonte che lavora per Comune di Firenze nell’ambito dei servizi sociali. Conosce bene i dettagli e le magagne di un sistema che drena ogni anno milioni di euro dalle casse statali e comunali. "Se avvenisse tutto in modo regolare e preciso, su 10 minori accolti a Firenze ne rimarrebbero solo 3 o 4". Gli altri sfruttano le falle dell'accoglienza. L’Italia garantisce vitto, alloggio e percorsi di integrazione a 7.580 migranti sotto la soglia della maggiore età. Di questi, la maggioranza arriva proprio da Albania e Kosovo. Parliamo di 2.021 persone, ovvero il 25,6% degli Msna censiti nel territorio nazionale. Solo a Firenze sono 270. Lo schema è collaudato e in pochi approdano superando il confine illegalmente. "Arrivano accompagnati dai genitori, alcuni pure comodamente in aereo - spiega la fonte - Oppure vengono consegnati con una procura all’autista di un bus diretto nel Belpaese". In generale, per raggiungere l’Italia hanno bisogno "dell’invito" di un parente o amico che abita qui. Si tratta di una documento in cui uno straniero legalmente residente "dichiara di voler ospitare" il minore, di farsi carico delle "spese di sostentamento", di aver "stipulato a suo nome un’assicurazione sanitaria" e di aver messo a disposizione una fideiussione bancaria. Con questo foglio in mano, un minore albanese può entrare tranquillamente. Alla scadenza del visto dovrebbe tornare a casa, però "poco prima del termine appallottola il documento, si presenta alla polizia e dichiara di essere un minore non accompagnato". Di quel foglio non resta traccia, "perché non viene registrato". E così inizia la festa.
È curioso che, mentre i minori gambiani, senegalesi e nigeriani vengono rintracciati sul territorio e segnalati ai servizi, i kosovari e albanesi invece si presentano loro stessi alle forze di polizia. A certificare il giochetto ci sono i racconti che i migranti fanno nelle interviste con i servizi sociali. IlGiornale.it è in grado di mostrare alcuni documenti del Comune di Firenze (modificheremo i nomi per tutelare la privacy). Agapi, per esempio, è albanese ed è sbarcato a Bari con una conoscente. Per farlo avrà avuto i documenti e un foglio di ingresso. Poi "è stato ospitato per qualche giorno a Grosseto" prima di spostarsi a Firenze per finire in carico al Comune. Non era tecnicamente “non accompagnato”, ma lo è diventato e ora lo ospitiamo a nostre spese. Lenard, invece, dall’Albania è arrivato a Firenze direttamente "con il padre" viaggiando in aereo. Il babbo è rimasto in Italia "per una settimana", poi è tornato lasciando il figlio con lo zio che "vive e lavora da molti anni" nel Belpaese. Neppure il nonno, qualche tempo dopo, se lo è riportato indietro e così Lenard ha messo radici in Italia nell'appartamento dello zio. Poi "si è allontanato" e "si è presentato alle forze dell’ordine, sapendo già che sarebbe stato preso in carico dal Servizio Sociale". Alcune domande sorgono allora spontanee: perché nessuno verifica se il minore è davvero "non accompagnato"? Perché non si tiene un registro dei documenti di invito? Perché non si obbligano i parenti a farsi carico dei minorenni? Perché nessuno si accorge del fatto che i papà accompagnano i figli in Italia e poi ripartono da soli? Il sistema fa acqua da tutte le parti. I minorenni albanesi e kosovari, dice una operatrice, "sanno benissimo di doversi dichiarare non accompagnati per ottenere l’accoglienza: è un escamotage per poter chiedere in futuro la conversione del permesso di soggiorno”. In tanti fanno così. "La comunità albanese e kosovara è molto presente sul territorio toscano - spiega la fonte - I ragazzini vantano numerosi contatti che si impegnano per aiutarli", ma che si guardano bene dal farsene legalmente carico. Tanto ci pensano i servizi sociali. Karim ci confessa il modus operandi: "Una volta arrivato a Firenze sono andato da mio cugino. Ma lui non poteva tenermi con sé perché ha problemi economici". Così si è presentato dalla polizia italiana dichiarandosi solo e nessuno ha verificato la presenza di parenti in Italia. "I poliziotti non mi hanno chiesto nulla - confessa Karim - o, se lo hanno fatto, io non ho capito". Risultato: ora è ospite di una struttura di accoglienza a nostre spese. Per la gioia del portafoglio del cugino.
Migranti, la rivelazione: "Vi spiego perché scelgono solo regioni rosse". Lo strano caso dei minori albanesi e kosovari. "È colpa del buonismo da salotto". Così sfruttano le falle dell'accoglienza. Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Giovedì 12/09/2019, su Il Giornale. Il fenomeno è curioso. È come se in Albania e Kosovo ci fosse un passaparola che va avanti da un decennio: se vuoi mandare un figlio (minore) in Italia per farlo formare a spese dei contribuenti, meglio scegliere una regione rossa.
Tipo l’Emilia Romagna o la Toscana. Nonostante il calo degli sbarchi nel 2018 e 2019, l’Italia garantisce vitto, alloggio e percorsi di integrazione a 7.580 migranti sotto la soglia della maggiore età. Di questi, la maggioranza arriva proprio dall’Albania. Parliamo di 1.662 persone (un flusso costante nel tempo), ovvero il 22% degli Msna censiti nel territorio nazionale. A questi, vanno aggiunti altri 359 kossovari, nazionalità all’ottavo posto della strana classifica che registra "un aumento della presenza" di minori di queste due nazionalità. Due particolarità: gli albanesi accolti a Firenze hanno un’età media di 17,4/17,5 anni (un caso?) e quasi nessuno, neppure tra i kossovari, risulta irreperibile. Il motivo è semplice: è qui che vogliono rimanere. Secondo quanto emerge dal report del Ministero del Lavoro, chi parte da Tirana o Pristina sa bene dove dirigersi. La maggior parte degli albanesi sono infatti accolti in Emilia Romagna e Toscana. Lo stesso vale per i kossovari, che in numero minore si concentrano anche in Friuli Venezia Giulia e Veneto. "Questo - spiega una fonte del Comune di Firenze - lascia presupporre l’esistenza di un racket organizzato e governato da qualcuno che li porta prevalentemente in queste città". La domanda però è un’altra: perché? Semplice, spiega la fonte, la colpa è del "buonismo peloso" dei governanti: "Il problema deriva da alcuni anni del governo di sinistra. Io lavoro per una amministrazione di sinistra e vedo i limiti di un buonismo da salotto che crea opportunità per chi vuole approfittarne".
Facciamo l’esempio di Firenze. I migranti arrivano perché "mancano i controlli" e perché, tutto sommato, "il servizio è attrattivo". Si forma una sorta di passaparola: "Vengono come se fosse un hotel. Dicono: ‘Ci sono belle strutture e si mangia bene’”. Inoltre, spiega una operatrice del settore, "i ragazzi albanesi e kossovari hanno una rete comunitaria molto ampia sul territorio toscano". Così mentre chi approda a Lampedusa spesso non ha obiettivi precisi, loro puntano a Emilia e Toscana perché sanno di trovare "un sostegno" e l'assist di amministrazioni distratte. A Firenze sono ospitati 270 tra kossovari e albanesi, l’80% del totale degli Msna. Arrivano a volte illegalmente, spesso accompagnati dai parenti o in autobus. Una volta in città si presentano dalla polizia municipale, dichiarano di essere non accompagnati, vengono portati in una struttura di accoglienza e qui rimarranno fino ai 18 anni. Sfruttando tutti i servizi (scuola, formazione, ecc) che il Belpaese garantisce. Nel 2018/2019 il teatrino si è ripetuto nel 54% dei nuovi ingressi sotto la cupola del Brunelleschi. "La municipale se li trova lì e li consegna ai servizi sociali come un pacco - spiega la fonte - Non verifica se sono davvero non accompagnati o, come spesso accade, se hanno parenti in Italia". A volte il minore si presenta alla polizia diversi giorni dopo il suo approdo in aeroporto. Domanda: perché nessuno gli chiede cosa abbia fatto tutto quel tempo? Da chi abbia dormito? Chi lo abbia aiutato? "Sono arrivato in aereo con mio cugino - confessa un migrante al Giornale.it - Poi ho vissuto da lui, ma non poteva tenermi con sé a lungo per problemi economici". Agli agenti non ha fatto parola del parente: "Non me lo hanno chiesto - dice - oppure non ho capito". La verità sovente viene a galla molto tempo dopo, quando ormai sono a carico dello Stato. Così, alla fine, i migranti finiscono sulla colonna dei costi nel bilancio del Comune e dello Stato. La spesa totale prevista per gli Msna per il 2019, solo a Firenze, è di 5 milioni di euro. Se si considera che l'80% degli ospiti è kosovaro o albanese, facendo i conti della serva, a loro sono destinati circa 4 milioni. Non proprio spiccioli.
Migranti "minori" fino a 21 anni. È boom grazie alla legge del Pd. L'accoglienza estesa oltre 18 anni. "Legge Zampa dà tutto il potere ai giudici". Anche contro il parere dei Servizi sociali. Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Venerdì 13/09/2019, su Il Giornale. "Quella legge lì devono averla scritta in qualche spiaggia di Capalbio". Una norma che aumenta le tutele dei migranti minorenni, "senza pensare alle conseguenze negative che produce". Un operatore ben informato definisce così l’intervento legislativo (targato Pd) che ha moltiplicato a dismisura il numero di immigrati la cui minore età viene "prolungata fino a 21 anni". Privilegio non indifferente, che permette ai giovanotti di dormire, mangiare e formarsi a spese dello Stato anche una volta maggiorenni. Prima del governo Gentiloni, la possibilità di protrarre l’accoglienza di un minorenne esisteva già. In sostanza i piccoli profughi sbarcavano in Italia, entravano nel circuito dell’assistenza (a circa 80/100 euro al giorno) e al compimento del 18esimo anno di età i Servizi sociali, se lo ritenevano opportuno, "potevano chiedere al Tribunale dei minori l'estensione assistenziale a tutela del ragazzo". Tutto cambia, spiega la fonte nei servizi sociali del comune di Firenze, quando il Pd nel 2017 decide di mettere mano alla normativa. La legge Zampa, all’art. 13, prevede che quando un Msna "necessita di un supporto prolungato volto al buon esito di tale percorso finalizzato all’autonomia", allora "il tribunale per i minorenni può disporre, anche su richiesta dei servizi sociali, con decreto motivato, l'affidamento ai servizi sociali, comunque non oltre il compimento del ventunesimo anno di età". Il problema è che il testo così concepito di fatto affida al Tribunale la decisione, scavalcando il parere dei servizi sociali. "Prima era necessaria una nostra relazione - spiega la fonte - ora invece i giudici hanno tutto il potere decisionale. Noi inviamo la nostra relazione, ma questa non obbliga il Tribunale che può decidere tranquillamente di ignorarla". Gli effetti sono sotto gli occhi di chi se ne occupa. A Firenze, per esempio, è successo che "se una volta avevamo solo in media 3-4 minori all’anno cui veniva richiesto il prolungamento dell’assistenza fino a 21 anni", adesso "abbiamo una quarantina di decreti del Tribunale". Su questi, spiega la fonte, "un 95% dei casi ha avuto parere negativo dell’assistente sociale".
Il Giornale.it è venuto in possesso dei documenti relativi ad alcuni casi, tutti nel Comune di Firenze. Si tratta di tre ragazzi accolti da minori nei centri di accoglienza sul territorio. Jahbal, il nome è di fantasia, è nato a gennaio del 2001 e arriva dal Gambia. Richiedente asilo, dopo lo sbarco nel maggio del 2017 viene inviato in un Cas di Pistoia e poi arriva a Firenze con l'estensione dell’accoglienza. Il problema è che Jahbal "fa uso di marijuana in maniera regolare" e ha pure in corso "due cause penali per spaccio". Era stato beccato nel 2018 (ancora minorenne), poi di nuovo a gennaio 2019 (appena maggiorenne). Senza contare il "procedimento per resistenza a pubblico ufficiale" e le lamentele della struttura per la "difficoltà di gestione del ragazzo che non vuole sostanzialmente fare nulla". Non studia italiano, torna tardi la sera, urla e minaccia gli altri minori. Il Servizio Sociale non aveva richiesto il prolungamento dell’assistenza fino a 21 anni, ma gli è stata concessa. E a luglio 2019 l’assistente sociale è stato costretto a chiedere una "revoca con sospensione delle prestazioni assistenziali". Non si poteva evitare di concederla? La storia di Raniman, albanese, è simile. Nato nell’agosto del 2000, è ospite a Firenze dal luglio del 2017. A aprile del 2018 viene arrestato perché identificato tra gli autori del brutale pestaggio ai danni di un giovane grossetano, picchiato a sangue fino a fratturargli l'orbita oculare. Direte: appena maggiorenne l’avranno rispedito a casa. E invece no. Nonostante l’assistente sociale abbia messo nero su bianco che "non si ritiene opportuno proporre la prosecuzione delle prestazioni socio assistenziali fino al 21esimo anno di età", Rniaman - spiega la fonte - "l’ha ottenuto". Infine c’è Arij, pure lui albanese del 2001. Il giorno del suo 18esimo compleanno è stato arrestato perché "fermato a bordo di un’auto rubata". Una volta scarcerato è stato "dimesso dalla struttura dove era stato collocato" ed è stato deciso che non può più rientrarvi. Il fatto è che "sarà accolto fino a 21 anni" nonostante il suo passato tutt’altro che tranquillo. Arij infatti "non ha mai aderito ad alcun programma", "non ha partecipato ad alcun corso di formazione" né ha seguito le lezioni di italiano. L’attitudine a non rispettare le regole è peggiorata "appena venuto a conoscenza del prolungamento stabilito" dal Tribunale dei minori. Perché allora ha ottenuto l’insperata accoglienza? "Questi ragazzi - spiega la fonte - spesso arrivano a 17 anni. Se iniziano un percorso di formazione di due anni, al compimento dei 18 anni si tende a fargli finire il percorso". Il problema è che ora le autorizzazioni si sono moltiplicare a dismisura. "La legge Zampa è un obbrobrio - conclude la fonte - Classico approccio buonista. Un disastro: tutelando, tutelando, tutelando alla fine spalanchi dei portoni a chi vuole inserirsi per altre finalità". Pure ai delinquenti.
· Pensioni Inps. Prendi i soldi e scappa.
Pensioni e immigrati, la verità nascosta nei numeri: gli extracomunitari ci vanno prima degli italiani. Libero Quotidiano il 5 Novembre 2019. Gli stranieri, si dice, manterranno gli anziani. Intanto però incassano anche loro pensioni. Gli assegni relativi a invalidità, vecchiaia e superstiti erogati dall' INPS a cittadini extracomunitari alla fine del 2018 sono 56.071, pari allo 0,40% del totale delle pensioni dello stesso tipo (13.867.818); di esse 20.120 (35,9%) vengono erogate a uomini e 35.951 (64,1%) a donne. Tra il 2016 e 2017 il numero di pensioni erogate a extracomunitari ha avuto un incremento dell' 11,3%; tra il 2017 e il 2018 del 13,1% e complessivamente, nel triennio, del 25,9%. Dall'analisi per classi d' età si nota una netta prevalenza di pensioni erogate a stranieri non comunitari nelle classi d' età più giovani rispetto al complesso delle pensioni vigenti a fine 2018. Infatti, mentre nel complesso solo il 4,1% di queste pensioni è erogato a beneficiari con età inferiore ai 60 anni, tra gli extracomunitari tale percentuale arriva al 36,5%. Nell' esaminare infine le pensioni invalidità, vecchiaia e superstiti per tipo di prestazione e Paese di cittadinanza si osserva che in alcuni paesi prevalgono le pensioni di vecchiaia (Eritrea, Svizzera, Etiopia e Filippine), in altri gli assegni di invalidità (Tunisia, Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia e Ghana) e in altri ancora le pensioni ai superstiti (Russia, Repubblica Dominicana e Brasile). L' Inps non paga solo pensioni, ma anche prestazioni assistenziali. A fine 2018 l' ente ha erogato a cittadini extracomunitari 93.397 pensioni assistenziali, pari al 2,4% del totale (3.959.858); di esse 44.548 (47,7%) vengono erogate a uomini e 48.849 (52,3%) a donne. Dall' analisi per classe d' età si evidenzia che le prestazioni agli extracomunitari di età inferiore ai 60 anni sono circa la metà del complesso (48,8%). La percentuale di prestazioni assistenziali legate al reddito (pensioni sociali, assegni sociali e pensioni di invalidità civile) erogata a cittadini extracomunitari risulta essere complessivamente molto più elevata di quella nazionale (68,8% contro 45,4%). Infine uno sguardo agli assegni per il nucleo familiare. Su un totale di 2.836.868 lavoratori dipendenti beneficiari nel 2018, 352.590 sono extracomunitari, pari al 12,4% del totale, con un' incidenza del 19,9% nel Nord-Est, del 18,3% nel Nord-Ovest, del 11,6% al Centro, del 2,9% al Sud e dell' 1,9% nelle Isole. Le regioni caratterizzate da una maggior incidenza di lavoratori dipendenti extracomunitari beneficiari rispetto al totale regionale sono l' Emilia Romagna (22,1%), il Trentino Alto Adige (21%), la Lombardia (20,8%) e il Veneto (18,5%). Le popolazione che incassano di più sono quelle albanese (18,9%), marocchina (17,3%), indiana (5,2%), egiziana (4,0%) e moldava (3,8%).
Prendi i soldi e scappa: così i migranti tornano in Africa e incassano l’assegno dell’Inps. Il Secolo d'Italia martedì 18 giugno 2019. Il raggiro all’Inps funziona così: una volta maturato il diritto ad ottenere l’assegno sociale, a 66 anni e sette mesi di età, gli immigrati tornano a casa (quasi tutti in Africa ma anche in Albania, Macedonia, Polonia…) e continuano a percepire il sussidio di 450 euro, anche se la legge prevede che quel sostegno andrebbe sospeso per chi trascorre più di trenta giorni all’anno all’estero. L’inchiesta del quotidiano La Verità ha svelato una nuova categoria di “furbetti”, tra gli immigrati italiani in età da pensione: si parla di 500 casi per un valore totale di circa 10 milioni di euro, un copione degno di un film “Prendi i soldi e scappa”. Secondo la legge, uno straniero può accedere all’assistenza se ha 66 anni e sette mesi di età, se è residente in Italia o se ha il permesso di soggiorno da almeno dieci anni ma non se resta più di 30 giorni all’estero. Le cifre, secondo La Verità, sono rilevanti, le indagini parlano chiaro: a febbraio del 2018 182 stranieri residenti ad Ancona erano tornati nel loro Paese di origine senza comunicarlo all’Inps e così hanno continuato a percepire 450euro al mese, tredicesima inclusa, per quattro anni. Altrettanto sarebbe accaduto a Sabaudia, con decine di stranieri, a Genova, Firenze, Pescara: tutti rientrati a casa ma senza comunicarlo all’Inps e dunque pronti a riscuotere, in banca, quanto a loro nopn più dovuto, a spese degli italiani, ovviamente.
Quei migranti che accumulano più pensioni fino a 17mila euro l'anno. I dati sulle pensioni dei migranti. Dagli assegni di sostegno al reddito alle pensioni assistenziali. Luca Romano, Martedì 18/06/2019 su Il Giornale. Non ci sono solo i migranti "che ci pagano le pensioni". Ci sono anche quelli a cui è l'Italia, e i suoi contribuenti, a versare un assegno di sostegno. Si tratta di immigrati in difficoltà economiche e che accedono di diritto alle prestazioni del welfare italiano. Già ieri avevamo raccontato di come polizia, investigatori e Inps abbiano negli anni scoperto diversi furbetti che incassano la pensione sociale e poi se ne tornano nel loro Paese. E se certo ci sono oltre 2 milioni di stranieri lavoratori che pagano i contributi, un altro dato che occorre tenere a mente è quello del boom di stranieri che accedono al sostegno al reddito: "Dalle 17.000 erogazioni del 2008 - scrive La Verità - c’è stato un salto che ha raggiunto le 94.000 del 2017". Un salto non indifferente. Anche i pensionati sono cresciuti, dai 33mila del 2008 ai 96mila del 2017. Secondo quanto scrive La Verità, infatti, circa 59mila stranieri incassano una pensione assistenziale, quindi di invalidità civile o pensione sociale. A questi vanni aggiunti quasi 10mila che prendono la pensione indennitaria, corrisposta a seguito di infortunio sul lavoro o malattia professionale; e altri 20mila che invece si ritrovano in banca gli assegni di invalidità e vecchiaia. A dire il vero, però, le riforme del 2018 e del 2019 delle pensioni hanno ridotto enormemente gli assegni sociali liquidati, passando dalle 78mila di due anni fa alle 10mila dell'anno scorso fino alle 3mila del 2019. C'è poi da tenere a mente un altro fattore. Ovvero i migranti che dopo aver ottenuto la residenza con il ricongiungimento familiare, e dopo aver superato i 67 anni, chiedono il sussidio da 5.880 euro all'Inps. "In Italia - scrive La Verità - il 17% circa di loro ha superato i 65 anni". E quindi "in soldoni, si traduce in questa stima: 327.190.500 euro che ogni anno l’Italia spende per garantire la pensione agli stranieri troppo in avanti con gli anni per lavorare". Ci sono poi dei casi particolari. In Italia vanno contati ben 5.579 stranieri titolari di pensioni sia di invalidità, sia assistenziali e altri 1.003 che incassano sia le pensioni d’invalidità e che quelle indennitarie. Ovvero persone che cumulano due o tre diverse prestazioni. Non solo. Ci sono poi 78 extracomunitari - riporta La Verità - "che hanno diritto alla pensione assistenziale, a quella d’invalidità e a quella indennitaria, per un importo annuale totale di 17.000 euro".
Immigrati con la pensione sociale: incassano e tornano al loro Paese. I casi in tutta Italia: oltre 500 stranieri pizzicati ad aggirare la legge. Incassano l'assegno Inps, ma poi tornano a vivere nei Paesi d'origine. Angelo Scarano, Lunedì 17/06/2019 su Il Giornale. Sarebbero circa 500 i casi messi nel mirino, per un valore totale di circa 10 milioni di euro. Sono i soldi finiti nelle tasche di immigrati che, dopo aver maturato le condizioni e i diritti per l'assegno sociale, se ne tornano nel loro Paese alle spese del welfare italiano. Costringendo poi l'Inps o gli investigatori a scoprire se sono ancora in possesso dei requisiti per incassare il benefit. La legge infatti è chiara: uno straniero può accedere all'assistenza se ha 66 anni e sette mesi di età, se è residente nel Belpaese o se ha il permesso di soggiorno da almeno dieci anni. Attenzione, però, se l'immigrato se ne sta per più di 30 giorni all'estero, l'assegno andrebbe sospeso. Ma non sempre accade e succede che alla fine, come riporta La Verità, le indagini portino a scoperchiare casi eclatanti. È successo a febbraio del 2018, quando 182 stranieri - ufficialmente residenti ad Ancona - erano tornati nel loro Paese (Albania, Marocco, Polonia, Macedonia e via dicendo) senza comunicarlo all'Inps e così hanno continuato a percepire 450euro al mese, tredicesima inclusa, per quattro anni. Costo totale per le casse dello Stato: 1 milione di euro circa. Casi simili sono avvenuti a Sabaudia (altri 36 furbetti scoperti dalle Fiamme gialle, per un totale di 340mila euro) e a macchia di leopardo un po' in tutta Italia. Altri sette, per esempio, nel giugno dell'anno scorso sono stati beccati a Genova che da tempo non erano più in Italia, nonostante continuassero a percepire l'assegno. Poi è successo ancora Firenze (120 mila euro) e a Pescara: 5 stranieri, che hanno incassato 200mila euro, avevano raggirato l'Inps. Alcuni se ne erano tornati nel Paese di origine, altri invece avevano dichiarato di essere indigenti senza esserlo. Dunque in teoria non avrebbero potuto ottenere l'assegno sociale.
· Stranieri a scuola, sono quasi il 10 %.
Stranieri a scuola, sono quasi il 10 %. Il caso virtuoso del modello lombardo. Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da Gianna Fregonara su Corriere.it. Sono in aumento gli alunni con cittadinanza non italiana nella scuola. Degli 8.664.000 studenti dell’anno scolastico 2017/18, circa 842.000 non sono italiani: è quasi il 10 per cento, per l’esattezza il 9,7%, un anno prima gli stranieri erano il 9,4%. Va detto che più della metà sono nati in Italia e in maggioranza hanno frequentato la scuola materna. Gli stranieri di seconda generazione sono infatti il 63,1 del totale dei non italiani. I Paesi maggiormente rappresentati sono Romania (18,8%), Albania (13,6%), Marocco (12,3%) e Cina (6,3%). L’attenzione sull’origine familiare e la nazionalità nella scuola riguarda soprattutto le politiche per l’integrazione e l’apprendimento dell’italiano che non è lingua madre per questi studenti. Per di più bisogna anche considerare che la distribuzione degli stranieri nelle scuole è tutt’altro che omogenea: mentre nelle scuole del Sud sono molto pochi, la regione che ospita più stranieri è la Lombardia dove gli studenti non italiani sono il 25,3 per cento del totale, cioè 213.153, seguita da Emilia Romagna, Veneto, Lazio e Piemonte. Proprio la concomitanza della pubblicazione dei dati dell’Invalsi e di quelli sulla popolazione scolastica suggerisce una riflessione sulla qualità del sistema scolastico in Lombardia. Infatti analizzando i dati delle prove standardizzate di Italiano della seconda elementare si nota che la performance lombarda sia al di sotto della media nazionale, segno di una maggiore difficoltà iniziale nell’apprendimento scolastico di quella che è per una parte degli studenti una lingua straniera. Ma questo gap scompare già dalla quinta elementare e i risultati si mantengono mediamente elevati fino alla quinta superiore. La performance degli studenti non italiani è invece molto migliore di quella dei loro coetanei nelle prove di inglese dove superano per competenza gli italiani: la ragione sta anche nel fatto che questi bambini sono abituati a usare più di una lingua fin da piccoli.
· Lo scuolabus dell’integrazione.
Lo scuolabus dell’integrazione, scrive il 20 marzo 2019 Augusto Bassi su Il Giornale. Un italiano di origine senegalese e religione islamica con precedenti penali per guida in stato di ebbrezza e abuso sessuale su minori… da 15 anni lavora per le Autoguidovie di Crema al servizio dei minori della scuola media Vailati. Non è l’inizio di una surreale favola nera fra Gogol’ e Villiers de-l’Isle-Adam, bensì un compiuto esempio di redenzione e integrazione sinistrocentrica. Da raccontare a grandi e piccini al Festival Antirazzista di Parco Sempione. Poi, un bel giorno, l’italiano di origine senegalese e religione islamica con precedenti penali, mentre procede fra gli elegiaci feudi del sindaco Sala alla ricerca della biblioteca degli alberi o forse di un pranzo solidale, per solidarietà verso degli sventurati morti in mare decide di dar fuoco al veicolo di cui era professionalmente alla guida, a se stesso e ai 51 ragazzini che trasportava, incurante della mobilità elettrica, del surriscaldamento globale, del futuro delle nuove generazioni e soprattutto di essere italiano. Strage a portata di clacson, vanificata dal piglio squadrista di alcune teste calde dei Carabinieri, che risponderanno nelle sedi più opportune del loro eccesso di zelo, grondante razzismo e islamofobia. Ora, io cerco di sdrammatizzare, di gettare acqua sul fuoco, perché i demoni di Petronio Arbitro e Lucio Apuleio me lo comandano; ma se fossi il padre di uno dei bambini che scappavano terrorizzati da quel bus, ora sarei sulle tracce dei responsabili di tale “assunzione a tempo indeterminato” con acido nitrico nel cuore e mani assassine. Lascio a voi ulteriori commenti sull’accaduto e mi congedo con un passo tratto da Le Metamorfosi, cercando di trovare un po’ di balsamico distacco dalle cose del mondo, ma sperando possa essere di auspicio: «Eppure, neanche dinnanzi all’evidenza d’un delitto così nefando quegli immondi messeri restano confusi o interdetti; cercano, anzi, di volgere in riso il loro fallo e affermano: Ecco! E’ una vera ignominia! Quante volte l’innocenza è mal ricompensata! Per un sol calcetto che la madre degli dei ha donato in segno d’ospitalità a sua sorella Siriaca, ecco che si osa sottoporre i ministri del culto, come volgari malfattori, a un processo capitale! Ma inutilmente essi andavano blaterando queste e altre ciarle del genere, perché gli abitanti del villaggio li trascinano fuori e lì per lì li conducono con robuste catene nel carcere Tulliano».
Il carabiniere: «Sy mi disse “sposta auto o faccio esplodere”». Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 da Corriere.it. «Lui insisteva: “Sposta l’auto o faccio esplodere il bus”. Nella mano sinistra aveva l’accendino, tipo un accendigas, nella destra il cellulare, avevo paura avesse un detonatore». È uno dei passaggi più drammatici della testimonianza resa davanti alla Corte d’Assise di Milano dal carabiniere Simone Zerbilli, appuntato scelto della stazione di Segrate, tra i primi a intervenire sulla statale Paullese per mettere in salvo i 51 bambini della scuola media Vailati di Crema sequestrati da Ousseynou Sy, l’autista che il 20 marzo scorso li prese in ostaggio sullo scuola - bus. Fu proprio la Renault Clio guidata da Zerbilli, assieme al collega Francesco Citarella, ad agganciare il veicolo dopo la richiesta di soccorso da parte di alcuni studenti all’interno del bus. «Il mio collega era quello in teoria abilitato a guidare l’auto, ma, vista la sua età molto giovane e la gravità della situazione, mi misi io al volante - ricorda Zerbilli - Quando abbiamo raggiunto il mezzo all’altezza del ponte di Pantigliate, abbiamo provato in tutti i modi a rallentarlo assieme alle altre auto dei miei colleghi arrivate nel frattempo. Vedevo che dallo specchietto l’autista faceva dei gesti come a dire di spostarci, intanto dalla centrale operativa ci informavano che l’intenzione di Sy era andare sulle piste dell’aeroporto di Linate». «Il bus zig - zagava alla velocità di 50 all’ora - prosegue il testimone, a cui uno dei legali di parte civile ha fatto i complimenti per la manovra, prima di formulare le domande nel controesame - io cercavo di “fare l’elastico”, a volte stavo molto vicino, a volte molto lontano. Lui più volte ha cercato di schiacciarci contro il jersey di cemento, ma senza riuscirci». Tutto è durato «una decina di minuti» fino al momento della svolta, la manovra che forse ha salvato la vita dei ragazzini, con la decisione di superare Sy e poi di mettere l’auto di traverso per bloccarne la corsa: «Quello era il momento che abbiamo deciso col collega per provare a fermarlo, dopo, col traffico congestionato, sarebbe stato molto più difficile. Il bus è finito incastrato tra il jersey e la nostra auto. A quel punto siamo scesi dall’auto e io mi sono diretto verso il lato anteriore del bus. Sy aveva al suo fianco due bambini schiacciati contro il vetro del parabrezza e mi ha detto di spostare l’auto perché altrimenti avrebbe fatto esplodere il bus. Ho cercato di prendere tempo per capire come terminare l’intervento, mentre lui continuava a ripetere `lo faccio esplodere, lo faccio esplodere´. Allora ho sentito il rumore dei vetri infranti dai miei colleghi». Subito dopo, Sy ha cercato di rimettere in moto il mezzo ma si è bloccato di nuovo. In quel momento, il mezzo era già in fiamme, ma i bambini erano già stati fatti uscire. «La nostra preoccupazione in quel momento erano loro. Li abbiamo contati due - tre volte per essere sicuri che ci fossero tutti. Erano tutti molto spaventati, qualcuno piangeva. Per ultima, dopo i due professori, è uscita la bidella che praticamente aveva perso i sensi, abbiamo dovuto trascinarla fuori». Infine, Zerbilli ha spiegato che è stato «portato fuori e messo in sicurezza» l’autista. Il testimone ha affermato di avere sentito Sy pronunciare le parole: «L’ho fatto per i bambini del Mediterraneo’. L’imputato, presente in aula, è accusato di strage, sequestro di persona aggravato dalla minore età delle vittime, incendio, resistenza e lesioni, tutti reati aggravati dalla finalità di terrorismo. A bordo anche due professori di educazione fisica e una bidella che ha bloccato le porte del mezzo con una catena. «Mi ha minacciato con un coltello e mi ha dato delle fascette da elettricista- ha raccontato la donna testimoniando in aula nel corso processo a carico di Sy- è mi ha ordinato di legare i bambini e di chiedere i cellulari a tutti. Io lo ho legati un po’ laschi e ho chiesto i telefoni ai bambini, ma con gli occhi facevo segno un po’ di consegnarmelo e un po’ no». Proprio alcuni allievi sono riusciti a dare l’allarme chiamando i carabinieri. I due docenti di educazione fisica sono stati legati a una porta del bus. «Quando mi sono avvicinata all’autista - ha aggiunto la bidella - ho visto che aveva una pistola e mi ha fatto capire che se non lo avessi aiutato avrebbe spataro a tutta una fila di bambini». L’autista ha imboccato la strada per Milano e ha cosparso un mucchio di stracci e tende di benzina che poi «con l’aiuto di un bambino ha appeso ai finestrini» e «con una bomboletta spray ha oscurato i vetri dal lato dei passeggeri». La bidella, che era «l’unica slegata», ha raccontato che «Sy aveva un accendino lungo», che aveva mostrato ai passeggeri. «In quel momento cercavo di stare calma che arche ero un po’ la mamma di tutti i bambini a bordo. Abbiamo cercato di rassicurarli, ma noi pensavamo che per noi ci fosse solo la morte».
Il pullman bruciato da Sy, senegalese, la "risorsa" perfetta. Sy aveva lavoro, famiglia e cittadinanza; il simbolo dell'integrazione voluta dai buonisti. E stava per compiere una strage su dei bambini, scrive il 20 marzo 2019 Panorama. La strage evitata sul pullman dei 51 bambini di una scuola di Crema compiuta da Ousseynou Sy, un senegalese di 47 anni, pone il dovere di dire senza troppi giri di parole come stanno le cose in tema di migranti ed immigrazione. I fatti:
Ousseynou Sy è un senegalese che dopo aver sposato una donna del nostro paese ha ottenuto la cittadinanza italiana. Sy non era quindi un disadattato appena sbarcato da un gommone ma una persona integrata, che aveva un lavoro, da anni ed una famiglia. Insomma, uno degli esempi perfetti di integrazione che i buonisti da anni ci presentano per giustificare e motivare il concetto di accoglienza per tutti. Tanto per essere chiari una persona che qualcuno definisce "risorsa". Una risorsa con però qualche problema con la giustizia visti i precedenti per guida in stato d'ebbrezza e due denunce per violenza sessuale.
Sy voleva compiere la sua strage uccidendo 51 bambini e facendo esplodere il suo pullman a Linate (magari facendo altri morti) "per vendicare le morti di migranti nel Mediterraneo", lo ha detto lui stesso in quei momenti terribili a tutti i bambini ed ai loro due insegnanti. Lui migrante e la strage in nome dei migranti. Eppure anche ieri buona parte della stampa evitava di dire che quell'uomo fosse un senegalese, come se non contasse nulla.
Sy è un terrorista. Questo lo hanno detti i magistrati della Procura di Milano dopo aver ricostruito quanto accaduto. Un atto premeditato e che fino all'ultimo ha cercato di mettere in atto. L'uomo infatti ha appiccato il fuoco alla benzina cosparsa sul pullman quando a bordo c'erano ancora dei bambini. Salvati dall'eroico intervento dei Carabinieri.
Questi sono i fatti. Inconfutabili, davanti agli occhi di tutti. Ricordiamolo: stiamo parlando del più pesante atto di terrorismo forse della storia di questo paese, di sicuro degli ultimi 40 anni. Evitato per miracolo.
I fatti, le responsabilità, i nomi sono chiari. Lo stesso vale per le conclusioni.
A spingere Sy a compiere il suo gesto è stato il caso della Mare Jonio e dei suoi 49 migranti. Caso in cui in tv e sui giornali i soliti noti hanno attaccato (urlando) la decisione del Governo di chiudere i porti e bloccare gli sbarchi. Attacca oggi, attacca domani, attacchi che di sicuro hanno aiutato Sy a convincersi che i migranti (come lui) siano le vittime e che fosse ora di dire "Basta", con la violenza. Occhio per occhio. 49 migranti, 51 bambini.
Su quel pullman però i bambini non sono bruciati. A finire in fumo è la politica del buonismo sull'immigrazione. Lo dicono i fatti. E chi sostiene il contrario rischia di diventare un complice.
Carlo Piano per la Verità il 21 marzo 2019. «Andiamo a Linate, oggi da qui non esce vivo nessuno. Fermerò le morti nel Mediterraneo». Sono le 11.10 di ieri mattina quando l' autista dello scuolabus delle Autoguidovie di Crema mette in atto il piano, criminale e folle nello stesso tempo. Ousseynou Sy, senegalese, 47 anni, vuole una strage, una strage di bambini come Erode. A bordo c' è una scolaresca di 51 ragazzini della scuola media Vailati di Crema, deve condurli in palestra e riportarli indietro come ogni mercoledì. Lo conoscono bene quel signore di colore. Invece questa volta ha altro in testa, un cortocircuito a cui gli investigatori cercano di dare spiegazioni. Probabile avesse in mente un attentato terroristico. Non è la prima volta che l' istinto criminale si impadronisce di lui, la sua fedina penale è sporca. C' è anche un precedente per guida in stato d' ubriachezza: chi gli ha affidato un carico di vite innocenti dovrà rispondere a qualche domanda. Ousseynou Sy devia il percorso stabilito e imbocca la Provinciale 415, la Paullese, verso l' aeroporto. Cosa intende fare? Secondo gli investigatori lanciare il pullman in fiamme contro il terminal. «Voleva arrivare sulla pista, ce l' aveva con il governo per le politiche sui migranti», racconterà uno dei professori che accompagnava le due classi. Accanto al sedile l' uomo tiene due taniche coperte da sacchi neri e ha cosparso di benzina le cappelliere e i sedili. Aveva pianificato tutto, probabilmente da tempo. Forse ha deciso di agire nel giorno in cui il Senato discute del caso Diciotti e del processo al ministro dell' Interno. «Ci ha preso i telefoni, un mio compagno però è riuscito a nasconderlo. Eravamo stati legati con le fascette da elettricista. Minacciava di versarci addosso benzina e darci fuoco», dirà una delle ragazzine sequestrate. Sullo scuolabus viaggia il terrore, anche i tre insegnanti che accompagnano gli scolari vengono ammanettati. Nessuno può muoversi, nessuno può parlare o disperarsi perché Ousseynou Sy lo ordina: con la mano destra impugna il volante e nella sinistra stringe un accendino. Le lacrime rigano i visi di 51 bambini che s' illudevano di andare a giocare a pallavolo in palestra e tornarsene poi in famiglia. L'autista continua a gridare e farneticare: «Le persone in Africa muoiono e la colpa è di Di Maio e di Salvini. Sono qui a vendicare gli immigrati morti in mare». E ancora minaccia: «Qui non scende nessuno, nessuno torna vivo. State buoni o vi brucio». Aveva anche girato e diffuso un video in cui esplicitava il proprio intento stragista. Se i giovani si sono salvati è solo grazie a uno di loro, che è riuscito a nascondere il cellulare: ha avvertito i genitori che hanno allertato i carabinieri. Scattano una serie di posti di blocco, intanto le pattuglie inseguono il bus che procede zigzagando da destra a sinistra sulla Paullese. L' autista forza uno sbarramento allo svincolo di Peschiera Borromeo, speronando le gazzelle che ostruiscono la strada, ma perde il controllo e finisce contro il guardrail. Non è un urto violento, Ousseynou Sy non è ancora soddisfatto: cosparge i sedili con altra benzina e appicca il fuoco. I bambini sono dentro mentre si alzano le fiamme e il fumo invade l' abitacolo. Moriranno tutti soffocati o arsi vivi se non si fa subito qualcosa. I militari rompono i finestrini e fanno irruzione sradicando la porta posteriore. Gli scolari scappano fuori a perdifiato, mentre l' aria dentro si fa irrespirabile e il fuoco avvolge il mezzo. Ne resterà solo la carcassa. L' autista tiene immobilizzati due alunni accanto a sé e minaccia di ucciderli, non si dà per vinto finché i militari non lo arrestano. Sono passati 40 minuti da quando è cominciato il sequestro. Solo dopo si saprà che nella sua corsa lo scuolabus ha investito anche una macchina con a bordo un padre e un bambino. L' auto ha preso fuoco ma l' uomo con in braccio il piccolo sono usciti in tempo. Il bilancio della mattinata di follia, come spiega il prefetto di Milano, Renato Saccone, è il seguente: 12 studenti e due adulti portati in ospedale per lieve intossicazione, 23 bambini sono stati visitati sul posto in una palestra dell' istituto Margherita Hack di San Donato. Un bimbo è in codice giallo alla De Marchi, gli altri in codice verde. L' autista invece, che è piantonato al San Paolo per ustioni a mani e braccia, è in stato d' arresto per sequestro di persona aggravato da terrorismo e dalla minore età delle vittime, strage, incendio e resistenza. Ousseynou Sy, senegalese di origine ma con cittadinanza del nostro Paese dal 2004, ha una ex moglie italiana e due figli di 12 e 18 anni. Per dovere di cronaca, riportiamo la dichiarazione di Autoguidovie, la società di gestione del servizio scuolabus: «L' uomo, nostro collaboratore almeno dal 2002, dal 2004 era in servizio a tempo pieno. Negli anni non ha mai dato segnali di squilibrio, né avevamo mai ricevuto reclami sulla sua condotta. A livello di compartimento aziendale non eravamo a conoscenza dei suoi precedenti penali». In serata era in corso una perquisizione a casa del senegalese alla ricerca di indizi che possano servire alle indagini. È legato a gruppi terroristici? Può trattarsi di uno jihadista della porta accanto? Il procuratore di Milano, Francesco Greco, spiega: «Stiamo valutando tutte le ipotesi, anche quella del terrorismo». Infatti dell' inchiesta si sta occupando anche Alberto Nobili, capo del pool antiterrorismo milanese. L' uomo risulta comunque «sconosciuto» dal punto di vista dei sospetti legati a gesti eversivi e terrorismo islamico. Non è mai stato segnalato per episodi di radicalismo. «È stato un miracolo, poteva essere una strage, sono stati eccezionali i carabinieri sia a bloccarlo sia a liberare tutti i bambini», aggiunge ancora Greco. Il magistrato vorrebbe interrogare subito Ousseynou Sy, ma non è possibile per le ustioni che ha riportato. Inoltre quando è stato fermato era «visibilmente alterato», sono in corso anche accertamenti sulle sue condizioni psichiche. Che nessuno aveva mai messo in discussione, tanto da affidargli uno scuolabus e 51 bambini.
Andrea Galli e Cesare Giuzzi per il Corriere della Sera il 21 marzo 2019. Paolo che ci pensava da giorni. Paolo che ieri mattina al bar ha detto che andava «a prendere i ragazzi in palestra e ci si vedeva dopo». Paolo che ha riempito due taniche di benzina da dieci litri ciascuna. Paolo che voleva arrivare a Linate e «prendere un aereo». Che non voleva più vedere i «bambini sbranati dagli squali nel Mediterraneo» e per questo ne ha presi 51 in ostaggio, spargendo la benzina sui sedili e sulle cappelliere, «ma non gli avrei mai fatto male». Paolo che ha detto di aver visto quella barca al largo di Lampedusa in televisione, con il suo carico di migranti e il governo italiano che non voleva accoglierla. Paolo che si chiama Ousseynou Sy, ed è italiano da 15 anni anche se viene dal Senegal. E a Crema lo chiamano tutti così: «Paolo». L' autista delle Autoguidovie che dice di non pregare nemmeno, di essere laico e di non aver niente da spartire con l' Isis e i kamikaze islamici. Ma di farlo per i morti nel Mediterraneo. Ousseynou Sy, 47 anni il prossimo 2 giugno, l' attentatore di San Giuliano, abita a Crema. Una casa color salmone, un appartamento al primo piano. Si è trasferito lì da 5 anni, dopo la separazione dalla moglie italiana - ieri sentita a lungo dai carabinieri di Castelleone, in provincia di Cremona -, donna alla quale sono affidati i due figli maschi di 12 e 18 anni. Sy ha chiesto e ottenuto la cittadinanza italiana nel 2004. Nel suo interrogatorio in Procura, assistito dal legale Fabio Lacchini, ha detto di essere dispiaciuto per i ragazzini, ha ripetuto che non voleva uccidere nessuno. E di non essere un kamikaze. Tanto che quando ha visto i carabinieri sbarrargli la strada, ha cercato di forzare il blocco, di andare avanti. Verso l' unico obiettivo chiaro del suo piano folle: «Volevo prendere un aereo». Ma non è certo se per partire oppure «soltanto» per bloccare l' aeroporto. «Però non avrei ucciso nessuno», ha minimizzato davanti ai pm Luca Poniz e Alberto Nobili, capo del pool Antiterrorismo. Ai magistrati ha raccontato di averlo fatto per un ideale, l' idea di chi «vuole attirare l' attenzione in modo eclatante per mettere fine alle morti nel Mediterraneo». Parla di sé come un «eroe», il solo che ha il coraggio di intervenire per scuotere le coscienze. Ma che lo fa lanciando in strada un pullman carico di bambini e di benzina. Ousseynou Sy, detto Paolo, è l' uomo dalle mille maschere. Quella del lavoratore perfetto, addetto alle pulizie così attento da spingere i superiori a fargli prendere la patente, e trasformarlo in autista. Quella del padre premuroso. Ma anche quella del pregiudicato benché intorno a lui - a cominciare dai responsabili delle Autoguidovie - nessuno sapesse del precedente per abusi sessuali su minore (2011) né di quello del 2007 a Brescia per guida in stato d' ebbrezza. Per la violenza sessuale è stato condannato nel 2018 a un anno con pena sospesa. Sy non era censito come «suspected», a rischio di radicamento islamico. E secondo l' Antiterrorismo della Digos, del Nucleo informativo e del Ros dei carabinieri, non era considerato neppure un islamico praticante. La sua, piuttosto, è la storia di un forte abuso di alcol. Gli inquirenti stanno verificando eventuali ricoveri o problemi di natura psichica. L' attentatore Sy aveva pianificato tutto da almeno tre giorni. Da prima, quindi, dello sbarco a Lampedusa della nave Ong «Mare Jonio», ma anche dell' attacco di Utrecht. Però è possibile - sono convinti gli investigatori - che questi fatti siano stati l'«innesco». La «goccia». Un' azione di emulazione ma non unicamente, poiché il 46enne aveva girato un video con il cellulare e ieri mattina lo aveva inviato ad alcuni dei suoi contatti in Italia e in Senegal. Un filmato dove sprona l' Africa a reagire e spende deliri sulla necessità di fermare l' immigrazione. Non un testamento, ma una sorta di delirante manifesto.
Il piano pronto da giorni e quel video diffuso agli amici in Senegal: «Dobbiamo reagire». Milano, autista blocca bus di studenti e appicca il fuoco: accusa di strage e terrorismo. "Gesto premeditato per i migranti morti". "Lupo solitario, non legato all'Isis": arrestato il 46enne senegalese, autista che questa mattina ha sequestrato e dato fuoco a un bus. I 51 studenti a bordo salvati dai carabinieri. Ha detto ai pm: "Se non foste intervenuti non si sarebbe fatto male nessuno", scrivono Oriana Liso, Massimo Pisa e Franco Vanni il 20 marzo 2019 su La Repubblica. Ha dirottato lo scuolabus che stava guidando, con due classi di 51 studenti di seconda media a bordo, tenendoli per 40 minuti sotto sequestro con la minaccia di uccidere tutti. Adesso Ousseynou Sy è accusato di sequestro di persona e strage con l'aggravante della finalità terroristica. "Un gesto premeditato: voleva che tutti sapessero e voleva sollevare la questione della strage dei migranti nel Mediterraneo", spiegano adesso i procuratori che si occupano del caso, aggiungendo che "l'uomo era un lupo solitario, senza legami con l'Isis". Ma è una strage quella che si è evitata a San Donato Milanese: "Soltanto grazie al coraggio e alla professionalità dei carabinieri un giorno che si sarebbe ricordato per decenni è finito bene: hanno compiuto un'operazione che vediamo nei film con le squadre speciali". Ed è in procura, in una pausa dell'interrogatorio di Ousseynou Sy, che è stato ricostruito l'accaduto. Ousseynou Sy, 46enne di origini senegalesi ma cittadino italiano dal 2004 - quando ha sposato una donna italiana, da cui poi ha divorziato e ha avuto due figli - è da molti anni autista della società Autoguidovie. Questa mattina doveva accompagnare le due classi - 51 studenti, due insegnanti e una collaboratrice scolastica - della scuola media Vailati di Crema in palestra. Ma una volta alla guida ha subito cambiato direzione: "Ci ha detto che la sua intenzione era di andare a Linate", spiega il procuratore Alberto Nobili. Da subito cosparge l'interno del bus di benzina e intima ai professori di legare i polsi dei bambini con le fascette da elettricista - fascette e tanica che gli costeranno anche la premeditazione del gesto - iniziando a gridare che "Di qua non esce vivo nessuno" e a parlare dei "bambini morti nel Mediterraneo", dando anche "la colpa a Di Maio e Salvini". Ai bambini fa anche lasciare i cellulari in fondo al bus ma, come raccontano in procura, gli adulti hanno legato debolmente i polsi dei bambini seduti più distanti dall'autista. Uno di loro riesce a liberarsi e a prendere un cellulare, chiamando il 112. La telefonata viene presa subito sul serio: due autoradio, spiega il colonnello Luca De Marchis, intercettano il bus all'altezza di Pantigliate, ma l'autista le sperona e continua la sua corsa. Altre tre auto, a quel punto, bloccano il mezzo: l'autista si ferma e mentre due carabinieri si avvicinano al suo finestrino parlandogli, gli altri carabinieri vanno sul retro del bus e con lo sfollagente rompono i vetri. In quel momento, mentre i carabinieri aiutano tutti ad uscire, il senegalese appicca il fuoco con l'accendino che ha in mano. "Le fiamme sono divampate mentre alcuni bambini erano ancora all'interno", conferma il colonnello. In quei momenti di grande concitazione il senegalese decide di scendere dal bus, viene bloccato - ha ustioni alle mani - e dice di averlo fatto "per i morti nel Mediterraneo". Il bilancio, quindi, è quasi un miracolo: 12 bambini e 2 adulti vengono portati in ospedale per escoriazioni e principio di intossicazione, tutti gli altri vengono portati in una palestra poco distante dove vengono raggiunti dai genitori. Ousseynou Sy viene prima portato al Niguarda per le medicazioni e poi in procura per l'interrogatorio con Nobili e il pm Luca Poniz, a cui il procuratore capo Francesco Greco ha affidato il caso. Nei suoi primi racconti, che dovranno essere tutti vagliati (e si aspetta anche il risultato degli esami tossicologici) la sua intenzione era appunto quella di arrivare a Linate e di fuggire in Senegal con un aereo. "Se non fossero intervenuti i carabinieri nessuno si sarebbe fatto male", ha detto ai pm. La benzina e le fascette servivano, nel suo racconto, "a tenere buoni i bambini". Ha ammesso di avere portato un coltello da cucina, mentre non conferma di avere avuto una pistola, anche se alcuni testimoni dicono di averla intravista. Tra le ammissioni, quella di aver girato prima del sequestro del bus un video, caricato su Youtube "e inviato in Senegal a familiari e amici". L'uomo avrebbe ripetuto di voler "punire l'Europa per le politiche sui migranti" e di "non poterne più di vedere i bambini sbranati dagli squali". Nell'interrogatorio Sy ha aggiunto che il caso della nave Mare Jonio è stato "l'episodio scatenante, la goccia che ha fatto traboccare il mio vaso". Ma, ribadisce la procura, Ousseynou Sy "non è inquadrabile in un contesto radicalizzato nè di stragismo islamico: sembra piuttosto un lupo solitario, sembra non aver fatto alcuna riflessione di legarsi all'Isis". Ma è polemica anche per il fatto che Sy avesse un precedente per guida in stato di ebbrezza nel 2007 e una condanna - diventata definitiva nel 2018 - a un anno con pena sospesa per violenza sessuale su minori. Ma la società Autoguidovie già stamani ha precisato che "l'uomo, nostro collaboratore almeno dal 2002, dal 2004 era in servizio a tempo pieno. Negli anni non ha mai dato segnali di squilibrio, né avevamo mai ricevuto reclami sulla sua condotta come autista. A livello di compartimento aziendale (Crema e zone limitrofe) non eravamo a conoscenza dei suoi precedenti penali". L'aggravante del terrorismo è ricondotta all'articolo 270-secies del codice penale, relativo alle condotte con finalità di terrorismo, afferma che "sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l'Italia".
Milano, bus studenti incendiato. La ragazzina: "L'autista ci ha legato e ha versato la benzina". Scuolabus sequestrato nel Milanese: sfiorata la prima strage terroristica di bambini. Il confine dello spazio di sicurezza che circonda le nostre famiglie è oggi arretrato di vari metri, scrive Lucia Annunziata, Direttore Huffpost Italia il 20 marzo 2019. Non è mai facile pensare a cosa sarebbe stato, quando le cose finiscono bene. Ma non ci vuole molta immaginazione a capire, persino per il più distratto di noi, quello che abbiamo sfiorato oggi su un' autostrada nei dintorni di Milano: il pianto dei ragazzini, le loro urla di paura mentre scappavano, i genitori trafelati, l'eroismo di questa nuovissima generazione che usa il telefono come un secondo cervello per salvarsi. Immagini e parole che resteranno piantate nel ricordo di tutti, i bambini ammanettati ostaggio di un autista che avrebbe dovuto proteggerli, la tanica di benzina, l'assalto dei carabinieri a quel fortino chiuso, i soccorsi, e le fiamme finali. E no, non si trattava di Siria, Afghanistan, Nigeria, Yemen. Era la tranquilla fascia urbana lombarda, attraversata ogni giorno da decine di auto con a bordo gente che va al lavoro, e che ogni giorno ci va solo dopo aver lasciato i propri figli nelle mani rassicuranti di un uomo che guida un pulmino. Un pulmino, simbolo di infanzia, sicurezza, scuola, protezione. Lo stesso pulmino divenuto un'arma di guerra, e potenzialmente di morte. Che tutto si sia risolto bene non deve farci negare quello che abbiamo visto affacciandoci su quei minuti drammatici. Siamo stati a un filo, a un soffio, dalla prima grande strage contro civili di stampo terrorista in Italia. Una strage di bambini. Un limite è stato superato, a San Donato Milanese. Il confine dello spazio di sicurezza che circonda le nostre famiglie è arretrato di vari metri. Quale genitore non ha realizzato oggi che poteva essere al posto di quegli adulti, che il passaggio dalla serenità alla paura si è fatto più stretto? Chi da oggi non guarderà con apprensione, incrociandolo sulla strada del lavoro, uno dei tanti pulmini scolastici? Certo, sicuro, ora si apre la fase della disamina degli errori, della disamina della biografia del guidatore, delle polemiche sulle responsabilità delle amministrazioni e della politica. Saranno colpevoli Salvini e di Maio, come ha gridato il guidatore? O saranno colpevoli le élite che non vogliono accettare i cambiamenti? Ma mentre la solita commedia del dibattito nazionale si evolve con i suoi soliti ritmi va la pena di prendere atto. Il punto è che ogni giorno abbiamo altre prove di quanto fragile siano diventate le reti sociali che ci hanno offerto sempre certezze, di quanto la violenza stia diventando pervasiva. Al punto da minacciare anche gli angoli più protetti della nostra vita, quali le nostre famiglie. La violenza sta diventando, in molti modi, reale e immaginaria, sulle autostrade del mondo e quelle del web nostra compagna di strada, persino nella dolce Italia. È una vera e propria degenerazione della qualità del mondo come lo conoscevamo. Una realtà che, come è umano che sia, felici di aver abbracciato ancora vivo il nostro bimbo, siamo pronti a negare. Per un altro giorno, un altro pugno di ore. Per l'illusione di una speranza eterna.
Il terrore in mezzo a noi, scrive il 20 marzo 2019 Andrea Indini su Il Giornale. Gli occhi di quei 51 ragazzini sono gli occhi di tutta Italia. Sbarrati dal terrore, colmi di lacrime per il dramma che gli brucia davanti. Per la prima volta nella loro giovane vita hanno visto sbocciare il germe violento di una ideologia cieca e sanguinaria. E, attraverso i loro occhi impauriti, tutto il Paese ha potuto toccare con mano per la prima volta l’incubo che in passato aveva già sconvolto quasi tutti gli Stati occidentali. La procura di Milano ha contestato l’aggravante terrorismo. la ricostruzione dell‘attacco allo scuolabus ha subito spinto gli inquirenti in quella direzione. Non poteva assolutamente derubricare l’assalto al gesto di un folle né tantomeno a un momento di pazzia. Perché Ousseynou Sy, 47enne senegalese con la cittadinanza italianae due figli a carico, ha premeditato ogni sua mossa esattamente come fanno i terroristi islamici prima di colpire. Aveva con sé un coltello, con cui ha minacciato gli insegnanti, le fascette da elettricista, con cui ha legato i polsi ai ragazzini, e una tanica di benzina con cui ha dato fuoco allo scuolabus. Il suo obiettivo primario, poi, non era far male a studenti e professori. Il pullman era “solo” un mezzo per andare a colpire l’aeroporto di Linate. Un obiettivo molto più sensibile, quindi. Probabilmente pensava a un attentato che avrebbe potuto far male a molte più persone. “Da qui – ha promesso ai presenti mentre percorreva la provinciale – non esce vivo nessuno”. Nessuno può sapere cosa avesse in mente. Si possono azzardare delle ipotesi. La più plausibile è che volesse accendere il bus come una torcia e lanciarlo contro lo scalo di Milano. Nelle prossime ore le indagini e l’interrogatorio potranno darci qualche dato in più.
Mentre è certa la pista terroristica, serve maggiore cautela sulla matrice. “Voglio vendicare i morti in mare”, ha detto ai ragazzini mentre sequestrava lo scuolabus. E ancora: “Le persone in Africa muoiono per colpa di Salvini e Di Maio”. Sono dichiarazioni che troppo spesso riecheggiano nelle piazze anti governative. Certo, Ousseynou Sy ha usato queste motivazioni per accendere la miccia dell’odio nei confronti del Paese che lo ha accolto. I bimbi, come probabilmente le persone contro cui si sarebbe scagliato a Linate, erano le vittime sacrificali per vincere la sua guerra. Per quei 51 ragazzini l’incubo vissuto oggi ritornerà ogni qual volta dovranno salire su un autobus. Lo proveranno ancora e ancora fino a quando, sepolto nel subconscio, non sfocerà in un senso di insicurezza latente. La stessa che dopo l’11 settembre attanaglia gli occidentali che devono convivere col terrore. Fino ad oggi l’Italia non lo aveva provato sulla propria pelle e, grazie al coraggio dei carabinieri, non hanno vite spezzate da piangere. Tuttavia, ci obbliga a riaprire gli occhi sull’estrema difficoltà a prevenire gli attacchi terroristici. In questo caso, si sarebbe potuto fare molto di più. Come è possibile che uno come Ousseynou Sy, con precedenti penali per violenza sessuale e guida in stato di ebrezza, fosse al volante di uno scuolabus zeppo di ragazzini delle medie? Come già successo in passato, chi avrebbe dovuto controllare non lo ha fatto. Che questo possa, per lo meno, essere da lezione per chi a sinistra vuole abbattere le leggi anziché farle rispettare ed è sempre disposto a giustificare chi attacca a parole il nostro Paese. Perché dagli attacchi verbali a quelli armati, il passo è sempre breve.
Benzina, coltello e fascette: il folle piano di Ousseynou Sy. L'autista del bus aveva comprato 10 litri di benzina e delle fascette da elettricista. Così il lupo solitario aveva pianificato tutto, scrive Angelo Scarano, Mercoledì 20/03/2019, su Il Giornale. Aveva pianificato tutto. Aveva comprato due tanniche con 10 litri di benzina, delle fascette da elettricista. E soprattutto aveva postato su Youtube un video per dire basta ai troppi naufragi delle carrette del mare. "Non ce la faccio più a vedere i bambini morire mangiati dai pescecani e le donne incinte affogare", si sente nel messaggio destinato a amici e parenti in Italia e in Senegal. Per il 47enne senegalese Ousseynou Sy, padre di due figlie, diventato cittadino italiano nel 2004 dopo aver sposato una ragazza di Crema da cui poi si era separato, l'"Africa doveva rialzarsi" e i suoi connazionali non dovevano più partire per l'Europa, da punire per le sue "politiche criminali sulla migrazione". Così ha progettato il suo folle piano. Ha deciso di dirottare lo scuolabus con cui accompagnava 51 studenti, due professori e una bidella, dalla palestra alla scuola media Vailati di Crema e ha cercato di raggiungere Linate, da dove "avrebbe voluto prendere un aereo per tornare in Senegal", hanno spiegato il capo del pool antiterrorismo Alberto Nobili e il pm Luca Poniz che in serata hanno interrogato Sy per un paio d'ore. Pesanti le accuse a suo carico: strage, sequestro di persona con l'aggravante del terrorismo, non perchè Sy, che "è un cane sciolto" , abbia aderito all'Isis o altre organizzazioni jihadiste, ma per "l'entità del suo gesto". L'autista, che stando ai racconti dei ragazzi era armato di coltello e anche di pistola (non ancora trovata), ha cosparso i sedili e le cappelliere di benzina e poi si è diretto verso Milano. "Se non fossero intervenuti i carabinieri, non si sarebbe fatto male nessuno", ha tentato di giustificarsi il 47enne, che ha alle spalle dei precedenti del 2004 e del 2006 per guida in stato di ebbrezza ed è stato condannato in via definitiva nel 2018 ad un anno per violenza sessuale, davanti ai magistrati. I carabinieri che sono intervenuti per bloccare lo scuolabus, invece, hanno parlato di una situazione che sarebbe potuta degenerare da un momento all'altro. "Se i bambini, i due insegnanti e la bidella sono salvi lo dobbiamo al coraggio e all'organizzazione dell'Arma e al personale della stazione di San Donato Milanese", ha detto il procuratore di Milano Francesco Greco. "I carabinieri hanno compiuto un'operazione che vediamo nei film con le squadre speciali - ha aggiunto - sono riusciti a bloccare il bus e hanno deciso di intervenire" prima che ci fosse una strage. A chiedere aiuto è stato uno studente, che è riuscito a liberarsi dalle fascette con cui gli insegnanti, su ordine di Sy, gli avevano bloccato i polsi e le caviglie ai sedili del bus. I bambini nelle file più vicine all'autista erano stati legati stretti, mentre quelli in fondo meno. E proprio uno di loro ha preso il cellulare e avvisato i genitori, che hanno a loro volta avvertito i carabinieri. Le ricerche del mezzo dirottato sono scattate immediatamente: lo scuolabus è stato individuato poco lontano da San Donato. L'autista ha speronato diverse auto dei carabinieri, ha sbandato per un centinaio di metri procedendo a zig zag sulla Paullese e poi ha tamponato un'auto con bordo un bambino di 4 anni e si è praticamente fermato contro le barriere Jersey di cemento. Alcuni carabinieri sono riusciti a sfondare il vetro posteriore e a fare uscire i bambini, mentre due militari distraevano il 4.
Quel video caricato sul web prima dell'attacco al bus. Su YouTube un video dell'autista che, a volto scoperto e in primo piano, esorta gli africani: "Sollevatevi", scrive Nico Di Giuseppe, Mercoledì 20/03/2019 su Il Giornale. "Ha agito come momento di esasperazione contro l'attuale situazione migratoria, voleva fare un gesto eclatante per il quale aveva registrato un video con il suo viso in primo piano: un video caricato su YouTube che aveva già diffuso in Senegal per dire "Africa sollevati: non venite più in Europa". Emergono nuovi dettagli sull'attacco al bus da parte di Ousseynou Sy, l'autista 47enne di origini senegalesi che questa mattina ha dirottato e tentato una strage di bambini nel Milanese. E a riferirli è il pm antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili, che ha aggiunto: "Voleva punire l'Europa per la politica che sta seguendo inaccettabile contro i migranti. Ha sostanzialmente ammesso la sua condotta e la premeditazione, lo aveva ponderato da qualche giorno". E ancora: "Ha fatto tutto da solo, non ha consultato nessuno e non ha ricevuto nessuna direttiva. Voleva che tutto il mondo potesse parlare della sua vicenda e prendere atto che le morti in mare con bambini sbranati da squali dovevano finire". Il video è stato diffuso e inviato, tra ieri sera e stamane, sia ad alcuni amici a Crema che ad alcuni parenti in Senegal. Il pm ha escluso che Ousseynou Sy sia inquadrabile in un contesto radicalizzato o di stragismo islamico: "Sembra piuttosto un lupo solitario". Secondo il pm l'uomo non aveva fatto alcuna riflessione di legarsi all'Isis. Sy è comunque indagato per sequestro di persona, strage, incendio con l'aggravante terroristica, poiché il suo gesto ha creato panico e paura in un gran numero di persone. Intanto, Salvini ha annunciato il pugno duro: "Domani mando una circolare a tutti i sindaci per fare quello dovrebbe essere scontato ma che non tutti fanno: chi lavora a contatto col pubblico porti la fedina penale. Certificato penale obbligatorio, possibilità di revoca della cittadinanza se c'è aggravante di terrorismo e videosorveglianza nelle scuole e negli asili nido. Voglio capire chi gli ha messo in mano quell'autobus a questo signore".
"Siamo scesi armi in pugno". Il racconto del carabiniere eroe ferito. Il racconto del carabiniere che ha fermato l'attentatore del bus. Rotto il vetro posteriore del bus per salvare gli alunni, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 20/03/2019 su Il Giornale. Parlare col senno di poi è facile. Troppo. Ha ragione il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, a dire che il "miracolo" è stato possibile solo grazie a quei carabinieri "eccezionali" che sono riusciti a estrarre fuori dal bus i bambini prima che divampassero le fiamme. Bisognava essere lì per capire la difficoltà dell'intervento. Poteva essere una strage, il massacro della Paullese. E se il folle gesto di un autista senegalese non ha spezzato la vita di 51 alunni delle medie, lo dobbiamo alle mani nude del militare (e dei 3 colleghi) che hanno spaccato il vetro del pullman. A volte c'è bisogno di simboli per capire fino in fondo un fatto. Le immagini aiutano, certo. Ci sono i bambini che urlano impauriti mentre sfuggono alla morte. Ma c'è anche quello scatto della mano ferita del carabiniere. È questo forse il vero emblema della giornata di terrore.
La benda copre i tagli rimediati questa mattina dal militare della stazione dell'Arma di Segrate. Sono le 11.50 quando al 112 arriva la chiamata di un ragazzino delle medie a bordo di un bus delle Autoguidovie: l'autista, un senegalese, li ha sequestrati e minaccia di dare fuoco al mezzo con una tanica di benzina e un accendino. "Vado a fare una strage a Linate", urla Osseynou Sy agli studenti. Vuole vendicare “i morti nel Mediterraneo". Lega con delle fascette le mani dei ragazzini. Li tiene sotto scacco. I carabinieri raggiungono il bus e lo bloccano all'altezza dello svincolo di Peschiera Borromeo. L'autista forza il blocco, trascina la gazzella per diversi metri. Poi si ferma. I militari tamponati scendono dall'auto, spaccano il vetro posteriore del bus e traggono in salvo i 52 studenti. È un gesto eroico. I carabinieri disarmano il senegalese mentre minaccia di uccidere due alunni presi ad ostaggio. La procura gli contesterà l'aggravante di terrorismo. Alla fine, 12 studenti con un principio di intossicazione vengono medicati all'ospedale di San Donato. In corsia anche due adulti, di cui uno in codice giallo. Tra i feriti ci sono tre uomini in divisa, oltre al militare ferito alla mano. A chi lo ha raggiunto in ospedale, il carabiniere confida di aver provato molta "tensione". Non sono stati momenti facili. "Quando l'autobus ha trascinato l'auto di servizio eravamo dentro", racconta ai colleghi. "Siamo scesi con le pistole in mano, ma abbiamo deciso di non utilizzarle perché abbiamo visto una marea di bambini". Il sangue freddo gli ha permesso, con invidiabile lucidità, di evitare "una strage". E non è cosa da poco.
La commovente lettera ai carabinieri eroi: "Orgogliosi dell'uniforme". La missiva dei colleghi inviata ai carabinieri che hanno salvato gli alunni dal bus in fiamme. Salvini: "Grazie a questi eroi", scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 21/03/2019, su Il Giornale. Una lettera commovente. Vera. Dedicata ai quattro carabinieri "eroi" che hanno salvato i 51 ragazzini a bordo del bus dato alle fiamme, lungo la Paullese, dal senegalese Osseynou Sy.Il loro intervento è stato fondamentale: come raccontato dal Giornale.it, hanno prima raggiunto il bus dopo la chiamata al 112 da parte di un alunno a bordo del pullman. Poi sono stati speronati, sono scesi dalla gazzella "armi in pugno" e "a mani nude" hanno divelto il vetro posteriore del mezzo estraendo i bambini terrorizzati. Il senegalese agitava un accendino, teneva due studenti in ostaggio, aveva cosparso il bus di benzina. Poco dopo è divampato l'incendio. La lettera dei colleghi ai quattro carabinieri è stata pubblicata dall'account ufficiale dell'Arma. "Nel giorno in cui nasce la primavera - si legge sui social - festeggiamo cinquantuno bambini tornati a casa. Cinquantuno bambini, la primavera della vita. È stato tutto molto semplice, tutto come mille altre volte: una richiesta di soccorso, l’allerta della Centrale, l’intervento. È stato straordinario. Voi in pochi, di fronte a un autobus impazzito che vi speronava, a una minaccia terribile e mortale, alle fiamme che già divoravano le lamiere. Avete vinto. Nessuno si è fatto male, nemmeno chi di quell’orrore era stato l’artefice. Perché le vite si salvano tutte. Siete stati gli angeli della strada, i supereroi che volano fra i grattacieli proteggendo la metropoli, l’argine contro la follia. Noi in tanti, 110 mila, che di fronte a tanto abbiamo solo una parola. Grazie. Grazie per averci resi orgogliosi della nostra uniforme. Per aver ricordato chi sono i Carabinieri, che cosa fanno da più di due secoli. Sono quelli che corrono verso il pericolo laddove l’istinto umano è fuggirne. Quelli che vedono in ogni bambino un figlio, in ogni donna una sorella, in ogni anziano un genitore. Grazie perché domani sarete di nuovo sulla strada. Correndo alla prossima chiamata, pensando che in fondo non avete fatto che il vostro dovere". Anche Matteo Salvini ha voluto ringraziare i militari accorsi in soccorso dei ragazzi. "Grazie a questi eroi - dice il ministro dell'Interno - grazie a quelli in divisa e ai giovanissimi che hanno dato l’allarme con grande coraggio. Poteva essere una tragedia, grazie a loro è stato un miracolo. Orgogliosi delle nostre Forze dell’Ordine". Orgogliosi.
La reazione in soli tre minuti: così l'Arma ha sopraffatto Sy. Non sono passati neanche venti minuti dalla chiamata al numero unico di emergenza alla soluzione del sequestro degli studenti a bordo dello scuolabus, ostaggio di Ousseynou Sy, lungo la Paullese, scrive Pina Francone, Venerdì 22/03/2019, su Il Giornale. Non sono passati neanche venti minuti dalla chiamata al numero unico di emergenza alla soluzione grazie ai carabinieri del sequestro degli studenti a bordo dello scuolabus, ostaggio di Ousseynou Sy, lungo la Paullese, all'altezza di San Donato Milanese. A riportarlo è il ministero dell'Interno, che ha ricostruito minuto per minuto i fatti del 20 marzo. Tutto inizia alle 11:27, quando arriva la telefonata di uno dei bambini in ostaggio, Rami Shehata, che denuncia il rapimento e il dirottamento dell'autobus. Alle 11:30, seguendo le indicazioni del giovane, la centrale operativa individua e allerta la stazione più vicina al luogo dell'evento. Alle 11:39 la pattuglia dei carabinieri di San Donato Milanese intercetta l'autobus sulla provinciale 412 Paullese e alle 11:45 il mezzo viene fermato sulla carreggiata. Dopo centoventi secondi, alle 11,47 mentre alcuni uomini dell'Arma cercano di convincere l'autista senegalese a consegnarsi senza fare del male a nessuno, altri militari rompono i finestrini e forzano le porte mettendo in salvo tutti i ragazzi e i docenti a bordo. Nello stesso lasso temporale, al Nue di Brescia sono arrivate ventinove telefonate relative a questo stesso fatto con un tempo medio di risposta di 2,6 secondi, un tempo medio di processamento delle chiamate di 51 secondi e di inoltro alle forze di polizia di 33 secondi. Per il Nue, su proposta del Viminale stesso, con l'ultima manovra finanziaria, sono stati stanziati 5,8 milioni di euro per il 2029, 14,7 milioni per il 2020 e 20,6 milioni per il 2021. E Al dicastero c'è grande soddisfazione: "La soluzione del dirottamento dell'autobus è stata possibile grazie all'efficacia del Nue e alla professionalità dei carabinieri. Carabinieri che, con le altre forze di polizia, costituiscono un elemento di orgoglio del sistema di sicurezza italiano coordinato dal ministero dell'Interno".
"Nostro compito salvare le vite" Premiati gli 11 carabinieri eroi. La cerimonia al comando generale dell'Arma a Roma. Il ringraziamento di Nistri, Mattarella e Di Maio ai carabinieri che hanno salvato i 50 bambini dell'autobus, scrive Bartolo Dall'Orto, Venerdì 22/03/2019, su Il giornale. "La loro vita era per noi, in quel momento, la priorità assoluta anche a discapito della nostra incolumità". Poche parole, semplici, ma che spiegano a pieno quanto fatto dai carabinieri che a San Donato Milanese, sulla Paullese, hanno tratto in salvo 51 bambini dalle fiamme del bus sequestrato da Ousseynou Sy. Oggi gli 11 militari intervenuti in quei drammatici 4 minuti di mercoledì mattina sono stati premiari presso il comando generale dell'Arma a Roma, alla presenza del comandante generale Giovanni Nistri, del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, e del vicepremier Luigi Di Maio. "Ci siamo immediatamente prodigati a salvare la vita dei bambini che avevamo visto intrappolati all'interno del bus in fiamme e non abbiamo avuto alcuna esitazione nell'infrangere i vetri per poterli liberare - ha raccontato il maresciallo capo Roberto Mannucci, comandante della stazione di Paullo, in provincia di Milano - La loro vita era per noi, in quel momento, la priorità assoluta anche a discapito della nostra incolumità. Siamo felici di averlo fatto, semplicemente facendo il nostro dovere". Come raccontato dal Giornale.it, per riuscire a liberare i bambini dall'autobus dirottato dall'autista senegalese i carabinieri hanno dovuto rompere con le mani i vetri del mezzo. "La paura per un figlio credo che sia indescrivibile, in quel momento, chi più e chi meno, si è sentito genitore, io mi sono sentito padre - ha raccontato a Povera Patria l'appuntato scelto Andrea Celeste - Ci siamo buttati lì senza pensarci due volte affinché venissero tratti in salvo. Siamo stati genitori di 50 bambini". L'allarme è arrivato dalla chiamata del piccolo Rami (che ora potrebbe ricevere la cittadinanza per meriti speciali) e "ci è voluto meno di un minuto", ha raccontato l'appuntato Domenico Altamura che ha risposto al centralino, per far scattare l'intervento delle gazzelle. Gli attimi della cattura dell'attentatore - ha aggiunto il militare - "sono stati molto concitati" visto che "i bambini erano tratti in salvo ed era rimasto solo l'attentatore, si è fatto in modo di prenderlo, immobilizzarlo e mettere anche lui in sicurezza". Perché prodigarsi anche per lui? "Il nostro compito è salvare ogni vita, anche la sua, perciò lo abbiamo portato fuori dalle fiamme". Per ringraziare i colleghi, alcuni carabinieri hanno scritto e reso virale una commovente lettera per onorare il loro intervento. Anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha telefonato al comandante generale dell'Arma per esprimergli "il suo personale ringraziamento e quello della Nazione per l'operazione condotta nel Milanese, che ha consentito non solo di salvare la vita dei 51 bambini e dei loro accompagnatori, ma anche di scongiurare altri possibili rischi". Nistri, inoltre, ci ha tenuto a precisare che "questa è l'Arma, fatta di persone normali, umili ma non modeste, di persone che indossano una divisa, sanno qual è il peso di questa divisa, e nell'ordinarietà di ogni giorno danno risposte straordinarie". Non sono "eroi", dice. Ma "carabinieri comuni": "Questi sono i carabinieri". Punto.
"Precedenti per abusi sessuali su minori". Chi è l'attentatore senegalese. Ousseynou Sy dirotta il mezzo, su cui viaggiano 51 bambini, e gli dà fuoco urlando "Lo faccio per i migranti". Aveva precedenti per guida in stato di ebbrezza e violenza sessuale, scrive Andrea Indini, Mercoledì 20/03/2019 su Il Giornale. "Perché una persona con simili precedenti guidava un pullman per il trasporto di ragazzini?". Non appena la notizia è arrivata al Viminale, Matteo Salvini si è messo subito al lavoro per "vederci chiaro". Perché, quanto successo questa mattina sulla strada provinciale 415 che collega Pantigliate a San Donato Milanese, in provincia di Milano, ha dell'incredibile. Il conducente di un autobus delle autolinee padane, un senegalese con la cittadinanza italiana e una sfilza di precedenti per guida in stato di ebbrezza e violenza sessuale, ha dirottato il mezzo, sul quale viaggiavano 51 bambini e diversi insegnanti, e infine gli ha dato fuoco minacciando di togliersi la vita. "Lo faccio per i migranti, basta morti nel Mediterraneo". Sono riecheggiate queste parole quando Ousseynou Sy, dopo aver legato i giovani con alcune fascette da elettricista, ha iniziato a spargere del combustibile, molto probabilmente benzina, sui sedili e nel corridoio dell'autobus (guarda il video). "Le persone in Africa - ha urlato - muoiono per colpa di Di Maio e Salvini". Avrebbe dovuto riportare in classe gli studenti della scuola media Vailati di Crema, dopo essere stati in palestra, e invece ha impugnato un coltello e ha dirottato il mezzo puntando dritto verso l'aeroporto di Milano. "Andiamo a Linate - ha detto agli ostaggi - qui non scende più nessuno". E ancora: "Da qui non esce vivo nessuno". Le prime telefonate per lanciare l'allarme sono arrivate dai passeggeri che hanno contatto il numero unico 112. "Aiuto - ha urlato uno dei ragazzini - dice che vuole dare fuoco a tutto". Questa telefonata ha consentito ai carabinieri di intervenire prontamente ed evitare una vera e propria strage. L'operazione per fermare il sequestratore, che da almeno quindici anni lavora alla società Autoguidovie, è stata difficile e pericolosa. I militari hanno formato un posto di blocco che Ousseynou Sy ha sbalzato speronandolo con estrema violenza (guarda il video). Lo scuolabus ha, quindi, zigzagato in mezzo al traffico della provinciale trascinando per almeno un'ottantina di metri la macchina dei carabinieri. Lui, che ha avuto due figli dalla ex moglie italiana, non si è fatto alcun problema a mettere a rischio le vite della scolaresca. Probabilmente, una volta arrivato a Linate, li avrebbe sacrificati nel suo sanguinario piano di attaccare l'aeroporto. "Ho visto i ragazzini abbracciarsi tra loro e piangere, ho visto le fiamme alte e il fumo denso", racconta Franco Lucente, capogruppo di Fratelli d'Italia in Regione Lombardia, che si trovava a pochi metri dall'incendio propro mentre il 47enne aveva appiccato il fuoco nell'autobus. "Uno scenario apocalittico - continua - l'unico sollievo è che gli studenti siano tutti sani e salvi". Portato in caserma a San Donato, Ousseynou Sy è indagato per strage e sequestro di persona. Adesso che la tragedia è scampata, agli inquirenti e alla politica toccherà capire come sia possibile che uno scuolabus venisse affidato a uno con precedenti per violenza sessuale sui minori e guida in stato di ebrezza. Anche se i servizi segreti non hanno mai riscontrato tendenze eversive o legami con ambienti terroristici, la sua fedina penale avrebbe comunque dovuto accendere più di un campanello di allarme. "Il Comune di Crema si è schierato pubblicamente contro il decreto Sicurezza, ma la foga a favore dei clandestini gli ha fatto sfuggire i problemi reali", denunciano i sottosegretari all'Interno, Stefano Candiani e Nicola Molteni, chiedendo ora "un rigoroso accertamento delle responsabilità per un affidamento così gravemente superficiale".
"Ragazzina, ti porto a casa io". Le molestie di Sy sul pullman. Dal passato dell'autista senegalese emergono episodi inquietanti: la notte da incubo di una ragazza a bordo del suo bus, scrive Franco Grilli, Venerdì 22/03/2019 su Il Giornale. Ousseynou Sy non era certo una "brava persona". Chi ha lavorato con lui e chi lo consoce sostiene che nel corso della sua permanenza in Italia, l'autista-attentatore del bus di San Donato non ha mai creato problemi. Falso. Bisogna tornare indietro di 9 anni. Nel 2010 l'uomo ha aggredito una 17enne sul bus. Una ragazza torna a casa sul bus e incontra proprio l'autista "maledetto". Sy, come rirporta Repubblica, usa poche parole per convincere la 17enne a fidarsi di lui: "Ti porto a casa io alla fine del giro". Poi scatta l'incubo. L'uomo si avventa sulla ragazza e tenta un approccio sessuale. Le tocca il seno e i glutei. Arriva la denuncia. Il suo legale di allora tentò di minimizzare: "Meno di uno sfioramento". Eppure Sy con una denuncia del genere alle spalle era alla guida di un autobus con a bordo 51 ragazzini delle scuole medie. Quella denuncia però nn rimase lettera morta. La denuncia si è trasformata in una condanna a un anno nel 2018 per violenza sessuale. Una vicenda che di fatto segna la vita privata della 17enne e di quella dell'autista. Da quella sentenza non si sarebbe più ripreso e dunque sono affiorati i primi segnali di squilibrio psicologico. Poi c'è un altro precedente inquietnate. L'uomo qualche tempo fa era stato fermato mentre si trovava alla guida di un auto. Dopo l'alcoltest il risultato: positivo. Condanna penale e multa da 680 euro. E sospensione della patente per sei mesi. Sy si mette in malattia e riesce a non perdere il lavoro: tutta colpa di omessi controlli che hanno permesso all'attentatore di rimettersi alla guida di un pullman e di incendiare il mezzo con i ragazzini a bordo. Il pm Greco contesta tra le varie accuse anche l'aggravante di terrorismo. Le fiamme sarebbero divampate con alcuni studenti ancora a bordo. Un attimo in più e avremmo pianto dei morti innocenti. Ora Sy è nel carcere dove è stato accolto con un lancio di uova e arance. L'incubo per i bimbi è finito. Per lui è appena cominciato...
Sy, l'autista dell'autobus molestò una ragazza: “Ti riporto a casa io”, scrive Luca De Vito il 22 marzo 2019 su La Repubblica. "Questa cosa l'avevo in mente da un po'", ha ribadito l'uomo, di origini senegalesi ma cittadino italiano dal 2004, confermando la premeditazione e come fattore "scatenante", come ha messo a verbale davanti ai pm, il caso della nave Mare Jonio, "la goccia che ha fatto traboccare il mio vaso". Su quel pullman, come hanno raccontato i testimoni, aveva anche gridato di farlo per vendicare "i miei tre figli morti in mare", una circostanza smentita subito.Per gli inquirenti, però, Sy mente anche quando sostiene che non voleva fare del male, che l'incendio è divampato in modo accidentale dopo l'ultimo speronamento di un'auto dei carabinieri e che il suo fine era andarsene in Senegal con un aereo. "Sono un genitore, non volevo fare del male ai bambini, guido il pullman da 25 anni, se avessi voluto fare loro del male lo avrei già fatto", ha detto ai pm, contraddicendo le parole che mercoledì mattina ha urlato più volte sul bus: "Da qui non esce vivo nessuno". Prima di avventurarsi sulla Paullese con due taniche, coltello, pistola, fascette e accendini, aveva anche girato un video-manifesto con un appello per i popoli africani a sollevarsi e a non venire in Occidente, come ha detto ai pm. Sul suo profilo Youtube - 'Paul Sy', Paul come Paolo, il nome con cui lo conoscevano in tanti a Crema - avrebbe caricato 25-30 minuti di girato dal telefonino, mandandolo ad amici italiani e anche ai parenti in Senegal, ma per il momento non c'è traccia di questo file. "L'ho mandato pure a te" ha detto al suo avvocato Davide Lacchini (che chiederà per lui una perizia psichiatrica) durante l'interrogatorio di garanzia davanti al procuratore aggiunto Alberto Nobili e al pm Luca Poniz. Ma anche il suo legale non lo ha ricevuto.
Le falle nella sicurezza: così il nigeriano era alla guida del bus. Il senegalese Ousseynou Sy aveva precedenti gravi. Perché era alla guida del bus? Scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 21/03/2019, su Il Giornale. Qualcosa non ha funzionato, è evidente. La prima cosa che viene da chiedersi è: perché un senegalese con precedenti per guida in stato di ebrezza e abusi sessuali era alla al volante di un autobus carico di 51 ragazzini delle medie? La patente gli era stata sospesa dodici anni fa. Ma soprattutto il suo casellario giudiziario parla di una condanna a un anno a causa di una denuncia per abusi a danni di minore. Di minore. La società Autoguidovie, che gestisce il trasporto pubblico a Crema, sostiene di non essere mai stata a conoscenza dei precedenti penali di Ousseynou Sy. Secondo quanto scrive il Corriere, il certificato penale sarebbe stato richiesto sì, ma solo "al momento dell'assunzione, nel lontano 2004". Poi non sarebbe stato più verificato. Ecco perché nessuno si è accorto di quella denuncia del 2011 per abusi o della guida in stato di ebrezza. "Noi possiamo solo dire che aveva ben venticinque anni di servizio, di cui gli ultimi quindici alle dipendenze di Autoguidovie. Aveva sempre superato positivamente tutte le visite mediche periodiche e annuali. Non sappiamo spiegarci questo assurdo gesto", dice in una nota il presidente dell'Autoguidovie Camillo Ranza. Il Comune di Crema, che si è schierato contro il decreto sicurezza, è già nella bufera politica. "La foga a favore dei clandestini gli ha fatto sfuggire i problemi reali", accusano Stefano Candiani e Nicola Molteni, "Una scuola si è ritrovata con uno scuolabus guidato da un senegalese con cittadinanza italiana con precedenti per violenza sessuale e guida in stato di ebbrezza. E oggi l’uomo ha dirottato il mezzo e gli ha dato fuoco. Poteva essere una tragedia. Ci attendiamo un rigoroso accertamento delle responsabilità per un affidamento così gravemente superficiale. Il sindaco non ha niente da dire?". Le regole dicono che oltre alla patente B e D, il conducente deve ottenere una Carta di qualificazione per il trasporto di persone. Poi l'autista di bus deve sottoporsi a controlli psicofisici e, periodicamente, a quelli tossicologici. Il problema è che stavolta qualcosa è andato storto. E solo per il pronto intervento dei carabinieri e il coraggio di un ragazzino si è evitato un massacro in nome dei "migranti che muoiono nel Mediterraneo". Ousseynou Sy, intato, è piantonato all'ospedale Niguarda e sottoposto a indagine. La procura di Milano gli contesta i reati di strage e sequestro di persona.
Bus a fuoco, lo studente: "Diceva: migranti morti in mare per colpa di Salvini". Gad Lerner, il delirio sul senegalese che voleva bruciare vivi i bambini: colpa dell'odio sui migranti, scrive il 21 Marzo 2019 Libero Quotidiano. A spingere Ousseynou Sy a dar fuoco all'autobus che guidava sulla provinciale Paullese secondo Gad Lerner non è stata solo la mente malata di un uomo che voleva "vendicare i migranti morti nel mar Mediterraneo", uccisi per la stessa ammissione dell'autista da "Salvini e Di Maio". Secondo il giornalista, la "follia criminale del cittadino italiano" è semplicemente "l'esito di una contrapposizione isterica che manifesta ostilità agli immigrati additandoli come privilegiati, negando le loro sofferenze e la loro umanità". In sintesi, secondo Lerner se il senegalese, cittadino italiano grazie al matrimonio con una donna italiana, ha dato di matto e ha quasi bruciato vivi 51 bambini che avevano l'unica colpa di trovarsi sul suo autobus è frutto della campagna contro l'immigrazione selvaggia che, guarda caso, riconduce a partiti come la Lega e Fratelli d'Italia, quindi a Matteo Salvini e Giorgia Meloni. I colpevoli quindi sono i leader politici che a Lerner non stanno simpatici, perché denunciano da sempre le tratte criminali di esseri umani nel mar Mediterraneo.
Elisabetta Andreis per “il Corriere della Sera” il 21 marzo 2019. «Se mi daranno davvero la cittadinanza italiana sarò felice. Per essere schietti, è il mio sogno. Ma allora dovrebbero darla anche a mio fratello e ai miei compagni di classe di origini straniere che vivono in Italia da tanto tempo e magari sono pure nati qui». Così ragiona Ramy Shehata, il quattordicenne che mercoledì mattina con il suo sangue freddo ha salvato cinquanta «ostaggi» a bordo del bus dirottato alle porte di Milano. Ad auspicare la concessione della cittadinanza per merito era stato per primo il padre Khalid, arrivato in Italia dall'Egitto nel 1996. Luigi Di Maio ha rilanciato l'idea scrivendo una lettera di formale richiesta ai Ministri dell'Interno e degli Affari esteri. Il Viminale valuta la situazione pronto a farsi carico delle spese e velocizzare le procedure. Ramy «l'italiano» è emozionato. Rivive quei momenti di coraggio ma rifiuta il ruolo del goleador. Si trincera dietro lo spirito di gruppo, anzi di classe: «Siamo stati tutti in gamba, tutti uguali e tutti insieme», dice. Guai a dargli torto. Mercoledì ore 11. L'autista guida come un pazzo, le porte del bus sono chiuse con i lucchetti, dentro la puzza di gasolio è nauseabonda, lui delira di dover vendicare le «figlie» morte nel mare del Mediterraneo. Frena bruscamente, intima di consegnare i cellulari. «Ho visto una mia compagna che è scoppiata a piangere, ho pensato a quando gioco a calcio nel ruolo di difensore e siamo in difficoltà - racconta semplice come solo gli adolescenti sanno fare, aggiustandosi il ciuffo di capelli nerissimi -. Allora ho "scartato", cioè ho deciso di disobbedire e non consegnarlo. Come tattica». Quando l' autista è tornato al volante, Ramy ha fatto la prima chiamata ai carabinieri. «So il numero perché da grande voglio fare il loro lavoro». Vuoi diventare carabiniere? «Sì, per aiutare gli altri e per essere rispettato. Carabiniere o farmacista», precisa, ancora con in corpo l' adrenalina di chi ha sfiorato la morte. Alle forze dell' ordine non ha saputo spiegare esattamente dove erano, ma ha dato un primo preziosissimo avvertimento. Altra brusca frenata. L' autista si fionda verso le ultime file, versa ancora gasolio: «Pensavo mi avesse sentito chiedere aiuto, allora quando ho fatto le altre telefonate a mio papà ho parlato in arabo usando il tono delle preghiere, ho finto di pregare, per sentirmi più sicuro». I compagni «aumentavano il casino per coprire la mia voce, chi urlava, chi era disperato..». Eppure nel mezzo di quell' ora da incubo tre ragazzini - un congolese, un marocchino, un egiziano, tutti ancora senza cittadinanza anche se nati in Italia, proprio come Ramy - hanno trovato spazio per opporre alle parole dell' aguzzino l' integrazione riuscita delle loro famiglie. «Ci hanno sempre trattato bene», «Qui siamo tutti buoni». Ennesima frenata brusca. Il telefono di Ramy cade per terra, nel pullman. Lo raccoglie Ricky, lo passa ad Adam che chiama di nuovo chiedendo soccorsi. Riesce a fare localizzare il bus. Un blitz bambinesco nato da quel piccolo grande eroismo di squadra. Un altro ragazzino ha dichiarato a «Un giorno da pecora» su Radio 1 di essersi perfino offerto come volontario per stare vicino all' aguzzino («altrimenti minacciava di far saltare in aria il bus ..»). I racconti dei testimoni sono confusi. Arrivano i carabinieri, rompono i vetri, i ragazzini si catapultano giù. «Una compagna di 2 B piangeva, non vedeva il gemello. Stanno nella stessa classe ma lui non era ancora sceso dal pullman. L'ho abbracciata, tenuta stretta». Scene di affetto, mescolanza naturale, «le origini da Paesi diversi cosa c' entrano? Siamo tutti misti», assicura il quattordicenne. Suo padre lo guarda. Da mercoledì ha ricominciato a chiamarlo «bambino», «vorrei proteggerlo sempre». In realtà lui si è protetto da solo: «Ha fatto il suo dovere», ribatte ancora l'uomo. Ha sempre lavorato come operaio ma da un po' di tempo è rimasto disoccupato, mentre la moglie ha una pensione di invalidità con cui pagano l' affitto nella casa popolare. Arrivato nel 1996 da solo, «in cerca di lavoro e futuro», ha avuto il permesso di soggiorno nel 1998. Nel 2001 si è trasferito a Crema ma sua moglie stava ancora in Egitto e lì è nato il primogenito, nel 2002. Tre anni dopo invece, quando è arrivato Ramy, erano tutti riuniti. «In Italia abbiamo trovato una certa felicità, anche se la vita è difficile - insegna quest' uomo -. L' integrazione te la guadagni con il sudore della fronte e quando l' hai ottenuta vuoi che sia riconosciuta. La cittadinanza è un segno formale importante».
Massimo Pisa per “la Repubblica” il 21 marzo 2019. Oggi, dice, sarà da Salvini. «Sì, mi hanno chiamato. Vuole incontrarci, me e la mia famiglia». E cosa gli dirai, Rami? «Lo ringrazierò, se è vero che accelererà le pratiche per la cittadinanza». E poi? «E poi: non prendertela con gli africani, ne conosco tanti di buoni, che si comportano bene. Anche gli italiani fanno cose brutte». Altro? «Di togliere la cittadinanza a quello là, al guidatore». Ci pensa su. «In fondo sono dispiaciuto per lui, si è rovinato la vita. Però, noi cosa c' entravamo coi suoi problemi? E lui, che cosa ci ha guadagnato? Ha bruciato un pullman, ce ne sono altri cinquanta». Fa una smorfia, il 13enne della II B della media Vailati, sguardo svelto, felpa blu con l'icona stilizzata di Michael Jordan. È il giorno dei taccuini, delle interviste, della notorietà. Papà Khaled ha scelto una cravatta rossa e la giacca scura. L'amico Sherif paga i caffè e i cappuccini sotto i portici di fianco alla cattedrale. Khalid, il papà di Adam, l'altro telefonista del pullman dirottato, è fuori a stringere mani. Piazza Duomo, per una volta, è tutta per loro. La prima cosa bella In questa storia di piccoli e grandi eroismi, quello di Rami ha un lato privato. E tenero: «Quando il guidatore ci ha minacciato, ci siamo messi tutti a urlare. Quelli che hanno la fidanzata o il fidanzato, dicevano: ti amo, ti amo. Io ho pensato a mettere in salvo, più protetta sul sedile, una ragazza. Una di seconda A. Gliel' ho detto...». La fidanzata? Arrossisce. «No, anche in passato glielo avevo detto, ma lei... Però stavolta me lo ha detto anche lei». Allora vi fidanzate? Agita la mano: chissà. «Però il nome non lo dico». Comunque la telefonata che ha salvato tutti, partita alle 11.27 di mercoledì, l' ha fatta davanti a lei. «Ho chiamato tutti. Prima il 112, dicendo dov' eravamo, cosa stava succedendo, che ci aveva rapiti, con la pistola. Poi papà, parlando in arabo. Poi una prof, la coordinatrice, solo che non mi ha risposto. Dopo mi ha chiesto scusa, non sapeva fossi io». La scuola Piace, a Rami. Ancora di più, adesso. «Sai cosa? Ho scoperto che siamo una bella classe. Che siamo uniti. Anche i compagni che mi stavano antipatici. Anche i prof, abbiamo scoperto che ci vogliono bene. Certo, pure quelli che erano sul pullman. Pure Tiziana la commessa che era bordo». E che in mattinata era tornata alla Vailati. Dolorante, commossa, a pensare ai bambini: «Dio ci ha guardati». Ad abbracciare la dirigente Cristina Rabbaglio, la sindaca Stefania Bonaldi. Sono attesi, Rami e gli altri, da un percorso con gli psicologi. E la pagella? «Media del 6 e 7, dai. Mi piace matematica. Un po' meno italiano». Ma ti senti italiano, tu che sei nato a Milano? Contrae il labbro. «Diciamo metà e metà». Casa e famiglia Il primo era stato papà Khaled, arrivato nel '96 e regolare dal '98: «Dalla provincia del Cairo - racconta - e nel 2003 sono riuscito a fare arrivare la famiglia. Mi ero già trasferito, da Castelvetro a Crema, nel 2001». Quando era nato Amro, il primogenito quasi diciottenne, che fa la terza Scientifico e ci dà dentro con i guantoni, in palestra. «Qui in Italia sono stato sempre bene. Tutta gente brava. Se torno in Egitto, sto un mese e poi torno qui». L' appartamento è al secondo piano di un condominio Aler di periferia, affacciato su un prato con una scivola e un' altalena, l' erba alta, le sciure a lamentarsi tra la panchina e i dondoli. Casa di Rami è quella con i panni stesi accanto alla parabola, ma è vuota. Mamma El Thama Haddad è in dialisi, a curarsi. «Io facevo l' operaio - sospira Khaled - montavo tende e zanzariere, ma da due anni non lavoro. Ci aiutano». Futuro e passioni Diventare farmacista come Islam, zio materno di Rami rimasto in Egitto, è uno dei suoi due sogni: «Mi ha fatto vedere come si fa, le ricette, le medicine. Vorrei un giorno aprirne una». Il presente è pallone e musica. «Gioco in oratorio, alla Excelsior. E la maglia di Dybala, quella della Juve, è l' unica cosa che ho appeso in camera». Rap, hip hop, trap, ascolti quasi obbligati per un tredicenne contemporaneo. «Ascolto le canzoni di Capo Plaza e di Sfera Ebbasta. E poi Drefgold, sai come si scrive?». Mahmood, l' egiziano di Milano? «Certo, anche lui. Ho esultato quando ha vinto Sanremo». L' altro sogno di Rami è di fare il carabiniere: «Ma anche prima di mercoledì. Poi ci è capitata questa cosa, e io pensavo che sarei morto. Sì, anche a salvare gli altri, a calmarli. È vero, avevo chiamato papà, sapevo che sarebbero arrivati ma mi sono messo a pregare. In arabo, sono musulmano. Ecco, quando sono arrivati i carabinieri e ci hanno salvati, mi sono sentito come se io avessi salvato la gente».
"Io ti amo, ti amo", la dichiarazione d'amore del ragazzo in fuga dal bus. Nel video in cui si vedono i 51 studenti scappare dal bus dirottato a San Donato Milanese, si avverte la voce di uno di loro che urla: "Ti amo". Non si conosce l'identità del destinatario, né di chi ha pronunciato la dichiarazione d'amore, scrive Luisa De Montis, Giovedì 21/03/2019 su Il Giornale. Lo ha ripetuto due volte, nonostante la confusione e il rumore intorno. E nonostante la paura. Tutti stanno correndo via dall'autobus che prenderà fuoco poco dopo sulla Paullese, a San Donato. Per fortuna, con nessuno di loro all'interno. "Ti amo, io ti amo", grida uno dei ragazzini della scolaresca, mentre scappa cercando di mettersi in salvo. Ha paura e lo si avverte dal tono della voce. Non si conosce l'identità del destinatario di quel messaggio gridato, né quella di chi ha trovato il coraggio e le parole per dirlo. Il frammento fa parte delle immagini girate dagli automobilisti che, ieri, per caso, hanno incrociato la scolaresca di studenti e, poi, l'autobus in fiamme. E quella dichiarazione d'amore tra ragazzini arriva dopo che l'autobus, guidato e dirottato da Ousseynou Sy, è stato fermato dall'auto dei carabinieri. Gli unici riusciti a fermare il gesto dell'uomo e a liberare i bambini, rompendo i vetri dell'autobus.
Terrore sul bus: il ragazzo scappando gridava "Dio ti amo", scrivono le Iene il 24 marzo 2019. "Ti amo io, ti amo": si pensava che il ragazzino che fuggiva dall'autobus in fiamme a Milano gridasse l'amore per la fidanzata. Ad Alice Martinelli ha raccontato invece che era una preghiera. “Ti amo, io ti amo“. Questa frase di uno dei ragazzi che fuggivano dall’“autobus del terrore” ha colpito tutti e sono state avanzate le ipotesi più fantasiose su chi fosse il destinatario di quelle parole d’amore. Alice Martinelli ha incontrato alcuni di quei ragazzi. Oggi sorridono e ci raccontano come sono andate le cose e quello che hanno provato. Assieme a loro riusciamo a trovare Guglielmo, il ragazzo che ha gridato “ti amo” fuggendo dal pullman in fiamme. Quando lo incontriamo ci svela cosa voleva dire quella frase: “Era rivolta al Signore, sul pullman eravamo tutti disperati e anch’io ho voluto fare la mia preghiera. Quando siamo riusciti a salvarci mi è sembrato che si fosse avverata quindi ho voluto ringraziare Dio e ho urlato “Dio ti amo”. Insomma, nessuna storia d’amore ma un sincero ringraziamento a Dio dopo lo scampato pericolo. Oggi Ousseynou Sy, il dirottatore del pullman è in carcere, per fortuna nessuno si è fatto male e speriamo che questi ragazzi riescano presto a superare questa terribile vicenda.
Elisabetta Andreis e Giampiero Rossi per il Corriere della Sera il 21 marzo 2019.
Ricky, cosa è successo su quell’autobus?
«Eravamo tutti terrorizzati perché lui ha vuotato le taniche di benzina lungo il corridoio, tra i sedili, ci ha legati e ha sequestrato i telefoni per impedirci di chiedere aiuto».
E a quel punto cosa avete fatto? Come siete riusciti ad allertare i soccorsi?
«Un mio compagno, Rami, aveva nascosto il cellulare, ha fatto le prime chiamate al 112. Ad un certo punto gli è caduto per terra, senza farmi vedere sono andato a raccoglierlo e l’ho passato ad Adam, dietro di me».
Lo hai fatto con le fascette ai polsi?
«No, perché non erano legate bene, quindi sono riuscito a togliermele, anche se facevano male».
Ricky, dodici anni, racconta con semplicità da ragazzino il suo gesto di eroismo nel giorno della grande paura. Ma quel blitz che è riuscito incredibilmente a rompere la prigionia imposta dall’aguzzino è nato dall’istintiva cooperazione di tre ragazzini solidali e in gamba. Rami, primo a chiamare il 112, Ricky, che ha colto al volo l’attimo propizio per recuperare il suo telefono caduto, e poi anche Adam che a sua volta ha telefonato ai genitori e alla polizia. E attorno a loro gli altri compagni che, tra le lacrime, hanno aumentato la confusione per coprire le voci di chi chiedeva disperatamente aiuto agli «adulti». E adesso che tutto è finito, raccontano ancora sovraeccitati quei momenti.
Adam, anche tu sei riuscito a chiamare?
«Sì, ho telefonato alla polizia e ai miei genitori. Tre volte. Perché le prime due volte ho dovuto mettere giù perché sembrava che l’autista mi avesse scoperto».
E quando li hai sentiti cosa hai detto?
«Ho spiegato a mia madre cosa stava succedendo e che quello voleva ucciderci tutti cospargendoci di carburante. Gli ho detto: “Non sappiamo dove ci portano, ci ha messo la benzina addosso, ha anche una pistola”. Ma all’inizio non ci credeva, perché in effetti io faccio spesso degli scherzi e poi attorno a me tutti gridavano e parlavano ad alta voce e non si capiva bene».
E come hai fatto a convincerla che stavi parlando sul serio?
«Le ho descritto il punto in cui eravamo appena passati col pullman, perché ho riconosciuto un ristorante che avevo già visto. E allora anche mio padre, mentre ero ancora al telefono con la mamma, ha chiamato i carabinieri».
Ma attorno a voi, sulla tangenziale, nessuno aveva notato niente di strano?
«Noi abbiamo provato a dare dei calci ai vetri per vedere se potevamo romperli e gridare aiuto, poi abbiamo provato a indicare i numeri del 112 con le dita contro i finestrini, facevamo il segno della pistola puntata contro di noi, ma nessuno ha capito».
E il sequestratore non si è accorto dei vostri tentativi?
«Lui ha fermato due volte il bus per controllare cosa facevamo e poi ha ordinato di appendere alle finestre delle coperte, che erano giù bagnate di benzina, per impedirci di comunicare con l’esterno. L’odore era nauseabondo».
Cos’altro ricordi di quei momenti?
«Il tempo non passava mai. Lui all’inizio urlava, poi si è messo a parlare con quelli davanti, spiegava perché stava facendo questo, ho visto la bidella che è caduta e si è fatta male...».
Quindi sono arrivati i carabinieri.
«Sì e siamo usciti di corsa dal pullman e poi abbiamo visto che bruciava tutto».
Che cosa pensi di quello che ti è capitato oggi?
«È stato il giorno più brutto della mia vita. Però anche utile perché noi ci siamo aiutati e abbiamo imparato come si fa a difendersi. E anche a salvarsi».
San Donato Milanese, il ragazzino che ha urlato "ti amo" in fuga dall'autobus: Socci, la verità su di lui, scrive il 27 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Quella che, alle porte di Milano, la settimana scorsa, poteva essere una strage di bambini e (grazie a Dio) è stata scongiurata dal pronto intervento dei Carabinieri, sui media è stata trasformata nell' occasione per far propaganda allo "Ius soli". Paradossale - visto che l' autista era un senegalese diventato cittadino italiano - ma è così. Per questo i media hanno trasformato in un eroe il giovane Ramy, in quanto egiziano, mentre sono spariti dalle cronache tutti quei ragazzi i quali - essendo appunto italiani - non servivano alla causa. Un titolo per tutti, quello del "Corriere della sera": "Ramy, il ragazzino eroe: 'Sogno la cittadinanza'". Tutti i riflettori sono stati per lui. Non si è più visto il bambino (credo si chiami Riccardo) che ha preso per primo il telefonino per cercare aiuto. Dall'unica, iniziale, intervista che gli è stata fatta appare come un ragazzino italiano, biondo, con un piccolo crocifisso al collo, quindi non serviva per la narrazione migrazionista. Così come non si è saputo nulla del ragazzo, veramente eroico, che - quando l' autista ha preteso uno che andasse lì vicino a lui, da tenere a portata di mano - si è offerto come volontario ("altrimenti minacciava di far saltare in aria il bus"). Un vero eroe. Ma solo i ragazzi stranieri hanno avuto la celebrazione mediatica.
L' URLO. L' unico italiano a cui i media hanno dedicato qualche attenzione è colui che - mentre correva via dal pullman con i suoi amici - ha gridato due volte "ti amo". L' episodio corrispondeva alla sensibilità oggi dominante che cucina "l' amore" in tutte le salse e in tutti i modi possibili. Così ha suscitato palpiti di commozione e interesse. A lui infatti sono state dedicate le considerazioni di Massimo Gramellini sulla prima pagina del Corriere, che ha scritto: «Sono affascinato dal ragazzino che urla "ti amo io ti amo", mentre scappa con i compagni dallo scuolabus in fiamme, ma anche seriamente preoccupato per lui». E la preoccupazione - spiega sarcasticamente Gramellini - sta nella «possibilità che, in mezzo a tutto quel frastuono, la destinataria del suo "Ti amo" non si sia accorta di nulla. O, peggio, che se ne sia accorta e gli abbia risposto: "Ti voglio bene anch' io, ma più come amico"». Noi adulti siamo scafati e sappiamo come vanno queste faccende di cuore. Guardiamo con tenerezza, ma anche con un certa disincantata ironia i ragazzi che a 12 anni non hanno ancora capito che l' amore espone ad amare delusioni.
RIFLETTORI. Anche Le iene hanno acceso un faro su questo ragazzo e sono andate a cercarlo. Ma - una volta trovatolo - ecco la sorpresa che ha spiazzato l' intervistatrice. Guglielmo - questo è il nome di quel dodicenne - ha una faccetta simpatica e una felpa gialla. Appare un po' intimidito dalle telecamere. Dopo aver detto che ora sta bene («mi sono ripreso dallo spavento»), alla giornalista che gli chiedeva a chi erano rivolte le parole "ti amo", ha spiegato: «Erano rivolte al Signore, perché sul pullman eravamo tutti disperati e anche io ho voluto fare una mia preghiera. E quando siamo riusciti a salvarci mi è sembrato che si fosse avverata e quindi ho voluto ringraziare». La giornalista, stupita (e spiazzata) chiede: «E hai urlato?»: E lui: «(Ho urlato) Dio ti amo!». Ecco svelato il mistero. Non "io ti amo!", ma "Dio, ti amo!". Così, in questi strani giorni, in un momento storico che affonda nel cinismo, ci è arrivata una lezione da un bambino che spalanca un orizzonte dimenticato. È sembrato avverarsi quanto proclama il Salmo 8: "Con la bocca dei bimbi e dei lattanti/ affermi la tua potenza contro i tuoi avversari,/ per ridurre al silenzio nemici e ribelli". Quei ragazzi, nel momento del terrore, si sono raccomandati a Dio e, una volta liberati dal pericolo, scappando verso la libertà, Guglielmo - per tutti gli amici - con quel grido ("Dio ti amo!") ha ringraziato il Padre che tutti abbiamo nei Cieli. Dietro il bel volto luminoso di Guglielmo c' è quell' Italia umile, fatta di famiglie, parrocchie e oratori che è e resta ancora l' Italia che dà speranza. Ed è la bella Italia che sui media non sembra degna di essere raccontata. Antonio Socci
"Non è un film questo..." La telefonata al 112 dal bimbo sequestrato sul bus, scrive Giovanni Corato, Giovedì 21/03/2019 su Il Giornale. "Ci minacciano con il coltello. Il prof è davanti, è in ostaggio". Sono le parole pronunciate da uno dei ragazzini a bordo del bus dirottato e dato alle fiamme a Milano da Ousseynou Sy. "Ma chi è che vi sta tenendo in ostaggio?", chiede l'operatore dopo aver inviato una pattuglia: "Il guidatore, ha un coltello in mano", replica il ragazzino, "Veloce! Ha rovesciato della benzina, non respiriamo più". E quando l'operatore chiede altre indicazioni, il giovane sembra più agitato, ma risponde con fermezza: "Certo, signore. Ma la prego, chiama qualcuno. Non è un film questo... Abbiamo 12 anni, non possiamo perdere la vita così".
Bus incendiato a Milano, la telefonata di Adam: “Mamma, ci stanno uccidendo”, scrive Agenzia Vista, Giovedì 21/03/2019 su Il Giornale. "Mamma, siamo in un pullman, ci stanno uccidendo, ci stanno portando in un posto sconosciuto, non sappiamo dove ci portano" Lo ha urlato al telefono Adam uno dei ragazzini a bordo del bus andato a fuoco a San Donato chiamando la mamma a bordo del mezzo.
Autobus in fiamme, il sospetto dell'avvocato Francesca Donato sul piccolo eroe: cosa non torna, scrive il 22 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Secondo Francesca Donato c'è qualcosa che non torna sulla storia del giovane Ramy, il ragazzino egiziano che ha avvertito per telefono i carabinieri durante il folle sequestro di Ousseynou Sy a bordo dello scuolabus. L'avvocato di Eurexit ha denunciato su Twitter uno strano caso di sostituzione all'ultimo momento tra il vero eroe che ha sventato la strage e chi invece viene proposto in tv come il nuovo idolo nazionale: "Il ragazzino che ha chiamato la polizia - scrive la Donato - intervistato ieri era biondo e di pelle bianca. Se oggi un giornale tenta di propinarci un eroe per forza musulmano e immigrato, questa è manipolazione dell'informazione".
"Quella voce non è di Ramy". Ecco la verità sulla telefonata al 112. Emerge un'altra verità su quanto successo nello scuolabus. È Adam e non Ramy il ragazzino-eroe che ha chiamato i soccorsi, scrive Sergio Rame, Mercoledì 27/03/2019 su Il Giornale. La verità, molto probabilmente, non verrà mai fuori. La cronaca del dirottamento dello scuolabus sulla Paullese è stata piegata a fini politici. E nulla potrà smontare la vulgata costruita ad hoc dalla sinistra per tornare a riproporci il dibattito sullo ius soli. Contrariamente a quanto sostenuto, negli scorsi giorni, sul mezzo dato alle fiamme da Ousseynou Sy, sarebbe del dodicenne Adam e non dell’amico Ramy, il 13enne finito nel vortice delle polemiche sulla concessione della cittadinanza italiana, la voce della telefonata in cui avvertiva l'operatore del 112 di quanto stava succedendo. "Signore, la prego, mandi qualcuno, non è un film, questo". L'audio è diventato pubblico poco dopo il blitz dei carabinieri che ha messo fine alla follia del terrorista senegalese. Ma solo oggi, grazie a un'intervista pubblicata dal settimanale Oggi, viene fuori a chi appartiene veramente la voce. Non sarebbe, infatti, di Ramy ma di Adam. "Chiara piangeva tantissimo, non sapevamo come consolarla", racconta il ragazzino che sullo scuolabus era vicino proprio a Rami, il suo migliore amico. È stato quest'ultimo a nascondere prontamente il cellulare con cui Adam è riuscito a dare l’allarme al 112. "Avevo riconosciuto l’insegna di un ristorante di Peschiera Borromeo dove andiamo spesso a mangiare con la mamma e il papà", spiega Adam ai microfoni di Oggi, mentre palleggia col fratello Amin nel cortile di casa. All’agente Adam ha detto: "Siamo vicini alla Fabbrica dei sapori, correte". Tutto il resto, poi, è cronaca. "Essere cittadino italiano è il suo sogno, spero che si avveri, inshallah", racconta la madre di Adam, Hasnaa Ouriad, che ora si aspetta un riconoscimento analogo a quello concesso da Matteo Salvini a Ramy. A Oggi, però, Adam ammette che ci sono altri "eroi" dimenticati dalla vulgata. C'è, per esempio, Niccolò. "Il nostro amico si era offerto come ostaggio - svela il 12enne - siamo stati tutti coraggiosi, ma Niccolò di più". Nell'intervista Hasnaa Ouriad racconta anche quando è corsa al commissariato insieme al marito. Si è seduta in un angolo e ha pregato: "Tu che puoi tutto, salvali. Tu che puoi tutto, proteggili". "Come avrei potuto pregare solo per mio figlio? Quei bambini li conosco tutti da quando sono alti così - conclude la donna - chi non è in classe con Adam gioca a calcio con lui o viene per merenda. Pregavo per tutti".
Parla bambino del bus assaltato da Ousseynou Sy: "Non mi sento un eroe". Nicolò Bonetti è uno dei 51 bambini che erano a bordo dello scuolabus preso d’assalto da Ousseynou Sy: il dodicenne ha parlato a Un giorno da pecora, scrive Pina Francone, Venerdì 22/03/2019 su Il Giornale. "Ora sto bene, e stanno bene anche i miei compagni e migliori amici, che ho già sentito". Nicolò Bonetti, dodici anni, è uno dei 51 bambini che erano a bordo dello scuolabus preso d'assalto e poi incendiato sulla Paullese da Ousseynou Sy, il senegalese con cittadinanza italiana che voleva vendicare i migranti morti nel mar Mediterraneo con un gesto a effetto. Il ragazzino ha parlato a Un giorno da pecora, su Rai Radio Uno. "Sei un piccolo eroe di questa vicenda" gli dice il conduttore Giorgio Lauro – affiancato da Geppi Cucciari e da Sandro Piccinini, ospite in studio – e Nicolò risponde con modestia: "Grazie, ma non mi sento un eroe, ho fatto solo la cosa giusta". Dunque il giovanissimo ha ripercorso quei minuti da incubo: "Ad un certo punto l'autista, che per me è un terrorista, ci ha urlato di allontanarci dalle porte, ci ha mostrato quella che noi pensavamo fosse una pistola, ha preso delle fascette e ha ordinato ai professori di educazione fisica di legarci. Poi ci ha imposto di dargli i telefoni, cosa che abbiamo fatto tutti tranne Rami". E continua: "Il terrorista ha chiesto di avere qualcuno vicino a lui e poi ha iniziato a spargere benzina. Dopo è andato a prendere un ostaggio e ne ha chiesto un altro: se nessuno si fosse presentato minacciava di fare esplodere l'autobus. In un momento di panico, coi miei compagni agitati ho deciso di andare lì ed offrirmi volontario". Insomma, un piccolo eroe di cui andare tutti orgogliosi: "Si, avevo paura,in tanti mi hanno creduto pazzo, ma penso di aver fatto la cosa giusta, l'ho fatto per i miei compagni. Ho cercato di tenere i nervi saldi".
Avrebbe ucciso studenti immigrati, scrive Alessandro Gnocchi, Venerdì 22/03/2019, su Il Giornale. Puoi vantare una fedina penale lunga un chilometro? Hai precedenti come guida in stato d'ebbrezza e abuso su minori? Vuoi fare una strage all'aeroporto di Linate per protestare contro la chiusura dei porti alle navi che trasportano in Europa gli immigrati africani? Vai in giro con taniche di benzina, fascette per legare i polsi e accendino pronto all'uso? Bene, il curriculum è giusto; eccoti il posto d'autista del trasporto scolastico. Così il 46enne Ousseynou Sy, senegalese nato in Francia e cittadino italiano, si è trovato al volante di uno scuolabus con 51 ragazzini a bordo. Per vendicare gli africani vessati dagli occidentali cattivi, ha sequestrato i passeggeri, dirottato l'automezzo e concluso l'azione criminale con un rogo. La strage è stata evitata grazie al tempestivo intervento dei carabinieri. Dunque il peggiore degli incubi è diventato realtà: i nostri figli in balia del terrorista che farnetica di integrazione o religione. Per fortuna, c'è anche l'altra faccia della medaglia. Il senegalese con cittadinanza italiana è stato fregato dall'egiziano nato in Italia (ma non ancora cittadino italiano). Ramy, 13 anni, ha nascosto il telefonino e dato l'allarme, aiutato dai compagni Adam e Ricky. Come ha fatto? Sy ha minacciato gli studenti con un coltellaccio in mano: «Andiamo a Linate, vendicherò la strage dei migranti, nessuno uscirà vivo da qui». Quindi ha ordinato ai ragazzini di consegnare i telefonini. Rami era seduto nell'ultima fila: «Gli ho detto che non ce l'avevo. Lo guardavo negli occhi senza dire niente. Forse per questo mi ha creduto. Avevo buttato il telefono sotto al sedile prima che arrivasse. Recuperarlo con le mani legate non è stato facile. Ma assieme ad altri compagni ci sono riuscito». Rami ha chiamato il 112. Dunque al peggiore degli incubi possiamo contrapporre la speranza. Il fatto che Sy sia stato messo nel sacco da un giovanissimo «aspirante nuovo italiano» nulla toglie alla gravità dell'accaduto e non deve oscurare identità e movente dell'aspirante assassino. Tra l'altro, si può anche osservare che concedere la cittadinanza, nel caso di Sy, non ha favorito l'integrazione. Però ci sono giovanissimi «aspiranti nuovi italiani» che non hanno alcun desiderio di morire per mano di fanatici e terroristi. Ramy ha abbattuto il confine (mentale) tra «noi» italiani e «loro» stranieri.
Bus incendiato, Di Maio: "Ius soli non in agenda". Salvini: "Lasciamolo alla sinistra". La mamma di Adam: "Cittadinanza anche a mio figlio". Il leader M5S ad Agorà: "È giusto però dare la dare la cittadinanza a Rami che ha chiamato i soccorsi". La prefettura di Cremona avvia la procedura. Il ministro dell'Interno: "Folle che qualcuno mi accusi per giustificare Sy", scrive il 22 marzo 2019 La Repubblica. È d'accordo sul dare la cittadinanza italiana a Rami, il ragazzo egiziano nato a Milano che ha salvato i compagni del bus dirottato a San Donato milanese. Ma lo ius soli, la legge sulla cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia rimasta al palo nella scorsa legislatura, "non è nel contratto né nell'agenda di governo". A ribadirlo è il vicepremier Luigi Di Maio, ospite di Agorà su RaiTre che aggiunge: "Questi temi vanno affrontati a livello di cittadinanza europea". Di fatto, la procedura per il caso di Rami è stata avviata proprio stamattina dalla prefettura di Cremona, che ha chiesto al Comune di Crema il certificato di nascita del ragazzo per valutare la concessione della cittadinanza. Lo ha spiegato il sindaco di Crema, Stefania Bonaldi al sua arrivo alla scuola Vailati dove è atteso il ministro dell'Istruzione Marco Bussetti. Il sindaco ha però posto l'accento su come sia stato "corale" il comportamento degli alunni: "c'era chi distraeva l'attentatore, chi contribuiva a nasconde i telefoni. Credo sia stato il messaggio più importante: si sono salvati insieme". Per Di Maio il modello italiano di sicurezza è da migliorare, coordinando di più le forze di polizia. "C'è un progetto di sicurezza nazionale che presto sarà presentato - aggiunge il capo politico del M5s - occorre iniziare a muoverci sulla prevenzione, non solo sulla repressione. L'Italia deve iniziare a dotarsi di una National Security Strategy sul modello Usa. Ci sta lavorando il ministro Trenta, dietro la guida di Palazzo Chigi". L'obiettivo è "mettere in rete i ministeri degli Interni, della Difesa e dei Trasporti con i nostri servizi della sicurezza". E, precisa, che "non si tratta di un affronto a Salvini". Il ministro dell'Interno da parte sua ribatte a Mattino 5 sulla vicenda del bus dirottato: "Folle che qualcuno mi accusi per giustificare Ousseynou Sy (il dirottatore del bus, ndr)". E continua: "Quello che mi ha dato fastidio in queste ore è stato che qualche intellettualone e anche qualche politico a sinistra provasse quasi a giustificare e a comprendere questo delinquente che con benzina, pistole e coltelli minacciava 51 bimbi, dicendo che insomma un pò di colpe Salvini ce l'ha". E conclude: "Se espelli gli immigrati clandestini e poi li giustifichi, se riduci gli sbarchi e contrasti gli scafisti qualcuno si arrabbia, questa è un'idea folle: difendere la sicurezza e i confini del mio Paese - ha aggiunto il titolare del Viminale- non può essere l'alibi per nessun delinquente di prendere in ostaggio un solo bambino. Quindi chi la pensa così vada a prendersi il Maalox". E ancora: "Lo ius soli lasciamolo alla sinistra". E intanto parla anche la mamma di Adam, un altro dei piccoli eroi del bus: "Sono contenta per Rami, non chiedo cittadinanza per me e per la mia famiglia, ma se la cittadinanza la danno anche ad Adam sarà una bella cosa per lui". La signora ha parlato fuori dalla scuola Vailati di Crema, e alla domanda se anche Adam meriti la cittadinanza, ha risposto: "Non lo dico io, lo dicono le registrazioni che ha fatto Adam. Comunque i bambini sono tutti eroi, sono tutti stati bravi. C'è stata anche una bella collaborazione. Ho ricevuto la prima chiamata da mio figlio, la seconda quando ero dai carabinieri quando mio figlio mi ha detto 'mamma siamo davanti al ristorante La fabbrica dei sapori', perciò Adam ha detto anche il posto". Questi ragazzi, ha concluso la madre di Adam, "sono cresciuti qua, hanno frequentato la scuola qua, l'Italia è il loro Paese". In mattinata il ministro Salvini aveva detto sulla cittadinanza ad Adam: "Stiamo facendo tutti gli approfondimenti del caso per verificare che non ci siano problemi. Vi farò sapere nelle prossime ore. Sarebbe più facile dire è fatto tutto, regalo tutto a tutti. Stiamo facendo le verifiche del caso, quindi nelle prossime ore spero che queti ragazzi abbiano il loro giusto riconoscimento". Tornando al tema migranti, secondo Di Maio l'Italia è diventata "il palcoscenico dell’immigrazione". Il riferimento è quanto è accaduto con la ultima ong della nave Mare Jonio: "Un potere dello Stato, la magistratura, ha riconosciuto che c'erano le condizioni per sequestrare l'imbarcazione", aggiunge. Sull'arresto del presidente del consiglio comunale di Roma Marcello De Vito, Di Maio taglia corto: "Non vedo il caso Roma, vedo il caso De Vito. La Giunta deve andare avanti per portare a casa una missione difficilissima, mettere a posto la città di Roma". E rivendica: "Il Movimento può continuare a camminare a a testa alta. Noi 30 secondi dopo mettiamo fuori le persone. Le altre forze politiche in parlamento non fanno così. In 10 anni è l'unico caso di corruzione ed è uno shock. Appena abbiamo appreso che è stato arrestato l'ho cancellato per sempre dal M5S". Alla domanda se il nuovo segretario del Pd Nicola Zingaretti sia meglio di Matteo Renzi, Di Maio poi risponde: "Per me tutti sono meglio di Renzi, ma questo non vuol dire che superino la sufficienza. Mi aspetto che dal Pd con Zingaretti ci sia un cambio di rotta sul reddito di cittadinanza e sul salario minimo orario". Infine, sul tema della maggioranza in bilico al Senato - come si è potuto verificare ieri in occasione del voto di sfiducia al ministro Toninelli - il vicepremier rassicura: "Non c'è nessuna preoccupazione":
I sinistroidi non riescono a trattenersi dal dire idiozie: adesso anche l’attentato di San Donato per loro è colpa di Salvini, scrive il 24 marzo 2019 Andrea Pasini su Il Giornale. Il Ministro Matteo SALVINI rispedire per le rime a chi da sinistra lo accusa in queste ore di avere responsabilità nell’attacco del bus di San Donato: “Quello che mi ha dato fastidio in queste ore è che qualche intellettualone e anche qualche politico a sinistra provasse quasi a giustificare e a comprendere questo delinquente che con benzina, pistola e coltelli minacciava 51 bimbi, dicendo che un pò di colpe Salvini ce l’ha”. Poi Salvini spiega il suo piano per la sicurezza: “O si entra col permesso, o si torna a casa. Prima penso agli italiani”, spiega ai microfoni di Mattino Cinque. Intanto al Viminale prosegue il lavoro per revocare la cittadinanza al senegalese: “Ho scritto ieri a tutti i sindaci per controllare la fedina penale per chi si occupa dei nostri figli. Stiamo lavorando per togliere la cittadinanza a questo delinquente e criminale. E’ preziosa la cittadinanza italiana e per questo come Lega abbiamo detto no alla cittadinanza come regalo, si può dare e si può togliere, proprio oggi la toglieremo a questo delinquente”. Poi lo stesso ministro manda un messaggio ai bimbi eroi che sono riusciti a dare l’allarme: “Spero che i ragazzini abbiano il giusto riconoscimento per il coraggio dimostrato, stiamo valutando. La cittadinanza è preziosa, la cittadinanza si può dare, e si può togliere. Non è il biglietto del Luna Park come ci facevano credere in passato”. Infine il titolare del Viminale si sfoga: “Non vorrei che siccome ci sono tanti giornali, tante radio, tante televisioni che dalla mattina alla sera è colpa di Salvini, e Salvini è fascista, è razzista, è nazista, è populista, è schiavista, è omofobo’, se davanti al video trovi qualche mente debole, qualche deficiente magari, siccome è colpa di Salvini, rapisco 51 bambini e provo a dargli fuoco perchè ho sentito che è colpa di Salvini. Qualche politico e qualche giornalista dovrebbe farsi un esame di coscienza, perchè la critica a Salvini è sacrosanta, l’insulto a Salvini è veramente vergognoso”. La preoccupazione più grande della sinistra subito dopo la tragedia sfiorata grazie al coraggio dei Carabinieri a San Donato Milanese è quella di spostare il focus del rogo su Salvini. Il colpevole di quanto accaduto non è certo l’autista 47enne, no, per la sinistra è Salvini. Basta dare un’occhiata alle parole del neo Segretario Nicola Zingaretti. Il capo del Pd di fatto ha puntato il dito proprio contro il ministro degli Interni: “Salvini cavalca i problemi ma non li risolve. Anzi, visto che ci campa sui problemi degli italiani, ho il sospetto che non li risolverà mai, come sta accadendo dopo la tragedia di di San Donato. Si vuole nascondere un fatto drammatico, ovvero che in Italia è tornata una forma di terrorismo dopo moltissimi anni. Pretendo sicurezza per i cittadini e che invece di passare le giornate sui palchi a fare comizi per il proprio partito ci sia un’attenzione massima per il prossimo. Chiedo al Ministro degli Interni di fare una cosa rivoluzionaria, di occuparsi della sicurezza degli italiani”. A questo coro anti Salvini non poteva che unirsi anche Gad Lerner che con un tweet al veleno ha attaccato senza usare giri di parole il ministro degli Interni: “La follia criminale del cittadino italiano Ousseynou Sy si legge su Twitter è l’esito di una contrapposizione isterica che manifesta ostilità agli immigrati additandoli come privilegiati, negando le loro sofferenze e la loro umanità”. Parole dure che di fatto segnalano un totale sbandamento da parte della sinistra che adesso deve fare i conti con un attentatore frutto delle politiche dell’accoglienza e delle porte aperte create proprio da loro. La sinistra e tutti questi radical chic dovrebbero vergognarsi delle dichiarazioni che fanno. Sono degli ipocriti, falsi e anti italiani. Sanno solo parlare e criticare ma quando devono mettere mano al loro portafoglio o ai loro beni per aiutare o sostenere i migranti o i clandestini che tanto difendono se ne guardano bene dal farlo . È troppo comodo parlare di accoglienza con i soldi degli italiani. È troppo comodo cercare di difendere i clandestini o i migranti che delinquono perché secondo questi falsi di sinistra sono persone disagiate che avendo bisogno possono anche permettersi di delinquere e sono giustificati. A Questi ricconi radical chic sinistroidi che risiedono in quartieri prestigiosi o in ville super corazzate non vivono di certo i problemi legati all’insicurezza che purtroppo proprio per colpa di questa gente sono costretti a vivere la maggior parte degli italiani. Questi Radic chic sinistroidi e tutti questi falsi buonisti con il Rolex al polso, difensori dell’accoglienza a spese rigorosamente degli altri al polso che parlano di accoglienza perché non si adoperano in prima linea mettendo mano al loro portafoglio per aiutare e sostenere tuti quello che a ditta loro scappano dalle guerre e devono essere aiutati? Perché toccare i loro Averi per aiutare gli altri gli dà fastidio è questa la sola verità. L’unica cosa che sono capaci di fare è quella di criticare chiunque non sia ipocrita come loro. Vergogna!
Il sondaggio di Antonio Noto: per gli italiani non c'è un collegamento tra politica anti-immigrati e terrore, scrive il 24 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Non c'è nessun collegamento tra la politica anti immigrati di Matteo Salvini, il razzismo e il terrore. "Ousseynou Sy, il senegalese con cittadinanza italiana che, adducendo motivi legati, appunto, alle politiche restrittive della chiusura dei porti, ha preso in ostaggio 51 ragazzi e solo per il pronto intervento delle forze dell' ordine non è accaduta una strage", sostiene Antonio Noto illustrando il suo sondaggio su Il Giorno, non c'entra niente con il leader della Lega. "Per gli italiani esiste un pericolo che la politica anti-immigrazione portata avanti dal Governo possa generare la possibilità di atti terroristici da parte di fanatici isolati o gruppi organizzati? La risposta è No". Il 64%, continua il sondaggista, "mette in relazione questi fatti più con la politica internazionale che con quella interna. Infatti, secondo la maggioranza assoluta degli italiani le ragioni che generano gli atti di violenza sono da ricercare prevalentemente nelle crisi internazionali, mentre solo per il 18% è il frutto della politica nostrana relativa alla chiusura dei porti o all'irrigidimento del Governo sulle tematiche dell' immigrazione clandestina. Il 5% inoltre pensa che le responsabilità siano da ricercare nelle espulsioni o nella percezione di minore sicurezza. Probabilmente, anche in seguito all'ultimo fattaccio della presa in ostaggio a Milano dei giovani studenti, il 67% teme che ci saranno altri atti violenti contro gli italiani. Un consistente 21%, invece, stima che ci potranno essere contro gli immigrati, quindi da parte di italiani".
«DATE LA CITTADINANZA ANCHE AL MIO ADAM». Elisabetta Andreis per il ''Corriere della Sera'' il 23 marzo 2019. Lancia l 'assist Ramy: «Cittadinanza italiana per me? Grazie, ma allora anche a mio fratello e a tutti i miei amici che crescono in Italia». Raccoglie la palla Adam: «Il governo dovrebbe darla anche a me. E agli altri compagni di classe che stavano con noi sul bus. Frequentiamo la scuola qui, la cittadinanza dovrebbe essere un diritto non un premio o un regalo». Fanno il gioco di squadra i due amici di seconda media che hanno contribuito a scongiurare la sfiorata strage del bus dirottato alle porte di Milano e incendiato dall' autista. Ramy e Adam: il primo, origini egiziane, ha nascosto il cellulare all' aguzzino che li requisiva e con quello ha potuto avvertire i carabinieri (il Viminale sta valutando i documenti pronto a concedere la cittadinanza per merito). Ora si fa avanti il secondo. Col telefono di Ramy, Adam ha fornito alle forze dell' ordine l' esatta posizione del bus. Radici a Fez, anche Adam - come Ramy - è nato in Italia da genitori che ci vivono da tantissimo tempo. Ti senti più italiano o più marocchino? La risposta viene naturale: «Mi sento ragazzo, siamo tutti uguali». Ma tu sei italiano? «Se vivo qui è perché lo sono». Cosa ti piace di questo Paese? «La gente, il comportamento, tutto». Sua madre Hasnaa ieri aveva avanzato la richiesta - così come due giorni fa aveva fatto per suo figlio il papà di Ramy: «L' Italia è il Paese di questi ragazzini a prescindere dal fatto che abbiano avuto coraggio. Sarebbe bello dare la cittadinanza anche a lui». Il padre di Adam, Khalid, è arrivato in Europa nel '99 nascosto su un furgone (così come il papà di Ramy era approdato nel '96 su un barcone «disperato», per usare le sue parole). Aveva 19 anni, cercava un futuro. «All' inizio ero un clandestino in Francia, non c' era lavoro, così mi sono spostato a Crema. Nel 2002 ho ottenuto il permesso di soggiorno - racconta -. Ho fatto l' apprendista stuccatore e ho trovato impiego in una ditta che poi ha dovuto licenziare me e altri per la crisi. Ci hanno venduto all' asta la casa comprata con tanti sacrifici, ci siamo spostati in un bilocale popolare molto umido. Da qualche tempo ho solo lavori saltuari. La vita non è facile ma stiamo insieme e l' Italia ci accoglie quindi siamo sereni», dice. La moglie si era separata dal primo marito quando l' ha conosciuta qui in Italia, nel 2003: «In Marocco non usa che le donne divorzino, tantomeno che si sposino già incinte. Ma lei, che oggi è mia moglie, ha fatto entrambe le cose, in nome di un superiore diritto sentimentale. Noi ci amavamo e ci amiamo. È una donna coraggiosa». Ora che lui è in difficoltà coi guadagni la aiuta nei lavori (è addetta alle pulizie) e con i bambini. «Famiglia italianissima modestamente bella», scherza quel papà. All' appello di Ramy e Adam per il diritto allo « ius soli temperato» si accodano altri studenti da tutta l' Italia. All' istituto Oriani Mazzini di Milano hanno deciso di fare una festa per gli alunni che hanno appena ottenuto l' agognata cittadinanza: «Riceveranno in regalo la Costituzione», dice il preside Marco Fassino. Significative le parole di una di loro, Mame Diara Dieng dal Senegal: «È un paradosso, ora a casa io ce l' ho, i fratelli no... ». In Italia vige lo ius sanguinis , ovvero si diventa cittadino italiano se figlio di italiani. Lo ius soli , legato alla nascita sul territorio nazionale, è invece previsto per il momento solo in alcuni casi. Per il resto il minorenne straniero, figlio di stranieri con regolare permesso di soggiorno ma nato in Italia, può diventare italiano solo dopo il compimento del 18° anno e dopo aver dimostrato di aver vissuto ininterrottamente sul territorio nazionale (al netto di chi acquisisce la cittadinanza per matrimonio oppure perché risiede qui da almeno 10 anni, o da 4 se si è cittadini Ue).
Rinaldo Frignani per il ''Corriere della Sera'' il 23 marzo 2019.
1 Quali sono le fattispecie che, secondo lo «ius soli», consentono ai minori di diventare italiani?
È automaticamente italiano chi è figlio di genitori ignoti e si trova sul territorio italiano, oppure è figlio di apolidi, o ancora di persone che non hanno la possibilità di trasmettere al figlio la propria cittadinanza secondo le leggi dello Stato di provenienza, e quando non si può provare il possesso di altra cittadinanza.
2 Cosa deve fare un ragazzo straniero appena maggiorenne, che ha vissuto sempre in Italia, per ottenere la cittadinanza?
Recarsi entro un anno presso l' ufficio di Stato civile e presentare domanda di cittadinanza. Bisogna pagare 250 euro al ministero dell' Interno e consegnare copia dell' atto di nascita, del permesso di soggiorno ininterrotto fino ai 18 anni, del certificato di residenza dalla nascita fino ai 18 anni e il passaporto valido.
3 Il richiedente deve dimostrare di avere un reddito minimo?
In questo caso non è previsto e non è obbligatorio avere la fedina penale pulita. L' iscrizione al registro di cittadinanza scatta dopo il giuramento.
4 Quali altri modi ci sono per ottenere la cittadinanza da minorenne?
Se si viene riconosciuti come figli da un cittadino italiano oppure a farlo è un giudice. Se si viene adottati, con provvedimento della magistratura, anche straniera, ma riconosciuta dal nostro Paese, con ordine del tribunale dei minorenni di iscrizione allo Stato civile. E se conviventi con i genitori che acquistano o riacquistano la cittadinanza.
5 Cosa accade al minore straniero che arriva in Italia?
Anche se entra nel nostro Paese in modo illegale, gli vengono riconosciuti i diritti previsti dalla Convenzione di New York sui Diritti del fanciullo del 1989. La priorità è il suo «superiore interesse». Tuttavia in questo caso non è prevista la cittadinanza, ma solo varie tipologie di permessi di soggiorno: per minore età, affidamento, motivi familiari (con parenti entro il terzo grado e regolari in Italia), protezione sociale, richiesta di asilo e asilo.
6 È prevista la cittadinanza per meriti speciali?
Sì, a patto che l' interessato presti giuramento di fedeltà alla Repubblica. Può essere concessa con decreto del capo dello Stato, sentito il parere del Consiglio di Stato e dopo delibera del Consiglio dei ministri su proposta del Viminale - in accordo con la Farnesina -, allo straniero che abbia reso eccezionali servizi all' Italia o quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato. Al processo concorrono i pareri degli organismi di sicurezza e delle Prefetture. Si è cittadini italiani dal giorno successivo al giuramento.
7 Quando scatta la revoca?
In automatico quando il soggetto si arruola nell' esercito di uno stato straniero oppure se lavora in un ente pubblico straniero nonostante il divieto del governo italiano, o ancora se viene revocata l' adozione per sua colpa (ma soltanto se in possesso di un' altra cittadinanza) e infine se in stato di guerra con un' altra nazione abbia acquisito la sua cittadinanza, vi abbia ricoperto un incarico pubblico o vi abbia prestato servizio militare.
8 E per il decreto sicurezza?
Nel caso rappresenti una minaccia per la sicurezza nazionale dopo condanne per gravi reati: definitive per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell' ordinamento costituzionale, per i quali la legge prevede pene non inferiori nel minimo a 5 e nel massimo a 10 anni di reclusione. La revoca della cittadinanza scatta entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell' Interno.
Matteo Salvini a bomba su Ramy, il ragazzino che ha fermato Sy: "Quando sarà parlamentare...", scrive il 23 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Lo Ius soli per Ramy? Questa è una scelta che potrà fare quando verrà eletto parlamentare". Matteo Salvini va giù piatto sul caso del ragazzino di padre egiziano protagonista insieme ad altri suoi compagni di scuola del drammatico dirottamento dell'autobus sulla Paullese, all'altezza di San Donato (Milano). L'autista senegalese Ousseynou Sy ha minacciato di dar fuoco a 51 studenti e a tutto il mezzo "per vendicare i bimbi migranti morti nel Mediterraneo" ma Ramy, Samir e Adam hanno avuto il sangue freddo di chiamare i soccorsi con i loro cellulari mettendo così tutti in salvo. La vicenda, commovente, ha scatenato subito una polemica politica contro "il razzismo alimentato dalle politiche di Salvini sui porti chiusi" e la richiesta, da sinistra, di riaprire la questione Ius Soli. Lo stesso Ramy ha ammesso di aspettarsela per il gesto eroico, ma Salvini taglia corto: "Cittadinanza ai bambini? Stiamo facendo le verifiche del caso. Ma la legge sulla cittadinanza rimane così com'è".
Pif attacca Salvini sul caso Ramy: "È semplicemente un bimbominkia". L'ex iena, oggi attore e regista, definisce il vicepremier "un Ministro dell'Interno che fa il bullo con un ragazzino di 13 anni", scrive Salvatore Di Stefano, Domenica 24/03/2019 su Il Giornale. "Abbiamo un ministro dell'interno che fa il bullo con un ragazzino di 13 anni. Definirlo "ministro della mala vita" forse va al di là delle sue capacità. È semplicemente un BIMBOMINKIA". Musica e parole di Pierfrancesco Diliberto, meglio conosciuto come Pif, rilasciate sulla sua pagina Facebook ufficiale. L'ex iena, oggi attore e regista impegnato con la promozione del suo nuovo film, ha sfruttato l'occasione per farsi pubblicità replicando alle parole di Matteo Salvini in merito alla richiesta di Ramy, il ragazzino di origine egiziana che per primo ha allertato i carabinieri nel corso della tentata strage allo scuolabus di Crema, di poter divenire cittadino italiano: "Ramy vorrebbe avere lo Ius soli? È una scelta che potrà fare quando verrà eletto parlamentare per il momento la legge sulla cittadinanza va bene così come è". Non è certo la prima volta che il buonista Pif si espone politicamente: appena pochi giorni fainfatti, ospite di Lilli Gruber alla trasmissione "Otto e mezzo", aveva invitato il governo in carica a riapire i porti alle merci ed alle persone umane.
Alessandro Sallusti a valanga sul ragazzino eroe dell'autobus: "Caro Ramy, ecco cosa non hai capito", scrive il 24 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Ramy, il ragazzo egiziano che con le sue telefonate ha sventato la strage sul bus dirottato da un terrorista senegalese, non si accontenta della cittadinanza «per merito» ipotizzata in queste ore, ma vuole lo ius soli per tutti, cioè la cittadinanza per diritto di nascita". Peccato, scrive Alessandro Sallusti nel suo editoriale su Il Giornale, che "la sua richiesta, legittima come tutte quelle di un ragazzo, riaccende il dibattito su un tema che ha infiammato lo scorcio della legislatura precedente e che probabilmente nell'urna è costato caro alla sinistra". Quindi Sallusti gli spiega una cosa: "Con la sua richiesta, Ramy dimostra di non aver capito il basilare principio che lega i diritti ai doveri, cardine della nostra civiltà fin dall'antica Roma anche in tema di cittadinanza multietnica: diventare cittadino romano - cosa ai tempi molto ambita anche perché garantiva privilegi e protezione - non era un diritto, ma un percorso aperto pure a chi arrivava come schiavo". E conclude: "Ben venga anzitempo tra noi italiani a tutti gli effetti. Ma per uno come lui ce ne sono tanti, vedi il suo mancato aguzzino". "Ringrazieremo sempre Ramy per quello che ha fatto" ma "gli consigliamo di non cadere nell'italico vizio della furbizia e della continua ricerca di scorciatoie in cui siamo già campioni di nostro".
Caro Ramy, nun t'allargà. Polemica sullo ius soli, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 24/03/2019 su Il Giornale. Ramy, il ragazzo egiziano che con le sue telefonate ha sventato la strage sul bus dirottato da un terrorista senegalese, non si accontenta della cittadinanza «per merito» ipotizzata in queste ore, ma vuole lo ius soli per tutti, cioè la cittadinanza per diritto di nascita. La sua richiesta, legittima come tutte quelle di un ragazzo, riaccende il dibattito su un tema che ha infiammato lo scorcio della legislatura precedente e che probabilmente nell'urna è costato caro alla sinistra che l'aveva sostenuto a spada tratta. Lo ius soli, a nostro avviso, è una regola di civiltà solo se civile è l'ingresso in un Paese, cosa che attualmente non si può certo dire riguardo l'immigrazione in Italia. Non possono essere infatti le mafie libiche o gli scafisti a decidere chi deve diventare italiano e chi no. Non può essere la lotteria della fortuna, né la resistenza fisica che ti fa superare peripezie e sofferenze in mare. Diventare italiano deve essere un percorso convinto, legale e trasparente, detto che già oggi lo diventi al raggiungimento della maggiore età (e non che i minorenni siano senza diritti) o per matrimonio con una italiana, come (purtroppo) ha fatto il terrorista del bus. Con la sua richiesta, Ramy dimostra di non aver capito il basilare principio che lega i diritti ai doveri, cardine della nostra civiltà fin dall'antica Roma anche in tema di cittadinanza multietnica: diventare cittadino romano - cosa ai tempi molto ambita anche perché garantiva privilegi e protezione - non era un diritto, ma un percorso aperto pure a chi arrivava come schiavo. Con il suo gesto «eroico» (nel senso di decisivo) Ramy ha bruciato le tappe e, quindi, ben venga anzitempo tra noi italiani a tutti gli effetti. Ma per uno come lui ce ne sono tanti, vedi il suo mancato aguzzino ma anche i giovani immigrati che alla scuola preferiscono delinquere, che non hanno capito quale è la strada per acquisire titoli e meriti. Ringrazieremo sempre Ramy per quello che ha fatto a tutela sua e dei suoi amici. Ma gli consigliamo di non cadere nell'italico vizio della furbizia e della continua ricerca di scorciatoie in cui siamo già campioni di nostro. Speriamo di dargli presto il benvenuto, ma, come si dice dalle nostre parti, mi raccomando: nun t'allargà.
Vittorio Feltri: Ramy e Adam? La cittadinanza non si regala. Va conquistata, scrive il 28 Marzo 2019 Libero Quotidiano. E così abbiamo scoperto che la cittadinanza italiana non è più una conquista che gli stranieri ottengono dopo un periodo più o meno lungo di permanenza disciplinata nel nostro Paese: è diventata un premio per ragazzini coraggiosi e svegli capaci di neutralizzare un imbecille assassino potenziale intenzionato a dare fuoco a un pullman zeppo di studentelli. La vicenda è nota e ha commosso chiunque non abbia la sensibilità di un coccodrillo. Pare che Di Maio abbia convinto Salvini a italianizzare i piccoli eroi di cui i mezzi di informazione hanno raccontato fino alla noia le gesta. Avere qualche connazionale in più degli attuali meritevole di encomio per essersi comportato non bene, ma benissimo, davanti alle minacce di un idiota in preda a delirio criminale, non ci disturba affatto. Anzi. Ci fa addirittura piacere. La cosa può passare liscia. Tuttavia non comprendiamo come si possa trasformare una faccenda tanto truce e inquietante allo scopo di propagandare in maniera sgangherata una sorta di ius soli improvvisato, che finora non è legge giacché non interessa a nessuno, tranne la sinistra alla melassa, i preti sprovveduti e il Papa impegnato a favorire l' immigrazione selvaggia. La storia di Ramy e Adam ha spopolato grazie alla risonanza mediatica che ovviamente ha suscitato, date le dimensioni tragiche che avrebbe potuto avere senza l' intervento decisivo dei due giovincelli. Non ne siamo stupiti, ci mancherebbe. Nutriamo per i fanciulli ammirazione non disgiunta da gratitudine. Però ci domandiamo perché il povero senegalese, Ousmane Cissokho, il quale un paio di mesi orsono si tuffò nelle gelide acque del Brenta, salvando da sicuro annegamento un disgraziato compatriota che vi era precipitato, non ha ancora ricevuto quanto gli era stato promesso sotto forma di remunerazione del suo gesto: un banale permesso di soggiorno. L'unica ricompensa che egli ha conseguito fin qui sono state due dita negli occhi. Non gli resta che aspettare e sperare di non essere dimenticato come un fesso qualsiasi pronto a sacrificare la vita per non costringere un nostro connazionale a perdere la propria tra i flutti del fiume. Due pesi e due misure incomprensibili. Perché regalare la cittadinanza agli adolescenti diventati personaggi televisivi e negare il soggiorno a un senegalese che non ha esitato a inabissarsi per trarre a riva un signore destinato a crepare? Qualcuno ce lo dovrebbe spiegare. Non succederà. Segnalo che se un concittadino compie una azione generosa al massimo si guadagna una medaglia al valor civile, se invece un minore straniero fa lo stesso viene issato sull'altare e magari gli danno pure una pensione. Non è l'impresa che conta bensì la sensazione che essa provoca attraverso l' amplificazione del video. Che orrore. Vittorio Feltri
La cittadinanza non basta a integrare, scrive il 23 marzo 2019 Andrea Indini su Il Giornale. C’è forse un collante migliore dello ius soli per una sinistra in cerca di rimettere insieme le macerie lasciate da Matteo Renzi? Probabilmente no. E così, complice Repubblica che fa da gran cassa, i notabili piddì hanno sviato l’attenzione dall’attentato allo scuolabus per una battaglia che è già stata bocciata in passato dal parlamento e dagli italiani. D’altra parte la riforma della cittadinanza, che i progressisti hanno in mente per accaparrarsi i voti degli immigrati, si sposa molto bene con la violenta crociata a favore dell’accoglienza che i dem stanno mettendo in campo per provare a contrastare la dilagante presa che Matteo Salvini ha sugli italiani. Il dibattito sullo ius soli, però, è solo fumo negli occhi. A tirarlo fuori è stato Khalid Shehata, padre di Rami, il 13enne che con il cellulare ha avvertito i carabinieri sventando così il folle piano di Ouesseynou Sy di incendiare lo scuolabus con 51 bimbi a bordo. Vuole per il “figlio eroe” la cittadinanza in regalo. Certo, la scaltrezza del giovanissimo ha permesso di salvare molte vite ma è stato un riflesso dettato dallo spirito (del tutto umano) di autoconservazione. Ha sì salvato i compagni di classe, ma ha soprattutto salvato se stesso. Eppure l’opinione pubblica ha strumentalizzato la cronaca per rimettere al centro del dibattito politico un tema che speravamo non dover toccare a lungo: lo ius soli, appunto. Ecco perché da nessuna parte viene fuori che Rami non ha fatto tutto da solo. Al suo fianco c’era un altro ragazzino: Ricky. Lui, però, è italiano. E quindi non fa notizia. “Uno dei telefoni, quello di un mio compagno, è caduto a terra – ha raccontato Ricky – allora mi sono tolto le manette, facendomi anche un po’ male, e sono andato a raccoglierlo e abbiamo chiamato i carabinieri”. L’Arma, appunto. Si sono gettati all’inseguimento dello scuolabus dirottato, gli hanno tagliato la strada e hanno lottato a mani nude per liberare i bambini dalla furia del terrorista senegalese. Anche loro sono stati presto dimenticati. E di quel maledetto mercoledì mattina è rimasto un solo eroe. Non voglio assolutamente sminuire quanto ha fatto Rami, ma la crociata del Pd suona bieca e drammatica proprio se si analizza con onestà intellettuale la vita di Ouesseynou Sy che la cittadinanza italiana l’aveva eccome. Eppure questa non lo ha vaccinato dall’odio nei confronti del Paese che lo aveva ospitato. “Davvero la cittadinanza vuol dire integrazione?”, si è chiesto Toni Capuozzo nei giorni scorsi. E la risposta è “no”. Ouesseynou Sy era cittadino italiano, sposato con una italiana, da cui ha avuto due figlio e poi ha divorziato. Da almeno quindici anni lavorava per la società a cui ha sequestrato lo scuolabus per compiere una strage nell’aeroporto di Linate. Prima dell’attentato, molto probabilmente, qualche buonista lo avrebbe addirittura potuto prendere a modello di integrazione. Tutti questi anni passati in Italia, eppure era (e resta) convinto che le morti nel Mar Mediterraneo siano colpa degli italiani e non degli scafisti e, soprattutto, che cinquantun ragazzini possano essere sacrificati in nome della sua cieca ideologia. Tutto questo dovrebbe far risuonare un campanello d’allarme nelle teste dei dem che oggi chiedono a gran voce di regalare la cittadinanza italiana a destra e manca. Non servirà a integrare persone che non vogliono essere integrate. Al contrario svelerebbe, ancora una volta, la nostra debolezza nel far rispettare le leggi, prestando il fianco a chi ci vede come una facile terra di conquista.
I 138mila Rami delle scuole lombarde che aspettano la cittadinanza: "Noi stranieri solo sulla carta". La vicenda dei due studenti di origine straniera protagonisti del salvataggio dei loro compagni sullo scuolabus dirottato a San Donato riaccende il dibattito sullo Ius soli: secondo la Cattolica Milano è la prima città in Italia per numero di studenti con cittadinanza straniera, scrive Elisabetta Invernizzi il 30 marzo 2019 su La Repubblica. "La mia vita è in Italia". Rami, il ragazzino di origini egiziane protagonista del salvataggio sul bus dirottato, avrà la cittadinanza italiana. "Per atti di bravura o coraggio, le leggi si possono superare", ha detto il ministro dell'Interno Matteo Salvini. Ma al di là del gesto eroico del tredicenne, il caso ha riacceso il dibattito sullo Ius soli. Di "questione significativa", a proposito dei bambini nati in Italia da genitori stranieri, ha parlato anche il sindaco, Beppe Sala. Ma quanti sono i futuri italiani che siedono tra i banchi di scuola e che, a differenza di Rami, devono attendere i diciotto anni per presentare la domanda di cittadinanza? Tra Milano e Monza Brianza sono 53.902 (dati Miur) - 138mila in Lombardia - e la nostra regione segna un record: qui, secondo uno studio del Cirmib (Centro di iniziative e ricerche sulle migrazioni) della Cattolica, il 65 per cento degli studenti stranieri è nato in Italia, contro una media nazionale del 61 per cento. Tra chi è nato in Italia e chi è arrivato qui da piccolo, secondo i dati del ministero dell'Istruzione, che si fermano al 2017/18, nelle scuole milanesi, da quelle dell'infanzia alle superiori, ci sono 74.861 alunni stranieri su un totale di 438.294. Milano è la prima città in Italia per numero di studenti con cittadinanza non italiana. La capitale guarda da lontano (62.163) mentre subito dopo Torino (38.442), spuntano altre due città lombarde: Brescia (32.808) e Bergamo (25.238). E non è un caso, perché la classifica incorona la Lombardia come regione con il più alto numero di minori stranieri in termini assoluti (212.347 su un totale di 1.402.103). "Offre più opportunità di lavoro e di stabilizzazione alle famiglie, e di conseguenza qui è più alta la scolarizzazione dei bambini", spiega Milena Santerini, ordinario di Pedagogia interculturale alla Cattolica. Tanto che in Lombardia gli alunni stranieri sono il 15 per cento (contro una media nazionale del 10). E in crescita: negli ultimi dieci anni sono quasi raddoppiati, passando da 121mila a 208mila. Più in generale, è il Nord a raccogliere la fetta più grande di alunni con cittadinanza non italiana (64 per cento). In Lombardia, Piemonte e Liguria la concentrazione maggiore (38 per cento). Il motivo è semplice. " In queste regioni c'è un'immigrazione di più vecchia data", osserva Santerini. "È normale che ci siano più ragazzini nati e cresciuti qui rispetto ad altre zone del Paese dove o ci sono meno immigrati o meno possibilità di mettere radici". Ma è a Milano, capitale multietnica, che si gioca la sfida più delicata. Perché, se nelle altre città lombarde le quote sono più distribuite - spicca Brescia con il 16 per cento di studenti stranieri della regione, e poi Bergamo (12), Varese, Monza e Brianza (7) - , il capoluogo ne raccoglie, da solo, un terzo. La maggior parte frequentano le scuole primarie (27.560) e le superiori (16.408), e queste ultime segnano anche una tendenza. Nella scelta dell'indirizzo, se gli italiani mettono al primo posto il liceo, gli stranieri preferiscono il tecnico (6.819) e il professionale (5.309). "Spesso queste famiglie hanno poche risorse economiche e vogliono che il figlio, dopo il diploma, possa trovare un lavoro, per questo finiscono per rinunciare al liceo", spiega Santerini, che ricorda però che a Milano moltissimi ragazzi di seconda generazione, alla fine, proseguono gli studi all'università. Un esercito di potenziali aspiranti italiani che, con le norme attualmente in vigore, devono attendere i diciotto anni per chiedere la cittadinanza. Anche se "più del 60 per cento di questi studenti è nato qui, e straniero lo è solo sulla carta. Sanno perfettamente la lingua e condividono con i coetanei diversi aspetti della vita, dal gioco al cibo allo sport". In questo processo la scuola è fondamentale. Anche per i neo arrivati, che si trovano ad affrontare, tra gli altri, l'ostacolo della lingua. Ma "l'educazione interculturale a Milano vanta una storia ventennale. Si è sviluppata una riflessione sull'inserimento e sull'accoglienza, ci sono laboratori linguistici e si traducono le norme della scuola e le pagelle". C'è attenzione anche verso i genitori e spesso non sanno l'italiano bene come i figli. "Le nostre scuole, da questo punto di vista, sono molto avanti. Milano è un modello di integrazione, pur con tante difficoltà", osserva Santerini, che però mette in guardia. "Bisogna stare attenti a non perdere questo patrimonio". Perché la questione dello Ius soli "è seria" . La docente non ha dubbi: "Questi bambini, spesso bilingui, sono una risorsa perché sanno viaggiare tra due culture, che è esattamente quello che ci chiede il mondo globale. Ma li stiamo confinando in un limbo" . Senza cittadinanza "sei italiano, ma sei sempre considerato un estraneo. Il problema più forte per loro è a livello psicologico".
Esercizi di libero razzismo. L’autista milanese, il bambino egiziano e tanti giornalisti xenofobi a loro insaputa, scrive Piero Sansonetti il 22 Marzo 2019 su Il Dubbio. Ieri mattina, leggendo i giornali, mi è venuta una grandissima tristezza. Il dramma del pullman a San Donato – pieno di bambini minacciati da un autista folle o terrorista – era trasformato in una semplice e ghiotta occasione di campagna xenofoba, o forse razzista. Sì, una grandissima tristezza, perché ormai, da tempo, non mi indigno più. Tristezza per la constatazione dell’ampiezza del sentimento xenofobo in Italia e della facilità con la quale è penetrato nel profondo nella nostra intellettualità. E tristezza per il giornalismo, ridotto a urla scomposte, a propaganda vecchia vecchia, a macero dell’informazione. Trascrivo qui alcuni titoli, tutti pubblicati in prima pagina, tutti in testata e a piene colonne. Uno diceva così: « Il bello dell’accoglienza: senegalese cerca di bruciare vivi 51 bambini». L’altro, più fantasioso, prendeva spunto dal Vangelo: « Senegalese emulo di Erode voleva bruciare i bambini». Sono titoli di due dei più combattivi giornali filogovernativi. Poi c’è il titolo di uno dei più combattivi giornali dell’opposizione, che va oltre: «Terrorismo buonista». In questo caso il razzismo non c’entra. L’accusa (abbastanza pesante: di terrorismo) è rivolta alle componenti della società favorevoli alla accoglienza, in primo luogo, immagino, alla Chiesa cattolica e al papa Bergoglio che vengono sempre accusati di questo orrendo peccato: il buonismo…Nei primi due casi, invece, il razzismo c’entra eccome. Anche perché in quell’autobus maledetto c’erano effettivamente degli extracomunitari ma nessuno di loro era senegalese. L’autista che ha compiuto il gesto folle di dirottare il pullman e poi di minacciare di morte un’intera scolaresca era un autista italiano. Che però aveva la pelle nera. E dunque, quando si scrive senegalese, visto che quel signore non è senegalese, si intende semplicemente “negro” Di extracomunitari in quel pullman ce n’erano parecchi. Tutti bambini. E in particolare c’era, Rami, di nazionalità egiziana, che è il bambino che è riuscito a tenere nascosto il telefonino e quindi a lanciare l’allarme e a salvare i suoi compagni italiani e stranieri e i professori. Rami non è italiano anche se è nato in Italia. Se il centrosinistra avesse approvato la legge sullo Ius Soli ( osteggiata come legge barbara dalla Lega, e anche dal centrodestra) Rami sarebbe italiano. Ma il centrosinistra, con l’avvicinarsi delle elezioni e i sondaggi che dicevano che il senso comune ( sempre più lontano dal buonsenso) voleva politiche xenofobe, si impaurì e rinunciò a una legge di civiltà. Non so se in cambio riuscì ad ridurre la perdita dei voti. Forse no. Comunque Rami è rimasto egiziano. Dunque, se per fare il titolo fosse stato proprio necessario citare le nazionalità, il titolo avrebbe dovuto essere: « Bambino marocchino salva 50 compagni di scuola dalla follia di un autista milanese ». Sarebbe stato un bel titolo, no? Sicuramente più aderente alla realtà di quei titoli di linciaggio del senegalese. Vi risparmio la trascrizione dei tweet che sono arrivati sul mio telefonino. A centinaia su posizioni assai più radicali di quelle del Ku Klux Klan. Io non penso che di fronte a questa deriva, che riporta indietro la nostra civiltà di molti decenni, bisogna stracciarsi le vesti, e gridare, e magari invocare leggi che puniscano i razzisti o gli xenofobi. Peggio della xenofobia, secondo me, c’è solo l’aspirazione a leggi che qualunque cosa succede risolvono aumentando le pene. Per carità: almeno difendiamo la libertà. Di fronte alla indubbia deriva razzista, io penso, bisogna semplicemente decidersi ad ammettere che questa deriva c’è. E’ profonda, trascina con sé gran parte dell’opinione pubblica, riguarda l’intellettualità, i giornali, i partiti, l’establishment. Io non penso che il razzismo vada messo fuorilegge ( anzi, penso che vada abolita la legge Scelba- Mancino). Il razzismo ( o la più frequente xenofobia, cioè paura dello straniero) sono fenomeni di opinione. E come tali vanno trattati. Nella recente modernità hanno finito per essere considerati “infami” fenomeni di opinione, ma l’aggettivo ( infami) è sempre relativo e dipende dal punto di vista e dall’epoca. Nel passato ci sono stati grandi menti che erano largamente razziste. Voltaire era antisemita. Jefferson era uno schiavista e anche Jack London scriveva cose pessime sui neri. Noi pensavamo di avere superato finalmente quello stadio della civiltà? Beh sbagliavamo. Basta ammetterlo e già possiamo di iniziare la risalita.
Matteo Salvini e Ramy, quello che non si sapeva: perché non gli dà la cittadinanza, il brutto sospetto, scrive il 26 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Niente cittadinanza a Ramy, almeno per ora. Tira dritto, Matteo Salvini, e nella polemica involontaria con il 13enne italo-egiziano piccolo eroe dell'autobus dirottato a San Donato Milanese mercoledì scorso il ministro degli Interni si lascia sfuggire qualcosa di grosso. "Le cittadinanze non le posso regalare, non sono biglietti per le giostre", ha spiegato Salvini, respingendo in un colpo il pressing del ragazzino, che dopo aver salvato i suoi 50 compagni di scuola sequestrati dall'autista-terrorista senegalese Ousseynou Sy si aspetta la cittadinanza italiana, e soprattutto quello del Pd che strumentalizza la vicenda ritirando fuori il tema Ius soli. L'alleato Luigi Di Maio è stato secco: "Quel bambino merita la cittadinanza perché gli va riconosciuto un merito civile, così come all'altro suo amico". Salvini respinge con garbo: "Stiamo facendo tutti gli approfondimenti del caso, evidentemente non sul ragazzino di 13 anni ma su altri, perché io la cittadinanza la concedo a chi ha la fedina penale pulita. Penso che tutti abbiano capito di cosa stia parlando". "Sarebbe sgradevole entrare nel merito", ma è necessario farlo: le "ombre e i dubbi" sono sul padre di Ramy: "Qualcuno la cittadinanza non l'ha chiesta e non l'ha ottenuta dopo 20 anni, fatevi una domanda e datevi una risposta sul perché - ammette ancora Salvini -. Conto di incontrare Ramy il prima possibile e di fare quello che la legge mi permette di fare e non faccio quello che la legge non mi permette di fare".
Salvini, Rami e l’arroganza, scrive Piero Sansonetti il 26 Marzo 2019 su Il Dubbio. Mi ha molto colpito il modo brusco con il quale Matteo Salvini ha risposto a Rami, il ragazzino africano che ha avuto un ruolo chiave nell’azione che ha salvato 50 suoi coetanei dall’azione di un pazzo autista di pullman scolastico. Rami aveva molto educatamente ringraziato il ministro, che gli offriva la cittadinanza italiana, e poi si era permesso di esprimere una sua idea: che la cittadinanza fosse estesa a tutti i bambini che nascono in Italia da genitori stranieri. Naturalmente non è obbligatorio essere d’accordo sullo Ius Soli. Cioè su una ipotetica legge che garantisca il diritto di essere italiano a chi nasce in Italia; però esistono le buone maniere, e poi esiste una cosa ancora più importante: il principio secondo il quale ciascuno ha diritto di esporre le sue idee, con la forza della sua capacità di spiegare o eventualmente con la forza della sua autorità morale. L’autorità morale dipende da tante cose, dalla propria biografia o anche da un gesto. Norberto Bobbio, per esempio, era autorevole per la sua sapienza; l’ autorevolezza piccola piccola e umile di Rami dipende invece dal comportamento che ha avuto di fronte al dirottamento, quando ha dimostrato di essere scaltro, intelligente e molto coraggioso. Salvini gli ha risposto a muso duro, spiegandogli che se vuole avere il diritto di discutere con lui ( con lui Salvini, dico) deve prima innalzarsi alla sua altezza. E dunque potrà parlare di Ius Soli solo se e quando diventerà deputato. Io mi auguro che Rami diventi davvero deputato, perché l’ho sentito parlare e mi fido di lui: le leggi però dicono che prima deve ottenere da Salvini la cittadinanza, poi deve compiere 18 anni, infine deve aspettare un turno elettorale per la Camera. Ci vorranno sette o otto anni, probabilmente. Intanto? Silenzio. Naturalmente però la discussione non è sui tempi, è sui modi. La risposta di Salvini è una risposta arrogante. Decisamente e indiscutibilmente arrogante. Ancora più arrogante perché rivolta a un ragazzo che è poco più di un bambino. E ancora, ancora, ancora più arrogante perché rivolta a un ragazzo che aveva stupito l’Italia con la sua intraprendenza. Penso che chiunque convenga sul fatto che se un signore di 50 anni apostrofa brutalmente un ragazzino – il quale si è limitato a pronunciare educatamente una sua idea – crea scandalo. Solitamente viene bollato come bullo. Gran parte dei giornali italiani, per anni, hanno definito bullo Renzi, perché aveva maltrattato Letta o Landini o Sallusti. A me non piaceva quella aggressività di Renzi, però Renzi non si è mai sognato di maltrattare un ragazzo. Perché Salvini se lo può permettere, tra l’altro senza sollevare nessuna indignazione nel mondo politico o nei giornali? Perché, addirittura, se lo può permettere in campagna elettorale? Qualche anno fa un leader politico che a 24 ore da un voto importante come quello in Basilicata fosse inciampato in una gaffe di questo genere, sarebbe stato travolto e avrebbe pagato un prezzo elettorale grandissimo. Salvini non è stato travolto e ha ricevuto un grandissimo premio elettorale. Ha triplicato i voti di un anno fa. La spiegazione, credo, sta proprio nel cambio drastico che ha subìto il senso comune. Sebbene noi viviamo in un’epoca nella quale l’indice di violenza nella società ed in politica – è inferiore centro volte a quello di un quarto di secolo fa, tuttavia viviamo in una società nella quale la violenza virtuale è passata dall’essere un disvalore all’essere un valore. Cos’è che un tempo determinava il successo di un uomo pubblico? La capacità di mediare, di convincere, di avere idee. Penso a Moro, a Berlinguer, ma anche a figure più aggressive, come quelle di Craxi, o Berlusconi, o D’Alema. Nessuno di loro usava la violenza virtuale come arma di battaglia politica, o addirittura come valore morale. “Valgo perché so aggredire”. Nessuno di loro, del resto, si sarebbe mai definito “il capitano”, anzi, credo che avrebbero trovato offensivo se qualcuno li avesse definiti così. Penso invece ad alcune frasi di Salvini che hanno avuto un gran successo, e vengono ripetute continuamente, anche sui social. Per esempio: «Se uno entra in casa mia non invitato deve uscire coi piedi davanti». Oppure: «Quello deve marcire in carcere». Oppure «Fuori di qui a calci nel culo». Oppure penso ad alcuni suoi atteggiamenti verso gli immigrati, alla rigidità delle sue posizioni. Fino a questa pretesa di ” irraggiungibile”, di superiorità che gli è data dal fatto di essere vicepremier, e la richiesta, a chiunque voglia discutere, di passare prima dalle urne. Pensate se a Pasolini, o a Moravia o a Ugo Spirito avessero detto: “Se volete il diritto di parola sulla politica, prima fatevi eleggere”. O se i Francesi l’avessero detto a Sartre o a Camus. I tedeschi ad Habermas e gli americani ad Einstein. Il problema che si pone, a mio parere, è doppio. Da una parte c’è la questione della selezione della classe politica. Che, mi pare, non viene più costruita e scelta sulla base della sua preparazione, ma solo del tasso di aggressività. Il secondo problema riguarda la società. Che sempre di più riceve dalla politica questo messaggio: ” Il migliore è quello che picchia più duro, quello che umilia l’avversario, quello che ha muscoli e capatosta”. Questo messaggio – a me pare così – non aiuta molto lo sviluppo della civiltà, né il livello culturale del paese.
Attacco all’autobus: “Hanno strumentalizzato mio figlio Ramy”. In un video girato da Francesca Immacolata Chaouqui, il padre di Ramy ha dichiarato che i giornalisti lo hanno più volte invitato a parlare del tema della cittadinanza, scrive Gabriele Laganà, Martedì 26/03/2019, su Il Giornale. Ramy è stato strumentalizzato da politici e giornalisti per portare avanti il dibattito sulla cittadinanza e sullo ius soli. Ad affermarlo è lo stesso padre dell’adolescente scampato lo scorso mercoledì alla strage dell’autobus organizzata dall’autista del mezzo, il senegalese Ousseynou Sy. A riferire la notizia è il portale online Dagospia che ha pubblicato un video girato da Francesca Immacolata Chaouqui, conosciuta per le vicende relative a Vatileaks, nell’aeroporto di Milano. La manager, infatti, ha incontrato nello scalo il ragazzino, considerato essere uno degli eroi di San Donato Milanese, in compagnia del padre. Quest’ultimo, senza fare giri di parole, ha affermato che “io quando ho fatto tante interviste con i giornalisti e con le televisioni... loro mi hanno di chiedere la cittadinanza perché tu ne hai diritto”. Il genitore ha, poi, voluto precisare che lui non ha chiesto niente ma che “loro hanno insistito. È colpa loro, non mia”. Inoltre, alla domanda se si è sentito strumentalizzato per motivi politici, il papà di Ramy ha risposto in modo diretto: “Sì, sì, sì… Io voglio vivere qua in Italia tranquillo”. Di certo, le parole del papà dell'adolescente sono destinate a far discutere.
(ANSA il 26 marzo 2019) Ramy si fida di Di Maio per ottenere la cittadinanza? "Io mi fido della legge, io devo rispettare la legge e farla rispettare". Lo ha detto il ministro dell'Interno e vicepremier Matteo Salvini arrivando al Palazzo delle Stelline, a Milano, per la presentazione del libro di Mario Giordano 'L'Italia non è più italiana'. "Sono contento che non ci siano morti e feriti grazie a lui, agli altri ragazzi e ai Carabinieri. Non commento le stragi mancate" ha aggiunto Salvini commentando le ultime dichiarazioni del tredicenne.
(ANSA il 26 marzo 2019) - "Renzi non avrebbe controllato nulla e avrebbe dato 18 cittadinanze. Poi cosa succedeva dopo chi se ne frega". Così il ministro dell'Interno e vicepremier Matteo Salvini è tornato sulle polemiche per la concessine della cittadinanza a Ramy durante la presentazione del libro di Mario Giordano. "Conto che questo ragazzino torni presto alla sua vita normale perché ho l'impressione che venga usato come paladino della sinistra" ha detto Salvini. "Se la nuova frontiera del Pd è tornare a combattere per lo ius soli vuol dire che ci tocca governare per i prossimi 50 anni", ha aggiunto.
(ANSA il 26 marzo 2019) - Una sfilza di precedenti penali di uno "stretto familiare" di Ramy, il tredicenne "eroe" di san Donato Milanese, sarebbero l'ostacolo all'ottenimento della cittadinanza: che, a questo punto, potrebbe essere concessa a lui, ma non al suo nucleo familiare. E' l'ultimo sviluppo della querelle che - a quasi una settimana dal fallito attacco al bus grazie all'allarme dato dal ragazzino - contrappone i due vicepremier Matteo Salvini e Luigi di Maio, che sulla decisione di concedere al giovane egiziano la cittadinanza hanno deciso di giocare un round della partita politica in vista delle Europee. "Voglio diventare italiano, sono nato qua. Volevo vedere cosa sarebbe successo a Salvini se tutti fossero morti. Tutti sarebbero andati contro di lui. Se tutti lo ringraziano è grazie a me", dice Ramy, che non ci sta a passare da eroe a capro espiatorio dell'ennesima prova di forza tra le due anime del governo. Di Maio ha ribadito la sua posizione: "sulla cittadinanza a Ramy per meriti speciali confido in una rapida risoluzione", scrive su Facebook. "Come sapete nei giorni scorsi ho scritto anche ai ministeri competenti per fare in modo che la sua pratica arrivi presto al Consiglio dei Ministri. Mi aspetto che accada. Anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è d'accordo. Non stiamo a girarci troppo intorno. Diamo la cittadinanza a quel bambino". Salvini, chiudendo nuovamente ogni porta a qualsiasi discussione sullo Ius Soli ("cambiare la legge non è nell'agenda del governo"), in un primo momento rilascia dichiarazioni interlocutorie in cui parla di "approfondimenti in corso" e precisa che "nelle prossime ore" non è previsto un suo incontro con il ragazzo. Poi, in serata, diventa più esplicito. "Stiamo facendo tutti gli approfondimenti del caso. Purtroppo ad ora non ci sono gli elementi per concedere la cittadinanza. Le cittadinanze non le posso regalare e per darle ho bisogno di fedine penali pulite. Non parlo dei ragazzini di 13 anni, ma se qualcuno la cittadinanza non l'ha chiesta e non l'ha ottenuta dopo 20 anni - ha aggiunto, rivolgendosi ai giornalisti - fatevi una domanda e datevi una risposta sul perché". Salvini non lo dice, ma il suo riferimento è a uno stretto parente del ragazzino che ha avuto più di un problema con la giustizia. La circostanza starebbe orientando il Viminale ad attribuire la cittadinanza solo a Ramy e non al resto dei familiari, un percorso che di fatto non avrebbe precedenti (se non quello, che poi non si concretizzò, del bambino inglese Charlie Gard, affetto da una malattia incurabile) ma che difficilmente verrebbe ostacolata. "Conto di incontrare Ramy il prima possibile e di fare quello che la legge mi permette di fare e non faccio quello che la legge non mi permette di fare", ha detto Salvini. Il tredicenne, però, non si stanca di rinnovare la sua richiesta. "Salvini all'inizio ha detto sì, poi no - ribadisce - Di Maio vuole darmela, quindi mi fido Di Maio. E vorrei che anche gli altri la ottenessero, ma non sono io a decidere". E intanto proprio gli amici e i compagni di classe oggi hanno incontrato nella loro scuola a Crema, assieme a professori, dirigenti scolastici e al sindaco, i carabinieri che li hanno salvati. "Noi siamo addestrati a fronteggiare situazioni di rischio - ha detto il comandante provinciale di Milano Luca De Marchis -. E' il nostro lavoro. Per voi si è trattato invece di una situazione eccezionale che avete affrontato nel modo migliore. Siete stati straordinari".
Ramy, Matteo Salvini a sorpresa: "Sì alla cittadinanza, è come mio figlio". Di Maio sciacallo: "Lieto che...", scrive il 26 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "La cittadinanza a Ramy? Sì e un po' come fosse mio figlio, poi devo far rispettare le leggi ma in atti di particolare impegno civile le cose si possono fare, se ci sono cavilli da superare lo faccio". Così il ministro dell'Interno Matteo Salvini nel corso della registrazione della puntata del Maurizio Costanzo in onda giovedì su Canale 5. Subito Di Maio si prende il merito e la butta in politica. "Nei giorni scorsi", dice, "avevo inviato una lettera proprio ai ministeri competenti per chiedere loro di conferire la cittadinanza per meriti speciali al piccolo Ramy. Sono felice di aver convinto anche Salvini sulla cittadinanza a questo bambino. L’ho già detto: questo è un Paese che vale molto più della semplice indignazione". Lo afferma il vicepresidente del Consiglio e ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio. "Salvini ha appena detto sì alla cittadinanza per mio figlio Rami? Io non ne so ancora niente, se fosse così sarei contentissimo. E sarà contento anche mio figlio Rami, che è qui con me, ha una faccia felice ed è contentissimo". Il padre di Rami, Kaled Shehata ha appreso in diretta, dalla trasmissione di Rai Radio1, Un giorno da pecora, la notizia della cittadinanza concessa dal ministro dell'Interno al figlio. Rami invece ha commentato così la notizia: "Sono contento, ringrazio Matteo Salvini e Luigi di Maio". Signor Sheket, sembrava ci potesse essere qualche problema per qualche parente stretto di Rami avrebbe avuto dei precedenti penali. È corretto? "No, non tutta la mia famiglia è pulita - ha aggiunto al programma - non abbiamo nessun problema da questo punto di vista". È vero che incontrerà Salvini? "Sì, voglio vederlo e salutarlo, domani andrò a Roma con Rami per incontrarlo".
Salvini: «Dico sì alla cittadinanza a Ramy, è come un figlio». Domani al Viminale, scrive martedì 26 marzo Alessandra Danieli su Secolo D'Italia. Salvini mette la parola fine al caso Ramy, l’eroe bambino di origini egiziane che ha evitato la tragedia dando l’allarme ai carabinieri dal pullman sequestrato e poi dato alle fiamme da un senegalese a San Donato Milanese. «Sì alla cittadinanza a Ramy perché è come se fosse mio figlio e ha dimostrato di aver capito i valori di questo paese, ma il ministro è tenuto a far rispettare le leggi. Per atti di bravura o coraggio le leggi si possono superaree», ha detto il ministro dell’Interno che nei giorni scorsi aveva ribadito il no allo ius soli. Parole che soddisfano anche il vicepremier grillino Di Maio e il ministro Bonafede che si dicono felici di «aver convinto Salvini». Di Maio ricorda che nei giorni scorsi aveva inviato una lettera proprio ai ministeri competenti per chiedere di conferire la cittadinanza per meriti speciali al piccolo Ramy. Incredulità e soddisfazione nella famiglia di Ramy per la notizia del via libera. «No non ne so ancora niente, se fosse così sarei contentissimo, e sarà contento anche mio figlio Ramy, che è qui con me, ha una faccia felice ed è contentissimo», ha detto il papà del ragazzo Khaled El Hamami (che domani accompagnerà il figlio all’incontro con Salvini) non appena appresa la notizia in diretta da un Giorno da Pecora. «Sono contento per lui, ha fatto una cosa grande per l’Italia e, per questo, gli viene riconosciuta una cittadinanza che merita. Mio figlio é un bravo ragazzo». Sorpreso e contento anche Ramy: «Penso di meritare la cittadinanza italiana, ma questa notizia non me l’aspettavo. Oggi avevo in programma di andare a seguire una partita di calcio con i miei amici, festeggerò con loro, sono contento. Ringrazio Salvini e Di Maio», sono le prime parole del ragazzo alla notizia della cittadinanza italiano sbloccata dal ministro dell’Interno che ha invitato al Viminale 5 ragazzi della scuola Media Vailati e 12 carabinieri, che sono stati coinvolti nel dirottamento del bus, sulla strada Paullese nei pressi di San Donato Milanese I ragazzi che il ministro incontrerà, informa il Viminale, «sono: Adam, che dopo aver nascosto il telefonino al terrorista, è riuscito a chiamare i Carabinieri, fornendo indicazioni utili; Aurora, che, presa in ostaggio, manteneva la calma e il sangue freddo; Fabio, che ha parlato con il terrorista, cercando di dissuaderlo e tranquillizzarlo; Nicolò, che si è offerto come ostaggio, dopo la richiesta del terrorista; Ramy che, anche lui sottraendo all’attenzione il telefonino, riusciva a chiamare i Carabinieri, fornendo ulteriori utili informazioni».
Bus sequestrato, consegnata cittadinanza italiana ad Adam e Ramy. Con una cerimonia ufficiale, questa mattina il sindaco di Crema Stefania Bonaldi ha ufficializzato il conferimento della cittadinanza italiana ad Adam e Ramy. Gabriele Laganà, Sabato 27/07/2019 su Il Giornale. Adam El Hamami e Ramy Shehata, i due ragazzini eroi che diedero l'allarme sul bus sequestrato da Osseynou Sy, l’autista senegalese di 46 anni che voleva invadere la pista di Linate al fine di causare una strage per vendicare i migranti morti nel Mediterraneo, da oggi sono ufficialmente cittadini italiani. Con una cerimonia ufficiale, questa mattina il sindaco di Crema, Stefania Bonaldi, il prefetto di Cremona Vito Danilo Gagliardi, il vicario del Questore di Cremona e il Comandante provinciale dell'Arma dei Carabinieri, hanno consegnato ai due adolescenti la cittadinanza per meriti speciali. Il conferimento della cittadinanza è avvenuto con il decreto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per merito e comportamento di alto valore etico e civico. Adam e Ramy, infatti, si sono "distinti per la freddezza con la quale hanno agito, insieme agli altri, favorendo l'arrivo delle forze dell'ordine". "E' un momento importante, un fatto praticamente unico nel nostro Paese", ha commentato il sindaco. "Sareste stati cittadini italiani anche senza questa cerimonia perché avete mostrato di amare il Paese, che ora è il vostro Paese”, ha inoltre affermato il primo cittadino di fronte ai due giovani visibilmente emozionati. “Certo è importantissimo scriverlo su un pezzo di carta o su un supporto informatico perché solo così i diritti prendono vita, vengono riconosciuti e possono essere fatti valere. Amate questa Italia e sappiate proteggerla come si fa con una madre”. Per il prefetto Gagliardi "questo è il modo migliore di diventare cittadini: dimostrando umanità, fratellanza e coraggio". Quel 20 marzo a bordo del pullman vi era una scolaresca di 51 studenti. Il conducente, da 15 anni in servizio per le Autoguidovie di Crema, aveva cosparso di benzina il mezzo e, dopo averlo dirottato, puntava a raggiungere Linate. Mentre la situazione precipitava, Ramy e Adam erano riusciti a mantenere la calma tanto da allertare le forze dell'ordine che sono intervenute evitando una terribile strage.
«Come se fosse mio figlio»: Rami “premiato” da Salvini, Di Maio: «L’ho convinto io», scrive Rocco Vazzana, 27 Marzo 2019 su Il Dubbio. Concessa la cittadinanza al giovane eroe dello scuolabus. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, esulta: «finalmente anche il capo del Viminale è d’accordo con noi. È la prova che possiamo governare insieme compatti». «Sì alla cittadinanza a Rami, è come se fosse mio figlio». Matteo Salvini cambia idea nel giro di poche ore: il giovane di origini egiziane che ha lanciato l’allarme dall’autobus dirottato e poi dato alle fiamme a San Donato milanese diventerà, anche per la carta d’identità, cittadino italiano. «Ha dimostrato di aver capito i valori di questo paese, ma il ministro è tenuto a far rispettare le leggi. Per atti di bravura o coraggio le leggi si possono superare», argomenta il ministro dell’Interno, cancellando con un colpo di spugna quanto dichiarato poche ore prima: «Le cittadinanze non le posso regalare e per dare le cittadinanze ho bisogno di fedine penali pulite. Non parlo dei ragazzini di 13 anni ma non fatemi dire altro», aveva dichiarato il capo della Lega, irritando molti esponenti del Movimento 5 Stelle, a partire dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. A sentire Luigi Di Maio, il passo indietro di Salvini sarebbe frutto di una intensa opera di convincimento messa in campo dal suo partito. «Nei giorni scorsi avevo inviato una lettera proprio ai ministeri competenti per chiedere loro di conferire la cittadinanza per meriti speciali al piccolo Rami», dice il capo politico pentastellato. «Sono felice di aver convinto anche Salvini sulla cittadinanza a questo bambino. L’ho già detto: questo è un Paese che vale molto più della semplice indignazione», rivendica Di Maio. E dopo il tira e molla del giorno precedente, anche Bonafede prende atto, soddisfatto, «che finalmente anche Salvini si è convinto. Questa è l’ennesima dimostrazione di come questo governo possa viaggiare compatto per i cittadini», dice il Guardasigilli. Per sottolineare la svolta, oggi Salvini incontrerà al Viminale cinque ragazzi della scuola media Vailati di Crema, coinvolti nel dirottamento dello scuolabus, e i dodici carabinieri intervenuti per bloccare l’autista che aveva preso in ostaggio gli studenti. Oltre a Rami, il capo del Carroccio vedrà Adam, che dopo aver nascosto il telefonino, è riuscito a chiamare le forze dell’ordine, Aurora, capace di mantenere la calma nonostante fosse stata presa in ostaggio, Fabio, col sangue freddo necessario per parlare con Ousseynou Sy e tranquillizzarlo, e infine Nicolò, che si è offerto come ostaggio, dopo la richiesta dell’autista. «Sono contento, ringrazio Matteo Salvini e Luigi Di Maio», commenta in diretta radiofonica il tredicenne appena “premiato” dal ministro. «Sarebbe bello che dessero la cittadinanza anche a mio figlio Adam, che, come si è sentito anche dalle registrazioni delle telefonate al 112, ha chiamato i soccorsi», dice invece Khalid El Hamami, padre di un altro degli studenti scampati all’attentato. «Adam è un ragazzo sensibile ed è rimasto molto male del fatto che tutti, anche a scuola, parlino del compagno ma non di lui», aggiunge. E se il centrodestra plaude al gesto umano del ministro dell’Interno, purché nessuno parli di ius soli, la Cgil prova a ribaltare il piano della discussione: «Dare o revocare la cittadinanza italiana non può essere un premio, un atto di gratitudine, o una punizione, deve essere un diritto», scrive in una nota Giuseppe Massafra, segretario confederale Cgil. «Un diritto garantito a Rami, così come a un milione di bambini e ragazzi di origine straniera che da anni aspettano una legge per diventare cittadini italiani e non sentirsi più ospiti in quello che ormai è il loro Paese», insiste il sindacalista. Ma su quel fronte la Lega non sembra affatto disposta a fare concessioni. «Se in casi eccezionali, come di fronte a particolari atti di merito, si può concedere la cittadinanza dopo le opportune verifiche, ciò non significa che la cittadinanza si debba regalare senza discernimento», mette in chiaro il sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone. «Già ci sono diverse strade per ottenere la cittadinanza italiana. I minori stranieri residenti in Italia, che godono già delle medesime garanzie riconosciute ai minori italiani, possono richiederla al compimento della maggiore età. Facciamo in modo che questa scelta sia davvero sempre più consapevole, responsabile e convinta» , conclude. Rami per oggi può esultare, i suoi compagni di classe dovranno aspettare altri 5 o 6 anni.
Salvini fa il buono: «Rami sarà italiano, è come un figlio». Cittadinanza. Dopo giorni di bullismo contro il tredicenne, il ministro cambia idea e dice sì. Di Maio: «L’ho convinto», scrive Adriana Pollice il 27.03.2019 su Il Manifesto. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini cambia idea: si può dare la cittadinanza a Rami Shehata, il tredicenne nato in Italia da genitori egiziani che ha contribuito a salvate i compagni sullo scuolabus dirottato a San Donato Milanese. Il ripensamento è arrivato ieri: all’improvviso sono spariti tutti gli impedimenti di carattere legale agitati per l’intera giornata di lunedì. Peccato, però, che non siano spariti prima che il ministro additasse alla stampa un parente stretto del ragazzo in Italia da 20 anni, chiaramente quindi il padre, come una persona sospetta: «Ho bisogno di fedine penali pulite» aveva ripetuto ai taccuini dei cronisti. Una reazione stizzita, quella del leader leghista, per le parole di Rami: per giorni il tredicenne ha rivendicato la cittadinanza per sé ma anche per i coetanei nati in Italia da immigrati, un diritto quindi e non una concessione. Tanto da far dire a Salvini: «Vuole lo Ius soli? Si faccia eleggere». Ieri l’improvvisa giravolta del leader leghista: «Sì alla cittadinanza a Rami perché è come se fosse mio figlio e ha dimostrato di aver capito i valori di questo paese, ma il ministro è tenuto a far rispettare le leggi. Per atti di bravura o coraggio le leggi si possono superare». Il cambio di linea ha avuto un effetto imprevisto: i fan si sono rivoltati contro Salvini sui social, accusandolo di «buonismo». Incidentalmente, è poi trapelato che il padre di Rami, Khaled, non ha alcuna condanna, solo precedenti di polizia vecchi di venti anni: permanenza irregolare in Italia, una denuncia per rapina, aver falsamente attestato di essere un pubblico ufficiale. «Sono contento per mio figlio – ha commentato in radio -, ha fatto una cosa grande per l’Italia e, per questo, gli viene riconosciuta una cittadinanza che merita. Mio figlio è un bravo ragazzo». E Rami: «Ringrazio Matteo Salvini e Luigi Di Maio, questa notizia non me l’aspettavo. Avevo in programma di andare a seguire una partita di calcio con i miei amici, festeggerò con loro». Oggi alle 13 Rami farà parte della delegazione invitata al Viminale. Con lui ci saranno i 12 carabinieri che hanno sventato l’attacco al bus e quattro suoi compagni di scuola: Adam, che dopo aver nascosto il cellulare è riuscito a dare la posizione del bus al 112; Aurora, che è stata presa in ostaggio dall’autista, Ousseynou Sy; Fabio, che ha cercando di tranquillizzare Sy; Nicolò, che si è offerto come ostaggio al posto dei compagni. Dei 22 studenti della seconda media della scuola Vailati di Crema che erano sul bus, sei sono di origine straniera. Il papà di Adam, Khalid El Hamami, ha commentato: «Sarebbe bello che dessero la cittadinanza anche a mio figlio. La speranza è che tutti e sei i ragazzi che erano presenti, e che si sono aiutati tra loro, abbiano questo premio perché lo meritano». In serata la notizia: procedura aperta anche per Adam. Mentre il leader leghista toglie e dà le cittadinanze in base alla sua agenda, i 5 Stelle lo rincorrono rivendicando il merito della scelta. «Sono felice di aver convinto Salvini – commenta il vicepremier Luigi Di Maio -. Rami e Adam meritano il riconoscimento della nazione». Stessa posizione del Guardasigilli, Alfonso Bonafede: «Prendiamo atto che finalmente anche Salvini si è convinto. E’ l’ennesima dimostrazione di come questo governo possa viaggiare compatto». E il presidente della Camera, Roberto Fico: «Felice della cittadinanza a un ragazzo come Rami, che è stato così coraggioso». La maggioranza si riallinea e, compattamente, evita il tema dei diritti di chi è nato in Italia. «Se concediamo la cittadinanza a Rami così – spiega il sindaco di Milano, Giuseppe Sala – non affrontiamo il tema dello Ius soli e quindi non è una grande conquista». E il segretario confederale della Cgil, Giuseppe Massafra: «Dare o revocare la cittadinanza italiana non può essere un premio, un atto di gratitudine o una punizione, deve essere un diritto. Un diritto garantito a Rami così come a un milione di ragazzi di origine straniera che aspettano una legge per diventare cittadini italiani e non sentirsi più ospiti». Il deputato di Leu, Roberto Speranza, sottolinea: «Sullo Ius soli c’è già una proposta incardinata in commissione Affari costituzionali, speriamo che arrivi presto in aula. Il M5S nella scorsa legislatura su questo provvedimento alla Camera si è astenuto».
Matteo Salvini non crede a nulla: per questo è ancora più pericoloso, scrive L’Inkiesta il 27 marzo 2019. Da anti napoletano a patriota amico del Sud, da no Tav a pro Tav, il leader della Lega usa il metodo Barabba in qualsiasi occasione politica chiedendo al popolo di mostrare il pollice e, se verso, è pronto a fare qualsiasi cosa perché il nemico di turno venga spazzato, deriso, annullato, contestato. È se Salvini fosse niente? Niente mischiato con niente, nemmeno un post-ideologico (che di per sé ha voluto dire ben poco in questi anni) ma semplicemente il formidabile intercettatore di ciò che la gente si vuol far sentire dire, disponibile ad abbracciare qualsiasi ideologia e poi contraddirla seguendo l’algoritmo della pancia degli italiani, come ha appena fatto per la cittadinanza di Ramy passato in poche ore dal parente di pregiudicati e noi la cittadinanza non la regaliamo fino a diventare un figlio dopo avere capito che la maggioranza degli italiani non voleva sentire parlare di burocrazia per il ragazzino eroe. Del resto che sia tutto e il contrario di tutto lo racconta perfettamente la sua storia politica, da anti napoletano a patriota amico del Sud, da no Tav a pro Tav, da anti USA a pro Trump facendo anche arrabbiare l’amichetto Putin, a no Tap a sì Tap, e così via. Con la spregiudicatezza di chi è pronto a vivere una contraddizione come il semplice passaggio al racimolare più voti, accontentare più stomaci, infiammare la claque. Salvini non ha un’ideologia perché non ha un’idea sua, vive ascoltando il pensiero comune e lo trasforma in promessa politica, come una digestione veloce che non si preoccupa del sapore dei cibi, pronto a infornare merda e rivenderla come cioccolata se è il popolo a chiederlo. Qui siamo oltre al fluidità di Renzi che riusciva a dire impunemente cose di destra fingendo una posa di sinistra e siamo perfino oltre alla post ideologia di Di Maio che altro non è che un vuoto rimbombante. Qui siamo di fronte a un interprete del prepensiero che utilizza il metodo Barabba in qualsiasi occasione politica chiedendo al popolo di mostrare il pollice e, se verso, è pronto a fare qualsiasi cosa perché il nemico di turno venga spazzato, deriso, annullato, contestato e fa niente che in pochi minuti possa trasformarsi nel miglior amico da difendere a spada tratta. Lecca Bannon, lecca Trump, lecca Putin, lecca tutto ciò che i suoi algoritmi gli chiedono di leccare. Lecca anche Luigi Di Maio per non fare irretire gli elettori del Movimento 5 Stelle che piano piano sta ingoiando, inglobandoli affascinati dalla sua capacità di intercettare gli umori. No, a Bestia non è l’algoritmo con cui il suo staff intercetta gli umori dei social: la Bestia è Salvini stesso, pronto a dire e fare tutto e il contrario di tutto, chiamarlo comunque buonsensoe utilizzare i figli per evitare di esprimere giudizi. I suoi lo dico da papà sono cerotti che coprono il niente: la cittadinanza, su cui Salvini batte tutti i giorni con l’ossessione di un fabbro che continua a raddrizzare una spada già dritta, è caduta nel giro di poche ore appena il suo popolo (che non è altro che il bacino da cui estrarre gli umori) ha deciso che anche se straniero quel Ramy lì meritava di entrare nelle stretta cerchia degli eletti italiani. Non è di destra, non è di sinistra: è Salvini. Fa il fascista quando l’anima fascista del Paese spinge per chiedere un gesto ma poi riesce a fare incazzare Primato Nazionale (che dei neofascisti è una delle voci principali) per il suo diventare improvvisamente europeista. Lecca Bannon, lecca Trump, lecca Putin, lecca tutto ciò che i suoi algoritmi gli chiedono di leccare. Lecca anche Luigi Di Maio per non fare irretire gli elettori del Movimento 5 Stelle che piano piano sta ingoiando, inglobandoli affascinati dalla sua capacità di intercettare gli umori, il massimo per un elettorato che intende la politica come filiale di un fast food, vogliosa di abbuffarsi del qui, ora, subito, fino alla nausea. E, vedrete, in occasione delle Europee come riuscirà a dichiararsi amico dell’Europa se dovrà farlo, come accarezzerà un negro (l’ha già fatto) se capirà di non dovere esagerare e come, alla fine, si inchinerà ai poteri e ai potenti. Del resto è lo stesso che a Roma sparla di Berlusconi e poi nelle regionali lo insegue come un cagnolino. Tutto e il contrario di tutto: fondamentalmente, niente.
La politica fatta coi tweet. Tutti figli di Salvini, scrive Giuseppe Grattacaso su Succede Oggi il 27 marzo 2019. L'uomo forte del momento nelle sue continue esternazioni si propone sempre come un "padre". Ma che tipo di padre? Quello che aggredisce il nemico e protegge il suo territorio. Il peggiore, insomma. Anche da ministro Matteo Salvini viaggia a una media di oltre venti tweet al giorno. È un politico, insomma, che tiene particolarmente alla comunicazione, privilegiando i concetti semplici e la frasi lapidarie. Quindi particolare attenzione va ai social e all’esternazione tramite breve commento televisivo. Non può sfuggire che, una volta installatosi al vertice del governo, in coabitazione con Di Maio, ma con qualche propensione all’occupazione del massimo dello spazio, Salvini abbia fatto uso pressocché continuo della parola papà, riferendola a se stesso e alle sue scelte da ministro, che verrebbero fatte insomma tenendo conto di quello che potrebbe essere il comportamento del padre di famiglia. Già un paio di settimane fa, di fronte all’accusa di Saviano di essere un «uomo che vuole far annegare le persone», ha dichiarato di voler querelare lo scrittore «non da ministro ma da papà». Non si capisce in cosa possa differire la querela, ma è chiaro come il ministro dell’Interno voglia far intendere che il suo comportamento sia dettato dalla necessità di difendere non se stesso, ma i cittadini italiani, che sono in qualche modo i suoi figli. In un tweet del 12 giugno, di fronte alla notizia di un agente che spara, uccidendolo, a un giovane, che stava aggredendo un suo collega, Salvini scrive: «Non solo da ministro, ma da cittadino italiano e da papà starò vicino a questo poliziotto che ha fatto solo il suo dovere». Lo stesso giorno, ospite di Lilli Gruber su La7 afferma che gli altri possono attaccarlo e minacciarlo quando vogliono, ma «io – dice – da ministro e da papà non mollo e lo faccio per il bene di tutti». Dello stesso tenore è un’esternazione su Facebook contro i volontari delle Ong. Nell’occasione scrive che «questi signori», che a suo dire manovrano «il business dell’immigrazione clandestina», dovranno cercarsi porti non italiani dove dirigersi. Tutto questo è fatto naturalmente «da ministro e da papà». Il giorno prima, di fronte all’evoluzione del caso Aquarius aveva espresso «grande soddisfazione da vice premier, come ministro e come papà, per come si va risolvendo la questione». Aggiunge che «evidentemente alzare la voce paga». E chi è che, almeno in una famiglia intesa in maniera alquanto tradizionale, può alzare la voce, se non il papà? Ma se Salvini ritiene di agire come padre, da chi è composta la famiglia e chi sono i figli?
Qualcuno parla di shock di fronte alla sua idea di un censimento dei rom? Salvini spiega su twitter di essere preoccupato per «quei poveri bambini educati al furto e all’illegalità». Insomma l’intento, anche se non sottolineato in questo caso dalla parola papà, è quello comunque del padre di famiglia, che pensa all’educazione dei più piccoli. Da qualche tempo la consueta irruenza verbale di Matteo Salvini appare dunque legata all’immagine del genitore maschio. L’obiettivo è quello che l’associazione si estenda all’idea di un ministro preoccupato a difendere i propri figli. Sta di fatto però che i papà, nell’applicazione del proprio ruolo, possono anche eccedere nei comportamenti. È il caso dei padri, nemmeno poco numerosi, che alla partita di calcio del figlio undicenne, non hanno esitazione, pur di fronte allo sgomento imbarazzato della prole, a lanciarsi in contumelie e invettive ingiuriose nei confronti dell’arbitro e dei giovanissimi avversari, rei di non permettere al figlio una vittoria senza ostacoli. In questo caso il papà difende soprattutto un territorio, dove ritiene di essere la sovranità assoluta, e coloro che vi abitano all’interno, che dunque, più che congiunti, sono suoi sudditi. Il meccanismo è lo stesso per quei padri che prendono a pugni gli insegnanti che non hanno promosso i loro figli. Insomma, lo slogan potrebbe essere “prima i figli”, al di là delle regole e della saggezza, coordinate che per i padri dovrebbero essere imprescindibili. E cosa dire dell’eccessiva animosità del ministro, che non si contiene nel linguaggio, cosa che sarebbe opportuna per l’istituzione che rappresenta, ma tende ad “alzare la voce”, ad utilizzare espressioni volgari ed arroganti? È come quei padri che urlano di continuo, che condiscono le proprie comunicazioni familiari di imprecazioni e bestemmie, e poi pretendono che i figli sappiano essere educati e di buone maniere. Per Massimo Recalcati, che alla figura del padre ha dedicato ricerche e libri, «la funzione del padre è quella di testimoniare che la vita umana è attraversata dal limite». Papà Salvini sembra essere invece interessato a esaltarlo il limite, che non attraversa la vita ma la contiene, la costringe in un ambito ristretto, quello della casa-nazione, dentro il quale è solo il papà a conoscere il bene di tutti e quindi a ordinare. Recalcati dice anche che «il padre-padrone, il padre-Dio, il padre-bussola che ha l’ultima parola sul senso della vita e guida in modo infallibile i propri figli è una figura che si è esaurita dopo il trauma virtuoso del ’68». Ma questo forse Salvini non lo sa o non lo vuole sapere. Lo psicoanalista afferma inoltre che «solo i fondamentalisti cercano di recuperare quella immagine attraverso il Dio folle che comanda la morte dell’infedele riabilitando una rappresentazione padronale della paternità». Questo forse il ministro dell’Interno lo sa bene. Chissà quando cominceranno a capirlo gli italiani.
Papà della patria. I segnali da padre rassicurante di Salvini per difendere la coalizione dalla divisione ideologica, ma anche per lanciarsi sul congresso di Verona, scrive il 26/03/2019 Stefano Baldolini su Huffingtonpost. "Sì alla cittadinanza a Ramy perché è come se fosse mio figlio...". Matteo Salvini ci ripensa e l'annuncia al Maurizio Costanzo Show. Poi stringe anche la mano al cantante Mahmood, con cui non aveva certo simpatizzato dopo la vittoria a Sanremo. Ma: "Mio figlio è super fan". E via con la richiesta di un autografo: "lo porto a casa molto volentieri". Figli, figli e figli... nel loro nome, da papà della patria il vicepremier accoglie la richiesta del suo pari, Di Maio. L'ennesima divisione ideologica tra le due componenti della coalizione è evitata, seguirà photo opportunity al Viminale. Figli, figli, figli... un riferimento a loro anche nella recente vicenda Diciotti. "Mai pensato di intervenire per sequestro di persona. Per l'Italia e per i miei figli non ho, ne avrò mai paura", dirà Salvini nell'emozionato discorso al Senato che boccerà l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti. E "Matteo Salvini con i figli al parco giochi, antidoto contro le polemiche", segnalava Vanity Fair a poche ore dal voto su Rousseau, che avrebbe dovuto decidere del comportamento dei 5 stelle. Non manca il lato pop. Ecco dunque la foto su Instagram con bimba sulla neve - presumibilmente la sua piccola di 6 anni - a cui Salvini tende la mano, dolce e rassicurante, e la frase: "Auguri a tutti i Papà". O un ampio servizio con "Capitan Papà" e i due ragazzi su Novella 2000, che scrive, non senza una qualche retorica: "Chi lo conosce sa tuttavia che, indipendentemente da cosa stia facendo e da dove si trovi, quando i figli chiamano Matteo Salvini è sempre pronto a rispondere. Per parlare con loro s'interrompono riunioni, si rinviano incontri, si cancellano impegni". Figli, figli e figli... questo solo per restare nell'ultimo mese. Un'escalation comunicativa in cui Matteo Salvini, forse consapevole di essere troppo percepito come cattivo ("il truce", copyright Giuliano Ferrara), prova a restituire al Paese l'immagine di papà rassicurante. Svolta dunque buonista, da leggere banalmente come il tentativo - capitalizzato per bene il consenso degli arrabbiati - di andare a prendere quello dei moderati (ossia di Forza Italia e dintorni) usando la tecnica nota del bastone e della carota. "Prima l'impaurisco, poi li rassicuro quindi li conquisto", sintetizzava Antonio Padellaro sul Fatto l'estate scorsa quando il Capitano si era fatto selfie "con gruppo di ragazzi di colore, probabilmente irregolari". Ma anche - o soprattutto - svolta politica, vista da una duplice angolazione. In primis, per difendere la coalizione giallo-verde da una ormai sin troppo evidente accusa di divisione ideologica. Divisi sulla Via della Seta, divisi sulla Tav, divisi sull'autonomia, divisi sulla flat tax... Divisi persino sulla cittadinanza al giovane eroe dello scuolabus di San Donato milanese. Forse un po' troppo per stare ancora insieme, anche se non è il momento adatto - come scriveva ieri De Angelis su questo giornale - per non starci più. E dunque, per partire dalla cosa più facile (e più condivisa dall'opinione pubblica) ecco l'apertura salviniana almeno su Ramy. Che sarà presto cittadino italiano, ma non in quanto figlio dello ius soli, ma dell'eccezionalità di un gesto - salvare 50 coetanei da strage - difficilmente generalizzabile alle centinaia di migliaia di bambini, nati qui da genitori stranieri e alle prese con quotidianità (fortunatamente) più banali. Apertura che ha ottenuto il rapido plauso di Di Maio, ma vedremo se impedirà il chiarimento richiesto oggi dal vicepremier pentastellato. Tanto più - e qui veniamo al secondo aspetto politico che si può trarre dall'accelerazione da papà (single) della patria di Salvini - che i due non sono per nulla d'accordo sul senso del prossimo appuntamento di Verona. Quel Congresso mondiale sulle Famiglie - da cui il premier Conte ha tolto il patrocinio - evento che lo stesso Di Maio (che oggi ha anche stoppato su modifiche alla 194) ha definito "un festeggiamento di un nuovo Medioevo che io non vado a festeggiare". Evento a cui invece il leader leghista ha annunciato fieramente la partecipazione. Rispondendo nel merito (in un altro tinello familiare per eccellenza, Porta a Porta): "La storia del Medioevo mi affascinava all'università, al convegno porterò la mia esperienza di papà". E, dopo aver vaticinato che "se non mettiamo gli italiani nelle condizioni di avere figli, nel 2050 questo Paese non c'è più, sarà una enorme casa di riposo". Ribadendo che a Verona, "dirà le parole del Papa". Stavolta, senza l'accento.
“Troppo duro coi migranti”: il Papa non riceve Salvini. Le tensioni tra Vaticano e Viminale. È di pochi giorni fa la battuta di Francesco sul sequestro delle navi delle ong: «è un’ingiustizia. Perché lo fanno? Per farli annegare?» Scrive Giulia Merlo il 29 Marzo 2019 su Il Dubbio. Se servono tre indizi per fare una prova, due già ci sono a certificare lo scontro sotterraneo sui migranti tra Vaticano e Lega. Il primo, il fatto ormai noto che il segretario del Carroccio, Matteo Salvini, ormai da mesi cerchi senza esito di ottenere un colloquio con Papa Francesco. Il secondo, che ieri campasse in prima pagina sull’Osservatore Romano il titolo “Dirottatori per necessità”, riferito ai migranti che hanno dirottato verso Malta la petroliera che li aveva soccorsi e voleva riportarli in Libia. Gli stessi migranti oggetto dell’esplosione verbale di Salvini: «Lo dico ai pirati: l’Italia scordatevela. È un atto di delinquenza, di criminalità organizzata. Le acque italiane sono precluse ai criminali». Formalmente, il Pontefice ha potuto trincerarsi dietro l’etichetta per negare l’incontro a Salvini: da protocollo, infatti, un capo di stato non incontra ministri stranieri. E’ facile, tuttavia, intuire una valenza più politica dietro il rifiuto. Secondo il quotidiano Il Giorno, papa Francesco non sarebbe contrario in via di principio ad un colloquio, ma sa che la sua portata – amplificata dall’uso dei social del vicepremier del Carroccio – potrebbe essere letta come implicito placet vaticano alle politiche sui migranti. Proprio il contrario di ciò che auspica il Pontefice, che in più di un’occasione ha affrontato il tema dell’accoglienza e delle migrazioni. E’ di pochi giorni fa la battuta di Francesco a un giornalista spagnolo che gli chiedeva cosa pensasse del sequestro delle navi delle Ong: «Tenere ferma la nave è un’ingiustizia. Perché lo fanno? Per farli annegare?». Francesco ha parlato spesso di migranti e le sue parole non hanno mai lasciato dubbi sulla linea: «I criteri sono in quello che ho detto: accogliere, accompagnare, promuovere, integrare», ha detto a giugno scorso, aggiungendo che «Non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore e alla lunga questo si paga, si paga politicamente, come anche si paga politicamente una imprudenza nei calcoli e ricevere più di quelli che si possono integrare». Eppure, il corteggiamento della Lega a Papa Francesco è continua e serrata, condotta con sapienza dal deus ex machina Giancarlo Giorgetti. I margini per un incontro ci sarebbero – è quanto trapela dal Vaticano – ma Salvini dovrebbe prima mitigare l’approccio incendiario, scegliendo strade più moderate di cui lo stesso Francesco ha più volte indicato il tracciato: ognuno accolga «per quanto può», con «prudenza». Se questo diventasse l’approccio del governo, il Pontefice potrebbe sciogliere la riserva e sbloccare le procedure per un cordiale colloquio – forse anche con un selfie finale- con Matteo Salvini. Lo stesso che questo fine settimana sarà a Verona al Forum Mondiale delle Famiglie, di cui il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato di papa Bergoglio, ha detto di «condividere la sostanza», anche se «non le modalità». Del resto, quello della Lega ai mondi cattolici conservatori è un avvicinamento iniziato mesi fa, col Carroccio che punta ad attestarsi come punto di riferimento, facendosi tutore dei valori della famiglia “tradizionale”, antiabortista ( è stato presentato un disegno di legge alla Camera sottoscritto da 50 leghisti, che propone di «riconoscere “soggettività giuridica al concepito” al fine dell’adozione e di mettere in relazione già al momento della gravidanza la famiglia del concepito con quella che potrebbe adottarlo» ) e anti- gay. Eppure, manca ancora il suggello dell’incontro con Francesco, che mediaticamente darebbe ulteriore carica al leader del Carroccio, che così si attesterebbe come figura ancora più centrale nel governo, contro lo spaesato Luigi Di Maio e l’evanescente premier Giuseppe Conte. Per farlo però fanno sapere i silenziosi messi vaticani – non ci sarebbe altra strada che smorzare l’intransigenza del “prima gli italiani, senza se e senza ma”. Ora la palla torna nel campo di Salvini, che deve decidere: puntare sul filone “cattolico” della difesa della famiglia, oppure continuare col pugno di ferro sull’immigrazione, che tanto gli ha già restituito a livello di consenso personale ed elettorale. Fino ad ora, Salvini ha dimostrato fiuto politico nella scelta dell’agenda: se percorresse via della Conciliazione, il cambio di rotta sui migranti potrebbe non essere lontano.
Da Libero Quotidiano il 30 marzo 2019. Schifo senza confini. Un'escalation di violenza e odio senza precedenti. Forse nemmeno contro Silvio Berlusconi il livore era tanto. L'ultimo post pubblicato dal teletribuno Michele Santoro sul suo sito ufficiale non rappresenta solo l'ultimo attacco, in ordine di tempo, a Matteo Salvini. Ma va oltre ogni limite della decenza e forse anche della legge. A scatenare la reazione dell'ex conduttore di Annozero sono state le polemiche legate all'edizione straordinaria della rubrica che Vauro tiene sul sito di Santoro e intitolata autoironicamente La zecca. Il vignettista del Fatto Quotidiano, per ironizzare su chi lo accusa di spalleggiare chi sarebbe disposto ad uccidere Salvini, si è "divertito" a elencare sette opzioni semiserie per eliminare fisicamente il vicepremier: dalla "Nutella assassina" all'"uniforme killer". "Sette modi per uccidermi", ha commentato Salvini, "Se questo squallido personaggio pensa di essere divertente... No, direi che fa proprio schifo". Nell'editoriale "Cercasi Killer", Santoro scrive: "Ancora una volta Matteo Salvini aggredisce con espressioni ingiuriose, assolutamente in contrasto col ruolo che ricopre, per aizzare le legioni dei suoi fans – tra i quali sul web si contano non pochi squadristi – che non esiteranno a pronunciare minacce serie all’incolumità di uno dei più famosi e apprezzati autori di satira". "Al fine di liberarci da un ministro dell’Interno squallidamente ignorante", prosegue il conduttore, "che dovrebbe garantire la sicurezza di ogni cittadino, indipendentemente dalla sua razza e dalle idee politiche e religiose che professa, offro congrua ricompensa a un killer in grado di mettere in pratica uno dei sette modi indicati da Vauro per ucciderlo. Con la preghiera di contattarmi con la massima urgenza". Salvini commenta, laconico: "Più questi radical-chic (con portafoglio a destra) mi attaccano, più mi convinco che siamo nel giusto".
Da MicheleSantoro.it il 30 marzo 2019. Ancora una volta Matteo Salvini aggredisce con espressioni ingiuriose, assolutamente in contrasto col ruolo che ricopre, per aizzare le legioni dei suoi fans – tra i quali sul web si contano non pochi squadristi – che non esiteranno a pronunciare minacce serie all’incolumità di uno dei più famosi e apprezzati autori di satira. Al fine di liberarci da un ministro dell’Interno squallidamente ignorante che dovrebbe garantire la sicurezza di ogni cittadino, indipendentemente dalla sua razza e dalle idee politiche e religiose che professa, offro congrua ricompensa a un killer in grado di mettere in pratica uno dei sette modi indicati da Vauro per ucciderlo. Con la preghiera di contattarmi con la massima urgenza.
Da MicheleSantoro.it il 30 marzo 2019. Nell’ultima puntata di Quarta Repubblica è stato mostrato un servizio dove, a telecamera nascosta, si chiedeva ad alcuni immigrati di colore cosa pensassero di Salvini. “Provate voi ad andare a domandare a immigrati di colore cosa pensano di Salvini. Che cazzo volete che vi rispondano?” Insomma, uno “scoop formidabile”. Uno dei migranti condannando il gesto criminale di Sy, l’autista dello scuolabus di Crema, ha detto: “Non potrei mai fare una cosa del genere, sequestrare bambini che non hanno colpa, se dovessi uccidere qualcuno ucciderei Salvini o qualcuno di responsabile”. Il senso pare chiaro “Se dovessi” non “se volessi” e soprattutto non ha detto “ucciderò Salvini”. Quando il vignettista ospite in studio ha tentato di ragionare su una “banale ovvietà tra lamenti e strilli di indignazione e mi sono immediatamente ritrovato ad essere complice del feroce assassino”. Uccidere Salvini? Ormai “sono già stato condannato” dice Vauro, così il vignettista si sente libero di immedesimarsi nel ruolo. Si va dai barattoli di “nutella-assassina” alle “felpe fatali” fino al sabotaggio dei freni della proverbiale ruspa. Già si vedono all’orizzonte altri “strilli di indignazione”.
Liberoquotidiano.it il 30 marzo 2019. Lezioni di lessico e democrazia firmate Peter Gomez. Un insospettabile, il direttore del sito del Fatto Quotidiano. Siamo a PiazzaPulita, il salottino del giovedì sera dove a dirigere le operazioni, su La7, c'è Corrado Formigli. Il dibattito, piuttosto stucchevole, è sempre lo stesso: ma davvero Matteo Salvini è un "fascista"? Esatto, in studio si dibatteva ancora di questo (inesistente) tema. E il fatto che il tema sia inesistente lo conferma Gomez, con un intervento duro e incisivo: "Considerare Salvini fascista è semplicemente ridicolo", premette. Dunque, il direttore del fattoquotidiano.it sgancia la sua bomba: "Questo è il vizio della sinistra, definire 'fascista' chiunque stia dall'altra parte". Non c'è nulla da aggiungere.
Vauro, a Quarta Repubblica difende l'immigrato che vuole uccidere Salvini. Nicola Porro: "Mi fa schifo", scrive il 27 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Io devo capire perché", dice Vauro giustificando il senegalese che ha tentato di uccidere 51 ragazzini sull'autobus e l'immigrato che durante il servizio mandato in onda a Quarta Repubblica dichiara di voler uccidere Matteo Salvini. Ma Nicola Porro lo disintegra in diretta: "Io lo trovo agghiacciante. Non si spara a Salvini, non si pensa. E se c'è un cazzone che prende in ostaggio 51 persone, caro Vauro, io lo metto in galera. E se qualcuno lo difende mi fa schifo. E' un delinquente. Non c'è una giustificazione". Durante il servizio la giornalista di Porro, in una periferia di Torino, intervista alcuni extracomunitari per capire come la pensano sul senegalese che ha sequestrato l'autobus minacciando di uccidere 51 studenti. Le risposte sono terrificanti: "Se dovessi uccidere qualcuno ucciderei Salvini", dice addirittura un immigrato. Dopo il servizio, Vauro, ospite in studio, commenta: "Cosa c'è di strano?", scatenando l'inferno. Matteo Salvini ha rilanciato sul suo profilo twitter il filmato e ha commentato: "Questo signore non è normale...". Difficile dargli torto.
La mamma di Adam: «Cittadinanza? Un bel gesto, ma ora datela a tutti». Pubblicato Giampiero Rossi mercoledì, 27 marzo 2019 su Corriere.it. «Sono felice, per lui, per questi ragazzi. Ma adesso date la cittadinanza a tutti quelli che sono nati in Italia. Non ai genitori, solo ai bambini, loro sono italiani». La signora Hasnaa — 41 anni, laureata in Economia, con lavori umili e saltuari a Crema e dintorni — ha mostrato straordinario autocontrollo persino nei momenti più drammatici del sequestro di Adam e dei suoi compagni. Ma alla notizia che Salvini ha deciso di concedere la cittadinanza fatica a trattenere l’emozione.
In questi giorni si è parlato quasi sempre di Ramy, ma anche Adam diventerà italiano. Siete contenti?
«Sì, perché se lo merita. Anche lui è stato bravo, quel giorno: lui, come Ramy. Ma soprattutto è un bravo ragazzo e non lo dico perché è mio figlio. Sarà un bravo cittadino italiano».
Però adesso Adam avrà una cittadinanza diversa rispetto a suo fratello.
« Io ringrazio l’Italia e tutte le persone che hanno permesso questo, ma dico anche che bisognerebbe riconoscere la cittadinanza ai bambini che nascono qui. Lasciamo stare noi genitori, non fa niente, per noi è andata così: ma non c’è da aver paura di questi ragazzi che crescono da italiani».
I suoi figli si sentono italiani?
«Tantissimo e ci tengono. Non rinnegano le loro radici, ma anche a casa parlano solo in italiano. In Francia li chiamavano “gli italiani”. Da noi pasta, passata di pomodoro e basilico non mancano mai, io ho imparato a fare le lasagne e il tiramisù».
Vi sentite integrati?
«Sì, anche perché abbiamo trovato persone gentili. E noi ci siamo ambientati: io sono musulmana ma domenica abbiamo festeggiato il compleanno del piccolo all’oratorio... I miei bambini sono uguali a tanti altri nati in famiglie italiane e noi ci siamo sempre trovati bene con i vicini di casa».
Dopo la grande paura Adam è finito in tv e sui giornali. Adesso, però, bisogna tornare alla normalità.
«A casa abbiamo già iniziato a parlare d’altro. Questi giorni sono stati particolari, ma lui è tornato a guardare i cartoni animati e gioca a calcio. I professori e gli psicologi lo aiuteranno».
I ragazzi del bus in fiamme e le loro piccole storie. Pubblicato martedì, 26 marzo 2019 da Corriere.it. È il più «anziano» del gruppo, perché ha perso un anno e così sta facendo la seconda media a 13 anni, ma è anche quello che si staglia su tutti con un fisico imponente, diverso da tutti gli altri. Ma quando gli si parla, nonostante gli occhi scuri saettanti, tradisce una certa timidezza da ragazzino. Mercoledì scorso — dopo l’ora di paura sullo scuolabus sequestrato e dirottato da Ousseynou Sy — è diventato un volto noto. Perché sin dai primi minuti dopo la liberazione dall’incubo diversi tra gli stessi compagni di scuola e di disavventura lo hanno indicato come il primo a chiedere aiuto. Dopo aver legato i due professori che accompagnavano i 51 alunni in una palestra a pochi chilometri di distanza, il sequestratore aveva ordinato alla bidella Tiziana Magarini, di requisire tutti i cellulari, di legare i polsi dei ragazzini con lacci di plastica da elettricista e di versare benzina lungo i corridoi del pullman. Con lo sguardo, però, la donna ha indicato ai ragazzi dell’ultima fila di nasconderne almeno uno. E lui, Ramy, è stato il più lesto ad agire. Così, quando i suoi compagni, che avevano capito a loro volta, hanno aumentato il volume di urla e pianti per coprire la sua voce, il ragazzo ha telefonato prima ai carabinieri e poi alla sua famiglia per lanciare l’allarme. E per tutti, a bordo di quel pullman, è stato l’inizio della speranza, dell’attesa della salvezza. Quando poi, dalla sua breve biografia di tredicenne, è emerso che è nato in Italia da genitori immigrati dall’Egitto, il ragazzone della 2 B che ama il calcio e sogna di diventare carabiniere, è diventato anche il simbolo della nuova battaglia sull’attualità dello ius soli.
SALVATE RAMY E ADAM. SALVIAMO QUEI BIMBI RAPITI DI NUOVO PER FARE PUBBLICITÀ ALL' IMMIGRAZIONE, scrive Mario Giordano per “la Verità” il 26 marzo 2019. Liberate quei due ragazzini. Temo che siano di nuovo ostaggi. Rami e Adam, i due eroi di San Donato, i tredicenni coraggiosi che hanno impedito al senegalese di fare una strage, sono riusciti a salvarsi dallo scuolabus in fiamme sulla Paullese. Ma ora rischiano di restare di nuovo imprigionati dentro un sequestro che solo apparentemente è meno violento: quello catodico, dentro gli studi tv. I sorrisetti di Fazio, le sue parole melense, gli urletti della Litizzetto, gli applausi a comando, Porta a Porta, la tribuna della nazionale di calcio, le ospitate a reti unificate sono evidentemente una trappola, messa in piedi per trasformarli loro malgrado nella bandiera della nuova battaglia del politicamente corretto: lo ius soli. Una roba che non frega niente agli italiani, ovviamente. E che di conseguenza ha di nuovo conquistato il Pd e il mainstream. Il risultato è che questi due preadolescenti si trovano di nuovo prigionieri, inchiodati in un meccanismo infernale, rapiti dentro un piano diabolico assai meglio orchestrato di quello dell' autista senegalese dello scuolabus. Con conseguenze che rischiano di essere devastanti anche per loro: a quell' età, infatti, passato lo spavento, dovrebbero tornare a studiare e giocare in silenzio. Invece vengono portati in giro come madonne pellegrine e sbattuti sulle prima pagine dei giornali, per farne strumenti di una sfida politica che piace alla gente che piace. Roba da maggioranza assoluta nelle terrazze di via Montenapoleone. E, di conseguenza, sulle principali tv. Se ci fossero ancora dubbi sulla capacità del pensiero unico dominante di stravolgere la realtà a suo uso e consumo, infatti, questa vicenda li spazzerebbe via tutti in un attimo. La drammatica notizia era semplice da capire: un senegalese, diventato cittadino italiano, accolto e coccolato al di là dei suoi meriti, impiegato come autista di uno scuolabus nonostante una condanna per violenza su minori e precedenti per guida in stato di ubriachezza, sequestra 51 studenti di una scuola media e minaccia di ucciderli tutti per vendicarsi dei morti nel Mediterraneo. Eppure la narrazione che ha conquistato giornaloni e mass media prevalenti è stata totalmente diversa, oserei dire: praticamente opposta. E cioè: un italiano criminale ha minacciato un gruppo di ragazzini stranieri, i quali si sono comportati da eroi. Ergo: italiani cattivi, stranieri buoni. Domandone finale (sempre a cura del mainstream): ma perché gli stranieri buoni non hanno ancora la cittadinanza? Perché non li regolarizziamo tutti? Perché non ci mettiamo fuori dai municipi a distribuire permessi di soggiorno, in modo da compensare a suon di Adam e Rami la connaturata ferocia degli italiani? Peraltro, in un video girato ieri da Francesca Chaouqui, il papà di Rami spiegava che a lui, della cittadinanza per il pargolo, frega poco o nulla, e che - testuale - «sono stati i giornalisti a farmelo dire a tutti i costi». Capito il giochino? In un Paese normale le domande sarebbero state altre. In un Paese normale, per esempio, avremmo riflettuto su tutte le balle che si raccontano a proposito della regolarizzazione degli stranieri. Quante volte ci siamo sentiti ripetere, praticamente a ogni talk show col ginostrada di turno, che se gli immigrati si comportano male è per colpa nostra, perché non li integriamo abbastanza. Ecco: l' autista senegalese l' avevamo integrato. Forse fin troppo. L' avevamo integrato anche se non dovevamo farlo. Gli avevamo dato la cittadinanza, un lavoro, uno stipendio, nonostante non se li fosse proprio meritati. E lui come ci ha ringraziati? Minacciando una strage per punire gli italiani cattivi e il loro governo ancor più cattivo. Ergo: la litania dell' integrazione è una bufala di dimensioni spaziali, buona giusto per riempire la bocca di qualche fratoianni di complemento. Epperò non si può dire. Non si deve capire. Così la notizia dello scuolabus sequestrato è stata ribaltata, completamente stravolta, rigirata come la frittata di nonna Papera. Ma come hanno fatto? Semplice: utilizzando i ragazzini. Sono perfetti. Rami e Adam, si chiamano così, uno è egiziano, l' altro marocchino, e casualmente la prima cosa che chiedono per il loro eroismo non è di andare a vedere la partita della Juve o di conoscere il loro rapper preferito. Macché: chiedono la cittadinanza italiana. Pensate un po' che coincidenza, vero? Anche se le loro famiglie, che sono qui da più di dieci anni non l' hanno mai chiesta (come mai?). Anche se, come spiega Rami, lui si sente «italiano a metà». Niente: loro proprio stavano aspettando solo quello. La cittadinanza italiana. In un Paese normale a Rami gli risponderebbero: «Se ti senti italiano a metà, facciamo che ti diamo la cittadinanza a metà, d' accordo?». Ma qui siamo in Italia. La macchina del sequestro mediatico è partita. Ed è assai più difficile da fermare di quello scuolabus dirottato. Rami e Adam diventano protagonisti a reti unificate. Li intervistano tutti. I tg, i programmi d' informazione, gli approfondimenti, i talk show di intrattenimento alla Fazio. Domenica sera, per dire, i due inconsapevoli paladini dello ius soli erano in onda praticamente in simultanea su Raiuno e su Italia Uno, prim' ancora erano stati a Sky, a L' Aria che tira, a Stasera Italia, poi Porta a Porta e stasera la tribuna dello stadio per la partita della nazionale di calcio. Tra un po' dovranno prendere un agente, non si esclude un passaggio a Ballando con le stelle, magari in un duetto con Mamhood per alzare gli ascolti, o al Masterchef versione Halal per rilanciare l' invasione gastronomica del Cous cous clan. Fra l' altro, osiamo sollevare un timido dubbio: ma non dovrebbe essere vietato mostrare il volto dei minorenni protagonisti dei fatti di cronaca? Perché per Rami e Adam si fa un' eccezione? Perché l' Ordine dei giornalisti non interviene? Perché la Carta di Treviso viene calpestata dalle televisioni unificate senza che nessuno obietti nulla? Soltanto perché, attraverso loro, si difende lo ius soli? E allora si possono calpestare le norme e il dovere di proteggere i ragazzini? Ma sicuro. Anche perché, per difendere lo ius soli, su cui la sinistra vuole costruire la sua nuova battaglia (auguri), per la verità si fa anche di peggio. Si fanno sparire i ragazzini che non sono funzionali alla narrazione. Subito dopo la liberazione degli ostaggi sulla Paullese, per dire, il primo a raccontare di aver chiamato i carabinieri, ai microfoni insospettabili di un inviato di Repubblica.it, è stato un ragazzino italiano di nome Riccardo. Il quale, non essendo funzionale alla narrazione degli stranieri buoni che chiedono la cittadinanza come premio, è stato fatto sparire rapidamente dalle pagine dei giornali e dalle tv. Come si permette, d' altra parte? Può un ragazzino buono non essere egiziano? E nemmeno marocchino? Addirittura biondo? E con gli occhi azzurri? Via via, fatelo svanire. Evaporare. Cancellatelo. E avanti con Rami e Adam, a tutte le ore, del giorno della notte, financo nelle previsioni del tempo, poveri ragazzini. Di nuovo sotto sequestro, di nuovo dirottati, di nuovo prigionieri di quelli che stanno al volante, anche se questa volta è il volante dell' informazione. E senza nemmeno poter chiamare il 112. Senza un carabiniere che possa finalmente rompere il vetro e farli uscire dallo schermo tv.
Immigrati, parla il padre di Moise Kean: "Simpatizzo per la Lega di Matteo Salvini. Aiutiamoli a casa loro", scrive il 26 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Io non ho ancora la cittadinanza italiana. Ho fatto la domanda. Sono anni che sono qui", dice il papà di Moise Kean, Biorou Jean Kean, in una intervista e a Un giorno da Pecora su Radio Raiuno. E ammette di essere simpatizzante della Lega: "A me piace la Lega e la politica di Matteo Salvini. In questo momento sto cercando un'associazione per bloccare l'immigrazione dalla partenza. Aiutiamoli a casa loro? Esatto, è giusto". Infine il padre di Kean rivela di avere da tempo problemi con la Juve come società "perché non mi danno più biglietti per andare allo stadio". Sui motivi, spiega: "Io e la mamma di Moise siamo separati e lei, in passato, voleva portare il ragazzo in Inghilterra. La Juve mi chiamò per aiutarli e io gli dissi che lo avrei fatto restare in Italia ma in cambio avrei voluto due trattori. Loro mi dissero che non ci sarebbero stati problemi. E invece non me li hanno ancora dati, non mi danno più biglietti e non mi ricevono neanche più. Io vorrei entrambi".
La bertuccia progressista, scrive il 25 marzo 2019 Augusto Bassi su Il Giornale. Come scrivevo a un amico in relazione ai fatti di San Donato, il meccanismo di neutralizzazione delle dissonanze dei progressisti immigrazionisti “in buona fede”, cioè delle bertucce ammaestrate, è da trattato di psicologia clinica animale. Se il criminale è un africano immigrato clandestino… ha agito male per colpa nostra, perché non lo abbiamo accettato e integrato; se invece il criminale è un africano integrato, allora non è più africano, ma italiano… quindi la colpa è nostra comunque. Ma possiamo procedere nell’analizzare le macroscopiche incoerenze generate dal disagio intellettuale di questi garruli animaletti. La bertuccia progressista rifugge più di ogni cosa al mondo la presa di coscienza del proprio stato; quindi altera le sue rappresentazioni. Dall’esterno lo spettacolo è patetico, straziante, ma dall’interno raggiunge lo scopo dell’autosuggestione. La bertuccia progressista si crede creatura evoluta, nobile e illuminata. Nell’approcciare l’ennesimo assassinio o stupro o molestia o atto di vandalismo di un immigrato, la sua frase mantra sarà: «Perché, gli italiani non delinquono?!? Non importa nazionalità, colore della pelle, sesso o religione: un criminale è un criminale! Lo volete capire, razzisti che non siete altro!?». Tuttavia, quando è il gesto eroico a stagliarsi e un immigrato ne è casualmente protagonista, la sua provenienza viene evidenziata, onorata, glorificata e la bertuccia ammaestrata griderà: «Avete visto?!? Gli immigrati sono molto meglio degli italiani e dovremmo vergognarci a respingerli!». Così il crudele Sy Ousseynou viene dimenticato, il piccolo Riccardo trascurato, mentre il dolce Ramy finisce da Fazio. Prendiamo ancora la differenza fra i sessi. La bertuccia progressista, così come non crede nelle razze, non crede nei sessi o negli stereotipi di genere: uomo, donna, uguali sono. La parità – che si estende dai diritti fino a sancire l’irrilevanza del dato biologico di nascita – è un prerequisito ontologico di civiltà. Ma quando l’omicidio colpisce il sesso debole, la bertuccia progressista inopinatamente discrimina, e lo chiama femminicidio; urla al femminicidio, manifesta, fa battaglie contro il femminicidio. Ma ancora, se a commettere femminicidio dovesse essere un immigrato – che in forza della propria cultura reputerà il valore della vita di una donna pari a quello di un animale da soma – l’episodio verrà neutralizzato con un’immediata rimozione. E così via. Ma alla scimmietta progressista e soprattutto ai suoi addestratori non interessa realmente Ramy, se ne servono soltanto. Gli incantatori di bertucce, dai pulpiti sacri delle chiese a quelli profani delle televisioni, santificano l’utile innocente solo per eccitare le bestioline intorno, ma il loro è in realtà un sacrificio. In ultima istanza, infatti, l’unità del collettivo manipolato mira alla negazione di ogni singolarità. La beffa rivolta a quella società che fa dell’individualismo la sua cifra e che crede di aver emancipato il singolo dall’oppressione della tradizione. La discriminazione a favore dei poveri migranti che l’addestratore trasfonde è l’arma con cui depredare gli ultimi giacimenti identitari che resistono alla spersonalizzazione del globale; il compimento definitivo del distacco fra soggetto e oggetto, fra persona e famiglia, fra comunità e nazione. E per farlo il singolo va sradicato, divelto, annullato attraverso l’infernale estirpatore dell’astrazione. Perché solo sotto il dominio livellatore dell’astratto si potrà compiere l’uguaglianza repressiva totale: neri, bianchi, italiani, stranieri, donne, uomini, bambini… tutti egualmente e coscienziosamente bertucce.
Francesca Donato, la sovranista che ha scoperto il complotto immigrazionista dei bambini eroi, scrive Giovanni Drogo il 22 Marzo 2019 su Next quotidiano. Ci siamo già occupati del curioso caso di Francesca Donato, la sovranista euroscettica dal tweet facile che paragona i vaccini agli esperimenti dei nazisti nei campi di concentramento. Ieri la Donato ha scoperto la manipolazione messa in atto dalle forze filoimmigrazioniste e turbosorosiane per invertire il segno della narrazione sul dirottamento, il sequestro e la strage (ovvero l’aver messo in pericolo la vita di più persone) da parte di Ousseynou Sy, il cittadino italiano di origine senegalese alla guida del pullman dove si trovavano gli alunni della scuola media di San Donato Milanese.
Aiuto ci vogliono far credere che c’è un eroe musulmano! I sovranisti non accettano il fatto che venga passato “sotto silenzio” il fatto che l’uomo che ha tentato di uccidere 51 persone, per la maggior parte ragazzini minorenni, sia “uno straniero”. Questo anche se ha la cittadinanza italiana da quattordici anni. Ma si sa, come dicono in questi casi “se un topo nasce in una stalla non per questo diventa un cavallo” e quindi Sy in realtà non è mai stato davvero italiano. Si arriva al paradosso che il vero crimine di Ousseynou Sy è quello di aver in qualche modo demeritato la cittadinanza italiana, disonorandola, e non quello di aver sequestrato e tentato di dare alle fiamme una cinquantina di esseri umani. C’è però un’altra storia, quella dei ragazzini eroi che hanno salvato i loro compagni di classe. I loro nomi sono Rahmi (o Rami, o Ramy, i giornali non si sono messi d’accordo), Adam e Riccardo. Due sono di origine straniera (egiziana e marocchina) e l’altro è italiano. Assieme i tre ragazzi sono riusciti ad avvertire i genitori e i Carabinieri, nonostante avessero le mani legate dalle fascette di plastica, nonostante il sequestratore avesse intimato loro di consegnare tutti i telefonini. Uno di loro, Rahmi (che in alcuni resoconti viene chiamato Samir) ha fatto cadere il telefono sotto sedile, un altro – Riccardo o Ricky – l’ha raccolto e ha provato a chiamare una prima volta. Poi il cellulare è passato ad Adam che è riuscito a comporre il 112 e poi il numero dei genitori. Il primo ad essere intervistato è un ragazzino con la maglietta bianca e i capelli biondi, che ha raccontato la vicenda e che è stato identificato come il primo eroe. Per i sovranisti rimane anche l’unico, nonostante le successive e numerose interviste dove i ragazzini hanno avuto modo di spiegare nel dettaglio cosa è successo all’interno di quell’autobus e come sono riusciti a scappare grazie all’arrivo dei Carabinieri.
Solo gli italiani possono essere eroi. Addirittura Adam è stato intervistato da Myrta Merlino a L’aria che tira, che ha ricordato come sia stato uno sforzo di gruppo quello che ha consentito la liberazione degli ostaggi. Ma non basta. Perché, scrive la Donato, «manipolano l’informazione anche qui, attribuendo il merito del salvataggio a bimbi immigrati per compensare l’effetto negativo dell’attentato? Sono senza ritegno». E ancora: «il ragazzino che ha chiamato la polizia intervistato ieri era biondo e di pelle bianca. Se oggi un giornale tenta di propinarci un eroe per forza musulmano e immigrato, questa è manipolazione dell’informazione». «Chi non vuole capire sta bene nel dorato mondo del politically correct», sentenzia la fondatrice del progetto Eurexit in un altro tweet. E cosa ci sarebbe da capire? Probabilmente che i giornali, i programmi televisivi di approfondimento e i buonisti stanno cercando di farci credere che esistono anche immigrati buoni. Come quei due ragazzini di origine straniera ad esempio. «Il marocchino o l’egiziano eroi rendono l’idea che l’integrazione può funzionare, tutto per celare la più scomoda realtà» scrive nelle risposte un utente con un tripudio di bandiere italiane nel profilo. Ma il tutto si riduce ad una domanda. È vero o falso che tra gli eroi di quella giornata ci sono anche due ragazzini di origine straniera, di cui uno ha la cittadinanza italiana e l’altro no? Se la risposta fosse “no” allora avrebbero ragione Francesca Donato e tutti i sovranisti. Ma le cose stanno diversamente e la risposta è sì: tra quegli eroi, Riccardo, Rahmi e Adam, ci sono due ragazzi di origine straniera. E non potrebbe essere diversamente. Non solo perché ci sono testimonianze e interviste. Ma anche perché sia Luigi Di Maio che Matteo Salvini hanno fatto sapere di voler concedere la cittadinanza a Rahmi per ringraziarlo del suo gesto coraggioso che ha contribuito a salvare i suoi compagni. Ed è davvero difficile sostenere che Salvini sia un sorosiano immigrazionista vero? Ma il capolavoro arriva quando un utente spiega che “i bimbi immigrati non sono immigrati! Sono nati a Crema!” e la Donato conferma: “Ma infatti è proprio così! Sono alcuni giornali che distorcono la notizia”. Incredibile: per Francesca Donato chi nasce in Italia è cittadino italiano. Viva lo Ius Soli!
NICCOLÒ E RICCARDO: EROI SOSTITUITI DA RAMY E ADAM PERCHÉ ITALIANI, scrive il 23 marzo 2019 Vox News. Per due giorni, hanno strumentalizzato due ragazzini stranieri, utilizzandoli come cortina fumogena utile a limitare i danni di quanto un ‘nuovo italiano’ aveva tentato di fare: bruciare vivi 51 bambini per vendicare i clandestini. Addirittura arrivando ad avere l’ardire di ciarlare di ius soli: pazzi. Per farlo hanno opportunamente fatto sparire e messo in secondo piano due vere storie di eroismo: quella di Niccolò e Riccardo. Che hanno la colpa di essere italiani. Quindi inutili nel disegno propagandistico dei media di distrazione di massa. Tutti i bambini sono stati eroi, ma se proprio si doveva esaltare qualcuno, questi erano loro due. O almeno, lo dovevano essere al pari di Adam e Ramy. Il fatto che non sia avvenuto, dimostra quanto i media siano in cattiva fede. Niccolò si è addirittura offerto come ostaggio in cambio della liberazione dei suoi compagni. Eppure, di questa storia quasi non avete sentito parlare. Lui non è stato invitato su La7. Non ha fatto le ospitate. Solo in radio. E poi c’è Riccardo, anche lui italiano. E’ stato lui a rischiare di farsi ammazzare per recuperare il telefonino col quale poi gli altri due, cocchi dei media, hanno chiamato: senza di lui, senza il suo coraggio, nessun intervento dei carabinieri. Eppure, dopo essere stato il primo intervistato, è scomparso dai radar. Italiano. Troppo ghiotta l’occasione dei due stranieri che vogliono la cittadinanza italiana. Troppo ghiotta per limitare i danni di quanto fatto dal "nuovo italiano" che la cittadinanza ce l’aveva! Ma ormai non hanno più il monopolio dell’informazione. Ed è per questo che odiano internet.
NICCOLÒ SI È OFFERTO IN OSTAGGIO AL SENEGALESE: MA DEL PICCOLO EROE ITALIANO NON PARLANO, DEVONO PARLARE DI RAMY, scrive il 22 marzo 2019 Vox News. C’è anche un ragazzino italiano di 12 anni, Niccolò Bonetti, che si è offerto come ostaggio nella vicenda dello scuolabus sequestrato ed incendiato da un terrorista umanitario senegalese. «Ma non mi sento un eroe, ho fatto solo la cosa giusta», ha detto a «Un giorno da pecora» su Rai Radio 1, nella puntata che andrà in onda venerdì alle 13.30. «Il terrorista, io lo chiamo così (l’autista senegalese Ousseynou Sy, ndr) ha chiesto di avere qualcuno vicino a lui, e ha iniziato a spargere benzina. Poi è andato a prendere un ostaggio e ne ha chiesto un altro: se nessuno si fosse presentato minacciava di fare esplodere l’autobus. In un momento di panico, coi miei compagni agitati – ha raccontato lo studente – ho deciso di andare lì ed offrirmi volontario». Non hai avuto paura? «Sì, avevo paura, in tanti mi hanno creduto pazzo, ma penso di aver fatto la cosa giusta, l’ho fatto per i miei compagni. Ho cercato di tenere i nervi saldi». Cosa ti diceva il terrorista? «Cose molto strane: voleva vendicarsi dei bambini morti nel mediterraneo, della politica in Italia e nel suo Paese, insultava Di Maio e Salvini. A volte diceva che non voleva ucciderci e due secondi dopo che sarebbe tutto finito e nessuno sarebbe uscito vivo da quel pullman. Si è fermato 5 o 6 volte con la benzina che continuava a sgorgare». Tuo padre ha detto che sei stato un pazzo. «Si, e forse ha ragione. Ma in quel momento mi sono sentito di farlo». Ecco, di Niccolò Bonetti i media non parlano. Perché devono parlare di Ramy. Niccolò ha un nome troppo poco esotico.
Ps. E Niccolò non è il solo bambino italiano "cancellato" dai media. C’è anche Riccardo.
Arianna Kellermann il 22 marzo alle ore su Facebook alle 19:13 nel gruppo "Davide come Golia". APPELLO: salvate questo video e condividetelo! Il nemico ha mille risorse: in una notte è riuscito a far sparire da tutti i media l'intervista a Riccardo Frignati, italianissimo, piccolo eroe dell'attentato allo scuolabus, e a mettere in luce i vari Ramy, Adam e Samir (quest'ultimo non esiste: non è altro che Riccardo, spacciato per marocchino) per ricavarne uno spot elettorale per lo Ius Soli. In realtà, facendo qualche ricerca, ho appurato che i bambini che hanno dato l'allarme sono tre, di cui due stranieri e uno italiano (Riccardo), ma di lui non si deve parlare appunto perché è bianco e italiano. Sono dei bastardi e prima o poi spero che la pagheranno molto cara. Per il momento spetta a noi, come al solito, il compito di difendere e divulgare la verità.
RICCARDO, IL VERO EROE DEL BUS CANCELLATO DAI MEDIA PERCHÉ ITALIANO, scrive il 22 marzo 2019 Vox News. Oltre a Niccolò, che si è offerto in ostaggio, c’è la storia di un altro ragazzino italiano che è stata messa in secondo piano dai media. Questo è Riccardo, italiano. Subito dopo la tentata strage dell’autista senegalese, è stato intervistato. Salutato da Salvini come il bambino eroe. Poi, il suo video è sparito dai media cosiddetti ufficiali. Non serviva alla narrativa immigrazionista. Sostituito da quelli di Ramy e Adam, due non italiani. La loro presenza era necessaria per tentare di distogliere l’attenzione dalla catastrofe di un “nuovo italiano” che tenta di bruciare vivi 51 bambini. E’ così iniziata la propaganda del bambino marocchino senza cittadinanza italiana (se è marocchino, perché renderlo italiano?) che ha salvato tutti. Non è andata così. Sono stati tutti degli eroi, in quella situazione ma, casualmente, i media hanno cancellato il bambino italiano e messo in evidenza quello straniero. Nonostante a rischiare la vita fosse stato Riccardo: si toglie le fascette e recupera il telefono! E’ stato proprio Riccardo, il ragazzino italiano, in un’intervista rilasciata al Corriere, a spiegare di nuovo quanto accaduto: “Un mio compagno, Rami, aveva nascosto il cellulare, ha fatto le prime chiamate al 112”, evidentemente inutili. “Ad un certo punto gli è caduto per terra, senza farmi vedere sono andato a raccoglierlo e l’ho passato ad Adam, dietro di me“. Riccardo, insomma, ha giocato un ruolo fondamentale: senza di lui, probabilmente, sarebbero tutti morti. Ma lui è stato cancellato. Perché non serviva alla disgustosa propaganda per lo ius soli.
Gasparri: «Giusto premiare Rami, ma al bimbo-eroe italiano niente? È razzismo al contrario», scrive mercoledì 27 marzo 2019 di Paolo Sturaro su Il Secolo d'Italia. «È giusto dare la cittadinanza per meriti speciali a chi abbia ben meritato. Nel caso dei bambini protagonisti della vicenda del pullman, i presupposti ci sono tutti. Casomai, andando in televisione con una bandiera italiana sulle spalle e non con quella di un altro Paese, se poi si chiede appunto, giustamente la cittadinanza italiana. Ma i bambini altrettanto eroici, italiani figli di italiani, avranno qualche riconoscimento?». Lo domanda il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri.
Gasparri: va dato un riconoscimento al bambino che si è offerto come ostaggio. «Meno male che vengono ricevuti insieme ai carabinieri e ai bambini di origine straniera anche loro al Viminale, ma non avendo bisogno della cittadinanza, una borsa di studio o qualche altro riconoscimento è possibile ipotizzarlo? Oppure siamo in una nazione dove c’è un razzismo al contrario, dove si è eroi se si è di origine straniera e non si è eroi se di origine italiana?», incalza Gasparri. «C’è stato un bambino che si è offerto in ostaggio al sequestratore italo-senegalese. Vogliamo dare un riconoscimento concreto anche a lui e agli altri o no? Vigileremo con attenzione. Attenti a smantellare tutte le strumentalizzazioni in corso. La cittadinanza per meriti straordinari può e deve essere concessa, l’estensione a tutti, introducendo lo Ius soli, è una strada impercorribile. Mai, ribadisco mai, Ius soli in Italia», conclude Gasparri.
Bus dirottato a San Donato Milanese: il governo concede la cittadinanza a Adam e Ramy. Pubblicato martedì, 11 giugno 2019 da Corriere.it. Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera alla proposta di concedere la cittadinanza per meriti speciali a Ramy Shehata e Adam El Hamami, i due ragazzi della scuola media Vailati di Crema che hanno sventato il tentativo di dirottare uno scuolabus, chiamando il 112. I due giovani hanno «reso eminenti servizi al nostro paese», si legge nella relazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini, che accompagnava la proposta, «per aver contribuito, con il proprio gesto di alto valore etico e civico, a sventare la tentata strage». Il ministro dell’Interno consegnerà inoltre la medaglia d’oro al valor civile alla scuola media Giovanni Vailati di Crema perché «con straordinario coraggio ed eccezionale spirito di iniziativa il personale docente e non docente e i 51 studenti fronteggiavano il conducente dell’autobus (…) allertavano i Carabinieri (…) e riuscivano a liberarsi». Il comportamento del personale scolastico e dei ragazzi presenti viene definito uno «splendido esempio di generosa solidarietà e straordinaria abnegazione», orientato alla «difesa del più alto valore della vita umana».
Bus dirottato, trovato il video proclama di Sy. Voleva fare una strage. Pubblicato martedì, 11 giugno 2019 da Corriere.it. È stato recuperato il video «proclama» di 37 minuti di Ousseynou Sy, l’autista 47enne che il 20 marzo ha tenuto in ostaggio 50 bambini, due insegnanti e una bidella e poi ha dato fuoco al bus, sulla Paullese, a San Donato Milanese. Proprio nel giorno in cui in Consiglio dei ministri arriva la proposta di concedere la cittadinanza italiana ai due ragazzini eroi Adam e Ramy. I carabinieri, nell’ambito delle indagini coordinate dal capo del pool antiterrorismo Alberto Nobili e dal pm Luca Poniz, hanno scovato il filmato su Google. «Viva il panafricanesimo, combattiamo i governi corrotti e critichiamo la politica europea che sfrutta l’Africa», diceva il senegalese. Gli inquirenti ritengono che il video non sia pubblicabile per rischi di «emulazione e odio». Il video non è mai andato sul web perché è stato bloccato per «motivi tecnici» dal motore di ricerca, in quanto troppo lungo. Stando a quanto spiegato da Nobili, nel filmato Sy spiega le ragioni «politiche» del suo gesto, pur senza preannunciarlo nelle modalità. «Non è un video violento, non annuncia quello che succederà — chiariscono Nobili e Poniz — né tecnicamente si può definire una chiamata alle armi, ma costituisce un tentativo di analisi di tipo politico». Ousseynou Sy non aveva una rete di contatti nell’universo jihadista, era un «lupo solitario». Questo, in sintesi, il profilo dell’autista che ha dirottato lo scuolabus, secondo i pm Nobili e Poniz. L’analisi dei suoi contatti telefonici e dell’agenda non ha evidenziato alcuna relazione «sospetta». L’uomo è stato sentito lunedì per la terza volta dai magistrati e ha confermato che voleva fare «un gesto eclatante per scuotere le coscienze», ma non ha fatto riferimento, come nello scorso interrogatorio, alle «voci» che l’avrebbero guidato nella sua azione. Alla domanda sul perché avesse voluto trasporre in un’azione violenta la filosofia pacifista del panafricanismo da lui propugnata, che ha tra i suoi capofila anche Nelson Mandela, Sy ha risposto: «Ho capito di dover fare qualcosa per scuotere le coscienze per far sì che gli Stati africani combattessero gli altri paesi africani corrotti che svendono l’Africa e costringono la gente ad andare via». Dalle indagini dei carabinieri di Milano, coordinate dai pm Alberto Nobili e Luca Poniz, durate poco più di due mesi, si è rafforzata l’idea che Ousseynou Sy, l’autista che il 20 marzo ha tenuto in ostaggio 50 bambini, due insegnanti e una bidella e poi ha dato fuoco al bus, a San Donato Milanese, volesse fare una strage sulla pista di Linate. Da imputazione l’uomo aveva «l’intento di condizionare i pubblici poteri in relazione alle politiche in materia di accoglimento degli stranieri, di intimidire la popolazione». Tra le imputazioni contestate a Sy, assieme alla strage aggravata da finalità terroristiche, sequestro di persona, incendio e resistenza, ci sono anche le lesioni a 17 bambini, non solo per ferite ma anche per traumi da «stress» e psichici da «violenza emotiva». I pm Alberto Nobili e Luca Poniz sono pronti a chiedere il processo immediato, dopo aver interrogato lunedì l’uomo. E arriverà in Consiglio dei ministri martedì pomeriggio la proposta di concedere la cittadinanza per meriti speciali a Ramy Shehata e Adam El Hamami, i due ragazzi della scuola media Vailati di Crema che «con il loro coraggioso comportamento erano riusciti a sventare il tentativo di dirottamento dello scuolabus». Così il Viminale. «Ritengo che i giovani abbiano reso eminenti servizi al nostro Paese», scrive il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, nella relazione che ha accompagnato la proposta di concessione. «Lo dico subito a mio figlio, è qui con degli amici che sta mangiando la pasta. Sarà felicissimo — ha detto la mamma di Adam, apprendendo la notizia —. Tutti e due lo meritano davvero, sarà un valore per il loro futuro».
"Andate via è pieno di gasolio". Quelle urla di Sy ai carabinieri. La drammatica telefonata tra un carabiniere e l'autista del bus. Interviene l'insegnante: "Ci porta a Linate...", scrive Angelo Scarano, Giovedì 21/03/2019 su Il Giornale. Le parole dell'autista a bordo del pullman dirottato e poi dato alle fiamme sulla Paullese spiegano meglio la follia e il piano omicida dell'attentatore. Nell'audio della telefonata tra i carabinieri e Oyssenou Sy emerge tutta la drammaticità di quegli attimi. In un colloquio telefonico tra l'autista e un militare emerge la strategia della morte che Sy voleva mettere in atto. Poco dopo aver deviato dal suo percorso con l'autobus, l'autista si imbatte in una pattuglia dei carabinieri. Decide di contattare uno degli insegnanti a bordo del pullaman per far chiamare il 112. Nel corso della telefonata emergono le minaccce, sin dall'inizio molto chiare: "Non voglio vedere nessuno nell'arco di due chilometri, non sparate al pullman perché qui c'è liquido infiammabile!". A questo punto, nella drammaticità di quegli attimi, si sente la voce dell'insegnante che ricorda ai carabinieri la presenza di gasolio a bordo del bus: "È pieno di gasolio". Qui emerge il secondo livello del piano del terrore. L'autista ha già avvisato la scolaresca e gli insegnanti: vuole andare a Linate per fare una strage. Ed proprio uno degli insegnanti a comunicarlo ai carabinieri: "Vuole andare all'aeroporto". Il militare chiede di fare abbassare i bambini che però sono già stati legati. "Sono legati, ha in mano un accendino e minaccia di dar fuoco a tutto", spiega il docente. Parole terribili che spiegano quegli attimi angoscianti prima dell'intervento dei carabinieri. Dalla telefonata con il 112 emerge chiaramente, come ha già sottolineato il pm Greco che il piano di Sy era meditato e preparato da giorni. L'uomo aveva pianificato il dirottamento del bus e aveva anche acquistato il gasolio, come mostra questo video (Clicca qui), per incendiare il bus. Per questi motivi la procura contesta al senegalese anche l'aggravante di terrorismo. Solo l'intervento di carabinieri coraggiosi e la telefonata provvidenziale di un ragazzino hanno evitato una strage.
La confessione di Ouesseynou: "Volevo usare i bimbi come scudo". Ouesseynou parla dal carcere e racconta di essere un panafricanista che ha agito per denunciare lo sfruttamento occidentale del Continente nero, scrive Andrea Riva, Giovedì 21/03/2019, su Il Giornale. Dal carcere, Ouesseynou Sy racconta un'altra versione dei fatti che l'avrebbero spinto prima a dirottare e poi a dare fuoco a un autobus che trasportava 51 ragazzi. "L'ho fatto per dare un segnale all'Africa, perché gli africani restino in Africa e così non ci siano morti in mare", avrebbe detto l'uomo in carcere, che avrebbe poi raccontato di essere un "panafricanista" che spera nella vittoria delle destre europee "così non faranno venire gli africani". Una versione che non convince, dato che i giovani che si trovavano sul mezzo hanno raccontato dei numerosi insulti rivolti dal senegalese al vicepremier Matteo Salvini e al governo. Ma dal carcere Ouesseynou cerca di spiegare anche perché avrebbe voluto raggiungere un aeroporto milanese: "Volevo andare a Linate per prendere un aereo e tornare in Africa e usare i bambini come scudo". E ancora: "Gli africani devono restare in Africa ed è l'Occidente che non lo consente". In questo senso andrebbe dunque letto il video messaggio registrato dall'uomo che, secondo i pm, "voleva mandare il messaggio 'Africa Sollevati' e dire agli africani di 'non venire più in Europa e punire l'Europa per le politiche a suo dire inaccettabili contro i migranti'". Le due versioni stridono parecchio. Ma quel che è certo è che l'avvocato difensore dell'uomo ha chiesto una perizia psichiatrica: "È doveroso a fronte dell'enormità del gesto e su questo anche la Procura concorda".
Il piano di Ouesseynou. Il senegalese ha agito con premeditazione. Aveva portato le taniche di benzina a bordo e le aveva coperte. Aveva nascosto i martelletti per rompere i vetri in caso di incendio e portava con sé, come hanno raccontato i ragazzi, un coltello. Ma non solo. Alcune studentesse hanno raccontato che Ouesseynou, già nei giorni precedenti l'attacco, aveva provato a dirottare il mezzo: "Già lunedì avevamo notato che ci trattava male. Uno della classe gli ha detto 'arrivederci' e lui gli ha risposto 'vaffanculo'. Prima aveva cercato di deviare strada ma un professore gli aveva detto poi di fare quella giusta". Tiziana M., la bidella a bordo del mezzo, ha inoltre raccontato: "Sy ha chiuso le porte del bus con delle catene, non avrei mai pensato una cosa simile. Gli insegnanti sono stati legati e e lui mi ha detto di buttare la benzina sulla tenda e i finestrini e di sequestrare i cellulari. Io ho tenuto acceso il mio, ho fatto il numero della scuola e l'ho lasciato acceso perchè volevo che dall'altra parte sentissero".
Interrogato in carcere Sy: "Sentivo le voci dei bimbi morti in mare che mi dicevano di fare un gesto eclatante". L'uomo che ha dirottato e incendiato il bus a San Donato interrogato oggi per la convalida del fermo. L'avvocato dell'autista: "Ha dato segni di squilibrio", scrive il 22 marzo 2019 La Repubblica. Ousseynou Sy voleva fare "un'azione dimostrativa" e avere "non un impatto nazionale ma un massimo impatto internazionale". Davanti al gip "ha lodato la politica italiana sulle migrazioni, è l'unica che ci mette dei soldi" perché il suo messaggio era che "nessuno dall'Africa deve venire in Europa": a dirlo, al termine dell'interrogatorio di garanzia, è Davide Lacchini, il legale dell'autista che ha dirottato e incendiato un bus pieno di studenti mercoledì mattina a San Donato, al termine dell'interrogatorio di garanzia a San Vittore. Durante l'interrogatorio, ha detto il legale, Sy avrebbe mostrato "evidenti segni di squilibrio" e fatto anche alcune "invocazioni". In particolare avrebbe detto: "Sentivo le voci dei bambini morti in mare che dicevano 'fai qualcosa di eclatante per noi ma non fare del male a questi bambini". L'uomo, secondo la procura milanese che ha chiesto la custodia cautelare in carcere per Ousseynou Sy, potrebbe colpire ancora e fare altre azioni simili. Anche perchè sin dalle prime parole, non ha mostrato alcuno segno di pentimento, ma anzi ha rivendicato le sue intenzioni: "L'ho fatto per l'Africa, perché gli africani restino in Africa e così non ci siano morti in mare". E' in carcere di San Vittore, rinchiuso in una cella del settore protetti, Ousseynou Sy: l'autista che mercoledì mattina ha dirottato e incendiato uno scuolabus pieno di studenti di seconda media di Crema, salvi per miracolo, aveva preparato il suo piano nei giorni precedenti. Un piano che, nelle sue intenzioni, avrebbe avuto una conclusione: "Volevo andare a Linate, prendere un aereo per tornare in Africa e usare i bambini come scudo". Ma al termine dell'interrogatorio di garanzia l'avvocato ha spiegato che Sy "voleva andare a Linate da solo" e che "oggi come ieri ha costantemente ribadito che non voleva fare del male ai bambini". Nell'interrogatorio di convalida davanti al gip Tommaso Perna la procura ha chiesto a Sy di ricostruire la mattina di terrore sulla Paullese. Per gli inquirenti fu lui ad appiccare il fuoco al pullman, mentre Sy sostiene che le fiamme divamparono accidentalmente. Ma gli investigatori dei carabinieri e la procura stanno lavorando su tutte le dichiarazioni dell'uomo, un "lupo solitario", come è stato definito, senza collegamenti con organizzazioni come l'Isis, ma che ha premeditato e messo in atto un gesto che è terrorismo, per la procura, che lo ha indagato per sequestro di persona, incendio, resistenza e strage con l'aggravante della finalità terroristica, appunto.
"Ho perso i miei figli in mare": ma la verità è un'altra. Ousseynou Sy non vede i figli da anni. Le testimonianze: "I ragazzi hanno tanto sofferto per la separazione. Il padre non si era più fatto vivo", scrive Giorgia Baroncini, Giovedì 21/03/2019, su Il Giornale. Diceva di voler vendicare le sue bimbe morte in mare. Ma era solo una bugia: i figli di Ousseynou Sy sono vivi ed è lui che non li incontra da anni. "Li frequentava di tanto in tanto", raccontano i vicini a chi cerca ora di fare luce sul passato del senegalese che ha tentato di fare una strage a bordo di un bus. Nel 2007 gli era stata sospesa la patente per guida in stato di ebbrezza. Un episodio del quale però non venne mai a conoscenza la società per cui lavorava, la Autoguidovie. Ousseynou Sy, detto Paolo, 47enne nato in Francia da genitori senegalesi, si era infatti messo in malattia non comunicando l'accaduto all'azienda. Cittadino italiano dal 2004 dopo il matrimonio con una bresciana dalla quale si è poi separato, il passato di Ousseynou Sy presenta molti lati oscuri e dei precedenti significativi. Nel 2018 l'uomo era stato condannato a un anno e mezzo per violenza sessuale ai danni di una 17enne nel 2010, con pena sospesa. Un "gran lavoratore, nessun segno di squilibrio". Così lo hanno descritto i colleghi di lavori che ancora non credono a quanto sarebbe potuto accadere. "Porto i ragazzi in palestra e torno", aveva detto l'uomo agli amici. Invece si era messo alla guida del bus con l'intento di provocare una strage.
L'enigma sui figli. "Diceva di aver perso tre bimbe in mare e che dovevamo morire anche noi, bruciati". Questo è quanto hanno raccontato ai carabinieri gli studenti tratti in salvo. Secondo le prime indiscrezioni però, l'uomo non vede i figli da anni. "Li frequentava di tanto in tanto", raccontano i vicini, come riporta TgCom24.
Il parroco ha rivelato a La Stampa che "i ragazzi hanno tanto sofferto per la separazione; il padre non si era più fatto vivo con loro. Anche l'ex moglie da anni non aveva più rapporti con l'ex marito, era stata una separazione difficile". Un passato oscuro sul quale si sta cercando di fare chiarezza.
“Uno shock, lo zio era una brava persona”. E l'ex moglie di Sy: “Non parlo di lui”, scrive il 22 marzo 2019 Matteo Pucciarelli su La Repubblica. Durante quell'interrogatorio si è definito un "panafricanista". "L'Africa - ha detto - è stata colonizzata. L'Europa si approfitta dell'Africa, decide per l'Africa, mette governi comodi per l'Occidente", citando anche il franco Cfa, moneta stampata in Francia ed utilizzata in 14 Paesi africani, portando a testimonianza anche le critiche di Di Battista e di Di Maio. "L'ho fatto per dare un segnale all'Africa - ripete - perché restino in Africa e non ci siano più morti in mare. Spero che il segnale sia arrivato e che in Europa vincano le destre, così non li fanno più arrivare". In carcere l'uomo è nel settore protetti da ieri: perché dopo la prima notte, ieri mattina al passaggio della colazione gli altri detenuti avevano iniziato a lanciare uova e arance contro la sua cella. Un'azione dimostrativa non inedita: quando arriva un nuovo detenuto accusato di reati che riguardano minori non è raro che gli altri detenuti manifestino in questo modo.
Ousseynou Sy: "Pentito? Lo rifarei cento volte". E gli tirano le uova in cella. Ousseynou Sy non mostra segni di pentimento e rivendica il suo attacco al bus. Per lui notte da incubo in carcere, scrive Angelo Scarano, Venerdì 22/03/2019 su Il Giornale. Ousseynou Sy non mostra segni di pentimento. Lo rifarebbe cento volte. Il senegalese che ha sequestrato un bus con a bordo 51 ragazzini non chiede scusa per quanto accaduto. Rivendica con forza il suo gesto e di fatto davanti ai magistrati spiega i motivi dell'attacco al pullman: "Pentito? Nessun pentimento. Era una cosa che dovevo fare e che rifarei. Cento volte. Perché l’ho fatto? Per mandare un segnale all’Africa. Gli africani devono restare in Africa". Parole che pesano e che di fatto sottolinenano quanto fosse determinato l'uomo nel suo piano di morte. Come riporta ilCorriere le parole di Sy sono la conferma della matrice stragista del gesto dell'autista. Non teme nemmeno il giudizio e il lungo processo che dovrà affrontare: "Non fa niente, l’avevo messo in conto. Volevo un’azione eclatante, il mondo doveva parlare di me", confida al suo avvocato. Ma di fatto, ora, dopo l'attacco al bus, per lui si sono già spalancate le porte dle carcere di San Vittore. Lì lo hanno accolto gli latri carcerati a colpi di uova e arance. Un lancio fitto contro la sua cella. I detenuti non gli hanno permesso di chiudere occhio. Si trova nel quinto raggio, quello dei protetti, i detenuti che non possono stare insieme agli altri. Nel codice carcerario chi colpisce i bambini ha una pena "accessoria" che si consuma proprio nel rapporto quotidiano con gli altri carcerati. La regola non cambia per Sy che ha dovuto fare i conti con questa realtà. Lui si presenta in cella con una maglietta binaca e dei jeans. Sopra una camicia a scacchi. Ai piedi le ciabatte. Come riporta ilCorriere i suoi indumenti, quelli che indossava sul bus, sono andati in parte bruciati. L'ultimo segno di una giornata di follia che ha segnato forse per sempre la vita di 51 ragazzini e dei loro insegnanti.
Ecco chi difende Sy, senegalese, terrorista, che voleva uccidere 51 bambini. Anche davanti a questo episodio Livia Turco, Gad Lerner ed altri hanno trovato giustificazioni al gesto dell'uomo, scrive Panorama il 21 marzo 2019. Nemmeno davanti alla gravità del gesto di Ousseynou Sy, il senegalese che dopo aver sequestrato 51 bambini sul suo bus voleva bruciali a Linate (in poche parole il più grande atto di terrorismo della storia del nostro paese) qualcuno ha perso l'occasione per ricredersi, almeno un minimo. L'occasione per ammettere almeno una volta che esista un problema immigrazione ed integrazione nel nostro paese. Sul web ieri l'Italia era spaccata in due. Sui social migliaia di commenti erano di giustificazione e comprensione. E anche alla nostra redazione e sulla nostra pagina fb l'analisi su quanto accaduto non è stata apprezzata da tutti. Livia Turco, ex ministro, figura storica della sinistra ospite ad una trasmissione tv dovendo commentare l'accaduto ha così risposto: «Sono fatti che creano angoscia e allarme, ma che vanno compresi». “Come compresi?” L'ha interrotta incredula la conduttrice. «Compresi nel senso di comprenderne la ragione». Comprenderne la ragione. La ragione e la giustificazione sono state spiegate, per iscritto su fb, da Gad Lerner: "La follia criminale del cittadino italiano Ousseynou Sy è l'esito di una contrapposizione isterica che manifesta ostilità agli immigrati additandoli come privilegiati, negando le loro sofferenze e la loro umanità. Impersonata per fortuna dai bambini di Crema e dai carabinieri di San Donato Milanese". Traduzione e sintesi: è colpa di Salvini, isterico e fascista.
Le opinioni si rispettano, tutte. E da una parte per chi la pensa in maniera diversa, per chi è in contatto con la realtà, fanno un po' sorridere. Ma almeno ammiriamo la coerenza di Livia Turco e Gad Lerner, da sempre schierati a favore dei migranti e degli immigrati. A prescindere. Quello che questi signori però non capiscono è che la gente vive su un altro pianeta, quello reale. Quello dove si va a votare e si premia il fascista Salvini bastonando la sinistra dell'accoglienza senza limiti ridotta ad una opposizione inutile ed impotente. Se proprio non riescono a cambiare opinione consigliamo almeno il silenzio. Ma, niente, non ce la fanno.
L’ATTENTATORE? “VA COMPRESO. "Sono gesti che vanno compresi". Dopo Gad Lerner, l'ex ministra del PD LiviaTurco si riferisce cosi al sequestratore di Samir e altri 50 bambini. E' la stessa che ha scritto una legge sull’immigrazione insieme a Napolitano
Francesco Merlo per “la Repubblica” il 22 marzo 2019. Ousseynou Sy è il senegalese che ha tentato di fare una strage di bambini, ma non ha tentato di fare una strage di bambini perché è senegalese. Allo stesso modo, il neozelandese Brenton Harrison Tarrant è un cristiano che ha fatto una strage di musulmani, ma non ha fatto una strage di musulmani perché è cristiano. La nerissima cronaca dei nostri anni ferocemente pazzi è piena di invasati che sono impazziti di terrorismo, ma ogni volta che la sociologia del terrorismo è stata applicata a uno solo di questi solitari assassini o aspiranti assassini, stragisti, sparatori o bombaroli, si è subito degradata in sociologismo. Solo a tarda sera, per cominciare, abbiamo avuto la prima foto di Ousseynou Sy. Vi si intravede la banale faccia del criminale stordito che, circondato dai carabinieri e infilato dentro la gazzella, si è guadagnato il suo quarto d' ora di popolarità e ha trasformato i suoi quindici minuti di follia in un' eternità di galera. Non è ancora un uomo in posa, ma - fateci caso - da Breivik a Traini, non c' è un solo " mostro" che, una volta preso, abbia davvero esibito la tenebrosità del diavolo né quegli occhi di ghiaccio che sempre, a ogni orrore, gli vengono attribuiti senza neppure guardarlo in faccia. In Italia abbiamo cominciato - ricordate? - con il ghanese Mada Kabobo che in un' ora di follia uccise a colpi di machete tre passanti a Niguarda. Ci volle un po' di tempo a capire che la sua schizofrenia e la sua paranoia non erano etniche: il suo Paese, il Ghana, non era il mandante " oggettivo" della sua pazzia macellaia. E abbiamo avuto Preiti che, in piazza Montecitorio, proprio mentre il governo Letta, unendo destra e sinistra, giurava al Quirinale, ferì due carabinieri e una passante sostenendo che voleva sparare alla casta ma che aveva sbagliato bersaglio. Nella sua logica disturbata, Preiti pensò di trovare più solidarietà contro i politici che contro i carabinieri (uno, Giuseppe Giangrande è rimasto paralizzato). E infatti la trovò perché anche in quel caso la sociologia si scatenò dicendo che la colpa " oggettiva" era dell' inciucio, la trovò nell' Italia politica, che era anch' essa disturbata. Di sicuro la sociologia applicata alla cronaca nera è la madre di tutti i razzismi moderni. E adesso c' è il senegalese che, per vendicare i morti nel Mediterraneo e tutti i senegalesi emigrati, sino a Koulibaly insultato negli stadi, aveva premeditato un rogo di bambini girando persino un video: " Africa sollevati". Ed è l' autista nero di un autobus di bimbi bianchi, un altro dettaglio che sembra sbucare dalla storia del razzismo. Intanto perché sempre l' autobus sobilla e rende i matti ancora più matti. Nell' autobus ci sono infatti le emozioni e gli odori, tocchi e guardi i passeggeri che si toccano e si guardano, vedi i bimbi di scuola con le cuffiette in testa e con le scarpe da tennis ai piedi. L' autobus è, nelle città, il luogo dove scoppiano più risse che altrove, il piccolo mondo recluso dove si scatena l' odio contro il diverso che ti sta accanto. Negli anni Sessanta, nell' America di Kennedy, all' inizio dei grandi disordini razziali, all' origine delle rivolte nere e delle leggi speciali c' è una donna di colore, Rosa Parks, che appunto in un autobus non volle cedere il posto riservato ai bianchi. Qui c' è pure, nell' autista nero, un altro stereotipo del razzismo, come nella cameriera nera. Ecco dunque che, a poco a poco, tutto torna. Anche nella logica che - come ci ha insegnato Amleto - sempre c' è nella follia. I disperati e i matti come il nostro Ousseynou Sy non sono Crociati che liberano i Sepolcri, ma sono appunto matti che, facendo esplodere la loro vita guasta, acchiappano tuttavia per la coda gli odi dell' epoca: quello dei governi contro gli immigrati neri, dei sovranisti contro i globalisti, degli estremisti ebrei e cristiani contro i musulmani, delle grandi città contro le loro periferie: Traini viveva, con la nonna, in un squallido appartamentino, alla periferia di Tolentino che è a sua volta la periferia di Macerata. E San Donato non è un paese, ma è una periferia diventata città, la porta sud di Milano. E però qui c' è pure il lieto fine. C' è il maresciallo buono, Roberto Manucci di Paullo, maresciallo capo per la precisione, che sembra uscito dall' Italia antica, ingenua e coraggiosa di Vittorio De Sica. Stempiato, con gli occhiali, emozionato e padre di due figli - « ho pensato a loro» - ha rotto il vetro di dietro come un James Bond alla casereccia. E infatti, anche mentre bloccava il criminale, ancora pensava - ha ripetuto - solo a loro, ai bimbi. E tra i bimbi c' è il biondino che ha saputo governare la paura e trovare la bella strada della legittima difesa che in Italia è un' altra caverna platonica della violenza. Il bimbo ha avuto il sangue freddo di liberarsi delle fascette elettriche che il matto gli aveva imposto ai polsi e ha chiamato non il suo papà, ma addirittura i carabinieri. È la razionalità bambina in un paese di adulti matti, è la sanità di mente e il governo delle emozioni nell' Italia che è un paese- manicomio di vecchi. E torna l' idea del mondo salvato dai ragazzini perché quel bimbo ha le stesse qualità dei suoi quasi coetanei che sabato scorso hanno manifestato in tutto il mondo per difendere l' ambiente. Il bimbo eroe di San Donato è un loro fratello, un' altra meraviglia nel nostro tempo marcio. De Sica appunto ne avrebbe fatto un seguito di Miracolo a Milano.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 22 marzo 2019. Gad Lerner non delude mai. Una volta è in grado di sorprenderci lanciando un appello pro migranti dal suo splendido terrazzo con un Rolex al polso. Un' altra perché di fronte a una tragedia sventata, come il sequestro di 51 bambini che potevano bruciare vivi per mano di un senegalese, riesce a dare la colpa a chi «manifesta ostilità nei confronti degli immigrati». Sì, ieri su Twitter il comunista con il Rolex ha scritto proprio così: «La follia criminale del cittadino italiano Ousseynou Sy è l' esito di una contrapposizione isterica che manifesta ostilità agli immigrati, negando le loro sofferenze e la loro umanità». Chiaro il concetto? Se non ci fosse chi si lamenta per l' invasione di extracomunitari e rifiuta di pagare il traghetto alle masse di immigrati in arrivo dall' Africa, Ousseynou Sy non si sarebbe innervosito e non avrebbe deciso di sequestrare 51 bambini minacciandoli con un coltello. La follia criminale (eh sì, perché altri, tipo Luca Traini, sono capaci di intendere e di volere, il senegalese invece è già stato classificato come un caso di follia) dell' autista del bus è «l' esito» del comportamento degli italiani che non si rassegnano all' accoglienza indiscriminata. Colpa nostra dunque se un tizio rapisce 51 bambini e li vuole bruciare, perché con il nostro comportamento ostile nei confronti dell' immigrazione lo abbiamo fatto arrabbiare. Ma se Gad non delude mai (pure nel nascondere le origini del sequestratore), anche altri ieri si sono dati da fare. Sulla prima pagina di Repubblica, per esempio, è comparso un mirabile editoriale di Francesco Merlo, in cui si ricalcavano le medesime tesi di Lerner. Secondo l' editorialista del quotidiano debenedettiano, «tutto torna, anche nella logica, che - come ci ha insegnato Amleto - sempre c' è nella follia». Insomma, il senegalese è pazzo, ma un pazzo che agisce per reazione. Ma a che cosa? Leggere per credere: «I disperati e i matti come il nostro Ousseynou Sy non sono Crociati che liberano i sepolcri, ma sono appunto matti che, facendo esplodere la loro vita guasta, acchiappano tuttavia per la coda gli odi di un' epoca: quello dei governi contro gli immigrati neri, dei sovranisti contro i globalisti, degli estremisti ebrei e cristiani contro i musulmani, delle grandi città contro le periferie». In pratica Merlo sostiene che l' autista ha dirottato il bus, sequestrando 51 studenti di scuola media, perché è folle, ma la sua follia si è scatenata di fronte all' odio dei sovranisti e dei governi contro i neri. Siamo sempre lì: se uno minaccia di fare una strage, la colpa è di chi ha creato un clima d' odio. Se non ci fossero stati Matteo Salvini a parlare male degli immigrati, e a rivendicare la sovranità del popolo, e quegli estremisti cristiani ed ebrei contro i musulmani, Ousseynou Sy se ne sarebbe stato buono a casa sua. Non avrebbe avuto motivo di prendere il coltello e le taniche di benzina, legare i ragazzini e spaventarli dicendo che da quella corriera nessuno sarebbe uscito vivo. Nell' articolo di Merlo, ovviamente, non sfugge l' uso dei riferimenti storici. Il giornalista di Repubblica, a proposito dell' autista sequestratore, non parla di un feroce Saladino o di qualche sultano ottomano, ma di crociati. E così, mentre cita i crociati ribaltando la prospettiva, Merlo racconta anche che gli odi di un' epoca arrivano solo dai sovranisti, dagli estremisti cristiani ed ebrei. E le vittime chi sono? Ovvio, no? Gli immigrati e i musulmani. Sì, gli odi provengono esclusivamente da lì. A Repubblica evidentemente non devono essere giunti gli echi delle stragi commesse in nome di Allah. In redazione non conoscono che cosa sia accaduto nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo, né che cosa sia capitato dentro il teatro Bataclan di Parigi. Di certo non sanno nulla della strage del mercatino di Natale a Berlino o di quella sul lungomare di Nizza nel giorno dell' anniversario della presa della Bastiglia. C' è da escludere che quelli del quotidiano debenedettiano siano stati informati degli attentati compiuti sulle ramblas di Barcellona o all' aeroporto di Bruxelles, così come della gimcana fra i passanti sul ponte di Westminster a Londra. I poveri repubblichini alla Merlo non sanno che tutte quelle stragi non le hanno commesse i sovranisti o gli estremisti ebrei o cristiani. Quegli attentati sono frutto di terroristi islamici, molti dei quali accolti a braccia aperte in Occidente. Non c' era nessun odio da acchiappare per la coda. Così come non c' è per l' autista che voleva bruciare 51 bambini. L' odio era dentro di lui e di quelli come lui. E se una colpa si può attribuire all' Occidente è solo il giustificazionismo con cui sui suoi giornali accoglie ogni strage o tentata strage.
Fabrizio De Feo per “il Giornale” il 22 marzo 2019. Dovrebbe essere il giorno in cui onorare gli eroi, i carabinieri che hanno salvato i ragazzi da una morte terribile sulla ex statale Paullese e interrogarsi sul gesto compiuto da Ousseynou Sy, l' autista senegalese-italiano del bus, ma anche celebrare il coraggio dei ragazzi - di cui uno di origine egiziana - che hanno dato l' allarme. Il giorno in cui magari interrogarsi e chiedersi lucidamente se un automatismo - che sia il matrimonio o un termine temporale - possa sostituire un percorso di reale e convinta integrazione e adesione ai valori dello Stato italiano, ai fini dell' ottenimento della cittadinanza. Il copione della giornata si sviluppa, però, diversamente e quanto accaduto a San Donato Milanese da un certo mondo di sinistra viene letto attraverso spesse lenti ideologiche E così, come fa notare Daniele Capezzone su Twitter, dopo la tentata strage c' è chi «si aggrappa al piccolo Samir per spostare l' attenzione da ciò che il Times chiama giustamente terror attack. Il fatto che un bravissimo bimbo non volesse morire non cancella l' atto dell' autista». Il paradosso è che lo stesso mondo che ha fatto giustamente suonare l' allarme per la folle strage dell' attentatore di Christchurch in Nuova Zelanda mosso da ideologie suprematiste, ora rifiuta di interrogarsi su possibili motivazioni fondamentaliste o etniche, anche a fronte di una azione «premeditata» secondo il pm Greco e motivata dalla volontà di vendicare i «migranti morti in mare». La tesi veicolata è semplice: chiedere il rispetto delle frontiere, della legalità e della sovranità nazionale equivale non solo a procurare le morti in mare, ma anche a fare da detonatore per episodi di questo tipo. Il tutto battendo sull' italianità del protagonista della tentata strage. Gad Lerner, ad esempio, sostiene che «la follia criminale del cittadino italiano Ousseynou Sy è l' esito di una contrapposizione isterica che manifesta ostilità agli immigrati additandoli come privilegiati, negando le loro sofferenze e la loro umanità. Impersonata dai carabinieri e dai bambini di San Donato Milanese». In mattinata, invece, l' ex ministro Pd, Livia Turco ad Agorà con la sua uscita provoca una reazione a catena sui social. «Quando ha visto le immagini di quel sequestro - chiede la giornalista Serena Bortone - di quel tentativo di strage cosa ha pensato?». La risposta della Turco? «Sono fatti che creano angoscia e allarme, ma che vanno compresi». «Come compresi?», la interrompe incredula la conduttrice. «Compresi nel senso di comprenderne la ragione». Un' uscita che provoca la pronta reazione di Matteo Salvini: «Il senegalese? Va compreso. Incredibili questi del Pd, anche di fronte a una tentata strage di cinquanta bambini non riescono mai a dire una cosa giusta». E anche Federico Mollicone, deputato di Fratelli d' Italia, sottolinea che «si tratta di un folle, ma le sue ossessioni sono state amplificate dal clima di odio generato dalla sinistra e dai cattivi maestri». Così come il consigliere di amministrazione della Rai Giampaolo Rossi fa notare che «dalle Br come compagni che sbagliano» si è passati a «Ousseynou Sy è l' esito dell' ostilità agli immigrati». Il cerchio si chiude con la provocazione di Luca Bottura, giornalista, scrittore, conduttore radiofonico e autore televisivo italiano. «Un senegalese con cittadinanza italiana è un italiano. E il titolo di questa notizia è: Autista squilibrato crea code sulla Paullese. Non altro. E il nostro ministro dell' Interno è razzista».
Tra silenzi e attacchi a Salvini. La sinistra "sbanda" sul bus. Da Lerner a Zingaretti fino a Rossi: un coro di accuse contro il ministro per l'attacco alla scolaresca. E la Boldrini tace, scrive Angelo Scarano, Giovedì 21/03/2019 su Il Giornale. Un bus in fiamme, a bordo 51 ragazzini. Alla guida un uomo che urla: "Adesso vendico i morti in mare". Parole molto chiare che di fatto riconducono quanto accaduto a San Donato Milanese sotto la parola "attacco", accompagnata dall'aggravante di terrorismo contestato dalla stessa procura al senegalese Ouesseynou Sy. Ma a quanto pare non bastano nemmeno le parole del procuratore Greco a convincere la sinistra che siamo davanti ad un vero e proprio attentatore. La preoccupazione più grande della sinistra è quella di spostare il focus del rogo su Salvini. Il colpevole di quanto accaduto non è certo l'autista 47enne, no, per la sinistra è Salvini. Basta dare un'occhiata alle parole di Nicola Zingaretti. Il segretario del Pd di fatto ha puntato il dito proprio contro il ministro degli Interni: "Salvini cavalca i problemi ma non li risolve. Anzi, visto che ci campa sui problemi degli italiani, ho il sospetto che non li risolverà mai, come sta accadendo dopo la tragedia di ieri. Si vuole nascondere un fatto drammatico, ovvero che in Italia è tornata una forma di terrorismo dopo moltissimi anni. Pretendo sicurezza per i cittadini e che invece di passare le giornate sui palchi a fare comizi per il proprio partito ci sia un’attenzione massima per il prossimo. Chiedo al Ministro degli Interni di fare una cosa rivoluzionaria, di occuparsi della sicurezza degli italiani". A questo coro anti-Salvini non poteva che unirsi anche Gad Lerner che con un tweet al veleno ha attaccato senza usare giri di parole il minsitro degli Interni: "La follia criminale del cittadino italiano Ousseynou Sy – si legge su Twitter – è l’esito di una contrapposizione isterica che manifesta ostilità agli immigrati additandoli come privilegiati, negando le loro sofferenze e la loro umanità". Parole dure che di fatto segnalano un totale sbandamento da parte della sinistra che adesso deve fare i conti con un attentatore frutto delle politiche dell'accoglienza e delle porte aperte. E le bordate contro il Viminale arrivano anche da Livia Turco come sottolinea lo stesos Salvini: 'Il senegalese? Va compreso'. Incredibili questi del Pd, anche di fronte a una tentata strage di cinquanta bambini non riescono mai a dire una cosa giusta". Poi l'affondo dal governatore della Toscana Enrico Rossi: "L’odio richiama l’odio – ha scritto su Facebook – e il terrorismo richiama il terrorismo, la riduzione dell’uomo a mero strumento genera mostri. Per tutti c’è motivo di riflessione. La politica non deve usare le parole dell’odio e della discriminazione se non vuole alimentare la spirale di violenza e fare arretrare la sicurezza di tutti i cittadini. La parola convivenza, confronto, rispetto reciproco devono tornare al centro della politica e della vita sociale e civile". E in questa fiume di accuse su Salvini, arriva anche il giornalista di Repubblica, Luca Bottura. Commentando quanto accaduto lo stesso Bottura ha scritto su Twitter (condividendo la news dell'attacco) con queste poche righe: "Un senegalese con cittadinanza italiana è un italiano. E il titolo di questa notizia è. 'Autista squilibrato cra code sulla Paullese'. Non altro. E il nostro ministro dell'interno è razzista". A questi commenti che cercano di addossare le colpe di quanto accaduto ai porti chiusi di Salvini e non alle porte aperte della sinistra vanno aggiunti anche i silenzi di Laura Boldrini e di tanti esponenti della sinistra che in questa occasione, davanti all'evidenza di un attacco frutto della "generosa" accoglienza di questi ultimi anni, hanno preferito la strada del silenzio.
Ecco l'ultima moda dei buonisti. Selfie e giubbotto dei migranti. L'ultima moda dei buonisti? Indossare il giubbotto di salvataggio che spesso viene usato in mare quando vengono salvati dei migranti, scrive Angelo Scarano, Giovedì 21/03/2019 su Il Giornale. L'ultima moda dei buonisti? Indossare il giubbotto di salvataggio che spesso viene usato in mare quando vengono salvati dei migranti. Una "moda" social subito sposata da diversi esponenti del mondo buonista di casa nostra. Sindaci, giornalisti e attivisti delle ong. L'intento di "Orange Vest Movement" è uno solo: "Evitare la criminalizzazione delle Ong". E già nella presentazioni gli obiettivi sono molto chiari: "Siamo Orange Vest Movement, e ci impegniamo a combattere con tutte le nostre forze chiunque consideri un atto di solidarietà un crimine umano. Siamo un movimento salva gente, partorito da una comunità internazionale che crede che ogni persona meriti di essere salvata. Indossare l’Orange Vest significa non restare indifferenti alle migliaia di morti nel Mediterraneo Centrale. Abbiamo bisogno di te affinché sempre più gente lo indossi e sempre meno gente venga lasciata morire in mare, in questa assurda campagna di criminalizzazione delle Ong". Tra i "testimonial" di questa nuova iniziativa pro-migranti ci sono alcuni cronisti come ad esempio Abbate e Ruotolo. Lirio Abbate postando la foto sui social ha affermato: "Indosso Orange Vest perché davanti alle tragedie in mare non si può restare fermi e in silenzio. Occorre lanciarsi e scuotere tutto ciò che ci circonda per salvare bambini donne e uomini che tendono la mano in cerca di aiuto. Lo facciamo perché siamo umani... Indossatelo anche voi". Ma il capofila è certamente il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando: "Indosso Orange Vest per restare umani. Questo lo splendido, semplice invito rivolto a tutti noi da Vittorio Arrigoni e fatto proprio da migliaia di uomini e donne che di fronte alla violenza e all'indifferenza hanno scelto di essere e restare umani. E questi giubbotti che salvano vite, salvano anche noi, la nostra umanità, la nostra possibilità di restare umani". E Orange Vest Moviment sostiene proprio l'Ong Mediterranea Saving Humans che recentemente, ignorando gli ordini della Guardia di Finanza, ha portato 49 migranti a Lampedusa.
Gualtiero Bassetti, lo sclero del capo dei vescovi: "Benvenuti gli immigrati, respingiamo i sovranisti", scrive Pietro Senaldi il 21 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. Il vescovo fa le pentole ma non i coperchi. Nel giorno in cui il presidente della Conferenza Episcopale, Gualtiero Bassetti, se ne esce con un' intervista sulla Stampa per dire che accogliere i migranti significa accogliere Gesù Cristo, un senegalese al quale abbiamo concesso il passaporto italiano e al quale abbiamo affidato i nostri figli appicca il fuoco allo scuolabus che guida con l' intento di fare una strage di giovani cristiani. L' Erode di importazione ha dichiarato che voleva incenerire la nostra stirpe per fermare le morti nel Mediterraneo, e chissà se Bassetti commenterà «porgiamo l' altra guancia». La Procura non l' ha interrogato subito, usandogli la gentilezza di aspettare che lo curassero dalle ustioni che si era procurato nel tentativo di sterminarci. Quando è stato meglio, davanti ai pm ha tentato di passare per un martire. È un furbacchione che si è integrato nel brodo di coltura sinistrorso. Per un miracolo non è diventato il peggior attentatore della storia italiana e ora, per ottenere il perdono, o quantomeno uno sconticino, soffia sul vento dell' anti-sovranismo e issa la bandiera dell' anti-razzismo. Fiducioso che qualcuno prima o poi dirà che in fondo il rogo di bambini sarebbe stato colpa del governo. E qui veniamo allo sclero del prelato, che benedice i migranti e respinge i sovranisti. Ai primi applica il principio cattolico dell' accoglienza, ai secondi nega quello della comprensione. Sarà perché deve rivolgersi a dei semplici lettori, ma l' omelia di Bassetti vola basso. Concetti degni di un pulpito parrocchiale, non di un sinedrio. Sciorina una dottrina da predica domenicale, sfuggendo la complessità della materia, affronta il problema per postulati, non lo cala nelle difficoltà della pratica quotidiana. Non è un peccato, ma allora stona la pretesa di fare un discorso politico ed essere ascoltato dal Palazzo. La coincidenza temporale tra il pistolotto di Bassetti e la mancata strage degli innocenti in nome dell' accoglienza non è questione di sfortuna. Testimonia la distanza tra la propaganda migratoria della Chiesa e la realtà. Per amore degli ultimi, talvolta gli alti vertici sembrano disprezzare, o quantomeno trascurare i penultimi, ovverosia quelli che sostengono i populisti, ma così fanno più male che bene. Non mi addentro nella polemica pastorale, che non è di mia competenza, ma in quella politica sì. Senza nominarlo, il presidente della Cei accusa Salvini di «alimentare in modo irresponsabile la paura, fino a generare rigurgiti xenofobi». Ma è vero il contrario. La paura dello straniero è esplosa quando al governo c' era la sinistra, che predicava l' accoglienza indiscriminata, mostrava di non aver alcuna capacità di gestire l' ondata migratoria, si batteva per lo ius soli e sosteneva che gli immigrati sono solo risorse, quindi in definitiva sono più bravi di noi. Da quando c' è il nuovo governo, la gente si sente più sicura, condivide la politica migratoria del Paese e gli episodi xenofobi sono diminuiti. Bassetti rimprovera ai sovranisti di «accarezzare il popolo con gli slogan senza fornire risposte concrete». Però non si propone neppure di offrire ricette per risolvere le difficoltà dell' integrazione e non accenna «all' accoglienza prudente» auspicata da Papa Francesco. Cita il Vangelo, afferma che «odiare l' immigrato è immorale per un cattolico», e fin qui siamo d' accordo, ma non sa neppure lui come quadrare il cerchio. Se un miliardo di africani vuole sbarcare, l' Europa se ne frega e l' Italia non ha i soldi neppure per far vivere dignitosamente tutti i propri cittadini, come si fa ad accogliere chicchessia? Mistero della fede, è la risposta implicita dell' eminenza ecclesiastica, che non considera che l' italiano vive anche di pane. Silenzio anche sul ruolo pratico della Chiesa, sul suo aiuto per gestire il fenomeno in Italia e sulle sue attività in Africa, magari per creare condizioni di vita sostenibile che non spingano le persone a emigrare. In compenso, il prelato lancia un piccolo manifesto politico: il governo dovrebbe stare più vicino alle giovani coppie, curare di più la scuola e promuovere un' organizzazione del lavoro che combaci con le esigenze della famiglia. Siamo d'accordo, eminenza, si ricordi di scriverlo nella sua lettera a Gesù Bambino il prossimo Natale. Nel frattempo ci conceda un'ultima polemica: se quando su un qualsiasi muro del Paese appare una scritta razzista gli antisovranisti incriminano Salvini, possiamo noi prendercela con i medesimi se un pazzo immigrato minaccia una strage sostenendo che così vuole vendicare i morti in mare? Perché il folle imputa i naufragi al ministro dell' Interno se da che c'è lui le vittime sono diminuite? Chi ha messo in giro le balle che hanno alimentato l' odio del senegalese?
Annalisa Chirico e la bastonata a Roberto Saviano: "Superato il segno, inaccettabile", scrive Libero Quotidiano il 21 Marzo 2019. Quando la lezione a Roberto Saviano arriva da una insospettabile, in questo caso Annalisa Chirico. Si parla degli ultimi insulti rivolti da mister Gomorra a Matteo Salvini in seguito alla vicenda della ong Mare Jonio. Saviano si è rivolto a Salvini chiamandolo "buffone" e quindi con l'ormai tristemente noto "ministro della Mala Vita". Parole che innescano la reazione della Chirico, la quale dice la su su Twitter: "Si può legittimamente ritenere che Matteo Salvini sia un Truce, un pessimo politico, istigatore di odio, razzista, omofobo etc etc. Ma quando Roberto Saviano lo definisce ‘Ministro della Mala Vita’ supera il segno: significa avere zero rispetto per le istituzioni. Inaccettabile". Poco da aggiungere.
Nicola Porro, la vergogna della sinistra sull'autobus in fiamme: "Cosa non hanno il coraggio di ammettere", scrive il 21 Marzo 2019 Libero Quotidiano. L'impresa criminale di Ousseynou Sy secondo i magistrati di Milano ha una chiara matrice terroristica, nonostante certo il conducente di origine senegalese non avesse apparenti legami con le più rinomate organizzazioni terroristiche di stampo islamista. Quella del senegalese di Crema "poteva essere una strage", come sottolinea Nicola Porro nel suo "Zuppa di Porro", perché nell'incendio appiccato dall'autista sullo scuolabus potevano morire 51 bambini. Il senegalese ormai nutriva un crescente odio per gli italiani, colpevoli di aver votato per Salvini e Di Maio, cioè i due che secondo Sy hanno condannato a morte i migranti del mar Mediterraneo. Nonostante tutto, da sinistra i buonisti in coro "evitano di parlare di terrorismo. Repubblica inizia il suo commento citando il caso del suprematista. Come a dire: 'Pari e patta'".
· L’invasione indotta e programmata dalle organizzazioni sovranazionali.
Assurda campagna Onu: "Frequentate i migranti così non voterete i populisti". L'Onu si dice convinta che per frenare l'avanzata dei populisti si debba estendere la propria rete sociale ai migranti. La ricetta antisovranista che arriva da New York, scrive Giuseppe Aloisi, Domenica 24/03/2019 su Il giornale. Un tempo si diceva che le ideologie totalitarie potevano essere combattute viaggiando. Come se l'esperienza personale rappresentasse un vaccino naturale. L'Onu, pochi giorni fa, ha deciso di alzare il tiro sul fenomeno politico più dirompente di questa fase storica, quello spesso accostato, a torto o a ragione, alle tragedie novecentesche: il sovranismo populista. L'istituzione sovranazionale per eccellenza, che non ha certo trovato i favori di Donald Trump e degli altri leader sovranisti occidentali, ha sostenuto, tramite l'Alto commissario per i diritti umani Michelle Bachelet, che una delle modalità utili a combattere l'avanzata elettorale dei populisti è quella d'incrementare le frequentazioni sociali tra i cittadini deputati a recarsi alle urne e coloro che migrano all'interno dei nostri territori. Ci sarebbe, insomma, una correlazione tra il tasso di multiculturalismo presente in una determinata zona del mondo e la possibilità di porre un freno politico al populismo sovranista. A raccontare questa storia è stato pure il quotidiano La Verità. L'occasione buona per rilanciare quella che ha tutte le sembianze di una vera e propria campagna tematica è arrivata con la Giornata internazionale per l'eliminazione della discriminazione razziale. A sollevare il dibattito, anzitutto, è l'equiparazione che alcuni membri delle Nazioni Unite hanno operato: il populismo sovranista porta in dote episodi di discriminazione razziale. La strage suprematista avvenuta in Nuova Zelanda è l'esempio presentato da chi si dice certo di questa equazione. L'antimigrazionismo sarebbe una sorta di strumento ancillare del razzismo. Non si spiega altrimenti il punto di vista di alcuni relatori che hanno detto la loro durante la giornata tematica: Tenaday Achiume e Michal Balcerzak si sono entrambi distinti per argomentazioni di questo tenore. La dialettica è naturale: uno degli obiettivi della propaganda sovranista è proprio quello di scardinare le istituzioni come l'Onu. Sono le realtà come queste - sostengono i populisti - ad aver spogliato i popoli della loro sovranità territoriale e politica. E dall'altra parte hanno iniziato a ragionare sugli antidoti. Ecco allora che per Bachelet, sempre secondo quanto evidenziato dal quotidiano diretto da Belpietro, si può pensare di porre un argine, perché nel momento in cui i cittadini "hanno numerosi contatti con i migranti, il voto populista tende a essere molto più debole...". Se i totalitarismi si curavano viaggiando, insomma, i populismi si attenuano estendendo ai migranti la rete di relazioni sociali. Di questo, almeno, si dicono certi dalle parti di New York.
Boldrini al veleno: «L’immigrazione non è un problema». Sallusti e Belpietro la zittiscono, scrive mercoledì 27 marzo 2019 Alberto Consoli su Il Secolo d'Italia. L’immigrazione non è un problema, l’invasione non esiste, Salvini strumentalizza, viva lo Ius soli: si fa sentire la partecipazione di Laura Boldrini a di Dimartedì, il talk show condotto da Giovanni Floris, che si è avvalso della presenza dell’ex presidente della Camera, più che in altre occasioni apparsa in vena “negazionista” e ossessionata dal vicepremier dei suoi peggiori incubi, Salvini. Coadiuvata da Alessandra Moretti del Pd e contrastata nei suoi deliri dai direttori de La Verità e Il Giornale, Maurizio Belpietro e Alessandro Sallusti, oltre che I dall’editorialista Massimo Franco, sono volate legnate sui temi dell’ immigrazione, di Ius soli e dei diritti, che per la Boldrini sono quelli soprattutto dei gay, come poi sosterrà nel corso del programma, gettando veleno sul Congresso delle famiglie che si terrà a Verona.
Laura Boldrini: “Salvini vende fumo». Performance delirante. Parlando di immigrazione e della possibile concessione della cittadinanza a Ramy e Adam, i due eroi del bus di San Donato Milanese, Laura Boldrini sfodera il suo cavallo di battaglia: «In Italia l’immigrazione non è un problema». Risposta secca di Maurizio Belpietro: «L’unica a non essersi resa conto che è un problema è lei». Poi aggiunge: «L’immigrazione va gestita, chi non ha il permesso deve essere riportato nel suo paese ma nel rispetto dei diritti della persona». E qui l’affondo sul leader leghista: «Ma Salvini non ne ha mandata una indietro, ha soltanto venduto fumo».
«Salvini parla come un sovrano». A darle manforte è arrivata Alessandra Moretti in versione fattucchiera: spara la sua prima frase ad effetto. «La luna di miele di Matteo Salvini con gli italiani ha le ore contate», è il vaticinio dell’ ex parlamentare europea. Tema immigrazione chiuso con una Boldrini che acquista livore ogni minuto che passa: Salvini «fa un po’ ridere», dice, perché avrebbe accondisceso come un “sovrano” alla concessione della cittadinanza a Ramy. I numeri sull’immigrazione, il calo drastico degli sbarchi e quindi anche delle morti non sfiorano minimamente la visione della Boldrini.
«Boldrini, proprio tu». Si passa alla famiglia. Ancora peggio. «Scandaloso che a un tale Congresso vadano esponenti del governo», irrompe la Boldrini, visto che si mettono apertamente in discussione i diritti acquisiti da donne (aborto compreso) e gay. Ma non ha buon gioco, perché il duo formato da Sallusti e Belpietro la accusa di aver partecipato a numerose iniziative di parte quando ricopriva il ruolo di presidente teoricamente super partes della Camera. «Lei mi sta offendendo», risponde piccata Boldrini a Sallusti. Belpietro fuori di sé ricorda alla “smemorata” che il suo partito, Leu, è andato a “a braccetto con Hezbollah”, ha accolto il “terrorista Ocalan” e – alla faccia del rispetto delle donne- ha proposto una legge per legalizzare “l’utero in affitto”.
Giorgia Meloni, il documento segreto della Ue per farvi invadere dagli immigrati: l'ultimo sfregio all'Italia, scrive il 27 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Nonostante il governo italiano non abbia ancora aderito alle regole del Global compact sull'immigrazione volute dalle Nazioni unite, da Bruxelles hanno trovato il modo per costringere l'Italia a doverlo applicare. La trappola è stata svelata da Giorgia Meloni che ha reso noto un documento "segreto" della Commissione Ue "che spiega la strategia da adottare per rendere obbligatorio il Global compact for migration per tutti gli Stati a prescindere dalla loro volontà". Quella di Bruxelles, ancora una volta, è secondo la Meloni "una gravissima ingerenza sulla sovranità degli Stati nazionali che rende carta straccia la democrazia in Europa". Il Parlamento italiano si era già espresso sul Global compact, e sulla spinta del gruppo di Fratelli d'Italia aveva rigettato la proposta: "Così come hanno fatto altri Stati europei, ma gli euroburocrati non si rassegnano e tramano per favorire l'immigrazione di massa in Europa. Siamo alla follia: alle elezioni Europee - aggiunge la Meloni - manderemo a casa questi signori per proteggere i nostri confini e la nostra identità e la nostra sovranità".
Giorgia Meloni il 27 marzo 2019 sul suo profilo facebook. «CLAMOROSO! Ecco svelato il documento segreto della Commissione UE che spiega la strategia da adottare per rendere obbligatorio il Global Compact for Migration per tutti gli Stati a prescindere dalla loro volontà. Una gravissima ingerenza dei burocrati europei sulla sovranità degli Stati nazionali che rende carta straccia la democrazia in Europa. Grazie a FDI il Parlamento italiano ha votato contro il Global Compact, così come hanno fatto tanti altri Stati europei, ma gli euroburocrati non si rassegnano e tramano per favorire l’immigrazione di massa in Europa. Siamo alla follia: alle elezioni europee del 26 maggio manderemo a casa questi signori per proteggere i nostri confini e la nostra identità e la nostra sovranità».
ESCLUSIVO. Global Compact: ecco il documento segreto UE che lo rende obbligatorio. Nel testo si legge: "Si deve concludere che il GCM ha valore legale ed è capace di influenzare il contenuto della legislazione adottata dalla UE", scrive Ulderico de Laurentiis il 27 Marzo 2019 su lavocedelpatriota.it. Siamo stati il primo sito di informazione in Italia ad anticipare l’esistenza di un documento segreto della Commissione Europea che parla di effetti vincolanti del Global Compact su tutti i paesi UE, anche quelli che non lo hanno sottoscritto, astenendosi o votando contro. Trovate l’articolo qui. Al momento solo Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia ha annunciato battaglia su questo tentativo di andare contro la volontà dei popoli europei. Lo ha annunciato qui. Oggi, in esclusiva, possiamo svelarvi l’intero contenuto del documento redatto in inglese con oggetto “The legal effects of the adoption of the Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration by the UN General Assembly“. Il documento in esclusiva. Grazie all’eurodeputata indipendente Janice Atkinson, che lo ha anticipato su TheRebel.media, disponiamo di una copia di questo documento che riteniamo di fondamentale interesse pubblico, pertanto la diffondiamo, a fine articolo, rendendolo disponibile in pdf. Sul Global Compact ci hanno mentito. La Atkinson ci ha detto che “i nostri politici hanno mentito quando hanno affermato che (il Global Compact n.d.r.) non sarebbe giuridicamente vincolante, questo documento prova che lo sarebbe. Ed è già sancito in alcune aree della legge dell’UE.” In inglese (Our politicians lied when they said it wouldn’t be legally binding, this document proves that it is. It is already enshrined in certain areas of EU law). Il contenuto del documento. Redatto in 53 paragrafi, dal burocrate di origini italiane, Lucio Gussetti, che è Director and Principal Legal Adviser for Foreign and Security Policy and External Relations European Commission, è sostanzialmente un parere legale che tende a dimostrare che il Global Compactfor Migration è vincolante per l’Unione Europea sulla base di principi contenuti nei trattati. Questo tipo di pareri, in inglese, “opinion” sono solitamente prodotti dal Servizio Giuridico della Commissione UE, non per autonoma iniziativa, ma su richiesta di qualcuno ai piani alti della Commissione. Pertanto, si evince una volontà politica che mira a far rientrare dalla porta sul retro il Patto Globale per le migrazioni, attraverso una “legislazione nascosta”.
La clausola di segretezza del documento. Il paragrafo 46: il Global Compact è legalmente vincolante. Sfogliando le pagine, dopo una lunga sequenza di premesse, citazioni giuridiche, richiami casistici e sentenze, nel documento della Commissione UE su legge: “Si deve concludere che il GCM ha valore legale ed è capace di influenzare il contenuto della legislazione adottata dalla UE“. La legislazione nascosta. Questa “opinion” del Servizio Giuridico UE è una preziosa testimonianza di come le elìte, attraverso una tecnica che potremmo chiamare “legislazione nascosta”, riescono a prendere un testo non giuridicamente vincolante, come quello sul Global Compact in questo caso, facendolo diventare riferimento per atti giuridici successivi che lo inglobano e rendono legalmente vincolante di fatto. Pareri legali, riferimenti a generici “diritti”, valori e principi, si accumulano facendo massa critica in misura tale da ottenere che presto o tardi i desiderata delle classi dominanti diventino legge, anche quando esplicitamente rigettati dai popoli “sovrani”. Una pratica subdola, anti democratica e letale per la sovranità popolare, dimostrata in questo carteggio. Infatti, nello stesso testo si spiega come adottando l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, si finisce per adottare anche lo stesso Global Compact che in essa è radicato. Il documento, infine, arriva a delle conclusioni che hanno dell’incredibile, sviluppate nei paragrafi dal 46 al 53. In buona sostanza si afferma che l’Unione Europea debba sentirsi vincolata al Global Compact, pur non essendo un membro ONU, dove siede con una delegazione che non ha i poteri di uno Stato membro. Si finisce poi con il sancire che i paesi UE debbano limitarsi a collaborare e uniformarsi ai principi del Global Compact, non essendo ammessa su di esso, una situazione “a macchia di leopardo”. Quindi, secondo i principi di lealtà e collaborazione, gli Stati dell’Unione Europea dovrebbero uniformarsi al volere della Merkel, allineati e coperti, per accogliere l’Africa in Europa, senza se e senza ma. Con buona pace, ancora una volta, della volontà popolare e della sovranità. Le elezioni europee del prossimo maggio si preannunciano sempre più come la madre di tutte le battaglie.
· Immigrazione. Salvini e l’accanimento giudiziario.
Matteo Salvini, i magistrati accusano: "Mette a rischio arresti e operazioni di polizia", guerra totale. Libero Quotidiano il 6 Giugno 2019. Matteo Salvini torna nel mirino della magistratura. Questa volta l'accusa rivolta al Viminale è di "mettere a rischio il buon esito delle operazioni" di polizia. Il ministro dell'Interno ha infatti diramato una nota, destinata alle agenzie di stampa, nella quale informava sull'arresto di undici stranieri nella zona di Varedo, in provincia di Milano: "Beccati undici pregiudicati stranieri, quasi tutti irregolari, per tentato omicidio, spaccio, detenzione e porto abusivo di armi. Scatenavano la guerra per il controllo della droga a Varedo, nel Milanese: nessuna pietà per i venditori di morte. Grazie ai Carabinieri! Pene esemplari ed espulsioni!". Alle parole di Salvini di questa mattina, giovedì 6 giugno, è seguita la risposta della procura di Monza: "In ordine ad un'operazione di polizia nella zona di Varedo a seguito della commissione dei reati di tentato omicidio, spaccio di sostanze stupefacenti, porto e detenzione di armi, preciso che l'operazione, coordinata dalla Procura di Monza, è ancora in corso. L'anticipata pubblicazione delle notizie espone a rischio il buon esisto dell'operazione stessa", ha ammonito il procuratore, Luisa Zanetti. Insomma, l'ennesimo scontro tra toghe e Salvini, dopo che per prima è stata l'Associazione Nazionale Magistrati a bacchettarlo per la reazione alla sentenza del Tar della Toscana. Al vicepremier leghista non è piaciuta la cancellazione delle zone "anti-balorde", da lui fortemente desiderate.
Matteo Salvini indagato ancora per Sea Watch 3: immigrati, si muovono tre procure. Libero Quotidiano il 6 Giugno 2019. Magistrati semplicemente scatenati contro Matteo Salvini e la Lega. Ogni giorno un'inchiesta. Ogni giorno un attacco. Ora assume aspetti giudiziari la vicenda della Sea Watch 3. In sostanza, sono sotto esame da parte di tre procure le procedure seguite dal Viminale in merito alle operazioni di soccorso e sbarco dei migranti alla deriva nel Mediterraneo. In primis ad indagare c'è la procura di Palermo, mentre altre inchieste sono in corso - per fatti precedenti - a Catania ed Agrigento. La notizia è stata data con grande evidenza dal sito di Avvenire. Sono stati già acquisiti dalla polizia giudiziaria gli atti del ministero dell’Interno e anche quelli del ministero delle Infrastrutture riguardanti il divieto di approdo della nave della Ong tedesca nei porti italiani, nave arrivata a Lampedusa dopo il soccorso di 65 persone salvate il 15 maggio scorso, quindi posta sotto sequestro da parte della procura di Agrigento e poi dissequestrata. A bordo c’erano anche dei minori, la cui tutela è affidata al Tribunale dei minorenni di Palermo, e questo spiega perché sia intervenuta la procura del capoluogo siciliano. Una particolarità: a rivelare l’esistenza dell’indagine è il Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto che, rispondendo alla richiesta di accesso agli atti depositata il 21 maggio dall’avvocato Alessandra Ballerini per conto dell’Associazione Diritti e frontiere (Adif), spiega - con una comunicazione dei propri uffici indirizzata per conoscenza sia al Viminale che al Mit - di non poter fornire la documentazione relativa al caso e neanche la copia delle comunicazioni interne alle autorità italiane perché "l’evento in parola è oggetto di indagine da parte della procura della Repubblica presso il tribunale di Palermo e, pertanto, sui relativi atti sussistono le limitazioni all’accesso". La richiesta dell’avvocato Ballerini riguardava "il contenuto dei provvedimenti emessi e delle comunicazioni (anche quelle con MRCC Roma, ndr) trasmesse, a far data dal 15 maggio scorso, da parte del ministero dell’Interno, ovvero, del ministero delle Infrastrutture", in riferimento al "divieto di approdo delle nave nei porti italiani". Come noto, la procura di Agrigento ordinò quindi lo sbarco dei migranti, indagando il comandante della Sea Watch 3 per il fatto che avesse disobbedito all’ordine di non avvicinarsi ai porti italiani, accertando poi che l’equipaggio non aveva commesso alcun reato e aveva agito nell’interesse delle vite umane.
Diciotti, Salvini pensa di farsi processare: "È una Repubblica giudiziaria". Il leader della Lega sta pensando di rinunciare all'immunità sul caso Diciotti: "È grave che un potere dello Stato intervenga su un altro potere dello Stato", scrive Bartolo Dall'Orto, Venerdì 25/01/2019, su "Il Giornale". Salvini ne è certo: "Giuristi mi dicono che l'iniziativa contro di me è infondata". La richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dal tribunale dei ministri di Catania ieri è esplosa come una bomba sulla politica italiana. Il capitolo "Diciotti" sembrava chiuso quando la procura etnea, guidata da Carmelo Zuccaro, aveva chiesto l'archiviazione del caso. Ma le tre toghe del tribunale speciale hanno deciso di mettere alla sbarra il ministro dell'Interno. La giunta per le autorizzazioni a procedere ha già ricevuto gli atti e la settimana prossima si riunirà per valutare i documenti e scrivere la relazione da spedire al Senato. Poi ci sarà il voto. I numeri sembrano blindare Matteo Salvini, anche se c'è l'incognita M5S. Lui, però, sembra essere pronto a farsi processare. Ad affermarlo è lo stesso ministro dell'Interno in una diretta Facebook: "Sono tentato di dire andiamo avanti. Processatemi - dice - Voglio vedere se si può processare un ministro perché fa quello che deve". Anche Marco Travaglio, ieri sera a Otto e Mezzo, ha confermato il desiderio del leader leghista di tirare dritto e trasformare l'azione dei magistrati in più voti alle europee. La tentazione è tanta. Certo, Salvini rischia dai 3 ai 15 anni di carcere per "sequestro aggravato di persona". Ma la strada per la condanna sarebbe ancora lunga e la valenza politica prepotente. "Non posso credere a quanti magistrati e avvocati mi abbiano messaggiato per dirmi di andare avanti - dice il leghista - che questa cosa non sta in piedi. Per questo sto riflettendo sull'atteggiamento dal tenere in Senato". E l'atteggiamento potrebbe essere quello di rinunciare all'immunità: "Questa non è una vicenda personale. Quindi sarei tentato di dire andiamo avanti, processatemi. Però è grave che un potere dello Stato intervenga su un altro potere dello Stato. Al Senato chiederò se siamo ormai in una Repubblica giudiziaria".
L’atto d’accusa del Tribunale dei Ministri: “Il ministro Salvini ha agito fuori dalla legge” nel caso Diciotti, scrive il 25 Gennaio 2019 "Il Corriere del Giorno". “L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme finalizzate al contrasto dell’immigrazione irregolare”. Secondo i giudici sono state violate dal ministro Salvini norme internazionali e nazionali. I giudici del Tribunale dei Ministri catanese sono stati molto chiari sul caso Diciotti: “E’ convincimento di questo tribunale che la condotta in esame abbia determinato plurime violazioni di norme internazionali e nazionali, connotandosi per ciò solo di quella indubbia illegittimità integrante il reato ipotizzato”. Contestato il sequestro di persona aggravato, previsto dall’articolo 605 del codice penale (“commi I, II n.2 e III”) in quanto “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme finalizzate al contrasto dell’immigrazione irregolare”. Il collegio del tribunale dei ministri presieduto da Nicola La Mantia, giudici a latere Sandra Levanti e Paolo Corda non usa mezzi termini: “Va sgomberato il campo da un possibile equivoco, va ribadito come questo tribunale intenda censurare non già un atto politico dell’Esecutivo, bensì lo strumentale ed illegittimo utilizzo di una potestà amministrativa”.
La procura di Catania ha chiesto l’autorizzazione a procedere contro il senatore Matteo Salvini alla giunta del Senato, che adesso dovrà decidere. Ecco l’atto d’accusa (pubblicato integralmente dal nostro giornale) in cinquanta pagine nei confronti del titolare del Viminale. Il Tribunale di Catania sostiene che “Il ministro ha agito al di fuori delle finalità proprie dell’esercizio del potere conferitogli dalle legge in quanto le scelte politiche o i mutevoli indirizzi impartiti a livello ministeriale non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti in un luogo sicuro (Safe of safety) obblighi derivanti da Convenzioni internazionali che costituiscono una precisa limitazione alla potestà legislativa dello Stato in base agli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione”. Il Tribunale di Catania aveva deliberato sin dallo scorso 7 dicembre e depositato il provvedimento il 22 gennaio. Successivamente, il fascicolo (numero 12551/18) è arrivato alla procura della repubblica catanese, guidata dal procuratore capo Carmelo Zuccaro, che applicando le procedura prevista dalla legge, lo ha trasmesso a Roma, per la richiesta di autorizzazione a procedere, pervenuta questa mattina alla Giunta per le autorizzazioni del Senato. Il provvedimento pervenuto al Senato ricorda anche che “la stessa Corte Costituzionale, in diverse circostanze, ha avuto modo di evidenziare che la discrezionalità nella gestione dei flussi migratori incontra chiari limiti, sotto il profilo della conformità alla Costituzione e del bilanciamento di interessi di rilievo costituzionale, nella ragionevolezza, nelle norme di trattati internazionali che vincolano gli Stati contraenti e, soprattutto, nel diritto inviolabile della libertà personale (articolo 13 della Costituzione), trattandosi di un bene che non può subire attenuazioni rispetto agli stranieri in vista della tutela di altri beni costituzionalmente tutelati“. “L’inviolabilità del diritto alla libertà personale è riconosciuta anche dall’articolo 5 della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali”. Per queste motivazionali “non è ravvisabile la scriminante ipotizzata – conclude il Tribunale di Catania – in quando la decisione del ministro ha costituito esplicita violazione delle Convenzioni internazionali in ordine alle modalità di accoglienza dei migranti soccorsi in mare, e al contempo, non sussistevano profili di ordine pubblico di interesse preminente e tali che giustificassero la protratta permanenza dei migranti a bordo della Diciotti”. Nel provvedimento, che di fatto analizza e ripercorre l’indagine avviata dal procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, il Tribunale tiene ben presente le “ragioni politiche che hanno indotto il ministro Salvini a non autorizzare lo sbarco dei migranti presenti sulla nave Diciotti fino al 25 agosto” considerato che, come si legge nel documento pervenuta ieri mattina al Senato “l’unica vera ragione che ha indotto il ministro dell’Interno a non autorizzare tempestivamente lo sbarco è da rinvenire nella sua decisione politica di attendere l’esito della riunione che si sarebbe tenuta in data 24 agosto a livello europeo per parlare del caso Diciotti”. Una “censura” arriva anche per le dichiarazioni fatte dal capo di gabinetto del ministro Salvini, Matteo Piantedosi, ai magistrati di Catania.
Salvini in una diretta Facebook ha commentato: “Ci riprovano. Rischio da 3 a 15 anni di carcere per aver bloccato gli sbarchi dei clandestini in Italia. Non ho parole. Paura? Zero. Continuo e continuerò a lavorare per difendere i confini del mio Paese e la sicurezza degli italiani. Io non mollo. Ora la parola passa al Senato e ai senatori che dovranno dire sì o no, libero o innocente, a processo o no. Sono sicuro del voto dei senatori della Lega. Vedremo come voteranno tutti gli altri senatori, se ci sarà una maggioranza in Senato. Ma lo dico fin da ora, io non cambio di un centimetro la mia posizione. Barche, barchette e barchini in Italia non sbarcano. Se sono stato sequestratore una volta ritenetemi sequestratore per i mesi a venire”.
Cosa farà (e dirà) adesso il Movimento 5 Stelle? Un noto penalista barese, sulla sua pagina Facebook ricorda un commento del vicepremier grillino Luigi Di Maio del 25 febbraio 2106 su Angelino Alfano, allora Ministro dell’Interno, era indagato per abuso d’ufficio, reato punito con pene che vanno fino a quattro anni. "Alfano indagato per abuso d'ufficio. Le nostre Forze dell'Ordine non possono avere il loro massimo vertice indagato. Si dimetta in 5 minuti." Adesso che Matteo Salvini, titolare dello stesso ministero, è indagato per sequestro di persona, reato punito fino a quindici anni di reclusione nell’ipotesi aggravata di cui all’art. 605, commi 2, lett. B e 3, c.p. . Come si comporteranno, cosa diranno, ma sopratutto come voteranno adesso i senatori grillini?
Luigi Di Maio irritato con Salvini, il retroscena: "Telefonate roventi", il M5s esplode sul caso Diciotti, scrive il 30 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Il "cambio di rotta" di Matteo Salvini non è tanto un imprevisto, quanto un terremoto per il Movimento 5 Stelle. La bomba Diciotti-migranti-giustizia rischia di far saltare in aria il governo ma ancora prima i grillini, che se voteranno no al rinvio a giudizio del leader leghista, come chiesto dallo stesso ministro degli Interni, si ritroveranno contro tutti i loro elettori o quasi. Il retroscena del Corriere della Sera riferisce di Luigi Di Maio "irritato" per l'atteggiamento di Salvini, che non l'avrebbe informato anzitempo della lettera inviata al Corriere stesso, e di una giornata di "telefonate roventi tra tutti i vertici (da Roberto Fico ad Alessandro Di Battista)", con aperture al no e brusca retromarcia di Dibba, a Porta a porta. Lo stesso premier Giuseppe Conte, assumendosi la responsabilità della gestione del caso Diciotti, e trasformando il processo a Salvini in processo al governo, ha cercato di levare d'impaccio i 5 Stelle. Ma il problema resta. E nella riunione con i senatori 5 Stelle che in Giunta dovranno dare il loro primo voto sul caso Diciotti, Di Maio ha chiarito che non si deve né mettere a rischio il governo né tradire gli elettori. La partita si giocherà, insomma, tutta su distinguo e cavilli.
Giustizia, vacilla il totem dei grillini, scrive Adalberto Signore, Mercoledì 30/01/2019, su Il Giornale. Infine vacilla pure l'ultimo totem, il pilastro portante del Movimento fin da quando nel 2007 iniziò a muovere i primi passi dalle piazze anticasta dei vari «Vaffa day». L'ultimo atto, forse, di una mutazione genetica che sta riscrivendo il dna dei Cinque stelle da quando da forza di opposizione dura e pura sono diventati senza troppi travagli partito di casta e di governo. Dopo il cambio di marcia sulla Tav, l'imbarazzato temporeggiare sul Tap, le dimenticanze sugli F35 o l'allargamento della legittima difesa, Luigi Di Maio arriva infatti a scardinare quello che per molti è il perno di un Movimento nato e cresciuto al grido di «o-ne-stà-o-ne-stà». Una narrazione il cui corollario necessario è sempre stato la fiducia incondizionata nella magistratura e il rifiuto di qualsiasi forma di immunità per parlamentari o ministri. Anzi, l'abolizione dell'immunità è stata per il M5s uno dei principali cavalli di battaglia. «Strumenti che non useremo mai», giurava Di Maio solo qualche anno fa attaccando Matteo Renzi e Maria Elena Boschi sul caso Etruria. Certo, già nel 2017 una prima eccezione il vicepremier se l'era concessa, tanto che fu proprio grazie all'immunità parlamentare che Di Maio vide archiviata dal gip di Roma una querela nei suoi confronti. Una vicenda che dava la misura di quella che sarebbe stata la coerenza degli anni a venire, ma che era comunque destinata a rimanere circoscritta e con un impatto mediatico decisamente basso. Niente a che vedere, insomma, con il cambio di marcia di queste ore sull'autorizzazione a procedere per Matteo Salvini. Perché se ancora non è scontato come voteranno in Giunta i grillini, non è cosa da poco che sia Di Maio che Alessandro Di Battista si spingano a dire che «processare Salvini non è giusto». Il vicepremier grillino, in verità, va ben oltre e - questo raccontano a Palazzo Chigi - sta lavorando alacremente con Giuseppe Conte per trovare una soluzione che, per dirla alla democristiana, tenga insieme le esigenze di tutti. Pur di salvare l'esecutivo e, soprattutto, pur di non fare i conti con l'incapacità del Movimento di gestire la complessità dell'azione di governo, Di Maio & C. sono infatti disposti a disconoscere quello che fino ad oggi è stato un baricentro incrollabile del M5s. E il punto non è tanto la capriola del ministro dell'Interno che, evidentemente consigliato da un buon avvocato, è passato dal «non mollo, mi processino pure» di questa estate a «il Senato neghi l'autorizzazione» perché «non devo essere processato». Certo, il cambio di passo del leader della Lega mette ancora di più all'angolo il M5s. Ma la questione, in verità, è tutta interna al Movimento che ancora non sa fare i conti con l'essere forza di governo, con tutti gli oneri oltre agli onori che ne derivano. Uno di questi è conciliare sulla vicenda dei porti chiusi una posizione «terzista», quasi da osservatore esterno, con la linea della fermezza della Lega. Già, perché l'imbarazzo di dover rinnegare un decennio di battaglie contro la casta che si faceva scudo dietro l'immunità va di pari passo con l'enorme problema politico di un partito che al governo lascia fare il ministro dell'Interno su un tema tanto discusso e delicato e poi lo scarica quando al Senato bisogna pronunciarsi sul via libera al processo. Perché comunque la si pensi sulla linea Salvini che la si condivida in toto o che la si consideri solo bassa propaganda a discapito di pochi disperati in mezzo al mare non vi è alcun dubbio che il passaggio parlamentare in Giunta per le autorizzazioni è un atto esclusivamente politico. Dal quale il M5s potrebbe chiamarsi fuori perché, parole di Di Battista, «per noi è complicato votare no all'autorizzazione». Certo, significherebbe abdicare al ruolo di partito di governo (peraltro di maggioranza relativa), confermando la percezione diffusa che il vero leader del governo è proprio Salvini, l'unico su cui finirebbe per ricadere la responsabilità giuridica e politica di un atto evidentemente condiviso da tutto il governo, a partire da Conte. Ma anche votando a favore del ministro dell'Interno che è la posizione su cui si sta ragionando, al netto delle consultazioni in corso in queste ore tra Di Maio, Roberto Fico, Di Battista e pure la Casaleggio Associati sarà impossibile uscire illesi dall'aver abdicato all'ultimo totem. Adalberto Signore
Porta a porta, Alessandro Di Battista fa cadere il governo: "Il M5s voterà sì al processo contro Salvini", scrive il 29 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Sì al processo a Matteo Salvini, no alla Tav. È Alessandro Di Battista, ospite di Bruno Vespa a Porta a porta, a svelare la vera anima del Movimento 5 Stelle e a inguaiare Luigi Di Maio, lanciando granate sulla già precaria stabilità del governo M5s-Lega. "Salvini non lo conosco adeguatamente, ci siamo visti due volte - spiega Dibba nel salotto di Raiuno -. Non provo antipatia verso di lui, ma l'Italia si sta trasformando in una Repubblica fondata su Salvini, non sul lavoro. Il sistema mediatico l'ha scelto Salvini, un giorno come statista, un giorno no". Quando Vespa scende nel dettaglio, chiedendo se i 5 Stelle voteranno a favore del rinvio a giudizio, la situazione si scalda: "Io credo proprio di sì, io ho semplicemente suggerito al premier Conte di fare un atto formale. Poi cercheremo una soluzione tutti insieme, mancano due settimane, si mettano intorno a un tavolo Salvini, Di Maio, Conte e Toninelli per trovare una soluzione che rafforzi il governo". Il punto è cruciale: in una lettera al Corriere della Sera, Salvini ha spiegato che se sul caso Diciotti i 5 Stelle voteranno sì alla richiesta di rinvio a giudizio del Tribunale dei ministri ne andrà della stabilità del governo. Per questo motivo Di Maio ha ritrattato la posizione grillina, favorevole al processo, annunciando il voto contrario per salvare l'esecutivo. Il problema è che molti grillini, Di Battista in testa, non vogliono abbandonare la loro indole manettara e la posizione di "correità" rivendicata dai ministri grillini sul caso Diciotti potrebbe non bastare. "Consiglio a Salvini di rinunciare all'immunità - chiosa Di Battista -, allo stesso tempo credo che politicamente il governo debba assumersi in maniera formale questa responsabilità". Ciliegina sul pasticcio-Dibba arrivano le frasi sulla Tav: "Quando sono tornato per portare avanti delle battaglie e mi sono riunito con Di Maio, non dico che ho posto delle condizioni ma ho detto che ritengo la questione No Tav prioritaria. Per me non esiste alcun progetto alternativo: io chiedo che il no alla Tav venga dato il prima possibile". Chissà cosa ne penserà Salvini.
Dissenso sì, persecuzione no, grazie. Combattere le scelte di Salvini è legittimo. Processarle è folle, scrive Piero Sansonetti il 25 gennaio 2019 su Il Dubbio. Personalmente trovo odiosa (o disumana, come mi pare di capire abbia detto Fabio Fazio) la scelta politica che fece Matteo Salvini nello scorso agosto di bloccare per una settimana i profughi eritrei a bordo della nave Diciotti. Cioè di impedirgli di scendere a terra. Quei profughi eritrei erano in mare da più di dieci giorni, avevano sofferto le pene dell’inferno, tra loro c’erano anche molti bambini piccoli: è chiaro che un ragionevole senso della solidarietà avrebbe indotto chiunque ad aprire loro le porte. Così, allo stesso modo, trovo odiosa (o disumana) la scelta di dare l’assalto al “Cara” di Castelnuovo di Porto. Ed i imporre il trasferimento (o la fuga, o l’espulsione) a più di 500 profughi che si erano integrati in paese, molti dei quali avevano trovato un lavoro, molti una scuola, uno faceva il sacrestano, uno il centravanti della squadra di calcio. Il problema è che queste scelte politiche di Matteo Salvini sono, appunto, scelte politiche. Come tali vanno giudicate ed eventualmente combattute. C’è una parte non piccola – anche se probabilmente minoritaria – del popolo italiano che è contrario a queste scelte. E però non ha trovato espressione politica sufficiente. Al porto di Catania, ad agosto, non si sono viste oceaniche manifestazioni delle opposizioni. E anche l’altro giorno, a Castelnuovo, il corteo silenzioso è stato abbastanza smilzo. I partiti dell’opposizione arrancano. A Castelnuovo si è fatta vedere solo la coraggiosa deputata Moroni. Il suo gesto spavaldo, ma isolato, non ha avuto – non poteva avere – grande effetto. Le scelte politiche – le migliori come le peggiori – sono scelte politiche, non reati. Trasformarle in reati, per combatterle, è una decisione che può essere originata dalle migliori intenzioni di impegno civile, ma che lede in modo evidente lo stato di diritto e la divisione dei poteri. Quei settori, larghi, della magistratura, che credono di non avere il compito semplice e chiaro di giudicare i reati – i reati ma quello di guidare la politica e imporgli dei canoni etici o di comportamento, sbagliano e fanno danni. Talvolta questi magistrati aiutano e surrogano la sinistra, talvolta (vedi il caso Lucano) aiutano la destra. Il danno che producono è identico (anche se è difficile considerare identici Mimmo Lucano, sindaco di Riace, e il ministro Salvini). Riassumiamo la vicenda della Diciotti. Il 16 agosto la nave Diciotti prende a bordo 177 naufraghi eritrei a largo di Lampedusa. Malta non li vuole. La Diciotti si dirige a Catania, arriva il 20 agosto. Salvini blocca il porto. Dice che il suo compito è difendere i confini e che non sbarca nessuno. Il caso diventa un caso internazionale. Un sostituto procuratore di Agrigento decide che il caso è suo perché il primo soccorso è avvenuto in acque agrigentine. E stabilisce che nella decisione politica del ministro ci sono alcuni reati. Quali? Roba pesante: sequestro di persona aggravato, abuso di ufficio, arresto illegale. Il massimo della pena sfiora i vent’anni. Non ci vuole una laurea o un master per capire che i reati attribuiti a Salvini sono paradossali. La mia opinione è che Salvini sia un reazionario e un ministro dell’Interno non buono. E che la sua giaculatoria sulla difesa dei confini (manco fossimo in guerra) sia paradossale. Specialmente mi pare paradossale quando l’attacco avviene da parte di 170 profughi disarmati e disidratati. Ma questo non vuol dire che Salvini sia un gangster. Non vuol dire che è un rapitore, come sostiene il Pm agrigentino Patronaggio. A me questa sembra una follia. Il procedimento giudiziario avviato da Agrigento si sposta al tribunale dei ministri di Catania. Il Procuratore di Catania Zuccaro (famoso anche lui per avere voluto assumere la direzione della politica sull’immigrazione, al tempo del centrosinistra, incriminato e mettendo in fuga le Ong: l’incriminazione poi è caduta ma intanto le Ong erano sparite e molta gente era morta in mare) stavolta assume la posizione corretta: non tocca alla magistratura – dice – compiere e giudicare le scelte politiche, altrimenti si stravolge la distinzione tra i poteri. Dunque Salvini non è incriminabile e Zuccaro chiede al tribunale dei ministri di archiviare. E’ una presa di posizione decisamente in contrasto con le precedenti prese di posizione di Zuccaro, ma sembra inattaccabile. E invece il tribunale dei ministri di Catania l’attacca. Anzi, la rovescia, e chiede al Parlamento l’autorizzazione a procedere. Vuole mandare a processo il ministro dell’Interno. Ora il Parlamento (per la precisione il Senato) ha l’occasione per ribadire il diritto della politica a fare politica e per avvertire la magistratura che non deve uscire dai confini delle proprie competenze (ecco: qui difendere i confini è giusto…). Lo farà? Molte volte in passato non lo ha fatto, anche sulla spinta dei grillini o del grillismo. Stavolta i grillini sono al governo, e una loro scelta an ti- politica potrebbe avere conseguenze gravi. Torneranno sui loro passi? La speranza è che il caso Salvini possa finalmente portare la politica ad uscire dal suo atteggiamento tradizionale di subordinazione alla magistratura o – peggio – di uso della magistratura. Se non fosse così, se davvero Salvini fosse processato per le sue scelte politiche, lo Stato di diritto ne uscirebbe a pezzi. Ferito, ferito in modo mortale.
La democrazia giudiziaria, Travaglio e l’assurdo “processo” a Salvini…, scrive Francesco Damato il 31 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Sentite questa perla di democrazia giudiziaria, come la chiamerebbe Angelo Panebianco, se ve la siete persa in diretta godendovi, si fa per dire, la puntata del salotto televisivo di Lilli Gruber dedicata l’altra sera al processo in cantiere contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini per l’affare Diciotti. Che è il nome del pattugliatore della Guardia Costiera italiana dove nella scorsa estate, per quanto ancorata nel porto di Catania, per ordine del Viminale rimasero bloccati un bel po’ di migranti, doverosamente soccorsi in mare ma in attesa di essere presi in carico, diciamo così, da più paesi disposti, in ambito europeo, ad accoglierli su sollecitazione del governo italiano. La vicenda si concluse con la partecipazione della Chiesa alla distribuzione degli aspiranti profughi, ma era destinata a sviluppi giudiziari, l’ultimo dei quali è costituto dalla richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania al Senato, nonostante l’archiviazione proposta dalla Procura, di autorizzare il processo a Salvini per sequestro aggravato di persone e abuso d’ufficio. Di fronte alla possibilità riconosciuta dall’articolo 96 della Costituzione, e da una legge costituzionale di attuazione, che il Senato a maggioranza assoluta neghi l’autorizzazione ravvisando nell’azione del ministro Salvini il perseguimento di un superiore interesse pubblico, prevalente anche sulla contestazione di reati da parte dal tribunale dei ministri, Marco Travaglio ha sostenuto che in tal caso l’Italia subirebbe – sentite, sentite – un danno gravissimo di delegittimazione internazionale. In particolare, pur riconoscendo il carattere ‘ singolare’ di un processo da cui Salvini avrebbe ragione a reclamare di essere assolto – e ciò sia per la natura chiaramente ministeriale e non personale o corruttivo dei reati contestatigli, specie dopo la corresponsabilità proclamata, anzi rivendicata dall’intero governo, ora anche con una dichiarazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte – il direttore del Fatto Quotidiano ha sostenuto che il Senato debba rinunciare al diritto riconosciutogli dalla Costituzione di impedire la prosecuzione dell’azione penale. Solo un’assoluzione di Salvini con sentenza giudiziaria, e con i tre gradi previsti ancora dal nostro sistema, dimostrerebbe al mondo intero, e persino agli scafisti, che potrebbero trarne finalmente le conseguenze desistendo dai loro odiosi traffici umani, o destinando altrove le loro vittime, la legittimità della linea della fermezza adottata sugli sbarchi dal governo gialloverde. Complementare a questo ragionamento di Travaglio – non meno curioso del processo in cantiere contro Salvini – è il fastidio da lui espresso visivamente e verbalmente, collegato con lo studio televisivo dal suo ufficio di redazione, per le aperture implicite o esplicite ad un voto del Senato contro la richiesta della magistratura ravvisate, a torto o a ragione, nelle dichiarazioni persino di un grillino barricadiero come Alessandro Di Battista sulla responsabilità collettiva del governo nell’affare Diciotti. Come una trentina d’anni fa contro l’immunità parlamentare, disciplinata dall’articolo 68 della Costituzione e picconata sin quasi alla demolizione per facilitare e accelerare la fine giudiziaria, prima ancora che politica, della cosiddetta prima Repubblica, che già di suo – bisogna riconoscerlo non se la passava molto bene, così ora è cominciata un’operazione oggettivamente politico- giudiziaria contro l’immunità governativa disciplinata dal 1989 dall’articolo 96, sempre della Costituzione. Che fu modificato quell’anno rispetto al testo originario per far passare i reati ministeriali dalla originaria e straordinaria competenza della Corte Costituzionale a quella della magistratura ordinaria. Questa volta è in gioco, sull’altare del ‘ cambiamento’, che è la parola d’ordine dei grillini non meno gridata di quella “dell’onestà”, la sorte della pur incipiente terza Repubblica. Della seconda non parliamo neppure perché forse non ci siamo neppure accorti di viverla, tanto poco è durata, e tanto confusa è stata. Ormai si cerca di marciare a tappe forzate verso un passaggio di sistema davvero, in cui la democrazia non è vera se non è giudiziaria, per tornare a Panebianco. Che forse è troppo generoso a parlare ancora di democrazia, e non di Repubblica giudiziaria e basta. Nel nuovo sistema, che francamente non so neppure se destinato a rivelarsi compatibile con la democrazia diretta o digitale perseguita dagli stessi grillini, con o senza il corollario della riforma dell’istituto referendario già all’esame della Camera, il giudice non è più la voce ma la fonte stessa, e unica, del diritto. A dare man forte alla visione di Travaglio della politica e dei suoi rapporti ancellari con la magistratura, a dispetto della lettera e dello spirito della Costituzione, è stata nello studio tele visivo de La 7 Irene Tinagli, angosciata dall’idea che i grillini possano perdere chissà quanti altri voti ancora in caso di soccorso a Salvini per sottrarsi al processo. O per rispettare, direi invece, le competenze e prerogative assegnate dalla Costituzione al Parlamento in caso di reati così ampiamente riconosciuti, peraltro, come ministeriali, non dettati da interessi, affari e quant’altro di carattere personale dell’imputato, parlamentare o non che sia. Eppure, della Tinagli è appena stato pubblicato un libro sulla, anzi contro ‘ la grande ignoranza’ che è il titolo del volume – incombente da tempo su quanti maneggiano il nostro Paese. Beh, con l’idea che ha mostrato di avere dei rapporti fra politica e magistratura, preoccupandosi più delle sorti elettorali di un partito che del rispetto degli equilibri garantiti dalla Costituzione fra i poteri, spero che la signora tratti meglio la sua materia. Che è l’economia.
Così la giustizia annega spinta a fondo dal giustizialismo, scrive Piero Sansonetti il 31 gennaio 2019 su "Il Dubbio". La denuncia viene da un magistrato. Anzi dal Presidente di un tribunale. Non un piccolo tribunale, quello di Torino. E la denuncia è clamorosa. Abbiamo pubblicato ieri uno stralcio ampio del discorso pronunciato dal dottor Massimo Terzi all’apertura dell’anno giudiziario. Pochi commenti e molte cifre: la conclusione è che la giustizia italiana è una giustizia spazzatura, che non funziona, che è ingolfata e non certo per colpa delle prescrizioni ma per il modo nel quale lavorano i magistrati. L’uso del termine spazzatura non è una mia faziosa forzatura: il dottor Terzi ha paragonato la nostra giustizia ai “titoli spazzatura” in borsa, cioè ai titoli a valore zero. Vediamo prima le cifre essenziali presentate dal Presidente del Tribunale di Torino: 150 mila persone ogni anno vengono assolte in primo grado dopo almeno 4 anni tra indagini preliminari e processo. 150 mila è una cifra spaventosa, rappresenta il 50 per cento delle persone contro le quali è stato avviato un procedimento giudiziario. A questi si devono aggiungere coloro che vanno in prescrizione prima della conclusione del processo di primo grado, che sono altre decine di migliaia, e quelli che saranno poi assolti in secondo grado o in Cassazione. Diciamo – con approssimazione generosa che i tre quarti di coloro che vengono mandati a giudizio e tenuti sulla graticola per quattro o sette o quindici anni, sono innocenti. E che molte migliaia di loro sono passati per il carcere preventivo o per i domiciliari. E che la conseguenza di questa mole spaventosa di processi avviati dai Pm è che ci sono quasi 600.000 processi pendenti, e che il numero è in aumento, e che si può già calcolare che se non cambia qualcosa entro 15 anni supereranno il milione. Tutto questo non è il contenuto della denuncia di un avvocato troppo polemico ma di un magistrato mite, che di queste cose se ne intende perché per professione si occupa esattamente di questo: organizzare la giustizia nella quinta più grande città italiana. Quali sono le cause di questo gran pasticcio? E’ sempre il dottor Terzi a spiegarcele: i pubblici ministeri esercitano l’azione penale con grande leggerezza, mentre – a giudizio di Terzi – dovrebbero esercitarla solo in presenza di fonti di prova certe. Le cause di questa abitudine sono da una parte l’obbligatorietà dell’azione penale (che da tempo è diventato un tabù per un settore ampio e soprattutto molto rumoroso della magistratura) e dall’altra, evidentemente, una insufficienza nella professionalità dei magistrati. Terzi dice che questo è il problema principale. Il numero abnorme di assoluzioni è dovuto all’abitudine di avviare le indagini e di chiedere comunque il rinvio a giudizio per una specie di automatismo burocratico: senza avere in mano nessuna prova di colpevolezza o nessuna speranza che questa prova possa formarsi in giudizio. La denuncia di Terzi, peraltro, ha coinciso con un nuovo episodio di cronaca che ieri era su tutti i giornali: la furia dei parenti di una vittima che non hanno accettato una sentenza di una Corte d’appello che ha modificato una sentenza di condanna per omicidio volontario trasformandola in condanna per omicidio colposo. Nelle ultime settimane è successo diverse volte che i parenti delle vittime (ma non solo loro, anche moltissimi giornali, molti politici, persino qualche ministro) hanno identificato una sentenza di assoluzione, o una riduzione di una condanna (come in questo caso), con il sommo della giustizia negata. Tra il discorso di Terzi e queste forme di rabbia popolare giustizialista c’è un contrasto molto evidente. Terzi non dice che l’assoluzione è una sconfitta della giustizia (l’assoluzione, in genere, è invece la massima espressione di giustizia) dice più semplicemente che una percentuale così grande di assoluzioni dimostra che c’è qualcosa che non va nelle indagini e nel processo. E questo qualcosa non è certo un eccesso di garantismo. Al contrario: è un eccesso di giustizialismo. La convinzione che la società sia fondamentalmente costituita da delinquenti e che dunque la massima espressione della modernità sia processare più gente possibile (diciamo: il davighismo) è la ragione fondamentale del cattivo funzionamento della giustizia. C’è da sperare che il governo, che ha promesso di riformare il processo entro un anno, tenga conto di queste osservazioni di un magistrato. Che sono molto, molto difficili da smontare.
L'istinto naturale che tiene unite Lega e Forza Italia. La vera solidarietà Salvini la trova nel centrodestra. E i sondaggi lo premiano: in 24 ore più 1,8% per la Lega, scrive Augusto Minzolini, Giovedì 31/01/2019, su "Il Giornale". Che lo dica un leghista colpisce, non fosse altro perché tutti ricordano quell'immagine della prima Repubblica del deputato del Carroccio, Orsenigo, che agita il cappio. Ma i tempi cambiano e ieri il capogruppo dei deputati, Riccardo Molinari, ha rinfacciato a quattr'occhi a Graziano Delrio, capogruppo del Pd, lo scarso garantismo dimostrato sulla richiesta del tribunale dei ministri di procedere contro Matteo Salvini. «Renzi - ha poi spiegato - ha perso una buona occasione per stare zitto: il Pd fa il garantista solo quando gli pare, neppure di fronte a una decisione squisitamente amministrativa come quella sulla Diciotti si sono fermati! I grillini? Lasciamo perdere, quelli non sanno neppure quello che fanno». Al Senato si lascia andare a un discorso simile, cosa di per sé sorprendente, anche un avversario della Lega come Pier Ferdinando Casini. «Il Pd è stato vergognoso - spiega - non lo seguirò sull'autorizzazione a procedere contro Salvini. I 5stelle, invece, da sacerdoti del giustizialismo in questo caso si mangeranno un'abbondante porzione di merda. E si faranno male». E lo stesso «menù» indigesto per Giggino Di Maio e compagni, lo prevede il senatore del Carroccio Paolo Arrigoni: «Ma come fanno a votare contro Matteo? Vogliono la crisi, le elezioni? I grillini si sono messi in un cul de sac. Bastava che avessero capito per tempo che quella di Salvini sui migranti della Dicciotti, fu una scelta politica. E, invece, si sono fatti prendere dal raptus, dalla scorciatoria del processo e ora debbono tornare indietro». O per ignoranza, o per un raptus, o per quel richiamo della foresta che per grillini e Pd è l'idea che bisogna assecondare sempre e comunque i magistrati, sta di fatto che i primi ora debbono fare capriole e salti mortali per tentare una conversione a U, per passare da un «sì» all'autorizzazione al processo del vicepremier leghista, ad un «no»; i secondi, invece, debbono fare i conti con una crescita dei consensi della Lega. E già, perché il «giustizialismo» poi nelle urne non paga. Ne sa qualcosa il Cav che sulla figura del martire ha costruito le proprie fortune in politica. Tant'è che la maga dei sondaggi, Alessandra Ghisleri, dopo le polemiche sull'autorizzazione al processo di Salvini e quelle per i 47 immigrati bloccati sulla Sea Watch, in 24 ore ha registrato un aumento dei consensi per il Carroccio - che pure nelle ultime settimane era in fase discendente - dell'1,8% (ora lo valuta al 33,7%). I grillini invece sono precipitati al 24% (perdendo più di un punto), il Pd è sceso al 16%, mentre Forza Italia, pur perdendo qualche decimale, è rimasta sul 10%. «Se continueranno a fargli questi piaceri - commenta con il tono del tecnico la Ghisleri - alle europee porteranno Salvini al 40%, ripeterà l'exploit di Renzi». Purtroppo, però, non c'è nulla da fare: la sinistra ha nel suo Dna questo richiamo della foresta, questa subordinazione politico-culturale verso la magistratura di parte. E nei grillini questo automatismo è ancora più spiccato. Il gene è lo stesso: pensano sempre di combattere, o contenere, il proprio avversario «politico» per via giudiziaria. Due giorni fa, in una pausa della trasmissione Porta a porta, a un amico che gli chiedeva cosa avrebbe fatto il movimento sulla vicenda Salvini, Di Battista, il Che grillino, aveva profetizzato: «Non possiamo che votare a favore dell'autorizzazione». Beccandosi una risposta piccata dal suo interlocutore: «Te e Di Maio finirete appesi come salami». Del resto dal «Dibba» non è che puoi aspettarti altro quando il Suslov del movimento, Marco Travaglio, scrive sul Fatto: «Votare no per i grillini sarebbe un suicidio politico, per l'abbraccio mortale con leghisti e forzisti a protezione di un ministro che non vuole farsi processare». Semmai il maître à penser a 5stelle propone ai ministri di autodenunciarsi tutti alla Procura di Catania. In questo modo, secondo lui, ci sarebbe un pronunciamento del Tribunale, che varrebbe per il passato ma anche per i prossimi barconi in arrivo: «Una sentenza della magistratura sarebbe molto più autorevole e auspicabile di una decisione del Senato». Sarebbe come ratificare la subordinazione del Parlamento al potere giudiziario: appunto, il richiamo della foresta. Una strada che il leghista Garavaglia liquida come «una scemenza». Il punto è che in questa occasione «il richiamo della foresta» ha messo il movimento nei guai. Per evitare la minaccia di crisi ed elezioni, il vertice grillino ora dovrà cercare di mutare posizione senza perdere la faccia. Per cui nell'ala «governativa» del movimento, tra i «dorotei a 5stelle», è un fiorire di ipotesi e teorie. Conte già si è assunto la responsabilità della vicenda Diciotti in una memoria che riporta le argomentazioni sul «caso» che fece nel discorso del 12 settembre scorso: ma il problema è che di fronte alla giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato c'è il vicepremier e non lui. O, ancora, c'è l'espediente di votare contro Salvini in Giunta per poi lasciare libertà di coscienza in aula, garantendo i voti al leader leghista. Ogni fantasia è buona per salvare il salvabile. Ma alla fine è molto probabile che, per evitare guai peggiori, i grillini dovranno bere l'amaro calice e votare contro l'autorizzazione. E pensare che anche Salvini, all'inizio della vicenda, era stato attratto dalla suggestione di «farsi processare», di andare davanti ai giudici con il petto in fuori. Poi qualcuno l'ha fatto ragionare, gli ha spiegato che con la magistratura è meglio non scherzare. «Quando l'avvocato - racconta Ignazio La Russa, che con i leghisti ha rapporti stretti - gli ha spiegato che in un processo poteva anche finire male, Matteo ha cambiato idea: Cribbio, fulmini e saette. Al costo di una crisi di governo bisogna evitare il processo». E non dev'essersi sbagliato se ieri in un tweet l'ex presidente del Senato, Pietro Grasso, già magistrato, commentava: «Salvini deve avere parlato con un buon avvocato. Da qui la differenza tra il leone d'agosto e l'agnello di stamattina». Se il cambio di programma ha messo in ambasce i grillini, il «richiamo della foresta» dei magistrati non aiuterà neppure la sinistra: l'operazione «giudiziaria» sulla vicenda Diciotti rischia di aumentare i consensi di Salvini, senza portarlo alla sbarra. E magari di nascondere una notizia ben più problematica per il governo che probabilmente l'Istat confermerà oggi: l'Italia è in recessione. Ma, si sa, è difficile emanciparsi dai vecchi vizi. La verità è che, alla fine, per affinità culturali o per avere fatto parte per tanti anni dello stesso schieramento, o, ancora, per vicinanza tra perseguitati, sul tema della giustizia la solidarietà, quella convinta, Salvini la trova nei vecchi alleati del centrodestra. Sandra Lonardo, senatrice di Forza Italia e consorte di Clemente Mastella, vittima di quell'inchiesta, da cui è stata assolta, che portò alla crisi del governo Prodi nel 2008, spiega: «Io voterò convintamente contro l'autorizzazione a procedere per Salvini, anche se su una vicenda dolorosa per me, i leghisti non fecero altrettanto. Quello che c'è di buono è che Salvini, con le sue minacce, sta imponendo il garantismo anche al giustizialismo 5stelle». Già, per amor di governo, anche i grillini sono disposti a cambiare pelle.
Matteo Renzi massacrato dal big leghista: "Diciotti, la sua vergogna sui giudici", scrive il 31 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Un garantista a targhe alterne. Si parla di Matteo Renzi, il fu leader del Pd, il quale ha spiegato che voterà a favore dell'autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini per il caso Diciotti, richiesta avanzata dal tribunale dei ministri di Catania e che sta creando non pochi grattacapi al governo gialloverde. Renzi, da par suo, ha spiegato di aver scelto dopo aver letto le carte e "senza alcun pregiudizio ideologico". Frase, quest'ultima, che strappa qualche sorriso. E che fa anche infuriare Riccardo Molinari, il capogruppo della Lega alla Camera. Delle sue parole dà conto Augusto Minzolini in un retroscena su Il Giornale, dove riporta ciò che Molinari avrebbe detto al piddino Graziano Delrio, incontrato alla Camera, al quale ha rinfacciato il falso garantismo dimostrato da Renzi (uno che, per inciso, si è sempre detto ultra garantista). "Renzi - ha spiegato Molinari - ha perso una buona occasione per stare zitto: il Pd fa il garantista solo quando gli pare, neppure di fronte a una decisione squisitamente amministrativa come quella sulla Diciotti si sono fermati! I grillini? Lasciamo perdere, quelli non sanno neppure quello che fanno". Tranchant.
Diciotti, Dagospia: la lettera di Matteo Salvini scritta da Giulia Bongiorno, il sospetto della ministra, scrive il 30 Gennaio 2019 Libero Quotidiano". Non ci sarebbe Carlo Nordio, ma Giulia Bongiorno dietro alla svolta di Matteo Salvini, svolta segnata dalla lettera al Corriere della Sera in cui il vicepremier della Lega afferma che non deve essere processato e che dunque l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti richiesta dal tribunale dei ministri di Catania non deve essere accolta. La bomba la sgancia Daospia, che ricorda come l'avvocato Bongiorno, "che ben conosce l'ambiente dei magistrati, sa che vogliono farla pagare" a Salvini. E ancora: "La sentenza sui 49 milioni della Lega, le indagini sui fondi all'estero, le piste sui rapporti con la Russia: i filoni sono tanti ma finora nessuno ha davvero attecchito". Ma in questo caso, secondo Dago, sarebbe diverso: "Se tre giudici chiedono l'imputazione coatta dopo che un pm (Zuccaro) ha chiesto l'archiviazione, vuol dire che hanno in mano qualcosa di giuridicamente solido", spiega l'articolo. E quel qualcosa di solido potrebbe stare nel fatto che la Diciotti era una nave della Guardia di Finanza, mentre la Sea Watch è una nave battente bandiera olandese si una Ong tedesca. Le argomentazioni giuridiche che in questi giorni Salvini usa contro l'Olanda potrebbero non reggere, dunque, nel caso della Diciotti. Insomma, la possibilità che Salvini rischi qualcosa in quel processo esistono. E se scattasse una condanna superiore ai cinque anni, come è noto, scatterebbe l'interdizione dai pubblici uffici. Inoltre, la legge Severino aggiungerebbe la sospensione dalla carica fino a 18 mesi, nonché l'ineleggibilità per chi ha condanne definitive superiori ai due anni. Queste le ragioni che, secondo Dagospia, avrebbero spinto la Bongiorno ad inserirsi nella vicenda e, soprattutto, a scrivere la lettera al Corriere della Sera, poi firmata da Salvini.
Sea Watch a Catania, la mossa di Matteo Salvini: cambiare procura per far processare la Ong, scrive il 31 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Come è noto, la Sea Watch dopo l'accordo con i sette Paesi europei per la redistribuzione dei migranti, è stata fatta salpare da Siracusa alla volta di Catania su indicazione del Viminale (lo sbarco previsto per le 9 di giovedì mattina). Questo l'ultimo atto dell'odissea che ha visto al centro i 47 immigrati salvati ormai 13 giorni fa al largo di Tripoli. La decisione di mandare la Ong a Catania ufficialmente è stata motivata per la presenza di centri per l'accoglienza dei minori, il che è tutt'altro che una menzogna. Ma il Corriere della Sera rivela come dietro a quest'ultimo atto ci sia di più, ovvero la possibilità di cambiare procura - da Siracusa a Catania - per l'inchiesta nei confronti della nave tedesca battente bandiera olandese. Una possibilità citata tra le righe proprio da Matteo Salvini, che nella serata di mercoledì ha commentato: "Rimane l'auspicio che l'autorità giudiziaria prenda in considerazione le ripetute irregolarità a carico della ong tedesca". Un assist a Carmelo Zuccaro, procuratore proprio di Catania, che da tre anni indaga sulle Ong e che potrebbe mettere nel mirino le attività di Sea Watch, per cui la complicazione si complica. E parecchio. In primis con il possibile sequestro della nave Ong appena terminate le operazioni di sbarco.
Salvini divide le toghe…Nave Diciotti, la magistratura si divide tra innocentisti e colpevolisti, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 30 gennaio 2019 su Il Dubbio. Separati in casa. Sulle politiche del Governo in tema di contrasto all’immigrazione clandestina, le correnti della magistratura che compongono la Giunta unitaria dell’Associazione nazionale magistrati hanno da tempo posizioni molto distanti fra loro. La “spaccatura”, in particolare, si è amplificata sulla linea dura del ministro dell’Interno nei confronti dell’Ong. Se Area, il cartello delle toghe progressiste, è assai critica nei confronti di Matteo Salvini, stigmatizzando aspramente la sua decisione di vietare lo sbarco dei migranti nei porti italiani, Magistratura indipendente, il gruppo moderato, ha da sempre invece un profilo distaccato, evitando ogni tipo di coinvolgimento nel dibattito politico. In mezzo, la corrente centrista Unicost che non ritiene opportuno una presa di posizione dell’Anm in pendenza di un procedimento penale aperto nei confronti del capo del Viminale. «Rivendichiamo il diritto di intervenire nelle scelte politiche del Governo che riguardano la tutela della libertà degli individui», dichiara Cristina Ornano, segretaria generale di Area. «Siamo magistrati, il nostro ruolo è quello di farci promotori del rispetto dei diritti delle persone. Da custodi della legalità, riteniamo giusto confrontarci sulle decisioni politiche in contrasto con il dettato costituzionale», prosegue Ornano, puntualizzando che la posizione di Area non vada però in alcun modo intesa come «una forma d’ingerenza nelle scelte delle Governo». E sulla mancata presa di posizione unitaria dell’Anm in tema di migranti, il giudizio è chiaro: «È un arretramento culturale. L’Associazione nazionale magistrati non deve occuparsi solo di temi squisitamente sindacali». Di diverso avviso, come detto, le toghe di Magistratura indipendente. «Credo che i magistrati quotidianamente impegnati nell’esercizio della giurisdizione non siano particolarmente interessati a questo genere di polemiche», puntualizza Edoardo Cilenti, già segretario nazionale dell’Anm per Magistratura indipendente. «C’è il rischio di alimentare uno scontro istituzionale. E non è affatto apprezzabile», prosegue Cilenti. «Siamo usciti da un ventennio di rapporti conflittuali fra toghe e politica e pensavamo di esserci lasciati definitivamente alle spalle quella stagione», continua la toga di Mi. «Vorrei infine fare una semplice riflessione: ad ogni decisione del ministro dell’Interno in tema di migranti segue un duro comunicato dei colleghi di Area. Prima per lo stop alla nave Diciotti, ora per quello alla Sea Watch. Penso così facendo si corra il concreto rischio di rendere il clima sempre più incandescente. E peraltro vi sono procedimenti pendenti e quindi vi è un dovere ancora maggiore di self restraint», spiega. «Siamo sensibili al tema della tutela dei diritti. Ci mancherebbe altro. Ma non dobbiamo scivolare nel campo della polemica politica», afferma Piero Indinnimeo, componente della Segreteria collegiale di Unicost. «In un fase molto delicata come questa, con il ministro dell’Interno oggetto di un procedimento penale, una presa di posizione dell’Anm rischierebbe di condizionare il corretto esercizio dell’attività giurisdizionale», aggiunge poi il magistrato di Unicost.
Quei giudici più pericolosi degli immigrati, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 30/01/2019, su "Il Giornale". C'è un pericolo maggiore dell'immigrazione fuori controllo. È quello della giustizia fuori controllo, male antico e purtroppo persistente. Prova ne è che ieri Magistratura democratica corrente di sinistra delle toghe italiane ha annunciato di aderire all'iniziativa «Noi non siamo pesci», l'ultima trovata, direi carnevalata, di politici e intellettuali di sinistra per contestare nelle piazze Matteo Salvini e le sue politiche su immigrazione e sicurezza. La cosa più inquietante è che i magistrati che stanno inquisendo il ministro dell'Interno per i fatti della Diciotti fanno parte proprio di quella corrente. L'adesione rappresenta quindi un pregiudizio politico inconciliabile con l'indipendenza, fattuale e ideologica, che un buon magistrato dovrebbe avere nei confronti dei fatti sui quali indaga o giudica. Magistratura democratica ha fatto suo uno dei motti attribuiti a Palmiro Togliatti, storico leader del Partito comunista e primo ministro della Giustizia della Repubblica: la giustizia sosteneva il Migliore si interpreta per gli amici e si applica ai nemici. Di questo, cioè di fare politica attraverso i codici. Gli aderenti a questa corrente non hanno mai fatto mistero. Anzi, lo hanno teorizzato pubblicamente e messo per scritto nelle relazioni conclusive dei loro congressi nelle quali hanno sostenuto la necessità di usare la giustizia per correggere in senso proletario e socialista le derive borghesi della politica e del potere legislativo. Parliamo delle famose «toghe rosse», che puntualmente scendono in campo quando a loro avviso la sinistra politica appare incapace di contrastare le destre. Per vent'anni e passa hanno fatto opposizione a Silvio Berlusconi buttandogli addosso accuse di ogni genere e grado ed eccoli ora, puntuali come un orologio svizzero, a occuparsi del caso Salvini. Tutto insomma, dentro e fuori le carte della procura (che oggi pubblichiamo), lascia pensare che si voglia celebrare per l'ennesima volta un processo politico che anche se non porterà da nessuna parte mina la tenuta del governo e la credibilità dell'Italia sul piano internazionale. Con buona pace dei grillini che su questi magistrati e sulle loro deliranti tesi hanno costruito buona parte della loro fortuna.
Ecco chi è il giudice del tribunale dei ministri che scarcera gli scafisti. Nel 2016 liberò due nordafricani: "Occasionali, non lo fanno di mestiere", scrive Francesco Cramer, Venerdì 25/01/2019, su "Il Giornale". I magistrati che si sono incaponiti contro il ministro dell'Interno Matteo Salvini e che ora ne chiedono l'arresto sono noti. Si tratta di Nicola La Mantia, giudice civile della quarta sezione fallimentare, Sandra Levanti, giudice civile e Paolo Corda, giudice penale della quinta sezione. Proprio quest'ultimo, Paolo Corda, era già finito sulle pagine dei giornali perché, nel dicembre di tre anni fa, aveva scarcerato due scafisti nordafricani. La motivazione? È vero che hanno traghettato illegalmente 230 migranti ma l'hanno fatto «occasionalmente». Ossia: non erano scafisti di professione. Ergo: via le manette dai polsi, scattate il 14 novembre anche in base ai racconti dei trasportati, e libertà quasi assoluta; niente carcere per i «taxisti» ma soltanto obbligo di firma due volte alla settimana presso la caserma dei carabinieri e relativo soggiorno al Cara di Mineo. Il giudice Corda, all'epoca dei fatti membro del Tribunale del riesame, ha accolto in pieno la tesi dei difensori degli scafisti secondo cui c'è una bella differenza tra chi «è al soldo di un'organizzazione dedita al traffico dei migranti e lo scafista occasionale e obbligato». Per la toga, poi, non sussistevano le esigenze cautelari perché i due nordafricani non avrebbero potuto reiterare il reato «una volta raggiunto lo scopo: entrare in Italia». Paolo Corda ha ridato la libertà agli scafisti e dato ragione a questi ultimi che hanno sostenuto di essere stati minacciati da un gruppo di non meglio identificati libici e indotti a vestire i panni dei cattivi. Insomma, non aguzzini ma vittime. Secondo la versione dei fatti offerta senza riscontro dai due indagati, poi, la presunta organizzazione libica li avrebbe da un lato minacciati con le armi ma dall'altro avrebbe loro riconosciuto pure un piccolo «sconto» sul costo del biglietto per l'Italia in cambio della disponibilità a guidare i gommoni verso il nostro Paese. Eppure gli uomini della Polizia di Stato Squadra Mobile Questura di Ragusa con l'aiuto di Guardia di finanza e carabinieri avevano sottoposto al fermo degli scafisti perché «le immediate indagini hanno permesso di raccogliere gravi indizi di colpevolezza a carico degli scafisti. I testimoni hanno riferito di aver notato gli scafisti una volta a bordo del gommone e che quest'ultimi avevano raggiunto accordi con i libici prima della partenza». E ancora, si legge nelle carte: «Nessuno dubbio per i migrati, che hanno pagato mediamente 600 dollari cadauno, sulle responsabilità degli scafisti che hanno condotto i gommoni. In un caso, gli scafisti individuati sono due in quanto uno si è occupato del timone e l'altro della bussola. Al termine delle indagini, tutti gli scafisti sono stati condotti in carcere a disposizione dell'autorità giudiziaria di Ragusa». Ma poi è arrivato il giudice Corda a toglier loro le manette dai polsi; lo stesso giudice che ora vorrebbe arrestare il ministro dell'Interno.
Diciotti, cosa non torna nelle carte dei giudici contro Matteo Salvini: la bomba di Filippo Facci l'1 Febbraio 2019 su Libero Quotidiano. Ecco il «caso Diciotti» for dummies, ossia per principianti, inesperti, inetti, negati e persino grillini che la ritenessero soltanto una questione politica. Non lo è. È anzitutto giudiziaria. Lo sappiano anche quei parlamentari che difficilmente avranno letto tutte le pagine della «Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio» nei confronti del senatore Matteo Salvini: richieste che peraltro, in genere, sono molto più corte e comunque non legge più nessuno da tempo. Salvini è stato accusato dalla procura di Agrigento, «nell' esercizio delle funzioni di ministro», di sequestro di persona a scopo di coazione, di omissione di atti d' ufficio e di arresto illegale. In precedenza l'omissione era stata rubricata come generico abuso d' ufficio. Salvini avrebbe commesso questi reati lo scorso 14-15 agosto, quando ordinò alla nave militare della Guardia Costiera «Diciotti» di bloccarsi nel porto di Catania senza far sbarcare le persone che erano partite dalla Libia per approdare in Italia. La nave rimase in porto per 5 giorni e Salvini non autorizzò lo sbarco.
DECISIONI CONTRARIE - Avendo agito da ministro, l'azione di Salvini è stata parte di un'attività istituzionale (non vi è dubbio su questo) ed è la ragione per cui ha seguito una procedura che è passata dal tribunale dei ministri e ora dovrà passare attraverso l'autorizzazione a procedere del Senato. È l'articolo 96 della Costituzione. Un troncone d' inchiesta minore (fatti avvenuti al largo di Lampedusa) è stato affidato alla procura di Palermo ed è già stato archiviato: il tribunale dei ministri del capoluogo ha sancito che nessun reato fu commesso dalla «Diciotti» (tantomeno da Salvini) perché la Guardia costiera si limitò a sbarcare 13 immigrati malati a Lampedusa, tanto che a Catania erano calati da 190 a 177. Per il rimanente troncone d' inchiesta, anche il tribunale dei ministri di Catania poteva archiviare tutto (decisione inappellabile) o appunto trasmettere gli atti alla Camera di appartenenza: ha fatto quest' ultima cosa il 24 gennaio scorso. L' aspetto interessante, però, è che a richiedere l'archiviazione era stata direttamente la Procura. Il 1° novembre, infatti, ha formulato la richiesta ritenendo che il mancato sbarco dei migranti fosse «giustificato dalla scelta politica, non sindacabile dal giudice penale per la separazione dei poteri, di chiedere in sede Europea la distribuzione dei migranti in un caso in cui, secondo la convenzione Sar internazionale, sarebbe spettato a Malta indicare un porto sicuro». Il Tribunale dei ministri di Catania se n' è fregato. Ha respinto la richiesta di archiviazione formulata dagli stessi pm che avevano aperto l'indagine. Le parole dei pm però sono risultate così cristalline che rappresentano a oggi la miglior difesa che Salvini può opporre: il procuratore distrettuale Carmelo Zuccaro ha definito «insindacabile» il comportamento di Salvini in quanto «promotore di un'iniziativa politica» per «risolvere il caos in ambito europeo». Se da un lato la Diciotti ha salvato vite umane «in aree di non pertinenza», infatti, giuridicamente l' accoglienza spettava a Malta (che si è rifiutata) e quindi il mancato sbarco in Italia, secondo il procuratore, non è corrisposto a un sequestro di persona ma un semplice «rinvio» alle sedi europee in un momento in cui «la gestione dei flussi migratori ha assunto dimensioni non gestibili nell'ambito di un solo paese». Insomma, accusa e difesa alla fine hanno detto la stessa cosa: al punto che Salvini, a un certo punto, non ha potuto non chiedersi perché il pm Luigi Patronaggio abbia mai cominciato a indagare, facendo - osserviamo noi - anche una sortita sulla nave con telecamere al seguito. Invece il giornalista Marco Travaglio, a proposito del pm Patronaggio, ieri si è chiesto come mai non abbia direttamente arrestato Salvini (vabbè, è un tic, è una malattia, si cura con le benzodiazepine) visto che il magistrato salì sulla «Diciotti» e poi se ne andò come se non stesse accadendo nulla di illecito, salvo poi contestare un sequestro di persona che poteva fermare in flagranza mettendo pure le manette al colpevole. Domande leziose. Altri giudici, frattanto rimasti in poltrona, hanno deciso che Salvini deve essere processato. In teoria rischia da 6 mesi a 8 anni solo per il sequestro di persona che possono arrivare a 10 se commesso da un pubblico ufficiale e a 12 anni se commesso in danno di un minore: e ci sarebbero tutte e due le aggravanti.
STRANA STORIA - La difesa, comunque, si divertirà a far valere anche argomentazioni tecniche. Per esempio: Salvini avrebbe ordinato di non far sbarcare i migranti per telefono: manca perciò un atto formale e documentale che ricostruisca l'iter della decisione ministeriale; difficile intravedere un'omissione d' ufficio laddove si muovono decisioni politiche alquanto discrezionali. Poi: ma il porto di Catania era stato individuato come porto di transito o come cosiddetto porto sicuro? Non è chiaro, mentre è chiaro che qualsiasi ministro dell'Interno può decidere che uno sbarco è incompatibile con l'ordine pubblico. Inoltre c' è la questione un po' comica dell'arresto illegale quando tecnicamente non è stato arrestato nessuno. La giunta per le autorizzazioni ne sta discutendo ufficialmente da ieri, poi spedirà una relazione al presidente del Senato che avrà due mesi per farla votare. La Giunta (23 persone) è presieduta da Maurizio Gasparri e si prospettano 9 voti contro l'autorizzazione (Lega, Forza Italia e Fratelli d' Italia) e 12 a favore (Leu, Pd e forse i grillini). Ci sono anche l'ex M5S Gregorio De Falco e Meinhard Durnwalder dell'Svp, che non si sa come voteranno. Ergo: anche in aula, se ci si arrivasse, contro l'autorizzazione voterebbero Lega, Forza Italia e Fratelli d' Italia che non avrebbero la maggioranza assoluta, quindi a decidere sarebbero i Cinque Stelle sulle cui intenzioni non si capisce niente. Tutto normale. Autorizzazione negata: i pm si occuperanno d' altro. Concessa: le indagini proseguiranno come per qualsiasi altro cittadino, anche se per i politici, in genere, i giudici corrono come lepri. Filippo Facci
Da Craxi a Cossiga, quando i politici rischiano la sbarra. La madre di tutte le autorizzazioni negate fu quella per Bettino...e fu la fine di Bettino, scrive Paolo Delgado l'8 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Ancora un paio di settimane poi la giunta per le immunità del Senato dovrà fare una scelta che si ripercuoterà inevitabilmente sugli equilibri e sulla tenuta stessa del governo. Di autorizzazioni a procedere ne sono state chieste tante nel corso dei decenni repubblicani, e almeno sino al 1993, quando l’autorizzazione fu abolita sull’onda di tangentopoli, sono state in larghissima parte respinte. Ma è capitato tutto sommato raramente che quei voti, di solito accompagnati da titoli strillati e tensione da fare invidia a Hitchcock in aula, sortissero poi effetti davvero deflagranti. Sugli equilibri politici o sugli umori popolari. Su quale sia stato il caso più rilevante nella storia della Repubblica nessuno può nutrire dubbi: fu il voto dell’aula della camera sull’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi. Era il 29 aprile 1993. Stava per nascere il governo Ciampi, incaricato di portare il paese a nuove elezioni, le prime con una nuova legge elettorale maggioritaria, come deciso dagli elettori con il referendum del 18 aprile, ma ancora da scriversi. Una parte sostanziosa del Psi, che non si riconosceva più nell’ex onnipotente Bettino e aveva per leader l’ex delfino Claudio Martelli ideò una strategia per evitare che nelle nuove elezioni i partiti della prima Repubblica fossero letteralmente cancellati e la propose al segretario del Pds, sino a due anni prima Pci, Achille Occhetto. Il progetto era ambizioso ma non impraticabile: nel governo sarebbero entrati, coperti da una mano sottile di vernice tecnica, ministri del Pd; l’esecutivo sarebbe rimasto in carica non pochi mesi ma un paio d’anni, per far decantare il clima di linciaggio contro i politici, varare con tutta calma una nuova legge elettorale e risolvere per via legislativa lo scandalo di tangentopoli. Il Pds fu d’accordo. La Lega però fiutò la manovra. Quando l’aula fu chiamata a votare, a scrutinio segreto, sull’autorizzazione a procedere contro il leader che del sistema delle tangenti era diventato il simbolo, primo di una lunga serie di leader demonizzati dall’opinione pubblica, i deputati del Psi anticraxiano votarono a favore dell’autorizzazione ma i leghisti, al coperto del voto segreto, votarono invece contro, poi accusarono i socialisti di aver salvato il manigoldo per eccellenza. L’aula esplode. Socialisti e leghisti si scazzottarono di brutto sotto gli occhi dei commessi ridotti per una volta all’impotenza. Il Pds ritirò i suoi ministri. Il governo Ciampi nacque fragilissimo e il progetto di tenerlo in piedi per anni, in modo da superare la tempesta, si tramutò seduta stante in un sogno proibito. La prima Repubblica finì davvero quella sera, a Montecitorio. Quasi altrettanto deflagrante la vicenda che coinvolse l’allora premier Francesco Cossiga nel luglio 1980. In febbraio il primo pentito delle Br, Patrizio Peci, disse di aver saputo dal militante di Prima linea Roberto Sandalo che Marco Donat- Cattin, figlio del vicesegretario della Dc Carlo, più volte ex ministro e leader della sinistra democristiana, era un militante di Pl. In maggio lo stesso Sandalo, anche lui pentito, raccontò di fronte alla commissione parlamentare inquirente, di essere stato convocato proprio da Donat Cattin padre che gli aveva chiesto di avvertire il figlio dei rischi di arresto che correva e di espatriare quindi subito in Francia. A informare il leader della Dc sulle deposizioni dei pentiti e a consigliare l’espatrio, secondo il pentito, era stato lo stesso presidente del consiglio, Cossiga. Il premier negò. Il Pci, guidato da suo cugino Enrico Berlinguer, non gli credette, chiese il deferimento di fronte alla Corte costituzionale. Le camere riunite votarono il 27 luglio, dopo un dibattito al calor bianco durato cinque giorni. Respinsero la richiesta ma la ferita non si ricucì. Due mesi dopo il governo Cossiga cadde abbattuto dai franchi tiratori. I rapporti politici tra Dc e Pci naufragarono definitivamente, a quelli personali tra i due cugini sardi non andò meglio. La strada per gli anni del craxismo e del Caf, gli anni del declino della prima Repubblica fu spianata allora. Appena meno terremotanti, nonostante le apparenze, le conseguenze del voto con cui il Senato decise, il 27 novembre 2013, la decadenza di Berlusconi da senatore dopo la condanna definitiva. Fi uscì per rappresaglia dalla maggioranza che sosteneva il governo Letta ma la scissione guidata da Angelino Alfano permise a Letta di restare in sella. Ma la situazione era ormai compromessa e quel voto fu il prologo necessario per la caduta di Letta, pochi mesi dopo, e per la sua sostituzione con Renzi. Un’incoronazione permessa proprio dall’alleanza, pur senza ritorno di Fi nella maggioranza, con Berlusconi. Forse il voto che alla resa dei conti ebbe meno conseguenze fu proprio quello che seguì lo scandalo più prolungato e rumoroso, il caso Lockheed, nella seconda metà dei ‘ 70. Accusati di aver accettato tangenti dall’azienda americana per facilitare l’acquisto da parte dell’Italia degli aerei militari Hercules C 130, gli ex ministri della Difesa Gui (Dc) e Tanassi (Psdi) furono rinviati a giudizio, dalle camere riunite in seduta comune, l’11 marzo del 1977, dopo una discussione durata 8 giorni, I parlamentari bocciarono invece la richiesta a carico dell’ex premier Rumor. Eppure i caso, che teneva banco da mesi e che avrebbe portato alle dimissioni (ingiuste) del capo dello Stato Giovanni Leone, non incise affatto sul quadro politico complessivo.
Papa Francesco, clamoroso incontro in Vaticano con i giudici: in Italia comanda lui? Scrive il 9 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Indipendenza esterna", per affermare "con forza" il carattere non politico della magistratura e tenere lontani "i favoritismi e le correnti, che inquinano scelte, relazioni e nomine", e "indipendenza interna", per essere liberi dalla ricerca di vantaggi personali e respingere ogni pressione, segnalazione o sollecitazione a influire sui tempi e sui modi della giustizia. Papa Francesco rivolge il suo appello alle toghe ricevendo in udienza l'Anm in occasione del prossimo anniversario dei 110 anni della fondazione dell'Associazione nazionale magistrati. Il pontefice è consapevole delle "mille difficoltà" del lavoro quotidiano, ostacolato dalla carenza di risorse per le strutture e l'assunzione di personale. E dalla complessità delle situazioni giuridiche. "Ogni giorno dovete fare i conti, da un lato, con la sovrabbondanza delle leggi, che può causare una sovrapposizione o un conflitto tra leggi diverse, antiche e recenti, nazionali e sovranazionali, e, dall'altro, con vuoti legislativi in alcune importanti questioni, tra le quali quelle relative all'inizio e alla fine della vita, al diritto familiare e alla complessa realtà degli immigrati".
Migranti, procura di Catania contro Riesame: "Censurabile il dissequestro dei conti per nave Aquarius". L'ufficio di Zuccaro ricorre in Cassazione: "L'agente marittimo delle Ong ha realizzato un ingiusto profitto con lo smaltimento illegale di rifiuti pericolosi", scrive il 10 febbraio 2019 Libero Quotidiano. "E' censurabile sotto vari profili" il provvedimento del tribunale del Riesame di Catania con il quale i giudici hanno annullato, nei giorni scorsi, il decreto del gip che disponeva il sequestro di 200mila euro da due conti correnti intestati a Francesco Gianino, l'agente marittimo indagato nell'ambito dell'inchiesta sulla nave Aquarius. Quattro mesi fa il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro aveva disposto il sequestro, mai eseguito perché la nave era già ferma a Marsiglia, della Aquarius, utilizzata da Medici senza frontiere e Sos Mediterranée per le missioni di soccorso nel Mediterraneo. Il procuratore accusava i rappresentanti delle organizzazioni non governative di traffico e smaltimento illecito di rifiuti. Ecco perché la procura ha deciso di ricorrere in Cassazione per chiedere l'annullamento del provvedimento. Secondo i pm catanesi "gli argomenti" adottati dal tribunale del Riesame sarebbero "contraddittori e non condivisibili". "Un primo dato incontestato e riconosciuto dal tribunale è che l'attività di smaltimento illegale si è perfezionata attraverso numerose operazioni, protrattesi nel tempo - scrivono i pm Andrea Bonomo e Alfio Fragalà, che hanno firmato il ricorso - Tale protratto e continuativo smaltimento illegale dei rifiuti pericolosi a rischio infettivo ha richiesto, secondo questo pm, la predisposizione di appositi mezzi e attività organizzate, al fine di conseguire un ingiusto profitto". Secondo i magistrati "appare decisivo il ruolo di Gianino, il quale, nella qualità di agente marittimo di Msf-Ocb e Msf-Oca, attraverso la costituzione di una rete di sub-agenzie marittime tutte collegate all'agenzia Msa di Augusta di proprietà del medesimo Gianino e operanti in svariati porti italiani nei quali le motonavi Vos Prudence e Aquarius effettuavano gli sbarchi dei migranti, concordava con i rappresentanti delle Ong di procedere allo smaltimento indifferenziato dei rifiuti pericolosi a rischio infettivo, sanitari e no, prodotti a bordo delle predette navi, conferendoli unitamente ai rifiuti solidi urbani a una tariffa molto più vantaggiosa, previa falsa classificazione degli stessi quali generici rifiuti speciali". Per la procura di Catania, "come pacificamente emerso dalle indagini e confermato anche dallo stesso tribunale del Riesame, Gianino, pur consapevole della presenza a bordo di rifiuti a rischio infettivo e della necessità di sottoporli a un trattamento differenziato, concordava con i rappresentanti delle Ong tariffe vantaggiose, pari a 8 euro per ciascun sacco di rifiuti solidi indifferenziati, la cui applicazione derivava proprio dalla fraudolenta e abusiva classificazione dei rifiuti sanitari e non a rischio infettivo sotto la generica etichetta di "rifiuti speciali", ciò che ne consentiva lo smaltimento unitamente agli altri rifiuti solidi prodotti a bordo delle navi". Applicando questo sistema di classificazione indebita e di conferimento indifferenziato dei rifiuti pericolosi a rischio infettivo, Gianino, secondo i magistrati "offriva alle Ong, gravate da stringenti esigenze di bilancio, tariffe competitive, tali da consentire alle stesse di realizzare consistenti risparmi di spesa, mentre il medesimo Gianino acquisiva una sorta di esclusiva di fatto nella gestione dei rapporti di agenzia marittima per conto di Msf-Ocb e Oca, nonché per conto di altre Ong (Save the Children, Open Arms), tanto da aumentare significativamente il proprio volume d'affari". Per i magistrati le considerazioni del tribunale sono, dunque, "errate e contraddittorie". Se "l'avvenuta illecita miscelazione dei rifiuti - argomentano i pm - comportava l'obbligo di smaltimento di tutti i rifiuti prodotti secondo le più stringenti e onerose regole dettate per i rifiuti sanitari pericolosi, ne consegue che l'illecito profitto è costituito dalla differenza tra il costo sostenuto per smaltire tutti i rifiuti come solidi urbani (perché così falsamente dichiarati) e quello che avrebbe dovuto essere sostenuto se fossero stati correttamente classificati come rifiuti sanitari pericolosi". Ecco perché la procura chiede alla Cassazione di annullare l'ordinanza di dissequestro.
Immigrati, Mario Sechi: "L'Italia ha dato 338 milioni di euro ai libici e non sappiamo cosa ne fanno", scrive il 22 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. "Il tema più delicato dal punto di vista istituzionale è il fatto che il governo italiano ha dato 338 milioni di euro ai libici e noi non sappiamo cosa ne fanno". Mario Sechi, ospite di Serena Bortone ad Agorà, su Raitre, entra in merito alla questione immigrazione: "Ho il tremendo sospetto ma anche la certezza che in Libia si compiano dei crimini". Ora, "io sono sicuro che il premier Giuseppe Conte non voglia che i soldi dei contribuenti italiani vengano usati per fare queste cose, direttamente o indirettamente". "Quando tu quindi dai soldi a un governo straniero, in questo caso a Tripoli, si impone un controllo e quindi bisogna fare un monitoraggio", continua Sechi. "Se tu finanzi questi governi che poi girano i soldi ai trafficanti, sei responsabile. Dopodiché è chiaro che c'è l'esigenza di difendere i confini e di non far passare un messaggio sbagliato".
Il caso. Migranti, la Guardia costiera libica è una grande fake news. Non esiste un vero centro di coordinamento soccorsi libico. Lo si scopre tra gli omissis della documentazione del progetto finanziato da Bruxelles per la "Sar zone" libica messo sotto segreto. Chi è allora a coordinare le azioni delle motovedette? Andrea Palladino il 27 settembre 2019 su L'Espresso. Seimila persone in appena otto mesi. Donne, bambini, uomini con i segni dei viaggi nel deserto e delle torture. Sono le persone fuggite dai centri di detenzione libiche e che a quell’inferno sono state restituite dalla Guardia costiera libica. «Salvati». dice Tripoli. «Contenuti», ha spiegato il primo ministro Giuseppe Conte. Riportati in un porto non sicuro per la loro incolumità, nei fatti. La Guardia costiera di Tripoli è una creatura tutta italiana. Le motovedette che hanno recuperato in mare i migranti naufraghi sono state donate da Roma, la formazione del personale avviene all’interno delle nostre basi navali. E, da più di un anno, il centro di coordinamento dei salvataggi Mrcc delle Capitanerie di porto affida tutte le operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale agli ufficiali di al-Sarraj. Dove prima operava Mare Nostrum, oggi agiscono le motovedette libiche. Un cambio di strategia avvenuto grazie ad un’azione finanziata nel 2017 dalla Commissione europea e affidata al comando generale delle Capitanerie di porto italiane. Per operare nella «ricerca e salvataggio» dei migranti, la Guardia costiera di Tripoli aveva bisogno di un riconoscimento internazionale, ovvero della dichiarazione di una propria zona Sar, le coordinate che delimitano l’area di competenza per il soccorso. Fino al giugno 2018 non esisteva e, dunque, il coordinamento dei salvataggi non poteva essere gestito da Tripoli. Il progetto europeo affidato all’Italia aveva l’obiettivo di far dichiarare ai libici la propria area «search and rescue». Era il passaggio necessario per quell’opera di «contenimento» citata da Giuseppe Conte: fermare i migranti nel golfo della Sirte, impedire i salvataggi da parte di navi europee, che avrebbero avuto l’obbligo di portare i naufraghi in un porto sicuro. Di certo non in Libia. La struttura della Guardia costiera di Tripoli appare, però, come una sorta di finzione. Mezzi e intelligence italiani («ringrazio i nostri apparati», ha detto Conte), supporto del nostro governo, con una linea di comando opaca. La documentazione del progetto finanziato da Bruxelles per la Sar zone libica è stata messa sotto segreto. Prima dall’Italia, che ha bollato come “classificato” il rapporto sulla capacità di effettuare salvataggi da parte dei libici. Poi dalla stessa Commissione europea, che ad una richiesta di accesso agli atti ha risposto con un dossier in buona parte coperto da omissis. Tra le righe oscurate appare però un dettaglio chiave: non è mai esistito un vero centro di coordinamento dei soccorsi libico. Una struttura fantasma. Nella lettera di conclusione del progetto del 16 aprile scorso, inviata dalla Commissione europea al comando generale delle Capitanerie di porto italiano, si parla appena di «futura installazione del centro libico di coordinamento dei salvataggi marittimi». Un centro che oggi non c’è. Chi coordina, dunque, sul campo le azioni delle motovedette? Chi è al comando delle azioni di «contenimento» dei migranti operate dagli ufficiali di al-Sarraj? È il segreto tenuto sotto chiave, tra Bruxelles e Roma.
Gli scafisti e la Guardia costiera? In Libia sono la stessa cosa. Dalle inchieste siciliane emerge che diversi ufficiali di Tripoli fanno il doppio gioco, facendosi pagare per portare i migranti nelle zone in cui ci sono navi che possono soccorrerli. Una rivelazione che getta oscure ombre sull'aiuto militare dell'Italia e della Ue, scrive Francesco Viviano l'1 febbraio 2019 su L'Espresso. Torturano i migranti nei campi di prigionia. Se questi pagano di nuovo, li fanno partire e li lasciano in mare vicino a qualche nave di passaggio. Poi cambiano vestito, indossano la divisa, e li vanno a riprendere con le navi della Guardia Costiera. E li riportano nei lager dove tutto ricomincia. Un’inchiesta dell’Espresso in edicola da domenica 3 febbraio e già online su E+ rivela che i boss del traffico di esseri umani e i comandanti della Guardia costiera che dovrebbero stroncarlo sono spesso le stesse persone. Addestrati, finanziati e forniti di imbarcazioni da Italia e Unione Europea. Il doppio gioco di alcuni responsabili della Guardia costiera libica è confermato da oltre duemila testimonianze di migranti che sono agli atti di numerose inchieste giudiziarie, anche italiane, come quelle delle Procure di Trapani e di Catania. E una conferma ulteriore è agli atti dell’inchiesta giudiziaria relativa al sequestro da parte della Procura di Trapani della nave Juventa della Ong tedesca Jugend Rettet, battente bandiera olandese. In particolare, riferendosi a un episodio avvenuto il 18 giugno 2017 si parla di «grave collusione tra singole unità della Guardia costiera libica e i trafficanti di esseri umani».
L’inchiesta della Procura di Catania (il processo si è concluso nell’estate scorsa) dimostra ancora il ruolo di alcuni ufficiali della Guardia costiera che facevano contemporaneamente i soccorritori ed i trafficanti. Si tratta degli ufficiali della Guardia costiera libica Tarok All e Bdelbafid Mohammad, arrestati dai militari della nave della Marina militare Italiana “Bergamini” e poi condannati in Italia per traffico di essere umani. Un gruppo di africani ha riferito che i due ufficiali libici li avevano caricati sui loro barchini sulla spiaggia di Zuara accompagnandoli fino a qualche miglio dalla nave italiana per fuggire subito dopo. Le procure di Trapani e Catania ormai hanno nomi, cognomi e tanti episodi scandalosi. Ma senza una collaborazione giudiziaria tra Italia e Libia resta difficile, nella maggior parte dei casi, incriminare i colpevoli.
Sea Eye è in "rotta di evasione". E Salvini fa pattugliare il mare. La nave Alan Kurdi della Ong Sea Eye è a 15 miglia dalle coste di Lampedusa. Il Viminale ha vietato lo sbarco dei 49 migranti a bordo, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 05/04/2019, su Il Giornale. Niente sbarco. Nessun cedimento. Sea Eye non può entrare nelle acque territoriali italiane o sarebbe considerata "non inoffensiva" e una "minaccia" all'ordine e "alla sicurezza dello Stato". Lo ha deciso il Viminale, che ieri sera ha diramato una direttiva per cooordinare i "controlli sulla frontiera marittima". Tradotto: il tratto di mare di fronte a Lampedusa viene pattugliato "dalle forze dell'ordine e della Difesa" per impedire che l'Ong forzi il blocco imposto dalla politica dei porti chiusi di Salvini. "Altre vite messe a rischio da una Ong straniera", ripete il ministro dell'Interno da due giorni, quando la nave umanitaria tedesca ha recuperato 64 immigrati al largo delle coste della Libia e ha subito puntato la prua in "direzione Italia". Una mossa che ha irritato e non poco gli esponenti del governo italiano per l'ennesima puntata di un lungo scontro tra istituzioni e Ong. Dopo lo sbarco di Mediterranea Saving Humans di poche settimane fa, Salvini aveva diramato una direttiva per "fermare le azioni illegali delle Ong". Il messaggio era chiaro, ma non sembra essere arrivato a destinazione. Sea Eye ha continuato a pattugliare le coste libiche (nonostante l'invito della Marina di Tripoli a non intromettersi) e due giorni fa ha recuperato 64 migranti. "Ora Italia e Malta assegnino loro un porto sicuro, chiedeva l'Ong dei centri sociali guidata da Luca Casarini. "Le autorità italiane - assicura però il Viminale - non hanno in alcun momento assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso che sono avvenute ben al di fuori della zona Sar di responsabilità italiana". Quindi Alan Kurdi resti al largo o trovi un'altra soluzione: non spetta a noi l'accoglienza. "Chiede un porto sicuro? Bene, vada ad Amburgo" è la linea di Salvini che ieri, durante il G7 a Parigi, ha chiesto al ministro di Berlino di assumersi la responsabilità sulla nave in quanto battente bandiera tedesca. Peccato che la Alan Kurdi abbia comunque fatto rotta verso Lampedusa, "forzando" il blocco imposto dal Viminale. Attualmente Sea Eye si trova a 15 miglia a Sud Est dell'isola, al di fuori delle acque territoriali italiane (12 miglia). "A bordo ci sono 64 persone salvate e 17 membri dell'equipaggio", spiega la Ong tedesca. Ieri sera, intorno alle 22, era "ancora in rotta di evasione" per trovare riparo dal maltempo. "C'è una neonata di undici mesi a bordo, raffiche di vento a 50 chilometri orari e onde alte due metri", lamentano gli operatori a bordo. Ma l'Italia per ora non cede. Il tratto di mare è pattugliato dalle navi italiane e la Alan Kurdi è costretta a fare su e giù (tecnicamente si chiama "pendolamento") in attesa "di una soluzione politica".
Migranti, l'ong Mediterranea adesso denuncia il governo. Esposto alla procura di Agrigento: il governo ha emanato ordini illegali. E l'ong lancia la sfida: "Torneremo in mare senza paura", scrive Angelo Scarano, Sabato 06/04/2019, su Il Giornale. Mediterranea Saving Humans lancia una sfida frontale al governo italiano: per mare, che la prossima settimana sarà solcato nuovamente dalla nave Mar Jonio, e per terra, dove un esposto è stato presentato alla procura di Agrigento per "gravissime violazioni di leggi nazionali e convenzioni internazionali nel caso del blocco navale operato contro la Alan Kurdi", che oggi ha dovuto lasciare Lampedusa alla volta di Malta. L'esposto, che allega corposa documentazione, è stato firmato questa mattina da Cecilia Strada, Filippo Miraglia (Arci), Francesca Chiavacci (Presidente nazionale Arci ), Sandro Mezzadra (docente università Bologna). Entrambe le mosse, hanno spiegato nel corso dell’Assemblea degli equipaggi che si tiene a Roma Luca Casarini, ultimo capo missione della Mar Jonio, e Alessandro Metz, armatore, partono dal presupposto che "la Libia non è un porto sicuro". La nave è adesso a Marsala, dopo il dissequestro del quale si è avuto notizia a fine marzo scorso. In questi giorni, spiegano dalla ong, è in corso il cambio degli equipaggi. A bordo non vi saranno Pietro Marrone, il pescatore-comandante nell'ultima missione, né lo stesso Casarini, poiché, spiega quest'ultimo, "da protocollo ogni missione deve avere un capo missione diverso dagli altri". Vi eravate preparati da tempo a procedere al cambio dei comandanti? "Da ottobre scorso, quando abbiamo messo in piedi l'operazione - ha risposto Casarini - abbiamo una lista di 140 persone, che, a vario titolo, hanno confermato la disponibilità a partecipare alle missioni. Questo è un indizio del disagio nella marineria civile per l'ordine di non salvare le persone in mare partito dal governo. Questo disagio - ha proseguito - è presente anche nella marineria militare, che in questi anni ha salvato 600.000 persone: la nostra Guardia Costiera è fatta, dunque e secondo le parole di Salvini, di trafficanti?. Il calendario della Guardia Costiera del 2019 non ha immagini di salvataggi, sapete? E oggi quel tratto di Mar Mediterraneo non è controllato da nessuno: è diventato pericoloso per tutti, anche per i nostri pescatori".
Migranti, ora Salvini sfida i pm: "Mi indagano? I porti restano chiusi". L'ong Mediterranea denuncia tutto il governo. Ma il vicepremier leghista non arretra: "Possono aprire enciclopedie a mio carico, io non cambio", scrive Sergio Rame, Sabato 06/04/2019, su Il Giornale. Quando gli fanno sapere che la procura di Agrigento potrebbe aprire un fascicolo, Matteo Salvini resta impassibile e difende il proprio operato. "Possono aprire delle enciclopedie a mio carico, ma io non cambio assolutamente atteggiamento", mette in chiaro. "I porti sono e rimangono chiusi e inibiti al traffico indesiderato". I numeri sul fronte sbarchi gli danno ragione. Rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, il Viminale ha infatti registrato una riduzione del 93% di arrivi dal mare. "E noi andremo avanti così", taglia corto il vicepremier leghista. In mattinata la nave "Alan Kurdi" della Sea Eye ha fatto rotta verso Malta dopo che le famiglie si sono rifiutate di separarsi per far sbarcare solo i bambini e le madri, come richiesto dalle autorità italiane. E, mentre la ong tedesca accusa il governo italiano di "non aver rispettato gli obblighi di protezione delle famiglie per strumentalizzazione politica", Salvini incassa il dietrofront dell'imbarcazione, che era arrivata a un passo da Lampedusa, come una "vittoria storica". "Volere è potere, prima gli italiani", commenta con soddisfazione il leader leghista che nei giorni scorsi ha emesso delle direttive che "inibiscono l'ingresso in acque territoriali a navi non gradite, potenzialmente pericolose per la nostra sicurezza nazionale" (leggi il documento). "Vuol dire che l'Italia difende i suoi confini - rincara in diretta Facebook - decidiamo noi chi entra e chi esce in casa nostra. Mi sembra che abbiamo il diritto di farlo". A impensierire Salvini ora è la situazione in Libia che si sta facendo sempre più incandescente. "La stiamo seguendo ora per ora perchè l'ultima cosa di cui c'è bisogno è una soluzione armata- spiega - è un conflitto che va risolto con il dialogo". Proprio ieri, a Parigi, il vicepremier leghista ha chiesto agli alleati del G7 di gettare acqua e non benzina sul fuoco. "Perché - continua - non vorrei che qualcuno per interessi economici o commerciali spingesse per una soluzione militare che sarebbe assolutamente controproducente". Sul fronte del possibile aumento degli sbarchi, il titolare del Viminale dice di non essere "preoccupato". "Mi sembra che ormai si sia capito, anche nel resto del mondo, che in Italia non si arriva".
Toscani: "Ora toglietemi la cittadinanza. Io voglio essere africano..." Matteo Salvini ancora una volta torna nel mirino di Toscani. Il fotografo insulta i leghisti e i membri del governo: "Sono dei cani", scrive Angelo Scarano, Venerdì 05/04/2019 su Il Giornale. Matteo Salvini ancora una volta torna nel mirino di Toscani. Ai microfoni de La Zanzara su Radio 24, il fotografo di fatto parla della morte del ministro degli Interni. Non gli augura la stessa fine di Benito Mussolini. E il motivo è presto detto: "Diventerebbe un eroe. Bisogna morire vecchi nel proprio letto attorniati dai nipotini. Anche Salvini coi suoi bambini, i suoi nipotini e tutti i cretini che l’hanno votato". A questo punto Toscani sposta il mirino e attacca l'intero governo e chi ha votato per Lega e Cinque Stelle: "Però mediamente erano più intelligenti della media del bar sport. Adesso abbiamo un governo che rispecchia esattamente i coglioni del bar sport. Non sono in grado di fare niente, niente, non ne fanno una giusta. Anzi, fanno tutto sbagliato". Poi Toscani lancia la provocazione e chiede di poter rinunciare alla cittadinanza italiana per diventare un immigrato: "Toglietemi subito la cittadinanza italiana. Datemi il passaporto del Togo, un passaporto africano. Accetto subito. Per favore, fatemi sto favore". E ancora: "L'unica cosa negativa per me a essere in Italia è che sono italiano, perché se fossi straniero, è il posto più bello del mondo, è il teatro di Ionesco. Ma oggi c’è Salvini e io sono anti Salvini". Infine punta il dito contro chi si è ribellato ai rom a Torre Maura. Toscani anche in questo caso "spara" sulla Lega e su chi vota per il Carroccio: "Meglio abitare accanto a un rom che a un leghista. Ma è logico, cazzo, parlo tutta la mia vita anche con i rom. E' molto più interessante. Con un leghista non puoi neanche discutere, con un rom puoi ascoltare anche delle belle storie di vita".
Migranti, Salvini contro il figlio di Tria: "Se fossi il padre, lo riporterei a casa per l'orecchio". Stefano Paolo Tria, che collabora con la ong Mediterranea. Il vicepremier leghista attacca Stefano Paolo, skipper con la Ong Mediterranea. Anche se poi frena: "Le colpe dei figli non devono ricadere sui padri", scrive il 4 aprile 2019 La Repubblica. È forse l'ultimo motivo per cui il ministro dell'Economia Giovanni Tria si trova in questo momento sotto pressione nel governo. Ma Matteo Salvini non gli risparmia una frecciata anche sul caso del figlio Stefano Paolo, 38 anni, skipper impegnato a salvare vite umane con una barca d'appoggio alla Mare Jonio, che il 18 marzo ha portata a Lampedusa 48 migranti. "Se le colpe dei padri non ricadono sui figli, le colpe dei figli non devono ricadere sui padri. Ognuno passa il tempo come vuole...se mio figlio andasse in giro per barconi lo riporterei a casa per l'orecchio, ma ognuno fa come vuole". "Che importa chi sono e di chi sono figlio? Importa quello che faccio", si è sfogato ieri quando la notizia è diventata pubblica Stefano Paolo Tria, conosciuto con il soprannome di Triglia anche per evitare clamori e imbarazzi. Per quella sua missione, prendere a bordo i migranti, così anomala in un governo in cui il vicepremier ha fatto dei "porti chiusi" la sua bandiera. Non a caso Salvini, che sta partecipando a Parigi al vertice sui ministri dell'Interno europei, ha lanciato un nuovo attacco alle Ong: "Le Ong presenti nel Mediterraneo aiutano i trafficanti di esseri umani. Gli ultimi casi mi sembrano evidenti".
Tensione per il mercantile dirottato dai migranti: è in acque maltesi, ad attenderlo le navi militari. Stato di allerta anche a Lampedusa dove la nave con 108 migranti a bordo potrebbe fare rotta. Ma Salvini li ha già avvisati: "Sono solo pirati, l'Italia la vedranno solo con il cannocchiale", scrive Alessandra Ziniti il 28 marzo 2019 su La Repubblica. E' ormai in acque maltesi il mercantile El Hiblu 1 che da ieri mattina è nelle mani dei migranti che, dopo essere stati soccorsi in zona Sar libica, hanno dirottato la petroliera quando si sono resi conto che stavano per essere riportati a Tripoli. Nel Mediterraneo, ormai privo di qualsiasi dispositivo di soccorso ma anche di sicurezza dopo il ritiro delle navi dell’operazione Sophia, sono ore di grande tensione per il nuovo braccio di ferro che ha connotazioni inedite e che potrebbe portare anche a un esito imprevedibile visto che Malta ha schierato le sue navi militari a difesa delle acque territoriali. Ore, peraltro, in cui i trafficanti hanno ripreso a mettere in mare un gommone dietro l’altro. Circa 120 i migranti riportati indietro questa mattina da una motovedetta libica mentre la nave umanitaria Alan Kurdi, della ong tedesca Sea eye (tornata in mare) dà notizia di tre gommoni intercettati dai libici, di un altro ritrovato da loro vuoto a venti miglia dalla costa e di un quinto gommone segnalato che non si trova. Il mercantile El Hiblu, battente bandiera della Repubblica di Palau nell’oceano pacifico, comandante turco ed equipaggio di soli sei uomini procede a una velocità di poco meno di dieci nodi l’ora. Nulla si sa di quanto sta avvenendo a bordo dopo l’allarme dato dal comandante che avrebbe comunicato di essere stato dirottato da pirati, così ha definito i 108 migranti presi a bordo, 77 uomini e 31 donne. L’ultimo tracciato lo colloca ormai molto vicino a Malta dove la Marina militare ha ordine di non farlo avvicinare. Per questo, nonostante sia ormai chiara la scelta di puntare verso Malta, resta alta la tensione a Lampedusa, l’avamposto italiano più vicino verso il quale l’imbarcazione potrebbe decidere di dirigersi se dovesse essere respinto da Malta. Il ministro Salvini li ha già avvertiti: “L’Italia la vedrete solo con il cannocchiale. Non azzardatevi ad avvicinarvi”. Ma gli interrogativi sono tanti, dalla necessità di garantire la sicurezza dell’equipaggio della nave alla competenza di giurisdizione sul reato di dirottamento compiuto in acque libiche su una nave territorio della Repubblica di Palau. Chi è autorizzato eventualmente ad intervenire e in quali acque? Una situazione senza precedenti.
108 migranti dirottano un mercantile per non tornare nei lager. Salvini: «Non sono più soccorsi, qua si tratta di pirati». E intanto la procura di Roma invia a Siracusa un fascicolo sui fatti del gennaio scorso, quando 47 profughi furono bloccati dal Viminale per 12 giorni a un passo dal porto. Ipotesi di reato: sequestro di persona, scrive Rocco Vazzana il 28 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Non siamo più ai soccorsi, è il primo atto di pirateria, di delinquenza in alto mare». Matteo Salvini non usa mezzi termini nel commentare le notizie che arrivano dal Mediterraneo, dove 108 migranti soccorsi da un mercantile in zona Sar libica avrebbero dirottato l’imbarcazione verso Malta. A sentire il Viminale, infatti, l’equipaggio della “Elhiblu 1” stava riportando a Tripoli i naufraghi appena fatti salire a bordo, quando il natante avrebbe effettuato «un cambio di rotta repentino» a 6 miglia dalla capitale libica. «Sappiano che le acque territoriali italiane le vedono con il cannocchiale, non sono naufraghi ma pirati», dice ancora Salvini, poco dopo l’incontro al Viminale con Rami e altri 4 ragazzi scampati all’attentatore di San Donato milanese. E se il segretario del Carroccio esclude ogni possibilità di attracco in Italia, La Valletta non vuole essere da meno. Le autorità maltesi hanno infatti chiarito che non consentiranno l’ingresso ai migranti, schierando unità navali militari al limite delle acque di competenza. A monitorare la situazione non c’è però solo il ministero dell’Interno italiano, anche Mediterranea Saving Humans, la Ong armatrice della nave Mare Jonio proprio ieri dissequestrata dalla procura di Agrigento. «Alla “Elhiblu 1” deve essere immediatamente assegnato un porto sicuro in un Paese europeo dove alle persone salvate siano garantiti i diritti umani fondamentali», fanno sapere dalla Ong. «Queste persone non possono né devono essere trattate come “pirati” o criminali, ma come richiedenti asilo in fuga dall’inferno dei campi di detenzione libici», sottolineano. L’argomento, però, non scalfisce le convinzioni di Matteo Salvini che da Facebook ribadisce: «Dico ai pirati: l’Italia scordatevela. Questa è la dimostrazione che non si tratta di un’operazione di soccorso ma di un traffico di esseri umani gestito in maniera criminale». Il ministro dell’Interno, dunque, prosegue sull’ormai consueta linea dei porti chiusi nonostante proprio ieri si sia aperto un nuovo fronte giudiziario potenzialmente pericoloso. Ancora una volta, infatti, il capo della Lega è finito sotto la lente d’ingrandimento della magistratura per un presunto sequestro di persona, del tutto simile a quello già esaminato dal Senato in merito al caso Diciotti: quello della Sea Watch. La vicenda risale al gennaio scorso, quando per 12 giorni la nave con 47 naufraghi a bordo fu bloccata davanti al porto di Siracusa, prima di avere l’ok allo sbarco a Catania. Per la Procura di Roma, che ha girato il fascicolo ai colleghi di Siracusa, che a loro volta lo hanno inoltrato a Catania, potrebbero esserci gli estremi per contestare il sequestro di persona. Non solo. In quell’occasione, persino il capo dei pm etnei, Carmelo Zuccaro, solitamente poco indulgente con le Ong, non aveva segnalato «nessun rilievo penale nei confronti dell’equipaggio». Anzi, «la situazione di “distress” giustificava il soccorso da parte di Sea Watch 3», scriveva Zuccaro, «dovuta, oltre che alla palese inidoneità tecnica del gommone ad affrontare la traversata, alla circostanza, confermata dai migranti escussi, circa il progressivo sgonfiamento dei tubolari del gommone, da cui tutti sentivano fuoriuscire dell’aria, sgonfiamento che avrebbe inesorabilmente portato all’affondamento del natante» . Salvini ostenta serenità e su Facebook ironizza: «È in arrivo un altro processo nei confronti del cattivone ministro Salvini? Non lo so, lo scopriremo insieme solo vivendo come diceva Lucio Battisti», scandisce. «Però io non cambierò mai idea, in Italia si arriva solo col permesso. I porti italiani sono sigillati», rivendica. Magari anche questa volta avrà condiviso la scelta con Di Maio e Conte. Almeno al telefono.
Sembra un film dell’orrore. Li chiamano pirati. Schierano contro di loro la Marina militare di due paesi. Dove è finito il buonsenso? Siamo di fronte a una vera e propria crisi di civiltà, scrive Piero Sansonetti il 28 Marzo 2019 su Il Dubbio. Salvini li chiama pirati. Non è necessariamente un termine spregiativo. A me, ad esempio, piace il termine pirata. Temo però che il ministro dell’Interno non lo abbia pronunciato con simpatia. Ha usato questa definizione per giustificare la mobilitazione militare contro i pirati. Chi sarebbero i pirati? 108 persone fuggite da un lager libico e che ora cercano salvezza in Europa. Inutilmente. Perché sia Malta che l’Italia hanno messo in allarme le proprie marine militari, quasi in una azione di guerra. Vogliono rispedirli in Libia. Non voglio dire che il dirottamento della nave sia un gesto bello, o da condividere, o da giustificare. So anch’io che è proibito. E so che – se per caso i migranti hanno usato violenza – hanno commesso un reato. Però resto basito quando vedo che c’è un establishment politico europeo che trovandosi di fronte a 108 africani che sono riusciti a fuggire dagli sgherri in Libia, non sa fare altro che dire: tornate in Libia e fatevi massacrare. Succedono, queste cose, nei film dell’orrore, in genere. E creano sdegno, rabbia, emozione. Non dovrebbero succedere nella politica della modernissima Europa, e se invece avvengono vuol dire che ci troviamo di fronte a un problema politico gigantesco, anzi a un vero e proprio problema di civiltà che non sarà facile risolvere. E’ il buonsenso che viene distorto e piegato a ragioni incomprensibili. Come è successo altre volte nella storia del nostro continente, anche molto, molto tragicamente. Nessuno, dieci anni fa, avrebbe perdonato, a una qualunque autorità politica, una simile e inutile ferocia. E nessuna autorità politica avrebbe neppure preso in considerazione l’ipotesi di restituire alle guardie della Libia 108 povere persone. La verità è che la vera colpa dell’Europa, dalla quale difficilmente potrà giustificarsi di fronte alla storia, è quella di avere lasciato l’Italia sola. Da tutti i punti di vista. E di averle delegato il compito di poliziotto del Mediterraneo. Sapendo benissimo che quella di oggi non è l’Europa di Prodi o di Berlusconi, che nelle loro differenze profonde mantenevano comunque una bussola civile. E’ l’Italia governata da una compagine dominata da una fortissima componente xenofoba. E che conduce una politica di contrasto all’immigrazione ispirata da una forte idea xenofoba. Di questo non bisogna chiedere contro solo a Salvini, che non ha mai nascosto il suo pensiero su questi temi. O a Di Maio che non si oppone a Salvini. Bisogna chiedere conto a Juncker, alla Merkel, a Macron, a Sanchez. Non possono fare le anime belle, e pronunciare parole, magari, di accoglienza, e poi delegare a Salvini il governo del Mediterraneo. L’Europa, se esiste, non può non avere una sua politica dell’accoglienza e una sua politica del soccorso. Deve affermare la sua autorità. Se questi 108 disperati che stavano affogando in mare saranno riconsegnati alla Libia sarà un delitto da mettere sul conto dell’intera Europa. Dopodiché c’è la magistratura italiana, che è tra le principali responsabili della piega che hanno preso le cose nell’ultimo anno, perché è stata la protagonista del blocco dei soccorsi, la quale ora si riscatta indagando Matteo Salvini ogni due o tre mesi. E’ pura burocrazia. E tentativo di affermare la propria superiorità sulla politica. Non c’è altro. Salvini può essere fermato solo dall’opposizione politica, e dall’Europa, non da giudici che inventano reati inesistenti. Salvini non è un “colpevole di reati” è solo il protagonista di una politica sciagurata. Che si è avvalsa del contributo dei magistrati che hanno cancellato le Ong. Indagarlo è assurdo.
Salvini: “migranti hanno dirottato un mercantile, sono pirati”, scrive mercoledì, 27 marzo 2019, Imola Oggi. Torna a salire la tensione sugli sbarchi. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha annunciato che un mercantile, con un gruppo di migranti a bordo, prelevati davanti alle coste della Libia, sta facendo rotta verso Nord dunque direzione Malta o Lampedusa. “Non sono naufraghi ma pirati, è il primo atto di delinquenza in alto mare” dice Salvini spiegando che la motonave era arrivata fino a 6 miglia dall’ingresso del porto di Tripoli. “Sappiano che l’Italia la vedranno col cannocchiale”. I clandestini, coccolati dall’establishment, che vaneggia dell’immigrazione come diritto, ora si sentono in dovere di comportarsi da delinquenti. Il mercantile ‘Elhiblu I’ con un gruppo di migranti a bordo, salvati da un naufragio nello specchio d’acqua della Libia, sta facendo rotta verso Nord, riferiscono fonti del Viminale, sottolineando che si è trattato di un cambio di rotta repentino, dopo che la motonave era arrivata fino a 6 miglia dall’ingresso del porto di Tripoli. “Non sono naufraghi ma pirati” aggiunge Salvini. Una motovedetta libica che aveva intercettato e salvato in mattinata 120 migranti naufragati in acque di ricerca e soccorso libiche sta rientrando a Tripoli.
I militari maltesi hanno preso il controllo del mercantile turco Elhiblu 1, che nelle ultime ore era stato dirottato dai migranti verso Malta. La nave aveva fatto rotta verso Nord dopo aver salvato in mare un centinaio di persone. “Sono pirati, l’Italia scordatevela”, il commento del ministro Matteo Salvini, scrive il 28 marzo 2019 Susanna Picone su Fanpage. La Marina maltese ha preso il controllo del mercantile El Hiblu 1, con equipaggio turco e battente bandiera di Palau, dirottato dai migranti che si rifiutavano di essere riportati in Libia. Secondo quanto rende noto una dichiarazione delle Forze Armate di Malta un'unità delle operazioni speciali “è stata inviata a bordo e messo in sicurezza l'imbarcazione in modo da restituire il controllo della nave al capitano”. “Il mercantile, il suo equipaggio e tutti i migranti sono ora scortati dalla Marina militare al Boiler Wharf – continua così il comunicato – per essere consegnati alla polizia per ulteriori indagini”. La Marina maltese ha anche reso noto che nelle comunicazioni radio con il mercantile El Hiblu “il capitano più volte ha ripetuto di non essere in controllo dell'imbarcazione e che il suo equipaggio era stato costretto con le minacce da parte di diversi migranti a procedere verso Malta”. Già mercoledì sera alcuni media avevano avvertito che le forze armate maltesi erano “in stato di allerta” e stamane, non appena la nave è entrata in acque maltesi, sono entrate in azione. Un portavoce militare aveva definito il mercantile una “nave pirata”. Salvini: "L'Italia scordatevela" – A dar notizia ieri del mercantile dirottato era stato il ministro dell'Interno Matteo Salvini in conferenza stampa al Viminale. “Poveri naufraghi che dirottano il mercantile che li ha salvati perché vogliono decidere la rotta della crociera”, ha detto Salvini che nel corso di una diretta Facebook ha mostrato sulla cartina il punto in cui si trovava la nave tra Italia e Malta. “Lo dico ai pirati: l'Italia scordatevela”, così il vicepremier. “Questa è la dimostrazione più evidente – così ancora Salvini – che non si tratta di un'operazione di soccorso ma un traffico criminale di esseri umani che arriva addirittura a dirottare un'imbarcazione privata. È un atto di delinquenza, di criminalità organizzata. Le acque italiane sono precluse ai criminali”. Secondo una fonte governativa, a bordo del mercantile ci sono 77 uomini e 31 donne. L'ong Mediterranea Saving Humans ha chiesto di assegnare alla El Hiblu 1 un porto sicuro in un paese europeo dove alle persone salvate siano garantiti i diritti umani fondamentali.
Su Sea Watch un nuovo assalto: "Ci fu un sequestro di persona". I pm di Roma inviano il fascicolo ai magistrati di Siracura per valutare eventuali reati ministeriali: si profila un nuovo caso Diciotti, scrive Chiara Sarra, Mercoledì 27/03/2019, su Il Giornale. Chiuso con il "no" al processo da parte del Senato il caso Diciotti, parte un nuovo assalto dei magistrati a Matteo Salvini. La procura di Roma ha infatti rinviato ai colleghi di Siracusa il fascicolo (contro ignoti) aperto per la vicenda della Sea Watch, la nave della ong tedesca battente bandiera olandese, che il 31 gennaio scorso rimase in mare per 12 giorni con a bordo 47 migranti prima di attraccare nel porto di Catania. Per i pm romani sarebbe ravvisabile il reato di "sequestro di persona". Il pm Sergio Colaiocco aveva aperto un procedimento il primo febbraio scorso dopo una denuncia per "omissione in atti d'ufficio". Sul caso ha quindi indagato la Guardia Costiera e la procura ha ipotizzato nei confronti dei migranti "una limitazione della libertà personale". Proprio come - sostengono i magistrati - accaduto sulla nave Diciotti. Ora la palla va quindi alle toghe di Siracusa (dove la Sea Watch ha stazionato per sei giorni) che dovranno decidere se rinviare tutto al tribunale dei ministri di Catania.
«Sea Watch, fu sequestro di persona» Si profila un nuovo caso Diciotti. Pubblicato mercoledì, 27 marzo 2019 da Corriere.it. Nella vicenda della nave SeaWatch, che ha dovuto attendere 12 giorni davanti al porto di Siracusa prima di avere l’ok allo sbarco a Catania il 31 gennaio scorso, ci sono elementi per contestare il reato di sequestro di persona. È quanto sostengono i magistrati della Procura di Roma che hanno inviato il fascicolo, al momento contro ignoti, ai colleghi di Siracusa che ora dovranno valutare se esistono profili di competenza del tribunale dei ministri di Catania. La vicenda segue la falsariga di quella della nave Diciotti: in quella circostanza al ministro Salvini e a due prefetti fu contestato il sequestro di persona da parte dei magistrati. Ma il Senato ha poi «salvato» il vicepremier leghista negando l’autorizzazione a procedere. La Sea Watch aveva salvato nel Mediterraneo 47 migranti su un gommone in avaria due giorni prima di Natale e solo dopo un lungo peregrinare e dopo ripetuti rifiuti da parte del Viminale aveva potuto attraccare a Siracusa. A differenza di quanto accaduto in altre occasioni anche il pm di Catania Zuccaro - in altre circostanze molto duro nei confronti dell’operato delle Ong, aveva stabilito che da parte dei volontari non c’era stato alcun reato. «La situazione di “distress” - scriveva Zuccaro - giustificava il soccorso da parte di Sea Watch 3» che «era dovuta, oltre che alla palese inidoneità tecnica del gommone ad affrontare la traversata, alla circostanza, confermata dai migranti escussi, circa il progressivo sgonfiamento dei tubolari del gommone, da cui tutti sentivano fuoriuscire dell’aria, sgonfiamento che avrebbe inesorabilmente portato all’affondamento del natante».
L’inchiesta della procura di Roma è nata in seguito a un esposto presentato lo scorso primo febbraio in cui veniva ipotizzato il reato di omissioni di atti di ufficio. La Procura, quindi, ha delegato la Guardia Costiera per alcuni accertamenti dai quali è risultato che la vicenda della Sea Watch è pressochè identica a quella della nave Diciotti, in cui il reato più grave è quello di sequestro di persona, con il procedimento incardinato dove questa limitazione sarebbe avvenuta.
Conte, Salvini, Di Maio e Toninelli indagati per la nave Sea Watch. Sea Watch 3, mezzo governo indagato per sequestro di persona. La nave con 47 migranti a bordo rimase ancorata al largo di Siracusa per sei giorni. Fu impedito di scendere anche ai 15 minori, scrive Simona Musco il 16 Aprile 2019 su Il Dubbio. Questa volta non è il solo ministro dell’Interno Matteo Salvini ad essere indagato per sequestro di persona. A finire sul registro degli indagati per il caso Sea Watch 3 sono anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli e il ministro del Lavoro Luigi Di Maio, che sin dal caso Diciotti hanno rivendicato l’azione collegiale in tema di sbarchi. Ma se il precedente episodio era servito a cementare il matrimonio tra M5s e Lega, ora le cose in casa gialloverde si fanno più scivolose. Il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, nell’inviare gli atti al tribunale dei ministri ha già chiesto l’archiviazione. Ma Salvini, rivendicando la propria politica dei porti chiusi, ne ha approfittato per avvertire i 5 Stelle, più cauti sul tema vista la situazione in Libia. «Se qualcuno ha cambiato idea me lo dica», ha dichiarato a margine dell’inaugurazione della nuova questura di Monza. E da Dubai Di Maio ha replicato secco al vicepremier leghista: «sono indagato, ma non mi sento Napoleone. Questo è un momento molto importante per il nostro Paese, quindi lavoriamo con il massimo del supporto». Alla base dell’iscrizione dei quattro ministri nel registro degli indagati c’è l’autodenuncia degli stessi dopo il caso Diciotti e l’impossibilità di risalire ad un ordine scritto che accerti le responsabilità alla base della decisione di bloccare la nave, ferma davanti al porto di Siracusa, dal 24 al 30 gennaio, con 47 migranti a bordo, tra i quali 15 minori, mentre l’Italia litigava con l’Europa su chi dovesse accoglierli. I naufraghi avevano chiesto aiuto anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo, prima di essere “dirottati” a Catania. Una scelta che, sin da subito, è sembrata strategica, visto che a capo della procura etnea c’è il procuratore anti ong Zuccaro. La palla passa ora al collegio speciale chiamato a valutare i reati ministeriali, che ha già convocato il prefetto di Siracusa per capire da chi sia partito l’ordine di tenere la Sea Watch 3 per giorni fuori dal porto di Siracusa, trattenendo a bordo anche i minori, nonostante il tribunale dei minori di Catania avesse chiesto lo sbarco, così come chi abbia spostato il punto di sbarco da Siracusa a Catania. «In un paese normale, se il procuratore chiede l’archiviazione sei a posto ha commentato Salvini Ribadisco che finché faccio il ministro dell’Interno i porti sono chiusi. In Italia si arriva se si ha il permesso di arrivare. I trafficanti di esseri umani, finché faccio il ministro, non arrivano. Possono aprire 18 procedimenti penali nei miei confronti ma non cambio idea e non cambio atteggiamento». La nave olandese aveva salvato i naufraghi in acque libiche, per poi portarli in Italia, secondo Salvini «fregandosene» dell’alt e delle indicazioni del governo olandese di andare in Tunisia» per compiere «un gesto politico». Ma per il capitano della nave quella per l’Italia era la rotta più sicura, tanto che lo stesso Zuccaro aveva smentito qualsiasi tipo di rilievo penale nella condotta dei responsabili della nave.
La Mare Jonio ed il mare di ipocrisia sui migranti. L'opinione del direttore di Panorama, Maurizio Belpietro sul caso della nave di una Ong italiana attraccata a Lampedusa, scrive il 21 marzo 2019 Panorama. La vicenda della Mare Jonio, la nave della Ong italiana Mediterranea attraccata al porto di Lampedusa dove sono sbarcati i 49 migranti recuperati nelle acque del Mediterraneo davanti alle coste della Libia, ha riportato d'attualità la questione migranti che divide chi sta dalla pèarte del Ministro Salvini e della sua politica dei "porti chiusi" e chi invece si batte l'accoglienza ad ogni costo. La Procura di Agrigento ha autorizzato l'attracco della nave per poi metterla sotto sequestro con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Tra gli indagati ci sarebbe anche la persona che gestiva le operazioni della Mare Jonio, Luca Casarini, leader anni fa del movimento "No global". Sulla questione è intervenuto a Cartabianca anche in direttore di La Verità e Panorama, Maurizio Belpietro. "Credo che la grande ipocrisia di fondo sia quella di coloro che dicono che bisogna accogliere tutti i migranti perché non si può accoglierli tutti e lo sappiamo perfettamente; non si può organizzare il salvataggio e soccorso di tutte le persone e di tutti i barconi e gommoni in mare, migliaia, centinaia di migliaia di uomini donne e bambini, secondo alcuni esperti forse addirittura milioni di persone. Questi 49 migranti sono stati soccorsi al largo delle coste della Libia in un punto dove era possibile l’intervento della Guardia Costiera libica; quindi doveva intervenire la Guardia Costiera libica. Che poteva riportarli non il Libia ma in Tunisia, cioè nel porto più vicino. Tunisi era molto più vicino rispetto a Lampedusa. Invece cos’hanno fatto? Hanno preso questo rimorchiatore che è stato messo in acqua proprio per questo motivo e sono ovviamente venuti in Italia.
Questa azione non è un gesto di volontariato o di soccorso, è un gesto che fa parte di una precisa strategia politica. Del resto a guidarla non c’è un signore sconosciuto, ma Luca Casarini, un signore che da sempre è contro qualsiasi cosa, manifesta, disobbedisce, leader del movimento No global… è sempre la solita storia di questa persona che si oppone all’autorità costituita. In Italia per fortuna un’autorità costituita c’è; ci sono delle leggi, c’è la democrazia, ci sono diritti e doveri che vanno rispettati. Se un Ministro ed un Governo stabiliscono che una nave deve dirigersi altrove questa non può andare dove vuole e fare quello che vuole. Questa è un’altra cosa rispetto al salvare le persone. Nessuno dice che queste persone non debbano essere soccorse ma che queste persone dovevano essere portate nel porto più vicino di Tunisi. Non mi rassegno all’ipocrisia di chi si commuove ora ma che non si era indignato in passato. Non l’ho vista quando anni fa, con un Governo di sinistra, fece affondare la Sibilla, una nave di migranti partiti dall’Albania quando morirono 83 morti. Sappiamo tutti quanti quale sia la situazione in Africa. Ma questo non vuol dire che allora dobbiamo accogliere tutti gli africani in Italia. Se domani arrivassero milioni di persone dobbiamo rassegnarci? Bisogna saper gestire ed affrontare i flussi migratori. Adesso stiamo cercando di fare in modo di disilludere quanti vogliono venire in Europa spiegando loro che non siamo più la terra promessa. Stiamo cercando di impedire ad organizzazioni criminali, che facciamo finta di non vedere, e che magari sollecitano questi giovani disperati a partire per fare più soldi, di fare soldi sulla pelle di queste persone promettendo loro un futuro che non esiste. Dobbiamo impedire che la gente non parta dai loro paesi di provenienza, prima che arrivino nei campi in Libia".
Diciotti, Salvini non andrà a processo: i numeri del trionfo al Senato, scrive il 20 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Sono 237 i voti favorevoli alla relazione della Giunta delle immunità del Senato che nega l'autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell'Interno, Matteo Salvini, per il caso Diciotti. Contrari 61 senatori, nessun astenuto. Lo ha comunicato in Aula al Senato la presidente Elisabetta Casellati, a chiusura del lungo procedimento di voto, che ha visto aperta la votazione fino alle 19. Sono stati cinque i senatori (Fabio Di Micco, Alfonso Ciampolillo e Paola Taverna del M5s, Massimo Mallegni di Forza Italia e Achille Totaro di Fratelli d'Italia) che hanno utilizzato la possibilità di votare dopo le 13. Ben tre del Movimento Cinque Stelle, alle prese con non pochi mal di pancia interni tra i fedelissimi di Luigi Di Maio e la fronda più ortodossa.
Diciotti, Matteo Salvini assolto dal Senato: respinta la richiesta dei giudici, scrive il 20 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il Senato ha già respinto l'autorizzazione a procedere contro il ministro Matteo Salvini, accusato dal Tribunale dei ministri di sequestro di persona aggravato per il caso della nave Diciotti. A votare contro la richieste dei giudici sono stati 232 senatori, ma i risultati definitivi arriveranno solo alle 19, quando si chiuderanno ufficialmente le votazioni. Il quorum necessario è stato comunque raggiunto, con i voti di Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia, oltre che quelli del M5s, nonostante qualche dissidente della frangia più ortodossa vicina al presidente della Camera Roberto Fico. Nel suo intervento a palazzo Madama, Salvini aveva ribadito la sua posizione sul procedimento aperto dai magistrati siciliani: "Quando si mette in dubbio che con il mio lavoro abbia abusato della mia carica per qualcosa che ho fatto, faccio e rifarò per difendere i miei figli, mi emoziono. Meno partenze - ha aggiunto - meno sbarchi e meno morti con noi: qualcuno invece dei porti voleva cimiteri aperti". Alle polemiche sui mancati soccorsi sollevate soprattutto dai banchi del Pd, il ministro dell'Interno ha poi risposto: "Soccorriamo tutti, non sarà mai il ministro che lascia morire una persona nel mar Mediterraneo senza muovere un dito".
Mare Jonio, delirio di Michele Santoro contro Matteo Salvini: "Arrestate il ministro della Guerra civile", scrive il 20 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "E dopo Saviano, ecco Santoro". Matteo Salvini si scaglia contro il teletribuno: "Mi riempie di insulti definendomi 'ministro della guerra civile' e auspicando il mio ARRESTO. Roba da matti. Grazie di tutti i vostri messaggi di sostegno (...). Io vado avanti, a testa alta". Motivo della polemica? L'articolo pesantissimo di Santoro sul suo sito. Titolo: "Arrestate Matteo Salvini". Il giornalista interviene sul caso della nave Mare Jonio, posta ieri sotto sequestro probatorio dalla Guardia di finanza, scagliandosi in particolare contro le richieste di arresto avanzate da Matteo Salvini. "Di fronte al mondo civile mi vergogno di essere italiano", esordisce il pezzo, "mi vergogno di avere un Ministro dell’Interno che si chiama Matteo Salvini. Uno che ha trasformato il Viminale, che dovrebbe essere la casa sicura di tutti, in un’agenzia di pubblicità al servizio di un partito, uno che dovrebbe garantire il rispetto della legge e invece non fa altro che violarla".
Mare Jonio, voce inquietante dalla procura: perché potrebbero indagare ancora Matteo Salvini, scrive il 20 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Un'altra indagine contro Matteo Salvini subito dopo che il Senato ha bocciato la richiesta di rinvio a giudizio sul caso Diciotti? Le voci corrono, l'indiscrezione trapela dalla procura. Si parla della vicenda della Mare Jonio, la ong sequestrata al porto di Lampedusa dopo aver soccorso immigrati in acque sar libiche, in barba a tutti i regolamenti. Oggi, mercoledì 20 marzo, è il giorno degli interrogatori e delle analisi delle conversazioni radio tra i centri di coordinamento di soccorso di Roma e Tripoli e la plancia di comando della nave. Si tratta di atti istruttori decisivi per capire come proseguirà l'indagine: ad ora il fascicolo contro ignoti prevede l'ipotesi di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, fascicolo aperto martedì dalla Procura di Agrigento guidata da Luigi Patronaggio. Ma che c'entra Salvini? Presto detto: l'inchiesta ha anche l'obiettivo di accertare se, come sostiene il ministro dell'Interno, la Mare Jonio ha operato illegittimamente, soccorrendo i 50 migranti in zona Sar senza obbedire al coordinamento da parte della Guardia costiera di Tripoli e violando gli ordini della Guardia di Finanza. La procura vuole insomma comprendere se il Viminale si è mosso all'interno dei limiti della legge, ovvero se c'erano i presupposti affinché la Guardia di finanza impedisse l'ingresso in acque territoriali italiane di una nave italiana che, per di più, trasportava persone soccorse in mare. Insomma, Salvini alla fin della fiera potrebbe risultare nuovamente indagato.
Così i giudici buonisti armano le Ong, scrive il 19 marzo 2019 Andrea Indini su Il Giornale. Nonostante Matteo Salvini abbia chiuso tutti i porti del Paese, ci sono ancora alcune organizzazioni non governative che provano a infrangere le leggi del mare andando a recuperare gli immigrati al largo della Libia per poi provare a scaricarli sulle nostre coste. Il salto di qualità è stato mettere in mare una nave battente bandiera italiana: la Mar Jonio della ong Mediterranea. A favorire quest’ultimo blitz sono state anche le continue ingerenze della magistratura nelle decisioni del Viminale. I soliti giudici buonisti si sono intromessi a più riprese cercando, anche forzando il diritto, di evitare la chiusura dei porti alle navi delle ong straniere. E hanno favorito, in questo modo, l’approdo di immigrati (clandestini) recuperati nel Mar Mediterraneo direttamente dai barconi guidati dai trafficanti di uomini. Non da ultimo, l’inchiesta sulla nave Diciotti, che quasi sicuramente finirà con un nulla di fatto, è il vero vulnus sul quale i buonisti fanno leva per cercare di bucare la legge e fare entrare nel nostro Paese quanti più disperati possibile. D’altra parte, come svelato nelle scorse ore dal Viminale (qui l’informativa integrale), il modus operandi è sempre lo stesso: il “soccorso, a opera di navi, di migranti irregolari in acque di responsabilità non italiane” e il “successivo trasferimento dei medesimi migranti, nonostante il Comando delle Capitanerie di Porto italiano non avesse coordinato l’evento e, quindi, in violazione delle leggi in materia di immigrazione”. A dare la forza (e la sfrontatezza) di violare queste leggi sono, purtroppo, alcuni giudici che dovrebbero far rispettare certe norme. Era successo in passato con navi come la Sea Watch e la Aquarius, si ripete oggi con la Mar Jonio che è arrivata addirittura a ignorare l’ordine della Guardia di Finanza, che le vietava l’ingresso nelle nostre acque territoriali, e a puntare dritta verso il porto di Lampedusa.
Il blitz della ong Mediterranea punta a mettere il Viminale sotto scacco ricreando lo stesso stallo che l’anno scorso, per dieci lunghi giorni, aveva tenuto in rada la nave Diciotti senza farla sbarcare. Da quel braccio di ferro è partita, poi, una crociata giudiziaria, portata avanti da giudici convinti che Salvini non possa vietare lo sbarco alle persone, anche se queste non hanno alcun diritto di sbarcare. Molto probabilmente, non è un caso fortuito che la Mar Jonio abbia deciso di sfidare il governo alla vigilia del voto in Aula sul caso Diciotti. Finché ci saranno magistrati accondiscendenti, le ong continueranno a proliferare nel Mar Mediterraneo. D’altra parte le organizzazioni non governative operano in un contesto – quello delle leggi del mare – molto ambiguo. Se il governo decide (legittimamente) di chiudere i porti ai clandestini, ma poi la magistratura (indagando i ministri) tenta di impedirlo, le ong si sentiranno sempre “autorizzate” a provarci e riprovarci, facendo leva su interpretazioni buoniste delle leggi nazionali e internazionali. Il caso della Mar Jonio rischia di essere ancora più complicato dei precedenti. Se con la Sea Watch e con la Aquarius, Salvini ha fatto pressioni sull’Unione europea e su quei Paesi, la cui bandiera sventolava sulle imbarcazioni cariche di clandestini, per sbloccare la situazione, ora con la nave della Mediterranea, che batte bandiera italiana, c’è il rischio (drammatico) di imbattersi nel solito azzeccagarbugli capace di appigliarsi a un qualche cavillo per aggirare la chiusura dei porti. Per spazzarli via, il governo dovrà tirar dritto sulla propria strada, infischiandosene di chi vuole piegarlo a politiche buoniste. Anche a costo di imbattersi in altri odiosi processi.
«Finalmente un governo non pavido sui migranti». Parola di magistrato. L’intervento di Roberto Politi, presidente del Tar di Brescia, scrive il 16 marzo 2019 Il Dubbio. Il giudizio sul governo è netto: «Finalmente c’è un esecutivo non più pavido». E la difesa dei diritti dei migranti diventano la «penosa litania dei diritti fondamentali». Non sono le parole di un supporter leghista, non uno qualsiasi almeno. Ma sono le parole di Roberto Politi, presidente del tribunale amministrativo di Brescia. Parole che Politi non ha pronunciato al bar con gli amici ma nel corso del suo intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Una relazione – come spiega il Corriere di Brescia – «che ha lasciato perplessi più di una persona in platea quando, parlando di immigrazione e dei ricorsi che continuano ad intasare gli uffici dell’organo amministrativo, ha applaudito al cambio di corso, auspicando finalmente una stagione di riforme da declinare a favore dei “cittadini italiani, nati in Italia da cittadini a loro volta italiani”. Del resto le idee del presidente Politi sono note da tempo lo scorso anno aveva criticato «approdi giurisprudenziali troppo spesso malamente improntati a buoniste e indulgenti soluzioni» che assecondano «l’onda lunga del politicamente corretto». Sperando in una «legalità in grado di offrire prioritaria tutela alla tradizione socioculturale e all’appartenenza identitaria del nostro popolo».
Migranti, il giudice elogia la linea Salvini. E viene "processato" dai colleghi. Roberto Politi, presidente del Tar di Brescia, definisce l'attuale governo "un esecutivo finalmente non più pavido" e applaude al cambio di corso sui migranti, scrive Franco Grilli, Sabato 16/03/2019, su Il Giornale. Ha espresso le sue opinioni sulle politiche migratorie e per il presidente del Tar di Brescia, Roberto Politi, i colleghi avvocati hanno subito riservato critiche aspre. La sua colpa? Aver detto che l'Italia oggi ha un "esecutivo finalmente non più pavido" e che un serio dibattito sui migranti è stato spesso osteggiato da una "penosa litania dei diritti fondamentali". Le sue riflessioni Politi le ha espresse durante la presentazione della relazione all'inaugurazione dell'anno giudiziario del Tribunale amministrativo. Al centro del discorso la massa di cause pendenti dei richiedenti asilo che fanno ricorso contro le decisioni delle Commissioni territoriali per il diritto di asilo. Il presidente del Tar, riporta il Corriere, ha sostanzialmente plaudito alle nuova linea sui migranti e ha auspicato una stagione di riforme in favore dei "cittadini italiani, nati in Italia da cittadini a loro volta italiani". Infine, Politi ha stigmatizzato le "penose litanie" sui diritti che favoriscono una "classe super protetta a tutela di posizioni contraddistinte dal vizio originario della clandestinità". Ora: si può anche criticare la scelta del magistrato di esprimersi in queste parole durante una cerimonia ufficiale. Ma nel farlo occorre anche ricordare, solo per fare un esempio, che anche l'ex procuratore capo di Torino, Armando Spataro, non ha mai mancato di dire la sua sull'immigrazione. Comunque, Politi è finito rapidamente nell'occhio del ciclone. Ad attaccarlo gli avvocati delle camere penali di Brescia. "Appare offensivo definire penosa litania di diritti fondamentali la richiesta del rispetto dei diritti inviolabili riconosciuti dalla nostra Costituzione ad ogni individuo, indipendentemente dalla sua cittadinanza", hanno scritto in una nota. Per gli avvocati bresciani le parole del giudice sono "gravi per un magistrato nell'esercizio delle sue funzioni che proprio su quei diritti è chiamato a giudicare".
Ecco come si è sbloccato il caso della Mare Jonio. Alla fine va come voleva Matteo Salvini senza che davvero lui ci mettesse mano. Ecco come è andata, scrive Nico Di Giuseppe, Martedì 19/03/2019, su Il Giornale. Alla fine va come voleva Matteo Salvini senza che davvero lui ci mettesse mano. Al Viminale sono state ore concitate: la nave Mare Jonio spinge verso l'approdo in Italia, il ministero dell'Interno risponde con una direttiva per uno "stop definitivo alle azioni illegali della Ong". Poi l'epilogo: nave sequestrata, migranti scesi e interrogatori in vista. Fonti vicino al capo della Lega garantiscono che questa volta nulla è comparabile al caso Diciotti. La Guardia di Finanza sale a bordo della Mare Jonio dopo che quest'ultima non si ferma all'alt e prosegue verso Lampedusa e al Viminale viene convocato un tavolo permanente con esperti e vertici delle forze di polizia e della Marina. La procura di Agrigento apre un fascicolo con l'ipotesi di reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Poi la decisione del sequestro come atto probatorio: un'iniziativa della Guardia di finanza che dovrà essere confermata entro 48 dalla Procura. Salvini è comunque soddisfatto, al futuro dei migranti ci penseranno i magistrati mentre nella compagine di governo si respira un'aria di calma apparente. I grillini sulla questione usano toni morbidi: mercoledì in Senato c'è il voto sulla Diciotti e bisogna stare tutti compatti. Luigi Di Maio torna a garantire il voto del Movimento cancellando con un tratto di penna i dissidenti. Salvini, indagato per sequestro di persona, ha agito nell'interesse del Paese all'interno di una decisione collegiale. Per rimarcare il concetto in aula ci sarà anche il premier Giuseppe Conte che con Di Maio e Toninelli fanno quadrato intorno al capo del Viminale. Il leader della Lega interverrà con una relazione, "senza alcun timore" dopo che Gasparri ripercorrerà la vicenda e illustrerà la proposta votata dall'organo di Palazzo Madama su cui si dovranno esprimere i senatori. Il voto sarà palese e Salvini potrà contare sull'aiuto fraterno di Forza Italia e Fratelli d'Italia che garantiranno l'appoggio esterno condividendo la scelta della linea dura sui porti. Pallottoliere alla mano c'è da stare tranquilli, poi all'interno del Movimento i conti si faranno un altro giorno.
Tutte le irregolarità della Mare Jonio con i migranti. La nave della Ong di Luca Casarini è arrivata a Lampedusa dopo aver infranto regole navali e leggi internazionali, scrive Panorama il 19 marzo 2019. La Mare Jonio, la nave della Ong comandata da Luca Casarini che ha raccolto 49 migranti nel Mar Mediterraneo a poche miglia dalle coste libiche per portarli in Italia, è arrivata a Lampedusa dove è stata autorizzata ad attraccare su ordine della Procura di Agrigento che ha aperto un'inchiesta per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e posto sotto sequestro la nave. Il Ministro dell'Interno, Matteo Salvini infatti non aveva dato alcuna autorizzazione allo sbarco dei migranti a bordo. I migranti, 49, tra cui 12 minori, sono sbarcati e condotti nel centro di identificazione per i migranti di Lampedusa Quello che è chiaro però è che anche questa volta la nave della Ong, la Mare Jonio, ha commesso diverse irregolarità ed ha violato più volte la legge. Ed è su queste irregolarità che sta indagando la Procura. Questo quanto rilevato proprio dal Viminale e dalla Guardia Costiera. Le irregolarità commesse dalla Mare Jonio:
- La nave Mare Jonio ha disobbedito per ben due volte all’ordine della Guardia di Finanza di spegnere i motori. È come un’auto che non rispetta l’alt di un posto di blocco.
- Il mare non era mosso né c’era pericolo di affondamento.
- La Mare Jonio era più vicina a Libia e Tunisia ma ha fatto rotta verso l’Italia, sottoponendo gli immigrati a un viaggio più lungo.
- La nave non ha avvisato Malta.
- Ha disobbedito alle indicazioni della guardia costiera libica. Un comportamento che dimostra, secondo il Viminale, il chiaro intento di voler portare in Italia immigrati clandestini.
Nelle ultime ore, a conferma che la presenza di navi Ong è un incentivo alle partenze, si sarebbe verificato un naufragio davanti alla costa di Sabrata.
La Guardia Costiera libica: "Intervento pretestuoso della nave dell'Ong". Adesso la Guardia Costiera libica inchioda la nave umanitaria Mare Jonio che nella giornata di ieri ignorando l'intervento dei libici ha imbarcato 49 migranti. Il duro attacco dell'ammiraglio, scrive Franco Grilli, Martedì, 19/03/2019, su Il Giornale. Adesso la Guardia Costiera libica inchioda la nave umanitaria Mare Jonio che nella giornata di ieri ignorando l'intervento dei libici ha imbarcato 49 migranti. All'Agi un portavoce della Guardia Costiera libica ha infatti puntato il dito contro l'ong Mediterranea: "La Guardia costiera libica era a cinque miglia dal gommone in panne ed era in grado di recuperare in sicurezza tutte le persone a bordo. L’intervento della nave dell’Ong Mediterranea non era necessario ed è stato pretestuoso", afferma il portavoce libico, l'ammiraglio Ayoub Qassem. E ancora: "Non comprendiamo perché abbiano voluto prendere loro i migranti, a ogni costo, pur essendo in acque libiche. Alla nostra richiesta di chiarimenti hanno spiegato che i migranti si trovavano in una situazione di pericolo ma questo non è vero, non si è trattato di un naufragio ma solo di un guasto al motore". A questo punto l'ammiraglio ricostruisce i movimenti della motovedeta libica: "È poi a distanza perchè a quel punto i migranti per non tornare in Libia avrebbero messo a rischio la loro vita e quella dell’equipaggio". Infine sempre Qassem ha aggiunto: "Le Ong ostacolano le operazioni di salvataggio per interessi certamente non umanitari". Intanto il Viminale ha ribadito la linea dei porti chiusi e il vicepremier, Matteo Salvini, ha usato parole chiare: "Se un cittadino forza un posto di blocco stradale di Polizia o Carabinieri, viene arrestato. Conto che questo accada”. Lo afferma il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, commentando quanto emerso al Viminale dal tavolo permanente sul conto dell’operato della nave ’Mare Jonio. Nessun pericolo di affondamento - afferma - nè rischio di vita per le persone a bordo (come documentato da foto), nessun mare in tempesta. Ignorate le indicazioni della Guardia Costiera libica che stava per intervenire, scelta di navigare verso l’Italia e non Libia o Tunisia, mettendo a rischio la vita di chi c’è a bordo, ma soprattutto disobbedienza (per ben due volte) alla richiesta di non entrare nelle acque italiane della Guardia di Finanza". Insomma lo scontro resta aperto.
Mare Jonio, l'ammiraglio libico: "La menzogna della Ong, come ci hanno tagliato fuori", scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Contro la ong Mare Jonio, ora, piove anche la testimonianza della Guardia Costiera libica. Si parla del salvataggio, al di fuori delle regole, dei 49 migranti, poi portati fino al largo di Lampedusa. Interpellata dall'Agi, la Guardia Costiera libica ha puntato il dito: "Eravamo a cinque miglia dal gommone in panne ed eravamo in grado di recuperare in sicurezza tutte le persone a bordo. L'intervento della nave dell’Ong Mediterranea non era necessario ed è stato pretestuoso", afferma il portavoce, l'ammiraglio Ayoub Qassem. Dunque prosegue: "Non comprendiamo perché abbiano voluto prendere loro i migranti, a ogni costo, pur essendo in acque libiche. Alla nostra richiesta di chiarimenti hanno spiegato che i migranti si trovavano in una situazione di pericolo ma questo non è vero, non si è trattato di un naufragio ma solo di un guasto al motore". L'ammiraglio, successivamente, ricostruisce i movimenti della motovedetta libica: "È poi a distanza perché a quel punto i migranti per non tornare in Libia avrebbero messo a rischio la loro vita e quella dell’equipaggio". Infine sempre Qassem ha aggiunto: "Le Ong ostacolano le operazioni di salvataggio per interessi certamente non umanitari". Nel frattempo dal Viminale, Matteo Salvini ha usato parole chiare per ribadire quale sia la linea: "Se un cittadino forza un posto di blocco stradale di Polizia o Carabinieri, viene arrestato. Conto che questo accada". "Nessun pericolo di affondamento - prosegue - né rischio di vita per le persone a bordo (come documentato da foto), nessun mare in tempesta. Ignorate le indicazioni della Guardia Costiera libica che stava per intervenire, scelta di navigare verso l’Italia e non Libia o Tunisia, mettendo a rischio la vita di chi c’è a bordo, ma soprattutto disobbedienza (per ben due volte) alla richiesta di non entrare nelle acque italiane della Guardia di Finanza". Lo scontro è totale.
Mediterranea, svelata la vergogna: "Migranti, nessun salvataggio". Com'è andata veramente: lo schifo della Ong, scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. La Ong Mediterranea ha agito "scorrettamente" e non c'era "nessun naufragio in corso" che rendesse necessario il "salvataggio" dei 49 migranti poi caricati sulla Mare Ionio diretta verso Lampedusa. La conferma arriva dal portavoce della Marina libica, l'ammiraglio Ayob Amr Ghasem, secondo cui una pattuglia portatasi nell'area dove era stato segnalato il gommone "ha scoperto che una Ong non aveva preso contatto" con la Guardia costiera libica. "Hanno preso contatto dopo" l'intervento, ha spiegato l'ammiraglio all'agenzia Ansa, "e hanno sostenuto che i migranti erano in una condizione che necessitava un salvataggio". Questo, tecnicamente, non era corretto perché, spiega ancora Ghasem, "l'imbarcazione era senza motore" ma "intatta". La Mare Ionio "è arrivata all'imbarcazione prima di noi", ha detto ancora il portavoce della Marina. "Abbiamo preferito non intervenire in quanto avevano già avviato l'operazione di salvataggio" e si temeva per l'incolumità dei migranti, ha aggiunto Ghasem. A segnalare la presenza del gommone da soccorrere alla Mediterranea Saving Human è stato l'aereo di ricognizione Moonbird della Ong Sea Watch, già protagonista in passato di durissimi bracci di ferro con il governo italiano.
Su "Repubblica" spunta l'appello dei buonisti: "Adesso aprite i porti". Il caso della Mare Jonio agita e non poco il governo a ridosso del voto in Aula su Salvini per la Diciotti. E "Repubblica" chiede al Viminale di aprire i porti, scrive Angelo Scarano, Martedì, 19/03/2019, su Il Giornale. Il caso della Mare Jonio agita e non poco il governo a ridosso del voto in Aula su Salvini per la Diciotti. La nave umanitaria si trova adesso di fronte Lampedusa e dopo aver ignorato il divieto di ingresso in acque territoriali da parte della Guardia di Finanza, attende indicazioni per un porto di sbarco. Il braccio di ferro tra il Viminale e le Ong di fatto però è cominciato ieri sera quando il ministro degli Interni ha fatto sapere che i porti sono chiusi ribadendo la linea dura del governo. Una linea che a quanto pare non viene condivisa da Repubblica che in prima pagina oggi strilla il titolo "Aprite i porti". Una sorta di appello da parte del quotidiano fondato da Scalfari che dà voce ai buonisti che vogliono l'immediato sbarco dei 49 migranti. E così sul fronte buonista c'è in prima fila Concita De Gregorio che proprio su Repubblica manda un messaggio all'ammiraglio Giovanni Pettorino, comandante generale delle Capitanerie di porto, ispettore capo della Guardia Costiera: " Cosa intende fare con le 49 persone, fra cui 12 minori, che (a bordo di una nave che batte bandiera italiana, sottratti a un destino di naufragio in mare) potrebbero oggi chiederle di scendere a terra? Lei, personalmente, cosa intende fare di queste persone?". Il tutto sotto l'ombrello del titolo di apertura del quotidiano che è un vero e proprio "inno" al buonis.
L'ong e la tempistica sospetta dietro il blitz in mare dei centri sociali. La Libia inchioda la ong: "Intervento pretestuoso". E la Lega solleva il dubbio: "Coincidenza sospetta col voto sulla Diciotti". Ecco perché i centri sociali hanno voluto creare un nuovo caso politico, scrive Andrea Indini, Martedì 19/03/2019, su Il Giornale. Dalle facinorose proteste in piazza al Mediterraneo. I centri sociali sono scesi in mare per sferrare un nuovo attacco a Matteo Salvini. A capitanarli c'è Luca Casarini, l'ex no global del G8 che non ha mai smesso la casacca del disobbediente. Si è messo al timone della Mare Jonio, l'imbarcazione battente bandiera italiana della ong Mediterranea, ed è andato a recuperare 50 immigrati al largo della Libia per tendere un vero e proprio agguato al leader del Carroccio alla vigilia del voto sulla nave Diciotti. Una tempistica sospetta che, secondo i leghisti, sarebbe stata studiata ad hoc per "fare una battaglia politica" contro il governo Conte. "Ecco Luca Casarini, noto tra l'altro per aver aperto l'osteria 'Allo sbirro morto', pluripregiudicato, coccolato da Pd e sinistra, oggi alla guida del centro sociale galleggiante arrivato davanti a Lampedusa. E noi dovremmo cedere a questi personaggi?". Salvini ha messo in chiaro che non cederà al ricatto dei no global. Il porto di Lampedusa rimarrà, dunque, chiuso. Almeno per il momento. Perché, sebbene Luigi Di Maio si affretti ad assicurare che "non ci sarà un altro caso Diciotti", c'è il rischio concreto che nelle prossime ore il Paese possa rivivere l'estenuante braccio di ferro vissuto l'estate scorsa e culminato con Salvini indagato per "sequestro di persona". Allora, per sbloccare il governo gialloverde dall'impasse, si era mobilitato pure il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ad oggi quel capitolo non è stato ancora chiuso. Domani il Senato dovrà, infatti, decidere se mandare a processo il ministro dell'Interno. E proprio a ridosso del voto, ecco spuntare in mare i centri sociali e replicare ad hoc un caso che ricorda in tutto e per tutto quello della nave della Guardia Costiera tenuta in rada per dieci giorni lo scorso agosto. Che il blitz della Mare Jonio sia stato studiato a tavolino, nei tempi e nei modi, è più che un sospetto. La Guardia costiera libica ha fatto sapere che si trovava "a cinque miglia dal gommone in panne", quando l'imbarcazione della Mediterranea è entrata in azione, e che "era in grado di recuperare in sicurezza tutte le persone a bordo". "L'intervento della nave della Mediterranea non era necessario ed è stato pretestuoso", ha spiegato all'Agi il portavoce Ayoub Qassem dicendo di "non comprendere perchè abbiano voluto prendere loro i migranti, a ogni costo, pur essendo in acque libiche". Alla richiesta di chiarimenti da parte dei libici, la ong ha spiegato che "i migranti si trovavano in una situazione di pericolo". Ma questo non è affatto vero: non si è trattato di un naufragio ma solo di un guasto al motore. Tanto che Qassem accusa i "soccorritori" italiani di aver ostacolato le operazioni di salvataggio per "interessi certamente non umanitari". Cosa c'è dunque dietro il blitz della nave capitanata dai centri sociali? Per il capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, "la coincidenza temporale con il voto sull'autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini" è evidente. "In nome del soccorso degli immigrati", Casarini e i suoi li starebbero usando "per fare battaglie politiche". È, infatti, lampante il tentativo di ricreare un'altra situazione di stallo, proprio come era successo con la Diciotti. Non a caso è stata creata un ong ad hoc che potesse mettere in mare una nave battente bandiera italiana e, a pochi giorni dal voto a Palazzo Madama, sono andati a recuperare in gran fretta 50 immigrati e li hanno portati davanti al porto di Lampedusa per innescare un nuovo braccio di ferro con il governo. "Non crediamo alle coincidenze", ha commentato Maurizio Gasparri di Forza Italia secondo cui altro non è che "una manovra politica per tornare a proporre la dissennata iniziativa delle organizzazioni non governative". Per il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, poi, siamo di fronte a "un vero e proprio ricatto politico allo Stato". "Se lo Stato cede oggi - è l'avvertimento - potrebbe mettersi in moto un processo per cui chiunque si riterrebbe libero di condizionarne le politiche con mezzi illegali".
Ong Mediterranea, "il centro sociale galleggiante". Matteo Salvini fa il nome: l'ex antagonista Luca Casarini, scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Un "centro sociale galleggiante". Così, al Viminale, definiscono la Ong Mediterranea e la sua nave Mare Ionio, che in queste ore è ferma a una miglia e mezza da Lampedusa con 50 migranti a bordo, salvati al largo della Libia. E lo stesso ministro degli Interni Matteo Salvini punta il dito contro la Ong: "L'Italia non deve cedere ai ricatti della nave dei centri sociali e di chi si rende complice dei trafficanti di esseri umani", scrive su Twitter, facendo poi un nome pesante: "Cercate in rete chi è il signor Luca Casarini". Chi ha buona memoria non faticherà a ricordarlo in prima fila a Genova 2001contro il G8 e in tante piazze d'Italia contro il governo di Silvio Berlusconi. Era uno dei leader degli antagonisti, capo dei centri sociali del Nord Est, i più temuti dalle autorità per la radicalizzazione della loro "lotta al potere". Chiuso quel capitolo, il mestrino Casarini, 52 anni a maggio, si è riciclato nel modo più semplice possibile, vale a dire nell'ampio fronte dell'internazionale pro-migranti. Da "disobbediente" (noto alle forze dell'ordine) a obbediente al verbo di George Soros e sodale delle Ong tedesche, olandesi e spagnole. Nel suo curriculum di tutto rispetto spiccano incarichi politici nell'ex Sel, detenzione domiciliare per occupazione abusiva di immobili, affidamento in prova ai Servizi sociali e, dall'1 novembre 2018, la svolta marinara.
Toghe rosse a congresso con la vignetta anti Lega. Arruolato Vauro per lanciare l'assemblea di Md. Ma l'invasione di campo scatena un altro caso, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 27/02/2019, su Il Giornale. San Martino, quando ad Amiens incontrò un povero, gli regalò metà del suo mantello: ma l'altra metà se la tenne. Il magistrato democratico del 2019, invece, al migrante regala la sua toga per intero. E rimane in giacchetta e pantaloni, con in testa - unica testimonianza superstite del ruolo - il buffo cappellino che si usa nelle cerimonie. È la vignetta di Vauro che Magistratura democratica, la corrente storica delle toghe di sinistra, ha scelto ad effigie del suo congresso nazionale. E che ha fatto storcere il naso a più d'uno, fuori e dentro del mondo giudiziario. Non solo perché quel gesto, apparentemente di puro affetto, ai critici sembra simboleggiare l'abdicazione al ruolo: il giudice che si toglie la toga rinuncia ad applicare la legge? Poi c'è la frase sotto la vignetta: «Dalla parte dei sommersi». E qua c'è poco da interpretare: sui temi della sicurezza e dell'immigrazione, Md si schiera compatta contro il governo, e dedicando a questo tema il suo congresso elegge lo scontro con il vicepremier Matteo Salvini a battaglia identitaria. Alle accuse di «fare politica», Md è abituata da sempre: colpa che ammette e anzi rivendica, in nome del diritto del cittadino-magistrato a dire la sua nella vita della polis. Ma la polemica con Salvini sui migranti ridà inevitabilmente fiato a chi da sempre accusa Md non solo di intervenire con scarso rispetto dei ruoli nella vita delle istituzioni parlamentari, ma soprattutto di non tenere separati i due ambiti. Di travasare, cioè, le opinioni politiche dei suoi militanti nelle decisioni processuali dei medesimi. Col risultato che a volte i comunicati di Md sembrano delle sentenze, e viceversa. Di questo travaso di opinioni si era visto un esempio lampante di recente, e anche lì c'era di mezzo Salvini. Era accaduto quando il tribunale dei ministri di Catania aveva deciso, contro il parere della Procura, l'imputazione coatta di sequestro di persona a carico del ministro dell'Interno, reo di avere tenuti bloccati 177 migranti a bordo della nave Diciotti: i tre giudici autori della sentenza erano tutti appartenenti a Md, e nelle loro motivazioni echeggiavano alcuni degli argomenti che più spesso Questione Giustizia, l'organo della corrente, sventola contro le politiche in materia di immigrazione del governo gialloverde. La Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, come è noto, ha votato l'immunità a Salvini: e anche questo ha innescato un moto di indignazione sulle mailing list della corrente. «Il giudice nell'Europa dei populismi», si intitola il congresso di Md che si apre domani vicino Latina: ma il vero tema rischia di essere uno più domestico e diretto, ovvero il ruolo delle «toghe rosse» all'interno della magistratura italiana. Md è in crisi, dicono i dati delle ultime elezioni interne: ma più dell'arido calcolo delle tessere, a raccontare la crisi è il disorientamento di una corrente che non riesce a sganciarsi da prassi ataviche di occupazione del potere giudiziario, fino a sposare alleanze innaturali. Su alcune nomine cruciali, all'interno del Csm i membri di Md hanno votato insieme ai destro-grillini di Autonomia e Indipendenza: la corrente il cui fondatore, Piercamillo Davigo, in una intervista alla Stampa di pochi giorni fa, ha spiegato che il problema della giustizia in Italia è che c'è troppa poca gente in galera. Una tesi che Davigo sbandiera da tempo, ma che sembrava inconciliabile con il garantismo che fu una delle ragioni fondanti di Md. Ma forse quel garantismo ormai appartiene al passato.
Le toghe rosse contro Salvini: così difendono Ong e migranti. Le parole del segretario di Magistratura democratica nella relazione con cui venerdì aprirà il XXII Congresso della corrente di sinistra delle toghe, scrive Nico Di Giuseppe, Giovedì 28/02/2019, su Il Giornale. "Il processo penale si allontana dal suo paradigma garantista: quello per cui, come ha scritto Cordero, "la caccia vale più della preda". Se i termini si invertono, la caccia non ha bisogno di regole e anzi delle regole che la ostacolano deve liberarsi. E la preda catturata deve essere esibita". Lo sottolinea Mariarosaria Guglielmi, segretario di Magistratura democratica nella relazione con cui venerdì aprirà il XXII Congresso della corrente di sinistra delle toghe, a proposito dell'arresto e del rientro in Italia del terrorista Cesare Battisti. "La messa in scena organizzata dalla propaganda di Stato per "celebrare" la fine della latitanza di Battisti - ha detto il segretario di Md - ha trasformato la vittoria dello Stato di diritto e la chiusura di una vicenda dolorosa della nostra storia in una pagina umiliante, che, come denunciato dall'Unione delle Camere penali, rappresenta nel modo più plastico e drammatico un'idea arcaica di giustizia ed un concetto primitivo della dignità umana, estranei alla cultura del nostro Paese". Attacchi anche alla riforma della legittima difesa dopo lo scontro tra Salvini e il presidente dell'Anm Minisci. "Un'idea arcaica di giustizia come vendetta privata ispira la nuova disciplina della legittima difesa. Messa al primo punto degli interventi nell'area penale previsti dal contratto di governo, questa riforma persegue in modo evidente la costruzione di una emergenza e di una retorica disancorate da razionali considerazioni volte a contemperare la molteplicità delle situazioni fattuali e la ponderazione degli interessi in gioco con la rigidità di un dato normativo", afferma Guglielmi per il quale quella della legittima difesa è una "riforma 'manifesto', con gravissime implicazioni sul piano culturale come su quello giuridico: anteporre l'inviolabilità del domicilio alla tutela incondizionata della vita umana significa consumare un ulteriore strappo con il sistema dei valori della nostra Costituzione, sovvertendo la collocazione che da questo sistema ricevono e la graduazione della loro tutela conforme ad elementari principi di civiltà giuridica". Non poteva mancare poi l'allarme del razzismo e le critiche sulla gestione dei migranti. "La costruzione di nuove soggettività di tipo identitario è parte rilevante della strategia del populismo e dei neonazionalismi, che, alimentando strumentalmente la percezione dell'invasione da parte degli stranieri, ha innescato anche nel nostro Paese una deriva xenofoba e razzista, e sta rimettendo in discussione i principi e i valori fondanti della democrazia europea. Con la chiusura dei nostri porti e la messa al bando delle Ong si è consumata una violazione senza precedenti degli obblighi giuridici e morali di soccorso e di accoglienza, che derivano dal diritto interno ed internazionale. Con le vicende delle navi Aquarius e Diciotti abbiamo scritto una pagina nuova per il nostro Paese imboccando un percorso, sconosciuto ed inquietante, distante dalla traccia culturale e simbolica sino ad oggi mai abbandonata nella storia dell'Italia repubblicana. Sulla sorte dei migranti abbiamo ingaggiato una sfida con l'Europa "per la solidarietà" che rappresenta un'inversione morale di questo principio e abbiamo simbolicamente impresso una forte accelerazione al progetto di chiudere il nostro Paese nelle frontiere emotive del rifiuto e della paura".
Le toghe rosse contro Salvini: "In Italia deriva razzista e xonofoba". Magistratura democratica processa il governo: "Segnale di oscurantismo e violazioni senza precedenti". Attacchi a testa bassa a dl Sicurezza e legittima difesa, scrive Andrea Indini, Venerdì 01/03/2019, su Il Giornale. L'attacco arriva da Mariarosaria Guglielmi che, aprendo il congresso di Magistratura democratica a Roma, ha accusato il governo gialloverde dei peggiori crimini. Un'invettiva, quella fatta dalla segretaria delle toghe rosse, che rinfaccia a Matteo Salvini e a Luigi Di Maio di portare il Paese "verso un nuovo assetto normativo e culturale fortemente regressivo per i diritti e per le garanzie e verso una manomissione dei principi dello Stato di diritto che priva la giurisdizione del suo ruolo di garanzia e di terzietà". La relazione della Guglielmini è infarcita di posizioni ideologiche e riassume i malumori che negli ultimi mesi i giudici progressisti ha più volte esternato attaccando i vertici del governo Conte. Dalle politiche per contrastare l'immigrazione clandestina alle misure a sostegno della vita, Magistratura democratica impallina i principali provvedimenti approvati dall'attuale esecutivo. "In pochi mesi il volto del nostro Paese è cambiato - è l'allarme lanciato dalla Guglielmini - e sembra essersi interrotto il percorso che ha condotto sin qui la nostra democrazia". Dopo le elezioni del 4 marzo 2018, secondo le toghe rosse, in Italia si sarebbero imposti "due radicalismi simmetrici": quello sovranista, incarnato dalla Lega, che "ha intercettato il risentimento e gli ha offerto un bersaglio e un nemico, rappresentato dallo straniero", e quello del "radicalismo egualitario e camaleontico dell'antipolitica", portato avanti dai Cinque Stelle, che hanno "assecondato il ribellismo e gli umori del momento". Più che una relazione, insomma, è un atto d'accusa. Una vera e propria arringa. Che, però, in calce ammette (forse, con una punta di amarezza) "la sconfitta della sinistra" che oggi ha perso "il suo popolo". Pur senza mai nominarlo, il principale imputato di Magistratura democratica è Salvini. "Con il suo inesauribile trasformismo - lo accusano - può scendere a compromessi persino sulla pelle dei migranti abbandonati al loro destino in mare". Le parole usate contro il leader leghista sono violentissime. "Con la chiusura dei nostri porti e la messa al bando delle Ongsi è consumata una violazione senza precedenti degli obblighi giuridici e morali di soccorso e di accoglienza, che derivano dal diritto interno ed internazionale". Poi, ricordando i casi della nave Aquarius e della Diciotti, la Guglielmini parla addirittura di "un'inversione morale", che, "in pochi mesi e con pochi gesti", ha "annientato intere esperienze di integrazione e di inclusione". "Abbiamo così distrutto intere comunità cresciute intorno al valore dell'accoglienza e alle opportunità che la pacifica convivenza offre a tutta la collettività - continuano le toghe rosse - abbiamo privato 'persone' di diritti, non per quello che fanno ma perchè diverso dal nostro è il Paese dove sono nate e dal quale sono state costrette a fuggire".
Renato Farina il 2 Marzo 2019 su Libero Quotidiano, il piano perfetto dei magistrati rossi contro Matteo Salvini: come vogliono farlo fuori. Magistratura democratica è stata chiara nelle sue dichiarazioni di ieri: è guerra. Contro chi? C' è bisogno di dirlo? Matteo Salvini, ovvio. Il 9 settembre aveva lanciato un ultimatum, denunciando «la portata eversiva» delle sue idee sovraniste. Ultimatum scaduto, si bombarda. La fresca relazione della segretaria di questa corrente di togati, la dottoressa Mariarosa Guglielmi, è stata un ribollire bellico di intenzioni da repulisti ideologico. Ha detto di lui, senza nominarlo, perché Voldemort non si nomina perché altrimenti si rafforza: «Ha innescato anche nel nostro Paese una deriva xenofoba e razzista, e sta rimettendo in discussione i principi e i valori fondanti della democrazia europea. Con la chiusura dei nostri porti e la messa al bando delle Ong si è consumata una violazione senza precedenti degli obblighi giuridici e morali di soccorso e di accoglienza, che derivano dal diritto interno ed internazionale. Con le vicende delle navi Aquarius e Diciotti abbiamo scritto una pagina nuova per il nostro Paese imboccando un percorso, sconosciuto ed inquietante, distante dalla traccia culturale e simbolica sino ad oggi mai abbandonata nella storia dell'Italia repubblicana». Questi sono i magistrati che dovrebbero serenamente applicare la legge. Invece qui l'essenza della giustizia è stata identificata con la lotta politica contro il nemico populista. Nessuna sorpresa. Da quando è nata, nel 1964, Md non ha mai nascosto il progetto di un uso della giurisdizione per scopi politici. Assecondò i movimenti della sinistra extra-parlamentare. In questi ultimi mesi, dopo che si è alleata con correnti dello stesso colore (rosso) definisce così la propria identità: «È il più grande progetto della magistratura progressista, nel quale Magistratura democratica ha investito risorse, persone, elaborazioni e cultura». Viene il sospetto che tutto questo sia assai poco costituzionale, altro che applicare la legge imparzialmente come gli ingenui credono ancora tocchi ai pm e ai giudici, si tratta di cambiare il mondo con le sentenze, e intanto prepararsi a individuare nei piani di battaglia le fortezze nemiche da abbattere. Come Silvio (e Giulio) - In sintesi. Se ti chiami Matteo Salvini, così come una volta se avevi per nome Silvio Berlusconi o Giulio Andreotti, non serve commettere un reato per essere trattato da criminale dalla giustizia. Se ti chiami Matteo Salvini, basta essere Matteo Salvini. Gli anni appeso il bersaglio sul collo. Md lo ha processato fuori dal processo per aver «consumato una violazione senza precedenti», non gli importa che obbedendo a Costituzione e legge il Senato abbia stabilito che non si processano una politica, loro lo fanno, e cercheranno in ogni modo di cambiare il cammino della storia d' Italia, scelto democraticamente a suffragio universale, per bloccare «il percorso sconosciuto e inquietante» intrapreso su immigrazione e legittima difesa dal ministro dell'Interno. Per cui, ma crediamo lo sappia già, il leader della Lega si aspetti di tutto. Ha aiutato il compito dei nemici in toga, accettando di lasciar confezionare ai Cinquestelle la cosiddetta legge spazzacorrotti. Essa può essere utilizzata come una clava da magistrati animati da ideali immacolati, tanto poi le prove si trovano, «qualche garbuglio si troverà», come diceva don Basilio quando voleva incastrare l'ingenuo Figaro. Dunque bada a te, Salvini: i magistrati rossi ti puntano, ti stanno intorno, ti accerchiano con le loro baleniere, pronti a fiocinarti, dopo quella bianca, tocca alla balena verde. Hanno intorno come navigli di appoggio ideologico e propagandistico giornali di destra e di sinistra, televisioni d' ogni genere. Gli intellettuali sguaino le loro freccette avvelenate appena intinte in un cocktail. Ti scagliano contro volumi di Sofocle e statue di Antigone. C' è anche anche un vascello che funge da cappella, con vescovi e preti pronti a benedire l'eventuale «malicidio» (giudiziario, s' intende). Così san Bernardo di Chiaravalle chiamava l'uccisione dei guerrieri saraceni e specialmente del Saladino, oggi sostituito come bersaglio perfetto, nelle prediche dei monaci più à la page, dall' efferato Mat-al-Salvin. Il nuovo saladino - Massì matatelo! Del resto fu Famiglia cristiana - con la copertina in funzione di bolla papale d' anatema, con tanto di editoriale del cardinale di Agrigento - a dar forma al progetto "Vade retro Salvini!", nuovo Satana, male assoluto personificato. Non la chiamarono crociata e neanche processione, perché sono termini che ripugnano al sentire progressista, ma subito si formò, dietro il baldacchino, il corteo berciante. Organizzazioni umanitarie, tipo Emergency con Gino Strada, monasteri trasferiti a recitare il mattinale sulle pagine di Repubblica con fratel Enzo Bianchi e don Ciotti. Agitando le torce per incenerire la Strega, anzi lo Stregone. Ora si aggiungono con le loro sinistre giaculatorie i magistrati chierici, vestiti di rosso, con le toghe a far da fodero alla spada fiammeggiante di San Michele Arcangelo, pronti a infilzare il Lucifero con la felpa. Non solo, lui: puntano anche la sua masnada a trazione padana. E chi ne sostiene - come fa Libero su sicurezza e immigrazione - le politiche, con le accuse di xenofobia e razzismo. E stia attento Salvini agli amici del giaguaro che si ritrova per temporanei alleati. Stanno cercando di uccidere noi, eliminando le provvidenze per l'editoria, togliendo aria alla nostra libertà. E dunque anche alla tua. Renato Farina
Patricia Tagliaferri per ''il Giornale'' il 3 marzo 2019. Va bene che il pulpito era quello del congresso di Magistratura democratica, la corrente più di sinistra delle toghe, quella delle cosiddette toghe rosse, ma un affondo così dal vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura non si era mai sentito: la fusione tra populismo e sovranismo mette in crisi lo stato di diritto e apre a politiche della chiusura e del rancore, sostenute dall' ideologia della volontà popolare. Parole pesanti quelle di David Ermini (Pd). Un golpe politico dei magistrati? Sicuramente un discorso clamoroso quello pronunciato dal numero due del Csm, che avrà fatto fare un bel salto sulla sedia al capo dello Stato, Sergio Mattarella, che presiede l'organo di autogoverno dei giudici. Ermini sceglie queste parole per quello che suona come un attacco frontale al governo gialloverde: «Dopo la lunga crisi che ha sconvolto le economie occidentali e gli equilibri geopolitici, si è aperta un' era in qualche modo nuova, fondata sulla saldatura tra populismo e sovranismo, una fusione che, nel momento in cui si fa potere di governo, opera un salto di scala quantitativo e qualitativo nella messa in crisi dei capisaldi della democrazia costituzionale e dello stato di diritto, alimentando politiche del rancore e della chiusura e agitando l' ideologia moralistica della volontà popolare». Il nome di Salvini non compare, ma è chiaro che si parla di lui se l'argomento è il rischio di delegittimazione dei giudici a favore del giudizio popolare. Il numero due del Csm mette in guardia contro il pericolo, «che si annida nelle pulsioni populiste», di alimentare la sfiducia nei confronti dei magistrati, intaccandone la credibilità. Ermini spiega che una delle caratteristiche del populismo è «scardinare le regole» e questo «mette in crisi separazione dei poteri, indipendenza della magistratura e delle autorità di controllo, sistema di pesi e contrappesi, con il rischio di trascinare il processo democratico verso l'abisso della dittatura della maggioranza». Non serve citare l'attualità, inerpicarsi in sentieri scivolosi come quelli dei dubbi sulla legittima difesa e sul decreto sicurezza. Le parole del vicepresidente del Csm sono fin troppo eloquenti lì dove accennano al «passaggio traumatico da un passato di espansione dei diritti fondamentali e individuali, all' incognita di un presente giuridicamente regressivo, declinante verso il giustizialismo e povero di tutele». Per difendere l'autonomia della giurisdizione e l'indipendenza da qualsiasi forma di pressione, Ermini si appella a tutti gli operatori del diritto: magistrati, avvocati, accademici. L' Anm raccoglie l'assist: «L' idea di un pubblico ministero sottoposto all' esecutivo è un rischio che non possiamo e non vogliamo correre», dice il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Francesco Minisci, riferendosi all' ipotesi di una legge sulla separazione delle carriere e respingendo poi l'idea che l'azione della magistratura possa essere in qualche modo rivolta a danneggiare o a favorire una parte politica. Anche gli avvocati si scagliano contro il populismo. Ma Gian Domenico Caiazza, presidente dell'Unione delle Camere Penali, denuncia un fatto nuovo: «Il valore del populismo penale viene rivendicato come obiettivo politico». Il timore è di «assecondare le paure e scaricarle sulla legislazione e sul processo».
Marco Travaglio, il clamoroso attacco ai giudici: "Spocchiosi e ipocriti, fanno un favore a Matteo Salvini", scrive il 3 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Marco Travaglio sferza un ferocissimo attacco ai giudici: "Se qualcuno vuole capire perché Salvini continua a fare incetta di elettori di destra, centro, sinistra e 5Stelle, ma anche perché i 200 mila che ieri hanno manifestato a Milano contro il razzismo non trovano rappresentanza politica, si faccia un giro nel mondo fatato del congresso di Magistratura democratica", scrive nel suo editoriale su Il Fatto quotidiano. "Vi troverà tutti i migliori alleati del salvinismo trionfante. Cioè i vizi e i tic che hanno dannato e continuano a dannare la sinistra italiana: spocchia, autoreferenzialità, ipocrisia, doppiopesismo, astrattezza, elitismo, negazione dei problemi, allergia a tutto ciò che viene dal popolo (bue), autocompiacimento di stare dalla parte dei buoni e dei giusti, compatimento per la plebe giustizialista, populista e sovranista". David Ermini, continua Travaglio, "è uno dei più zelanti ayatollah del renzismo, che per anni ha attaccato qualunque pm osasse avvicinarsi a Renzi, guadagnandosi l'anno scorso la rinomina a deputato, per poi passare al ruolo di garanzia di numero 2 del Csm. Ma ogni tanto se ne scorda e il richiamo della foresta lo riporta agli antichi amori: l'altro giorno era alla Camera con la Boschi, impegnata a bastonare i giudici di Firenze che osano arrestare i genitori di Renzi, e poi a tavola con altri renziani anti-toghe". "In un Paese civile", sottolinea il direttore del Fatto, il presidente Sergio Mattarella e i colleghi del Csm "l'avrebbero accompagnato alla porta. Invece pontifica dal pulpito di Md: non per difendere i giudici di Firenze manganellati dai suoi compari come lui menava quelli di Napoli per Consip; ma per denunciare “la saldatura tra populismo e sovranismo” che “si fa potere di governo” e mette addirittura 'in crisi i capisaldi della democrazia costituzionale e dello Stato di diritto con le politiche del rancore e l'ideologia moralistica della volontà popolare'. Già, perché la volontà popolare va bene solo quando vince il Pd e i giudici vanno difesi solo quando li attacca B. o Salvini". Insomma, se ne è accorto anche Travaglio. "C'è chi può e chi non può. Così gli elettori di destra penseranno che avesse ragione B., quando strillava alle 'toghe rosse' e le accusava di guardare in una sola direzione. Mutatis mutandis, è la posizione di Ermini e degli astuti magistrati democratici che lo invitano a tuonare contro gli unni al governo". E, conclude: "Così ora, sul campo, restano gli opposti estremismi: da una parte Md e le Camere penali, che continuano a negare i problemi della sicurezza e dell'immigrazione incontrollata, anziché indicare soluzioni serie, e a scomunicare col ditino alzato ('populismo giudiziario') chi chiede un minimo di ordine e certezza della pena; dall'altra Salvini, che non risolve nulla ma illude tutti con la propaganda da saloon, a base di pistoleri, negri e bordelli. Indovinate chi vince".
Marco Travaglio per ''il Fatto Quotidiano'' il 3 marzo 2019. Se qualcuno vuole capire perché Salvini continua a fare incetta di elettori di destra, centro, sinistra e 5Stelle, ma anche perché i 200 mila che ieri hanno manifestato a Milano contro il razzismo non trovano rappresentanza politica, si faccia un giro nel mondo fatato del congresso di Magistratura democratica. Vi troverà tutti i migliori alleati del salvinismo trionfante. Cioè i vizi e i tic che hanno dannato e continuano a dannare la sinistra italiana: spocchia, autoreferenzialità, ipocrisia, doppiopesismo, astrattezza, elitismo, negazione dei problemi, allergia a tutto ciò che viene dal popolo (bue), autocompiacimento di stare dalla parte dei buoni e dei giusti, compatimento per la plebe "giustizialista", "populista" e "sovranista". Come se non bastassero i loro deliri vetero-ideologici contro il "populismo giudiziario" del governo, le anime belle in toga hanno chiamato i rinforzi: Gian Domenico Caizza, presidente delle camere penali, e il vicepresidente del Csm, David Ermini. Caiazza è l'istigatore della legge per separare le carriere dei magistrati, presentata dal forzista Sisto con l'appoggio dei pidini Martina e Giachetti: Md, in piena sindrome di Stoccolma, l'ha invitato a concionare al suo congresso. Ermini è uno dei più zelanti ayatollah del renzismo, che per anni ha attaccato qualunque pm osasse avvicinarsi a Renzi, guadagnandosi l'anno scorso la rinomina a deputato, per poi passare al ruolo di "garanzia" di numero 2 del Csm. Ma ogni tanto se ne scorda e il richiamo della foresta lo riporta agli antichi amori: l'altro giorno era alla Camera con la Boschi, impegnata a bastonare i giudici di Firenze che osano arrestare i genitori di Renzi, e poi a tavola con altri renziani anti-toghe. In un Paese civile, Mattarella e i colleghi del Csm l'avrebbero accompagnato alla porta. Invece pontifica dal pulpito di Md: non per difendere i giudici di Firenze manganellati dai suoi compari come lui menava quelli di Napoli per Consip; ma per denunciare "la saldatura tra populismo e sovranismo" che "si fa potere di governo" e mette addirittura "in crisi i capisaldi della democrazia costituzionale e dello Stato di diritto con le politiche del rancore e l'ideologia moralistica della volontà popolare". Già, perché la volontà popolare va bene solo quando vince il Pd e i giudici vanno difesi solo quando li attacca B. o Salvini. C' è chi può e chi non può. Così gli elettori di destra penseranno che avesse ragione B., quando strillava alle "toghe rosse" e le accusava di guardare in una sola direzione. Mutatis mutandis, è la posizione di Ermini e degli astuti magistrati democratici che lo invitano a tuonare contro gli unni al governo. Cioè contro questo barbaro "presente giuridicamente regressivo, declinante verso il giustizialismo", questo plebeo "populismo che scardina le regole e mette in crisi la separazione dei poteri, l'indipendenza della magistratura e delle autorità di controllo, col rischio di trascinare il processo democratico verso l'abisso della dittatura della maggioranza e la visione ordalica e sommaria della giustizia" (qualunque cosa voglia dire). Chissà a che titolo il vicepresidente dell'autogoverno dei giudici si permette di trinciare giudizi del genere non su singole norme (su cui il Csm ha il diritto-dovere di esprimere osservazioni), ma sulla legittima maggioranza parlamentare. Una delle sue supercazzole - "l'ottica secondo cui la decisione del giudice viene valutata secondo fuorvianti e inesistenti legami con idee di popolo dal significato emotivamente ambiguo, più vicine all' immagine della piazza o della folla" - pare alludere alla (orrenda) legge leghista sulla legittima difesa. Ora, sapete chi scrisse quella del Pd, approvata dalla Camera il 4.5.2017, che già dava licenza di uccidere i ladri in base a un semplice "turbamento psicologico", ma solo "in ore notturne"? Lo stesso Ermini che ora strepita contro la giustizia di piazza. Salvini si è limitato a copiare la sua boiata e a estenderla alle ore diurne. Naturalmente Ermini non fa alcun mea culpa, confidando nella smemoratezza di Md (che, quando certe porcate le faceva il Pd, taceva e acconsentiva). E nessuno di chi grida alla barbarie giustizialista si domanda perché la propaganda securitaria è così popolare fra gli elettori di ogni tendenza. Eppure è semplice, banale: la gente non ne può più di uno Stato incapace di mettere ordine nelle strade, garantire certezza delle pene e tutelare le vittime dei reati. Questo è "il" problema, che poi ha soluzioni diverse. Quelle xenofobe, forcaiole e incivili di Salvini (quasi tutte avviate o tentate dal centrosinistra) non risolvono nulla, ma le conoscono tutti. Il ministro Bonafede aveva provato a realizzarne di civili, utili ed efficaci, bloccando la Svuotacarceri del predecessore (molto gradita ai decarceratori di Md), fermando la prescrizione e alzando il rischio giudiziario per corrotti e corruttori (come in passato chiedevano anche i magistrati, Md inclusa). Ma il Csm e Md, per non parlare delle Camere penali, hanno alzato le barricate perché è vietato dire che i 5Stelle fanno anche cose giuste (e sono gli unici a subire processi, anche fantasiosi come quelli alla Raggi e a Nogarin, senza dire una parola contro i magistrati). Il resto l'ha fatto l'informazione di regime, oscurando una buona riforma come la Spazzacorrotti, attesa dai tempi di Mani Pulite. Così ora, sul campo, restano gli opposti estremismi: da una parte Md e le Camere penali, che continuano a negare i problemi della sicurezza e dell'immigrazione incontrollata, anziché indicare soluzioni serie, e a scomunicare col ditino alzato ("populismo giudiziario") chi chiede un minimo di ordine e certezza della pena; dall'altra Salvini, che non risolve nulla ma illude tutti con la propaganda da saloon, a base di pistoleri, negri e bordelli. Indovinate chi vince.
Toh, Travaglio scopre i pm politicizzati, scrive Luca Fazzo, Lunedì 04/03/2019, su Il Giornale. Ci sono voluti 55 anni, 4 mesi e 12 giorni: ma alla fine Marco Travaglio, dopo un'intera esistenza spesa a tifare per le toghe (più precisamente, per i pm: perché i giudici giudicanti hanno talvolta il vizietto, per lui imperdonabile, di assolvere) ha scoperto che i giudici italiani sono malati di «spocchia, autoreferenzialità, ipocrisia, doppiopesismo, astrattezza, elitismo, compiacimento di stare dalla parte dei buoni e dei giusti». Caratteristiche delle nostre toghe che i lettori del Giornale conoscono bene, ma che quelli del Fatto Quotidiano si sono visti spiattellare a sangue freddo, ieri mattina, nell'editoriale del direttore. Facile immaginare il disorientamento tra i lettori del quotidiano che il mitico Frank Cimini ha ribattezzato il Manette Daily, brava gente abituata a tenere l'icona di qualche pm sulla mensola come quella di Padre Pio: e che ora si sentono dire senza preavviso che tra i magistrati circolano «deliri vetero-ideologici». Roda da fargli venire un coccolone. Forse l'età ha illuminato Travaglio, o forse si è semplicemente letto le statistiche da brividi sulla quantità di innocenti che finiscono in galera; forse ha scoperto che in magistratura fa più carriera chi ha la tessera giusta di chi sgobba come un mulo; o magari si è reso conto che è proprio la «spocchia» dei magistrati, la loro distanza dal modo di pensare della gente normale, a produrre certe sentenze aberranti. In ogni caso, verrebbe da dire: «Benvenuto tra noi, caro Marco». Peccato che poi, leggendo con attenzione l'articolessa del direttore, superato lo choc iniziale, si scopre che a risultare improvvisamente indigesti a Travaglio non sono i magistrati in genere, e nemmeno quella loro espressione un po' perversa che sono le correnti interne al Csm. No, a incarnare la sequenza di peccati mortali snocciolati nell'editoriale, è una e una soltanto delle correnti delle toghe: Magistratura democratica, la sigla storica dei giudici di sinistra, che in questi giorni ha tenuto il suo congresso. Md, e i nostri lettori lo sano bene, ha molte colpe: lo stesso congresso concluso ieri ha confermato la sua incapacità cronica di distinguere tra poteri dello Stato. Purtroppo a risultare indigesta a Travaglio non è stata la pretesa delle toghe rosse di dettare le leggi al Parlamento, ma - paradossalmente - l'unica scelta meritoria del congresso, quella di dare la parola anche ai rappresentanti degli avvocati: quasi un'ovvietà, che diventa un peccato mortale per chi considera gli avvocati, e il diritto di difesa in genere, l'arma dei criminali per schivare la legge. Md è spocchiosa? Sì, certo. Ma è un falso abbagliante indicarla come unica depositaria di guai dolorosamente trasversali alla categoria. A considerarsi antropologicamente superiori al popolo bue, caro Travaglio, sono giudici di tutte le correnti: compresi quelli di Autonomia e Indipendenza, la sigla del tuo amico Piercamillo Davigo, appena nata e già in crisi. Spiegalo ai tuoi lettori, magari non tra altri 55 anni. Altrimenti la tua indignazione si riduce ad uno spot - inutile e un po' triste - per la corrente dei giudici grillini. Luca Fazzo
Ora i servizi accusano le Ong: "Così importiamo l'illegalità". La relazione degli 007: "Con lo stop alle navi umanitarie si abbassa il rischio di importare criminalità". Assist a Salvini, scrive Luca Romano, Domenica 03/03/2019 su Il Giornale. La relazione annuale dei servizi segreti promuove la linea del governo e del Viminale che di fatto hanno dato una stretta alle operazioni in mare da parte delle Ong sul fronte migranti. Gli 007 italiani sono convinti che questo blocco delle navi umanitarie abbia abbassato i rischi di importare illegalità nel nostro Paese. Il documento presentato dal premier, Giuseppe Conte e dal direttore del Dis (il coordinamento) Gennaro Vecchione e dai direttori dei due servizi Luciano Carta (Aise, estero) e Mario Parente (Aisi, interno) mette a fuoco quanto accaduto negli ultimi tempi sul fronte sbarchi: "Nel 2018 gli sbarchi di migranti sulle coste italiane si sono ridotti dell’80 per cento rispetto al 2017 e tale sviluppo è da attribuire soprattutto alla rafforzata capacità della Guardia costiera libica nella vigilanza delle acque territoriali, fortemente promossa dal governo italiano, e alla drastica riduzione delle navi delle Ong nello spazio di mare prospiciente quelle coste che, di fatto, ha privato i trafficanti della possibilità di sfruttare le attività umanitarie ricorrendo a naviglio fatiscente e a basso costo". Le carte, come aveva sottolineato gliocchidelleguerra hanno mostrato una riduzione drastica degli sbarchi che è legata anche alle operazioni della Guardia Costiera nel Mediterraneo. Ma il rapporto, come riporta il Fatto, mette in luce anche le attività delle ong di questi ultimi anni che avrebbero favorito con i loro salvataggi e i relativi sbarchi sulle nostre coste la vita ai trafficanti di uomini. Già nel 2017 gli 007 avevano lanciato l'allarme. I servizi infatti avevano sottolineato la possibile presenza di infiltrazioni terroristiche all'interno dei barconi che puntavano alle coste dell'Italia. Qui sarebbe entrato in gioco il ruolo delle ong che con i loro salvataggi avrebbero dunque favorito poi lo sbarco di presunti criminali sul territorio italiano. Dunque dai servizi di intelligence arriva un'analisi che ha il sapore di un assist per il Viminale a guida Salvini. Il ministro degli Interni non fa passi indietro e davanti alla manifestazione di Milano che ha contestato il suo operato fa sapere che la linea della Lega non cambierà.
Immigrati, il dossier dei servizi segreti e l'assist a Matteo Salvini: "Senza Ong meno illegalità", scrive il 3 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Un dossier dei servizi segreti offre un assist pazzesco a Matteo Salvini in tema di immigrazione e illegalità. C'è infatti un passaggio della relazione annuale sull'attività di intelligence presentata giovedì e riportata dal Fatto quotidiano che seppur passato in sordina ha una forte rilevanza politica. Gli sbarchi nel 2018, cioè con il leader della Lega ministro degli Interni si sono ridotti dell'80 per cento rispetto all'anno precedente e "tale sviluppo è da attribuire soprattutto alla rafforzata capacità della Guardia costiera libica nella vigilanza delle acque territoriali, fortemente promossa dal governo italiano, e alla drastica riduzione delle navi delle Ong nello spazio di mare prospiciente quelle coste che, di fatto, ha privato i trafficanti della possibilità di sfruttare le attività umanitarie ricorrendo a naviglio fatiscente e a basso costo". Il documento, presentato dal premier Giuseppe Conte, titolare della delega ai servizi segreti, dal direttore del Dis (il coordinamento) Gennaro Vecchione e dai direttori dei due servizi Luciano Carta (Aise, estero) e Mario Parente (Aisi, interno) mette nero su bianco la relazione tra la presenza delle ong al largo della Libia e il business dei trafficanti di esseri umani. Il rapporto accusa in sostanza le organizzazioni non governative di aver favorito l'attività dei trafficanti che così lasciavano centinaia di migranti su gommoni instabili perché sapevano che le navi umanitarie sarebbero intervenute. Il 10 aprile 2018 la Guardia di Finanza aveva smantellato una organizzazione attiva tra Nabeul (Tunisia) e la Sicilia che trasportava "clandestini": "La rilevata presenza, nel circuito gravitante attorno al sodalizio, di soggetti attestati su posizioni jihadiste è valsa a ribadire il pericolo che il canale gestito dall'organizzazione potesse essere sfruttato per il trasferimento di estremisti, oltre che di individui ricercati per gravi reati". Insomma, un assist a Salvini ma anche a Conte che tiene molto alla sua delega ai servizi.
L’uomo che ha creato il caso ong, scrive il 2 febbraio 2019 Il Post. La storia dell'ex poliziotto che – mentre era imbarcato sulla nave di una ong – passò informazioni ai servizi segreti e allo staff di Salvini (e oggi dice di essersi pentito). «Oggi mi vergogno. Profondamente». L’ex poliziotto Pietro Gallo dice di essere pentito per il ruolo che ha avuto nella creazione del cosiddetto “scandalo ong”, la polemica contro le organizzazioni non governative impegnate nei salvataggi di migranti nel Mediterraneo centrale. Tra il 2016 e il 2017, quando lavorava come agente di sicurezza a bordo della nave Vos Hestia dell’ong Save the Children, Gallo fornì informazioni e dossier sulle ong ai servizi segreti e allo staff di Matteo Salvini; le sue azioni contribuirono a trasformare i salvataggi in mare in un argomento politico controverso e le ong nell’avversario principale di opinionisti e forze politiche contrarie all’immigrazione. Inoltre, l’indagine su tre ong portata avanti dalla procura di Trapani e partita dalle sue denunce è una delle poche ancora in corso. Oggi però Gallo dice di essersi pentito e di sentirsi in colpa per le centinaia di persone morte nel Mediterraneo; inoltre, accusa Salvini di essere un ingrato per aver abbandonato lui e i suoi colleghi. La “confessione” di Gallo è arrivata grazie a un’intervista, pubblicata dal Fatto Quotidiano e data al giornalista Antonio Massari, che segue da anni la vicenda. «Il mio obiettivo non era impedire alle ong di salvare la gente, anzi», ha raccontato Gallo. «Quando sento che 170 persone sono morte in mare perché non c’era nessuno a soccorrerle mi sento responsabile». Gallo si imbarcò per la prima volta sulla Vos Hestia nel settembre del 2016 insieme un altro ex poliziotto, Lucio Montanino. Un’altra ex poliziotta, che avrà una parte importante in questa storia, Floriana Ballestra, rimase invece a terra. Tutti e tre erano impiegati dalla Imi Security Service, una società di sicurezza privata ingaggiata per svolgere servizio sulla nave noleggiata da Save the Children, una delle ong più note e organizzate tra quelle che hanno operato nel Mediterraneo Centrale. A bordo della nave, Save the Children forniva personale medico e avvocati esperti di diritto dell’immigrazione. L’armatore, cioè il proprietario della Vos Hestia, forniva l’equipaggio e si era riservato il diritto di scegliere a chi affidare le attività di sicurezza: attività che comportavano da un lato mantenere ordine a bordo ed evitare violenza, dall’altro anche scendere in mare con i gommoni per effettuare i salvataggi insieme agli altri soccorritori. Dal settembre 2016 fino a luglio 2017, Gallo lavorò a stretto contatto con l’equipaggio della nave, effettuando spesso i soccorsi in prima persona insieme agli altri membri dell’equipaggio. In quei mesi la Vos Hestia, insieme alle altre imbarcazioni delle ong, operava a poca distanza dalle acque territoriali libiche, in un braccio di mare che dalla fine della missione Mare Nostrum nel 2014 era stato lasciato sostanzialmente scoperto: la nuova missione navale frutto dell’accordo tra le istituzioni europee e il governo Renzi (Triton, diventata Themis) aveva come scopo la tutela delle frontiere italiane, e quindi le navi che ne facevano parte raramente si avvicinavano alle acque libiche, come invece spesso avveniva con Mare Nostrum, una missione esplicitamente dedicata al salvataggio. Nel corso del 2015 e poi del 2016, ong e singoli finanziatori privati si fecero avanti per riempire quel vuoto: furono noleggiate e attrezzate navi con lo scopo di effettuare soccorsi anche molto vicino alla Libia. Era proprio lì che Gallo e i suoi colleghi della Imi Security Service si trovavano a operare alla fine del settembre 2016. Erano passati appena venti giorni dal loro imbarco sulla Vos Hestia, ma Gallo e gli altri avevano già deciso che l’attività delle ong era irregolare e andava denunciata. Gallo e Floriana Ballestra, che era rimasta a terra, scrissero allora allo staff di Matteo Salvini e ad Alessandro Di Battista, importante dirigente del Movimento 5 Stelle, mentre Ballestra inviò una relazione lunga una decina di pagine al Dipartimento di Informazioni sulla Sicurezza, cioè i servizi segreti. Infine, il 14 ottobre, un paio di settimane dopo aver avvertito politici e servizi segreti, Gallo decise di fare una vera e propria denuncia ai carabinieri. In sostanza, Gallo e gli altri accusavano diverse ong di essere coinvolte in episodi ambigui o sospetti. Il loro principale obiettivo erano le ong più piccole e meno strutturate (spesso infatti, pur restando a bordo della Vos Hestia, Gallo aveva modo di osservare le altre imbarcazioni impegnate nei salvataggi o di collaborare con loro in operazioni di soccorso). Gallo denunciò di aver visto migranti che fumavano hashish a bordo delle navi e altri a cui veniva permesso tenere dei coltelli che avevano portato a bordo dopo essere stati salvati. L’accusa principale però fu rivolta all’equipaggio della nave Iuventa, dell’ong Jugend Rettet (un’organizzazione abbastanza piccola e spericolata). Secondo Gallo e Ballestra, l’ong tedesca aveva rapporti ambigui con i trafficanti e sembrava che fosse in combutta con loro per trasferire i migranti dalle imbarcazioni di fortuna alla loro. La procura di Palermo ha archiviato la sua indagine sulla Jugend Rettetm e le altre ong, quella di Trapani invece sta ancora indagando dopo circa due anni e mezzo dalla denuncia di Gallo. A quanto racconta Gallo, i risultati dei contatti con la politica e i servizi segreti furono al di sotto delle loro aspettative. Di Battista non si fece sentire e il DIS, cioè i servizi segreti, fecero più o meno altrettanto. L’unico che mostrò un po’ di interesse fu Salvini. Il 22 ottobre, una settimana dopo aver fatto la denuncia ai carabinieri, Gallo ricevette un messaggio da Ballestra: «Sarebbe utile avere la registrazione di qualcuno di Save the Children che ammette che fanno tutto per pubblicità…». La richiesta, racconta oggi Gallo, arrivava da qualche esponente della Lega o dallo stesso Salvini. Gallo registrò qualche conversazione sulla nave, ma non riuscì a procurarsi nulla di solido. Interrogato in diverse occasioni sulla vicenda, Salvini inizialmente aveva negato di conoscere Gallo e Ballestra, poi ha cambiato versione e ha ammesso di aver scambiato alcuni messaggi con il primo e di aver avuto un colloquio personale con la seconda, avvenuto a Milano il 27 febbraio del 2017 (un colloquio dal quale entrambi sostengono che non uscì molto). In questo incontro, probabilmente, Ballestra riferì a Salvini della “relazione” che aveva fornito al DIS e che presto si sarebbe trasformata nel principale contributo che Gallo e gli altri fornirono alla polemica sulle ong. Non furono infatti loro i primi a far iniziare il caso. Ci aveva già pensato FRONTEX, l’organizzazione con il compito di vigilare sulle frontiere dell’Unione Europea e che in quel periodo era impegnata (e lo è ancora) nell’assistenza alla marina e alla guardia costiera italiana. Già alla fine del 2016 erano circolati dei rapporti interni di FRONTEX molto critici con le ong, e a febbraio dell’anno successivo il capo dell’organizzazione confermò le accuse in un’intervista. La polemica fu cavalcata e trasformata in un tema di portata nazionale dal capo politico del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, il primo a usare in Italia l’espressione “taxi del mare” per descrivere le ong. Le stesse accuse vennero riprese dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro (diventato da quel momento il principale accusatore delle ong, seppure senza mai sostanziare i suoi sospetti), il quale aggiunse anche un particolare: le sue indagini sulle ong si basavano tra le altre cose su un rapporto “proveniente da fonti legate all’intelligence italiana”: dai servizi segreti, insomma. Il “rapporto dei servizi segreti” divenne in breve uno dei temi principali della polemica contro le ong. A chi chiedeva quali prove di contatti ci fossero, veniva in genere risposto: sono tutte nel rapporto dei servizi segreti. Nessuno però sembrava averlo visto, questo rapporto. Il senatore leghista Giacomo Zucchi, che presideva il comitato di controllo parlamentare sui servizi segreti, negò che quel rapporto esistesse, smentendo il suo stesso segretario Salvini che aveva detto: «A me risulta un dossier dei servizi segreti su contatti tra ong e trafficanti». Oggi, dopo le confessioni di Gallo, sembra molto probabile che quel “dossier dei servizi segreti” di cui parlava all’epoca Salvini, e che costituiva una delle principale accuse alle ong, fosse in realtà la “relazione” inviata ai servizi segreti da Ballestra, la collega di Gallo rimasta a terra. Il 13 marzo 2017, infatti, secondo quanto ricostruito da Massaro, Ballestra incontrò di nuovo Salvini e gli consegnò proprio la “relazione” che aveva già fatto avere ai servizi segreti. Che le cose siano andate davvero così o meno, oggi Gallo sembra avere le idee chiare. Quando il giornalista del Fatto gli ha chiesto se alla fine, dopo tutto quanto, lui ha mai visto equipaggi di ong avere rapporti ambigui con gli scafisti, la sua risposta è stata secca: «No, mai». Molte altre cose in questa storia invece continuano a rimanere poco chiare. Cosa dissero esattamente Gallo e i suoi colleghi a Salvini? Con chi altri si consultarono e cosa dissero loro? Quanto a lungo durarono i contatti e quanta parte del dibattito pubblico fu effettivamente influenzato dalle informazioni che passarono? Rimane piuttosto misterioso anche spiegare perché Gallo e gli altri decisero di intraprendere questa battaglia, che alla fine non sembra aver portato loro granché. Oggi Gallo dice che sperava che Salvini facesse un’interrogazione parlamentare sulle ong (cosa che non fece) o sollevasse in altra maniera il caso politico; dice che il suo obiettivo era una «regolamentazione delle ong» e non «la loro sparizione» (ma quando arrivò il regolamento del ministro Minniti, Gallo scrisse una lettera al Giornale per dire che era inutile). Dice che non ha mai chiesto niente in cambio a Salvini, salvo fargli presente che le denunce sarebbero probabilmente costate il lavoro a lui e ai suoi colleghi. Di sicuro, negli stessi giorni in cui consegnava il dossier a Salvini, Ballestra inviò il suo curriculum al braccio destro del segretario della Lega, l’allora assessore leghista Edoardo Rixi (oggi vicesegretario federale della Lega), ma non ne ottenne nulla. Oggi sia Salvini che Rixi negano di aver favorito in alcun modo gli ex poliziotti in cambio delle informazioni ricevute, e minimizzano l’impatto delle loro segnalazioni. Gallo si lamenta amaramente dell’ingratitudine di Salvini e quando nell’intervista con Massari dice di vergognarsi per «aver fatto la spia» per conto di Salvini, aggiunge in maniera eloquente «anche per l’assenza di solidarietà e gratificazione».
I soliti sindaci rossi allergici alle leggi: "Facciamo sbarcare la Sea Watch". La Sea Watch fa rotta sull'Italia. Salvini: "Qui non può sbarcare". Ma i sindaci rossi sono pronti ad aprire il porti delle città che governano, scrive Sergio Rame, Giovedì 24/01/2019, su "Il Giornale". È sempre il solito braccio di ferro. Ogni qual volta la nave di una Ong prova ad attraccare in un porto italiano per scaricare i migranti raccolti nel Mar Mediterraneo, i soliti sindaci rossi allergici alle leggi si schierano contro il Viminale e tentano il blitz. Niente di nuovo. Anche oggi nello scontro tra Matteo Salvini e la Sea Watch, che sta facendo rotta verso l'Italia con a bordo una cinquantina di clandestini recuperati al largo della Libia, Luigi De Magistris e Leoluca Orlando si sono messi di mezzo offrendo i propri porti per l'attracco contravvenendo così alle disposizioni del ministero dell'Interno. "La nave di Sea Watch che ha fatto a gara con la guardia costiera libica per andare a raccogliere 47 immigrati ha vagato davanti alla Tunisia senza far nulla. Ha vagato davanti a Malta senza fare nulla e adesso arriva in Italia? Nisba". Salvini non è disposto a mollare di un solo millimetro. Se l'Ong tedesca vuole trovare una soluzione, deve cercare altri porti verso cui fare rotta. "Andate in Olanda, in Francia, in Germania, andate dove volete ma non qui - suggerisce il numero uno del Viminale - fatevene una ragione". In Italia, però, c'è chi non è disposto a farsene una ragione: la sinistra. E così continuano le schermaglie da parte di chi non vuole proprio mettere un freno all'immigrazione clandestina. Questa mattina Orlando ha inviato una lettera al comandante della nave Sea Watch 3 che nei giorni scorsi ha salvato 47 immigrati nel Mediterraneo e alla quale non è stato ancora indicato un porto per l'attracco e lo sbarco. "Di fronte alle ennesime tragedie del mare causate da politiche criminali e criminogene dell'Europa e dell'Italia - afferma il sindaco di Palermo - e di fronte all'impegno umano e civile di chi salva vite umane, chiediamo con urgenza che nel rispetto della Costituzione italiana e del diritto internazionale, sia garantito al più presto un approdo sicuro". E, come sempre, mette a disposizione il porto della propria città per "accogliere questi naufraghi e gli uomini e le donne che li hanno salvati da morte certa". Lo stesso ha fatto De Magistris aprendo il porto di Napoli. "Lo diremo sempre - spiega il primo cittadino - finché ci saranno governi disumani che agiscono in maniera antigiuridica. Lasciare persone a rischio di morte in mezzo al mare è un atto disumano e che va in violazione alle regole generali del diritto internazionale e della navigazione". Quindi, passa ad attaccare Salvini e il governo gialloverde: "Napoli non sarà mai complice di crimini contro l'umanità, semmai saremo testimoni quando un giorno finalmente si processeranno nei tribunali le persone responsabili di questi atti indegni e criminali".
Sea Watch, deputati a bordo: il "blitz" a largo di Siracusa. Tre parlamentari sono saliti sulla nave della ong tedesca: "Siamo qui per fare verifiche. Devono sbarcare tutti", scrive Luca Romano, Domenica 27/01/2019, su "Il Giornale". Il caso Sea Watch non accenna a chiudersi. La nave è ancora ancorata a largo di Siracusa. A bordo ci sono 47 migranti. Come è noto la ong tedesca ha chiesto di far sbarcare i migranti ma dal Viminale è arrivato un secco "no". Il ministro degli Interni ha ribadito che i porti italiani restano chiusi e che nessuno metterà piede sul nostro territorio nazionale. Salvini ha poi rifiutato l'offerta di ospitalità per i minori da parte della Cei e così ha proseguito sulla sua linea che prevede uno stop agli sbarchi da navi delle ong. Linea questa condivisa anche dal ministro Toninelli che ieri ha puntato il dito contro la Sea Watch affermando che ha violato le leggi del mare ignorando i porti tunisini più vicini all'imbarcazione prima della virata verso l'Italia. Ma questa mattina a bordo della nave è salito un gruppo di parlamentari che ha voluto verificare le condizioni dei migranti a bordo. Ad annunciarlo è stato il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni: "Insieme ai colleghi deputati Prestigiacomo e Magi, al sindaco di Siracusa, ad attivisti di associazioni di volontariato e ad alcuni legali, siamo a bordo della nave Sea Watch, nonostante il divieto delle autorità che ieri ha impedito che potessimo esercitare le nostre prerogative costituzionali. Verificheremo la situazione a bordo, e continuiamo a chiedere che i naufraghi e l'equipaggio - conclude Fratoianni - siano fatti sbarcare in rispetto delle norme internazionali". Anche la forzista Stefania Prestigiacomo ha fatto sapere della sua presenza a bordo della nave: "'è mare brutto e fa molto freddo: noi siamo perchè scendano tutti a terra, dando la precedenza ai minori, ma che scendano tutti. La questione migranti non è uno show mediatico di esibizione di forza ma va affrontata in modo serio e senza mettere a rischio vite umane". E ancora: "Non si potevano comprimere le nostre prerogative parlamentari che ci consentivano di salire a bordo e così siamo saliti - afferma Prestigiacomo - Ieri, altro fatto gravissimo e senza precedenti, l'autorità marittima sanitaria non aveva accolto la richiesta di accertamento sanitario. E' un fatto grave perchè è stata negata per evitare qualsiasi tipo di contatto con chi si trova a bordo e impedire che si aprano così le procedure propedeutiche allo sbarco". Infine la stessa ong ha confermato quanto accaduto questa mattina: "Una delegazione composta da Nicola Fratoianni, Riccardo Magi, Stefania Prestigiacomo, il sindaco di Siracusa Francesco Italia, la portavoce di Sea Watch Giorgia Linardi, 2 avvocati, un medico psichiatra e un membro di RescueMed, è salita a bordo della Sea Watch questa mattina". Dopo il "blitz" dei tre parlamentari è arrivata la reazione di Matteo Salvini: "Parlamentari italiani (fra cui uno di Forza Italia) non rispettano le leggi italiane e favoriscono l’immigrazione clandestina? Mi spiace per loro, buon viaggio!". Pronta la risposta della Prestigiacomo: "Salvini agisca di conseguenza, come ritiene opportuno. Non abbiamo violato la legge, ma esercitato le nostre prerogative di parlamentari. Dunque, non abbiamo violato un bel niente", ha affermato l'azzura all'Adnkronos. Lo scontro è aperto.
Sea Watch, Alessandra Mussolini scatenata contro Forza Italia: "Ormai state coi comunisti", scrive il 27 Gennaio 2019 Libero Quotidiano". Blitz a bordo della Ong Sea Watch, ormeggiata al largo di Siracusa. A salire sulla nave tre parlamentari: Fratoianni di Leu, Magi di +Europa ma soprattutto Stefania Prestigiacomo di Forza Italia. I tre hanno chiesto a Matteo Salvini, che non arretra di un millimetro, di far sbarcare subito i 47 immigrati a bordo. Pesantissima da un punto di vista politico la presenza di un esponente di spicco di Forza Italia, la Prestigiacomo, da sempre vicinissima a Silvio Berlusconi, il quale soltanto poche ore fa aveva criticato le politiche di Salvini in tema di immigrazione. E la presenza dell'esponente azzurra sulla Sea Watch ha scatenato Alessandra Mussolini, ex Forza Italia e sempre più polemica nei confronti del suo vecchio partito. La critica, feroce, viaggia su Twitter, dove la Duciona posta un articolo di corriere.it che riassume la vicenda e commenta, laconica: "Ormai si preferisce Fratoianni a Salvini. Mi dispiace dire l'avevo detto...". Frase che non ha bisogno di alcuna spiegazione.
La Corte di Strasburgo boccia la Sea Watch: "No allo sbarco dei migranti". Sea Watch ha perso il ricorso alla Cedu: l'Italia dovrà fornire assistenza ai migranti, ma non dovrà farli sbarcare, scrive Bartolo Dall'Orto, Martedì 29/01/2019, su "Il Giornale". Le richieste e le denunce della Ong finiscono in un buco nell'acqua. O quasi. Stamattina era trapelata la notizia della decisione della Sea Watch di ricorrere alla Corte dei diritti dell'uomo contro l'Italia per essersi rifiutata di ricevere i 47 migranti a bordo della nave. L'accusa è quella di aver "violato i diritti fondamentali delle persone soccorse". Ma la corte di Strasburgo, pur chiedendo a Roma di "fornire a tutti i richiedenti adeguate cure mediche, cibo, acqua e forniture di base", non ha accolto le richieste della Ong. Niente sbarco, l'Italia non è obbligata a far approdare sulle proprie coste gli immigrati. Nella sentenza, la Corte dei diritti dell'uomo invita il Belpaese a "prendere tutte le misure necessarie" per fornire i soccorsi necessari alla permanenza sulla nave di migranti e per i minori non accompagnati chiede di "fornire adeguata tutela legale". Inoltre, l'Italia dovrà tenere regolarmente informata la Corte sugli sviluppi delle condizioni dei richiedenti asilo, ma non sarà costretta a farli sbarcare. Un punto a favore di Salvini e del governo, fermo nel tenere chiusi i porti. E un duro colpo per Sea Watch e buonisti vari che da ore chiedono lo sbarco immediato dei 47 clandestini.
Il ricorso di Sea Watch. Secondo l'Ong, "un'operazione di soccorso in mare, secondo il diritto internazionale, si dichiara conclusa solo con lo sbarco in un porto sicuro, che deve essere garantito nel più breve tempo possibile". Un fatto che "non può essere subordinato ad alcuna negoziazione tra Stati in merito a una eventuale redistribuzione delle persone soccorse, o per qualunque altro motivo". E visto che la Libia non può essere considerata un porto sicuro di sbarco, allora per Sea Watch dovrebbe essere Roma a farsene carico. L'Ong aveva posto a giudizio della Corte di Strasburgo "la condotta del Governo italiano e delle amministrazioni coinvolte in questa vicenda". Impedire ai migranti di scendere è, secondo Sea Watch, una "forma di illegittima e informale detenzione di fatto, in chiara violazione di quanto stabilito dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo sull'inviolabilità della libertà personale". "La Sea-Watch 3 - si legge nella nota - non è stata autorizzata fin dalla giornata del 25 gennaio a lasciare il 'punto di fonda' nel quale è ancorata e tutte le persone a bordo sono di fatto trattenute sulla nave in condizioni igieniche e di salute psico-fisica che si stanno deteriorando velocemente". Nel loro ricorso alla Corte, l'Ong era stata chiara: quanto già fatto dall'Italia, ovvero aver offerto generi di prima necessità, non può essere considerata "misura sufficiente a porre termine alla violazione dei diritti delle persone a bordo". L'unica soluzione, dicono, è quella dello sbarco per tutti i migranti, sia minorenni che maggiorenni. Peccato che la Corte dei diritti di Strasburgo non la pensi così. E, rigettando il ricorso dell'Ong, abbia detto no allo sbarco.
Le cose da sapere sul nuovo scontro intorno alla Sea Watch. Salvini ribadisce che il porto di Siracusa resta chiuso. E la Corte di Strasburgo non ordina lo sbarco. Germania e Francia disponibili ad accogliere una parte dei naufraghi. Vertice nella notte a Palazzo Chigi, scrive il 27 gennaio 2019 lettera43.it. Il caso Sea Watch è arrivato alla Corte europea del diritti dell'uomo, dopo che il comandante della nave ha chiesto un intervento urgente per uscire dallo stallo. I giudici di Strasburgo si sono espressi rapidamente, chiedendo all'Italia di «prendere il prima possibile tutte le misure necessarie per assicurare ai ricorrenti cure mediche adeguate, cibo e acqua», e per garantire ai minori non accompagnati anche una «tutela legale». Non è stata accolta, invece, la richiesta di ordinare all'Italia lo sbarco dei migranti. Roma, da parte sua, ha depositato una memoria difensiva ritenendo che il caso riguardi i Paesi Bassi, poiché la Sea Watch batte bandiera olandese. Il governo si rende disponibile, una volta riconosciuta la giurisdizione olandese, a offrire «un corridoio umanitarioal fine di consentire un trasferimento dei migranti verso l'Olanda». Nella notte tra il 29 e il 30 gennaio, inoltre, il premier Giuseppe Conte ha detto che «ci sarà un vertice con i vice premier e si parlerà anche della Sea Watch». Quanto invece alla vicenda Diciotti, Conte si è assunto «la piena responsabilità politica di quello che è stato fatto. Non sarò certo io a suggerire ai senatori cosa votare, saranno loro che giudicheranno la linea politica del governo».
LA DENUNCIA DI SEA WATCH. La Sea Watch, nel suo ricorso, aveva sostenuto che «com'è noto, un'operazione di soccorso in mare, secondo il diritto internazionale, si dichiara conclusa solo con lo sbarco in un porto sicuro, che deve essere garantito nel più breve tempo possibile. Ciò non può essere subordinato ad alcuna negoziazione tra Stati in merito a una eventuale redistribuzione delle persone soccorse, o per qualunque altro motivo. Un porto si considera sicuro anche in base al reale trattamento che le persone subirebbero una volta sbarcate: per questa ragione la Libia non è riconosciuta dalle Nazioni unite e dall'Unione europea come un porto sicuro di sbarco». La Ong chiedeva quindi alla Corte di valutare «la condotta del governo italiano e delle amministrazioni coinvolte in questa vicenda, nei termini in cui prefigura una gravissima violazione dei diritti fondamentali delle persone soccorse e in particolare del loro diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione). Impedire alle persone di scendere dalla nave costituisce anche una forma di illegittima e informale detenzione di fatto, in chiara violazione di quanto stabilito dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo sull'inviolabilità della libertà personale». Anche l'Olanda e la Germania hanno preso posizione sul caso. Un portavoce del ministero dell'Interno tedesco ha dichiarato che Berlino èdisponibile all'accoglienza: «Il governo tedesco si è già dichiarato pronto con la Commissione europa addetta al coordinamento a un contributo solidale insieme ad altri Stati membri». L'Olanda, invece, si è limitata a ribadire che «non è obbligata» a prendere in carico i migranti. Il ministero delle Migrazioni dei Paesi Bassi ha ricordato di aver «preso atto della richiesta dell'Italia di registrare i migranti, richiesta fornita tramite i canali diplomatici appropriati», ma che «spetta al capitano di Sea Watch trovare un porto sicuro per lo sbarco». Mentre la Francia, con il presidente Emmanuel Macron, ha detto che «bisogna applicare tre principi: il principio dello sbarco nel porto più vicino, cioè l'Italia; il principio della distribuzione dell'onere, cui la Francia non intende sottrarsi; e infine il diritto, ovvero dobbiamo fare in modo che le Ong rispettino le regole». Il premier italiano Giuseppe Conte ha quindi ringraziato i «Paesi amici che hanno dato disponibilità nella prospettiva di una redistribuzione dei migranti», ovvero Germania, Francia, Portogallo, Romania e Malta. Anche se il caso Sea Watch «evidentemente denuncia l'incapacità di gestire con meccanismi condivisi europei questo fenomeno». Il Pd, da parte sua, ha presentato un esposto alla procura di Siracusa contro il governo, denunciando la gestione dell'intera vicenda da parte del Viminale.
ORFINI E MARTINA INDAGATI PER LA VISITA DELLA NAVE. Il blitz dei politici che hanno raggiunto la nave e sono rimasti a bordo per oltre sei ore, raccogliendo testimonianze e informazioni, ha dato il via a unastaffetta che ha rapidamente mobilitato tutta l'opposizione. La capitaneria di porto di Siracusa, tuttavia, con un'ordinanza emessa la sera del 27 gennaio, ha di fatto isolato la Sea Watch vietando la navigazione, l'ancoraggio e la sosta di qualunque imbarcazione nel raggio di mezzo miglio dalla nave. Il provvedimento di fatto mira a bloccare qualsiasi ulteriore visita a bordo di persone non espressamente autorizzate, impedendo la staffetta annunciata degli onorevoli del Pd.
SALVINI: «SONO LORO A NON RISPETTARE LA LEGGE». I primi a salire a bordo sono stati il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni e i deputati Riccardo Magi di +Europa e Stefania Prestigiacomodi Forza Italia: era stata lei, in possesso di patente nautica, a mettersi alla guida di un gommone; a bordo, gli altri due esponenti politici, il sindaco di Siracusa, Francesco Italia, un legale e un medico. Insieme avevano raggiunto la nave della Ong ed erano saliti sull'imbarcazione. Pronta la reazione del ministro dell'Interno, Matteo Salvini: «Non rispettano le leggi e favoriscono l'immigrazione clandestina». Illegale è «impedire un'ispezione», avevano risposto loro, affermando che questo genere di attività è «prerogativa costituzionale dei parlamentari». Il capo del Viminale ha anche risposto ai dem: «Al Pd, il cui coordinatore siciliano vuole portarmi in tribunale, rispondiamo col sorriso: a sinistra non hanno niente di meglio da fare che affittare gommoni per solidarizzare con i clandestini e denunciare il ministro dell'Interno. Io non mollo», ha aggiunto.
LA PROCURA NON INDAGA SUL BLITZ. Il procuratore Fabio Scavone, tuttavia, ha spiegato che sull'iniziativa dei parlamentari non sarà aperto alcun fascicolo, perché prima occorre verificare l'effettiva presenza di un'ordinanza di divieto, emessa solo successivamente dalla Capitaneria di porto di Siracusa. Quanto ai presunti problemi sanitari a bordo della Sea Watch, il procuratore ha aggiunto: «Un accertamento sanitario in parte è già stato fatto. Un medico della sanità marittima è salito a bordo. La situazione quindi è monitorata e lo sarà giorno per giorno. Al momento non ci sono stati segnalati passeggeri che hanno necessità di ricovero. È tutavia intuitivo che 47 persone a bordo di una nave possono comportare, prima o poi, emergenze igienico-sanitarie».
RICORSO DEL GARANTE PER L'INFANZIA AL TRIBUNALE DEI MINORI. Parallelamente il Garante per l'infanzia del Comune di Siracusa, Carla Trombino, ha presentato al Tribunale dei minorenni di Catania un ricorso d'urgenza per lo sbarco e l'assegnazione a un centro specializzato dei 13 minorenni a bordo della Sea Watch. La richiesta è stata depositata dall'avvocato Rosa Emanuela Lo Faro ed è motivata con «i maltrattamenti e le torture» che i minorenni hanno subito in Libia. Il legale ha chiesto anche l'intervento dell'autorità marittima per dichiarare l'emergenza medica per i minori.
PER LA PROCURA ALCUNI MINORI HANNO UN'ETÀ DUBBIA. Una risposta, indiretta, a Trombino è arrivata dai pm: «La procura per i minorenni di Catania ha agito per la parte di sua competenza compulsando procura generale, ministero degli interni, ministero dei trasporti. Alcuni minorenni tra l'altro hanno un'età dubbia», ha spiegato Scavone. «Non hanno nessun documento con sé», ha aggiunto, «e quindi è riportato soltanto l'anno di nascita senza neanche giorno e mese». Quindi, ha aggiunto, «è un profilo da verificare anche questo. Sostanzialmente c'è solo un minorenne che dichiara di avere 15 anni, per il resto tutta la fascia dei diciassettenni, molti nati il 1 gennaio del 2002». «Sono di diverse nazionalità», ha concluso Scavone, «il quindicenne sudanese, poi del Gambia, del Senegal. Ma sono tutti identificati sulla base delle loro dichiarazioni».
SEGNI DI ABUSI E TORTURE. Alcuni migranti, in ogni caso, hanno mostrato ai parlamentari saliti a bordosegni di abusi e torture subite in Libia. «La loro situazione è penosa», ha detto lo psichiatra Gaetano Sgarlata, «ho avuto colloqui con 10 persone, tra cui tre minori. C'è una persona che ha perso un occhio, gente con tagli e dita delle mani deformate per i colpi ricevuti». Un quadro che emerge anche dalle parole dei parlamentari. Su ordine della prefettura, una motovedetta della Guardia costiera è partita da Siracusa con indumenti e viveri da portare a bordo. «Se fosse mia responsabilità, li farei senza dubbio sbarcare», ha dichiarato il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, che appellandosi al «senso di realismo» ha fatto notare che «47 nuovi immigrati che si aggiungono ai più di 600 mila già sul territorio non cambiano nulla». Poi si è fatto sentire anche il Pd e il capogruppo alla Camera Graziano Delrio, oltre a chiedere una Commissione di inchiesta, ha annunciato che i deputati dem «parteciperanno alla staffetta democratica per garantire una costante presenza sulla Sea Watch. Saremo a bordo finché ai migranti non sarà permesso lo sbarco». Anche la Chiesa è tornata in campo: «Vorremmo accogliere questi migranti, la Cei e l'associazione Giovanni XXIII lo hanno detto esplicitamente. Ma non c'è la possibilità di farlo», ha sottolineato il cardinal Gianfranco Ravasi.
DI BATTISTA SCUOTE IL M5S. Da registrare anche la posizione di Alessandro Di Battista, che ha scosso il M5s a Domenica Live su Canale 5: «I migranti dovrebbero sbarcare, tanto prima o poi sbarcheranno. Poi dovrebbero essere accuditi e fatti partire con un aereo di linea verso Amsterdam». Mentre per quanto riguarda il caso Diciotti, Di Battista è stato netto: «Salvini rinunci all'immunità e poi si vede, fermo restando che quell'azione è stata di tutto il governo. Io credo che un sacco di persone che vogliono contrastare politicamente Salvini gli stiano facendo un favore». L'Olanda, tuttavia, il 25 gennaio ha già detto che non prenderà in carico le persone salvate dalla Sea Watch, Ong tedesca la cui nave batte bandiera olandese: «Finché non ci saranno accordi europei su soluzioni strutturali per i migranti a bordo dei barconi, i Paesi Bassi non prenderanno parte a soluzioni ad hoc». Per ora non cede nemmeno il governo italiano. Salvini ha detto di avere «elementi concreti» per sostenere che equipaggio e comandante stiano «mettendo a rischio la vita delle persone a bordo», avendo «disobbedito a precise indicazioni che invitavano a sbarcare nel porto più vicino (non in Italia!)». Se così fosse, ha detto ancora Salvini, «saremmo di fronte a un crimine e a una precisa volontà di usare questi immigrati per una battaglia politica, le prove verranno messe a disposizione dell'autorità giudiziaria».
“Hanno subito torture”: per i minorenni della Sea Watch garante per l’infanzia presenta ricorso a tribunale. CHIESTO L'ACCOMPAGNAMENTO IN UNA STRUTTURA DI ACCOGLIENZA E UN TUTORE, scrive il 28 gennaio 2019 blogsicilia.it. Il garante per l’infanzia del Comune di Siracusa, Carla Trombino, ha presentato al Tribunale dei minorenni di Catania un ricorso d’urgenza per lo sbarco e l’assegnazione a un centro specializzato dei 13 minorenni a bordo della Sea Watch. La richiesta è stata depositata dall’avvocato Rosa Emanuela Lo Faro ed è motivata con “i maltrattamenti e le torture” che i minorenni hanno subito in Libia. Il legale ha chiesto anche l’intervento dell’autorità marittima per dichiarare l’emergenza medica per i minori. Nell’istanza si sottolinea che i 13 minorenni a bordo della Sea Watch sono “vulnerabili” e che “hanno subito torture”. Per questo si chiede di “ordinare l’intervento della Sanità marittima per l’accertamento e la libera pratica sanitaria” da cui si “evincerà che non ci sono condizioni sanitarie che possano determinare la quarantena degli occupanti della nave”. Si chiede quindi di “ordinare al ministero dell’Interno, per il tramite dell’ufficio immigrazione della Questura di Siracusa, l’accompagnamento e il collocamento immediato dei 13 minori stranieri non accompagnati a bordo della Sea Watch 3 in una struttura di accoglienza adeguata” e di “nominare loro un tutore”. “La Procura per i minorenni di Catania ha agito per la parte di sua competenza compulsando Procura generale, ministero degli interni, ministero dei trasporti. Alcuni minorenni tra l’altro hanno un’età dubbia”. Lo ha detto il procuratore di Siracusa, Fabio Scavone, facendo un punto sulla vicenda della Sea Watch. “Non hanno nessun documento con sé – ha aggiunto – e quindi è riportato soltanto l’anno di nascita senza neanche giorno e mese. Quindi è un profilo da verificare anche questo. Sostanzialmente c’è solo un minorenne che dichiara di avere 15 anni, per il resto tutta la fascia dei diciassettenni, molti nati il 1 gennaio del 2002. Sono di diverse nazionalità – ha spiegato Scavone – il quindicenne sudanese, poi del Gambia, del Senegal. Ma sono tutti identificati sulla base delle loro dichiarazioni”.
Migranti, il ricatto delle ong. Con la scusa del mare mosso le Ong si avvicinano ai porti anche senza via libera allo sbarco. Così fanno pressione sugli Stati, scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 29/01/2019, su Il Giornale. Chiamatelo "ricatto", se volete. Di certo è una pressione politica cercata, voluta, calcolata. Le Ong conoscono le leggi del mare, comprendono le difficoltà degli Stati e della politica. Sanno come sfruttare a loro vantaggio le sovrapposizioni tra le leggi internazionali e nazionali per imporre la propria visione del mondo. È quello che stanno facendo in queste settimane, portando migranti in Europa nonostante i divieti e le reiterate opposzioni degli Stati. Un "ricatto", appunto, messo in atto quasi in silenzio e sfruttando le "falle" delle normative in tema di soccorso in mare. Proviamo a capire di cosa si tratta, partendo dal principio. Quasi tutte le Ong che operano nel Mediterraneo sono mosse da due intenti. Il primo è quello - prettamente umanitario - di salvare vite in mare. Uno slancio legittimo e in qualche modo condivisibile. Ma dietro si nasconde un secondo fine, quello che loro stesse giustificano col "radicalismo umanitario": l'ideologico progetto (politico) di abbattere la "Fortezza Europa" e spingere così l'Ue a riconoscere il pieno diritto a migrare. Nel migliore dei mondi possibili, le Ong vorrebbero recuperare i migranti e portarli in Europa. In passato potevano farlo: avvistavano un gommone, informavano Roma, effettuavano il recupero e traghettavano gli immigrati verso la Sicilia. Niente di più facile. Ma ora la musica è cambiata e sono state costrette a trovare degli espedienti. Di cosa si tratta? Per capirlo, addentriamoci in una analisi di quanto successo nelle ultime due missioni Sar di Sea Watch, Ong tedesca che batte bandiera olandese. A inizio gennaio, la nave umanitaria recupera 32 immigrati al largo della Libia. Dopo varie peripezie, né Roma, né La Valletta né l'Olanda rispondono alle richieste di indicare un porto sicuro di sbarco. E Sea Watch cosa fa? Si sposta nel tratto di mare tra Malta e Lampedusa, forte del fatto che nessuno può impedirle di navigare in acque internazionali. È un trucco già sperimentato, ma che funziona: con la nave a poche miglia e il mare mosso, infatti, l'Ong ottiene facilmente il via libera a riparare nelle acque maltesi. E il gioco è fatto. La Valletta "non era l'autorità competente" per gli interventi di soccorso, dunque i migranti non sarebbero dovuti finire lì. Ma ormai il danno era fatto: con la Sea Watch 3 a pochi metri dal porto, come avrebbe potuto il premier Joseph Muscat impedirne l'approdo? Vi immaginate gli immigrati tenuti tra le onde per mesi e mesi? E infatti, dopo qualche giorno e serrate contrattazioni con gli Stati Ue, Malta viene costretta politicamente ad autorizzare lo sbarco. Lo stesso si è ripetuto in questi giorni, ma con l'Italia. L'Ong ha recuperato i migranti a poche miglia dalla Libia e il siparietto si è ripetuto identico: richiesta di un porto sicuro, vari dinieghi e inviti a coinvolgere la Libia e la Tunisia. Sea Watch giura che né Tuinisi né Tripoli hanno risposto al telefono o alle mail, così alla fine il comandante ha deciso di far rotta verso l'Italia. Il motivo? Sempre le condizioni meteo e le sofferenze dei profughi. Secondo il ministero dell'Interno, l'Ong avrebbe "violato le regole". Ma ormai con le onde alte e il tempo avverso non restava che autorizzare lo stazionamento al largo di Siracusa. Anche in questo caso, l'espediente dell'Ong sembra aver funzionato. È improbabile che Salvini possa tenere 47 persone in mare a lungo. Già oggi si è detto disponibile a farli scendere a terra se Olanda o l'Ue se ne faranno carico. Non può mica tenerli lì per sempre. In questo modo l'Ong avrà raggiunto il suo scopo: far approdare i migranti in Europa, nonostante la legittima opposizione del Viminale. Resta una domanda: ma è normale che associazioni private impattino così su un tema, come la gestione dei flussi migratori, di prioritaria competenza statale?
Sea Watch, il brutto sospetto: perché i migranti vengono solo in Italia, scrive Nicola Apollonio il 29 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano". Il dibattito, in Italia, è ormai concentrato sulla questione degli immigrati. Il Papa e gli esponenti della sinistra dicono che bisogna aprire le porte a tutti, a prescindere se si tratti di gente che scappa dalle guerre e dalle persecuzioni oppure che si abbia a che fare con semplici migranti economici. Non si discute d' altro. Né del lavoro che non c' è, né delle aziende che delocalizzano lasciando per strada tanti italiani disperati, né della scuola che cade a pezzi, né della famiglia andata in frantumi. In Italia tiene banco solo il destino delle migliaia di migranti che arrivano nel nostro Paese senza lo straccio di un documento, senza un dollaro bucato e, quel ch' è peggio, senza prospettive. Ma col serio pericolo di lasciare le penne in un mare che, giorno dopo giorno, si sta trasformando in un grande cimitero di poveri cristi finiti nelle grinfie di quei maledetti trafficanti di esseri umani. I poveretti non si avventurano più stipati su chiatte dall' incerta tenuta, ma su gommoni da quattro soldi destinati a naufragare al primo impatto col mare in burrasca. Tanto - gli hanno fatto sapere con un tam-tam giunto fino in Africa - ci sarà sempre una imbarcazione delle organizzazioni non governative con bandiera straniera che sarà pronta a raccoglierli e trasferirli fino al primo approdo italiano. Però, da quando il ministro dell'Interno Matteo Salvini ha decretato la chiusura dei porti a qualsiasi nave di organizzazioni non governative, si è scatenato il finimondo. Si sono mossi anche alcuni magistrati siciliani con l'intento di processare il vice premier leghista, accusato di sequestro di persona e di abuso d' ufficio. Invece, non c' è mai stato nessuno, finora, che si sia chiesto - e sarebbe ora che si facesse un po' di luce - per quali strane ragioni le navi come la "Sea Watch" pretendono di attraccare esclusivamente in uno dei nostri porti, evitando accuratamente di indirizzare la prua verso altre destinazioni come quelle, per esempio, spagnole e maltesi. Sembra che nel Mediterraneo ci sia solo l'Italia. O l'Italia o la morte! Tant' è che la "Sea Watch" preferisce sostare col suo carico umano anche otto-dieci giorni in mezzo al mare in burrasca anziché cercare immediatamente un'altra qualsiasi soluzione. Perché proprio qui? Forse perché da noi sanno di trovare la disponibilità di una piazza che nulla ha di meglio per contestare un ministro capace di fare man bassa di consensi (e già questo dovrebbe bastare per farci ragionare sulla necessità di bloccare l'"invasione"). I sinistri vanno in televisione e sbraitano, anche se gran parte degli italiani dicono che è ora di fermare i flussi. L' Europa ci lascia soli, se ne lava spudoratamente le mani. Il Pontefice, anche se in questi giorni si trova dall' altra parte del mondo, non perde occasione per occuparsi dei migranti senza permesso che qui sperano di trovare una "nuova vita". Li paragona addirittura a Gesù, dice che anche lui è stato un migrante... Eppure, il Santo Padre sa qual è la situazione del nostro Paese, sa che le casse sono vuote, che l'industria tira il fiato, che i pensionati non arrivano a fine mese, che i giovani sono senza lavoro e che, nonostante tutto questo, lo Stato si è fatto comunque carico di provvedere alla prima assistenza dei richiedenti asilo. La domanda, quindi, ritorna spontanea: perché alcune navi Ong rischiano il mare grosso con la boria di scaricare la massa di disperati sul suolo italico? Non sarà che in qualche angolo della Terra ci sia un qualche "invisibile" con la fosca intenzione di destabilizzare il nostro Paese? Vuoi vedere - come diceva Andreotti - che a pensar male, qualche volta ci si azzecca? Se no, come si spiega finanche il voltafaccia di Gigino Di Maio che dichiara di voler votare l'autorizzazione a procedere contro Salvini? Non è anche questo un modo per mandare il governo a gambe all' aria? (Che poi, detto fra noi, non sarebbe certamente la cosa peggiore, anzi...). «Non mi muovo di un centimetro - ripete Salvini ai giudici -. Prima di altri, io devo pensare al benessere degli italiani che soffrono. E poi, cerchiamo di capire chi sono queste persone che con le loro navi aiutano nei fatti gli scafisti». Già, chi sono? Nicola Apollonio
La mappa che incastra i buonisti: senza Ong in mare, zero morti. La mappa dei salvataggi: senza le Ong al largo della Libia, nessuno sbarco in Italia. Salvini: "Coincidenze?", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 04/02/2019, su Il Giornale. Da quindici giorni non si registrano partenze, naufragi, morti né sbarchi. Tutto fermo. Dopo i 117 migranti dispersi nel Mediterraneo e l'esplosione del caso Sea Watch, nel mare nostrum sembra tornata calma piatta. Come mai? Difficile dirlo. Le variabili sono moltissime: la stabilità della Libia, la capacità della Guardia costiera di Tripoli di intercettare i barconi e il meteo. Ma c'è anche un altro fattore da tenere in considerazione: la presenza delle Ong al largo delle coste libiche. Come rivelato dal Giornale nei giorni scorsi, dopo il recupero di 47 migranti da parte della Sea Watch (era il 19 gennaio), è stata registrata una sola partenza (due gommoni) in dodici giorni. In quel caso i 332 immigrati sono stati presi in carico dalla guardia costiera della Libia, che li ha salvati e riportati indietro. Eppure non è che ci siano stati troppi giorni di maltempo. Sarà un caso, ma in tutti questi giorni (con oggi, fanno 15) a mancare in mare erano proprio le associazioni umanitarie: zero navi solidali, poche partenze. "Coincidenze?", si chiede il ministro dell'Interno Salvini. "Senza navi delle Ong davanti alle coste della Libia - scrive su Facebook - guarda caso da 15 giorni non parte più neanche un barcone, e non muore più nessuno". In effetti, spiegava il Giornale, da inizio anno sono arrivati in italia 115 migranti e la maggior parte "è stata recuperata dalle Ong o grazie a una segnalazione delle stesse".
STASERA ITALIA. Rete 4 Mediaset. Ecco chi è il fondatore di Sea Watch. L'inviato di Stasera Italia raggiunge in Germania Harald Höppner, ma l'uomo preferisce non rilasciare dichiarazioni, scrive Mediaset. Il mistero Sea Watch. Si chiama Harald Höppner e nel 2015 ha fondato Sea Watch, la ong che, tramite l’omonima nave, recupera i migranti nel mar Mediterraneo. Una storia curiosa la sua: titolare di due negozi etnici a Berlino, tre anni fa decide di intraprendere l’avventura umanitaria. Un’avventura che ha però qualche lato non proprio chiarissimo: l'inviato di Stasera Italia Angelo Macchiavello ha raggiunto in Germania Höppner, fuori dalla sua azienda, per chiedergli maggiori informazioni riguardo il suo impegno e i conti della ong, ma Höppner è stato molto evasivo: “Per parlartene dovrei coordinarmi coi miei amici”. Il giornalista si è recato anche a Berlino nella sede ufficiale di Sea Watch, ma a parte il nome sul citofono non ha trovato null’altro.
Sea Watch, sospetti sulla ong. Meloni: in un anno ha incassato 1.800.000€. Dicano chi c’è dietro, scrive mercoledì 30 gennaio Lara Rastellino su ilsecoloditalia.it. «È strano»: sono le due paroline magiche inflazionate in queste ore quando, dai vertici parlamentari ai leader di partito, passando per alcuni media e fino agli utenti social sul web, tutti si interrogano sulla Sea Watch – con tutti gli annessi e i connessi – alambiccandosi su tutto quanto non torna e su tutto quanto «è strano». Incertezze, sull’operato e sugli operatori della ong tedesca che con la sua nave, a largo di Siracusa, ha scatenato l’inferno, e, soprattutto sui finanziamenti di cui può disporre. «Cosa si nasconde dietro l’organizzazione», si chiede allora Giorgia Meloni. E già porsi l’interrogativo fa pensare che qualcosa di strano su cui far luce ci sia. E non poco…
Giorgia Meloni, Sea Watch: «Cosa si nasconde dietro questa organizzazione»? È strano, si interroga Giorgia Meloni sul suo profilo Facebook, postando dubbi e aprendo al sospetto: «Nell’ultimo anno Sea Watch ha incassato un milione e ottocentomila euro», si chiede la numero uno di Fratelli d’Italia, che poi conclude: cosa si nasconde dietro l’organizzazione. Consiglio la visione di questo interessante servizio». E il servizio a cui fa riferimento la leader di FdI è quello realizzato in esclusiva da Angelo Machiavello per Stasera Italia in cui il giornalista Mediaset, intervistando il fondatore di Sea Watch, Alan Hoppner, prova a ricostruire chi c’è, come si finanzia e a cosa punta l’organizzazione della nave di migranti. A partire proprio dalla «strana figura» del padre fondatore della ong, che ha fatto fortuna vendendo oggetti etnici in due negozi a Berlino, dove non si vede mai, ma grazie ai quali sarebbero arrivati i soldi per creare Sea Watch, spiega il giornalista nel servizio che la Meloni invita a guardare. Qualcosa di più che semplicemente “strano”, quello a cui sembra alludere Machiavello che, non a caso, concludendo ribadisce e rilancia: e «alla fine dell’anno l’organizzazione tedesca ha incassato 1 milione e 800.000 euro».
Sea Watch, l’interrogazione di Rampelli: ecco cos’è strano e su cui occorre fare chiarezza. È strano, tutto molto strano, talmente strano che Fabio Rampelli, sempre da Fratelli d’Italia, ha annunciato una interrogazione ai ministri dell’Interno – Salvini – e della Giustizia – Bonafede – sulla vicenda della Sea Watch 3 e in particolare per sapere chi c’è dietro la Ong tedesca che mette in mare la nave battente bandiera olandese per recuperare migranti in mare. «La Sea Watch – denuncia allora Rampelli nel chiedere contezza riguardo tutti i lati oscuri della vicenda e – sedicente organizzazione umanitaria, non risponde ai necessari requisiti di trasparenza che dovrebbe avere chiunque operi nel volontariato, se così si può chiamare una struttura che “macina” 130.000 euro al mese di costi. Sul sito internet della Sea Watch manca addirittura lo statuto», sottolinea Rampelli, così come Machiavello nel suo servizio, recandosi nella sede amministrativa della ong a Berlino, non trova traccia di indicazioni, scritte o di qualunque riferimento anagrafico della organizzazione. Una struttura dai fantomatici riferimento riguardo la quale Rampelli ribadisce «la necessità di conoscere l’organigramma. Troviamo quanto meno bizzarro – (per non dire strano? ndr) – che istituzioni della Repubblica possano essere messe sotto accusa da legali di organizzazioni non governative prive di un organigramma e di uno Statuto pubblici, con nomi e cognomi anche dei finanziatori». Tanto che, «se parte degli introiti provenissero dalla grande finanza»? Si chiede Rampelli. E se quelle cifre indicassero «una quota delle estorsioni effettuate dai trafficanti di uomini a danno dei disperati? Se fosse coinvolto qualche Stato straniero?».
I dubbi e l’ironia degli utenti sul web: tutto molto strano…Interrogativi a dir poco preoccupanti che aprono a scenari decisamente inquietanti, su cui, come ribadito dall’esponente Fdi, «è necessaria chiarezza». Così come occorre fare luce, come nota più di qualche utente più prosaicamente sul web, su un’ultima stranezza: da quando la nave taxi della ong è ferma al largo di Siracusa – più o meno una settimana – dalla Libia non ci sono più partenze con gommoni, canotti, zattere, «barchette ciambelle, surf…». Forse sono tutti in attesa che la nave della Ong, bloccata a largo di Siracusa, sbarcati i 47 migranti a bordo, torni indietro per garantire nuovi passaggi, altri approdi. E non sarebbe strano???
Kyenge, il marito Domenico Grispino si candida per la Lega: "Con lei non parlo. E sui migranti...", scrive il 4 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Ho firmato per Salvini ai banchetti della Lega, entrerò in lista alle comunali di Castelfranco Emilia, sono persone perbene quelli della Lega". La beffa estrema per Cecile Kyenge, ex ministra e oggi eurodeputata Pd: il marito Domenico Grispino, intervistato da La Zanzara su Radio 24, esce allo scoperto. "Ci sono le elezioni comunali e metto a disposizione della Lega quello che so, e mie competenze". Mister Kyenge ha firmato contro il processo a Matteo Salvini sulla Diciotti: "Finirà nel nulla, se uno prende una linea poi non può cambiare, è evidente che Salvini lo fa per svegliare l'Europa. Sta facendo bene". "Mia moglie? Io penso per me, ognuno pensa per sé, con mia moglie non parlo mai di queste cose". "Sono a favore dello slogan Aiutiamoli a casa loro e bisogna creare dei punti strategici in Africa di attrazione delle persone. Ma mica con cattiveria. Salvini non è disumano, penso che sia una macchina da guerra per avere consensi. Poi ci sono altri personaggi a cui sono più vicino, come Giorgetti. Alle Europee non voterò Pd, per il partito di mia moglie. Le persone che ho conosciuto a Castelfranco sono molto in sintonia con me e tutt'altro che aggressive".
Sea Watch, non solo le "rotte illegali": l'accusa sull'altro crimine della nave Ong, scrive il 28 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Mentre il procuratore di Siracusa mette un punto sull'eventuale sequestro della Sea Watch e sulle cosiddette "rotte illegali", resta ancora la questione dell'ispezione a bordo e di un'altra pesantissima accusa contro la nave della Ong: l'omissione di soccorso. Il prossimo passo degli inquirenti, riporta il Messaggero, potrebbe appunto essere un controllo sull'imbarcazione - come era già successo con la Diciotti - se venisse denunciato il rischio di emergenza sanitaria. I pm, per procedere, dovrebbero ipotizzare un reato, con ogni probabilità, l'omissione di soccorso. In caso di emergenza conclamata, ovvero nel caso in cui venissero riscontrati rischi di epidemie e contagi, migranti bisognosi di cure urgenti e in pericolo di vita, o di violazioni da parte della Ong, potrebbe scattare il sequestro dell'imbarcazione. E a quel punto, come conseguenza verrebbe disposto lo sbarco. Per il momento le condizioni a bordo sarebbero solo di disagio anche se pare che alcuni profughi abbiano bisogno di cure mediche. "Per ora dalla Sea Watch hanno chiesto assistenza psicologica", ha detto il procuratore, "che non comporta gli estremi per ipotizzare l'omissione di soccorso". L'omissione di soccorso non riguarda nemmeno i minori non accompagnati, che sono affidati al comandante.
Le carte segrete del governo: Sea Watch commette reati. Salvini pronto a denunciare la Ong per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il caso dell'ordine disatteso, scrive Chiara Giannini, sabato 26/01/2019, su "Il Giornale". L'Olanda ha indicato alla Sea Watch 3 di riparare, visto il maltempo, verso le coste della Tunisia, ma la Ong non ha ascoltato gli ordini e ha diretto la sua nave verso l'Italia, mettendo così a rischio la vita dei migranti. È la dura realtà, il vaso di Pandora che viene scoperchiato una volta per tutte e che dimostra come dietro al comportamento delle Organizzazioni non governative vi sia dolo. Secondo fonti del governo italiano, ciò che è successo è la prova della malafede delle Ong. La Sea Watch 3 è attualmente ancorata a poco più di un miglio dalle coste di Siracusa, «scortata» da imbarcazioni della Guardia di Finanza e della Guardia costiera. Il Viminale ha chiarito che i porti italiani restano chiusi. Ha fornito cibo e medicinali, ma quelle persone non possono sbarcare sul nostro territorio nazionale. La storia è iniziata, però, lo scorso 19 gennaio, quando l'imbarcazione ha soccorso 47 migranti in area Sar libica. Il gommone era stato avvistato il giorno precedente dal «Moonbird», un velivolo della Ong partito da Malta e in ricognizione. Il personale di bordo pare non aver avvertito le autorità libiche, nonostante si trattasse della loro area di competenza, ma sembra abbia, di sua spontanea volontà, deciso di recuperare i naufraghi. Subito dopo ha inviato richiesta di Pos (Place of security), ovvero di un porto di sbarco, a Malta, all'Italia, alla Libia e all'Olanda specificando, però, che si necessitava di un approdo esclusivamente in Europa. Di fronte a richieste negative, il comandante della Sea Watch 3 si è diretto verso Lampedusa, solcando il confine delle acque italiane. Ha quindi chiesto nuovamente un porto d'attracco, ma dall'Imrcc di Roma hanno risposto che essendo avvenuto il soccorso in acque libiche, non c'erano le condizioni per dare assenso alla richiesta, come previsto dalla legge. Ed è qui che inizia la storia vera. Perché a causa del peggioramento delle condizioni meteo, nei giorni successivi, la nave non ha fatto come tutte le altre imbarcazioni in quel momento presenti nel Mediterraneo, ovvero non si è diretta verso le coste tunisine, distanti 74 miglia, ma ha preferito virare verso quelle siciliane, lontane 100 miglia, esponendo equipaggio e migranti a rischi enormi. Le autorità olandesi hanno riferito a membri della Commissione europea di essere stati contattati dalla nave e di aver consigliato di far rotta verso la Tunisia per chiedere riparo alle autorità di quella nazione. Il centro di coordinamento olandese avrebbe negato il fatto a Imrcc, ma qualora la notizia fosse confermata si sarebbe di fronte alla prova che la Ong ha operato in modo illecito favorendo l'immigrazione clandestina. E ora il Viminale valuta denunce. In queste ore il personale di bordo di Sea Watch ha parlato di persone in stato di «ipotermia». Ci sono anche bambini a bordo, per questo la procura di Catania ha aperto ieri un'inchiesta proprio per verificare se le condizioni di quei minori non siano state causate da incoscienza del personale di bordo. Non è, peraltro, la prima volta che Sea Watch attua comportamenti dello stesso tipo. Lo scorso 22 dicembre ha soccorso 33 migranti senza avvertire le autorità libiche competenti e portandoli a Malta. Fatto su cui le procure olandese e de La Valletta non hanno aperto fascicoli, ma che sarebbe sotto la lente d'ingrandimento dei magistrati siciliani. Tra i punti che non tornano anche il fatto che la maggior parte delle chiamate di soccorso che arrivano a Imrcc partono da un alarm phone intestato alla Ong.
Quella virata verso l'Italia che incastra Sea Watch 3. La Guardia costiera olandese chiarisce: doveva andare in Tunisia. Il comandante rischia l'incriminazione, scrive Chiara Giannini, Domenica 27/01/2019, su Il Giornale. I l comandante di Sea Watch 3 rischia l'arresto per favoreggiamento all'immigrazione clandestina e per aver messo a rischio la vita di 47 immigrati. Arriva, infatti, dalla Guardia costiera olandese, la conferma che nel momento in cui le condizioni meteo peggiorarono, fu lui stesso a decidere, in maniera del tutto illogica, di virare verso l'Italia, che si trovava a 100 miglia nautiche da quel punto, anziché andare verso le coste tunisine, distanti 74 miglia, come indicato proprio dagli olandesi. Abbiamo contattato il Jrcc, ovvero il centro di coordinamento dei Paesi Bassi e la risposta è stata chiara: «A nome del governo di questo Paese - ci hanno chiarito - possiamo confermare che abbiamo chiesto alle autorità tunisine il loro permesso affinché Sea Watch 3 potesse cercare rifugio per condizioni meteorologiche avverse nelle vicinanze della loro linea costiera. L'equipaggio di Sea Watch è stato informato di questa azione». Perché, dunque, dopo aver preso a bordo 47 migranti in area Sar libica, non aver provato subito a contattare il centro di comando della Guardia costiera di Tripoli, dirigersi verso le coste italiane assumendosi rischi enormi, anziché virare verso la Tunisia? Un comportamento fuori da ogni logica, anche perché fonti vicine al governo italiano fanno sapere che nessuna imbarcazione presente in quel momento nel Mediterraneo, compresi i pescherecci italiani e di altre nazioni, ha fatto rotta verso il nostro Paese, ma ha cercato riparo dal forte ciclone vicino alle coste tunisine, certamente più sicure e non esposte a onde alte 7 metri. Alcuni media hanno tentato di difendere l'Ong, dicendo che dal centro di coordinamento della Guardia costiera libica nessuno ha risposto e che la Sea Watch 3 avrebbe tentato di contattarli in un secondo momento, tanto che a Imrcc Roma, è arrivata una mail che lo confermerebbe. In realtà la comunicazione è del 19 gennaio e l'Ong era al corrente della presenza del gommone già dal 18, quando il suo aereo «Moonbird», decollato da Malta, lo aveva avvistato. Le norme internazionali indicano che chiunque veda in mare natanti con persone in difficoltà debba avvertire il centro di coordinamento più vicino. In quel caso quello di Tripoli, che il 18 aveva regolarmente al centralino personale di turno. Abbiamo provato a contattare l'ufficio stampa della Ong tedesca. Alla precisa domanda: «Perché non avete diretto la nave verso la Tunisia?» nessuno ha risposto. Quello che appare sempre più di fronte agli occhi di tutti è che le Ong presenti nel Mediterraneo operano in malafede. Basti pensare che la maggior parte delle chiamate di soccorso che arrivano a Imrcc Roma partono da un Alarm Phone intestato proprio alla Ong tedesca. Il fascicolo sulla vicenda è già stato inviato alle procure italiane competenti e non è escluso che l'inchiesta sia già in corso. La nave, allo stato attuale, si trova ancora in rada, a poco più di un miglio dal porto di Siracusa. Il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, tiene il punto e la sua ferma decisione di non aprire i porti. Anche perché la nave batte bandiera olandese e appartiene a una Ong tedesca e i migranti, per legge, dovrebbero prenderseli Olanda e Germania. Il tutto mentre la Procura dei minori di Catania invita a far scendere i minori. Dal Viminale fanno sapere che si tratta di ragazzi di 17 anni e mezzo e che la risposta è un no. La sfilza dei buonisti, intanto, si schiera contro alle decisioni del governo. Dall'Unhcr fanno sapere che le «condizioni a bordo della nave sono critiche». In realtà l'Italia ha fornito cibo e medicinali ai migranti.
La Guardia costiera blocca la Sea Watch: "Non è conforme a navigare". La nave della ong non può lasciare il porto di Catania perché non rispetta i requisiti di sicurezza e tutela dell'ambiente, scrive Chiara Sarra, Venerdì 01/02/2019, su Il Giornale. Anche se le indagini - ancora in corso - non hanno finora contestato nulla all'equipaggio della Sea Watch che per due volte in un mese ha recuperato migranti nel Mediterraneo dirigendosi prima verso Malta e poi verso l'Italia contrariamente a quanto ordinato, la nave dell'omonima ong tedesca non può lasciare il porto di Catania dove è approdata ieri. La Guardia costiera, infatti, ha rilevato nella sua ispezione alcune criticità che impediscono all'imbarcazione di riprendere il mare per "pattugliare" le coste libiche in attesa di avvistare gommoni e barconi in difficoltà. Sono state individuate una serie di "non conformità" relative sia alla sicurezza della navigazione sia al rispetto della normativa in materia di tutela dell'ambiente marino. E fino a che non saranno risolte "anche con l'intervento dell'amministrazione di bandiera, cioè l'Olanda, in cooperazione con gli ispettori specializzati" la nave "non potrà lasciare il porto di Catania". Già ieri da Sea Watch si erano lamentati di non poter ripartire subito: "Costretti a rimanere a Catania per la notte, il cambio di equipaggio previsto ci è stato negato", spiegavano dalla ong, "A bordo continuano le richieste di informazioni da parte della polizia. Nel frattempo il Mediterraneo rimane senza navi civili di soccorso".
Sea Watch, aperta un'inchiesta sullo sbarco dei migranti. La procura indaga contro ignoti per i delitti di associazione a delinquere finalizzata all'agevolazione dell'immigrazione clandestina e di agevolazione dell'immigrazione clandestina, scrive Bartolo Dall'Orto, Sabato 02/02/2019, su Il Giornale. L'indagine è stata aperta. La procura di Catania per ora ha redatto un fascicolo contro ignoti, ma l'obiettivo è quello di verificare anche il comportamento della Ong che ha portato in Italia 47 immigrati. Mentre la Sea Watch è bloccata nel porto siciliano, i pm avviano un procedimento penale per associazione a delinquere finalizzata all'agevolazione dell'immigrazione clandestina e di agevolazione all'immigrazione clandestina.
I reati ipotizzati. Le indagini, spiegano i magistrati, sono finalizzate "a individuare da una parte i trafficanti libici che hanno organizzato la partenza dei migranti dalla costa libica, dall'altra gli scafisti che hanno condotto il gommone poi soccorso dalla Sea Watch 3 e accertare infine la liceità della condotta tenuta dai responsabili di quest'ultima motonave".
L'operato della Ong. Ed è proprio sulle attività delle Ong che si è concentrata maggiormente l'inchiesta della procura guidata da Carmelo Zuccaro, già noto per altre due inchieste nei confronti delle navi umanitarie del Mediterraneo. Secondo gli investigatori ci sarebbero degli "aspetti critici ritenuti meritevoli di approfondimento". Da una parte, "la scelta della motonave di non dirigersi verso le coste tunisine, come fatto da alcuni pescherecci che in condizioni di mare critiche si erano rifugiati presso quelle coste". Dall'altra, "le dichiarazioni rese dal comandante della motonave e dal coordinatore del team della stessa Sea Warch che si occupa della ricerca e dei recuperi in mare, circa il non funzionamento del motore e la mancanza di una persona che fosse alla guida del gommone". Su questo secondo punto, infatti, dopo aver interrogato i migranti sbarcati dalla Sea Watch, gli investigatori avrebbero trovato delle contraddizioni con i racconti degli operatori umanitari. Secondo i profughi, infatti, al momento dell'operazione Sar ad opera della Ong il motore del barcone era "funzionante" e "il natante era guidato da uno di loro".
"No ci sono rilievi penali". Già ieri il Procuratore Carmelo Zuccaro aveva chiesto al collega di Siracusa, Fabio Scavone, la trasmissione delle carte sullo sbarco. Per il momento, però, "dalle risultanze investigative non è emerso alcun rilievo penale nella condotta tenuta dai responsabili Sea watch". Vediamo la ricostruzione fatta dalla procura. Il recupero dei migranti ha avuto luogo il 19 gennaio scorso e fino alle 12,20 del 21 gennaio, la motonave è rimasta all'interno dell'Area sar libica in attesa di ricevere risposta alle proprie richieste di indicazione del porto sicuro rivolte alle stesse autorità libiche a Malta e all'Italia. "Con la prima Autorità le comunicazioni si sono interrotte perchè i libici mostravano di non comprendere la lingua inglese - spiega la procura di Catania - mentre quelle italiane e maltesi avevano rappresentato la loro non competenza ad agire secondo le norme delle convenzioni internazionali". In quei giorni le condizioni del mare erano buone, nessuna tempesta in vista. E senza minacce delle onde, la Sea Watch ha deciso di far rotta verso Nord "in direzione del Canale di Sicilia". Erano le 12.20 del 21gennaio. Le condizioni meteomarine "non presentavano alcuna situazione di pericolo", spiegano i pm, ma dalle ore 1 del 22 gennaio "la navigazione era proseguita verso le coste di Lampedusa a seguito di convocazione da parte della Procura della Repubblica di Agrigento, poi revocata". In quella zona la Sea Watch ci resta fino alle 13 del 23 gennaio. Il motivo? "Successivamente l'imminente e previsto peggioramento delle condizioni meteomarine in zona induceva il Comandante a procedere verso le coste orientali della Sicilia piuttosto che dirigersi verso le coste tunisine, benchè più vicine in termini di distanza - spiega la Procura di Catania -. Tale decisione è apparsa giustificata agli investigatori perchè la rotta tunisina avrebbe costretto la nave a muoversi 'in direzione della perturbazione meteo in arrivo'". La decisione di "virare" verso la Tunisia sarebbe dunque stata una decisione giustificata perché "ormai la motonave si trovava in posizione tale da rendere più sicura la rotta verso la Sicilia orientale". Diverso invece il discorso per la scelta del 21 gennaio di dirigersi verso Nord in direzione del Canale di Sicilia, allontanandosi dalle coste tunisine, decisione che "non era dettata da alcuna situazione di pericolo". Perché allora allontanarsi dalla Tunisi? Secondo l'Ong il motivo è la mancata risposta delle autorità tunisine alle richieste di un Pos (porto sicuro di sbarco). "La veridicità di tale dichiarazione - si legge nella nota della procura - sembra trovare conforto nelle dichiarazioni rese dal responsabile di MRCC olandese, contattato dai colleghi italiani, che ha asserito di avere (di propria iniziativa e senza informare il comandante della motonave) richiesto alle autorità tunisine di consentire l'approdo nei loro porti del natante, senza riceverne alcuna risposta. Tale circostanza è invero sintomatica della linea di condotta che le Autorità tunisine hanno deciso di adottare nei confronti delle Ong". Anche la prima svelta di far rotta verso Nord, dunque, secondo i pm sarebbe da "non ritenersi ingiustificata".
Il soccorso dei migranti. La procura dà ragione alla Ong anche sull'operazione di soccorso. Sebbene alcuni migranti abbiano affermato che il motore del gommone era funzionante al momento del salvataggio, per i pm catanesi "in ogni caso la situazione di stress che giustificava il soccorso da parte di Sea Watch 3 era dovuta, oltre che alla palese inidoneità tecnica del gommone ad affrontare la traversata, alla circostanza, confermata dai migranti escussi, circa il progressivo sgonfiamento dei tubolari del gommone, da cui tutti sentivano fuoriuscire dell'aria, sgonfiamento che avrebbe inesorabilmente portato all'affondamento del natante". Risulta dunque "superfluo" un ulteriore approfondimento sulla questione, che avrebbe "rilevanza" solo se la motonave "si fosse affrettata a intervenire per anticipare l'intervento di una motovedetta delle autorità libiche, responsabili dell'Area Sar in cui stava operando". Ma "per ben due giorni nessuna motovedetta libica è intervenuta in quella zona". Dunque, è la conclusione della Procura di Catania, "dalle risultanze investigative non è emerso alcun rilievo penale nella condotta tenuta dai responsabili della Sea Watch 3".
Sea Watch, sfida all'Italia e sfregio al governo: "Le vostre leggi non valgono, un gioco sporco", scrive l1 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Guerra aperta tra l'equipaggio di Sea Watch e l'Italia, dopo il blocco imposto alla Ong che resta nel porto di Catania. La Sea Watch torna a cannoneggiare su Twitter, dove scrive: "Non è corretto cercare a tutti i costi il pretesto per il sequestro della nave semplicemente per impedire di operare la necessaria attività di soccorso nelle acque di un mare dove le persone continuano a morire", afferma in un video pubblicato su Twitter (qui sotto in pagina, ndr) la portavoce del natante tedesco battente bandiera olandese. Lo stop a Catania è dovuto alla questione che riguarda il tipo di nave utilizzata da Sea Watch: secondo gli investigatori saliti a bordo sarebbe un "pleasure yacht", dunque "non conforme" al tipo di attività che svolgeva, oltre al rispetto delle normative in materia di tutela dell'ambiente marino (lo ha spiegato su Facebook il ministro Danilo Toninelli). Ricostruzione che viene però respinta dalla Ong: "A Sea Watch non è pervenuta alcuna notifica di blocco amministrativo -, prosegue la portavoce - Questa mattina la Guardia costiera è arrivata a bordo presentando la relazione dell'attività ispettiva fatta nella giornata di ieri". Sea Watch ammette che sono state riscontrate "alcune piccole attività da fare a bordo per ripartire in sicurezza", ma assicura che "si possono svolgere nel giro di 24 ore e che sono normali attività di uno scalo tecnico di una nave che non tocca porto dal 14 dicembre". E ancora: "Non ci sono però le basi per un sequestro amministrativo e per ora la nave non è in blocco. Aspettiamo la decisione della Guardia costiera in merito alla relazione presentata". La polemica non è finita. Perché poi arriva la replica nello specifico a quanto affermato da Toninelli: "La nave Sea Watch 3 è regolarmente registrata come nave da diporto nel registro reale olandese e il suo uso è quello da nave da soccorso". E le regole italiane? "Per la lunghezza e la stazza della nave - ammette l'Ong - questo non sarebbe possibile in Italia, tuttavia per la legislazione olandese (alla quale la nave fa riferimento) questo è assolutamente regolare. Ed è stato accertato dalle autorità ispettive dello Stato di Bandiera a Malta quando la nave è stata in stato di blocco immotivato per quattro mesi", sottolineano. Infine, Sea Watch promette di rendere pubblici i documenti che dimostrerebbero la regolarità della nave: "Ricordiamo che la nave è una nave olandese sulla quale non si applica la giurisdizione italiana, per cui inviato il governo a non fare deliberatamente confusione in questo senso", conclude la portavoce.
"Le Ong creano pericolo". Il piano del Viminale per bloccarle. I tecnici del Viminale al lavoro per rendere fuorilegge (e punire) le navi straniere che trasportano migranti verso l'Italia, scrive Chiara Sarra, Venerdì 01/02/2019, su Il Giornale. Le Ong creano pericolo e per questo vanno bloccate. E il Viminale - racconta oggi il Corriere- ha già messo a punto un piano per "bandirle" dalle acque italiane. Tutto parte da un principio: quello secondo cui le navi straniere con a bordo i migranti sono "offensive perché recano pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato". Motivo per cui potrà essere disposto il "blocco navale" con veri e propri respingimenti in mare. Per mettere a punto il piano sarà necessaria un'ordinanza preventiva che sancisca lo "stato di pericolo" che sia la base per un decreto ad hoc. I tecnici del Ministero sono già al lavoro e sarebbero partiti dalla Convenzione Onu sui diritti della navigazione e in particolare dall'articolo 19 secondo cui il passaggio di una nave in acque territoriali "pregiudizievole se la nave è impegnata in attività di minaccia o impiego della forza contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dello Stato costiero". E poi c'è l'articolo 17 che "vieta il passaggio in caso di carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero e ogni altra attività che non sia in rapporto diretto con il passaggio". Una volta approvata la nuova normativa, per farla rispettare l'Italia potrà schierare i pattugliatori per bloccare le navi "vietate" che puntano verso le nostre coste già in acque internazionali. Se un'imbarcazione dovesse sfuggire ai controlli ed entrare in acque territoriali, le motovedette della Guardia costiera potranno scortarle fuori dai confini. Non solo: l'idea è anche quella di inserire nel decreto una norma che preveda l'applicazione dell'articolo 650 del codice penale che punisce chi non rispetta il provvedimento. In questo modo gli equipaggi non potrebbero più farla franca e tornare in mare. Proprio come è accaduto con la Sea Watch.
I barconi partono solo quando le navi Ong sono in acque libiche pronte a intervenire. I trafficanti sanno che basta una segnalazione per fare scattare i volontari, scrive Chiara Giannini, Venerdì 01/02/2019, su Il Giornale.
I buonisti hanno provato a smontare la tesi che la presenza delle Ong nel Mediterraneo invogliassero i trafficanti di esseri umani a incrementare le partenze. Ma i dati, inconfutabili, parlano chiaro. Quando le imbarcazioni umanitarie non sono in acque Sar libiche o, comunque, a zonzo nelle vicinanze e pronte a intervenire, praticamente nessun migrante viene messo in mare. E su questo, fanno sapere fonti vicine al Viminale, si sta indagando da tempo. Ciò che accadde il 6 novembre 2017, quando nel tentativo di raggiungere a nuoto la nave di Sea Watch, cinque migranti annegarono, descrive bene ciò che succede. In quel momento stava intervenendo, per recuperare gli immigrati che erano in navigazione su un barcone, una motovedetta libica, all'epoca già in servizio attivo dopo gli accordi con Tripoli del ministro Marco Minniti. L'equipaggio dell'imbarcazione Ong invitò gli extracomunitari a salire a bordo, nonostante la Guardia costiera stesse cercando di fare il suo lavoro. Da lì la tragedia. Insomma, gli immigrati non vogliono essere riportati indietro, ma sperano nel traghettamento sicuro di quelli che, ormai, sono veri e propri taxi del mare. Certo, i numeri non sono quelli di un tempo, proprio grazie alle azioni che si stanno mettendo in campo e al fatto che entrare in Italia è ora molto più difficile del passato. Ma i trafficanti di esseri umani sanno perfettamente che quando le navi delle Ong sono in mare basta segnalare la presenza del gommone affinché i volontari dei recuperi partano. L'intelligence italiana starebbe indagando sugli affondamenti di alcuni gommoni. È vero che sono fatti di materiale fragile, ma non tutti devono necessariamente sgonfiarsi facendo naufragare gli occupanti. Perché i video realizzati dall'equipaggio delle navi del soccorso mostrano quasi tutti gommoni che stanno affondando? Laddove i dubbi insistano, resta la granitica certezza dei dati, che parlano chiaro. L'ultimo recupero in mare risale al 19 gennaio ed è quello a cura di Sea Watch 3, che ieri ha fatto scendere i 47 migranti che aveva a bordo, a Catania, dopo giorni di tira e molla tra Ong e governi europei. Una sola partenza, su due gommoni, è avvenuta dalla Libia in questi dodici giorni ed è quella del 22 gennaio, quando la Guardia costiera libica ha salvato un totale di 332 immigrati. Eppure, fatta eccezione del 23 e dei giorni successivi, in cui c'è stato maltempo, le condizioni meteo non erano così sfavorevoli da impedire le partenze. Da inizio anno sono sbarcati in Italia 155 migranti, ovvero il 96,29 per cento in meno rispetto allo scorso anno e il 96,53 per cento in meno rispetto al 2017. La maggior parte di questi è stata recuperata dalle Ong o grazie a una segnalazione delle stesse. Quasi tutte le chiamate di soccorso da parte dei migranti partono da un Alarm Phone gestito da Organizzazioni non governative. Guardando ai dati del passato i conti tornano tutti. Nel 2017, ad esempio, i recuperi avvenuti grazie alle Ong furono 6.609, contro i 3.485 delle navi dell'operazione Sophia. Quando al fatto dei «poveri migranti che scappano dalla guerra», sono ancora i dati a smontare le fandonie di chi tenta di riempire l'Italia di clandestini. Su 155 sbarcati quest'anno, 57 vengono dal Bangladesh, 38 dall'Iraq, 31 dalla Tunisia, 13 dall'Iran, 9 dall'Egitto e le altre nazionalità a seguire. Di libici, invece, in Italia non ne è sbarcato neanche uno. Ora che la Sea Watch è quasi pronta a ripartire, chissà che le non si avvisti qualche altro barcone.
Carlo Nordio contro le Ong: "Sono porti sicuri anche quelli tedeschi e francesi. Dietro c'è il crimine", scrive il 27 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Punta il dito, Carlo Nordio. L'ex pm parla a un evento organizzato da Il Giornale ad Abano Terme. E parla della richiesta di rinvio a giudizio di Matteo Salvini per il caso Diciotti avanzata dal tribunale dei ministri di Catania. Chiaro il messaggio di Nordio: il ministro dell'Interno va giudicato sul piano politico e non giudiziario, con la bislacca ipotesi di reato di "sequestro di persona aggravato". "Questo parlamento deve dire entro 60 giorni se la linea di Salvini è giusta o sbagliata. Se la linea è politicamente condivisa oppure no", ha premesso Nordio. E Salvini, in vista delle elezioni Europee, "potrebbe uscirne paradossalmente rafforzato". E ancora: "Se va a processo va alle elezioni e probabilmente fa il boom di voti; se non va a processo, la sua politica sui migranti viene avvallata dal Senato anche per il futuro. Io avrei preferito la faccenda si chiudesse", rivela. Dunque, affrontando il tema dell'immigrazione in generale, Nordio si presta a interessanti riflessioni: "La legge del mare, spesso citata a vanvera, dice che devi salvare il naufrago e portarlo in un porto sicuro: Libia, Malta o Tunisia. Ma sono sicuri anche i porti delle navi Ong: Francia, Germania e Olanda". Chiaro il messaggio: degli immigrati devono farsene carico i Paesi a cui fanno riferimento le Ong con le loro bandiere. Prosegue Nordio: "Nessuno sapeva sarebbero arrivati così tanti naufraghi, e la legge del mare non prevede si vadano a salvare al largo delle coste libiche con le navi Ong per naufragi programmati da organizzazioni criminali. Evidentemente nei governi precedenti abbiamo fatto accordi per cui ce li teniamo tutti qua, anche se salvati da navi militari straniere".
"Tutto questo - prosegue Nordio - andrebbe spiegato alle autorità religiose, agli italiani, a tutti. I veri poveri restano lì, i migranti che arrivano non sono denutriti. I trafficanti sono intelligenti e spregiudicati, confezionano i gommoni, come si confezionano i pacchi di Natale, mettono dentro due o tre bambini destinati a morire per farci cadere nell'emotività. Noi non li prendiamo perché siamo buoni, ma perché siamo rassegnati - continua con toni durissimi -. Anche su questo dovrebbero riflettere le autorità religiose. Se uno va a controllare l'origine di questi flussi viene accusato di colonialismo. Il nodo è politico, l'abbiamo fatto incancrenire per anni. La tragedia è nata con l'insensata aggressione della Libia voluta da Sarkozy. Per usare una frase volgare ma geniale di Churchill: la Francia si è fatta il bidè in casa e poi ha fatto bere l'acqua a noi", conclude Nordio. Un intervento da incorniciare.
Sea Watch, Matteo Salvini: "Sulla nave non ci sono donne né bimbi. Che comunque non lasceremmo agli scafisti", scrive il 28 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. "Io accusato di disumanità? Non mi tocca più, ne ho sentite in questi sette mesi di lavoro". Matteo Salvini, in diretta a Rtl 102.5, torna sul caso degli immigrati della Sea watch: "Per me salvare vite significa bloccare le partenze. Sulla nave non ci sono né donne né bambini. Che comunque non andrebbero lasciati a prescindere in mano agli scafisti". Non solo. Il ministro dell'Interno annuncia: "Chi arresta gli scafisti vuole salvare queste vite. Ai primi di marzo tornerò in Africa, dove stiamo lavorando a progetti di sviluppo per aiutare a non scappare quelle donne e quei bambini".
Sea Watch, Salvini smaschera l'equipaggio della nave Ong: "Ma quale freddo, come stanno davvero", scrive il 27 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Matteo Salvini ha diffuso un video che mostra gli immigrati a bordo della Sea Watch 3 che salutano la telecamera e stanno seduti sul ponte della nave. Immagini in netto contrasto con quanto raccontato finora dagli operatori della Ong, e come lo stesso Salvini ricorda: "I tigì e la sinistra ci raccontano di mare in tempesta, di un freddo cane e di bambini a bordo... come no, guardate voi!!! Io vedo uomini a torso nudo, mare calmo, cuffie e telefonini... Non cambio idea - ha poi aggiunto il ministro dell'Interno - In Italia si arriva rispettando le regole, altrimenti stop".
Nordio contro i trafficanti del mare: "Giocano sulla nostra emotività". L'accusa dell'ex pm: «Imbarcano bambini solo per muovere l'Europa a compassione». E su Salvini: «Che regalo dai giudici», scrive Serenella Bettin, Domenica 27/01/2019, su Il Giornale. Abano Terme (Pd) Silenzio. Parla Nordio. Grandi applausi venerdì sera all'hotel Mioni Pezzato di Abano Terme dove oggi si conclude la nona edizione della settimana dei Lettori del Giornale. Una serata viva e densa di approfondimenti moderata dall'inviato speciale del nostro quotidiano, Stefano Zurlo che poco prima aveva presentato il suo ultimo libro Quattro colpi per Togliatti. Un Nordio critico verso i giudici e le autorità religiose. Lui, classe 1947, ha seguito le inchieste di Tangentopoli, fino allo scandalo Mose. E sul caso della nave Diciotti ha chiarito che Salvini, semmai, debba essere giudicato sul piano politico e non giudiziario. Perché ora secondo i magistrati catanesi il «sequestro di persona aggravato» dei 177 migranti della Diciotti è il reato per il quale è chiesta l'autorizzazione a procedere, contro la richiesta di archiviazione del pm Carmelo Zuccaro. «Questo parlamento ha detto Nordio - deve dire entro 60 giorni se la linea di Salvini è giusta o sbagliata. Se la linea è politicamente condivisa oppure no». Sessanta giorni in cui arriviamo dritti alla vigilia delle europee, per un Salvini, ha detto Nordio, che «potrebbe uscirne paradossalmente rafforzato». «Se va a processo va alle elezioni e probabilmente fa il boom di voti; se non va a processo, la sua politica sui migranti viene avvallata dal Senato anche per il futuro. Io avrei preferito la faccenda si chiudesse». E invece si rischia di provocare un cataclisma politico. «Se il ministro ritiene sia giusto impedire lo sbarco per turbative all'ordine pubblico, fa un atto di discrezionalità politica ha detto se poi andasse a giudizio, si creerebbero problemi immensi dal punto di vista giuridico». Il nodo cruciale è che essendo un atto politico, la legge costituzionale 16 gennaio 1989, prevede che a pronunciarsi debba essere il parlamento e non la magistratura. Quanto al fronte immigrazione, spiega Nordio, «la legge del mare, spesso citata a vanvera, dice che devi salvare il naufrago e portarlo in un porto sicuro: Libia, Malta o Tunisia. Ma sono sicuri anche i porti delle navi Ong: Francia, Germania e Olanda». Gli accordi internazionali vanno applicati secondo il principio del rebus sic stantibus ossia della situazione al momento della stipula: se i fatti sopravvenuti cambiano, è giusta una modifica. «Nessuno sapeva sarebbero arrivati così tanti naufraghi dice - e la legge del mare non prevede si vadano a salvare al largo delle coste libiche le navi Ong per naufragi programmati da organizzazioni criminali. Evidentemente nei governi precedenti abbiamo fatto accordi per cui ce li teniamo tutti qua, anche se salvati da navi militari straniere. Tutto questo andrebbe spiegato alle autorità religiose, agli italiani, a tutti. I veri poveri restano lì, i migranti che arrivano non sono denutriti. I trafficanti sono intelligenti e spregiudicati, confezionano i gommoni, come si confezionano i pacchi di natale, mettono dentro due o tre bambini destinati a morire per farci cadere nell'emotività. Noi non li prendiamo perché siamo buoni, ma perché siamo rassegnati. Anche su questo dovrebbero riflettere le autorità religiose. Se uno va a controllare l'origine di questi flussi viene accusato di colonialismo. Il nodo è politico, l'abbiamo fatto incancrenire per anni. La tragedia è nata con l'insensata aggressione della Libia voluta da Sarkozy. Per usare una frase volgare ma geniale di Churchill: la Francia si è fatta il bidè in casa e poi ha fatto bere l'acqua a noi».
Roberto Saviano e Roberto Benigni, il manifesto per i migranti e contro Salvini: pagliacciata estrema, scrive il 25 Gennaio 2019 Libero Quotidiano". Si chiama "Non siamo pesci" l'ultimo manifesto della sinistra contro Matteo Salvini e a favore dei migranti. L'iniziativa, lanciata da Luigi Manconi sul suo blog sull'HuffingtonPost, riunisce la crema dei "progressisti italiani": tra i firmatari Roberto Saviano, Massimo Cacciari, Gad Lerner, Paolo Virzì, Roberto Benigni. Molti di loro avevano già aderito alla campagna Noi non stiamo con Salvini del magazine Rolling Stone e in fondo la musica non cambia mai. La linea è nota: no alla politica "razzista e disumana" del governo e alla linea dei "porti chiusi", perché ci ha sottoscritto il manifesto nuovo vuole "essere complice di questa strage" e si schiera con le Ong e la Sea Watch. "Ciò che emerge - scrivono - è il deprezzamento del senso e del valore della vita umana. Sea Watch, va ricordato, è l'unica Ong oggi presente nel Mar Mediterraneo, ormai privo di qualsiasi presidio sanitario, di soccorso e di protezione dei naufraghi. Altro che fattore di attrazione per i flussi migratori, altro che alleati degli scafisti o taxi del mare: le navi umanitarie, le poche rimaste, salvano l'onore di un'Europa che dà il peggio di sé e si mostra incapace persino di provare vergogna".
L'armata buonista tifa Ong: ecco il manifesto pro-migranti. Da Benigni a Saviano, firmato (l'ennesimo) appello per migranti e Ong: "Non possiamo essere complici della strage", scrive Bartolo Dall'Orto, Venerdì 25/01/2019, su "Il Giornale". Il vizio della raccolta firme non l'hanno mai perso. "Non non stiamo con Salvini", titolò Rolling Stone il manifesto firmato da intellettuali, artisti e uomini dello spettacolo. Lo stesso (più o meno) accade oggi. Cambia solo il titolo, forse alcuni firmatari (ma non tutti) e l'occasione di cronaca. Ma la sostanza è sempre la stessa: una sorta di armata dell'accoglienza che si oppone alla limitazione delle migrazioni e che non vuole "essere complice di questa strage". L'ultimo appello (dal titolo "Non siamo pesci") è stato pubblicato sull'Huffington Post nel blog di Luigi Manconi. Tra i firmatari Roberto Benigni, Sandro Veronesi, Massimo Cacciari, Gad Lerner, Paolo Virzì e l'immancabile Roberto Saviano. Poi altri ancora. Contestano la decisione di affidare a Tripoli il recupero di 100 migranti in naufragio, ricordano i 117 immigrati deceduti al largo della Libia e attaccano la decisione del governo di non far sbarcare i 47 migranti a bordo della Sea Watch, bloccata per ora di fronte al porto di Siracusa. "Ciò che emerge - si legge - è il deprezzamento del senso e del valore della vita umana. Sea Watch, va ricordato, è l'unica Ong oggi presente nel Mar Mediterraneo, ormai privo di qualsiasi presidio sanitario, di soccorso e di protezione dei naufraghi. Altro che fattore di attrazione per i flussi migratori, altro che “alleati degli scafisti” o “taxi del mare”: le navi umanitarie, le poche rimaste, salvano l'onore di un'Europa che dà il peggio di sé e si mostra incapace persino di provare vergogna". L'intenzione è quella di "dare voce a un'opinione pubblica" che secondo loro "esiste" (sarà minoritaria?) e che chiede "di ripristinare il rispetto delle leggi e delle convenzioni internazionali, e soprattutto del senso della giustizia". Vogliono spingere il governo a permettere ad Ong e navi militari di riprendere le attività Sar come in passato, quando sbarcavano centinaia di migliaia di immigrati all'anno.
Inutile dire che Salvini non intende fare passi indietro. "Non vediamo l'ora di farli arrivare, sani e salvi, in altri Paesi europei - ribadisce il vicepremier leghista - in Italia non c'è spazio". La linea del Viminale è questa: i migranti devono essere soccorsi dalla Libia e poi tornare a Tripoli. E se le Ong si mettono in mezzo, non potranno sbarcare in Italia. I firmatari pretendono "chiarezza sul comportamento e sulle responsabilità della guardia costiera libica" e di rendere pubblici i documenti sull'ultimo naufragio. "Chiediamo al Parlamento - si legge nel manifesto - di istituire una commissione di inchiesta sulle stragi nel Mediterraneo e di realizzare una missione in Libia. Chiediamo inoltre al governo di offrire un porto sicuro in Italia alla Sea Watch, che sabato scorso ha salvato 47 persone, senza che si ripeta l'odissea vissuta a fine dicembre davanti a Malta". Intanto anche il Pd inizia la sua battaglia contro il governo e il ministro dell'Interno Salvini. "Facciamo nostro l'appello lanciato da Luigi Manconi col manifesto 'Non siamo pesci' - dice Graziano Delrio, capogruppo Pd alla Camera - e chiediamo al Parlamento di istituire una Commissione di inchiesta sulle stragi nel Mediterraneo. Già dalla prossima settimana depositeremo la proposta di legge per l'istituzione della Commissione". E ancora: "Di fronte alla tragedia che in questi giorni si sta consumando nelle acque del Mediterraneo - insiste il piddino - speriamo che nessuna forza politica si tiri fuori da una analisi seria delle cause, che il governo non si limiti alle lacrime di coccodrillo e che si smetta di insultare le Ong".
Immigrati, la ripresa delle partenze? I trafficanti "sfruttano" le navi delle Ong a poche miglia dalla Libia, scrive il 21 Gennaio 2019 "Libero Quotidiano". La ragione per cui sono riprese le partenze di migranti dalla Libia verso l'Europa è la presenza delle navi delle Ong a poche decine di miglia dalle coste libiche. A dirlo non è Matteo Salvini, ma il capo del centro di coordinamento della Guardia costiera libica, colonnello Masoud Ibrahim Abdelsamad. Come riporta Il Giorno, il colonnello non accusa le organizzazioni non governative di essere in combutta con gli scafisti, "ma è certo che i trafficanti di uomini usino spregiudicatamente la presenza delle Ong per fare i loro affari: dicono ai migranti 'salite su questo gommone, mica dovete arrivare fino in Italia, poche ore e vi salvano'. Loro si fidano e partono". E visto che gli scafisti ormai usano gommoni in pessime condizioni e li caricano all'inverosimile, il risultato è che chi non viene recuperato in mare entro 10-16 ore dalla partenza, spesso affoga.
Strage buonista, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 20/01/2019, su "Il Giornale". Centodiciassette immigrati, tante donne e bambini, morti annegati nel tentativo di raggiungere su gommoni le coste italiane sono una bruttissima notizia. Ma chi sostiene che questa tragedia è la conseguenza della politica dei «porti chiusi» adottata dal governo non solo si sbaglia di grosso, ma è pure in malafede. Non c'è alcuna relazione tra il numero dei morti in mare e le modalità di soccorso, anzi è certo e documentato che meno partenze uguale meno vittime. Ecco i dati, fonte Amnesty International degli ultimi cinque anni. Dal 2014 al 2016, triennio di porti aperti e ong libere di soccorrere in mare, i morti annegati sono stati rispettivamente 3.528, 3.771 e 5.096. Nel 2017 il primo giro di vite su partenze e arrivi, deciso da Minniti ha fatto scendere le vittime a 3.116 e con lo stop alla collaborazione con le ong imposto da Salvini a metà 2018 il numero dei morti è crollato a 972, il minimo da sempre. Vero è che il rapporto tra arrivi e vittime, nell'ultimo quinquennio, è rimasto pressoché costante, circa due decessi ogni cento arrivi. Il che significa che l'unico modo per salvare vite umane è limitare con ogni mezzo le partenze dalle coste africane perché, in numero assoluto, più immigrati accogliamo più ne muoiono nel corso delle traversate. Due su cento come detto non arriverebbero vivi in Italia qualsiasi fosse la linea politica. Chiudere i porti alle organizzazioni che facevano da taxi e affidare le operazioni di salvataggio alla marina libica ha quindi salvato - scoraggiando e bloccando le partenze - migliaia di persone dall'annegamento, non l'inverso, come sostengono i non pochi nostalgici della politica buonista pre Minniti e pre Salvini, che negli ultimi anni ha prodotto il non invidiabile record di quindicimila morti. I gommoni, causa della tragedia di ieri, sono purtroppo sfuggiti alla rete di controlli stesa a nostra ma soprattutto loro tutela, complice anche - come denunciato da Salvini - una ripresa dell'attività di pattugliamento al largo delle coste libiche delle navi ong che così facendo incoraggiano gli scafisti a tentare l'avventura per poche miglia, certi di un facile trasbordo. Piangere i morti è un dovere non meno importante di quello di evitare che simili tragedie possano accadere con la frequenza del passato.
Tutte le "balle" delle Ong sul gommone con i 100 migranti. Dal natante che "imbarca acqua" alle comunicazioni con Roma: quello che non quadra sull'operato di Allarm Phone, scrive Fausto Biloslavo, Martedì 22/01/2019, su "Il Giornale". La situazione è terribile e “il gommone imbarca acqua”, ma non era vero, come dimostra una foto in possesso de il Giornale. “Non collaboriamo con i trafficanti” anche se a bordo c’è uno scafista che aveva il satellitare per chiamare le Ong. Le autorità di Malta, Italia e Libia sono state subito informate del natante in difficoltà, ma a Roma la comunicazione arriva oltre due ore dopo. “Tripoli non risponde” anche se in realtà non solo assume la responsabilità dell’operazione, ma dirotterà un mercantile per soccorrere i migranti. Queste sono alcune “balle” raccontate dalle Ong nella giornata di domenica sulla vicenda del gommone con 100 migranti a bordo, che sembrava dovesse affondare da un momento all’altro. L’informazione “umanitaria” via social è stata manipolata e drammatizzata ad arte per provocare l’indignazione contro l’Italia, Malta e l’Europa che se ne fregano dei migranti in mare. Per non parlare della Libia che non li soccorre e quando lo fa li deporta illegalmente facendoli tornare nei “lager”. L’ultimo allarme è delle 16.20 di ieri. Alcuni sopravvissuti del mancato naufragio dei 100 sul gommone hanno richiamato Alarm phone, il centralino dei migranti: “Si sono resi conto che stanno tornando in Libia e dicono che preferirebbero uccidersi piuttosto che sbarcare”. La situazione di stallo e l’amplificazione delle minacce di suicidio convincerà, la prossima volta, qualsiasi mercantile ad evitare di soccorrere i migranti rischiando di rimanere bloccati con un aggravio non indifferente di costi. Alle 12.20 di domenica, sempre Alarm phone, twittava che “il natante imbarca acqua” annunciando pure che un bambino stava morendo. Poi c’è stata un’escalation di notizie drammatiche sui migranti congelati, che starebbero per morie e per affondare. Nella foto scattata verso le 17 da un velivolo probabilmente spagnolo della missione europea Sophia, che il Giornale.it pubblica, si vede chiaramente il gommone stracarico, che non imbarca acqua e naviga seppure lentamente. A bordo non deve fare caldo, ma qualcuno è pure scalzo con i piedi in acqua. I migranti non sarebbero arrivati neppure nelle acque di soccorso maltesi, ma non stavano affondando. A poppa si nota un africano con un giubbotto rosso, che manovra il gommone. Il “migrante”, in realtà, è il sospetto scafista, che probabilmente aveva il satellitare Thuraya utilizzato per avvisare le Ong. “Non collaboriamo con i trafficanti” ribadisce Maurice Stierl, dalla Germania, a nome di Alarm phone. “Dal gommone non abbiamo parlato sempre con lo stesso uomo, ma pure con una donna e altre persone” spiega il ricercatore dell’università di Warwick. Il centralino dei migranti risponde, guarda caso, ad un numero con il prefisso francese. Stierl sostiene che il numero viene “distribuito a tutti attraverso campagne on line ed i nostri contatti in Africa”. La Guardia costiera italiana, in passato, ha individuato più volte chiamate di soccorso da satellitari o cellulari libici arrivate anche da terra dai trafficanti, che si spacciavano per familiari dei migranti imbarcati sui gommoni.
Salvini zittisce Gino Strada: "Fine mangiatoia immigrazione li fa impazzire". Il laeder della Lega replica al fondatore di Emergency. Strada: "Fascistello". Il ministro: "L'Italia ha rialzato la testa", scrive Bartolo Dall'Orto, Lunedì 21/01/2019, su "Il Giornale". Lo scontro a distanza tra Gino Strada e Matteo Salvini si consuma tra Facebook e la radio. Motivo del contendere? Il tema immigrazione, ritornato al centro del dibattito pubblico dopo il naufragio di un barcone e le polemiche sul soccorso di 100 migranti da parte della Guardia costiera libica (che ha riportato i migranti verso Misurata). Il primo a colpire è il fondatore di Emergency, che in diretta a Radio Capital arriva a dare del "cogli..." e del "fascista" al governo italiano. "Quando alla fine si è governati da una banda dove una metà sono fascisti e l'altra metà sono coglioni non c'è una grande prospettiva per il paese", ha detto Strada. Che si accanisce sul ministro dell'Interno: "Mi stupisce la completa disumanità di questo signore. È un atteggiamento che non è soltanto non solidale o indifferente, ma è gretto, ignorante". E non importa se "molti italiano" hanno "assecondato e votato" questo "fascistello" che " indossa tutte le divise possibili eccetto quella dei carcerati, non ha preso il 90 per cento dei voti". La replica di Salvini non si è fatta attendere. Su Facebook, condividendo un articolo sulle dichiarazioni del fondatore di Emergency, il leader della Lega manda "baci" a chi lo "odia" (e non sono pochi) e ribatte colpo su colpo. "Gino Strada mi definisce oggi "disumano, gretto, ignorante, fascistello, criminale". Solo? Evidentemente la fine della mangiatoia dell'immigrazione clandestina li sta facendo impazzire. L'Italia ha rialzato la testa, possono insultarmi mattina, pomeriggio e sera: tutte medaglie, io non mollo!".
Il bambino morto con la pagella cucita, tra fake news e propaganda. Scrive Panorama il 21 gennaio 2019. La storia che ha commosso tutti ed è stata usata per attaccare il Governo in realtà è del 2015, quando le Ong agivano indisturbate e l'Italia un porto aperto. E' una delle storie che ha fatto commuovere e pensare tutti, quella del bambino annegato mentre cercava di arrivare con altri migranti a bordo di chissà quale gommone affondato nel Mediterraneo e che aveva, cucita all'interno della sua giacca, la pagella come documento di identità e prova della sua ottima preparazione scolastica. Una storia finita su tutti i giornali, telegiornali, notiziari, siti web e commentata da importanti politici ed opinionisti. Utilizzata soprattutto per attaccare la politica di stop ai migranti del ministro dell'Interno Salvini. Come si vede dall'ormai famoso post comparso sulla pagina facebook ufficiale del Pd del Lazio:
"Sei annegato nel Mediterraneo con la pagella in tasca. Sei nostro figlio e ti dedicheremo una scuola del Lazio. #noisiamodiversi..." Oppure sulla vignetta pubblicata da Il Foglio in cui si vede un bambino sul fondo del mare con un polipo che si complimenta per la sua pagella. Peccato che questo bambino, la cui morte è e resta drammatica, non è deceduto in questi giorni, nemmeno in queste settimane e persino neppure nel 2018. La storia infatti risale al 2015 anno in cui il medico forense, la dott.ssa Cattaneo, che si occupa dell'autopsia della vittima nota la pagella ed inserisce la storia in un suo libro, appunto, del 2015. 2015, anno del governo Renzi, anno in cui tra Libia ed Italia almeno una decina di Ong facevano la spola con le loro navi dalle coste libiche ai porti italiani, aperti a tutto e tutti, e dove sono sbarcati centinaia di migliaia di migranti. Quindi ci troviamo davanti ad una mezza fake news, anzi, e sarebbe anche peggio, ad un dramma umano utilizzato per pura propaganda politica.
L’Italia ha fermato i migranti. Ma adesso l’Europa ha paura, scrive il 6 gennaio 2019 Lorenzo Vita su Gli Occhi della Guerra su "Il Giornale". Le rotte dei migranti stanno cambiando. E questo cambia non solo il Mediterraneo ma anche l’Europa, con effetti non indifferenti sulle prospettive politiche del Vecchio Continente. I dati che arrivano dalle organizzazioni internazionali e da Frontex danno un quadro chiaro di come si stiano orientando i flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa. Ed è fondamentale capire come si stiano rimodulando le rotte anche per capire come si orienteranno i Paesi di approdo, vecchi ma anche nuovi. I dati forniti da Frontex sono, sotto certi aspetti, inequivocabili. Nel 2018 è stato registrato un calo di circa il 25% degli attraversamenti illegali dei confini esterni dell’Unione europea, spiega l’agenzia. Il numero di immigranti entrati clandestinamente in territorio europeo è stimato intorno alle 150mila unità: il numero più basso degli ultimi cinque anni e con un calo del 92% rispetto al 2015, nel picco della crisi migratoria.
L’Italia ha chiuso la rotta del Mediterraneo centrale. L’agenzia Frontex segnala poi un fattore estremamente rilevante. Nel report, si spiega come la riduzione sia dovuta “al forte calo nel numero di migranti che scelgono la rotta del Mediterraneo centrale verso l’Italia. Il numero di rilevamenti di attraversamenti irregolari su questa rotta è sceso dell’80% rispetto al 2017, a poco più di 23mila”. Una conferma del fatto che Italia e Libia hanno agito nella direzione giusta: fermare il flusso di migranti irregolari significa infatti fermare un traffico che è organizzato da una rete criminale estesa e violenta. I governi hanno dialogato in maniera efficace. E l’Italia, anche grazie ai recenti accordi con la fazioni libiche, è riuscita a strappare alcune garanzie non così scontate. Non tutto è risolto, poiché nel sud della Libia, dove c’è la grande centrale di smistamento dei migranti provenienti dal Sahel, l’Italia ha ancora problemi. E i recenti attacchi terroristici così come l’insorgenza dello Stato islamico sono segnali che devono mantenere alta l’attenzione: nel Fezzan, Roma ha ancora mota strada da fare. Ma gli accordi (sempre precari) con le tribù e la presenza dei nostri uomini nella città di Ghat sono elementi che aiutano la buona riuscita della politica italiana.
Boom della rotta occidentale. Mentre l’immigrazione verso l’Italia dalla Libia rallenta a vista d’occhio, il flusso di migranti cambia le proprie rotte. Sempre secondo i dati forniti da Frontex, la Spagna ha assistito quest’anno a un vero e proprio boom di arrivi clandestini nel proprio Paese. Solo nel 2018, il numero di immigrati entrati clandestinamente in territorio spagnolo ha raggiunto quota 57mila. Un aumento del 161,7% rispetto ai 21.971 del 2017. Se a questi arrivi, si sommano quelli a Ceuta e Melilla, si arriva a 64.298. Mentre le barche di migranti che hanno raggiunto le Baleari sono state 1.955 solo lo scorso anno. La via del Mediterraneo occidentale è diventata così la rotta più utilizzata dai migranti per raggiungere l’Europa, con il Marocco a essere il terminal di partenza di questa rotta che raccoglie in larga parte persone provenienti dall’Africa subsahariana, pur assistendo, negli ultimi tempi, a un aumento di marocchini e algerini.
Rinasce la rotta del Mediterraneo orientale. Dall’altra parte del Mediterraneo, nell’area tra Cipro, Turchia e Grecia, la situazione sembra essere in fase di evoluzione. L’accordo tra Unione europea e Recep Tayyip Erdogan, che a suon di miliardi ha chiuso i rubinetti migratori (sfruttando poi per fini interni la popolazione siriana arrivata in Turchia e diventata la chiave per influenzare il nord della Siria), funziona. Ma non come dovrebbe. Nel 2018, il numero di irregolari intercettati mentre lungo la rotta del Mediterraneo orientale è aumentato di quasi un terzo, toccando quota 56mila. E, come spiegato da Frontex, l’aumento è stato dato principalmente dal crescente numero di profughi che sono arrivati in Grecia passando dal confine terrestre con la Turchia. Nell’Egeo, invece, la situazione appare identica al 2017. Sulla rotta orientale, si assiste poi al raddoppio di arrivi a Cipro. I migranti arrivano soprattutto da Afghanistan, Siria e Iraq. Mentre dal confine terrestre fra Turchia e Grecia, sono i turchi quelli che in maggioranza decidono di entrare in Europa.
Le rotte cambiano l’Europa. I cambiamenti delle rotte migratorie portano ad alcune riflessioni. Specialmente con l’avvicinamento delle elezioni europee e con una serie di crisi politiche che potrebbero avere come teatro i Paesi di approdo delle nuove vie dell’immigrazione del Mediterraneo. Non è un mistero che la chiusura dei confini e idee in generale sovraniste abbiano molta presa in tutta la popolazione europea, a prescindere dalla regione di riferimento. L’immigrazione clandestina è stata e continua ad essere uno dei punti principali del programma della Lega in Italia, che è seconda forza di governo. Ma non va dimenticato che anche nel resto dell’Europa mediterranea le destre sono in ascesa. E l’aumento del flusso migratorio può incidere sensibilmente sullo scenario politico continentale. Non è un caso che la Spagna assista all’aumento di consenso per Vox, partito sovranista che ha tra i punti della sua agenda quella di una chiusura quasi ermetica dei confini iberici. Anzi, il boom in Andalusia, regione storicamente socialista ma diventata oggetto di continui sbarchi di migranti, specialmente dalle parti di Cadice, è indicativo di come possa orientarsi l’elettorato spagnolo. E lo stesso dicasi per la scelta del Partido Popular di designare Pablo Casado come leader, dal momento che uno dei suoi primi atti è stato quello di recarsi a Ceuta. Dall’altra parte, nel Mediterraneo orientale, la Grecia assiste a una forte crisi del governo di Alexis Tsipras. I sondaggi confermano la caduta di consenso per Tsipras. Syriza, il partito del primo ministro greca, è dato una decina di punti percentuali sotto il primo partito d’opposizione: Nea Demokratia. E il sistema d’accoglienza dei migranti, in cui l’Europa latita, è decisamente al collasso. Un problema che ha reso anche stabile il consenso per la formazione di ultradestra di Alba Dorata, stabile tra i l 7 e l’8%. E adesso, le elezioni europee si avvicinano.
· “Amaro” Mimmo Lucano.
Domenico Lucano non è più in esilio: revocato il divieto di dimora. Nel giorno in cui Salvini lascia il Viminale, il tribunale di Locri ha deciso: l’ex sindaco non è più un “pericolo”. Simona Musco il 5 Settembre 2019 su Il Dubbio. Nel giorno in cui Matteo Salvini non è più ministro dell’Interno, Domenico Lucano può tornare a Riace. Una coincidenza, questo è ovvio, ma sembra quasi un segno del destino. L’ex sindaco di Riace, da quasi un anno costretto a vivere lontano dal Paese che ha amministrato per 15 anni, nei giorni scorsi ha visto muoversi la società civile, con una raccolta firme con la quale in molti hanno chiesto di lasciarlo tornare a casa per riabbracciare il padre 94enne, gravemente malato. Ma a riaprirgli le porte del piccolo borgo – come riportato dalla testata Calabria7 a firma di Vincenzo Imperitura – è stato il Tribunale di Locri, che questa mattina ha accolto l’ennesima istanza avanzata dai legali di Lucano, Antonio Mazzone e Andrea Daqua. Nei mesi scorsi l’ex sindaco si era visto più volte negare l’autorizzazione a rientrare a Riace, con due diversi provvedimenti del Riesame che avevano decretato la pericolosità di Lucano, troppo influente da poter essere lasciato libero di scorrazzare a Riace. Ma a sottolineare le crepe nell’impianto accusatorio era già stata la Cassazione, che a febbraio aveva messo fortemente in discussione le ragione che hanno spinto i giudici a firmare il divieto di dimora. Gli ermellini avevano infatti annullato con rinvio l’ordinanza in merito alle esigenze cautelari e al reato di turbata libertà degli incanti, relativo all’affidamento della raccolta differenziata a due cooperative sociali, la “Ecoriace” e L’Aquilone”, prive secondo l’accusa dei requisiti di legge, in quanto non iscritte all’apposito albo regionale previsto dalla normativa di settore. Un problema bypassato, secondo la Procura di Locri, istituendo un albo comunale delle cooperative sociali tramite cui poter affidare direttamente, secondo il sistema agevolato previsto dalle norme, lo svolgimento di servizi pubblici e impedendo «l’effettuazione delle necessarie e previste procedure di gara», che prevedevano la procedura del cottimo fiduciario. Per i giudici del Palazzaccio rimaneva fondata l’ordinanza in merito all’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per aver organizzato un matrimonio tra una migrante e un uomo di Riace con lo scopo, secondo l’accusa, di farle ottenere il permesso di soggiorno. Un matrimonio poi mai celebrato, per il rifiuto di Lucano di officiarlo, date le difficoltà dello sposo anche a ricordare il nome della donna, ma sintomo, secondo l’accusa, di un metodo che, in realtà, si sarebbe concretizzato una sola volta, con un unico matrimonio accertato e, secondo i due sposi, «assolutamente vero». Su Mimmo Lucano – così si era espressa la Cassazione – è stata espressa una «non prevista valutazione di ordine morale». Non ci sarebbero prove della frode e del condizionamento nella scelta del soggetto a cui affidare la raccolta dei rifiuti. Effettuata con atti collegiali, e non come atto d’imperio dell’allora sindaco di Riace. Per gli Ermellini, di indizi che supportino il dubbio di comportamenti illegali non vi è traccia. Anzi, quegli affidamenti diretti, sotto soglia, erano possibili e tutti certificati da pareri di regolarità tecnica e delibere approvate anche in sua assenza. Ma non solo: le esigenze cautelari, confermate dal primo Riesame e poi ribadite una seconda volta dopo l’annullamento con rinvio, si poggerebbero su circostanze «irrilevanti», ritenute anche nella prima ordinanza cautelare «prive del necessario fondamento giustificativo». Così come il richiamo a presunti matrimoni di comodo poggia su un quadro «sfornito di elementi di riscontro». Sull’inchiesta era stato lo stesso gip che ha firmato l’ordine di arresto a sollevare forti dubbi, smontando buona parte delle accuse a carico del sindaco sospeso. Una porzione significativa dell’ordinanza era dedicata alle accuse da cui tutto ha preso le mosse: associazione a delinquere finalizzata, a vario titolo, alla truffa, alla concussione e alla malversazione, accuse che per gli uffici giudiziari guidati da Luigi D’Alessio, invece, rimangono in piedi. Accuse, però, fortemente criticate dal giudice, secondo cui gli investigatori non avrebbero trovato riscontri, talvolta in maniera anche superficiale. Sull’affidamento diretto dei servizi di accoglienza, ad esempio, il giudice parla di «vaghezza e genericità del capo di imputazione», tale da non essere idoneo «a rappresentare contestazione provvisoria alla quale validamente agganciare un qualsivoglia provvedimento custodiale». Il solo riferimento a «collusioni ed altri mezzi fraudolenti che avrebbero condotto alla perpetrazione dell’illecito si risolve in formula vuota, ossia priva di un reale contenuto di tipicità». Non ci sarebbe dunque modo di capire, dalle mille pagine di richiesta presentate dalla Procura, quali motivazioni avrebbero sorretto l’ipotetica scelta di affidare i servizi senza alcuna procedura negoziale. E il giudice si spinge oltre, parlando di «errore tanto grossolano da pregiudicare irrimediabilmente la validità dell’assunto accusatorio», laddove la Procura ipotizza l’acquisto di derrate alimentari non destinate agli immigrati e utilizzate per fini privati, con rendiconto di costi fittizi per ricevere dal ministero dell’Interno oltre 10 milioni di euro. Ma la Guardia di Finanza ha quantificato come illegittime tutte le somme incassate, senza considerare «l’effettivo svolgimento da parte di tali enti del servizio loro assegnato», evidenziato invece dal gip. Una «marchiana inesattezza», aggiungeva il gip Domenico Di Croce, secondo cui «gran parte delle conclusioni cui giungono gli inquirenti appaiono o indimostrabili, perché allo stato poggianti su elementi inutilizzabili (…) o presuntive e congetturali o sfornite di precisi riscontri estrinseci». Giudizio simile formulato nel caso dell’accusa di aver firmato 56 determinazioni di liquidazione false per il rimborso dei costi di gestione dei servizi Cas e Sprar. Insussistente anche la più grave delle accuse, quella di concussione: Lucano e Fernando Capone, presidente dell’associazione “Città Futura”, secondo la Procura avrebbero abusato della propria posizione per costringere il titolare di un esercizio commerciale a predisporre e consegnare fatture false per 5mila euro. Ma «gli inquirenti – scriveva il gip – non hanno approfondito con la dovuta ed opportuna attenzione l’ipotesi investigativa», fidandosi delle parole del commerciante – che avrebbe dovuto essere ascoltato in presenza di avvocato, in quanto indagato -, le cui dichiarazioni non sono mai state dimostrate. Una «persona tutt’altro che attendibile», sentenzia il giudice. Che elimina anche dubbi sulla malversazione: i soldi dell’accoglienza, non sarebbero stati usati per «soddisfare interessi diversi da quelli per i quali erano corrisposti». Una tesi «non persuasiva, poiché congetturale». Meno gentili erano stati, invece, i giudici del Riesame, che pronunciandosi una prima volta sulle esigenze cautelari avevano rappresentato un quadro a tinte fosche, pur andando oltre le precise contestazioni oggetto del ricorso. «Lucano – affermavano i giudici del Tdl reggino – non può gestire la cosa pubblica né gestire denaro pubblico mai e in alcun modo». Un passaggio che non veniva smorzato dall’unica frase comprensiva, due righe più in là: il riconoscimento di quei fini umanitari, in nome dei quali «ed in nome di diritti costituzionalmente garantiti» Lucano «viola la legge con una naturalezza ed una spregiudicatezza allarmanti».
I padroni di Riace: Mimmo Lucano e gli altri. Storie di un sistema che ha messo in crisi le casse dello Stato (RN Inchieste Vol. 1) di Zaira Bartucca (Autore). Fabio Lugano e Andrea Sacco: Un libro per mettere fine alla retorica su Mimmo Lucano e sul “modello” Riace? Dopo tanta narrativa scollata dalla realtà, ora c’è. Si chiama “I padroni di Riace – Mimmo Lucano e gli altri. Storie di un sistema che ha messo in crisi le casse dello Stato”. Un lavoro ambizioso: settanta tra capitoli e micro-capitoli per il volume che parla tramite documenti, dati, interviste e resoconti dei sopralluoghi a Riace. E’ il “libro urgente”, per citare le parole della prefazione di Zaira Bartucca, giornalista e autrice che pensato di mettere in ordine tutti i pezzi del sistema Riace. “In questo volume – riporta l’introduzione – non emetto giudizi di sorta, come hanno fatto molti finora nel tentativo di legittimare un modello in realtà inesistente. Mi limito a esporre quegli aspetti accertati su cui ora si concentra la Giustizia per comprendere come agire nei riguardi dei protagonisti degli episodi di cattiva gestione. Le responsabilità, qualunque corso faccia il processo, rimangono. I soldi dello Stato sono spariti e sono serviti non ad arricchire il tessuto sociale, ma le tasche di qualcuno. Gli accordi opachi sono stati siglati, le appropriazioni indebite, avvenute. E questo, processo o meno, pareri discordanti o no, è insindacabile”.
Sinossi. Dieci milioni volatilizzati. Migranti che risultavano in Calabria mentre venivano arrestati dall'altra parte dell'Italia. Poi i matrimoni combinati, le truffe e quel vizio di fare la "cresta" praticamente su tutto. Il sistema Riace (non modello) è stato anche questo. A tenere le fila di tutto, Mimmo Lucano e uno stuolo di fidati dal ruolo altrettanto fondamentale. In questo ampio e dettagliato volume di settanta capitoli comprensivi di appendici che per la prima volta racconta l'altra Riace (quella delle vicende giudiziarie e delle tante verità nascoste dalla stampa ufficiale) è contenuto questo e molto altro. A margine ma nemmeno poi tanto, organismi noti, politici di livello, magistrati, funzionari, giornalisti ed eminenze grigie varie. Tutti affaccendati a costruire un'immagine inesistente, quella del "sindaco eroe" che agiva per altruismo e che dall'accoglienza fasulla non ci ha guadagnato nulla. Ma è davvero così? E cosa si nasconde dietro le storie di mala gestione? Cosa nasconde chi difende Lucano? Domande che qui trovano risposta. Trovano spazio, come valore aggiunto, resoconti, documenti, interviste, cronache da un territorio indagato da vicino.
Il volume fa parte della collana RN Inchieste e ha come autrice una delle firme forti di Rec News.
ZAIRA BARTUCCA da L’Inkiesta. Nasce nel 1986 a Lamezia Terme. Qualche anno dopo inizierà a scrivere, per non smetterla più. Passerà con una certa disinvoltura dal giornalino venduto a cinque anni ai parenti per 500 lire (in proporzione si stava meglio allora) a, vent’anni dopo, testate larghe di propositi ma strette di manica. Si laurea - incurante dei rischi - in una facoltà di Beni culturali. Vince il Premio ComuniCal 2014 ma se ne accorge solo a premiazione avvenuta. Qualche mese dopo, stavolta rendendosene conto, partecipa alla trasmissione di Canale 5 Striscia la Notizia. Ha intervistato Vittorio Sgarbi senza che lui dicesse neppure una volta “capra”. Tifa Napoli ma vorrebbe che Paulo Sousa fosse un giorno l’allenatore della sua squadra del cuore.
"Ora ti dico io cosa devi fare": così il giudice aiutava Lucano. Il sindaco di Riace indagato per il suo sistema d'accoglienza, il magistrato gli dava consigli: "Non parlare al telefono". Michel Dessì, Martedì 16/07/2019, su Il Giornale. “Ascoltami cazzo... non perdiamo tempo... nella cosa della prefettura non c'è niente che possa fare ipotizzare una concussione... io l'ho letta...". A parlare al telefono con Mimmo Lucano è il magistrato Emilio Sirianni. Il “modello Riace” era a rischio e bisognava fare di tutto per salvarlo. Anche mettere in pericolo la propria professione, come ha fatto la toga amica di Lucano. Fummo i primi a scrivere della relazione di amicizia tra Lucano e Sirianni, che consigliava al sindaco (indagato) di “non parlare al telefono” durante le indagini. Indagini lunghe e scrupolose portate avanti dai finanzieri di Locri. Indagini che hanno portato prima all’arresto di Mimmo Lucano e, poi, al divieto di dimora nel comune di Riace. Dopo la nostra indiscrezione il Csm ha aperto una pratica sul giudice della Corte di appello di Catanzaro. Un’indagine interna che, pare, non abbia portato a nulla. Ma per il Pm di Locri, che segue le indagini, il magistrato (indagato per favoreggiamento a Mimmo Lucano) ha usato un atteggiamento “poco consono a una persona appartenente all’ordinamento giudiziario, la quale peraltro era consapevole di parlare con una persona indagata”. Oggi siamo in grado di fornirvi ulteriori informazioni e dettagli sul rapporto tra l’ex sindaco di Riace e il giudice. Le intercettazioni parlano chiaro, il tono tra i due è amicale. Il giudice dà consigli e suggerimenti su cosa fare. Sirianni appare come una figura a metà tra il consulente di immagine e l'avvocato difensore di Lucano. In una telefonata fiume di oltre 19 minuti, di cui noi de Il Giornale siamo entrati in possesso in maniera esclusiva, i finanzieri intercettano il 9 ottobre del 2017 il magistrato Sirianni che suggerisce a “Mimì” la linea difensiva da seguire (ascolta i punti salienti). “Non c'è niente che possa far ipotizzare una concussione..., quindi questa concussione devono o se la sono proprio inventata o devono averla tirata fuori da qualche altra cosa quindi c'è qualcuno che potrebbe avere fatto una cosa del genere anche in piccolo?” chiede il giudice a Lucano, che divaga. Sirianni avverte: "ascolta ... Mimmo allora bisogna prepararsi… perché l'ispezione è una puttanata… quindi queste associazioni dovete eh contattarle tutte... tutti i responsabili di queste associazioni e chiedergli se sono disposti a dichiarare per iscritto all'avvocato, perché queste si chiamano indagini difensive, come sono andate le cose e cioè che tu non gli hai chiesto i soldi per metterteli in tasca...” dice il giudice che, grazie al proprio bagaglio di esperienza, è in grado di suggerire bene a “Mimì” cosa fare. Sirianni si preoccupa anche della professionalità dei legali dell’ex sindaco e, sempre al telefono, gli dice di avere preso informazioni sui suoi difensori: “Un collega che lo conosce mi ha detto che ultimamente è svaporato i capa… Ha troppi pensieri per la testa, meglio che ci sia un altro avvocato che lo affianca.” Siriani seguiva passo passo Lucano. Era lui ad indicare a Lucano come rispondere alla Prefettura di Reggio Calabria che ha sollevato una serie di dubbi sulla gestione dei progetti di accoglienza. L’ex sindaco manda al giudice le carte che riceve, lui gli spiega come difendersi, prepara per lui le risposte da inviare al Prefetto, si occupa persino delle sue conferenze stampa “organizzando in favore dello stesso una base di consenso popolare per sostenere la sua azione nell'ambito dell'accoglienza.” Tutto studiato nei minimi particolari. Lucano ammette di aver chiesto soldi alle associazioni che gestivano i migranti per pagare le feste e i cantanti. Soldi stanziati e destinati solo ed esclusivamente per i migranti. Soldi che non potevano essere utilizzati per altro. Sempre nelle stessa telefonata Mimmo Lucano, in riferimento ai soldi utilizzati per pagare artisti e spettacoli, dice al giudice: “Quando noi facciamo le manifestazioni estive alle associazioni io, ma né con violenza né con forza né con nessuna cosa, siccome il progetto si chiama festival dell'accoglienza e della legalità mettete un contributo, mettete un contributo, se è possibile e non che i soldi li danno a me, li mettono loro per pagare quello che non possiamo fare come Comune perché non ci basta come Comune.” E il giudice chiede a Lucano: "E alle associazioni che fanno cosa scusa?” E Lucano risponde: “che fanno i progetti di accoglienza!!! Io mica l'ho chiesto per una cosa per darmi i soldi personali o perché devo darmi i soldi per fare con la violenza... semplicemente una indicazione .... facciamo come una colletta e sosteniamo un processo che sul piano culturale comunque si collega a questo…” Peccato, però, che quei soldi non potevano essere usati. Finanziamenti “distratti” dai fondi per i profughi, scrivono gli inquirenti. Il giudice consiglia a Lucano di sentire tutte le associazioni, “tutti i responsabili di queste associazioni e chiedergli se sono disposti a dichiarare per iscritto all'avvocato, perché queste si chiamano indagini difensive, come sono andate le cose e cioè che tu non gli hai chiesto i soldi per metterteli in tasca... Mimmo ti sto dicendo come ti devi difendere hai capito... eh ho capito tutto quello stronzo del vicesindaco è andato a mettergli questa pulce nell'orecchio. È inutile che stiamo qua a fare ... dobbiamo essere operativi è inutile che stiamo qua a fare lamentazioni e perdere tempo perché il tempo stringe quindi numero uno i tuoi difensori, si chiamano indagini difensive, devono individuare tutti i responsabili di queste associazioni e sentirli, come se fosse un pubblico ministero che fa una indagine.” Consiglia l’esperto magistrato a Lucano. Il giudice, innamorato di Riace e del progetto di accoglienza, pare aver messo da parte la propria professionalità. Non resta da vedere come si comporterà questa volta il Csm.
Così Mimmo Lucano andava a caccia dell'immunità parlamentare. Le trame dell'ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, per salvarsi dall'inchiesta sul suo sistema di accoglienza per i migranti: farsi eleggere con la Boldrini. Michel Dessì, Domenica 21/07/2019, su Il Giornale. Mimmo Lucano, l’uomo giusto di Riace, a caccia di immunità parlamentare. L’ex sindaco osannato dalla sinistra, si sente con il fiato sul collo. Il fiato dello Stato, che lo bracca. Le ispezioni sono più frequenti, come le visite delle fiamme gialle che sequestrano documenti e acquisiscono atti. Il rubinetto dei milioni di euro di fondi pubblici si chiude a poco a poco. E, nel piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, si fa sentire l’arsura. Il “modello” di accoglienza si sgretola come un castello di sabbia sotto il cocente sole della baia di Riace. Giorno dopo giorno. “Mimmo” deve trovare una soluzione, bisogna pararsi le spalle. Come? Magari con una bella candidatura al parlamento. Bisogna approfittare dei benefici dei parlamentari italiani. L’unica soluzione, secondo “Mimì U’Curdu”, per salvarsi dall’inchiesta “Xenia”. A rivelarlo sono le carte di cui noi de Il Giornale siamo entrati in possesso. Al telefono con il fratello Giuseppe, Mimmo parla di strategia. Dice di essere pronto a scendere in campo, ma solo ed esclusivamente ad una condizione: "ovviamente io accetto solo se sono primo della lista... assolutamente non faccio stupidaggini... perché non so questa lista da quante persone deve essere fatta... che poi...” (ascolta l'intercettazione). Si riferisce alla lista di Liberi e Uguali, il partito di Laura Boldrini. È lì che punta “U’Curdu”. È lì che cerca asilo e protezione, tra gli scranni sicuri della sinistra. L’amicizia tra Mimmo Lucano e Laura Boldrini non è un mistero. Lei, come altri, hanno sventolato la bandiera dell’accoglienza di Mimmo Lucano, marciando in prima fila per le strade di Riace. Mimmo, usato come simbolo di onestà, come vessillo per promuovere l’accoglienza. Una bandiera sventolata anche del Partito Democratico che, però, non convince Lucano. Troppo distante da lui. Al telefono “Mimì” parla di politica. Dall’altra parte della cornetta c’è Ilario Ammendolia, un amico, “che vuole lanciare la candidatura di Lucano.” Ammendolia lo mette in guardia e avvisa che “il posto di Liberi e Uguali è stato già promesso a un consigliere regionale“, a Gianni Nucera, “e quindi di pensare di candidarsi con il Partito Democratico.” Lucano risponde: "...il partito democratico lo escludo subito ... per me rimane questa opzione ma se... se non ci fosse stata questa... come devo dire... questa cornice giudiziaria io ti avrei detto subito no immediatamente.... invece questa cosa mi fa riflettere un po'...” Ma è al telefono con il fratello Pepè che Mimmo si confessa: “...fino ad ora Grasso non si è pronunciato per niente... manco Laura Boldrini che all'inizio ha fondato questo partito non è che mi hanno detto nulla... quindi questo silenzio per adesso che poi negli ultimi giorni esce qualcosa non lo so questo ..." Lucano si riferisce all’inchiesta. Ha paura, paura che venga fuori qualcosa prima della presentazione dei candidati. Suo fratello Pepè gli dice: "ma l'intenzione tua quale è? ...cosa vuoi fare?" Mimmo si apre e, senza mezzi termini, dice: "l'intenzione mia è che... che... per quanto riguarda gli aspetti giudiziari cosi a me conviene..." Pepè: "la candidatura". Lucano: "ma però intanto ovviamente io accetto solo se sono primo della lista ... assolutamente non faccio stupidaggini...” Il fratello Pepè gli fa notare “che poi in base al quorum vengono scansionati (decisi) i nomi ... si incomincia dal primo ehhh ...". Ma “Mimì” è preoccupato per lo scranno: "si ma... ma per come sta Liberi e Uguali riesce a prendere solo uno (un posto) in tutta la Calabria... al proporzionale perchè sull'uninominale... il colleggio uninominale devi fare la gara con tutti i partiti...omissis .... allora la sicurezza uno portebbe averla nel proporzionale il primo ... inc ... quindi questa è una prima condizione... di essere primo nella lista... seconda mi devo rendere conto che me lo chiedono con insistenza...” dice Mimmo, in cerca di un porto sicuro lontano da Lampedusa. Una candidatura non andata a buon fine soltanto perché nessuno gli ha offerto un posto in lista. Eppure, l’abile Lucano, ha saputo trarne profitto. Solo qualche mese fa, l’uomo duro della sinistra, l’anarchico con fare fiero annuncia dal palco della “Repubblica delle Idee” di Bologna, (la festa organizzata dal quotidiano la Repubblica) di non avere mai avuto l’intenzione di candidarsi al parlamento. E, alla domanda dei giornalisti, dice: “Perché non mi sono candidato alle europee? Perché non approfitto della notorietà”. L’ex sindaco esiliato racconta di non avere mai accettato candidature nonostante le proposte di diversi partiti, "ma io un partito non ce l'ho". Diceva “Mimì”.
Quei falsi contratti agli amici pagati coi soldi dei migranti. Non solo case e feste: Lucano assumeva parenti e compagni "bisognosi" con i soldi per lo Sprar. Ecco le carte dell'inchiesta. Michel Dessì, Lunedì 22/07/2019, su Il Giornale. Riace, un’isola felice nel mare torbido e agitato della Calabria. Lì, gli amici di Mimmo Lucano, l’ex sindaco dei migranti, oggi in esilio forzato dalla procura di Locri, non avevano problemi. Non dovevano lottare per trovare un lavoro, nessun sacrificio per arrivare a fine mese. Per gli amici di “Mimì” un posto sicuro c’era sempre. Anche in Calabria dove, secondo l’Ufficio statistico dell’Unione Europea, i giovani senza lavoro sono il 52,7%. A rivelarlo sono le carte dell’inchiesta “Xenia”, di cui noi de Il Giornale siamo entrati in possesso. I soldi dello Stato non mancavano e Mimmo Lucano, secondo l’accusa, non si faceva problemi ad assumere compagni “bisognosi”, anche grazie a dei contratti fasulli. A beneficiarne anche il nipote di Cosimina Ierinò, il braccio destro del “re dei migranti”. È il 5 luglio del 2017 quando Cosimana chiede a “Mimì”: “…vorrei che integrassimo mio nipote Cosimo da qualche parte, se è possibile, lo so che ti chiedo troppo, ma se è possibile…”. Il nipote di Cosimina aveva idee “geniali” per rilanciare il modello Riace e fare cassa. “Sai perché? - dice Cosimina a Lucano - ... perché lui l'altra volta mi ha detto ma perché non fate un sito on-line per vendere le cose in giro, metterle in rete, fare ordini...” La giovane mente vorrebbe fare business con i prodotti creati dai profughi di Riace nelle botteghe del piccolo paese. Peccato che, quei laboratori artigianali, non fossero sempre in funzione. Si animavano solo per le visite istituzionali. I migranti venivano pagati per fare le comparse, come i pastori nei presepi viventi, fingevano di lavorare. Una vera e propria messa in scena. A provarlo sono le intercettazioni. Per Mimmo Lucano l’assunzione di Cosimo non si può fare. Lo Stato non paga per gestire la vendita online dei prodotti. Un lavoro che sarebbe dovuto essere pagato direttamente dalle associazioni di Riace, ma per Lucano c’è un modo e lo suggerisce a Cosimina: “In questi termini non è possibile, sai cosa dobbiamo fare?... dobbiamo ritagliare un minuto di tempo per fare un'ipotesi di rendicontazione del 2017 per lo SPRAR, la Prefettura, dei Minori, tutte cose, quando facciamo questa rendicontazione vediamo tutto il costo del personale, io sono convinto che ne manca... però come lo giustifichiamo come operatore SPRAR? ... come lo giustifichiamo? ...perché fargli il contratto di lavoro, per rendicontarlo deve essere ...noi ci dobbiamo giustificare… suggeriscimi un ruolo nell'ambito del progetto SPRAR, che si occupa dell'amministrazione? ... che collabora ... fa parte dell'amministrazione?” chiede Lucano al suo braccio destro. Cosimina risponde prontamente: “anche! ...perché io sono addetta alla banca dati...” ma Lucano trova il modo per assumerlo: “sistema di rendicontazione... l'unica cosa è questa, facciamo queste due cose e poi lo puoi chiamare subito!” Ma c’è un motivo se Cosimina chiede a Lucano di far assumere il nipote: “non pensare che te l'ho chiesto per cosa ma... te l'ho chiesto perché mi dispiace che deve lavorare dal cinese, oggi l'ho visto che scaricava pacchi, è da un mese che lavora là... lui (Cosimo il nipote ndr) questo lavoro lo potrebbe fare anche da casa Mimì...” Dice Cosimina con il “cuore in mano a Lucano che risponde: “sì… ogni tanto viene qua con te, per prendere coscienza di tutto... noi gli diamo uno stipendio di 7-800 euro, poi quando gli facciamo la cosa gli dici... come gli altri, come tutti, il suo ruolo è questo!” Ma Lucano è chiaro: “l'importante che costruisca in rete tutto questo sistema e che collabori con te per rendicontazione, perché poi sia veramente attinente in modo che lo possiamo giustificare con la rendicontazione SPRAR…” Peccato che, facendo una ricerca sul web, (dove rimane ogni traccia) non troviamo nulla del lavoro creato da Cosimo. Ma si sa, “Mimì” è un uomo dal cuore grande. Tanto a pagare era lo Stato.
Il sistema Riace per avere voti: lavoro in cambio dei consensi. Il sindaco Lucano non aveva bisogno solo di soldi per l'accoglienza. Ma anche di aiuto per continuare a "regnare". Michel Dessì, Venerdì 19/07/2019, su Il Giornale. Mimmo Lucano non aveva solo bisogno di soldi, ma anche di voti. Tanti voti. Voti che gli avrebbero permesso di continuare a regnare per tanti anni nella piccola Riace. Un consenso necessario per portare avanti il “modello” di accoglienza divenuto famoso nel mondo. Un “modello” che, a lungo andare, gli si è rivolto contro, mettendolo con le spalle al muro. Secondo l’accusa, Mimmo Lucano detto “U’Curdu”, dava lavoro in cambio di voti. Peccato, però, che i dipendenti delle varie associazioni che gestivano gli Sprar e i Cas non si presentavano sul posto di lavoro. Sapevano di avere il coltello dalla parte del manico. Lucano era ricattabile. “Parli? Mi obblighi a lavorare? E allora non ti voto”. Era questa la paura di “Mimì”, che contava ogni singolo voto. “Emerge in maniera lampante che Lucano ha creato posti di lavoro solo per sostenere economicamente gli immigrati e dare opportunità̀ lavorative a soggetti di Riace a lui vicini politicamente", scrivono gli inquirenti che lo intercettano. È il 10 luglio del 2017, sono le 8.39 del mattino e Mimmo Lucano si lamenta del personale con la sua collaboratrice, Cosimina Ierinò, e le dice “ci sono almeno 50 persone pagate che non fanno nulla... ci conviene a tutti chiudere, perché́ devo lottare in questo modo? ... in un modo disperato, se continuano ... qua ognuno fanno i cazzi loro, perché́ questa cosa, perché́? ... Perché́ devo essere schiavo delle persone? ... Perché́ devo essere uno schiavo? ... ma io come devo fare? ... devo chiedere l'elemosina quando siete tutti quanti pagati! (bestemmia) ... ma cose da pazzi! ... sono talmente amareggiato che ... gli ho detto di togliere la pianta da là e non l'hanno tolta e là è uno schifo, tutte queste persone pagate, ma che cazzo servono qua?”. Il sistema di accoglienza messo in piedi da Lucano gli si ritorce contro. Un sistema che viaggia come una macchina che cammina a tutta velocità senza mai fermarsi. Una macchina pronta a travolgerlo. I soldi per l’accoglienza tardavano ad arrivare e i dipendenti, pagati per non lavorare, si lamentavano e, “U’Curdu”, si sfogava: “Si presenta qua (riferito ad una dipendente ndr) e ora vuole pure pagato il mese che non è stata neanche un giorno al lavoro... è stata in Germania per i cazzi suoi, poi quando arriva settembre-ottobre gliela dò io la risposta, poi può votare per chi cazzo vuole, può parlare male, può fare quello che cazzo vuole!” E confessa senza mezzi termini (ascolta l'intercettazione): “...la politica mi tiene a me, sennò un minuto ci stavo a mandare a casa, la politica di merda mi tiene, non pensare, ma lo sanno loro... a me che cazzo mi dà Angela me ne fotto di lei, la politica mi tiene se vuoi che te lo dica chiaro e tondo, la politica”. Addirittura “Lucano medita il licenziamento di alcuni dipendenti - come Angela - che non avrebbero portato alcun voto”. Ma Lucano, pur di continuare a fare il sindaco, faceva finta di non vedere. Si tappava le orecchie e si copriva gli occhi. Sapeva, da quello che leggiamo tra le carte che, alcune associazioni presenti a Riace, si intascavano i soldi pubblici destinati ai migranti. Migranti sul piede di guerra proprio perché mancavano quei soldi, soldi che qualcuno si era messo in tasca come conferma lo stesso Lucano in una intercettazione del 2 settembre del 2017. Riferito alla presidente dell’Associazione Girasole, Maria Taverniti, Lucano dice: “...ti spiego perché approfitta, perché sa che mi servono i voti per mandare avanti la baracca altrimenti la mandavo a fare in culo e la cacciavo dalla Sprar...”. La sua fida Cosimina nella stessa intercettazione afferma che i membri della cooperativa Girasole hanno distratto una grossa somma dei fondi del 2016. “... i soldi del 2016 loro se li sono fregati e non lo hanno chiuso il 2016, quindi hanno dovuto pagare le lacune del 2016, ecco perché̀ non si troveranno più̀, perché quando gli è arrivato l’80% (dei finanziamenti ndr) del 2016 se ne sono messi una parte in tasca e non li hanno pagati ed ora devono pagare mesi arretrati del 2016. Ancora non hanno chiuso il 2016, possono chiudere il 2017? ...”. Sostiene il braccio destro di Lucano. Dunque, “Mimì” il buono, sapeva, era a conoscenza che qualcuno tra i suoi “amici” distraeva i soldi dell’accoglienza a discapito dei migranti. Ma “U’Curdu” taceva. Faceva finta di nulla pur di essere nuovamente eletto. Un silenzio complice, che ha permesso a molti (secondo l’accusa) di lucrare sulla pelle dei migranti.
Il "modello Riace" di Lucano: false prestazioni per gonfiare i finanziamenti. Nelle intercettazioni e nelle carte dell'inchiesta il modo con cui il sindaco otteneva più finanziamenti per l'accoglienza. Michel Dessì, Giovedì 18/07/2019, su Il Giornale. A Riace l’accoglienza era un vero “business”. Il “modello”, divenuto famoso nel mondo, andava mantenuto. Certo, non era facile farlo, soprattutto perché i soldi destinati agli immigrati, i famosi 35 euro al giorno, come riportato dagli investigatori, venivano utilizzati per concerti, feste, manifestazioni e pranzi. Lucano e i suoi avevano bisogno di soldi. Molti soldi. I migranti protestavano e, la tensione nel piccolo comune calabrese, cresceva giorno dopo giorno. Liti, proteste, scioperi. Gli immigrati si facevano sentire la loro voce e Lucano non poteva fare finta di nulla. Tutti, compreso Papa Francesco, lo avevano lodato, incensato, celebrato. “Mimì”, il bronzo di Riace famoso nel mondo, non poteva tornare indietro. Il “modello” doveva crescere, essere esportato in altri Paesi. Non si doveva arenare, ma il rischio era concreto come abbiamo visto. (Oggi il sistema di accoglienza è fallito e i migranti hanno lasciato il piccolo paese). Il Ministero dell’Interno, dopo alcune ispezioni, decise di chiudere il rubinetto, di dosare le gocce, e “Mimì” studiava il modo per ricevere più soldi. Come? Con delle false prestazioni occasionali, scrivono gli inquirenti. Lucano dava indicazioni alla sua collaboratrice su come fare per “gonfiare i costi sostenuti dall’associazione, (Città Futura) al fine di ottenere un maggiore finanziamento.” Si legge tra le carte dell’inchiesta “Xenia”. I finanzieri si concentrano in particolare su una conversazione tra Mimmo Lucano e Cosimina Ierinò. È l’8 settembre del 2017, i due si trovano sull’alfetta blu del sindaco dell’accoglienza. Lì scoprono che lo SPRAR non ha riconosciuto nella rendicontazione le borse lavoro. I soldi andavano recuperati e, sempre in macchina, studiano la “strategia” da mettere in piedi per fare cassa. Mimmo Lucano informa la sua fida collaboratrice: “...non vengono pagate dallo SPRAR, perché abbiamo fatto l'analisi della rendicontazione e già ci hanno detto in questo modo. Allora, se ci succede qualche cosa gli diciamo che per recuperare quello che hanno fatto, abbiamo passato con borsa lavoro presso la Prefettura ...”. Ma Cosimina “consiglia, invece, di predisporre delle false prestazioni occasionali da parte di persone fidate che poi restituiscono i soldi ricevuti con assegno (per garantire la tracciabilità) all’associazione” E intercettata dice: “... perciò ti dico bisogna trovare persone che pure che gli fai il bonifico i soldi li restituisce a Città Futura...”. Entrambi non volevano essere fregati. Bisognava coinvolgere nel giro persone amiche, fidate. Nelle intercettazioni ambientali, di cui noi de Il Giornale siamo entrati in possesso in maniera esclusiva, si sente un Lucano pensieroso, preoccupato di essere scoperto: “si però che ne so se poi succede che gli chiedono qualche cosa, ma tu hai fatto ... noi dovremmo fare veramente a quelli che hanno fatto il lavoro perché così poi quando gli chiedono, si si, ho fatto tutto questo. Per quello che io pensavo che era preferibile fare qualcuno che...” confida a Cosimina, che suggerisce: “perciò ti dico (si riferisce a Mimmo Lucano ndr.) bisogna trovare persone che pure che gli fai il bonifico i soldi li restituisce a Città Futura.” Ma “Mimì” è dubbioso: “si ma come facciamo noi per fare questa operazione di pagamento, quelli si vogliono tenersi pure i soldi!” Afferma il sindaco dei migranti. Ma per Cosimina la soluzione al problema è una sola: “L'unica era prestazioni occasionali alle persone fidate ... fidate.” Sottolinea a Lucano, che risponde e conferma di averlo già fatto in passato. Dalla parole del sindaco sembrerebbe quasi una strategia consolidata nel tempo. “Siii come abbiamo fatto all'epoca? - dice Lucano - ... no, non voglio queste cose più, per l'amore della Madonna, per amore della Madonna... Tu ti immagini che mio fratello Sandro mi dice di fargli la prestazione occasionale a lui?” No, giammai. Al fratello di Lucano no, il rischio è troppo alto fa notare la Ierinò: “no che ti bombardano. Da pulito poi entri nello sporco.” Fa notare la fidata collaboratrice. Come se farli a nome dei migranti vicini al sindaco fosse diverso. Fosse consentito. Lucano ammette: “ La forza mia è questa! Questa è la mia forza! Allora a loro questo fa paura? Questo gli fa paura. Altrimenti mi massacravano, porca la puttana. Allora perché mi hanno raccolto 20.000 firme?” Bisognava agire sì, ma senza sporcarsi le mani. Alla luce dei fatti che stiamo raccontando basandoci sulle carte dell’inchiesta, le 20 mila persone rimetterebbero la firma per sostenere ancora una volta Lucano? D’altronde, è lo stesso “Mimì” a chiederselo “Ma tu ti immagini che vedevano che io facevo questi trucchi in questa maniera... omissis...”
Riace, la fiction su Lucano esclusa dal palinsesto Rai. La serie dedicata al sistema di accoglienza dei migranti non andrà in onda. La decisione è stata comunicata dall'ad Salini e arriva in seguito alle vicende giudiziarie dell'ex sindaco. Pietro Bellantoni, Martedì 09/07/2019 su Il Giornale. La Rai non manderà in onda la fiction su Riace, nella quale Beppe Fiorello avrebbe indossato i panni dell'ex sindaco Mimmo Lucano. La decisione è stata comunicata oggi dall'amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini, in occasione della presentazione della nuova stagione autunnale. Per la fiction "Tutto il mondo è paese", che avrebbe dovuto celebrare il modello di accoglienza dei migranti creato da Lucano, “non è prevista collocazione nel palinsesto”, ha chiarito Salini. La decisione arriva in seguito alle ultime vicende giudiziarie dello stesso Lucano, a processo per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e abuso d'ufficio e indagato, in un'altra inchiesta, per truffa e falso, sempre per la gestione dei migranti. La fiction, girata e ultimata ormai da più di un anno, era stata sospesa dalla Rai in seguito alla prima relazione negativa della Prefettura di Reggio Calabria sul sistema di accoglienza di Riace e alla successiva inchiesta della Procura di Locri a carico di Lucano. L'ex sindaco – oggi un semplice privato cittadino dopo la mancata elezione a consigliere comunale alle ultime Amministrative del 26 maggio – aveva scritto direttamente a Viale Mazzini per protestare contro la decisione: “È del tutto ingiustificato che la Rai abbia sospeso la proiezione della fiction, "Tutto il mondo è paese", dedicata al centro della Locride in cui è stato attuato un importante modello di accoglienza dei migranti”. Alle lamentele di Lucano si erano poi aggiunte quelle dello stesso Fiorello, affidate a Twitter: “Non è la prima volta che una mia #fiction viene bloccata, anni fa le #foibe, il governo di allora non gradì, poi la storia di #graziellacampagna, l’allora Min. della Giustizia si indignò, ora #Riace, bloccata perché narra una realtà e nessuno/a dei miei colleghi si fa sentire”. L'attore aveva anche lanciato gli hashtag #iostoconriace e #riacerinasce. Anche il governatore calabrese del Pd, Mario Oliverio, aveva chiesto che venisse tolto “il bavaglio che impedisce di conoscere l'esperienza di Riace”. Reazioni che avevano spinto la Rai a spiegare i motivi della sospensione, strettamente legati alle vicende giudiziarie di Lucano: “Non appena la magistratura comunicherà le sue decisioni finali in merito all'indagine, il servizio pubblico adotterà i provvedimenti conseguenti". Il recente rinvio a giudizio dell'ex sindaco dell'accoglienza ha fatto il resto.
Da “Radio Capital” il 9 luglio 2019. La Rai chiude la porta alla fiction su Riace? Alla presentazione dei palinsesti della tv di Stato, l'amministratore delegato della Rai Salini ha detto che per il tv movie con protagonista Beppe Fiorello "non è prevista collocazione nel palinsesto". Ma per l'attore non è una bocciatura: "Io penso che sia una buona notizia, invece. Vuol dire che la Rai tiene molto a questo progetto, tanto da rassicurare gli spettatori", dice Fiorello in un'intervista a Radio Capital, "Secondo me in queste parole c'è una speranza per il futuro prossimo: se la Rai ha prodotto questo film, vuol dire che ci ha creduto. Non so dirvi quando, ma sono convinto che vedremo la storia di Riace". Da parte di Salini, quindi, nessuna chiusura: "Sarebbe stato più spiacevole se l'amministratore delegato avesse ignorato il progetto, e invece è stato onesto, leale, un vero manager. Ci sono dei procedimenti in corso a carico dell'ex sindaco di Riace, c'è tutta una questione legale che va chiarita, mi auguro che si trovi una fine da qui a breve e quindi il film poi potrà avere visibilità". Nella rete pubblica è stata fatta "una scelta etica", dice l'attore, che conferma tutto il suo supporto a Mimmo Lucano: "Sarò sempre al suo fianco, perché so quello che fa, so quello che ha fatto, perché lo ha fatto, come lo ha fatto. E so soprattutto come e in che condizioni vive l'uomo Mimmo Lucano, e questo lo sanno in pochi. Fa meno rumore a livello mediatico sapere che oggi vive a sfioro della soglia di povertà. Io lo sosterrò sempre come uomo. Lui ha adottato un unico sistema: aiutare chi aveva più bisogno. E un altro equivoco che c'è in tutta questa storia è che non ha aiutato solo i migranti, ma anche tanti calabresi. Forse farlo sapere fa meno scalpore". Ma da parte dei vertici Rai, dall'ad Salini al presidente Foa, c'è solidarietà nei confronti di Mimmo Lucano? "Dal punto di vista umano sono certo che hanno un pensiero positivo. Queste procedure a carico di Mimmo Lucano, probabilmente, ledono l'aspetto etico dell'azienda, quindi vogliono aspettare un momento più tranquillo affinché nessuno possa attaccare nessuno, e si possa dire che va in onda la storia di un uomo pulito. Per me rimane sempre pulito, per carità, anche con le indagini in corso". E la narrazione della Rai sovranista? Non la vede? "Da un punto di vista personale, non la vedo. È un gioco di specchi. Ogni governo, di qualunque colore, ha l'immediato interesse a far sì che la Rai rispecchi il governo in carica. Certo, la storia di Mimmo Lucano e di Riace è un po' in controtendenza con le politiche attuali. Ma la politica attuale ha tutto il sacrosanto diritto di vederla in un altro modo e di progettare un futuro diverso sul tema dell'immigrazione". E Beppe Fiorello è d'accordo con questo progetto? "È una visione di questo governo che non condivido in parte. Se c'è una parte che condivido? Penso che sul tema del Mediterraneo ci voglia una collaborazione mondiale. Ogni tanto però mi sembra che sia un'arma di distrazione di massa, sembra che esista solo quel tema lì. Mentre parliamo dei migranti, la camorra, la mafia e la 'ndrangheta si ammazzano dalle risate".
Lucano e la casa a Beppe Fiorello pagata coi soldi per i migranti. I soldi destinati ai profughi usati per ristrutturare la casa data a Beppe Fiorello e alla sua troupe che si trovavano a Riace per girare il film sulla vita di Mimmo Lucano. Michel Dessì, Venerdì 12/07/2019 su Il Giornale. Beppe Fiorello a spese dello Stato nella casa destinata agli immigrati di Riace. Sì, l’attore che avrebbe dovuto interpretare il sindaco dell'accoglienza Mimmo Lucano nella fiction (oggi sospesa) Tutto il mondo è paese finisce, a sua insaputa, tra le carte dell’inchiesta "Xenia" che, nell’ottobre del 2018 con l’arresto di Lucano, ha smantellato il "modello Riace". L'accoglienza, nel piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, non era destinata solo agli immigrati, ma anche agli amici e ai conoscenti dell’ex sindaco Lucano. Tutti potevano dormire e vivere gratis nelle case in uso allo Sparar e inserite nel database della Prefettura di Reggio Calabria. Case che avrebbero dovuto dare accoglienza solo ed esclusivamente ai profughi. Case ristrutturate e ammobiliate con i soldi destinati all’accoglienza. Eppure, in quelle case, ha dormito anche Beppe Fiorello, insieme ad altri attori e tecnici. Tutti erano impegnati nelle riprese della fiction e quale migliore soluzione se non dormire a Riace? Casa e bottega, direbbero alcuni. D'altronde, gli hotel in quella zona di Calabria, sono pochi e malmessi. Meglio le case arredate con i soldi dello Stato. E pensare che per quella fiction, mai andata in onda, sono stati stanziati alla Picomedia/Ibla Film Rai Fiction anche dei finanziamenti pubblici. Soldi messi a disposizione dalla Regione Calabria. Soldi che sarebbero serviti per pagare le spese, anche quelle di vitto e alloggio. Ad inchiodare Lucano ci sono tre intercettazioni datate luglio 2017 e delle testimonianze di cui noi del Giornale.it siamo entrati in possesso (ascolta qui). In particolare, in una intercettazione datata 12 luglio, si scopre che Fiorello era stato accolto nella comoda "Casa Lucia". Cosimina Ierinò, collaboratrice di Lucano, chiede al sindaco se la casa può essere destinata ad una immigrata con quattro figli, ma Lucano dice di "no" e gli indica un altro alloggio. Quella era destinata all'accoglienza degli ospiti, ma non di colore. "Casa Lucia" era stata "adeguata alle esigenze di Fiorello", scrivono gli investigatori. E lo scoprono sempre ascoltando Lucano al telefono. Questa volta parla con Chiara Sasso, una sua fidata amica. In quella occasione dice alla Sasso che nella "Casa Lucia" ha alloggiato Fiorello durante le riprese del film e che tutto era stato fatto per farlo stare bene. Ma quella casa non poteva essere data a Fiorello e agli operatori. A sottolinearlo anche gli investigatori: "Corre l’obbligo di segnalare che la predetta casa, formalmente assegnata ai profughi, era stata illecitamente data al personale addetto al film". Mimmo Lucano si preoccupava che tutto fosse bello ed ordinato per Beppe Fiorello. Telefonate continue a falegnami, piastrellisti ed elettricisti. Tutto doveva essere pronto in poco tempo. In una intercettazione telefonica Lucano si preoccupa e, chiamando un operaio, dice: "Dove sono le chiavi? Se non mi date le chiavi sono in difficoltà, domani viene gente. Bisogna pulirla, arredarla, mettere le lenzuola...". Ma l’operaio, che ha fatto i lavori, pensa ad altro. Pensa ai soldi che, essendo stati bloccati dal Viminale non arrivavano. "Come siamo messi riguardo ai soldi? Perché avevamo fatto degli assegni. Volevo sapere se vi erano arrivati i fondi...". E Lucano, interrompendolo, dice: "Stiamo lottando per far arrivare i fondi dal ministero". Il 20 marzo del 2018 gli investigatori, per avere conferma delle intercettazioni, decidono di convocare alcuni testimoni diretti che raccontano di una casa divisa su più piani in cui era stato posato il parquet, messe le piastrelle nuove e dei condizionatori contro il caldo afoso della Calabria. Tutto per volontà di Tonino Capone, braccio destro di Lucano e presidente di Città Futura, la cooperativa che incassava i soldi dello Stato e che le spendeva per arredare le case da destinare agli ospiti. La casa doveva essere "adeguata", come diceva Lucano, tanto che, durante i lavori, lo stesso Fiorello era andata a visitarla insieme al sindaco, come sottolineato dalle carte, "in una occasione ricordo di aver incontrato il sindaco unitamente all’attore Fiorello quando sono venuti a vedere i lavori quasi ultimati". Dichiara l’operaio. E pensare che quei soldi erano destinati ai profughi, ma il sindaco "eroe" preferiva spenderli per altri. Magari per gli amici come Fiorello.
Le case dei migranti trasformate da Lucano in un b&b per amici e potenti. I fondi dell'accoglienza usati per ristrutturare le case in cui Lucano piazzava amici e potenti. Il ruolo della coop Città Futura. L'invito alla neo segretaria della Fiom. Michel Dessì, Sabato 13/07/2019, su Il Giornale. Le case dei migranti trasformate in bed and breakfast per amici e conoscenti. Così venivano spesi i soldi destinati all'accoglienza dei profughi a Riace. Per ristrutturare appartamenti, comprare mobili e arredi. Peccato che ad usufruirne non erano gli immigrati ospiti nel piccolo paese in provincia di Reggio Calabria. A gestire tutto era Mimmo Lucano, l'ex sindaco di Riace divenuto famoso nel mondo per il suo "modello" di accoglienza e integrazione. Gli immobili, esclusivamente dedicati all'accoglienza dei migranti e inseriti nell'elenco della Prefettura di Reggio Calabria, venivano assegnati (contro legge) da Mimmo Lucano a "ospiti del nord", anche a danno di alcune famiglie di immigrati. Così gestiva i soldi dello Stato Mimmo Lucano, con libertà e spensieratezza. A pagina 659 si legge: "La distrazione di fondi dell'accoglienza per l'acquisto di arredi e suppellettili per le abitazioni utilizzate per il Riace Film Festival". Per la guardia di finanza "era Lucano il presidente di fatto di Città Futura", la coop che gestiva tutto il sistema di accoglienza a Riace e, soprattutto, incassava i fondi pubblici. A chiedere ospitalità al "sindaco dell'accoglienza", tramite un sindacalista calabrese, anche Francesca Re David, ai tempi neoeletta segretaria generale della Fiom. Tutt'ora in carica. A provarlo sono queste intercettazioni telefoniche tra il sindacalista e Mimmo Lucano registrate dai finanziari il 15 luglio del 2017. "Ti rubo un minuto Mi, ieri abbiamo eletto la nuova segretaria generale della Fiom, si chiama Francesca Re David che ha preso il posto di Maurizio Landini... il marito, Fabio Venditti, viene alla vostra rassegna cinematografica. Mi chiedeva, siccome viene pure lei, volevano venire due o tre giorni prima (a Riace, ndr) se era possibile trovargli un bed and breakfast, qualcosa...", dice il sindacalista a Lucano, che si dice subito disponibile ad accogliere. Le case, d’altronde, sono tante visto il cospicuo numero di immigrati presenti in paese. "No, gli troviamo un posto noi che abbiamo le case a Riace superiore". Dice Lucano, le case sono quelle finanziate con i soldi del Viminale per i migranti, assegnate "illecitamente" ad altri ospiti. Il sindacalista si preoccupa per gli alloggi della nuova segretaria generale Fiom e dice: "Anche se vengono un paio di giorni prima?". "Quando vogliono - risponde Lucano - quando vogliono possono venire. Anche tu, se vuoi venire per dormire lì a Riace non ti devi preoccupare, non ti fare problemi...". "Grazie, io Mimmo quando viene... siccome è stata eletta ora e ha preso il posto di Landini mi farebbe piacere anche che avesse un contattato con te, che capisse la storia di Riace". "Si, ma io sono a Riace in quei giorni quando viene, non c'è problema – assicura Mimmo Lucano - Tu vieni con la tua famiglia, anche tu. Non ti fare problemi", dice l’allora sindaco di Riace, disponibile ad accogliere tutti. Indistintamente. "E allora Mi, poi ti chiamo. Intanto chiamo loro per dirgli che tu sei nelle condizioni per trovargli un alloggio". "Si si...", dice Lucano che aveva creato un vero business. Un business gestito anche dalle donne vicine a Lucano che dividevano gli appartamenti a tutti gli ospiti del Riace Film Festival. In una intercettazione telefonica del 19 luglio 2017 Chiara Sasso, scrittrice e giornalista del Fatto Quotidiano, amica di Marco Travaglio, chiama la collaboratrice di Lucano Cosimina Ierinò "e le due donne discutono delle case nella disponibilità di Città Futura (la coop) che dovranno dare a delle persone che verranno a Riace in occasione del 'Riace film festival'". "Allora la casa dell'Acqua va bene per me ok?", dice la Sasso a Cosimina. Che risponde: "Attualmente c'è una ragazza ma quella... inc ...". E la Sasso spartisce le case: "A casa Tullia scrivi Mo....o che ci sta lui e la figlia...". Per accompagnare gli ospiti e pulire le case veniva utilizzato "impropriamente" il personale di Città Futura che, invece, avrebbe dovuto occuparsi solo ed esclusivamente dei migranti. Peccato che i pensieri di Lucano fossero altrove.
Mimmo Lucano, il "re di Riace": ecco le fatture che lo inchiodano. L'ex sindaco di Riace nega di aver comprato letti, materassi, cuscini e lenzuola con soldi pubblici. Ma questi documenti lo smentiscono. Michel Dessì, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. È proprio vero, Mimmo Lucano era il "re di Riace". Nel piccolo comune in provincia di Reggio Calabria, famoso nel mondo per il "modello di accoglienza", "Mimì" la faceva da padrone. Era lui a dirigere tutto, come viene sottolineato nelle carte dell'inchiesta "Xenia". Era lui a dettare ordini e leggi. A fare il bello e il cattivo tempo. A provarlo alcune intercettazioni ambientali registrate negli uffici di Città Futura (ascolta qui). A parlare, il primo agosto del 2017, sono Mimmo Lucano e la sua fidata collaboratrice Cosimina Ierinò insieme ai dipendenti della cooperativa. "Lucano e Cosimina impartiscono alle donne addette alle pulizie le disposizioni per la pulizia e la sistemazione delle abitazioni che dovranno essere utilizzate dagli ospiti del Riace Film Festival", si legge nelle carte. Abitazioni che non potevano essere date ad ospiti. Case destinate solo agli immigrati del progetto Sprar e Cas del comune di Riace. Per gli investigatori sono intercettazioni "molto importanti". E scrivono: "Lucano eÌ infastidito dal fatto che non tutte le donne addette alle pulizie effettuano il lavoro per cui vengono pagate". Tra le donne delle pulizie anche una migrante, arrivata a Riace grazie a quel sistema di accoglienza messo in piedi negli anni dal sindaco divenuto il simbolo della sinistra. La collaboratrice di Lucano, Cosimina Ierinò, "dopo aver convocato a palazzo Pinnarò una ragazza (di colore, ndr) che lavora in uno dei laboratori, la invita a collaborare per pulire le case ma questa si rifiuta". Le case andavano sistemate, e in fretta. Bisognava pulirle per l’arrivo degli ospiti. Lucano si preoccupa e dice: "(...) dobbiamo chiamare anche quelle due là sotto (fa riferimento ad altre due donne delle pulizie)... ma quella non vuole venire, vuole fare un poco la comandante". Afferma Lucano, che continua: "Quando facciamo la riunione le parole le faccio diventare musica!... Poi vediamo se ci riposiamo per un giorno, per due, mi riservo. Arriverà il tempo che parlo io!... omissis...". E Cosimina risponde: "Io non so dove è andata a finire ieri Talat (fonetico), non siamo riusciti a rintracciarla da nessuna parte, mi ha detto (riferito alla donna di colore) che è rimasta bloccata a Siderno, che non c'erano i pullman...". E Mimmo Lucano si arrabbia: "Chiamate pure lei per venire a pulire stamattina!". E Cosimina cerca conferme: "A chi, Talat?". E Lucano, con fare quasi minaccioso dice: "Si, te lo dico io e che dicano di no! ... Vediamo se si vogliono pagare da sole loro stesse. È vero che le paghiamo in ritardo, ce l'abbiamo questo difetto, ma arriverà il tempo in cui li risolvo i problemi e poi diamo una risposta a tutti, a Talat a Rosy... e poi vediamo se si rifiutano. Poi c'è Tahira, Gloria eeee ... come si chiama. Queste lasciatele perdere! ... poi quando non lavorano vanno a destra e sinistra a trovare raccomandazioni per rompermi le scatole...". Parla così Lucano, scocciato dal fatto che le migranti di Riace non si facciano trovare e non diano la propria disponibilità per riassettare le case dello Sprar. Case che sarebbero spettate solo ed esclusivamente ai loro "fratelli" migranti. Lucano aveva trasformato l’accoglienza in un business. Le case destinate ai profughi venivano usate come B&B per ospitare amici e conoscenti. Acquistate, ristrutturate e ammobiliate con i soldi dello Stato. Lucano, sentito dall'agenzia Adnkronos, nega di aver comprato letti, materassi, cuscini, lenzuola con soldi pubblici e, quasi in una ammissione di colpa dichiara: "Siamo davanti ad un tentativo politico di denigrare la fiction su di me per non consentirne la divulgazione, ma non andrà in porto", dice Lucano che pensa al complotto. "Stravolgono la realtà. Dicevo che la casa non andava bene per i rifugiati perché era piccola, non era una casa che potesse accogliere famiglie con bambini. La verità è che il tema dell'accoglienza fa paura e si cerca di mettere il bastone tra le ruote ma questo tentativo politico non andrà in porto". Peccato che le carte da noi visionate dicano il contrario. Come questa fattura di 4.661,62 euro. Fattura trovata tra i documenti di Città Futura. Dalle indagini "è emerso che all’interno del faldone riportante la documentazione SPRAR 2017 eÌ stata rinvenuta la fattura n. 29 datata 01/08/2017 emessa dalla d.i. F. P. (.....) riportante il materia ordinato". Lenzuola, tappetini per il bagno, asciugamano, teli per la doccia. Tutto materiale che non serviva ai migranti, ma agli amici. Come un frigorifero e dieci ventilatori acquistati sempre con i soldi dello Spar. 196,80 euro. Ventilatori che servivano a rinfrescare le giornate afose dei vip in visita a Riace. Ma tutte le fatture risultano pagate con assegni postali firmati e timbrati dalla cooperativa "Città Futura". Lucano ci attacca, ma il materiale in nostro possesso sembrerebbe inchiodarlo.
Michel Dessì per Il Giornale il 15 luglio 2019. I soldi dei migranti usati per pagare feste e cantanti. Accadeva anche questo a Riace, nella città calabra dell’accoglienza, ai tempi sotto l’egemonia di Mimmo Lucano, il sindaco “eroe”. A raccontarlo sono le carte dell’inchiesta “Xenia”. Le intercettazioni, di cui noi de ilGiornale.it siamo entrati in possesso, sono inequivocabili. Gli inquirenti parlano di “distrazione di fondi dell’accoglienza per il pagamento delle spese del Riace Film Festival”, un evento che, a Riace, si ripeteva annualmente. Un appuntamento per sensibilizzare sull’accoglienza dei migranti e promuovere il “modello” divenuto famoso nel mondo. Peccato che i soldi per pagare quelle feste frequentate dai big della sinistra (come sottolineano gli investigatori) venivano dai fondi per l’accoglienza. Dai famosi 35 euro al giorno per migrante. Le casse del comune erano vuote e servivano i soldi per pagare gli artisti. Tanti soldi. In alcune intercettazioni si sente Lucano fare addirittura la conta dei migranti presenti nel piccolo comune per riuscire a quantificare una cifra da poter utilizzare per pagare i tecnici, il palco e gli spettacoli. La strategia era una: far contribuire ogni associazione presente a Riace con un contributo. Contributi dati a Lucano e mai messi in rendicontazione. Tutto fatto sottotraccia, con un giro di false fatture. Gli investigatori si concentrano in particolare sui costi dell’edizione del 2017 (oltre 50.000 euro), ma anche sui costi “esorbitanti (oltre 100.000 euro) dell’edizione 2015”. Ad essere pagato con i soldi dei profughi anche il cantante Roberto Vecchioni. Soldi sottratti ai fabbisogni dei migranti che, in alcuni casi, hanno addirittura protestato per il mancato riconoscimento del pocket money. Per pagare Vecchioni “le associazioni hanno distratto fondi pubblici per 45.000 euro”. Scrivono i finanzieri. Per il concerto del cantautore italiano, a settembre del 2015, “il comune di Riace non ha stanziato alcuna somma. Di conseguenza tutte le somme sono state reperite (distratte) dalle associazioni utilizzando i fondi ricevuti dal Ministero e dalla Prefettura per la gestione dei rifugiati.” È lo stesso Lucano ad ammetterlo sempre al telefono: “Ho fatto la festa di San Cosimo e Damiano e mi sono mangiato 100 mila euro, solo Roberto Vecchioni e costato 45 mila euro, i soldi dove li ho presi? ... Secondo te dove li ho presi? ...” Mimmo Lucano, insieme ai suoi collaboratori “escogitano la presentazione di false fatture inserendole nel Progetto Cas 2016 e, una volta ottenuti i fondi dalla Prefettura, pagare l’evento. Quindi e possibile affermare che le spese del Riace Film festival e stata sostenuta, a sua insaputa, dalla Prefettura di Reggio Calabria.” Sostengono gli investigatori. Un fatto che, se confermato, sarebbe gravissimo. Tutto pagato con i soldi pubblici. Anche Vecchioni, paladino della sinistra. Un vero abuso sulla pelle dei migranti. In una intercettazione telefonica del 25 luglio del 2017 si sente Mimmo Lucano parlare con un manager che si preoccupa dei pagamenti (ascolta l'audio). “Il Comune ha messo una quota in programmazione cosi nel bilancio, ma non e una quota alta, pero ogni associazione mi garantisce un contributo... - sostiene Lucano - Io non voglio che la Regione mi dia niente, voglio che mi dia zero... per il Riace Film Festival vengono 60-70 persone a Riace, per 4-5 giorni, le case ... l'ospitalità, vitto e alloggio glieli troviamo noi. Quello che mi manca la conclusione con un cantante molto leggero, che non ci impegna molto sul piano economico... perché abbiamo sviluppato una bella cifra", afferma Lucano (ascolta l'audio). Ospiti fatti dormire in alcune case destinate solo ed esclusivamente ai migranti, come già vi abbiamo raccontato. Il 7 agosto del 2017, in un’altra intercettazione, Lucano “fa presente che una parte verrà pagata con somme messe in programmazione dal Comune e parte con il contributo di 2.000 euro erogato da ogni associazione.” Contributi “illeciti”, che non potevano essere erogati. I soldi venivano dalle casse del Viminale. È lo stesso Lucano ad ammetterlo il 28 agosto del 2017 intercettato nell’ufficio di Citta Futura. Qualche giorno dopo, Il 31 agosto, nel campo base, sempre nell’ufficio di Citta Futura, Lucano intercettato dice che bisogna fare una “ricognizione” per recuperare la somma dalle associazioni, anche perché hanno ottenuto i fondi per i rifugiati. “...urgenti, dobbiamo fare una ricognizione per recuperare questi 14.000 euro... chiama a coso... a (…) e gli dici di dare un contributo...” I soldi a Lucano servivano anche perché la somma da pagare era consistente. Ma c’è altro, come sottolineano gli investigatori che riportano le intercettazioni ambientali. È il 12 settembre del 2017 quando Lucano dice: “...poi T.P., A.G. e compagnia bella se raccoglievano 10.000 euro era una cosa buona, 3.000, 3.000, 3.000, pero questi li possiamo raccogliere solo se ci sbloccano lo SPRAR e se sbloccano la Prefettura ...”. lo stesso giorno Lucano viene intercettato nella sua alfetta mentre cerca di “trovare una soluzione fattibile per rendicontare spese da inserire a rimborso nel progetto CAS della Prefettura, per una cifra limite di 87.000 euro, attraverso l’effettuazione di prestazioni occasionali. Una parte dei soldi cosi recuperati dalle stesse, evidentemente fittizie, verrà utilizzata per pagare le spese sostenute per il “Riace Film Festival”. Un sistema ben collaudato. Ecco come Lucano gestiva i soldi dei suoi amati “fratelli africani”.
Così Lucano metteva a disposizione le case destinate ai migranti. Case migranti alla troupe rai, grazie a noi tutti sanno. Ma il Giornale si prende il merito. Rec News 13/07/2019. Il sito che fa capo al quotidiano di Sallusti esce con un giorno di scarto con un articolo rmato da tale Dessì ripreso a ruota dal resto della stampa mainstream. E’ il “giornalismo” copia-incolla, bellezza. D a Francesco Storace alla “tv cross-mediale“, dalla relazione esclusiva del Viminale a quel parere del Comitato di bioetica sulla triptorelina del 2018 che La Verità scoprì solo dopo mesi e mesi. Pur essendo un sito giovane, la mole di plagi e scopiazzature che Rec News sta collezionando cresce di giorno in giorno. Abbiamo menzionato solo le più eclatanti, che dimostrano che – sì – siamo sulla strada giusta: i siti indipendenti possono infrangere il muro del mainstream e il resto delle sue costruzioni fittizie, lacerarle e scalfirle, forse un domani distruggerle. Nel frattempo, constatiamo con amarezza che, assieme a tanti, contribuiamo a dare vigore a una stampa commerciale risoluta a fare incetta di materiale spacciandolo per proprio. Spiace constatare che perfino il Giornale – cui diamo atto di stare portando avanti qualche battaglia che è anche la nostra – si presti a logiche come queste. L’11 luglio abbiamo pubblicato un articolo esclusivo sulle case dei migranti che a Riace venivano destinate a Beppe Fiorello e al resto della troupe di “Tutto il mondo è paese”. Il giorno dopo – ce lo hanno segnalato solo oggi – il Giornale usciva con un minestrone di frasi tagliate e ricucite, cui però si preoccupava di aggiungere delle intercettazioni vocali. L’articolo – di cui conserviamo la copia originale – è a firma di tale Michel Dessì. L’articolo del Giornale è stato ripreso da Libero Quotidiano, dal Secolo d’Italia, Blasting News e Rassegne Italia, che hanno attribuito alla testata l’inchiesta. Nel mare magnum di copia-incolla, sviste e scivoloni compiuti da chi non conosce le carte e la materia, la fonte – noi – si è persa. E ora attendiamo con ansia i pareri televisivi dei professoroni che parleranno per ore senza essere mai stati una volta nella loro vita a Riace. Eppure fare come Scenari economici – che ci ha chiesto di pubblicare ed è uscito con una propria rielaborazione debitamente citata – non costava nulla. A loro una bella figura, agli altri quella che si meritano.
Xenia, le case dei migranti alla troupe della fiction su Riace. Rec News 11/07/2019. L’abitazione della Prefettura che avrebbe dovuto essere destinata ai migranti “adeguata alle esigenze di Fiorello” con parquet, clima e tre cucine. Gli inquirenti: “Formalmente assegnata ai profughi, è stata data illecitamente al personale di “Tutto il mondo è paese”. Doveva andare in onda a febbraio del 2018, ma la fortuna televisiva di Tutto il mondo è paese – fiction rai in cui Beppe Fiorello interpreta il sindaco uscente di Riace Mimmo Lucano – tarda ad arrivare. C’è chi si affretta a parlare di censura politica propugnata dall’attuale compagine di governo, forse senza considerare che la produzione e quanti vi gravitano attorno hanno in qualche modo a che fare con il processo Xenia (ieri l’ultima udienza). I finanziamenti dalla Regione e dalla Calabria Film Commission. Di come l’accoglienza fasulla fruttasse – secondo gli inquirenti – a Lucano e ai suoi familiari lo abbiamo già raccontato. Ugualmente, ci siamo soffermati carte alla mano su un sistema clientelare in cui politica, tornaconti e mala gestione si intrecciano. Attualmente inesplorata è però la vicenda che riguarda le riprese del film che avrebbe dovuto dare man forte all’immagine positiva del sindaco-eroe dell’accoglienza. Il progetto targato Picomedia/Ibla Film/Rai Fiction, viene finanziato di concerto dalla Regione e dalla Calabria Film Commission. Lo suggella, dunque, anche il consiglio regionale guidato dall’esponente del Pd Mario Oliverio, l’amico di mille avventure che secondo le carte dell’inchiesta suggeriva a Lucano cosa fosse meglio dire a seguito del ciclone giudiziario che lo stava interessando e lo interessa tuttora. Oliverio proprio negli scorsi giorni è stato rinviato a giudizio nell’ambito dell’inchiesta Lande desolate, che lo vede indagato assieme ai coniugi di area dem Bruno Bossio-Abramo per corruzione aggravata e abuso di ufficio. “Lucia” all’attore Beppe Fiorello. Non era, dunque, una troupe priva di risorse quella che nella primavera del 2017 attraversava l’Italia per giungere nel cosiddetto borgo dell’accoglienza. Per loro lo era di certo e infatti – raccontano le intercettazioni e le trascrizioni degli inquirenti – ad attenderli non c’era solo il lavoro, ma anche il ristoro spesato dallo Stato. Lucano e amici, infatti, avevano pensato bene di destinare le case dei migranti ad operatori e attori che per forza di cose dovevano trattenersi in Calabria per ultimare le riprese della fiction Rai. Uno di questi era il noto Beppe Fiorello, alloggiato in casa “Lucia”. La conferma arriva da tre conversazioni telefoniche, tutte datate luglio 2017 (una del 12, una del 25 e l’ultima dei 31) e dalla testimonianza di un addetto che aveva effettuato alcuni lavori prima dell’arrivo della troupe, e che poi aveva incontrato Lucano e Fiorello nel corso di un sopralluogo. L’utilizzo delle abitazioni della Prefettura. Nel corso della conversazione del 12 luglio 2017, si viene quindi a sapere che per dare accoglienza a Fiorello, era stata utilizzata la comoda Casa “Lucia”, abitazione inserita nella banca dati della Prefettura e capace di accogliere diverse persone. E’ Cosimina Ierinò a domandare a Lucano se la casa può essere destinata a una migrante con quattro gli a seguito, ma la risposta è negativa. La casa “adeguata alle esigenze di Fiorello”. Il 31 luglio del 2017, Chiara Sasso è al telefono con Lucano. Sasso è cooperante della ReCoSol, la rete del comuni solidali di Giovanni Maiolo parte dell’inchiesta; è anche co-fondatrice del Riace In Festival e, non a caso, si occupa di difendere la bontà del sistema Riace tramite un libro dietro l’altro. Di recente ha fatto ingresso tra le sfere alte de Il Fatto Quotidiano firmando assieme a Marco Travaglio un libro sulla Tav. Chiara Sasso comunica all’ex sindaco che sarebbe arrivata a Riace il giorno dopo e che a ruota l’avrebbero seguita figlio, nuora e tale Desiré. L’amministratore spiega, a quel punto, che in una delle case al centro del discorrere ha alloggiato Fiorello nel corso delle riprese del film, e che l’arredo è stato adeguato alle sue esigenze. “Corre l’obbligo di segnalare – scriveranno gli inquirenti nel corso di una delle ultime relazioni fiume – che la predetta casa, formalmente assegnata ai profughi, era stata illecitamente data al personale addetto al film”. Il parquet nella casa che doveva andare ai migranti. Per confermare quanto desunto dalle intercettazioni telefoniche, il 20 marzo dello scorso anno le indagini si concentrano su alcuni testimoni diretti, che raccontano di una casa divisa su più piani in cui era stato posato il parquet, e interamente fatta ripiastrellare e climatizzata su volontà dal “braccio” di Lucano, quel Tonino Capone che figura tra gli imputati nominalmente presidente di Città Futura (l’incarico era, di fatto, ricoperto dallo stesso Lucano). La casa, per tornare a quanto affermato dallo stesso ex sindaco, doveva risultare “adeguata”, tanto che lo stesso Fiorello si era preoccupato di visitarla assieme a Lucano mentre i lavori erano in corso e prima della permanenza avvenuta nelle settimane successive.
Chi si ostina a difendere Mimmo Lucano e perché? Rec News 23/03/2019. L’ex sindaco di Riace coinvolto nel maxi-processo che ha trenta imputati, ventuno legali e due parti lese “eccellenti”, un ministero e una prefettura. Ma per i media asserviti e le loro sviste clamorose, tutto regolare. Per Mimmo Lucano è stato chiesto il rinvio a giudizio, e su questo è facile convenire. Si sono affrettati a strillarlo a partire da questa mattina i media commerciali, in una concordanza e comunanza da far invidia a un coro di voci bianche. Tutto ha collimato, dai titoli ai contenuti, che hanno toccato vette di omissione fino a prima inimmaginabili. Messa da parte la realtà, il sito fondato da un direttorone televisivo che non menzioneremo in rispetto al vero giornalismo, ha per esempio dimenticato tutti i reati a carico di Mimmo Lucano per concentrarsi su una lode del modello Riace e della presunta integrazione e crescita economica che avrebbe comportato. E’ un “centro del Reggino”, ha scritto chi Riace, piccolissimo borgo, forse non l’ha visto neppure in cartolina. Ma questi sono i fact-checker, quelli che i “fact” li piegano, oppure li inventano per poi smentirli. Un altro sito che si pregia di fare informazione senza tuttavia sfiorarla mai, ha scritto convinto che “Lucano rischia il processo”: segno che quelli come l’ex sindaco di Riace, nel sentire di chi ha scritto, alle udienze non dovrebbero sottostare nemmeno quando sono state comunicate e decise nei minimi particolari. In che modo, insomma, andavano presentati i documenti, in quali termini avrebbe dovuto esprimersi il Cancelliere Maria Grazia Riganello per convincere i “giornalisti” che Mimmo Lucano è coinvolto in un procedimento penale, è imputato e non più indagato e, sì, è rinviato a giudizio e quindi quasi nessuno, da chi lo ha difeso a spada tratta a chi ha parlato di modello, ci ha visto giusto? Rispetto a clamorose omissioni non sarebbe stato più indicato un passo indietro o di lato, un mea culpa fatto in punta di piedi che rivedesse le castronerie precedentemente e tuttora scritte, tanto che c’è chi si ostina a buttarla sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina quando il quadro di reati è ormai diverso oltre che ben più complesso? Macché. Lucano è stato rinviato a giudizio e Lemlem non ha più l’obbligo di firma. Basti sapere questo a quello che con spregio crescente viene chiamato “popolino”, la cui intelligenza viene costantemente insultata con articoli, se così possiamo definirli, come quelli appena citati. E riposino in pace, mai consultate, le 26 pagine dell’Avviso di fissazione di udienza del Tribunale di Locri. Ma perché Mimmo Lucano viene difeso ostinatamente e in spregio verso quello che tale presa di posizione comporta da uno stuolo di giornalisti, comunicatori, giuristi, personalità varie disposti a negare l’evidenza contestualmente a tutte le iniziative giudiziarie? A quest’ultime contrappongono le loro, e quindi anche stavolta non tarderà ad arrivare un premio, una cittadinanza onoraria, un sermone scolastico o universitario, una tappa del tour di lucaniana memoria, un’uscita a effetto di un qualche rinomato supporter, da Saviano a Sgarbi, da Sansonetti a qualche don che ha messo da parte la cristianità per difendere non più i poveri o gli sfruttati e nemmeno i truffati, i raggirati o i minacciati da Lucano, ma gli imputati di un procedimento penale. E poi, perché? Se lo domandi la Giustizia che, forse, nel fiume di documenti prodotti che sommati sorano le tremila pagine, non ha tenuto debitamente conto di un sistema collaterale che agisce nell’ombra, legittimato e legittimante di quanto difende con le unghie e con i denti, e per interessi personali, squisitamente propri, oltre che di terzi. Forse, andando ancora più a fondo e concentrandosi su una rete intricata di rapporti che non tocca solo Riace e i riacesi ma rimbalza dalla capitale alle principali città italiane, si spinge all’estero e ritorna, entra nelle redazioni, anche in quelle più (apparentemente) presentabili, si scoprirebbero tante cose. Appurate le quali sarebbe bello capire per quale motivo (tornaconto economico? Semplice sostegno?) organi di informazione, associazioni, presunti semplici cittadini si siano affrettati a gridare alle congiura e persino a prodursi in raccolte fondi che, adesso che si è passati al penale, possiamo dire con quasi assoluta certezza potessero essere parte della truffa. Oppure andavano inconsapevolmente ad alimentare il Sistema Riace senza che loro, i protagonisti dei gesti di buon cuore, ne fossero consapevoli. Difenderanno ancora Lucano sapendo che il loro mito è imputato di sei reati che non sono esattamente una passeggiata? In caso affermativo, domandarsi per quale (reale) motivo, sarebbe il minimo.
SALVINI E AFFONDATI. Mattia Feltri per la Stampa il 29 maggio 2019. L'oggi mi sollecita una ponderosa analisi: siamo tutti delle teste di papero. Succede che a Riace il sindaco Mimmo Lucano (ormai ex) non è riuscito a entrare in consiglio comunale poiché la sua lista è arrivata terza. Lui ha preso centoquaranta preferenze, il dieci per cento dei votanti, il sette degli aventi diritto. Il nuovo sindaco guida una lista civica colma di leghisti, e la Lega è il partito più votato in paese alle Europee. Eppure Mimmo Lucano è l' ideatore e l' artefice del modello Riace, elogiatissimo modello d' accoglienza degli immigrati in decine di reportage giornalistici e servizi televisivi e filippiche politiche, per cui Riace era una piccola Svizzera, linde botteghe artigiane, gerani ai davanzali, armonia multietnica, ecumenismo, sottofondo di arpe. E il modello sarà senz' altro un buon modello, per l' amor del cielo, ma mai una volta che in queste filippiche politiche e in questi servizi giornalistici si registrasse uno di Riace con il dito alzato a dire eh no, a me pare una gran boiata. Bizzarro vero? Questo modello ci piace tanto, piace a chiunque, in tutta Italia e in tutta Europa, tranne che ai riacesi. E non ce n' eravamo accorti. E sarà forse perché al demonio sovranista s' è voluto contrapporre il cherubino riacese, e alla fiaba salviniana del ritorno al piccolo mondo antico, facce bianche sotto il campanile, s' è voluta contrapporre la fiaba edificante dell' abbraccio dei popoli, ci bastano un sorriso e mani spalancate, e insomma al mito del rosario padano si è voluto contrapporre il mito del presepe calabrese. Il problema è che dietro il mito c' è la realtà, con le sue maledette complicazioni.
«Sono stati anni bellissimi. È andata così, ma non ci fermeremo». L’ex sindaco di Riace commenta il risultato delle elezioni. Simona Musco il 28 Maggio 2019 su Il Dubbio. C’è un solo voto in ballo, una scheda contestata, tre puntini sospensivi che l’hanno fatta finire nell’urna con l’etichetta “nulle”. E forse, anzi quasi sicuramente, in quella piccola sala in cui si celebra il Consiglio comunale, d’ora in poi, Domenico Lucano non avrà più una sedia tutta sua. Ma non importa, perché in fondo non è quello che cambia la storia. La storia è già cambiata, con un punto solo e deciso, senza sbavature, messo lì dopo 15 anni. Ed è la democrazia, bellezza. Ma Lucano, ormai ex sindaco ma ancora, ironicamente, sospeso da Riace, lo sa bene. «Sono triste, ma la vita è così», commenta poco dopo la conferma, bruciante, che il suo modello è stato bocciato. I motivi potrebbero essere tanti: un sentimento, nazionale, che ha invertito il soffio del vento, quello che aveva portato sulla spiaggia di Riace, 20 anni fa, una barca piena di profughi, che lo avevano illuminato e trascinato dentro al suo sogno, alla sua utopia reale. Ma anche l’inchiesta con la quale è finito a giudizio davanti al Tribunale di Locri, «che ha creato sfiducia». E quell’essere costretto a rimanere per tutta la campagna elettorale al di là del confine, 8 chilometri lontano dal Comune che ha amministrato per 15 anni. Ma non è tempo di autocommiserazione, spiega al Dubbio. «Devo ricordarmi di quanto queste occasioni siano state straordinarie, condivise, con tutta la comunità globale di Riace. È stato bellissimo, sempre. E oggi devo prendere atto che è così. Dobbiamo sempre trovare la voglia di ripartire, e aspettare un momento migliore». L’isolamento, spiega, è stata la ferita più grande. La sua voce, amplificata con un megafono mediatico impressionante, non è arrivata dove doveva arrivare, dove doveva già essere. «Ho affrontato questa campagna elettorale in esilio, senza un contatto vero con le persone. Questo mi ha penalizzato». Era importante continuare, dice. Ma a coloro che adesso si accingono a governare Riace chiede una sola cosa: «Di avere rispetto del nostro territorio e della comunità come ne ho avuto io. Quello che ho fatto – racconta – alla fine non è stato altro che un gesto di rispetto, un tentativo di riscatto per la nostra terra, una straordinaria esperienza per me anche da un punto di vista umano, vissuta costruendo dei ponti. Sono stato ovunque per narrare la storia di una terra che è ultima in tante graduatorie, ma prima in umanità». Nell’unico comizio a lui concesso – i giudici gli hanno imposto il divieto di mettere piede a Riace, perché troppo influente, dicono, e capace di influenzare la politica locale, col rischio di reiterare i reati dei quali è accusato e per i quali è a processo – ha guardato i suoi concittadini presentando i risultati di anni e anni da sindaco. E la sua opera pubblica più straordinaria e che non conosce rovine, ha detto, è stata l’accoglienza. «È il racconto di una fiaba, di un paese che non ha alzato barriere, non è stato insensibile, indifferente ai drammi del mondo. Riace rimane un’icona del mondo. Inutile parlare di dissesto e cifre quando il patrimonio che abbiamo lasciato in eredità non ha valore». Riace, ripopolata, riempita di colori, con le vecchie botteghe riaperte, dove ci lavorava la gente del posto, non solo i migranti, non ha sostenuto Lucano. Il nuovo sindaco, Antonio Trifoli, che l’accoglienza l’ha praticata proprio con Lucano, 20 anni fa, dando vita all’associazione “Città Futura”, dice ora di non voler spazzare via il passato. L’accoglienza, nel borgo, si farà. Legalmente, afferma, e se ci sono le condizioni. Col tempo il suo percorso si è allontanato da quello dell’ex sindaco, finendo per diventare il suo interlocutore principale tra i banchi dell’opposizione. E spesso e volentieri i motivi di dissenso stavano tutti lì: l’accoglienza. A lui, e non più a Lucano, è andata la fiducia dei cittadini di Riace. Perché? «La mia vicenda giudiziaria ha inciso, ma anche la chiusura dello Sprar ha generato una perdita fiducia nei confronti del modello. Il dissesto economico, da un punto di visto tecnico, ma anche la voglia di dare una svolta, dopo 15 anni, la mia lontananza… – spiega – Tutto questo ci ha disuniti. Anche il fatto che per sette mesi, di fatto, io non sia stato sindaco e ci sia stato un sindaco facente funzioni ha aumentato la frattura». Ma i motivi sono anche ideologici, figli del tempo. E il fatto che a Riace la Lega sia diventata il primo partito è un chiaro segnale, impossibile da ignorare. «C’è un’onda nera sull’Italia e che anche su Riace ha portato le sue ombre», sottolinea. Non sa se entrerà in Consiglio, forse no, anzi, quasi sicuramente no. Ma in quel caso, «credo che mi dimetterò e lascerò a qualcuno più giovane questa esperienza. Io, così, sarò libero». La prima cosa, infatti, è presentare una nuova richiesta, l’ennesima, per poter tornare finalmente a casa, dopo sette mesi. Perché di influenza, a quanto pare, non ne aveva poi così tanta o, in ogni caso, non ne avrà più. E il futuro? «Ricominciare dalla base. Mi concentrerò di più sul villaggio globale, Wim Wenders vuole tornare a Riace e finire il progetto che aveva iniziato qui con “Il Volo”. Abbiamo costruito una piccola utopia. Non devono pensare che mi tirerò indietro: per me l’accoglienza è iniziata prima di diventare sindaco e continuerò a fare cittadinanza attiva. Siamo e rimaniamo in prima linea, al di là dei ruoli, istituzionali o meno. Non è un problema. non è il ruolo che fa la differenza – conclude – Puoi fare il sindaco per 20 anni e riscaldare solo la sedia. Ma è avere delle idee che è importante».
Gestione dei migranti a Riace, Mimmo Lucano rinviato a giudizio. Processo a giugno. Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Corriere.it. Il sindaco sospeso di Riace, Mimmo Lucano, è stato rinviato a giudizio assieme alla compagna Tesfahun Lemlem e altri 29 indagati nell’ambito dell’inchiesta denominata «Xenia» sulla gestione dei migranti a Riace. I reati contestati, a vario titolo, ai 31 imputati sono: associazione a delinquere; truffa con danno patrimoniale allo Stato per oltre 350.000 euro; abuso d’ufficio per un ingiusto vantaggio patrimoniale di oltre 2 milioni di euro; peculato, distraendo fondi pubblici per oltre 2 milioni e 400mila euro; concussione; frode in pubbliche forniture; falso e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La difesa aveva chiesto il non luogo a procedere. La prima udienza sarà celebrata l’11 giugno prossimo al Tribunale di Locri.
Mimmo Lucano rinviato a giudizio: «sono sconvolto, ma la verità si farà luce da sola». Per il sindaco sospeso di Riace il processo inizierà l’11 giugno. Il suo modello d’accoglienza, diventato famoso in tutto il mondo, messo sotto accusa. Contro di lui, come parte civile, il Viminale di Matteo Salvini, scrive Simona Musco il 12 Aprile 2019 su Il Dubbio. «Sono emotivamente scosso, ma non so cosa altro fare. Affronterò il processo, così avrò la possibilità di dimostrare la bontà delle mie azioni». Non trova le parole Mimmo Lucano, sindaco sospeso di Riace, ieri rinviato a giudizio assieme ad altre 26 persone nell’inchiesta “Xenia”. Per loro il processo inizierà l’11 giugno davanti al Tribunale di Locri, come deciso dal gup Amalia Monteleone dopo sette ore di camera di consiglio. Poco prima della sospensione dell’udienza, l’avvocato Andrea Daqua, difensore di Lucano assieme al collega Antonio Mazzone, aveva chiesto il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste e in subordine per non aver commesso il fatto sia per il sindaco sia per Lemlem Tesfahun. «Mi difenderò nel processo e non dal processo», aveva dichiarato Lucano pochi giorni fa, alludendo alla scelta del ministro dell’Interno Matteo Salvini di avvalersi dell’immunità parlamentare. Lo stesso ministro che ha deciso di costituire il Viminale parte civile nel processo. Il sindaco sospeso dovrà ora attendere il 18 aprile, data in cui è fissata l’udienza davanti al Tribunale del Riesame di Reggio Calabria, per sapere se potrà affrontare il processo tornando a vivere nella sua casa a Riace, in attesa di un nuovo pronunciamento sull’obbligo di dimora imposto dal Riesame ad ottobre. Le accuse contestate dalla procura di Locri sono, a vario titolo, associazione a delinquere, truffa con danno patrimoniale per lo Stato, abuso d’ufficio, peculato, concussione, frode in pubbliche forniture, falso e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Accuse messe fortemente in discussione dal gip che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare, che aveva ritenuto fondate le esigenze cautelari solo per le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per la frode, evidenziando comunque «i fini umanitari» nell’azione di Lucano, ma anche dalla Cassazione, che a fine febbraio ha annullato con rinvio le misure cautelari che da sei mesi lo tengono lontano dalla sua Riace. E nel farlo i giudici hanno evidenziato la carenza di fatti concreti a sostegno dell’accusa di frode e del condizionamento nella scelta del soggetto a cui affidare la raccolta dei rifiuti. «Su questo capo d’accusa la Cassazione ha detto che ho agito non solo per umanità, ma secondo legge – ha detto al Dubbio – Se mi rinviano a giudizio anche per questo allora è tutto strano. La legge non vale a Locri?». Nonostante lo sconforto, Lucano ha dichiarato di voler andare avanti con coraggio. «Dimostreremo che la verità si fa luce da sola», ha aggiunto. Secondo i giudici del Palazzaccio, di indizi a supporto del dubbio di comportamenti illegali non vi sarebbe traccia. Nelle motivazioni viene anche stigmatizzato il comportamento dei colleghi reggini, che nel confermare le esigenze cautelari, si erano lanciati in «non previste valutazioni di ordine morale», basando il divieto di dimora su elementi «irrilevanti», ritenuti anche nella prima ordinanza cautelare «prive del necessario fondamento giustificativo». Così come il richiamo a presunti matrimoni di comodo poggerebbe su un quadro «sfornito di elementi di riscontro», sebbene sia valutato positivamente il ragionamento alla base della contestazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Non c’è dubbio, infatti, secondo la Cassazione, che Lucano volesse aiutare Tesfahun a portare suo fratello in Italia, «probabilmente per finalità moralmente apprezzabili». Ma mentre per la Procura quello di combinare matrimoni tra cittadini di Riace e donne straniere sarebbe stato un «metodo» per garantire il permesso di soggiorno alle immigrate che chiedevano aiuto al sindaco, per i giudici della Cassazione, «il richiamo a presunti matrimoni di comodo» poggia su un quadro di riferimento «sfornito di significativi e precisi elementi di riscontro» e, addirittura, «escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare». Il gip, nel valutare le contestazioni della procura di Locri e le indagini svolte dalla Guardia di Finanza, nell’ordinanza di custodia cautelare aveva fortemente criticato le risultanze investigative, definite prive di riscontri, talvolta in maniera anche superficiale. Sull’affidamento diretto dei servizi di accoglienza, ad esempio, il giudice parla di «vaghezza e genericità del capo di imputazione», tale da non essere idoneo «a rappresentare contestazione provvisoria alla quale validamente agganciare un qualsivoglia provvedimento custodiale». Il solo riferimento a «collusioni ed altri mezzi fraudolenti che avrebbero condotto alla perpetrazione dell’illecito si risolve in formula vuota, ossia priva di un reale contenuto di tipicità». Per il giudice non era dato capire, dalle mille pagine di richiesta presentate dalla Procura, quali motivazioni avrebbero sorretto l’ipotetica scelta di affidare i servizi senza alcuna procedura negoziale. E il giudice si era spinto oltre, parlando di «errore tanto grossolano da pregiudicare irrimediabilmente la validità dell’assunto accusatorio», laddove la Procura ipotizzava l’acquisto di derrate alimentari non destinate agli immigrati e utilizzate per fini privati, con rendiconto di costi fittizi per ricevere dal ministero dell’Interno oltre 10 milioni di euro. Ma la Guardia di Finanza ha quantificato come illegittime tutte le somme incassate, senza considerare «l’effettivo svolgimento da parte di tali enti del servizio loro assegnato», evidenziato invece dal gip. Una «marchiana inesattezza», aggiungeva il giudice Domenico Di Croce, secondo cui «gran parte delle conclusioni cui giungono gli inquirenti appaiono o indimostrabili, perché allo stato poggianti su elementi inutilizzabili (…) o presuntive e congetturali o sfornite di precisi riscontri estrinseci». Giudizio simile formulato nel caso dell’accusa di aver firmato 56 determinazioni di liquidazione false per il rimborso dei costi di gestione dei servizi Cas e Sprar. Insussistente era apparsa agli occhi del gip anche la più grave delle accuse, quella di concussione: Lucano e Fernando Capone, presidente dell’associazione “CIttà Futura”, secondo la Procura avrebbero abusato della propria posizione per costringere il titolare di un esercizio commerciale a predisporre e consegnare fatture false per 5mila euro. Ma «gli inquirenti – scriveva – non hanno approfondito con la dovuta ed opportuna attenzione l’ipotesi investigativa», fidandosi delle parole del commerciante – che avrebbe dovuto essere ascoltato in presenza di avvocato, in quanto indagato -, le cui dichiarazioni non sono mai state dimostrate. Una «persona tutt’altro che attendibile», sentenziava il giudice. Che eliminava anche dubbi sulla malversazione: i soldi dell’accoglienza, non sarebbero stati usati per «soddisfare interessi diversi da quelli per i quali erano corrisposti». Una tesi «non persuasiva, poiché congetturale». Del modello Riace, diventato famoso e studiato in tutto il mondo, ora non rimane nulla. Dopo l’arresto del sindaco, infatti, il Viminale ha smantellato nel giro di pochi mesi l’accoglienza, destinando i migranti che per anni si sono integrati, ripopolando il piccolo borgo, ad altri centri. Ed ora, dopo 15 anni di amministrazione, l’era Lucano è giunta al tramonto. A fine maggio, infatti, i cittadini torneranno alle urne e tra le liste potrebbe comparire anche il simbolo della Lega. «Non so se questa esperienza che ho vissuto lascerà un segno e in quale direzione lo lascerà – aveva commentato pochi giorni fa Lucano – Eravamo abituati ad avere un fermento culturale, un laboratorio politico, ma in pochi mesi tutto è cambiato. La mia impressione è che quello che ha preoccupato è non tanto il modello Riace ma il messaggio politico che porta dietro. Perché a Riace l’accoglienza non è neutrale. Io verrò giudicato dai tribunali, ma non ho più paura di nulla, la mia vita sta tutta qua. Non ho altri supporti se non quelli di chi mi vuole bene. E sono contento di aver condiviso questo ideale».
Lucano in aula: «Ho agito per umanità, rifarei tutto». Dichiarazioni spontanee dell’ex sindaco di Riace: Mi chiamavano San Lucano. Simona Musco l'11 luglio 2019 su Il Dubbio. Lucano in aula. In Prefettura lo chiamavano “San Lucano”, perché ogni volta che c’era un’emergenza, uno sbarco improvviso e persone da collocare, il numero da chiamare era sempre quello del sindaco di Riace. Ma quella stessa Prefettura lo ha poi fatto cadere, trascinandolo passo dopo passo in tribunale e levando alla città dei bronzi i suoi progetti d’accoglienza, quelli che avevano reso famoso il borgo in tutto il mondo.
Le dichiarazioni di Mimmo Lucano. A dirlo ieri in aula è stato proprio l’ex primo cittadino Domenico Lucano, che per oltre un’ora ha raccontato la sua versione dei fatti, guardando in faccia il collegio giudicante del tribunale di Locri. «Se quello di cui mi si accusa è di aver dato casa a disperati e agli ultimi del mondo, io lo rifarei», ha chiarito. Lucano è processo insieme ad altre 25 persone, accusate a vario titolo di aver trasformato i progetti di accoglienza nel covo di un’associazione a delinquere che avrebbe distratto milioni di euro. Senza attendere il suo esame, Lucano ha convinto i giudici a farlo parlare. Ed è partito come sempre dall’inizio, dal 1998, quando quel veliero carico di curdi sospinto dal vento è approdato sulla spiaggia di Riace, dando il via all’accoglienza spontanea che, col tempo, si è trasformata in un modello. E alla base di quella «utopia della normalità», quella della convivenza pacifica tra popoli, c’è solo «un ideale politico», ha spiegato, e nessuna «premeditazione». Un ideale che lo ha spinto a recuperare le case abbandonate del borgo, ripopolandolo, riuscendo a dare una mano ai migranti arrivati in Calabria in cerca d’aiuto. Tutto solo e soltanto «per una questione di umanità».
Un’esperienza unica nel mondo. Una scelta naturale che, col tempo, è diventata oggetto di studio da parte della comunità internazionale, che ha iniziato a trattarlo come un eroe, un modello e a celebrarlo come tale. E di quella gloria, di quel modello di normalità che ha sfruttato l’umanità e non l’odio per gestire i flussi migratori, per anni, la Prefettura ha goduto in maniera riflessa. «Quando c’erano gli sbarchi, proprio perché a Riace c’erano un sistema organizzato e case a disposizione, erano loro a chiamarmi per chiedermi di accogliere – ha spiegato – Io dicevo di sì, perché si trattava di gente che aveva bisogno. E Riace diventava più bella». Ed era in quel periodo che nelle stanze della Prefettura lo chiamavano “San Lucano”. «E ora – si è chiesto amaramente – vengo accusato proprio per ciò che mi hanno chiesto di fare Prefettura e dal ministero dell’Interno?». Dietro l’esperienza di Riace, dove sono passate persone con addosso i segni delle torture, ha aggiunto, non c’è mai stato alcun interesse economico, ma solo umanitario. Nessuna associazione a delinquere, dunque, ma solo il tentativo «di utilizzare al meglio delle risorse». E sulla presunta concussione ai danni di un commerciante locale non ha avuto dubbi: «prima del mio arresto non sapevo neppure cosa significasse questo termine. Poi ho capito di averla subita». Le dichiarazioni di Lucano arrivano il giorno dopo l’annuncio ufficiale del l’ad Rai Fabrizio Salini circa la fiction girata sulla storia di Riace, dal titolo “Tutto il mondo è paese”. Un film che, ha chiarito, non è in palinsesto. «Una scelta politica, perché quel messaggio fa paura», ha commentato Lucano. Mentre per il protagonista del film, Beppe Fiorello, che ha confermato la sua vicinanza e il suo supporto a Lucano, «c’è una speranza per il futuro prossimo: sono convinto che vedremo la storia di Riace».
Lucano: «Io non ho commesso reati». Salvini: «Smetta di deportare migranti», scrive Simona Musco il 3 Aprile 2019 su Il Dubbio. Ecco perché la Cassazione distrugge le accuse a carico del sindaco sospeso. Accuse che arrivano a «non previste valutazioni di ordine morale». Il sindaco sospeso: «mi difendo nel processo, non dal processo». Il ministro: «non ho paura dei tribunali». C’è un passaggio che fa riflettere, nelle motivazioni con cui la Cassazione ha annullato con rinvio l’obbligo di dimora imposto a Mimmo Lucano. Ed è quello in cui i giudici, nel valutare il ragionamento del Riesame di Reggio Calabria sulle esigenze cautelari, parlano di «non previste valutazioni di ordine morale». Qualcuno, insomma, aveva già condannato moralmente – andando al di là del proprio compito – Lucano, costringendolo fuori da Riace sulla base di esigenze che si poggiano su circostanze «irrilevanti», ritenute anche nella prima ordinanza cautelare «prive del necessario fondamento giustificativo». Così come il richiamo a presunti matrimoni di comodo poggia su un quadro «sfornito di elementi di riscontro», sebbene sia valutato positivamente il ragionamento logico alla base della contestazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sono parole eclatanti quelle contenute nel documento depositato martedì al Palazzaccio. Un documento con il quale Mimmo “il curdo”, sindaco sospeso di Riace, finito prima ai domiciliari e poi costretto ad andare via dal suo paese, viene di fatto riabilitato, sbriciolando un impianto accusatorio giudicato debole già dal giudice per le indagini preliminari. Oggi il sindaco sospeso si troverà davanti al gup, che dovrà decidere se rinviarlo a giudizio, assieme ad altre 30 persone, per associazione a delinquere, truffa con danno patrimoniale per lo Stato per oltre 350mila euro, abuso d’ufficio ottenendo un ingiusto vantaggio patrimoniale per oltre 2 milioni di euro, peculato distraendo fondi pubblici per oltre 2.400.000 euro, concussione, frode in pubbliche forniture, falso e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma le motivazioni della Cassazione certificano un primo importante fatto: la carenza di fatti concreti a sostegno dell’accusa di frode e del condizionamento nella scelta del soggetto a cui affidare la raccolta dei rifiuti. Effettuata con atti collegiali, e non – come ipotizzato dalla Procura di Lori – come atto d’imperio del sindaco sospeso di Riace. Non potrà ancora tornare a casa sua, Lucano, ma rimane un fatto: di indizi che supportino il dubbio di comportamenti illegali non vi è traccia. Anzi, quegli affidamenti diretti, sotto soglia, erano possibili e tutti certificati da pareri di regolarità tecnica e delibere approvate anche in sua assenza.
L’appalto per la raccolta differenziata. L’accusa sintetizzata al capo T riguarda l’affidamento della raccolta differenziata a due cooperative sociali, la “Ecoriace” e L’Aquilone”, prive, secondo l’accusa, dei requisiti di legge in quanto non iscritte nell’apposito albo regionale previsto dalla normativa di settore. Un problema bypassato istituendo un albo comunale delle cooperative sociali tramite cui poter affidare direttamente, secondo il sistema agevolato previsto dalle norme, lo svolgimento di servizi pubblici e impedendo «l’effettuazione delle necessarie e previste procedure di gara», che prevedevano la procedura del cottimo fiduciario. Secondo i giudici della Cassazione, però, non ci sono fatti concreti a sostegno dell’accusa. «Il requisito del mezzo fraudolento e lo stesso fine di condizionamento del procedimento amministrativo finalizzato alla scelta del soggetto affidatario del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani – si legge – non emergono con la necessaria chiarezza e coerenza argomentativa». E questo sia in ragione del carattere collegiale delle delibere e di tutti gli atti amministrativi adottati sulla base di pareri di regolarità tecnica e contabile «sempre sottoscritti anche dal segretario comunale e dagli altri funzionari tecnici coinvolti nelle relative sequenze procedimentali», sia in ragione «della evidente notorietà dell’iniziativa (pubblicizzata anche attraverso l’istituzione di un albo comunale) e della oggettiva connotazione di peculiarità – espressamente riconosciuta anche nei provvedimenti amministrativi via via susseguitisi nel tempo – del servizio pubblico loro affidato, e a suo tempo fatto oggetto di una specifica valutazione di fattibilità espressa con la delibera comunale che stabiliva il ricorso alla modalità “dell’asinello porta a porta” per la raccolta dei rifiuti urbani». Per l’accusa quelle cooperativa avrebbero dovuto essere iscritte all’albo regionale delle cooperative sociali. Ma all’epoca dei fatti, scrivono i giudici, quell’albo non esisteva. E ciò almeno fino alla data del 7 marzo 2016. L’ordinanza del Riesame, che imponeva il divieto di dimora a Riace, non forniva, dunque, «elementi di gravità indiziaria» tali da avvalorare l’accusa. Anzi, non emergono con la necessaria chiarezza «gli atti o i comportamenti che l’indagato avrebbe materialmente posto in essere per realizzare in concreto una serie di condotte che, allo stato, paiono solo assertivamente ipotizzate, e le cui note modali, peraltro, non vengono sotto alcun profilo tratteggiate, rimanendo addirittura contraddette dalla connotazione di collegialità propria di tutti gli atti di affidamento» e dai «pareri di regolarità tecnica e contabile da parte dei rispettivi responsabili del servizio interessato».
I matrimoni di comodo. Non c’è dubbio, secondo la Cassazione, che Lucano volesse aiutare la compagna, Lemlem Tesfahun, a portare suo fratello in Italia, arrivando con lei in Etiopia e collaborando al suo tentativo di sposarlo con documenti falsi per garantirgli un permesso di soggiorno. Gesti compiuti, come affermato nella decisione che riguarda la Tesfahun, «probabilmente per finalità moralmente apprezzabili». Ma il dubbio che si insinua nella validità dell’impianto accusatorio è un altro. Per la Procura, infatti, quello di combinare matrimoni tra cittadini di Riace e donne straniere sarebbe stato un «metodo» per garantire il permesso di soggiorno alle immigrate che chiedevano aiuto al sindaco. Ma per i giudici, «il richiamo a presunti matrimoni di comodo favoriti dall’indagato poggia sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale non solo sfornito di significativi e precisi elementi di riscontro ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare».
Le esigenze cautelari. Sul punto i giudici sono chiari: gli scarni passaggi motivazionali dell’ordinanza «non si dedicano ad illustrare, con puntuali argomentazioni, gli elementi ritenuti, oggettivamente e soggettivamente, sintomatici della concretezza e dell’attualità dell’enunciato pericolo di reiterazione di delitti “della stessa specie di quello per cui si procede”, ma risultano basati, sotto tale profilo, su affermazioni del tutto apodittiche ed irrilevanti ai fini del richiesto vaglio delibativo, perché estranee ai contorni propri delle vicende storico fattuali oggetto dei temi d’accusa». Insomma, non è chiaro il motivo per cui, da sei mesi, Lucano non possa continuare a fare il sindaco del suo paese. Le circostanze poste alla base di tale decisioni sarebbero, di fatto, «asintomatiche, solo genericamente individuate ovvero irrilevanti» ai fini di una valutazione circa la concretezza ed attualità del pericolo, in quanto «già ritenute, finanche nella prima ordinanza cautelare, prive del necessario fondamento giustificativo derivante da un positivo esito del preliminare vaglio di gravità indiziaria, o addirittura basate su non previste valutazioni di ordine morale».
Il commento di Lucano. Si dice contento, ma pronto «a difendermi nei processi, non dal processo». Un accenno, nemmeno troppo velato, al ministro dell’Interno Matteo Salvini, che non sarebbe uguale a lui davanti alla legge, afferma il sindaco sospeso. «Chi ha la forza e la possibilità sta lontano dai processi – spiega al Dubbio – Questo primo passo della Cassazione porta un po’ di luce su questa aria torbida che si è creata attorno a me e al messaggio politico, all’idea che rappresenta Riace, che evidentemente ha preoccupato qualcuno». Un’avversione politica che va avanti da tempo, afferma Lucano. «Il giudizio della Cassazione è consequenziale a quello che aveva detto il gip – aggiunge – che aveva demolito l’impianto accusatorio costruito dopo mesi di intercettazioni. Lo stesso giudice aveva sottolineato come io non abbia rubato nulla: non ho niente, come emerge dagli accertamenti patrimoniali. Io appartengo alla dimensione di precarietà dei rifugiati. Mi sono trovato ad occuparmi di loro per caso, ma poi è diventata una mission, che è servita al territorio, perché abbiamo ripopolato le aree interne, condividendo un’idea di riscatto dei luoghi della nostra terra». Ma anche e soprattutto «un’idea di giustizia per gli ultimi. Abbiamo collegato le nostre precarietà e questo ci ha portato anche ad avere questa idea di comunità multietnica, dove il contributo economico diventava collettivo per i proprietari delle case, per gli esercenti, per gli operatori. Un progetto di cui aveva parlato il mondo».
Le accuse. A Lucano non vanno giù soprattutto le due accuse che gli sono costate le esigenze cautelari. A partire dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Mi sembra paradossale che lo contestino proprio a me – sottolinea – Il reato lo commette chi costringe migliaia e migliaia di esseri umani a intraprendere questi viaggi della speranza, chi li obbliga a vivere con meno di un dollaro al giorno, chi vende armi, chi esporta guerre. Mi sono occupato dei matrimoni degli ultimi, senza discriminazioni, come dice la Costituzione italiana. Non di matrimoni con auto di lusso fuori dal municipio, carrozze o elicotteri, né tra famiglie che cementano legami di sangue di mafia. Noi ci siamo costituiti parte civile contro la mafia, non come il Viminale, che si è costituito contro di noi ma non nel processo che riguarda i 49 milioni di euro occultati dal suo partito».
La nuova polemica con Salvini. E qui s’innesta l’ennesima polemica con il ministro dell’Interno. «Perché scappare dai processi e utilizzare l’escamotage dell’immunità?», si chiede Lucano riferendosi a Salvini. «Quando uno non ha nulla da nascondere, fuggire dai processi è un atto di vigliaccheria. Hanno distrutto una comunità, rimangono solo le ferite di quello che è successo». E la risposta del ministro arriva a stretto giro. «Non ho paura, anche perché ne avrò altri di processi da affrontare – afferma – Se avessi paura non farei il ministro dell’Interno. Per me ha deciso il Senato, dunque il popolo italiano, io quello che ho fatto l’ho fatto nell’interesse del popolo italiano, non sono un Sindaco che fattura sull’immigrazione». E riferendosi alle accuse rivolte a Lucano, chiarisce come «al di là di reati che possono esserci o possono non esserci, quello di Riace è un modello di sviluppo sbagliato. Io fossi un sindaco della Calabria, della Campania e della Lombardia non penserei a risolvere i problemi con la deportazione dei migranti».
Cosa resta di Riace. «Manco da sei mesi – dice amaramente il sindaco sospeso – non so se questa esperienza che ho vissuto lascerà un segno e in quale direzione lo lascerà e quali sono gli umori dentro la comunità. Eravamo abituati ad avere un fermento culturale, un laboratorio politico, ma in pochi mesi tutto è cambiato. La mia impressione è che quello che ha preoccupato è non tanto il modello Riace ma il messaggio politico che porta dietro – conclude – A Riace non c’è un’accoglienza neutrale. Io vengo giudicato dai tribunali, ma il giudizio che ha dato il Papa sul principale soggetto di quella prospettiva di disumanità oggi diffusa è molto più grave. Preferirei finire in galera che subire un simile giudizio da chi si schiera per i più deboli». Ora, probabilmente, ci sarà un processo. «Bisogna soffrire un po’ ancora – conclude – Ma io non ho più paura di nulla, la mia vita la metto là. Non ho altri supporti se non quelli di chi mi vuole bene. Sono contento di aver condiviso questo ideale».
Il rilancio di Mimmo Lucano: «Tutti sapevano, non sono ladro». Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Goffredo Buccini su Corriere.it. E alla fine Mimmo Lucano domanda: «Ma lei cosa pensa di me? Perché, sa, dovrebbe venire nella Locride a fare un po’ l’amministratore. È diverso che vederla da lassù: una regola che vale per Roma non può valere per il Sud dell’Italia dove non c’è nulla». Il suo prossimo appuntamento con la giustizia delle regole, per lui così algida e lontana, cade alla vigilia del Venerdì di passione: oggi il Tribunale del Riesame deciderà se permettergli di tornare a Riace o tenerlo lontano dal suo paese, forse con un altro anno di divieto di dimora. È tutta una simbologia la vita di questo simbolo della sinistra radicale che, accusato di avere fatto della sua gestione dei migranti lodata nel mondo una gigantesca truffa, riesce a dire una frase così intrisa di etica pauperista: «Non ho un euro, per mia natura non sono un ladro». E ad esorcizzare gli eccessi dei tanti (forse troppi) che, volendolo santo subito, alla fine potrebbero perderlo: «Non ho più niente da perdere. Ho perso la mia famiglia, moglie e figlie sono lontane. Qualcuno ha deciso di bombardare Riace». Il futuro non sarà una terra straniera. «Molti mi volevano parlamentare europeo, ma io farei volentieri il consigliere comunale, sa, ho finito i mandati da sindaco», spiega col quel suo tono incerto che fa venire voglia di proteggerlo anche dai suoi laudatori, al di là delle evidenze processuali, dentro l’infinito gioco dell’oca giudiziario in cui si dibatte, sempre un po’ dannato e un po’ riabilitato a seconda del giudice che ne rilegge la storia. Già, perché oggi non si capirà soltanto se questo sessantenne perito chimico, degno del Nobel per l’economia secondo alcuni ammiratori, potrà fare campagna elettorale nel suo borgo sui monti della Calabria (il 26 maggio lì si vota anche per le comunali). Sarà forse possibile assistere a un ennesimo giro di tabellone, dato che il Riesame (secondo cui Lucano era «totalmente incapace di gestire i soldi pubblici» e uso a violare la legge in nome di «principi umanitari») dovrà esprimersi di nuovo sulle proprie carte riavute indietro dalla Cassazione: ai primi di aprile la Suprema corte, pur limitandosi a bocciarne in parte le ragioni del divieto di dimora, pareva scagionare «Mimì Capatosta», sollevando tra i fan un entusiasmo poi gelato dal rinvio a giudizio di una settimana fa (processo l’11 giugno) e dalla nuova tegola di una chiusura indagini (prodromo di un probabile nuovo processo) con avviso di garanzia per una seconda catena di presunte truffe sui migranti («un provvedimento mediatico», secondo lui, «fatto per rafforzare l’impressione del rinvio a giudizio»). Al netto della notevole confusione tra provvedimenti di merito e misure cautelari generata da molti media, il destino di Lucano resta comunque legato ai migranti da quando, vent’anni fa, non ancora sindaco, soccorse un gruppo di profughi curdi approdati sulla costa calabrese. E il tema, divisivo per eccellenza, spiega molto. Matteo Salvini definì Lucano «uno zero», incarnando il sentimento dell’Italia dei porti chiusi, ma il sindaco (sospeso) di Riace ha abbastanza sostenitori tra scrittori e cantanti da popolare una decina di premi Strega e un paio di festival di Sanremo: l’ultimo manifesto di solidarietà per lui, «È stato il vento», è di queste ore e porta una sessantina di firme, da Capossela a Vecchioni, dai Negrita alla Mannoia. Il clima forse aiuta a decrittare anche le giravolte tra uffici giudiziari: una successione di pronunciamenti, in apparenza contraddittori, che rende complicato capire cosa sia successo in questo borgo della Locride. Cosa è stato, davvero, il modello Riace? Va premesso che, in sé, l’idea di fondo di Lucano appare difficile da contestare: il ripopolamento dei borghi deserti delle nostre montagne, specie al Sud, è una scelta molto praticata dal sistema d’accoglienza Sprar (si pensi all’efficace rete dei «Comuni Welcome» creata dalla Caritas); e, al contrario della «sostituzione etnica» paventata dalla destra, porta al rientro di molti ragazzi del posto, perché le cooperative sociali creano reddito, lavoro, nuova imprenditorialità. Il problema nasce quando Lucano cede alla suggestione della repubblica autonoma, comincia a battere moneta (i «bonus» spendibili nel borgo), prova a combinare matrimoni per evitare il rimpatrio alle immigrate, costruisce la sua Città del Sole coi denari della Prefettura. Distrazione di fondi, sostiene la Procura di Locri, che gli contesta rendiconti sballati, numeri gonfiati, una truffa milionaria ai danni dello Stato. «Ma quale distrazione?», replica lui: «Quella è la forza del modello! Noi non abbiamo fatto solo mangiare e dormire i migranti, che in sé costerebbe due soldi: noi li abbiamo integrati». Da qui villaggi globali, laboratori, il gigantesco esperimento sociale nato attorno a Riace tra gli applausi della gauche caviarche forse lo frastornano. Con quattrini che però andavano restituiti allo Stato, obiettiamo... «E che, dovevo fare il burocrate?», sbotta lui. I processi diranno la loro verità. Ma la politica qui presenta già conti e paradossi. Lucano ha scelto il suo bersaglio principale a sinistra, in Marco Minniti, non perdonandogli ciò che ritiene un tradimento: «Sapeva cosa succedeva da noi come ministro dell’Interno ed è pure della mia terra. Però non ha detto una parola per me, temendo il voto del 4 marzo. Ora che sta all’opposizione l’ho sentito lodare il nostro modello!». Ma il caos di Riace è soprattutto propellente per le tesi di Salvini. Se davvero vitto e alloggio per i migranti costano «due soldi», quanto viene sprecato da certa accoglienza? «Tra legalità e giustizia scelgo sempre la giustizia», ripete Mimì come un eroe classico. Ma i danni collaterali di questa storia andranno ben oltre un remake un po’ sgarrupato dell’Antigone.
I radical chic con Lucano. E Riace diventa set dell’ultimo video di Capossela. Riace meta di pellegrinaggio a sinistra. Nonostante le accuse per il sindaco. Appelli e un videoclip di Capossela sostenuto da Calabria Film Commission, scrive Antonio Amorosi, Lunedì, 15 aprile 2019, su Affari Italiani. La Guardia di Finanza calabrese che mesi fa arrestò Mimmo Lucano è al servizio di Matteo Salvini. I magistrati di Locri agiscono su mandato di Salvini, così come i giudici calabresi che lo hanno spedito a processo. Ma anche le forze dell’ordine che lo hanno intercettato. Tutti quanti, appassionatamente, insieme a Topolino, Minni e Pluto. Per ingenuità o per ignoranza è più o meno questo il messaggio degli appelli che la sinistra radical chic lancia a reti unificate ogni giorno in difesa del sindaco di Riace. Come se Lucano avesse “semplicemente” violato la legge per aiutare gli ultimi, i migranti, quando le carte dell’inchiesta in cui è coinvolto raccontano un contesto ben diverso (e lo abbia spiegato più volte, come qui). I magistrati possono commettere errori. Ma quante volte avete visto la stessa sinistra stracciarsi le vesti per un poveraccio qualsiasi!? Resta difficile capire come non si usi un minimo di cautela nell’associarsi acriticamente a Riace e al suo sindaco, uno che intercettato dice: “Ma tu ti immagini che vedevano che io facevo questi trucchiin questa maniera”. Oppure: “Quelli che vuoi… (riferendosi all’ inserire più voci di spesa possibili da farsi finanziare) tante volte anche se imbrogliate le cose passano”. Sempre Lucano: “... mi sono mangiato 100.000 euro, solo Roberto Vecchioni è costato 45.000 euro… (riferendosi, secondo gli inquirenti, ad un concerto di Vecchioni a Riace finanziato con i soldi dell’accoglienza, ndr)” e “non li dobbiamo perdere i soldi per la prefettura, dobbiamo studiare un sistema… gli spariamo pure 2-3000 euro al mese… assistenti sociali, addetti alla rendicontazione, assistente legale”. Lucano dovrà sostenere un processo ed è innocente fino a sentenza di condanna. Ma nei suoi confronti andrebbe comunque usata cautela, la stessa da mettere in campo sentendo valutazioni come questa del pm di Locri Luigi D’Alessio intervistato dal quotidiano La Repubblica: “‘Le roi c’est moi’. Ha operato non come sindaco, rappresentando i cittadini nel rispetto delle regole, ma come un monarca, ammettendo di fregarsene di quelle regole che sono una garanzia per tutti. Sarà pure un illuminato, ma non può passare. L’unico Stato nello Stato che c’è in Italia, oltre al Vaticano, è San Marino e non Riace”. Aggiungendo: “non sta a me giudicare e non intendo passare per il Torquemada di un progetto che ammiro. Dico solo che quando si elegge a paladino dell’accoglienza un’unica persona, se poi quella persona si rivela non valida, finisce per trascinare con sé tutto il resto”. “La politica non c’entra. L’indagine è nata un anno e mezzo fa con il precedente governo. Che sia arrivata a conclusione ora è un caso”...“non abbiamo ricevuto pressioni e non è giustizia a orologeria. Sapevo che saremmo stati oggetto di invettive e strumentalizzazioni ma non potevo esimermi dall’uscire in mare aperto. L’azione penale è obbligatoria, anche per Lucano”. Ma la cautela sembra non servire. Afterhours, Brunori SAS, Levante, Giuliano Sangiorgi, Max Gazzè, Vinicio Capossela, Carmen Consoli, Vasco Brondi, Fiorella Mannoia, Daniele Silvestri, Manuel Agnelli, Negrita, Niccolò Fabi, Piero Pelù, Subsonica, Thegiornalisti, Samuele Bersani, Roy Paci, Bandabardò, Diodato, Luca Barbarossa, Roberto Vecchioni, sono alcuni dei firmatari del manifesto "È stato il vento - Artisti per Riace", nato per sostenere il modello di integrazione messo in atto nella cittadina. Sarebbe interessante chiedere ad ognuno di questi artisti come ha costruito le proprie convinzioni e quanto siano fondate sulla lettura delle indagini, dei fatti. Anche Wim Wenders in passato ha dedicato il film “Il Volo” a Riace e al suo modello e sembra voglia dedicarvi un secondo film. Ultimo arrivato, e tra i firmatari dell’appello di cui sopra, è il musicista Vinicio Capossela che tra il 10 e l’11 aprile ha girato un videoclip tra i vicoli e la spiaggia del paesino calabrese. Il brano si chiama “Il povero Cristo” e dovrebbe avere come sottotraccia il tema dell’integrazione senza distinzione di etnia, credo religioso o colore della pelle. Dalle foto di scena si nota che le comparse hanno la faccia colorata di nero, non sappiamo se per motivi artistici o perché i migranti a Riace siano scappati, visto che da qualche tempo sono venute a mancare le risorse economiche utilizzate per “gestirli”. Di certo il videoclip è stato “sostenuto” da Calabria Film Commission. Diretto dal siciliano Daniele Ciprì (quello di CinicoTv), ha come attori Marcello Fonte, migliore interprete maschile all’ultimo Festival di Cannes con il film “Dogman” di Matteo Garrone, la ballerina e conduttrice Rossella Bresciaed Enrique Irazoqui che interpretò nel 1964 il Gesù Cristo di Pier Paolo Pasolini in “Il Vangelo secondo Matteo” e dovrebbe essere lanciato il prossimo venerdì santo, il venerdì della Passione.
Mimmo Lucano. Oltre il nuovo avviso di garanzia a Riace c’è un’altra indagine. Rinviato a giudizio ma oltre all’avviso di chiusura indagine con l’accusa di truffa q Riace è scattato il sequestro del Parco…, scrive Antonio Amorosi,
Sabato, 13 aprile 2019 su Affari Italiani. Il caso Riace si allarga. Nelle scorse ore una nuova tegola è caduta su Mimmo Lucano, il sindaco di Riace (ora sospeso), e sulle cooperative coinvolte nella gestione locale dei migranti. Ma non basta, un ulteriore sequestro potrebbe aprire un ennesimo capitolo sulla vicenda che sta portando una luce diversa sulla cittadina calabrese diventata famosa nel mondo per l’accoglienza. Dopo il rinvio a giudizio per il processo “Xenia”, Lucano risulta anche indagato per truffa aggravata. Due giorni fa l’ex sindaco è stato raggiunto da un nuovo avviso di chiusura indagini, atto notificato dai carabinieri. Il caso, sempre relativo alla gestione dei migranti, si baserebbe su una contestazione di circa 134.000 euro di denaro pubblico erogato impropriamente. Sono 10 gli indagati tra cui la rappresentante legale della solita cooperativa Girasole, coinvolta anche nell’inchiesta “Xenia” e Lucano stesso. Coinvolti nella vicenda anche i proprietari privati degli immobili presi in affitto dalla cooperativa e utilizzati per la gestione degli immigrati, accusati in concorso e a vario titolo dei reati di truffa aggravata e falso in atto pubblico. Gli inquirenti contestano otto episodi specifici avendo anche “indotto in errore il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Reggio Calabria ricorrendo all’artificio di predisporre una falsa attestazione”. Il riferimento è ad un atto che sarebbe stato vidimato proprio da Lucano “in cui veniva dichiarato che le strutture di accoglienza per ospitare i migranti esistenti nel territorio del comune di Riace erano rispondenti e conformi alle normative vigenti in materia di idoneità abitativa, impiantistica e condizioni igienico-sanitarie, laddove così in effetti non era, essendo quegli appartamenti privi di collaudo statico e certificato di abitabilità, documenti indispensabili per l’utilizzo sopra specificato e per come richiesto dal manuale operativo Sprar e dalle convenzioni stipulate tra il Comune di Riace e la Prefettura di Reggio Calabria”. Per i magistrati Lucano non aveva competenza, come ha fatto, per attestare il possesso dei requisiti tecnici degli immobili presi in affitto dalla cooperativa. Risultano parti offese nella vicenda, come con l’inchiesta “Xenia”, il Ministero dell’interno e la Prefettura di Reggio Calabria che hanno erogato i finanziamenti per l’accoglienza. Ma un’ulteriore indagine si è aperta anche su eventuali abusi su manufatti costruiti nel “Parco delle Fontane” di Riace e su irregolarità nella conduzione dello stesso. L’area comunale, di circa un ettaro, sarebbe stata sottoposta a sequestro. Era stata bonificata con una parte dei 2 milioni di euro assegnati a Riace da un finanziamento regionale del 2004. Il parco è stato poi dato in gestione alla cooperative L’Aquilone, anch’essa coinvolta nell’inchiesta “Xenia”, ma sull’area sarebbero sorte strutture anomale ora sottoposte ad accertamenti. Saranno solo i riscontri degli inquirenti a dare un responso, almeno in questa fase. Per Lucano il prossimo 18 aprile si torna al Tribunale del Riesame di Reggio Calabria che rivaluterà il provvedimento di divieto di dimora rinviato dalla Cassazione (e sapremo se l’ex sindaco potrà o meno tornare a vivere a Riace) e l’11 giugno si apre il processo “Xenia”. Ma la seconda indagine e il sequestro del “Parco delle Fontane” potrebbero essere segnali di nuovi problemi per il sindaco calabrese. A margine delle notizie non è mancata la reazione all’Ansa di Mimmo Lucano in persona: “E’ un accanimento contro Riace, contro di me e contro l’esperienza di integrazione di cui il Comune ed io siamo stati protagonisti. Trovo assurdo che mi vengano contestati una truffa ed un falso che non ho mai commesso”. Il sindaco si è detto innocente su tutti i fronti e di aver sempre agito sulla base della indicazioni impartite dagli altri organismi che gestivano la “partita” migranti.
Quel che resta del "modello Riace". Era il paese simbolo dell'accoglienza ma ora paga gli effetti di tutto questo. Fabio Amendolara - 25 aprile 2019 su Panorama. In molti hanno esultato troppo presto. L’annullamento della misura cautelare che esiliava Mimmo Lucano, sindaco di Riace e campione amatissimo da Laura Boldrini e incluso dalla rivista americana Fortune fra i 50 uomini più influenti al mondo e dalla Procura di Locri come primo nome dell’inchiesta Xenia, dalla sua Riace non escludeva che il procedimento giudiziario prendesse una piega diversa. E con la Dea bendata, si sa, l’ideologia non fa da schermo o da salvacondotto. E infatti, proprio come chiedeva la Procura di Locri, la tegola è arrivata. Le accuse hanno retto e il giudice dell’udienza preliminare ha rinviato a giudizio il re dell’accoglienza, per associazione a delinquere, abuso d’ufficio e concussione, e gli altri 25 imputati. Le accuse sono pesanti. E riguardano proprio i soldi arrivati a Riace per i migranti. Un pasticcio colossale. Anche perché gli immigrati se ne stanno andando alla spicciolata. Giorno dopo giorno la corriera che si ferma nell’ex «paese dell’accoglienza» ne porta via qualcuno. Altri scelgono i treni, raggiungendo in bicicletta la stazione, dove su una facciata è stato appena coperto con pittura color crema un «murale» che raffigurava il faccione di uno dei bronzi ripescati dal mare con un insulto al ministro dell’Interno. È a Matteo Salvini che gli affaristi dell’accoglienza addebitano la morte del loro business. Sono ormai lontani i tempi in cui il numero dei rifugiati sfiorava le 300 presenze. Resistono una decina di famiglie africane e l’unico nucleo familiare curdo che risale alla prima ondata di sbarchi del 1998. Finito lo Sprar, il locale sistema di protezione dei richiedenti asilo, crollati gli arrivi, partiti gli immigrati, è fallito il Comune. Il buco nero lasciato nei conti ha portato il municipio del sindaco «esiliato» per cause giudiziarie al dissesto finanziario. Il market, la farmacia e gli altri fornitori che hanno accettato il bonus, un ticket inventato dal primo cittadino che sostituiva la moneta corrente in attesa dei contributi pubblici per l’accoglienza, rischiano di non incassare un euro. La cattiva amministrazione di colui che veniva celebrato per il cosiddetto Modello Riace viene riassunta in una delibera di giunta, che rendiconta 800 mila euro di debiti «fuori bilancio». Lucano avrebbe voluto risanarli, almeno in parte, con i fondi provenienti dagli autovelox. Ma mancano 200 mila euro che il Comune aspetta dalla ditta che eleva multe à gogo sulle strade comunali di collegamento alla statale 106 Jonica. E soprattutto latitano i 2 milioni di euro del progetto Sprar. Le relazioni degli ispettori della Prefettura che hanno decretato la fine del sistema economico creato da Lucano hanno innescato la revoca dei finanziamenti e l’inchiesta giudiziaria (il caso è approdato il 4 aprile all’udienza preliminare con la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura). Qualche mese fa il sottosegretario al ministero dell’Interno Carlo Sibilia ha annunciato: «Zero fondi per Riace». Il governo ha deciso di combattere la speculazione sull’accoglienza. «Per Riace» spiega il sottosegretario «non ci sono coperture soprattutto perché il sistema d’accoglienza targato Pd ha creato più indagati che integrati». Truffe, rendicontazioni farlocche e gare pubbliche andate deserte a parte, la realtà è che Riace e il suo primo cittadino paladino dell’immigrazione senza limiti non sono riusciti a creare un meccanismo economico che riuscisse a sostenersi senza il doping da finanziamento pubblico. Il turnover dei migranti c’è sempre stato, anche quando piovevano i «piccioli» e Lucano sciorinava dati in controtendenza su spopolamento e posti di lavoro rispetto al resto della Calabria, e doveva essere considerato come un campanello d’allarme. La tanto sbandierata legge regionale del 2009 si è limitata a finanziare piccole borse di lavoro per tirocinanti e destinatari di percorsi formativi. Terminato il cash, gli immigrati partivano alla ricerca di sorti migliori. Le modifiche alla programmazione dello Sprar per gli anni 2014-2020 hanno, poi, creato una relazione più stretta tra il numero di migranti accolti e le dimensioni del Comune. Così, Riace si è ritrovata solo con 15 posti per chi richiede l’accoglienza. Risultato: un centinaio di migranti sono stati trasferiti in altri Sprar. Dal ministero dell’Interno hanno precisato che queste persone sono libere di restare nel paese calabrese, uscendo però dal sistema di protezione. Ma in quanti pensano di poter vivere con le botteghe artigiane che hanno messo al lavoro migranti e riacesi fianco a fianco? Veniva propagandata come la grande idea di Lucano, ma a livello di incassi è stata un fallimento. Poche le vendite dei prodotti artigianali. Solo d’estate arrivava un po’ d’ossigeno, grazie a un manipolo di turisti solidali. Le botteghe del legno, della ceramica, del vetro, del ricamo sono ancora aperte, ma per quanto? Il sistema è andato così in crisi che gli operatori di cooperative e accoglienza sono rimasti senza stipendio. O a singhiozzo. Dagli esponenti locali della Lega l’indice non è puntato solo contro Lucano. «Ci sono anche i responsabili di alcune associazioni» sostiene Claudio Falchi «che disattendono in forma reiterata le linee guida degli ispettori ministeriali e prefettizi». Per buona parte dei progetti, segnalano dalla Prefettura, non ci sono pezze d’appoggio per le spese e questa situazione ha provocato la revoca dei finanziamenti. L’iniziativa della raccolta differenziata con i somarelli, unico mezzo di trasporto per poter percorrere gli stretti viottoli nella zona vecchia del paese, che fa risparmiare e non inquina, è rimasta schiacciata dalla notizia che anche il sistema dei rifiuti è finito sotto la lente della magistratura, con Lucano accusato di aver favorito due cooperative, che non avevano i requisiti di legge, nell’aggiudicazione della gara d’appalto. Non iscritte nell’apposito albo regionale previsto dalla normativa di settore. Le indagini avrebbero ricostruito che il sindaco «al precipuo scopo di ottenere il suo illecito fine», si sia determinato a istituire un albo comunale delle cooperative sociali cui poter affidare direttamente, secondo il sistema agevolato previsto dalle norme, lo svolgimento di servizi pubblici. La Cassazione, però, esaminando la misura cautelare applicata a Lucano, ha ritenuto che non ci fossero illeciti, sottolineando che i magistrati della Procura non si sarebbero soffermati «su quali altre imprese in quel territorio avrebbero potuto svolgere il servizio, tenuto conto della conformazione del centro storico del comune». La decisione del giudice di Locri, invece, è diametralmente opposta e spiega che anche sulla raccolta differenziata c’è bisogno di un approfondimento dibattimentale. Sarà un processo a stabilire se, come sostiene l’accusa, la gara è stata taroccata. Quello del ciclo dei rifiuti non è stato l’unica iniziativa «forte» del Sistema Riace: c’era anche l’albergo diffuso. Proprio le case del centro storico, però, sono state le prime a svuotarsi. E il fenomeno viene percepito dalla comunità come un flop. Riace aveva puntato sulla rivitalizzazione dello spazio urbano, creando anche, accanto ai palazzotti risistemati, un parco giochi e una piazza in stile anfiteatro greco, con le gradinate dipinte usando i colori della bandiera arcobaleno. Nel corso degli ultimi 20 anni gli edifici del borgo sono stati ristrutturati con l’obiettivo di accogliere migranti, ma anche di ospitare turisti. Molto pochi, in verità. Con i migranti, invece, si facevano affari d’oro. Gli ispettori ministeriali, però, hanno scoperto che alcune delle abitazioni impiegate per l’accoglienza appartengono a familiari dei soci delle cooperative o dei gestori dello Sprar e che, nonostante l’area geografica non sia esente dalla pressione di clan mafiosi che fanno sentire tutto il loro peso, non c’è stato alcun controllo negli affidamenti. In più, in alcuni casi, mancavano attestazioni di agibilità e abitabilità. Un affare da 200 mila euro annui. Che è anche finito nelle mani di pochi. La Procura di Locri sottolinea che quelle stesse abitazioni vengono affittate a prezzi maggiori rispetto alla media dei canoni locali. Chi poteva approfittarne di più, lo ha fatto. Benvenuti a Riace. O, meglio, a quel che di essa resta.
Da Saviano alla Boldrini: Lucano lodato e assolto dai soliti salotti rossi. Il doppiopesismo della sinistra: giustizialista con gli altri, ultra garantista con il suo "eroe". Fabrizio de Feo, Lunedì 29/04/2019 su Il Giornale.it. L'Italia, si sa, è campione mondiale di garantismo a ore o a corrente alternata. Se in questi giorni si assiste, ad esempio sul caso Siri, a ripetute sortite giustizialiste rispetto a una inchiesta pure costellata di interrogativi, ci sono altre inchieste in cui la sinistra italiana e gli intellettuali di area hanno subito messo in campo assolute certezze. Quella riguardante Mimmo Lucano è un caso di scuola, un episodio in cui anche la stampa solitamente poco critica verso le tesi dei pm si è mossa controcorrente, scegliendo una impostazione innocentista o giustificazionista, essendo uno dei reati contestati quello di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Nei giorni scorsi per il sindaco di Riace è arrivato un rinvio a giudizio da parte del Gup di Locri, questa volta per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, dopo che la Corte di Cassazione aveva alleggerito la sua posizione. Accuse, naturalmente, tutte da provare. Nella memoria restano però i giudizi di chi si è subito esposto a favore di Lucano fin dalle primissime battute dell'inchiesta. Gad Lerner definì il mandato di arresto per Lucano "uno schiaffo a chi pratica il dovere dell'accoglienza" parlando anche di "pulsione fascistoide di cui sta cadendo preda il nostro Paese". Un pensiero e un sentimento condiviso da Roberto Saviano: "Nelle azioni di Mimmo Lucano non c'è mai finalità di lucro, ma disobbedienza civile". Con una postilla: "Vi sembra possibile che il problema della Calabria, terra di narcotraffico e corruzione criminale, sia l'immigrazione?". Una impostazione che secondo un principio logico dovrebbe impedire l'inchiesta della Procura di Catania per il caso Diciotti. "Questo governo, attraverso questa inchiesta giudiziaria compie il primo atto verso la trasformazione definitiva dell'Italia da democrazia a stato autoritario". Solidarietà a Lucano arrivò anche dagli ex presidenti delle Camere, da Laura Boldrini e da Pietro Grasso, "preoccupato per un provvedimento destinato a un uomo che ha avuto il coraggio di sperimentare un modello diverso di integrazione". Senza dimenticare che il sindaco di Riace venne ospitato il 21 ottobre nel salotto tv di Fabio Fazio a Che tempo che fa.In molti hanno letto in questa inchiesta una sorta di disegno volto a contrastare il "modello Riace ". Sui social in molti hanno parlato di arresto politico, con commenti bollenti e un hashtag, diventato virale, come #iostoconmimmo. E se Alessandro Gassman ha scelto lo slogan "stay human", ci sono state anche iniziative prettamente politiche. Più di 90mila firme sono state raccolte per la candidatura del comune di Riace al premio Nobel per la pace, con l'adesione di 2.750 docenti universitari, decine di parlamentari e 1.250 associazioni. Firme inviate al Comitato del Nobel per la pace, a Oslo. A Milano sono state raccolte firme per la concessione della cittadinanza onoraria a Mimmo Lucano e lo stesso è avvenuto a Crema.È chiaro che in questo clima anche le Amministrative del 26 maggio acquisteranno un significato politico importante. Lucano, sindaco "sospeso" e ancora sottoposto al divieto di dimora nell'ambito dell'inchiesta "Xenia", è candidato a consigliere comunale di Riace. Dopo tre legislature alla guida del piccolo comune della Locride non può più ripresentarsi come sindaco, ma ha deciso di dare comunque il suo contributo alla lista "Il cielo sopra Riace" presentandosi per il consiglio comunale. E se Lucano ha ripresentato la sua candidatura, la Lega e Forza Italia puntano a una vittoria che, come in passato avvenne a Lampedusa, avrebbe un grande significato simbolico.
Immigrati, ecco le carte: una toga allertava Lucano. Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Luca Fazzo su Il Giornale.it. Mimmo Lucano ha avuto molti amici al suo fianco, da quando è stato investito dall'indagine che l'ha portato prima agli arresti domiciliari e poi al divieto di risedere a Riace, nel Comune che ha trasformato in un simbolo planetario dell'accoglienza. Ma uno di questi amici è stato più amico di altri, fornendogli sottobanco preziosi consigli su come togliersi dai guai. Erano consigli assai autorevoli, perché questo amico è un magistrato in servizio alla Corte d'appello di Catanzaro, ripetutamente intercettato dalla Guardia di finanza mentre parla con l'ex sindaco o gli manda messaggi e mail. Il tema è sempre quello: l'indagine in corso da parte della Procura di Locri, quella terminata l'11 aprile scorso con il rinvio a giudizio di Lucano e di altre ventisei persone per associazione a delinquere, truffa, corruzione e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il giudice dà i suoi consigli, insulta gli avversari di Lucano, e soprattutto dà all'amico un avvertimento prezioso: "Non parlare al telefono". In pratica, lo avvisa che può essere intercettato. Il giudice si chiama Emilio Sirianni, e ha rischiato di pagare caro l'aiuto a Lucano. La Procura di Locri, dopo essersi imbattuta nelle sue intercettazioni, ha deciso di aprire un'inchiesta. Prima un fascicolo esplorativo, poi, di fronte alla mole di elementi che emergevano, iscrivendo Sirianni nel registro degli indagati per favoreggiamento. Al termine delle indagini preliminari, la Procura ha chiesto di archiviare l'indagine. Ma nel medesimo provvedimento gli inquirenti hanno parole pesanti per il collega: "Il contegno mantenuto - scrivono - è stato poco consono a una persona appartenente all'ordinamento giudiziario, la quale peraltro era consapevole di parlare con persona indagata"; e ricordano che "in svariate occasioni il dottor Sirianni ha allertato il Lucano a parlare di persona con lui evitando comunicazioni telefoniche". "Permanente consiliori": così il procuratore della Repubblica di Locri, Luigi D'Alessio, etichetta Sirianni nell'atto conclusivo dell'inchiesta. "Nel corso dell'indagine - scrive il procuratore - sono emersi costanti rapporti tra il principale indagato, Lucano Domenico, e Sirianni Emilio, magistrato in servizio presso la Corte d'appello di Catanzaro". Dopo la prima informativa della Gdf sui rapporti tra i due, sono stati "delegati approfondimenti finalizzati a verificare se nel materiale in sequestro, in particolare negli strumenti informatici in uso al Lucano, vi fossero tracce ulteriori degli stretti rapporti con Sirianni". Era lo stesso magistrato, d'altronde, a sollecitare Lucano a cancellare le mail che si scambiava con lui. È Sirianni a indicare a Lucano come rispondere alla Prefettura di Reggio, che ha sollevato una serie di dubbi sulla gestione dei progetti di accoglienza. Il sindaco manda al giudice le carte che riceve, lui gli spiega come difendersi, prepara per lui le risposte da inviare al Prefetto, si occupa persino delle sue conferenze stampa "organizzando in favore dello stesso una base di consenso popolare per sostenere la sua azione nell'ambito dell'accoglienza. Nelle carte della Procura di Locri, il giudice Sirianni appare come una figura a metà tra il consulente di immagine e l'avvocato difensore. La stessa Procura appare assai dubbiosa che queste funzioni siano compatibili con quella di magistrato, ma non ritiene di essere davanti a un reato. "Dagli atti di indagine è emerso come anche nei casi in cui il Sirianni ha redatto controdeduzioni o note difensive in favore di Lucano, egli in alcun modo ha indicato o suggerito modalità che potessero ritenersi estranee alla versione difensiva o atte a inquinare lo scenario probatorio". Quanto agli epiteti "sicuramente sconvenienti" rivolti a personaggi pubblici, come il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri o l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti, il giudice li ha rivolti in privato: quindi non c'è diffamazione. Di Gratteri, in particolare, il giudice Sirianni e Lucano si occupano nell'ottobre dello scorso anno, quando il procuratore di Catanzaro va in televisione e osa invitare a "leggere bene" le carte delle accuse all'ex sindaco: basta questo a scatenare i due. "Esemplificativo del ruolo di "consiliori" assunto dal Sirianni l'episodio in cui questi suggerisce a Lucano il tenore delle dichiarazioni da rendere alla stampa in occasione del commento esternato dal procuratore capo di Catanzaro in merito alla vicenda Riace. Sirianni dopo aver suggerito le risposte da dare alla stampa, raccomanda a Lucano di non far leggere a nessuno il contenuto della mail e di cancellarla".I guai di Lucano, com'è noto, non sono finiti: è stata chiusa un'altra indagine per falso e truffa, altre sono in corso. Continuerà ad avere al suo fianco, come "consiliori", un giudice? E il Csm non ha nulla da dire in proposito?
La talpa a Lucano: non potrei... E ora il Csm apre l'indagine. Il giudice Sirianni sapeva che i suoi contatti col sindaco indagato erano anomali. Rischia sanzioni disciplinari. Luca Fazzo, Martedì 30/04/2019, su Il Giornale. Così parlò Emilio Sirianni, giudice della Corte d'appello di Catanzaro, al telefono con Domenico Lucano, sindaco di Riace: «Eh Mimmo, quello che faccio io non sono in molti disposti a farlo, perché teoricamente è anche giusto che un magistrato non deve avere rapporti con gli indagati». Il giudice Sirianni, insomma, sapeva perfettamente che il suo rapporto di consiliori con il politico inquisito era fuori dalle regole. Ma continuò imperterrito. E ora quella intercettazione pesa sulla sorte di Sirianni, che il Consiglio superiore della magistratura intende chiamare a rispondere dei «suggerimenti» legali, politici e mediatici forniti a Lucano e rivelati ieri dal Giornale. Compreso il messaggio in cui il magistrato allertava l'indagato sul rischio di essere intercettato. L'inchiesta-stralcio per favoreggiamento a carico di Sirianni, aperta e condotta in gran segreto dalla Procura di Locri, si è conclusa con la richiesta di archiviazione: certi i contatti, sicura la loro anomalia, per i magistrati di Locri non c'è prova che il collega Sirianni, figura di punta di Magistratura democratica, abbia aiutato Lucano a inquinare le prove. Ma ora le intercettazioni realizzate nel corso di molti mesi di indagine, a partire da quella citata qua sopra, sono destinate a finire sul tavolo del Csm. Perché se il comportamento di Sirianni è penalmente irrilevante, a saltare agli occhi sono la contiguità amicale e ideologica, il contesto confidenziale in cui un magistrato si mette a disposizione di un politico sotto accusa scrivendo gli atti al suo posto, convocando conferenze stampa, organizzando campagne di solidarietà. Comportamenti che la Procura di Locri etichetta come «sconvenienti», «poco consoni» e che però, secondo quanto risulta al Giornale, non ha segnalato al Consiglio superiore della magistratura. Al Csm hanno appreso di quanto accaduto tra il giudice democratico e il sindaco-icona dalle notizie di stampa; così pure è accaduto in via Arenula, negli uffici del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il ministro, titolare dell'azione disciplinare, fa sapere di avere la pratica Sirianni allo studio in queste ore. Al Csm, più rapidamente, si sta mettendo in moto la macchina che punta a stabilire se Sirianni possa continuare a fare il giudice a Catanzaro, a contatto ravvicinato con l'amico Lucano, inquisito e rinviato a giudizio per associazione a delinquere finalizzata alla truffa allo Stato e all'immigrazione clandestina. La vicenda da ieri è sul tavolo della Prima commissione del Csm, che si occupa dei trasferimenti per «incompatibilità ambientale e funzionale» dei magistrati che «non possono amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell'ordine giudiziario». La commissione, presieduta dal «laico» Alessio Lanzi, ha chiesto formalmente al Comitato di presidenza del Csm l'apertura di una pratica su Sirianni. È un primo passo, ma la rapidità con cui è stato compiuto racconta bene lo sconcerto con cui in seno al Consiglio superiore si è appreso dei comportamenti attribuiti dalla Procura di Locri al giudice calabrese. Il quale da parte sua ieri, dopo avere premesso di «non sapere se ci sia stata una indagine nei miei confronti, non ho mai avuto notizia formale», rivendica nuovamente l'amicizia con Lucano, «una delle persone migliori che abbia mai conosciuto». Ma non spiega perché, telefonando al sindaco, esordisse con un «buongiorno maresciallo»: «Quasi a manifestare - scrive la Procura di Locri - la consapevolezza di essere intercettato».
· Cattivi Maestri (foraggiati).
La domanda a Conte sui migranti? La cronista tedesca nominata (a 30mila euro) da Orlando. La giornalista che ha posto la domanda sui migranti era stata nominata "esperta nell'attività di programmazione e di indirizzo nell'attività di relazioni con la stampa estera". Angelo Scarano, Giovedì 06/06/2019, su Il Giornale. La domanda in conferenza stampa non è passata inosservata, così come la giornalista che l'ha posta. Alla fine il premier Giuseppe Conte era stato costretto a rispondere duramente ("Non le permetto di dire che il governo italiano ha causato dei morti in mare") e per un po' si è parlato del premier che "bacchetta" la giornalista per una domanda sui migranti. Lei si chiama Constanze Reuscher, corrispondente in Italia del Die Welt. La sua domanda era stata lunga e articolata: "Una domanda dalla Germania - aveva esordito - in questi giorni c'erano tantissime delegazioni tedesche in Sicilia, soprattutto a Palermo, per informarsi sulle politiche per l' immigrazione. Oggi stesso c' è il vescovo capo della chiesa luterana. Sono tutti molto preoccupati sulla politica per l' immigrazione, perché è davanti a noi l'estate ed è molto probabile che ci siano molti morti nel Mar Mediterraneo. Voi manterrete la linea dura di Salvini?". Conte si era smarcato dal quesito, affermando che "la nostra non è la linea dura di Salvini. È la linea dura del governo ed è una linea che io definirei di maggior rigore rispetto al passato [...]. C' è un problema di contrastare i trafficanti. Sono loro che mettono in pericolo i migranti". Domanda lecita così come la risposta. "Lei che segue il suo Paese - aveva continuato il presidente del Consiglio - avrà colto che sin dal primo momento in cui ho partecipato al primo Consiglio europeo ho portato una piattaforma molto articolata che riassume tutta la nostra politica, che è una politica che non riguarda solo lo sbarco, quello è un tassello che riguarda un problema più complesso. Il problema riguarda e può essere riassunto come regolazione e gestione dei flussi migratori". Nel video non si riesce bene a sentire, perché la giornalista non aveva più il microfono, ma Reuscher aveva provato a ribattere alle parole del premier. Si sente solo: "Evidentemente anche il ministro degli esteri nostro è venuto... Evidentemente la paura è molto grande". A quel punto Conte la interrompe: "Guardi, non le permetto di dire che il governo italiano ha causato la morte di nessuno in mare. Noi siamo sempre intervenuti, abbiamo sempre salvato chi era in difficoltà. Questa gliela respingo perché è inaccettabile". Da lì, le piccole polemiche dei giorni successivi. Il fatto è che la Reuscher non è solo la corrispondente del Die Welt. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che tanto si è opposto alla politica dei porti chiusi e al dl Sicurezza, infatti, ad aprile l'ha nominata come consulente per "stimolare e promuovere il percorso di internazionalizzazione" della città siciliana. "Una scelta - spiegava il sindaco - per stimolare e promuovere, attraverso la sua esperienza e conoscenza della Sicilia e attraverso la sua vasta rete di conoscenze con istituzioni e media italiani, europei e internazionali, il percorso di internazionalizzazione della città, già avviato con significativi risultati positivi". Il tutto a quasi 30mila euro lordi.
Fabio Amendolara per “la Verità” il 6 giugno 2019. Il quesito, con cadenza teutonica marcata, conteneva in realtà un intervento politico contro il governo italiano: «Una domanda dalla Germania, in questi giorni c' erano tantissime delegazioni tedesche in Sicilia, soprattutto a Palermo, per informarsi sulle politiche per l' immigrazione. Oggi stesso c' è il vescovo capo della chiesa luterana. Sono tutti molto preoccupati sulla politica per l' immigrazione, perché è davanti a noi l' estate ed è molto probabile che ci siano molti morti nel Mar Mediterraneo. Voi manterrete la linea dura di Salvini?». Una conferenza stampa a Palazzo Chigi non è di certo il luogo più adatto a sollevare un polverone o a creare un caso. E infatti il premier Giuseppe Conte risponde in modo garbato, ma fermo: «La nostra non è la linea dura di Salvini. È la linea dura del governo ed è una linea che io definirei di maggior rigore rispetto al passato [...]. C' è un problema di contrastare i trafficanti. Sono loro che mettono in pericolo i migranti». Era facile prevedere che Conte glissasse sui morti in mare. È stata la controreplica a fargli perdere le staffe. E il casus belli non è passato inosservato. Tra gli oppositori siciliani di Leoluca Orlando, al suo quinto mandato da sindaco di Palermo, qualcuno ha riconosciuto la giornalista tedesca in tailleur bianco alla conferenza del premier: Constanze Reuscher, corrispondente in Italia per il quotidiano tedesco Die Welt (giornale di stampo conservatore, fondato ad Amburgo, che da qualche tempo non perde occasione per attaccare l' Italia sui temi economici, ma anche con titoli sull' immigrazione), e scelta dal sindaco di Palermo come consulente «per stimolare e promuovere il percorso di internazionalizzazione» della città a 29.999 euro per sei mesi. Da decenni Reuscher si occupa di comunicare a livello internazionale la Sicilia e la sua cultura, sia attraverso il lavoro giornalistico sia nella organizzazione di eventi, anche nel suo ruolo di dirigente della Stampa estera in Italia. E infatti Orlando e Reuscher si ritrovano insieme lo scorso gennaio proprio nella sede della Stampa estera per un incontro tra il sindaco di Palermo e i cronisti delle testate straniere che è ancora possibile riascoltare sul sito web di Radio radicale. Era da tempo che i due, sui social, si corteggiavano a distanza. Nel 2015, ad esempio, il sindaco, le fa un endorsement per un convegno con un post su Facebook: «Alla Zisa, alle ore 16:00 interviene Constanze Reuscher, "Il giornalismo di qualità nell' era digitale, l' esperienza Springer"». Lei ricambia e nel 2017 scrive un lungo post su Facebook in cui descrive Orlando come uno dei sindaci siciliani di spicco. Lui condivide il post sulla sua bacheca e ringrazia: «Condivido il post di Constanze Reuscher, corrispondente italiana per Die Welt, che ringrazio per le parole di apprezzamento alla nostra azione amministrativa e alla nostra visione di Palermo». E così, alla fine, un mese fa, Palermo ha scelto proprio la giornalista che si è presentata alla conferenza ufficiale del premier Conte, attaccando il governo sulle politiche di contrasto all' immigrazione clandestina, per la programmazione della promozione del capoluogo siciliano all' estero. Non ne sarebbe nato un caso se Orlando non fosse il sindaco che fa il disubbidiente sui porti chiusi, che promuove l' accoglienza à gogo e che di recente si è opposto all' espulsione di Paul Yaw Aning, un ghanese irregolare, con permesso di soggiorno scaduto, finito nelle maglie della giustizia italiana perché imbrogliava la gente facendo firmare contratti di lavoro fittizi. Orlando, insomma, si oppone a un decreto emesso dal prefetto e da un provvedimento di accompagnamento alla frontiera firmato dal questore, decisioni convalidate anche dalla magistratura, con un' ordinanza di espulsione del giudice di pace. Il premier, rispondendo alla giornalista, tocca anche la questione europea: «Lei che segue il suo Paese avrà colto che sin dal primo momento in cui ho partecipato al primo Consiglio europeo ho portato una piattaforma molto articolata che riassume tutta la nostra politica, che è una politica che non riguarda solo lo sbarco, quello è un tassello che riguarda un problema più complesso. Il problema riguarda e può essere riassunto come regolazione e gestione dei flussi migratori». Gli ulteriori passaggi sul contrasto dei trafficanti nei Paesi di transito, sulla cooperazione con i Paesi di partenza e sui corridoi umanitari non devono essere andati giù lla corrispondente tedesca. Che al termine della risposta ha continuato a commentare. La domanda in conferenza stampa era legittima, anche se fuori luogo. È apparso di cattivo gusto il tentativo di far saltare i nervi al premier, con una controreplica che nel video ufficiale non è possibile ascoltare, perché la giornalista tedesca non aveva più il microfono. Poi, per un momento la voce torna a sentirsi in modo forte, e si sente uno spezzone di una frase: «Evidentemente anche il ministro degli Esteri...». Ma mentre Reuscher tenta l' affondo, Conte la stoppa, riprendendo il discorso in questo modo: «Non le permetto di dire che il governo italiano ha causato dei morti in mare». E chiude i conti: «Questa gliela respingo perché è inaccettabile».
Da “la Zanzara – Radio24” il 21 marzo 2019. “Immigrati? Se tu ti avventuri in mare, sai benissimo che puoi annegare. Allora o nuoti o anneghi. È la realtà. È una cosa fattuale per cui perché non dirla, insomma. Non è humour nero. Se ci fosse stata anche sua figlia, parlo di Parenzo, sarebbe stato peggio e forse avrebbe meno stima per il senegalese che improvvisamente è impazzito. Parenzo ha una simpatia per tutti coloro che vengono dall’Africa. E che vengono qui a romperci i coglioni. Parenzo fa il tifo perché gli piace fare il fighetto comunista che difende l’immigrazione, che vuole i porti aperti. Apriamo tutto, apriamo a tutti i senegalesi, a tutti i criminali, tutti. Gli piacciono, Parenzo confessi”. A La Zanzara su Radio 24 va in onda l’ennesimo scontro tra il direttore di Libero Vittorio Feltri e David Parenzo. Dice Feltri: “Parenzo? Lo arrapano i negroni”. Ma forse lo bevi tu il Negroni, dice Parenzo. E Feltri: “Il negroni lo bevo io? No, mai bevuto perché non mi piace”. “E’ chiaro che i porti sarebbe meglio tenerli aperti – dice ancora Feltri - però sappiamo anche che se li tieni aperti, qua arriva di tutto. E non siamo in grado di accoglierli in modo decente. Per cui accogliamo cani, porci e gente di ogni tipo e non sappiamo chi ci portiamo a casa. E tra questi ce ne sono tanti che sono un po’ suonati”. Cacciari dice che ospiterà lui i migranti arrivati con l’ultima nave: “Non credo che corrisponda alla volontà di Cacciari, altrimenti casa sua sarebbe già piena di migranti extracomunitari. Invece casa sua è casa sua, ci sta lui. Così come nella mia sto io e non ospito nessuno di questi signori, ma non perché io sia razzista, ma perché preferisco starmene per i cazzi miei”. Ma a casa tua non ci verrebbe nessuno e ci stanno solo i gatti, dice Parenzo: “Siccome Parenzo ha paragonato i miei gatti ai senegalesi, mi sembra piuttosto folle. Se i miei gatti rispetto ai senegalesi sono di un’altra civiltà? Non c’è dubbio, questo è pacifico. I gatti non hanno mai bruciato dei bambini”. “Si dà il caso – aggiunge ancora Feltri – che questo è un senegalese, non è di Trento o di Belluno. A me non risulta che un signore di Belluno abbia mai pensato di bruciare 50 bambini. Resta il fatto che i bambini in questione sono stati nelle mire incendiarie di un signore senegalese e non di un signore svizzero. A parte il fatto che io vivo a Milano che è un’altra città civile dove per fortuna i senegalesi non hanno il dominio, altrimenti qui saremmo nella merda, quindi stiamo bene così. Tra di noi viviamo meglio che non con i senegalesi. La civiltà del Senegal non è neanche paragonabile con quella di Sesto San Giovanni. Se voglio dire che il Senegal è un paese un po’ di merda? Lo è. Visti i prodotti che sforna, non mi sembra un paese da prendere come esempio”. Tra un senegalese e un gatto chi salveresti?: “Salvo il gatto senza dubbio. E’ il mio gatto ed ha il diritto di essere salvato da me prima di qualunque stronzo”. Casarini?: “Tira su senegalesi, non proprio il meglio della civiltà mondiale”.
LA VERSIONE DI GIAMPIERO MUGHINI il 21 marzo 2019. Caro Dago, vorrei approfittare della tua generosità nell’ospitarmi pur di rivolgermi a Fatima Zahara Lafram, la giovane italiana di religione musulmana che in un video (da te ripubblicato) ha raccontato come e quando lei e due sue amiche anch’esse musulmane sono state aggredite e colpite su un bus di Torino da un’italiana ventenne che sbraitava contro il loro velo e contro la loro religione. Fermo restando che dei fatti non conosco se non la versione data da te, cara Fatima, voglio rassicurarti. Tu dici (meravigliosamente) che non è questa l’Italia in cui vorrai far crescere i tuoi figli, e hai tutte le ragioni del mondo a dirlo. Eppure credimi l’Italia è un posto buonissimo per far crescere i tuoi figli, che saranno degli italiani come chiunque altro e che di qualsiasi altro italiano avranno tutti i diritti. Non sopravvalutare l’italiana ventenne che ti è venuta addosso a colpirti e insultarti. Lei appartiene a una razza dannatissima – figlia della modernità e delle angosce che essa comporta –, gente che cerca dappertutto il nemico e il bersaglio su cui sfogarsi. Ce ne sono molti di questi maledetti nostri contemporanei e non perdono occasione per la zuffa e l’aggressione, in una discoteca o sulla curva di uno stadio di calcio. Ci sono italiani che auguravano la morte al tifoso di una squadra avversaria che stava davvero morendo. Italiani così, feccia così. Sii tuttavia sicura che il nostro non è un Paese razzista, né vedo come potrebbe esserlo nei confronti di gente come te che parla un magnifico italiano e solo perché tu eri talmente elegante con quel velo che ti stava sulla testa. Credimi, la gran parte del nostro popolo non ha la benché minima avversione per quel tuo velo e quella tua manifesta identità. Tu ci sei in Italia e ci stai a pieno titolo, eccome se no. Incontrerai italiani piccoli o idioti o impauriti di se stessi o che si danno un tono berciando qualche bestialità anti-musulmana ascoltata alla televisione o sbirciata sui social. Questo sì. Né devi dimenticare gli orrori che esistono sul versante opposto, quel pezzo di merda che si era messo alla guida di un autobus su cui erano 50 bambini italiani, ivi compresi quelli di origine marocchina, tutti italianissimi. L’Italia non è mai stata razzista e mai lo sarà, e benché nella sua storia ci sia quella macchia immonda costituita dalle leggi razziali. Neppure allora, credimi cara Fatima, l’Italia era razzista. Non so se conosci uno straordinario scrittore israeliano, Amoz Oz, la cui famiglia di origini russe aveva attraversato e patito l’antisemitismo tra le due guerre. Un villaggio polacco dove avevano vissuto sarebbe stato annientato per intero dai nazisti tedeschi tra 1941 e 1942. Oz racconta quel tempo, quei morti, quei crimini, il crimine per eccellenza che è stato l’antisemitismo, e dunque l’antisemitismo cattolico e quello protestante, “il razzismo tedesco, la sete assassina austriaca, l’odio antiebraico polacco, la crudeltà lituana, ungherese, francese, la sete di pogrom ucraina, rumena, russa, croata, il disgusto per l’ebreo in Belgio, Olanda, Inghilterra, Irlanda, Scandivavia”. Uno che lo aveva sperimentato a puntino l’assalto omicida del razzismo antiebraico, in quella sequenza di omicidi Oz non includeva mai il nome dell’Italia o di qualche italiano. E non è che lui non sapesse delle leggi del 1938, fatte per scimmiottare la delinquenza del nazismo. Ecco, cara Fatima, la ventenne che vi ha assalito è una povera e piccola cosa, una sciagurata e poco più che questo. Ce ne saranno altri e altre come lei, ma infinitamente meno di quanti e quante giocheranno e rideranno assieme ai tuoi figli. Giampiero Mughini
Casarini e i cattivi maestri, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 21/03/2019 su Il Giornale. «Gli immigrati che muoiono in mare sono colpa di Salvini». Ousseynou Sy, il senegalese che ieri voleva dare fuoco per vendetta a una scolaresca presa in ostaggio su un bus alle porte di Milano, almeno una cosa la pensa come Luca Casarini, il leader dei centri sociali che ha organizzato la sceneggiata del salvataggio in mare, con il suo rimorchiatore «Mare Jonio», di una cinquantina di disperati per sfidare la politica italiana dei porti chiusi. Ma come Ousseynou e Casarini, e questo è più preoccupante, la pensano anche buona parte della sinistra parlamentare, non pochi vescovi, scrittori come Saviano, volontari alla Gino Strada e le grandi firme de La Repubblica. In altri tempi li avremmo chiamati i «cattivi maestri» che, loro sì, incitano all'odio contro istituzioni democraticamente elette, e come noto l'odio genera violenza e dà coraggio a folli, frustrati e delinquenti in cerca di un presunto martirio.
Prima degli scafisti andrebbero fermati quelli che agli scafisti vorrebbero lasciare mano libera mettendo a rischio la sicurezza nazionale e, come è accaduto ieri, la vita dei nostri figli. Non solo pericolosi, Casarini e i suoi cantori in colletto bianco sono anche politicamente stupidi, tanto alimentano il mito e la gloria di Matteo Salvini ben oltre i suoi meriti e i risultati concreti. Come aprono bocca, come inscenano un gesto dimostrativo tipo «Mare Jonio» la Lega fa un balzo nei sondaggi. Più con le loro parole accendono la fantasia malata degli Ousseynou, più Salvini si avvicina alla maggioranza assoluta dei consensi grazie anche al fatto che i Cinque Stelle, per contratto, sull'argomento devono stare al gioco e non possono dire «a», pena la caduta del governo.
Non contenta di aver perso le ultime elezioni proprio sul lassismo nei confronti dell'immigrazione, la sinistra si sta preparando il terreno per una nuova batosta. Tra i «porti chiusi» di Salvini e i «bambini bruciati vivi» di Ousseynou (arrivato in Italia qualche anno fa da un porto aperto) secondo voi gli italiani da che parte stanno? Chi vuole fare credere che i morti in mare, per altro drasticamente diminuiti in numero assoluto grazie alle nuove politiche di contenimento, sono colpa dell'Italia non solo dice il falso ma ci espone tutti a vendette e ritorsioni. Dopo il terrorismo islamico ci mancava solo il terrorismo dei buonisti.
Cos'è l'ong Mediterranea Saving Humans. Si tratta della più giovane delle ong impegnate nel Mediterraneo, l'unica italiana: ecco la storia della Mediterranea Saving Humans. Mauro Indelicato, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale. La Mediterranea Saving Humans è un’organizzazione non governativa nata in Italia nello scorso mese di ottobre: l’intento della ong è quello di operare nel Mediterraneo con l’ausilio di alcune navi al fine di soccorrere migranti lungo la rotta libica.
La nascita della Mediterranea Saving Humans. Come detto, la Mediterranea Saving Humans nasce nel mese di ottobre del 2018: la spinta viene data da alcuni gruppi ed alcune associazioni vicine alla sinistra e ad ambienti cosiddetti “No borders”. L’intento è quello di creare una ong italiana che utilizzi navi battenti bandiera italiana, in modo da aggirare divieti ed ostacoli derivanti dalle nuove normative sull’immigrazione volute in primo luogo dal ministro dell’interno Matteo Salvini. Per questo motivo, i principali promotori dell’iniziativa chiedono ed ottengono un prestito di 400mila euro da Banca Etica, avviando inoltre una campagna di crowdfunding con la quale vengono acquistate due navi: la Mare Jonio ed il veliero Alex. Con questi mezzi la neonata Mediterranea Saving Humans inizia la sua attività nel Mediterraneo centrale, il cui scopo ufficiale è quello di salvare vite umane dai barconi in avaria tra la Libia e l’Italia. Tra i garanti del prestito che permette la nascita dell’ong, figurano alcuni personaggi di spicco della politica come l’ex presidente della regione Puglia Nichi Vendola ed il deputato di Leu Erasmo Palazzotto.
L’ideologia dell’ong. Funzione principale della Mediterranea Saving Humans è quella di intraprendere attività di soccorso in mare. L’ong è formalmente un’organizzazione non governativa umanitaria no profit, la quale fornisce aiuti umanitari attraverso il soccorso marittimo immediato. Al fianco degli obiettivi umanitari, non mancano ovviamente anche intenti politici e finalità che fanno capo ad ideologie vicine all’estrema sinistra ed ai movimenti cosiddetti “no borders”. Al pari di altre organizzazioni non governative che esercitano la propria attività nel Mediterraneo, viene propagandata l’idea di un più facile accesso dei migranti in Europa tramite soprattutto la creazione di corridoi umanitari in grado di accogliere coloro che intraprendono i viaggi della speranza lungo il “mare nostrum”. L’ong Mediterraneo Saving Humans condanna le azioni di respingimento dei barconi, che vengono viste come un modo per peggiorare la situazione umanitaria mettendo a rischio la vita stessa dei migranti. Per questo più volte l’ong italiana si mostra a favore di una maggiore responsabilità europea ed appare impegnata in scontri con il governo, in special modo con il ministro dell’interno Matteo Salvini.
Il ruolo di Luca Casarini. Uno dei personaggi di spicco della Mediterranea Saving Humans, è Luca Casarini. Si tratta di un attivista noto per le sue posizioni attinenti ai gruppi “no global”, arrivato alla ribalta mediatica in occasione del G8 di Genova del 2001. È proprio lui uno dei promotori principali della Mediterranea Saving Humans, con l’attivista descritto come una delle anime del progetto che porta alla nascita dell’ong. Non a caso Luca Casarini risulta capo missione della nave Mare Jonio, in occasione di una delle prime attività di salvataggio svolte a largo della Libia. Ed è proprio in questa occasione che l’attivista torna nuovamente al centro della scena mediatica.
I casi della Mare Jonio e della Alex. Il primo braccio di ferro tra Mediterrnea Saving Humans e governo italiano, si ha nel marzo del 2019 ed inizia quando, non distante dalle acque internazionali, la nave Mare Jonio intercetta un barcone in difficoltà con a bordo diversi migranti. Recuperati e salvati nel corso della missione guidata da Casarini, l’equipaggio fa rotta verso le acque italiane ricevendo però una risposta negativa per l’approdo da parte delle autorità di Roma. A quel punto però, la Mare Jonio entra ugualmente in acque italiane stazionando per alcuni giorni dinnanzi Lampedusa. La vicenda si chiude con l’intervento della procura di Agrigento, la quale sequestra la nave Mare Jonio e fa approdare a Lampedusa i migranti. Casarini viene iscritto nel registro degli indagati per favoreggiamento. Una situazione molto simile si ha nel luglio 2019, quando il veliero Alex della Mediterranea Saving Humans salva 50 migranti a largo della Libia e li fa approdare a Lampedusa. Anche in questo caso si ha il sequestro del mezzo ed un’indagine aperta a carico del capo missione, ossia questa volta il deputato di LeU Erasmo Palazzotto.
Ong, chi finanzia le barche di Luca Casarini e compagni: quei clamorosi 485mila euro, scrive Filippo Facci il 21 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. «Ciao amico! Naviga con noi! Sostieni Mediterranea Saving Humans, aderisci al crowdfounding, finanzia la barca "Mare Jonio" che se ne fotte della legge, delle autorità e che si fa guidare da simpatici pregiudicati come Luca Casarini! Contatta "Banca etica" che ha organizzato il crowdfounding (va bene, non sai che cazzo è un crowdfounding: in pratica devi mandarci dei soldi) e che ha già concesso un prestito di 465mila euro! Tutti soldi presi da 41mila correntisti che di Casarini e dell' immigrazione illegale magari non sapevano un accidente, certo, ma ora sono tutti felici di ritrovarsi in compagnia di Nichi Vendola, dell' Arci, della celebre associazione "Ya Basta" di Bologna, dell' Ong tedesca Sea watch oltre all' attuale sottosegretario all' Economia Laura Castelli e un' altra quindicina di parlamentari grillini! Tutti nella stessa banca, anzi barca, che festa! Ti aspettiamo! Mandaci i soldi, pirla!». Questa è la versione semiseria. La versione seria è uguale. Più o meno uguale. La nave Mare Jonio che ha «salvato» 49 migranti (che li ha fatti espatriare illegalmente) è un' invenzione finanziaria di Banca Etica, un istituto di credito popolare in forma di cooperativa che agisce «nel rispetto delle finalità di cooperazione e solidarietà» (lo si legge nel loro sito) e dove per esempio ogni conto corrente, contrattualmente, sostiene in quota anche la ong Medici senza Frontiere. In pratica, questa banca ha anticipato circa 460mila euro alla Mediterranea Saving Humans, altra ong nata appena nel giugno scorso e che ha operato a partire dal 3 ottobre. La stessa banca ha poi organizzato un crowdfunding che in pratica sarebbe una colletta, ma che oggi usa definirsi «processo collaborativo di un gruppo di persone che utilizza il proprio denaro in comune per sostenere gli sforzi di persone e organizzazioni». Nel sito della banca si legge che «il fido è anche garantito da garanzie personali prestate da alcuni parlamentari», e il testo d' invito recitava: «Regala miglia di navigazione a Mediterranea... entro 24 ore riceverai per email il bellissimo calendario delle maree Quella di Mediterranea è un' azione di disobbedienza morale ma di obbedienza civile». Certo. Questa colletta, comunque, portò a raccogliere 586mila euro (l' obiettivo era 700mila) che bastarono per la barca e soprattutto l' exploit dell' altro giorno. Sulla carta (anzi, sul web) la banca rende pubblici i finanziamenti erogati, ma i dettagli - se le violazioni di legge sono dettagli - i soci li apprendono a cose fatte. Quindi è a cose fatte che hanno appreso di avere Luca Casarini, ormai, come loro più noto testimonial: uno spot che per la legge dei numeri porterà molti soci a schierarsi automaticamente con Matteo Salvini anche se avesse proposto di cannoneggiare la Mare Jonio. I soci, comunque, sono circa in 41mila tra società (16 per cento) e singoli individui (84 percento, 34mila persone fisiche) e non sono solo italiani: molti sono spagnoli e tutti, in teoria, dovrebbero condividere le aree di finanziamento, compreso quindi il «soccorso» dei migranti con biglietto di sola andata. Alcuni degli aderenti a questa banca li abbiamo citati, e potremmo aggiungere realtà del calibro del magazine online «I Diavoli» o imprese sociali come «Moltivolti» di Palermo, ma un posto speciale ce l' ha indubbiamente il Movimento cinque stelle: utilizzò proprio quell' istituto, a suo tempo, anche per la nota sceneggiata di restituzione di soldi allo Stato con assegni giganti inquadrati dalle telecamere. Insomma: la banca che ha fottuto metà del governo (la Lega) è la banca dell' altra metà del governo (i grillini). Sul sito di Banca Etica si apprende che «la nave ha l' obiettivo di svolgere attività di monitoraggio, testimonianza e denuncia della drammatica situazione che quotidianamente vede donne, uomini e bambini rischiare la propria vita, attraversando il Mediterraneo centrale, nell' assenza di soccorsi generata dalle recenti politiche italiane ed europee». Evidentemente il monitoraggio comprende la forzatura di blocchi navali e la disobbedienza alle forze dell' ordine, ma si vede che sono forzature e disobbedienze etiche. E comunque, la banca, si è formalmente limitata a concedere un prestito. Del resto il vicepremier Luigi Di Maio, nell' ottobre scorso, disse che la nave «è una sentinella civica, nient' altro». S' è visto. Tra i dettagli, ora, c' è che i soci di Banca Etica potrebbero rischiare di aver finanziato eventuali contatti di Luca Casarini con i trafficanti nonché un' operazione finalizzata a creare un caso politico alla vigilia del voto sull' autorizzazione a procedere di Palazzo Madama: queste, almeno, le accuse mosse apertamente dal Viminale. Nel sito di Banca Etica si legge che ai soci è garantita «massima trasparenza su come sarà gestito il risparmio raccolto», «escludendo impieghi in settori che possono non essere consoni ad una visione etica dell' impiego del denaro». Traduzione: niente fondi d' investimento con aziende che magari inquinano o commerciano armi, e però è spuntato mezzo milione di euro per l' immigrazione clandestina di 49 libici (fanno circa 12mila a cranio) sotto l' occhio attento - perbacco - dell' Ethical Screening, cioè un comitato di selezione etica degli investimenti fatti utilizzando «un portafoglio selezionabile dai clienti dell' istituto bancario sulla base di giudizi etici». Etica ovunque. Sarà per questo che un paio d' anni fa 53 deputati del Pd, di Sinistra italiana e dei Cinque Stelle si sono battuti per inserire agevolazioni alla «finanza etica» nella legge di bilancio.
Dal prestito in banca ai politici: chi c'è (davvero) dietro la Jonio. Il progetto nasce l'estate scorsa per aggirare la chiusura dei porti. Ma l'agguato viene messo in atto solo ora. Ecco chi c'è dietro Casarini e compagni, scrive Andrea Indini, Mercoledì, 20/03/2019, su Il Giornale. "Era tutto organizzato". Nella Lega la linea sulla nave Jonio è univoca: Luca Casarini, il disobbediente del G8 che si è messo a capo della Mare Jonio, ha messo in piedi una operazione politica proprio in concomitanza con il voto in Senato sul caso della Diciotti. Una tesi prefigurata anche da alcuni report inviati all'intelligence e condivisa dai Cinque Stelle che però si sono mossi per evitare che si replicasse la vicenda della nave della Guardia Costiera bloccata per giorni di fronte al porto etneo, con 177 immigrati a bordo. Dietro questo agguato politico, oltre a Casarini e a Beppe Caccia, c'è il progetto "Mediterranea Saving Humans". Una organizzazione non governativa finanziata da Banca Etica che nasconde al proprio interno i soliti ultrà dell'accoglienza che in questi mesi infiammano le piazze facendo la guerra a Matteo Salvini. "Non sappiamo quando - assicura Casarini - ma torneremo in mare insieme a tutti quelli che si riconoscono in un principio di una semplicità straordinaria: prima si salvano le vite umane, poi si discute del resto". Il punto politico di quanto successo nelle ultime quarant'otto ore resta il tentativo (fallito) dei centri sociali di creare un nuovo scontro alla vigilia del voto al Senato sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini sul caso della nave Diciotti. Un vero e proprio agguato che, secondo i dati in possesso del Viminale, sarebbe stato organizzato da tempo per scavalcare il divieto di attracco nei porti italiani emesso l'estate scorsa dal Viminale per fermare le imbarcazioni delle ong che battevano bandiere straniere. Da qui l'idea di Cesarini e Caccia di mettere in mare una nave battente bandiera italiana. Torniamo dunque all'estate scorsa. Casarini raduna attorno a sé alcuni esponenti dei centri sociali del Veneto che hanno già iniziato a scendere in piazza contro Salvini. "Non personalizziamo... - dice oggi al Corriere della Sera - io qui faccio la mia parte con umiltà, come uno dei tanti". In realtà, come ricostruisce Repubblica, è lui il capo missione che spinge a costituire una società armatrice per far partire l'agguato al governo. Nasce così la Idra Srl, attorno alla quale si stringono i più intranigenti fan dell'accoglienza, come l'Arci, le ong Ya Basta Bologna, Sea Watch e Open Arms, il centro sociale Esc di Roma e l'associazione "Baobab Experience". Grazie ai contatti politici con le Giunte di Palermo, Napoli e Milano e con i parlamentari di Sinistra italiana, riescono anche ad ottenere un cospicuo prestito da Banca Etica. Nelle tasce di Casarini e compagni arrivano, quindi, 460mila euro che servono per comprare e ristrutturare un vecchio rimorchiatore. Ovviamente gli antagonisti dei centri sociali non hanno il know how per trasformare la Mare Jonio in una imbarcazione "Search and rescue". Per questo arrivano alcuni volontari di Sea Watch e Open Arms. Quello di lunedì scorso è stato il primo intervento in mare. E i sospetti sulle modalità di intervento sono a dir poco sospette. Tanto che in Forza Italia c'è chi li ha accusati di "pirateria". La stessa Guardia Costiera libica ha fatto sapere che si trovava "a cinque miglia dal gommone in panne", quando l'imbarcazione della Mediterranea è entrata in azione, e che "era in grado di recuperare in sicurezza tutte le persone a bordo". "L'intervento della nave della Mediterranea non era necessario ed è stato pretestuoso", ha spiegato all'Agi il portavoce Ayoub Qassem accusando i "soccorritori" italiani di aver ostacolato le operazioni di salvataggio per "interessi certamente non umanitari". Ieri sera i pm di Agrigento hanno aperto un fascicolo. L'accusa è di favoreggiamento all'immigrazione clandestina. Ma non hanno iscritto ancora alcun nome. "Svegliatevi togati - commenta il senatore Maurizio Gasparri - invece di mandare documenti con consigli sbagliati al Parlamento, fate il vostro dovere. Contribuite a difendere la sicurezza e la legalità in Italia".
FARE I BUONI CON I SOLDI DEGLI ALTRI. ECCO I BILANCI DELLA ONG DEI CENTRI SOCIALI: QUELLO CHE MEDITERRANEA NON DICE. Andrea Indini per Il Giornale il 12 aprile 2019. Non è tanto quello che dice, quanto piuttosto quello che non dice. Perché i bilanci pubblicato online da Mediterranea Saving Humans, la ong aperta da Luca Casarini e altri esponenti dei centri sociali e dell'associazionismo rosso per mettere in mare la nave Mare Jonio, svelano sì i soldi che fino a oggi gli sono arrivati nel portafogli, ma non pubblicano alcun nome se non quelli che già si conoscevano. Il progetto "Mediterranea Saving Humans" nasce nell'estate del 2018, quando Casarini inizia a radunare attorno a sé alcuni esponenti dei centri sociali veneti. Le piazze sono già piene di teste calde che protestano contro Matteo Salvini e la linea dura del governo per contrastare l'immigrazione clandestina. E l'ex disobbediente del G8 di Genova convoglia questo odio in una ong che punti a contrastrare il Viminale laddove sta combattendo la sua battaglia più importante: nel Mediterraneo. Da qui l'idea di mettere in mare una nave per andare a recuperare gli immigrati clandestini fin davanti alle coste libiche. E così, come scrivevamo giorni fa, Casarini costituisce la società armatrice, la Idra Srl, e fa rete con i più intransigenti fan dell'accoglienza. Al suo appello rispondono l'Arci, le ong Ya Basta Bologna, Sea Watch e Open Arms, il centro sociale Esc di Roma e l'associazione "Baobab Experience". I contatti politici con le Giunte di Palermo, Napoli e Milano e con i parlamentari di Sinistra italiana fanno, invece, arrivare i primi soldi. È Banca Etica ad aprir loro una linea di credito da 465mila euro. Ma questo primo prestito non è abbastanza: nel primo anno scarso la ong ha, infatti, "bruciato" la bellezza di 1.225.333 euro e 20 centesimi. Come li hanno coperti? Sul proprio sito la Mediterranea Saving Humans parla di "trasparenza". E così siamo andati a spulciare tutti i numeri che hanno pubblicato. I conti tornano. Ma non si va aldilà dei numeri. "Lo sviluppo del progetto - si legge - non sarebbe stato perciò possibile senza il sostegno iniziale delle organizzazioni della società civile italiana e delle singole persone che hanno creduto nell'operazione con contributi a fondo perduto per 98.115 euro e prestiti solidali infruttiferi per 115mila euro, raccolti tra il luglio e l’agosto 2018". A questi, come detti, vanno ad aggiungersi i 465mila euro di Banca Etica che per Casarini & Co. "supporta anche le attività di crowdfunding" e "svolge attività di tutoraggio per gli aspetti economici dell'intera operazione". Al prestito di Banca Etica, che ha creato non pochi malumori tra i correntisti, bisogna aggiungere gli oltre cinquemila donatori che dal 4 ottobre 2018 hanno versato alla Ong 518.533 euro attraverso "i diversi canali di crowdfunding". Con 25 euro sostengono mezzo miglio di navigazione, con 100 arrivano fino a due miglia. "Deve essere considerato - fanno notare - che numerose tra queste donazioni arrivano da soggetti collettivi (associazioni, parrocchie, centri sociali etc.), che le hanno raccolte in occasione di iniziative pubbliche con centinaia di persone partecipanti". Qui, però, l'elenco è più fumoso. Perché, se è vero che su un'altra pagina viene indicato chi sostiene il progetto (leggi qui), da nessuna parte si dice se questi sostenitori sono solo morali e, se hanno versato anche un contributo economico, non viene detto quanto hanno donato.
Quel "fido" all'Ong di Casarini garantito da Vendola e sinistra. La nave dei centri sociali in mare grazie a un maxi finanziamento della Banca Etica concesso grazie alle garanzie di Vendola e di altri politici, scrive Nico Di Giuseppe, Venerdì 12/04/2019 su IL giornale. Senza Vendola il ritorno di Casarini non sarebbe andato in scena. E neanche senza la Banca Etica, quella preferita dai grillini per intenderci. Ma di cosa stiamo parlando? Del fatto che "Mediterranea Saving Humans", ispirata dall'ex no global, sia riuscita ad acquistare la nave Mar Jonio, a metterla in funzione e a farla partire in mare alla ricerca di naufraghi e migranti. Nell'ottobre 2018 infatti la Banca autorizza il prestito all'associazione umanitaria. Si parla di 460mila euro, mica briciole. Elargite con un fido elastico e flessibile, di quelli che difficilmente si concedono ai privati correntisti. E chi ha permesso questo prestito? L'ex governatore della Puglia, Nichi Vendola, insieme a Erasmo Palazzotto e Nicola Fratoianni, esponenti di Sinistra Italiana, e Rossella Muroni, esponente di Liberi e Uguali, il partito di Grasso e della Boldrini. Tutti a fare da garanti personali. Grazie a loro, nelle tasche di Casarini e compagni arrivano i soldi che servono per comprare e ristrutturare un vecchio rimorchiatore. Ovviamente gli antagonisti dei centri sociali non hanno il know how per trasformare la Mare Jonio in una imbarcazione "Search and rescue". Per questo arrivano alcuni volontari di Sea Watch e Open Arms. Anche i correntisti di Banca Etica fanno sentire la loro indignazione. "Mi spiace molto ma non sono per nulla d'accordo con questo tipo di finanziamenti - scriveva Paolo sul sito - avreste dovuto almeno metterlo ai voti e vedere se la maggioranza dei soci era d'accordo o meno, davvero una grande delusione". "Mi pare un'iniziativa politica, non economica, se Banca Etica vuole cominciare a fare politica lo dica chiaramente. Io e mia moglie, correntisti e azionisti, faremo le nostre valutazioni", scriveva un altro utente. Addirittura c'è stato chi ha denunciato di aver chiesto un prestito di 5mila euro dando in garanzia un immobile di 150mila euro e si è visto rifiutare il prestito dalla banca. Che, tra l'altro, ha rivendicato la sua scelta: "Questa operazione è in linea con quei valori che ci hanno portato in questi anni a finanziare, per circa 70 milioni di euro complessivi, centinaia di realtà che operano per un'accoglienza degna nel nostro paese". I 460.000 euro dati alla Ong Mediterranea saving humans sono stati concessi con la formula del "fido a revoca", che, come ricordava La Verità, non avendo scadenze definite, permette una gestione flessibile del rientro. Passano pochi mesi e la Mare Jonio scatena le polemiche per aver recuperato 40 migranti al largo delle coste libiche, poi il braccio di ferro col governo, il sequestro, il dissequestro, l'indagine della Procura di Agrigento per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Quando Casarini diceva: "Metti sti c... di migranti davanti". Il leader No Global tifa accoglienza. Ma un filmato di Striscia la notizia (rilanciato da Giorgia Meloni) lo incastra, scrive Andrea Riva, Martedì 19/03/2019, su Il Giornale. Luca Casarini - ieri leader dei No Global e oggi capo missione della Mar Jonio - predica bene, ma razzola male. Un po' come tutta la sinistra del resto. Ma andiamo ai fatti. Casarini è un fan dell'accoglienza e dei porti aperti. Eppure c'è chi è andato a spulciare il suo passato e ha trovato un video davvero singolare. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, ha infatti trovato un filmato, realizzato da Striscia la Notizia, in cui si vede il No Global che, durante una manifestazione, dice: "Metti sti c... di migranti davanti". Ovviamente il megafono è spento, ma le telecamere riescono a registrare tutto. Poco dopo però la magia: Casarini prende il microfono e afferma: "I fratelli migranti qua davanti con i loro cartelli". Singolare il fatto che un'espressione così poco felice sia stata utilizzata durante un corteo in favore dei migranti. Del resto, la stessa Meloni chiosa così il video: "Un'altra bella dimostrazione dell'uso strumentale e interessato dei richiedenti asilo da parte di una sinistra razzista, agonizzante e al servizio del grande capitale. Che schifo!". E come darle torto?
Chi è Luca Casarini, disobbediente per professione. Con la Mare Jonio, nave della sua Ong sta portando 49 migranti in Italia contro Salvini. Storia di un disobbediente di professione, dal G8 ad oggi, scrive il 19 marzo 2019 Panorama. Luca Casarini torna alla ribalta della cronaca grazie alla Mare Jonio, la nave della Ong "Mediterranea Saving Humans" di cui è capo missione che ha raccolto 49 migranti in difficoltà nel Mar Mediterraneo e li sta portando verso un porto in Italia, ovviamente sfidando il Ministro dell'Interno, Matteo Salvini forte della sua linea sui "porti chiusi" ai migranti, agli scafisti ed alle Ong. Non è la prima volta che Luca Casarini sfida il Governo, i potenti, lui disobbediente per professione. Veneto, è nato a Mestre 52 anni fa, Casarini si avvicina fin da giovane al mondo dei centri sociali e poi del mondo anarchico ed antagonista.
Casarini organizza e partecipa proteste contro la base Nato di Vicenza, la guerra in Afghanistan, il primo progetto dei treni ad Alta Velocità, l'Europa. Ma il vero grande nemico è la globalizzazione. Il suo impegno e la sua figura crescono al punto da farlo diventare il leader del famoso movimento delle "Tute Bianche" i grandi contestatori "No Global" che raccolgono consensi e militanti in tutti i centri sociali d'Italia. Tute Bianche che hanno una grande missione da combattere: il G8 di Genova. Sono giorni caldi: la zona rossa, la morte di Carlo Giuliani, l'assalto alla scuola Diaz. Casarini acquista popolarità e visibilità essendo portavoce e leader dei manifestanti. E' sua in quei giorni la "dichiarazione di guerra" contro i potenti del mondo. Popolarità che sfrutta dopo il G8 per intraprende la via della politica. O, almeno, per provarci. Candidato nel 1999 alle elezioni comunali di Padova, Casarini viene preso come consulente dall'allora ministro per la Solidarietà Sociale Livia Turco nel primo governo Prodi. Nel 2014 si candida al Parlamento Europeo nella lista L'Altra Europa con Tsipras, raccoglie 11 mila preferenze ma non viene eletto. L'anno seguente entra a far parte della presidenza nazionale di Sel, il partito guidato da Nichi Vendola. E nel 2017 viene eletto segretario regionale in Sicilia sempre con Sel. La sua storia politica finisce qui. Da quel momento si dedica al mondo delle Ong ed entra nella Mediterranea Saving Humans. Oggi la sua Mare Jonio sfida Salvini. Non è la prima volta che sfida la legge, non sarà l'ultima.
Chi è Luca Casarini, l'ex no global dal G8 ai migranti. Luca Casarini, il leader dei "Disobbedienti" che animarono gli scontri di piazza durante il G8 del 2001, torna a far parlare di sè per la sua attività di salvataggio migranti con la nave Mare Jonio. Ultima tappa di una vita da contestatore, scrive Gianni Carotenuto, Martedì 19/03/2019 su Il Giornale. Luca Casarini è come i gatti: è un uomo dalle sette vite. Lui che guidava il movimento no-global durante i tragici giorni del G8 di Genova del 2001, oggi è il capo della Ong che in queste ore è protagonista di un braccio di ferro con le autorità italiane per lo sbarco dei 50 migranti raccolti a poca distanza dalle coste della Libia con il suo rimorchiatore trasformato in una nave acchiappa-disperati.
52 anni ancora da compiere, la vita da contestatore di Luca Casarini inizia da molto lontano, precisamente dalla fine degli anni Ottanta. Dopo essersi diplomato perito termotecnico a Padova, la passione per la politica lo spinge a iscriversi a Scienze Politiche. Ma il ragazzo non ha molto tempo per studiare e tra il 1990 e il 1993, fra un'occupazione e l'altra, dà solo sei esami.
Centri sociali e scontri di piazza. Poco male. L'educazione ricevuta nei centri sociali "Pedro" di Padova e "Rivolta" di Porto Marghera lo spinge nelle piazze delle principali città del Veneto. Casarini è sempre lì, lancia in resta e pronto ad usare le mani se necessario, contro la polizia e i "maledetti fascisti". Nel 1999 tenta il grande salto nelle istituzioni che tanto contesta, ma la sua candidatura a sindaco di Padova gli porta appena l'1,4% dei voti. Ma lui non demorde e alla fine non gli dispiace più di tanto: al dialogo istituzionale preferisce il megafono. La ricerca del compromesso non gli piace e alla difesa preferisce l'attacco. A cavallo tra anni '90 e 2000 Casarini guida una lunga serie di azioni di protesta: i suoi bersagli sono i centri di permanenza temporanea, la flessibilizzazione del lavoro, le guerre in Afghanistan e in Iraq, i Treni ad Alta Velocità e le basi militari americane in Italia, su tutte la "Dal Molin" di Vicenza.
Il G8 e l'amicizia con Niki Vendola. Ma è durante il G8 che Casarini inizia a occupare le prime pagine dei giornali. Come portavoce del gruppo dei "Disobbedienti" diventa subito tra i leader del movimento no-global. Nei giorni che portano alla tragica morte di Carlo Giuliani, Casarini è sempre in testa ai cortei che spesso e volentieri affrontano le forze dell'ordine. Lo scontro gli piace e non fa nulla per nasconderlo. Ma poi la bolla si sgonfia e, insieme al movimento no-global, anche la buona stella di Casarini comincia a tramontare. L'ex Disobbediente deve trovarsi un lavoro. Nel 2009, al Corriere della Sera, racconta di essersi trasferito a Palermo e di avere aperto una partita Iva: "Mi occupo di consulenza sul marketing e design pubblicitario". La politica, però, gli rimane nel sangue. Amico di Niki Vendola, nel 2014 gli strappa una candidatura nella lista di sinistra radicale L'altra Europa con Tsipras. Candidato nella circoscrizione Italia centrale, prende circa 10 mila voti. Non abbastanza per conquistare un seggio a Bruxelles, ma sufficienti per diventare - nel 2017 - segretario siciliano di Sinistra Italiana.
Il matrimonio della figlia di Negri e la Mare Jonio. Anche da imprenditore (di se stesso), Casarini non ha cambiato le sue idee. E non dimentica gli amici. Come l'ideologo di alcuni movimenti della sinistra extraparlamentare Toni Negri, condannato a 12 anni di carcere per associazione sovversiva e concorso morale nella rapina di Argelato. Da privato cittadino, nel 2018, Casarini ha celebrato a Pantelleria - con tanto di fascia tricolore - il matrimonio della figlia di Negri, Nina, che ha sposato Marco. "Due amici carissimi. Sono stati loro a spiegarmi — aveva raccontato subito dopo la cerimonia a ottobre al Mattino di Padova — che un privato cittadino può sposare una coppia. E così l’ho fatto", riporta il Corriere della Sera. Fino all'ultima, pazza idea: la trasformazione di un rimorchiatore del 1971 in una nave di "ricerca e salvataggio": la Mare Jonio "Se siamo una Ong? No, piuttosto una piattaforma sociale. Questa nave deve diventare un simbolo. Se l’Italia e l’Europa chiudono i loro porti, chiameremo la popolazione a scendere in strada". E ora anche in mare. Il solito contestatore. Il solito Luca Casarini.
LAUDATO SI', GLOBAL NO. Andrea Priante per il ''Corriere del Veneto'' l'8 Settembre 2019. «Un giorno ho detto a monsignor Corrado Lorefice, l’arcivescovo di Palermo, che non ce la facevo più a vedere i bambini annegare, perché ogni volta era come se a morire fossero i miei figli. E lui mi ha spiegato che “compassione” in aramaico si traduce con la parola “viscere”. Ecco, Gesù era mosso da qualcosa che nasceva da dentro, che non poteva arginare...». A 52 anni, Luca Casarini se ne sta sulla «sua» Mare Ionio bloccata nel porto di Licata, in attesa di poter riprendere il mare. Per ora non se ne parla: «La nave è ancora sotto sequestro. La nostra colpa è stata quella di aver soccorso ventidue bimbi, tredici adolescenti, ventisei donne, quattro delle quali incinta, e 37 uomini. Tutti con segni delle torture subite in Libia». Intanto, il 9 agosto ha varcato il palazzo vescovile di Mazzara del Vallo per incontrare monsignor Domenico Mogavero, che ha definito «un dono di Dio» l’impegno delle Ong che «salvano i migranti». E, un paio di giorni fa, Avvenire – il quotidiano dei vescovi – si è spinto oltre, dedicando all’ex leader dei no global veneti un ritratto nel quale si sostiene che «oggi ha depurato l’enfasi movimentarista tenendo sul comodino testi di teologia».
Casarini, davvero il ragazzotto che fu lo spauracchio delle forze dell’ordine, uno che alla fine degli anni Novanta trascorreva i sabato sera all’osteria «Allo sbirro morto», oggi legge libri religiosi?
«Sul comodino tengo il Laudato Si’ di Bergoglio. Credo che attualmente il Papa sia l’unico leader in grado immaginare un mondo alternativo e che quell’enciclica sia in realtà un testo politico: parlando del Creato, affronta il tema dell’ecologia, del climate change, del rispetto che si deve a tutti gli esseri viventi. L’umanità non è soltanto un valore morale, è qualcosa che muove dai nostri sentimenti per poi portarci a fare delle scelte concrete. Dobbiamo difendere il Creato».
La sua è una conversione?
«Credo sia qualcosa di diverso. Attraverso ciò che stiamo facendo con la Mare Ionio, ho avuto modo di confrontarmi sui temi della vita e della morte. Questo ha aperto in me una riflessione di tipo spirituale. Sto indagando questa dimensione, il tema della morale, di ciò che è Giusto, del Divino. Se poi mi chiede se sono un cattolico praticante, questo no. Diciamo che la spiritualità la vivo a modo mio. Anche perché rileggo la parabola del buon Samaritano, il reietto da tutti che si rivela l’unico disposto ad aiutare chi è in difficoltà, e poi ripenso a chi la domenica va a messa pur votando Salvini e sostenendo leggi razziste. E allora mi dico che va bene così, che la sostanza delle cose non è nell’apparenza».
Prima ha accennato a un dialogo con il vescovo di Palermo…
«Non solo. Ho incontrato diversi preti che hanno segnato la mia visione della vita: il cappellano del porto di Marghera don Mario Cisotto, don Ciotti, don Vitaliano… E ora c’è don Mattia, il cappellano di bordo della Mare Ionio. Con lui, la notte, parlo davvero di tutto, assieme affrontiamo le grandi questioni universali. Ecco, tutti questi sacerdoti mi hanno insegnano a guardare con occhi diversi a Gesù».
Allora lo vede che la sua è una conversione…
«Non voglio dare una definizione a questa cosa. Però sono affascinato da Gesù: sono convinto sia realmente esistito e che la sua vita sia stata una straordinaria battaglia. Da questi dialoghi con i sacerdoti ne è scaturita una nuova consapevolezza: in tempi come questi, dove il disprezzo impera nella politica, l’amore è l’arma più forte che abbiamo a disposizione. A chi odia e ritiene ci siano uomini di serie B, io rispondo salvando i migranti e sapendo che, in fondo, in questo modo sto salvando me stesso».
Sembra un predicatore. Ma lei era il leader dei «cattivi», dei veneti al G8 di Genova, delle lotte di piazza, quello che veniva denunciato e finiva sotto processo… Oggi parla di Gesù e di amore per il prossimo.
«Sicuramente il tempo cambia le persone, ma non rinnego nulla del passato. Del Luca Casarini ventenne mi separano tante esperienze e, soprattutto, la nascita dei miei figli. Però, se mi guardo indietro, non vedo una svolta improvvisa né un mutamento incoerente: semplicemente, ciò che sono oggi è il frutto del percorso, delle cose giuste e anche degli errori, che ho compiuto nell’arco della mia intera esistenza».
· Africa: a sinistra si marcia contro il razzismo, a destra si cercano soluzioni.
Italiani poca gente, scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 10/03/2019 su Il Giornale. G li esperti di demografia mettono paura. Il tema dovrebbe finire immediatamente nell'agenda dei politici responsabili. In sintesi, come potete leggere in queste pagine, l'Italia rischia di implodere a causa della bassa natalità; l'Europa intera invecchia rapidamente; l'Africa invece esplode di gioventù. Difficile fare ipotesi a lungo termine ma sembra sensato, per non dire sicuro, che in un futuro molto vicino, un paio di miliardi e mezzo di africani guarderanno 450 milioni di europei dall'altra parte del Mediterraneo. L'immigrazione di massa, per ora, ha trovato un argine proprio nelle distanze stabilite dal mare e dal deserto del Sahara. Se il territorio tra Africa e Europa non avesse soluzione di continuità, staremmo già facendo i conti con un'emergenza senza precedenti nella storia del nostro Continente. Gli slogan lasciano il tempo che trovano: «viva l'accoglienza» e «la pacchia è finita» non sono certo soluzioni praticabili. Guardiamo l'Europa. Il Belgio si trova a gestire enormi problemi di integrazione, resi ancora più complessi dai numeri (...) (...) dell'immigrazione. La Francia non è messa molto meglio ma ha varato programmi di sostegno alle famiglie, col chiaro intento di impostare una politica di ampio respiro sulla natalità. In Italia tutto tace. Affrontare i problemi non è la nostra specialità. I governi (tutti) hanno di solito vita breve e dunque i partiti campano principalmente di propaganda. Da noi sostenere le famiglie suona male, ci ricorda il fascismo e dunque lasciamo perdere. Peccato sia un colossale autogol. I sostenitori del «barrichiamoci in casa» non tengono conto di un fatto semplice: è impossibile, visti i numeri in campo. I sostenitori del «ci pagheranno le pensioni» non tengono conto di un fatto altrettanto semplice: i giovani immigrati riequilibrano gli effetti della denatalità, ma come ricorda Antonio Golini nell'intervista in queste pagine, un popolo è fatto anche di cultura e storia: «Se una popolazione invecchia e perde la sua vitalità alla fine fatica anche a trasmettere i suoi valori ai nuovi arrivati. Rischia di essere sostituita e non di integrare». Cosa risponderemo quando, come accaduto in Gran Bretagna, i musulmani chiederanno l'istituzione delle corti islamiche che giudicano secondo la sharia e non secondo la legge dello Stato? Meglio dunque ripassare i fondamentali della democrazia liberale, ammesso che abbia ancora un significato per noi. Meglio rispettare il cristianesimo che ha avuto un ruolo determinante per l'intera Europa. Sbaglia dunque chi irride i movimenti «identitari» come fossero roba per trogloditi. Lo sono soltanto quando la ricerca delle proprie radici sfocia nel provincialismo, nella retorica dell'insuperabile bellezza italica (della quale non abbiamo alcun merito), nella autarchia culturale che di solito nasconde una colossale ignoranza di quello che accade a Chiasso. In questi giorni esce Italia! Storia di un'idea (Oaks edizioni) di Ettore Rota. È un libro affascinante e mastodontico uscito negli anni Trenta ad opera di un professore dell'università di Pavia, Rota appunto, specialista negli studi settecenteschi. L'autore rintraccia nei testi letterari anteriori all'Unità le ricorrenze del termine «Italia» al quale scrittori come Francesco Petrarca, Niccolò Machiavelli e Giacomo Leopardi hanno dato significati diversi. Certi però che l'Italia esistesse nonostante la divisione politica. Cosa siamo dunque: una lingua, una variante mediterranea della democrazia anglosassone, gli eredi lontanissimi di un impero, il Paese che ospita il Vaticano, una repubblica fondata sull'antifascismo ma non sull'anticomunismo, una terra tuttora divisa e segretamente nostalgica delle antiche autonomie? La discussione è aperta ma un risposta, magari molto articolata, sarà meglio trovarla.
Zero permessi umanitari, l’Italia non accoglie più. Da circa il 50% di riconoscimenti di domande per la protezione umanitaria a meno del 2% di accoglimenti: 1,8%, per la precisione. E’ questo il primo bilancio della stretta imposta dal Viminale sui presupposti per il riconoscimento di forme di protezione internazionale, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 12 Marzo 2019 su Il Dubbio. Da circa il 50% di riconoscimenti di domande per la protezione umanitaria a meno del 2% di accoglimenti: 1,8%, per la precisione. E’ questo il primo bilancio della stretta imposta dal Ministero dell’interno sui presupposti per il riconoscimento di forme di protezione internazionale diverse dallo status di rifugiato. La “linea dura” voluta dal ministro Matteo Salvini sta dunque raggiungendo in anticipo sulla tabella marcia lo scopo prefissato: stop definitivo entro l’anno ai permessi umanitari. Il cambio di rotta è avvenuto con l’entrata in vigore lo scorso anno del “decreto sicurezza” che ha comportato un aumentato esponenziale dei rigetti delle domande di protezione internazionale da parte delle Commissioni territoriali. L’immediata conseguenza è stata, però, la crescita del numero dei ricorsi contro i provvedimenti di diniego davanti alle sezioni specializzate dei Tribunali. Tale situazione avrà ripercussioni anche sul carico di lavoro della Corte di Cassazione, già in difficoltà per l’aumentato numero di ricorsi a seguito dell’abolizione dell’appello. Le Commissioni territoriali, un tempo vero collo di bottiglia nella procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato, sono state in questi mesi notevolmente rafforzate. Il Viminale ha aumentato la loro forza organica inviandovi personale scelto. Il Ministero, oltre ad aver incrementato il numero delle sezioni, ne ha anche aperte di distaccate. Il collo di bottiglia si è quindi spostato nei Tribunali dove il numero dei giudici destinati alle sezioni specializzate in materia di immigrazione e protezione internazionale è attualmente sottodimensionato per fronteggiare questa mole di ricorsi, rispettando i tempi imposti dalla legge per la definizione dei procedimenti. La “linea dura” salviniana non si ferma comunque alle domande. A farne le spese sono coloro che, titolari di un permesso di soggiorno per protezione internazionale ed umanitaria, volevano rinnovarlo. Qui la scure è stata implacabile, con dinieghi pressoché generalizzati. Tutti provvedimenti che vengono successivamente impugnati, andando ad ingrossare i ruoli delle sezioni specializzate dei Tribunali, interessate quest’ultime anche dal contenzioso determinato dall’esclusione dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica. Sul punto l’Associazione nazionale magistrati, nell’ultimo Comitato direttivo, ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura ed al Ministero della giustizia provvedimenti immediati. Fra le richieste: applicazioni extradistrettuali straordinarie alle sezioni specializzate, previa analisi delle sopravvenienze; aumento delle piante organiche dei Tribunali sedi di sezioni specializzate e dei corrispondenti uffici di Procura, da destinare a queste ultime; fornitura di linee guida ed indicazioni specifiche ai presidenti di Tribunale per il rafforzamento delle sezioni specializzate, con l’assegnazione di giudici a tempo pieno e non in coassegnazione con altre sezioni ed anche attraverso la effettiva costituzione dell’ufficio per il processo, prevedendo l’assegnazione di un numero congruo di stagisti e di giudici onorari in affiancamento. La riforma fortemente voluta da Salvini, «provoca – scrivono le toghe – un aumento significativo dei ricorsi non legato all’attualità del fenomeno degli sbarchi sul nostro territorio. Un fenomeno destinato ad essere strutturale e non transitorio», concludono quindi i magistrati.
Edi Rama, il premier dell'Albania a Pietro Senaldi: "Salvini ha ragione sui migranti. Europa, basta ipocrisia". Intervista di Pietro Senaldi del 12 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. È stato con l'Albania che l'Italia ha conosciuto per la prima volta l'immigrazione di massa, oltre 25 anni fa, con le carrette del mare stracolme di disperati in fuga dal crollo del comunismo, dalla guerra nei Balcani e dal pericolo di finire vittime della pulizia etnica. «Per noi l'Italia è sempre stata l'America, proprio come nel bellissimo film di Gianni Amelio che raccontava il nostro esodo biblico verso le coste della Puglia», ricorda Edi Rama, 56 anni, socialista, per tre volte sindaco di Tirana e dal 2013 premier albanese, segnalato dalla rivista Time tra i 37 uomini destinati a cambiare in meglio il volto dell’Europa ai tempi in cui amministrava la capitale. Oggi la situazione è più turbolenta, con l'opposizione in piazza a chiedere elezioni anticipate e accusare il governo di brogli, corruzione e collusione con il traffico internazionale di stupefacenti. «Il guaio di noi albanesi è che non sappiamo perdere» tenta di minimizzare il presidente, un omone atletico alto quasi due metri e di carnagione scura, che si presenta in completo indaco e scarpe da tennis, come fosse una ex stella della Nba, il campionato di basket americano. E in effetti la pallacanestro è il suo hobby. «Mi ritrovo l'opposizione fuori dal Parlamento, sull' Aventino direste voi, ma io non sono un duce. Dovrebbero tornare in aula se vogliono confrontarsi, così fanno solo il male dell'Albania, offrendo un'immagine del Paese diversa dalla realtà. Non siamo a rischio destabilizzazione, questa è una rivolta di piazza nel senso che i contestatori stanno tutti nella piazza davanti al Parlamento, non che hanno il popolo dalla loro. Io ho rivinto due anni fa con la maggioranza assoluta, il Paese cresce del 4% l'anno, solo che tra poco ci sono le elezioni amministrative e se non fanno un po' di rumore i miei avversari rischiano un'altra disfatta». Il guaio è che questa contestazione, di palazzo più che di piazza, sta avendo eco all' estero. La stampa russa le dà molto spazio. Rama di secondo lavoro fa il pittore - gallerie, aste, cose serie, non un passatempo da tinello - e il senso del bello è stata la chiave dei suoi tre mandati da sindaco, durante i quali ha trasformato Tirana da grande accampamento del potere comunista a capitale, con un'urbanistica che ingentilisce lo strano mix tra la razionalità architettonica comunista e quella del Ventennio con il verde e palazzi moderni, progettati anche da italiani. Dell' artista ha la leggerezza anche nel parlare degli argomenti più drammatici. «I Balcani sono strategici, siamo una terra di frontiera da millenni, e tutti vorrebbero avere influenza su di noi. Per questo voglio portare il mio Paese in Europa, anche se chiaramente alla Russia e ad altre potenze orientali questo non fa piacere. Ma io voglio mettere l'Albania in sicurezza, noi la guerra e lo sterminio etnico li abbiamo vissuti sulla nostra pelle, ne abbiamo il ricordo nel cuore e nella testa, non sono un racconto dei nonni e dei bisnonni come per voi dell'Europa Occidentale». E quando tocca l'argomento, il presidente perde l'espressione affabile, lo sguardo si fa penetrante, la mascella si irrigidisce.
È sicuro che l'ingresso nella Ue sia una scommessa vincente: Tirana cresce, l'Unione rallenta, chi glielo fa fare?
«Me lo chiedono tutti all' estero. Noi non ne abbiamo bisogno tanto per l'economia, quanto per la politica estera. Abbiamo tanti indizi che dietro le proteste di questi giorni contro il mio governo ci sia l'azione di potenze straniere, e poi abbiamo bisogno di dotare il Paese di istituzioni solide e integrate alla Ue, per proseguire con la modernizzazione e sconfiggere la corruzione, che è ancora alta».
L' Europa ha mille regole economiche, non teme vi frenino?
«Abbiamo l'esempio degli ex Paesi comunisti, come la Polonia e l'Ungheria, che non hanno l'euro e crescono pur essendo nell' Unione. Finché potrò applicare il 5% di tasse alle imprese che fatturano fino a 160mila euro e il 25% agli individui più ricchi, non temo rallentamenti economici».
Come fa a garantire il welfare con una tassazione così bassa?
«Ho scoperto che se le tasse sono basse l'evasione è minima e l'incasso dell'erario certo».
Presidente, quando gli albanesi arrivarono a centinaia di migliaia, nei primi anni '90, gli italiani avevano paura di loro, oggi non più: come mai?
«Potrei dirle perché in fondo noi eravamo già italiani. Parlavamo la vostra lingua, la vostra tv era l'unica finestra sul mondo che i cittadini dell'Albania comunista avevano. L' integrazione è stata facile perché siamo un popolo fiero ma versatile.
Chi è venuto da voi, si è aperto completamente al mondo e alla cultura italiana, desiderava fortemente farlo».
Eppure molti albanesi sono musulmani.
«Io sono cattolico, mia moglie è musulmana e i nostri due figli grandi sono ortodossi. Chissà, magari il piccolino diventerà buddista. Il fanatismo religioso non esiste da noi, quindi non abbiamo potuto esportarlo. Non abbiamo un modo divisivo di vivere la religione, pensi che durante la Seconda Guerra Mondiale siamo la sola nazione invasa dai tedeschi che non ha consegnato neppure un ebreo».
Insomma, chi va in un altro Paese deve adattarsi?
«Il motto dell'Albania è che la casa di un albanese appartiene a Dio e all' ospite, però l'ospite deve rispettare le regole di casa. Noi in Italia l'abbiamo fatto».
Ora sono gli italiani ad andare in Albania?
«Il saldo tra chi parte e chi torna è ancora di 150mila persone a favore di chi espatria. L' Albania sta andando bene, ma è un Paese che deve fare ancora molta strada ed è naturale che qualcuno cerchi maggiore fortuna all' estero. Però abbiamo quasi quattromila aziende italiane operanti nel nostro territorio e l'anno scorso abbiamo avuto 500mila turisti italiani. Spiagge, mare pulito e natura selvaggia, siamo come l'Italia di 70 anni fa».
Le aziende italiane che aprono in Albania e l'emigrazione da Tirana che rallenta sono la prova della validità della strategia dell'aiutiamoli a casa loro?
«In Italia ci sono 40mila albanesi titolari di attività imprenditoriali, quindi anche noi vi stiamo in un certo senso aiutando, però è innegabile che lo sviluppo dell'economia e gli investimenti stranieri sul territorio frenino l'emigrazione. Da noi si dice che in Albania non c' è mai abbastanza Italia, venite, le occasioni di fare affari non mancano».
Oggi l'Italia è ancora presa d' assalto da decine di migliaia di immigrati che arrivano dal mare: ci sono analogie con l'ondata di albanesi di 25 anni fa?
«Non molte. Gli albanesi scappavano dopo uno sconvolgimento politico e volevano fortemente l'Italia, oggi l'immigrazione dall' Africa ha natura economica e ha come meta l'intera Europa. L' immigrazione albanese, anche per l'affinità tra le nostre due popolazioni, è una storia eccezionale. Oggi è diverso e il governo italiano ha ragione ad attaccare la Ue, che vi ha lasciati soli a gestire un'emergenza mondiale. È stata una vergogna, della quale anche l'Unione sta pagando il prezzo.
Non si può sperare di risolvere i problemi senza gestirli e scaricando su un solo Paese ogni grana. Chi si lava le mani in realtà non riesce poi a scappare, tant' è che l'angoscia per l'immigrazione incontrollata ha travolto le popolazioni di tutti i Paesi europei, non solo gli italiani».
Come dovrebbe comportarsi l'Europa con la nuova ondata migratoria?
«Innanzitutto dovrebbe smettere di comportarsi in modo ipocrita. Basta prendersela con Salvini e i populisti, hanno le loro buone ragioni e capisco i loro sfoghi. Si può discutere su come mettono il problema sul tavolo ma è innegabile che esso esista. È inaccettabile, come fa la Ue, accusare l'Italia di xenofobia e poi abbandonare lei e gli immigrati. Si vuole spostare sul piano ideologico un problema pratico per non affrontarlo politicamente come Unione, che in realtà sarebbe l'unico modo per tentare invece una risposta».
Con l'Albania l'Italia arrivò ad attuare un blocco navale, che peraltro causò una terribile tragedia. Sarebbe una soluzione oggi?
«È una mossa della disperazione che non mi sembra necessaria. La politica di Salvini ha ridotto molto gli arrivi. L' unica risposta è che l'Europa agisca da Unione. Le linee dell'attuale governo italiano, quote d' ingresso parametrate alle esigenze del mercato, chiarezza nella gestione dei flussi, linea durissima contro gli scafisti e gli ingressi clandestini, andrebbero adottate dalla Ue nel suo insieme. La politica precedente dell'immigrazione incontrollata ha fallito, provocando effetti disastrosi». Pietro Senaldi
Africa: a sinistra si marcia contro il razzismo, a destra si cercano soluzioni…scrive il 5 marzo 2019 Cristiano Puglisi su Il Giornale. Aiutarli “a casa loro”? Non deve essere soltanto uno slogan, una frase buona per pulirsi la coscienza di fronte a un (comprensibile) rigetto dell’immigrazione incontrollata. Giusto, anzi, giustissimo. Ecco perché è importante che la politica faccia finalmente la sua parte, tornando a parlare, soprattutto quando ci si rivolge all’Africa, di cooperazione internazionale, il vero motore di una solidarietà non falsamente buonista, ma dalle finalità concrete e di lungo termine. E così fa piacere rilevare che, mentre la sinistra è nuovamente scesa in piazza a… manifestare contro un inesistente pericolo razzista, tra vip e attori strapagati, il centrodestra si trova in un’aula istituzionale per dialogare proprio su questo tema. Si tratta di un convegno previsto per il prossimo 18 marzo in Regione Lombardia a Milano, che ha per titolo proprio il “Come aiutarli a casa loro” di cui sopra. La manifestazione, che si terrà alle 17.30 nella sala del Gonfalone del grattacielo Pirelli, in via Fabio Filzi 22, vedrà, dal punto di vista dell’istituzione, la partecipazione del sottosegretario ai Rapporti internazionali della Regione, Alan Rizzi di Forza Italia, e del consigliere regionale Silvia Scurati della Lega e, dal punto di vista del terzo settore, di Marco Del Ponte, segretario generale di Action Aid (non particolarmente allineata alle posizioni della politica di centrodestra sul tema dell’immigrazione, e qui sta una prima sorpresa), di Corrado Oppedisano, vicepresidente Forum SAD e di Giancarlo Stragapede, presidente di Reach Italia (ONG che, altra sorpresa, già nel 2016 lanciò una campagna dal titolo quasi omonimo a quello del convegno). L’incontro sarà presentato da Vincenzo Sofo, animatore del think tank Il Talebano e ideatore dell’evento. Evento che peraltro ha un interesse particolare, perché vede da una parte le (solitamente criticatissime, specialmente da destra) ONG e la rete del Forum SAD, che unisce oltre 70 realtà che realizzano nel mondo progetti di sostegno a distanza di bambini e di cooperazione internazionale e dall’altra esponenti politici di centrodestra e della Lega, rappresentata anche dallo stesso Sofo, volto giovane e costruttivo di un partito spesso accusato di xenofobia. Sembra quasi una provocazione. E forse lo è. Fatto sta che, tra chi parte dal presupposto che non esistano confini e i diritti siano universali a prescindere dal luogo di nascita e chi ritiene concetti come l’appartenenza e la cittadinanza inviolabili, prima o poi si debba trovare un punto di incontro. E questo punto si può trovare proprio sulla cooperazione internazionale. Certo, nulla di nuovo, per chi ha un minimo di memoria storica. L' “aiutiamoli a casa loro” e il tema della cooperazione furono infatti due cavalli di battaglia della destra sociale, in particolar modo ai tempi di Pino Rauti alla segreteria del Movimento Sociale Italiano, agli inizi degli anni ’90, sulla scia delle suggestioni di Alain De Benoist. Come a dire che le buone idee non passano mai di moda.
· Porti chiusi.
Immigrazione, da Ferragosto ad oggi c'è stata un'impennata di arrivi: dati allarmanti dal Viminale. Libero Quotidiano il 15 Settembre 2019. Matteo Salvini pare aver ragione. Sono 1.584 i migranti sbarcati in Italia da Ferragosto a oggi. Un'impennata che giunge dopo il calo dei primi sette mesi e mezzo del 2019 rispetto ai due anni precedenti (-94,17% sul 2017 e -71,48% sul 2018). Secondo i dati del ministero dell'Interno, solo a luglio e ad agosto è stata superata quota mille (rispettivamente 1.088 e 1.268). Dall'inizio di settembre, comunque, sono arrivati 718 migranti contro i 947 dello scorso anno, in percentuale meno 23%. Dall' inizio di settembre, comunque, sono arrivati 718 migranti contro i 947 dello scorso anno, in percentuale meno 23%. Un segno sempre negativo come avviene dall'inizio dell'anno, ma molto distante dal -71,48% registrato dal primo gennaio del 2019 rispetto al 2018. Una tendenza che si era già osservata fra il 5 e il 14 agosto scorsi con un limitato scarto negli arrivi (398 contro 315) nel confronto 2018-2019, nonché fra il 21 e il 30 agosto con 509 persone sbarcate a fronte delle 542 dell'anno scorso.
Immigrazione, i dati del Viminale: sbarchi diminuiti del 79,6%. Scesa anche la spesa per l'accoglienza. Libero Quotidiano il 16 Agosto 2019. Con il governo gialloverde il numero di immigrati arrivati nel nostro Paese è calato. Solo nell'ultimo anno gli sbarchi sono scesi del 79,6 per cento. A diminuire anche i rimpatri, che dal 1 agosto del 2018 al 31 luglio del 2019, hanno registrato una flessione dello 0,7 per cento mentre quelli assistiti si sono più che dimezzati. È quanto emerge dai dati di un anno di attività che il Viminale ha diffuso in occasione di Ferragosto. Il rapporto è stato illustrato dal ministro Matteo Salvini durante il comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica che si è riunito ieri a Castel Volturno, in provincia di Caserta. Gli arrivi sono infatti passati da 42.700 a 8.691. I rimpatri, invece, sono scesi da 6.909 a 6.862. Ancora più marcata è stata la diminuzione dei rimpatri volontari, passati da 1.201 a 555, con un calo del 53,8 per cento. Nel dossier si evidenzia anche la drastica riduzione dei costi del sistema d'accoglienza. Attualmente sono ospitati 105.142 migranti, il 34 per cento in meno rispetto al 2018, e dai 2,2 miliardi spesi dal 1 agosto 2017 al 31 luglio del 2018 si è passati ai 501 milioni dell'ultimo anno.
Tripoli apre porto alla Ocean Viking, ma l'Ong si rifiuta: "Mai in Libia". Alla Ocean Viking viene indicato il porto di Tripoli per far sbarcare i 356 migranti recuperati nel Mediterraneo. Ma le ong "fuggono" verso l'Europa. Chiara Sarra, Martedì 13/08/2019, su Il Giornale. Ha un "esercito" di migranti a bordo: oltre 350 migranti che la Ocean Viking vuol portare in Europa. Dopo giorni in mare in cui ha raccolto dal Mediterraneo centinaia di disperati, infatti, la nave norvegese che opera per Msf e Sos Mediterranée ha ottenuto l'indicazione del porto di sbarco: quello di Tripoli, "individuato stamattina dalla Guardia costiera libica dopo che la stessa ong aveva chiesto alla Libia la disponibilità del Pos", come rivela il Viminale. Il ministero dell'Interno spiega come alla Ocean Viking siano stati comunicati anche "riferimenti e contatti per l’organizzazione dello sbarco". Ma gli attivisti non ci stanno: "Non riporteremo le persone in Libia in nessuna circostanza", dicono, "Per il diritto internazionale né Tripoli né alcun altro porto in Libia sono porti sicuri e riportare le persone lì sarebbe una grave violazione". E, anzi, la nave si sta allontanando dalla zona Sar libica "in attesa dell'assegnazione di un luogo sicuro che soddisfi i requisiti del diritto internazionale".
A bordo della "Ocean Viking" ora c'è un esercito di migranti. La Ocean Viking ha salvato altri 105 migranti a poche miglia nautiche dalle coste della Libia. Adesso i migranti a bordo sono più di 350. Angelo Scarano, Lunedì 12/08/2019, su Il Giornale. La Ocean Viking non si ferma. L'ammiraglia delle ong che opera per conto di Msf e di Sos Mediterranée ha dato il via ad un'altra operazione di salvataggio nel Mediterraneo. Di fatto la nave umanitaria avrebbe imbarcato altri 105 migranti salvati in quel tratto di mare che separa l'Italia dalla Libia. E adesso a bordo della nave ci sono 356 naufraghi. Qualche giorno fa la nave, prima di mettere in moto la macchina dei salvataggi con il suo equipaggio, aveva cercato un attracco a Malta per ottenere una sosta per fare rifornimento. La Valletta ha negato l'attracco e anche il supporto lontano dalle sue coste. L'equipaggio ha fatto sapere che avrebbe avuto carburante per altri 10-12 giorni. E di fatto il serbatoio della nave potrebbe essere vicino alla riserva. Il tutto potrebbe accelerare le richieste di un porto sicuro per lo sbarco. Il Viminale ha comunque provveduto a notificare alla nave battente bandiera norvegese il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane. A questa mossa va aggiunta quella della Farnesina di qualche giorno fa che ha inviato una comunicazione all'ambasciata norvegese a Roma per chiedere l'attivazione delle procedure per assegnare un porto sicuro di sbarco alla nave che arriva da Oslo. La Farnesina non ha usato giri di parole: "Il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale ricorda come non sia accettabile ogni condotta di organizzazioni non governative che considerano l’Italia l’unico porto possibile di sbarco e che, a questo scopo, sono pronte a esporre le persone a bordo a condizioni psicologiche di forte pressione in situazioni igienico-sanitarie suscettibili di rapido deterioramento". Ma dalla Norvegia, per il momento non è arrivata nessuna indicazione per un porto di sbarco. Molto probabilmente quello di oggi potrebbe essere stato l'ultimo salvataggio da parte della Ocean Viking. la nave infatti potrebbe ospitare a massimo circa 300 persone. A bordo c'è anche una sorta di ospedale galleggiante. Ma l'equipaggio ora dovrà fare i conti con il carburante che molto probabilmente si sta già esaurendo. Salvini ha ribadito la sua linea: "Più di 350 immigrati a bordo di una nave norvegese di una Ong francese e quasi 160 a bordo di una nave spagnola di una Ong spagnola: ribadiamo l'assoluto divieto di ingresso di queste due navi straniere nelle acque italiane. Si aprano i porti di Francia, Spagna o Norvegia".
Mare Jonio pronta a salpare "Partiamo nonostante le multe". L'ong dei centri sociali annuncia la nuova missione: "Saremo sulla frontiera più letale al mondo". Casarini sfida il Viminale. Angelo Scarano, Lunedì 12/08/2019, su Il Giornale. Mediterranea lancia nuovamente la sfida al Viminale. L'ong dei centri sociali, si prepara a tornare in mare per nuove missioni in quel tratto di mare che separa la Libia dall'Italia. Mediterranea ha annunciato che darà il via a nuove operazioni in mare proprio con la Mare Jonio, la nave dell'ong che è stata dissequestrata qualche settimana fa dai magistrati. L'equipaggio è dunque determinato a riprendere il braccio di ferro con le autorità italiane. E infatti proprio sul sito di Mediterranea, l'ong spiega che sarà possibile il ritorno in mare grazie proprio al dissequestro dell'imbarcazione: "Dopo più di 2 mesi di sequestro, la nave Mare Jonio è libera, quasi pronta per salpare alla volta del Mediterraneo centrale. Una nuova missione di monitoraggio e denuncia di quanto avviene nella frontiera più letale del mondo, senza mai sottrarsi all'obbligo di salvare vite e portarle al sicuro. Salperemo nonostante le multe, i divieti e i decreti. Perché l'umanità non si ferma con le minacce o le ingiunzioni". Ma l'ong di Casarini chiede ancora fondi per il carburante. E così, sempre sul sito, per accelerare il ritorno in mare è stata lanciata una vera e propria campagna per la raccolta di denaro: "Ci sono però serbatoi da riempire, cambuse da rifornire, equipaggi da comporre - prosegue Mediterranea - e attrezzature indispensabili al salvataggio da acquistare. Per tornare in mare, per farlo subito, c'è bisogno del sostegno di tutte e tutti. Per farlo, per riempire Mare Jonio e metterla in sicurezza, servono 150mila euro. Ognuno può dare il suo contributo: donare è un atto di umanità". Intanto a largo dell'isola di Lampedusa e a poche miglia nautiche dalle nostre acque territoriali resta in fase di stallo la Open Arms. Questa mattina sono state evacuate due donne che necessitavano di assistenza medica specializzata e dei loro familiari. L’intervento, di cui si è fatta carico Malta, riguarda in tutto otto persone. "A bordo restano 151 persone che hanno bisogno di un porto sicuro", ribadisce via Twitter l’Ong. L'equipaggio di fatto continua a chiedere un porto di sbarco sicuro: "Undicesimo giorno. La stanchezza è tanta, ma non è solo fisica. È la consapevolezza della follia di questa situazione. 160 persone in mare da 11 giorni. 160 persone fragili e bisognose di aiuto. 160 persone. Resistiamo". Ma a quanto pare la situazione potrebbe restare in stand by ancora per qualche giorno.
Sanzioni alle Ong, Salvini docet e la Spagna le inasprisce. Ma l’Europa non le vede. Roberto Pellegrino il 10 agosto 2019 su Il Giornale. Oscar Camps, il santo catalano e fondatore della Ong spagnola-catalana, Proactiva Open Arms ha un diavolo per capello. Si trova tra due incudini, ma non lo dice. Non lo spiega. Nasconde che il ministro dello Sviluppo spagnolo José Luis Ábalos, un mese fa abbondante gli ha fatto una bella lavata di testa. Gli ha intimato chiaramente che se continuerà a navigare vicino le coste libiche per caricare i migranti, appena rientra a Barcellona, si prende un ceffone colossale di multa che va da 300 mila euro a 901 mila euro. Sì, avete letto bene. Già prima dell’approvazione del ddl di Matteo Salvini, che ha scatenato i peggiori insulti verso la politica razzista e disumana dell’Italia, coperta dal fango di Germania, Francia e Spagna, il Governo di Madrid aveva pronto già un disegno legge per vietare a tutte le Ong di salvare i migranti e traghettarli nei porti iberici. Questo spiega perché la nave della Ong spagnola-catalana è immobile e ostinata a sbarcare in Italia, perché gli costa meno in sanzioni. Infatti, in Italia, con il decreto Sicurezza bis che deve passare ancora il vaglio del Quirinale, le sanzioni sono al massimo di 50mila euro. Perché non si spiegherebbe, a parte l’ostinazioni di questa nave catalana a romperci le scatole, il comportamento della ciurma di Camps che come ha detto Salvini «Avrebbe avuto tutto il tempo per raggiungere la Spagna», non vuole tornare a casa sua, né far sbarcare i migranti che ha accolto sula sua nave nel porto di Barcellona altrimenti subirà il multone formato Godzilla fino a 901 mila euro. Come direbbe Totò: “Ma mi faccia il piacere…!!!”.
Richard Gere arriva a Lampedusa per la Open Arms: «Fate sbarcare i 121 migranti». Pubblicato venerdì, 09 agosto 2019 su Corriere.it. Anche l’attore Richard Gere scende in campo per chiedere una soluzione alla crisi della Open Arms, la nave ong spagnola con 121 migranti a bordo che da otto giorni chiede un porto sicuro e che si trova da giorni fuori delle acque territoriali a Lampedusa. La star di Hollywood parteciperà oggi pomeriggio, venerdì, alle 17.30 a una conferenza stampa sull’isola siciliana a fianco di Oscar Camps, fondatore dell’organizzazione spagnola, del presidente italiano Riccardo Gatti e chef Rubio altro testimonial schieratosi a difesa dei diritti dei migranti. Tutti chiederanno che sia consentito lo sbarco dei naufraghi soccorsi a nord della Libia. La situazione a bordo della nave umanitaria si va facendo di ora in ora più difficile ma come avviane ormai da un anno a questa parte (caso Diciotti, Mediterranea, Sea Watch e altri) è cominciato il braccio di ferro con il Viminale che vuole impedire l’arrivo in Italia dei migranti sulle nave Ong. « Ottavo giorno in mare. Il sentimento che prevale è la vergogna. Vergogna per un’Europa che lascia 121 persone in mezzo al mare per otto giorni mentre un gruppo di volontari coraggiosi fa di tutto per rendere la vita a bordo tollerabile. La vera Europa sono loro, siamo noi» scrive su Twitter Oscar Camps. Salvini ribadisce il suo no all’ingresso della Open Arms in acque italiane, facendosi scudo del decreto sicurezza bis. Quest’ultimo provvedimento è stato però criticato dal presidente della repubblica Sergio Mattarella: il Colle chiede correzioni al testo approvato perché «irragionevole» e perché «permane l’obbligo di salvataggio in mare». Il ministro dell’interno chiede invece che sia la Spagna a farsi carico delle persone salvate. Nel frattempo un’altra imbarcazione umanitaria, la francese Viking ha tratto in salvo altre 30 persone alla deriva nel Mediterraneo; anche in questo caso Salvini ha già avvertito che firmerà il provvedimento per vietare l’ingresso in acque territoriali italiane, pena il sequestro della nave e una multa che potrebbe arrivare a un milione di euro.
Lo strappo di Mediterranea: si rifiuta di portare i migranti a Malta. Italia e Malta raggiungono l'accordo. Ma l'ong "Mediterranea Saving Humans" si rifiuta di andare alla Valletta. L'ira del Viminale: "Vogliono solo l'impunità". Sergio Rame, Venerdì 05/07/2019 su Il Giornale. Nel Mar Mediterraneo ci sono due navi che ancora vagano senza destinazione. A bordo trasportano almeno un centinaio di migranti irregolari. Da una parte c'è la "Alex" dell'ong italiana "Mediterranea Saving Humans" che, pur avendo ricevuto il via libera del governo maltese a far sbarcare i disperati che hanno a bordo, continua a dire di non essere in condizione di arrivare a La Valletta. Dall'altra c'è la "Alan Kurdi" dell'ong tedesca Sea Eye, che ha imbarcato 65 persone al largo della Libia e alla quale il ministero dell'Interno italiano ha già vietato l'ingresso a ogni porto del Paese. "Quelli chiedono solo l'impunità". Al ministero dell'Interno non hanno preso affatto bene lo strappo della ong fondata dal no global Luca Casarini che, in sprezzo della sicurezza delle persone che trasporta, ha rigettato l'accordo raggiunto oggi pomeriggio da Italia e Malta. Il patto prevede un equo scambio dei migranti: La Valletta si dice disponibile ad accogliere le persone a bordo della nave della Mediterranea mentre Roma ne riceverà altrettanti da Malta per lasciare invariata la pressione dell'accoglienza sull'isola. Ma l'equipaggio della Alex ha rifiutato l'offerta segnalando, tra le altre cose, che a borso ci sono diversi malati di scabbia e che, essendo ormai senza acqua, non sono in grado di raggiungere La Valletta. "Chiediamo che si muovano le motovedette della guardia costiera italiana o maltese effettuino un trasbordo", ha scritto su Twitter Alessandro Metz, armatore sociale di Mediterranea. "Questi mezzi sono attrezzati, mentre la Alex non lo è - ha precisato - noi eravamo in missione di monitoraggio quando ci siamo trovati ad affrontare il salvataggio, un obbligo di legge". Per Matteo Salvini tutte queste scuse fanno di Mediterranea Saving humans "un'ong capricciosa". Per il ministero dell'Interno, "il rifiuto a entrare in porto (e quindi ad assoggettarsi ai controlli e alla legge maltese) è una provocazione assurda e una scorciatoia per dribblare le norme di un altro Paese membro dell'Unione europea". Anche le cosiddette fragilità a bordo di Alex (come già successo in tutti i casi analoghi) sono state già portate a terra, in Italia. In giornata, infatti, sono stati già trasbordati su una motovedetta della Guardia costiera italiana 14 migranti che non stavano bene. Sono stati portati in ospedale, visitati, reidratati. Un'evacuazione medica decisa dai sanitari della capitaneria di porto. "Eppure - fanno notare fonti del Viminale al Giornale.it - Mediterranea pone una serie di condizioni che appaiono finalizzate a sottrarsi a qualsiasi forma di controllo anziché a salvaguardare le persone a bordo. Questa impressione - concludono - è rafforzata dalla espressa richiesta di essere sottratta a qualsiasi azione coercitiva da parte di Malta o Italia, prefigurando una sorta di impunità". La "Alan Curdi", che ieri mattina ha salvato 65 migranti al largo della Libia, sta ancora aspettando una risposta sulla loro presa in carico da Malta, Roma e Tripoli. Salvini ha già imposto il divieto di ingresso dicendo che la nave può fare rotta verso la Tunisia o verso la Germania. Anche in questo caso, ricordano fonti del Viminale, la posizione del governo italiano è perfettamente coincidente con quella di Malta: "Due Paesi che stanno subendo, ormai da anni, l'indifferenza e l'incapacità dell'Unione europea". Da Berlino, invece, hanno già fatto sapere che spetta all'Unione europea risolvere il problema dopo aver comunicato alla Sea Eye un porto sicuro a cui attraccare.
Alan Kurdi, il blitz in Libia con il trucco. Un’altra nave (tedesca) punta sulla Sicilia. Recupera gommone «invisibile» con 65 profughi. E non è l’unica stranezza. Fausto Biloslavo, Sabato 06/07/2019 su Il Giornale. Un’altra nave dei talebani dell’accoglienza tedeschi recupera 65 migranti ad un passo dalla Libia sostenendo di averli trovato per caso, come un ago nel pagliaio. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, intima alla Germania di aprire i loro porti perché la nave, l’Alan Kurdi, batte bandiera tedesca. Ieri mattina alle 6.10 l’unità dell’Ong Sea eye “ha un contatto visivo con un gommone” si legge in una mail inviata dal responsabile della missione J. Ribbeck. L’Ong con base in Baviera, “sorella” della Sea watch della capitana Carola Rackete, sostiene di avere scoperto il gommone per puro caso a 34 miglia dalla costa in acque di ricerca e soccorso libiche. "Le persone a bordo sono state incredibilmente fortunate- ammette Gordan Isler - la possibilità di essere rintracciati con il binocolo nelle ore del mattino è trascurabile: senza un telefono abilitato al Gps e con conoscenze nautiche di base, questi giovani probabilmente non avrebbero raggiunto un luogo sicuro e sarebbero scomparsi in mare”. Per stessa ammissione dei tedeschi il gommone non stava affondando. E’ un caso più unico che raro o si tratta di un “recupero” organizzato da terra? “Un colpo di fortuna avrebbe senso se fossero partiti 10 gommoni. Uno solo, in mezzo al mare, avvistato con il binocolo senza richiesta di soccorso o segnalazione aerea. E’ molto, molto strano” spiega una fonte del Giornale sul fronte della lotta all’immigrazione clandestina via Mediterraneo. Nella mail di Sea eye inviata ai centri di soccorso dell’area compreso quello di Roma, in possesso del Giornale, emerge un’altra stranezza: “Vi informiamo che tutti i sistemi di comunicazione come Gps e Vsat sono fuori uso per ragione sconosciute. Il ponte è raggiungibile tramite Vhf (canale radio nda) e Thuraya (satellitare portatile nda)”. Gli addetti ai lavori stanno già indagando sul recupero dei 65 migranti, ma questa anomalia determinerà la perdita di dati importanti. La Guardia costiera libica ha assunto, inutilmente, la responsabilità dell’operazione e proposto il porto di sbarco di Zawya a ovest di Tripoli. Dalla nave hanno risposto “nein” perchè “la motonave battente bandiera tedesca rispetta le leggi della Germania e internazionali” che considerano la Libia un porto non sicuro. Salvini, in visita a Trieste, rispondendo ad una domanda del Giornale spiega che “le Ong stanno provando a riaprire un business che abbiamo drasticamente ridotto”. Il Viminale firma in mattinata il divieto di ingresso per l’Alan Kurdi nelle acque italiane. “La meta sicura più vicina è un porto tunisino, dove arrivano milioni di turisti e comunque se la nave è tedesca può anche scegliere la Germania. Nè l'Italia, nè Malta si faranno carico di nulla” ribadisce il vicepremier. E poche ore dopo invia una lettera al ministro dell’Interno tedesco, Horst Seehofer, spiegando che l’Italia “non intende più essere l'unico hotspot dell’Europa”. Al governo di Berlino chiede di intervenire per “assicurare il rapido sbarco delle persone a bordo” ma non in Italia “neppure ai fini di una prima accoglienza, in vista di una successiva, ipotetica operazione di redistribuzione (…) verso altri Stati”. Un’ipotesi fregatura già indicata dalla portavoce del governo tedesco. Al fianco di Salvini si è schierato il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó, a Trieste per firmare un accordo economico con l'area portuale. “Siamo scioccati che a Bruxelles attaccano chi difende le frontiere europee. Sono dei fiancheggiatori di chi viola la sovranità degli stati membri. Le Ong non sono state elette. Come può l’Unione europea difenderle?” dichiara il giovane rappresentante ungherese nel discorso ufficiale presso la sede della Regione Friuli-Venezia Giulia. E con il Giornale ha rincarato la dose: “Dobbiamo proteggere i confini sia marittimi che terrestri. Le navi delle Ong devono rispettare ile decisioni dei governi, altrimenti violano la sovranità nazionale degli Stati. Cosa avrebbe fatto il governo tedesco se una nave, come la Sea watch in Italia, avesse violato le acque territoriali, senza autorizzazione e colpito una motovedetta tedesca?”. E con il Giornale ha rincarato la dose: “Dobbiamo proteggere i confini sia marittimi che terrestri. Le navi delle Ong devono rispettare le decisioni dei governi, altrimenti violano la sovranità nazionale degli Stati. Cosa avrebbe fatto il governo tedesco se una nave, come la Sea watch in Italia, avesse violato le acque territoriali, senza autorizzazione e colpito una motovedetta tedesca?”. Sul fronte della rotta balcanica dei migranti, che passa per Trieste, Salvini annuncia l’invio di 40 agenti di rinforzo per le pattuglie miste con gli sloveni, ma l’obiettivo è coinvolgere anche i croati. Il vero imbuto con 10mila migranti è la Bosnia. Fra qualche settimana si valuterà se le pattuglie miste sono sufficienti e il reale impatto “del riemergere della rotta balcanica”. Il ministro dell’Interno rispondendo ad una domanda del Giornale ha confermato che le opzioni sul tavolo sono anche le “barriere tecnologiche” con radar terrestri, stazioni acquisizione obiettivi e camere termiche in dotazione all’Esercito per individuare passeur e clandestini. “I militari hanno a disposizione queste tecnologie avanzate, che altrove vengono già utilizzate - spiega Salvini - I sistemi, che ha citato, potrebbero venire utilizzati se non bastassero le pattuglie miste, ovviamente con un accordo a tre” fra Viminale, Difesa e Slovenia.
Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 25 Giugno 2019. «Sono uomo, nulla che sia umano mi è estraneo». Con questa celebre citazione di Terenzio, si apre Where are you? Dimmi dove sei , il documentario firmato da National Geographic andato in onda giovedì in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. Un esergo impegnativo, una dichiarazione di intenti che rivela uno degli obiettivi della produzione: riflettere sulle potenzialità del cosiddetto «discorso umanitario» che mette al centro le vite, le storie, le sofferenze dei migranti al fine di scuotere percezioni e superare gli ostacoli (spesso anche linguistici) del contrapposto «discorso securitario». Where are you? prende le mosse da una fotografia di Massimo Sestini, assurta a icona della crisi migratoria nel Mediterraneo; scattata il 7 giugno 2014, nelle acque internazionali tra Libia e Sicilia, a bordo di un elicottero della Marina Militare italiana, l' immagine zenitale di Sestini assume una valenza simbolica diversa da altre immagini cui siamo soliti accostare il tema dell' immigrazione. Nella fotografia, i migranti stipati sul barcone guardano verso l' alto, cercano e riconoscono l' obiettivo, esultano e festeggiano ormai convinti di essere in salvo. Con quella fotografia Sestini vuole raccontare il lato meno immediato dell' immigrazione, «non la violenza, la morte, la disperazione, ma la speranza». Da quel momento, il fotografo lancia un appello sul web per scoprire dove siano finite quelle persone e molte di loro compaiono con le loro testimonianze nel documentario. Alla fine, Where are you? , realizzato sotto l' altro patrocinio dell' Unhcr, non è tanto il racconto dell' altra faccia dell' immigrazione, ma è il racconto di una fotografia, della potenza evocativa delle immagini, del ruolo del web nel riprodurle all' infinito, dei meccanismi comunicativi che ce le imprimono nella memoria. Il documentario firmato da National Geographic è emozionante e straziante quanto l’immagine catturata dall’immenso fotoreporter Massimo Sestini. Ma anche, personalmente, disturbante. Colpisce che nessun migrante, una volta salvato vestito e rifocillato, spenda una sola parola per ringraziare non solo il paese che li ha portati in salvo (l’Italia) ma nemmeno gli altri paesi (Francia, Svizzera e Germania) che li accolgono e danno loro un lavoro, una casa, un welfare. Niente, manco un “grazie”. Anzi, è tutto un lamentarsi che il velo impedisca di fare la parrucchiera, che la gente li osservi curiosa, perfino il clima del nord Europa dà loro fastidio. Altro punto: in questa immane tragedia dell’immigrazione non spunta mai un esponente della comunità musulmana italiana o svizzera che intervenga per dar loro aiuto e sollievo nel processo di integrazione in un nuovo paese. Nemmeno sul molo di Lampedusa c’è qualcuno che si prodighi nei loro confronti. Magari, e noi non lo sappiamo, il Corano non permette compassione per chi è scampato per un miracolo alla morte.
Alan Kurdi, atto di guerra: rotta verso Lampedusa, si muove la Guardia di Finanza. Libero Quotidiano il 6 Luglio 2019. "Con 65 persone soccorse a bordo ci stiamo dirigendo verso Lampedusa. Non siamo intimiditi da un ministro dell'Interno ma siamo diretti verso il più vicino porto sicuro. Si applica la legge del mare, anche quando qualche rappresentante di governo rifiuta di crederlo". Così la ong tedesca Sea Eye,in un tweet, annuncia che la nave Alan Kurdi (battezzata così in ricordo del bambino siriano trovato morto nel 2015 su una spiaggia turca e la cui foto fece il giro del mondo) dopo il salvataggio di venerdì sta facendo rotta verso l’Italia. Un nuovo atto politico, una nova sfida politica. Fonti del Viminale hanno riferito che una motovedetta della Guardia di Finanza ha notificato al comandante della nave il divieto di ingresso, transito e sosta nelle acque territoriali italiane. "Salvini non ci intimidisce", ha annunciato l'equipaggio, pronto a forzare il blocco. Il gommone con a bordo i migranti, ha spiegato la ong, aveva un motore funzionante e sufficiente carburante, ma gli occupanti non avevano a disposizione telefoni satellitari o GPS. "Senza alcuna conoscenza nautica e senza telefoni, il loro destino era segnato", ha detto Gorden Isler, della Alan Kurdi. Il Viminale sta predisponendo il divieto di ingresso in acque territoriali italiane, ma la ong ha deciso di sfidare lo stop di Matteo Salvini, sostenendo che la "legge del mare" dovrebbe sempre prevalere. La nave potrà fare rotta verso la Tunisia o verso la Germania. Anche in questo caso, la posizione del governo italiano è perfettamente coincidente con quella di Malta.
Alan Kurdi lascia le acque italiane, va verso malta: il pugno di ferro di Matteo Salvini paga. Libero Quotidiano il 7 Luglio 2019. Il pugno di ferro paga. La Alex della ong Mediterranea attracca a Lampedusa, fa sbarcare gli immigrati ma viene subito sequestrata, così come viene subito indagato il capitano. E dopo questi fatti, ecco che nella tarda serata di sabato la Alan Kurdi, l'altra imbarcazione della ong tedesca Sea Eye che era nei pressi di Lampedusa, ha cambiato rotta, lasciando l'Italia per dirigersi verso Malta, ben lontana da Lampedusa. Probabilmente, non un semplice caso, per quanto in un tweet l'equipaggio abbia scritto: "Non possiamo aspettare finché lo stato di emergenza non prevale. Ora si deve dimostrare se gli altri governi europei appoggiano l’atteggiamento dell’Italia". A bordo della ong ci sono 65 immigrati; la Germania si è detta pronta ad accoglierne alcuni. "Sia nel caso della Alan Kurdi che nel caso di Alex - ha affermato il ministro dell'Interno tedesco, Horst Seehofer - siamo pronti, nell'ambito di una soluzione solidale europea, a prendere alcune delle persone salvate".
Mediterranea "chiama" le toghe e querela Salvini per fare cassa. Dopo la capitana di Sea Watch, anche l'ong dei centri sociali trascina il leghista in tribunale. E confessa: "Coi suoi soldi finanzieremo altre operazioni in mare". Andrea Indini, Sabato 06/07/2019, su Il Giornale. Adesso le organizzazioni non governative cercano la sponda delle toghe rosse per far condannare Matteo Salvini. Dopo la capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete, anche l'ong dei centri sociali, Mediterranea Saving Humans, ha infatti deciso di trascinare in tribunale il ministro dell'Interno. L'obiettivo, neanche troppo celato, è di spillargli qualche soldo. "Magari diventa un finanziatore involontario - commenta l'armatore sociale Alessandro Metz - permettendo in questo modo nuove operazioni di monitoraggio in mare e forse di salvare altre vite umane". Salvini non ha mai avuto paura di affrontare una querela. È già successo in passato. E ora che le ong lo hanno denunciato, non può che fare spallucce e tirare dritto. "Non vedo l'ora di incontrare Carola in tribunale, di guardare in faccia una che ha provato a uccidere dei militari italiani", ha commentato questa mattina. La prima a rivolgersi a un tribunale è stata, appunto, la Rackete che, dopo aver forzato il blocco mettendo a rischio le vite dei finanzieri che si trovavano a bordo della motovedetta speronata con la Sea Watch 3, se l'è presa pure con il vice premier leghista perché nei giorni scorsi l'ha attaccata duramente. In queste ore Alessandro Gamberini, avvocato della comandante tedesca, sta raccogliendo "tutti gli insulti" e "le forme di istigazioni a delinquere" pronunciate dal leader del Carroccio e dai "leoni da tastiera abituati all'insulto". "È lui che muove le acque dell'odio", è il teorema del legale. "Una querela per diffamazione è il modo per dare un segnale - ha spiegato ai microfoni di Radio Cusano Campus - quando le persone vengono toccate nel portafoglio capiscono che non possono insultare gratuitamente". I soldi, appunto. Come spiegato anche da Metz, è quello l'obiettivo delle ong: far sborsare a Salvini a un po' di denaro per finanziare un'altra operazione (illegale) in mare. Mediterranea Saving Humans vuole rifarsi su Salvini per le dichiarazioni rilasciate questa mattina sulla nave Alex di proprietà dell'ong fondata da Luca Casarini che, dopo aver recuperato una quarantina di migranti irregolari al largo della Libia, li sta portando a Lampedusa disattendendo le indicazioni di attraccare alla Valletta. "Malta ha dato la disponibilità, è un porto sicuro europeo e non si capisce perché questi trafficanti debbano decidere dove andare e non andare", è stato il commento del vice premier leghista. Il termine "trafficanti" ha fatto imbestialire Metz che ha subito armato un legale contro il leader leghista. "È inaccettabile essere accomunati ai trafficanti di esseri umani - ha tuonato l'armatore in una nota - è un'accusa infamante che respingiamo al mittente". Come dicevamo, l'obiettivo è portarsi a casa un po' di soldi. E non si tratta di una nostra supposizione. È lo stesso Metz ad ammettere che, qualora dovesse perdere la causa, il ministro dell'Interno diventerebbe "un 'finanziatore involontario'" dell'ong "permettendo in questo modo nuove operazioni di monitoraggio in mare e forse di salvare altre vite umane". Per le ong le cause in tribunale diventano l'occasione per aprire un ulteriore fronte di scontro con Salvini. Non solo in mare, ma anche nelle aule dei tribunali. Sapendo di poter contare su una folta schiera di magistrati politicizzati che si sono già espressi contro il leader leghista e contro le misure, come il decreto Sicurezza, che sono state approvate dal governo gialloverde per contrastare l'immigrazione clandestina, respingere gli assalti delle organizzazioni non governative e azzerare le morti in mare riducendo il più possibile le partenze dalle coste del Nord Africa. Misure che per quasi un anno sono riuscite a spezzare il business dell'accoglienza, mandando su tutte le furie gli ultrà dell'immigrazione. Che, dopo il blitz della Rackete, sono tornati all'assalto dei nostri porti.
La barca "da crociera" dell'Ong (da 8mila euro a settimana). Mediterranea riparte verso la Libia a bordo di una barca a vela "Alex", la nave "per crociere" affittata da Casarini&co.. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 03/07/2019, su Il Giornale. "Siamo partiti". Mediterranea Saving Humans veleggia, è proprio il caso di dirlo, verso le coste della Libia. Lì incontrerà le navi di Sea Eye e Open Arms, in una rinnovata flotta "della società civile" convinta di operare il bene recuperando migranti e trasportandoli (il più delle volte) nel Belpaese. Stavolta l'Ong dei centri sociali non potrà contare sulla grandezza della sua Mare Jonio, l'imbarcazione sotto sequestro al porto di Licata dopo l'indagine sullo sbarco di 30 migranti. A "portare avanti la missione" ora c'è Alex, che non è né un mercantile, né una nave da soccorso. Ma una barca a vela dotata di tutti i comfort e solitamente dedicata a splendide "crociere" tra lidi da sogno. Buonismo di lusso. A qualcuno forse storcerà il naso all'idea che l'Ong dei centri sociali si diriga nella pericolosa zona Sar libica "cazzando la randa" o spiegando le vele. Farà accomodare i migranti sul ponte come i turisti? In realtà la Alex segue la Mare Jonio ormai da tempo come barca di supporto in quasi tutte le missioni. Non è però attrezzata per le operazioni search ad rescue, per cui nel caso "incontrasse" un barcone in difficoltà dovrà limitarsi a prestare il primo soccorso e poi chiedere aiuto alle autorità competenti. In fondo la mossa di Mediterranea appare più politica che operativa. La nuova missione è quella di "monitorare e denunciare le violazioni dei diritti umani in un mare che i governi europei hanno trasformato in un cimitero e un deserto". Una velleità made in Casarini e soci, diretti verso la Libia col vento in poppa. La Alex in realtà si chiama Benetti Ms 20 ed è una barca a vela lunga 20 metri e larga 5,64. Con i suoi 2,80 metri di pescaggio, le 10 cuccette, 5 cabine e 5 wc, è un'imbarcazione da diporto di tutto rispetto. Perfetta per "crociere in un ambiente raffinato e discreto", viene solitamente pubblicizzata per raggiungere mete come le Eolie, Tropea, Capo Vaticano, Ustica e Favignana. Tutti luoghi per un mare da sogno. Mediterranea l'ha affittata da Azzurro Charter, un servizio che offre a noleggio monoscafi, catamarani e yacht. La nave bialbero vanta un motore 2 x 150 HP, 2700 litri di carburante, vele avvolgibili e il pilota automatico. Inoltre ci sono Gps, lettore cd, plotter cartografico, radio e altoparlanti. Gli interni in legno sono eleganti, la cucina attrezzata, i divanetti bianchi. Sul ponte c'è ampio spazio per prendere il sole, come documentato dalle foto pubblicate online. L'avvenuto affitto "di lunga durata" viene confermato al Giornale.it da un referente della società locataria. Non che vi fossero troppi dubbi: nella foto twittata da Mediterranea si vede stampato il sito di Azzurro Charter e sullo scafo il numero "13RC25D", lo stesso che appare sugli scatti della Benetti Ms20. Il responsabile non si è sbilanciato sulla durata del noleggio o sul prezzo. Il listino online può tuttavia fornire alcune indicazioni. In questo periodo il prezzo settimanale è di 8.650 euro, costo che sale in pieno agosto a 10.650 euro ogni sette giorni. Non è ovviamente inclusa la cauzione (4mila euro) né "carburante, acqua, cambusa, tasse e onere portuali". Non sappiamo se Mediterranea (o chi ha affittato la nave per lei) abbia ottenuto uno sconto visto il lungo periodo di nolo. "Questo non glielo posso dire", chiosa il referente della società. La fattura, comunque, dev'essere stata consistente. Per capirne di più basta guardare alle risorse messe a bilancio dall'Ong per le "imbarcazioni di supporto" dove di solito viaggiano giornalisti e volontari. A ottobre in un primo piano finanziario Mediterranea ipotizzava 25mila euro di spesa. Ma solo per la prima missione. A quella ne sono seguite altre, tanto che ad aprile aveva già versato 95.427,53 euro per noleggio e allestimento delle navi di appoggio. Una discreta somma, anche per chi incamera migliaia di donazioni. E le investe per portare avanti le proprie battaglie politiche. Dalla poppa di una barca a vela.
L'uomo di Soros: "Criminalizzare le Ong è da regimi autoritari". Patrick Gaspard, presidente della Open Society Foundations, spiega a Repubblica cosa ne pensi della criminalizzazione delle Ong. Roberto Vivaldelli, Martedì 09/07/2019 su Il Giornale. Criminalizzare le Ong è tipico "dei regimi autoritari". Chi lo dice? Naturalmente l’Open Society Foundations, l’organizzazione "filantropica" del finanziere George Soros che promuove l’agenda liberal e globalista in tutto il mondo. Lo stesso Soros che, nel 2016, dalle colonne del Wall Street Journal, annunciava di "aver destinato 500 milioni per investimenti che rispondano alle esigenze di migranti, rifugiati e comunità ospitanti". Dopo aver dato ampio spazio alle imprese della "Capitana" Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3, La Repubblica intervista Patrick Gaspard, presidente della Open Society Foundations dal 2017, che attacca il governo sul tema dell'immigrazione e lo paragona, di fatto, "a un regime autoritario". Nato nella Repubblica Democratica del Congo ma trasferitosi negli Usa all’età di tre anni, Gaspard è stato ambasciatore degli Stati Uniti in Sud Africa. Prima di diventare ambasciatore è stato, dal 2011 al 2013, direttore esecutivo del Comitato nazionale democratico e Direttore degli affari politici della Casa Bianca con il Presidente Barack Obama. Nel 2008, infatti, lavorò per la rielezione di Obama ed è, inoltre, un amico del sindaco di New York Bill de Blasio. Nulla di strano, dato che George Soros è stato un importante finanziatore della - fallimentare - campagna elettorale di Hillary Clinton nel 2016. Il presidente della fondazione di Soros spiega al giornale fondato da Scalfari che "la criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie è tipica dei regimi autoritari. Abbiamo visto lo stesso copione in Ungheria, in Russia o in Turchia, dove governi illiberali stanno esercitando enormi pressioni su gruppi umanitari, sia dal punto di vista legislativo sia politico". Nello specifico, sottolinea Gaspard, "la nostra fondazione non garantisce sostegno finanziario alle organizzazioni che conducono operazioni di salvataggio nel Mediterraneo ma apprezziamo questi sforzi umanitari e condanniamo i tentativi di criminalizzare le attività di chi cerca di salvare vite umane". Sui finanziamenti elargiti alle "associazioni umanitarie" e alle Ong, Patrick Gaspard sottolinea: "Sosteniamo finanziariamente anche organizzazioni che cercano di rispondere alle sfide dell'immigrazione. Ciò include realtà come Refugees Welcome Italia, che cerca famiglie italiane che aprano le loro case ai profughi e che tenta di offrire loro una comunità perché possano ricostruire le loro vite". In verità, l’influenza dell’Open Society Foundations in Italia è molto più radicata di quanto non dica l’ex ambasciatore, come testimoniano ampi dossier già pubblicati in passato. Basti pensare al sito Open Migration, realizzato con il contributo della fondazione di Soros, un progetto che "usando competenze, dati, conoscenze vuole contribuire a formare le opinioni e le coscienze sulle migrazioni". Open Migration, si legge, "produce informazione di qualità sul fenomeno delle migrazioni e dei rifugiati, per colmare le lacune nell’opinione pubblica e nei media". Secondo Gaspard la tenuta della democrazia in Italia è a rischio. La colpa? Naturalmente della destra che criminalizza le Ong ed è contraria all’immigrazione di massa. "Il contributo della società civile è essenziale per la democrazia" osserva. "Nonostante i tentativi della destra italiana di danneggiare le organizzazioni umanitarie, cittadini coraggiosi stanno usando il loro diritto alla libera espressione per sfidare la repressione e difendere i diritti delle comunità più vulnerabili. In Italia la Open Society continua a sostenere questi gruppi", senza specificare quali siano questi "gruppi" menzionati dal presidente della fondazione.
Una domanda fondamentale si è dimenticato di porre il quotidiano La Repubblica all'intervistato. Se Barack Obama, di cui Gaspard è stato collaboratore e grande estimatore, non avesse bombardato la Libia nel 2011 insieme a Francia e Gran Bretagna, in che condizioni si troverebbe il Paese oggi? Sarebbe il regno di scafisti e trafficanti di esseri umani? Forse chi ha sostenuto un presidente corresponsabile del caos libico dovrebbe essere un po’ più prudente prima di paragonare l'Italia a un "regime autoritario", mancando di rispetto principalmente agli italiani.
Ong Mediterranea, parla Casarini: "Magari avessimo i soldi di Soros". In un'intervista rilasciata a Lucia Annunziata, Luca Casarini parla dell'Ong Mediterranea e delle fonti di finanziamento: "Abbiamo alti costi, solo il carburante costa 1.500 Euro al giorno". Mauro Indelicato, Lunedì 08/07/2019 su Il Giornale. È una delle prime interviste rilasciate da quando, a partire dallo scorso mese di marzo, è protagonista della vicenda Mare Jonio e del braccio di ferro tra la Ong Mediterranea Saving Humans ed il governo italiano. Luca Casarini, noto militante no global all’epoca del G8 di Genova, parla a Lucia Annunziata in un’intervista rilasciata all’Huffington Post. E parla anche della sua Ong, che contribuisce a fondare nel mese di ottobre. Un’organizzazione battente bandiera italiana, sempre più protagonista dello scontro politico sui migranti: con la Mare Jonio, che a detta di Casarini mediamente può arrivare a costare anche centomila Euro al mese, apre le “danze” in questo 2019 sul fronte migrazione. L’Ong è la prima a non rispettare l’alt delle autorità italiane nello scorso mese di marzo, quando per tal motivo la Mare Jonio viene sequestrata e Luca Casarini risulta da allora iscritto nel registro degli indagati. Ma nella sua intervista a Lucia Annunziata, il capo missione in mare della Mediterranea parla soprattutto di bilanci e costi: “Soros alle nostre spalle? Magari”, dichiara Casarini con riferimento alla provenienza dei soldi per mantenere in vita l’Ong. “Soros purtroppo non ci ha dato una lira – rincara Casarini – Abbiamo fatto anche un video ironico. Per favore caccia due spicci, tanto dicono paghi tu almeno dacceli davvero”. E poi, quasi un appello: “Non abbiamo grandi finanziatori, anche se a me interesserebbe ci fossero – prosegue infatti il capo missione in mare di Mediterranea – Non mi interessa niente da dove viene il denaro. Ci fossero persone perbene che mettono soldi su questa cosa saremmo felici. Diciamo che finora la nostra è stata Una Raccolta Proletaria”. Infatti secondo Casarini in realtà gran parte dei soldi arrivano dal crowdfunding lanciato poco dopo la formazione dell’Ong: “Non ce l’aspettavamo – dichiara ancora Casarini – Tante donazioni da 15 e 20 Euro. Raccogliamo mezzo milione di Euro nei primi tre mesi”. Ma potrebbero non bastare, sempre secondo il rappresentante della Ong, perché “Solo una giornata costa 1500 di carburante”. L’Ong si è potuta aprire però grazie ad un iniziale finanziamento da parte di Banca Etica: quasi mezzo milioni di Euro di prestito con le garanzie offerte da alcuni esponenti di LeU, tra cui Nichi Vendola ed il deputato Erasmo Palazzotto, il quale risulta poi essere capomissione a bordo della Alex, il veliero dell’Ong entrato a Lampedusa. Nel corso della sua intervista, Casarini poi sembra non voler negare il ruolo politico non solo di Mediterranea, ma anche delle altre organizzazioni: “C’è chi fa politica facendo morire le persone – afferma Casarini, con chiaro riferimento a Matteo Salvini – E chi salva una vita e magari la politica la fa con questo gesto. Io preferisco questa seconda opzione”. Ed a proposito di politica, l’attacco al leader della Lega e ministro dell’interno appare netto: “Salvini è solo il soldatino di quell'Europa tecnocratica che dice di voler cambiare – afferma Casarini – Lui parla di difesa dei confini. Ma non è vero. Loro in realtà stanno difendendo il confine europeo, alle dipendenze di altri. Altro che sovranità”. Uno scontro quindi conclamato tra Ong e ministero dell’interno italiano, uno scontro che sembra doversi trascinare ancora a lungo, almeno fino alle prossime settimane estive in cui la pressione migratoria dal nord Africa è destinata a non attenuarsi.
"Magari Soros!". "Questi sono i nostri soldi", racconta Luca Casarini a Huffpost sull'ong Mediterranea. Su Malta: "Portassero le loro prove, noi abbiamo registrato tutto". "Salvini è solo il soldatino di quell'Europa tecnocratica che dice di voler cambiare". Lucia Annunziata su huffingtonpost.it/ l'8 luglio 2019. Il vecchio guerriero Luca Casarini non si sottrae e risponde subito, a tono, all’accusa che gli arriva dal ministero degli Interni; la peggiore delle accuse: quella di non aver voluto andare a Malta per paura di essere arrestati, per vigliaccheria, insomma. “Non abbiamo mai rifiutato Malta. Abbiamo solo chiesto condizioni di sicurezza per le persone. E non ce le hanno date. Che volessero lo scalpo di Mediterranea, ne siamo certi. In ogni caso abbiamo registrato ogni scambio, ogni mail intercorsi fra noi e loro. Portassero le prove e vediamo chi ha ragione”. E risponde a tono anche alla domanda più sottotraccia ma non meno forte che gli arriva dal dibattito pubblico.
Le organizzazioni umanitarie sono diventate organizzazioni politiche? Le Ong, come dice in queste ore Salvini, hanno avviato una guerra personale contro il Ministro degli Interni?
“C’è chi fa politica facendo morire le persone, e chi salva una vita e magari la politica la fa con questo gesto. Io preferisco questa seconda opzione”.
Matteo Salvini tuttavia punta il dito su qualcosa di più dello scontro diretto. Denuncia, piuttosto, in queste ore, un nuovo scenario: le Ong hanno perso la loro natura umanitaria e, galvanizzate dalla liberazione della Capitana della Sea Watch, hanno assunto un ruolo politico. Di fatto, un ruolo di opposizione. Una convinzione nutrita anche dal fatto che l’ultima nave arrivata a sfidare il divieto del Ministro, è un piccolo veliero, Alex, sequestrato subito appena arrivato nel porto di Lampedusa. La Alex come la nave Mare Jonio, essa stessa sequestrata, son parte della Ong Mediterranea, di cui Casarini è oggi capo missione. “Casarini - aggiunge lui - è uno delle centinaia di attivisti di Mediterranea, niente di più. E Mediterranea è fatta da gente che va dalle parrocchie fino ai centri sociali”. D’altra parte, se uno come Casarini, la cui biografia incrocia tutti i passaggi più rilevanti della storia recente della rivolta antagonista - dal “Pedro” di Padova, il primo centro sociale del Nord Est, fondato il 7 ottobre del 1987, alle tute bianche per il G8 di Genova, passando per i No Global di Seattle - approda poi alle Ong, cioè alla quintessenza del pacifismo, allora forse qualcosa sta succedendo, qualcosa sta cambiando.
Casarini lei è parte della organizzazione politica Sinistra italiana?
“No. Sono stato impegnato in questi anni con Sinistra Italiana per cui seguivo il rapporto con i movimenti. Adesso da ottobre faccio Mediterranea. Sono uno dei fondatori, oltre che capo missione in mare”.
Cosa è e chi partecipa a Mediterranea?
“Mediterranea è una piattaforma di associazioni della società civile italiana, tra cui la comunità di don Gallo, e Arci nazionale. Noi diciamo che non siamo una Ong, ci definiamo una Ang. Un’Azione non governativa. Nasce nel momento in cui c’è il massimo attacco alle Ong in Italia. Giugno dell’anno scorso. Il mare era deserto, ma, soprattutto, non c’erano Ong battenti bandiera italiana. Un po’ schifati dal vedere i governi godere, nei fatti, degli annegamenti, in particolare quello italiano appena insediato, decidemmo di fare l’unica cosa possibile”.
Dove avete trovato i soldi?
“Mediterranea è fatta di varie associazioni, Presentammo insieme un progetto a Banca Etica. ‘Vogliamo fare soccorso in mare, testimonianza nel Mediterraneo centrale e abbiamo bisogno di una nave’. Banca Etica ci disse: “ci interessa, vi diamo un prestito, ma dovete trovare dei Garanti”. Abbiamo chiesto aiuto a Vendola, Palazzotto, Muroni, Fratoianni in quanto deputati e ce l’hanno dato. Hanno messo le firme per fare da garanti. Ottenemmo un mutuo di 460mila euro per la Mare Jonio, un vecchio rimorchiatore del ’73 che aveva sempre fatto un onesto lavoro di porto come nave da monitoraggio e da eventuale salvataggio. Nel Settembre del 2018 il 3 ottobre, anniversario della strage di Lampedusa, per cui si mosse anche il Papa, siamo usciti dal Porto di Augusta.
Ultimo padrone della nave?
“Un armatore siciliano”.
Trovato qualcuno, a mare?
“Da ottobre a dicembre abbiamo intercettato 500 persone, salvate grazie a noi dalla Guardia Costiera italiana e maltese. Bastava che indicassimo loro una. Emergenza in atto, e intervenivano perché spaventati dal fatto che prendessimo noi la gente a bordo”.
In che senso, spaventati?
“Perché avevamo bandiera italiana. La retorica era ‘tedeschi? portateli a casa vostra, spagnoli portateli a casa vostra’. A noi con la bandiera italiana, non potevano dire portateli a casa nostra. Appena avevamo un caso, noi dicevamo stiamo andando e loro si allarmavano per paura che noi intervenissimo. E a noi andava più che bene, basta che donne, uomini e bambini non morissero in mare, fossero soccorsi come dovrebbe accadere sempre”.
Torniamo alla questione dei soldi. Voi fate un mutuo di 460mila euro, poi portate la nave in cantiere per renderla adatta alla missione, e saranno stati almeno 200mila euro. Poi c’è la missione in mare. Siamo già intorno al milione, no? Quanto costa il tutto?
“Ci costa con la Jonio, circa 100mila euro al mese, tra missione carburante e pattugliamenti sul 33esimo parallelo. Una giornata costa 1500 di carburante”.
E i soldi?
“Avviene una cosa interessante, da ottobre a dicembre. Il 4 di ottobre annunciamo che esiste Mediterranea e lanciamo un crowdfunding, e succede una cosa che non ci aspettavamo. Raccogliamo mezzo milione di euro nei primi tre mesi. Nella prima settimana, 100mila euro. Piccole donazioni, in media 15-20 euro. La piattaforma è quella di Banca Etica, pubblica e tracciabile. Quello che ci stupisce è che c’è un’attenzione italiana attorno a questa iniziativa. Il Crowdfunding viene lanciato anche sul nostro sito, mediterranearescue.org”.
Quanti contatti avete?
“Il sito fa 2 mln su Facebook, ha 90mila fan e 811mila like. Instagram attorno ai 600mila. Twitter 2-300mila”.
La destra sostiene che siete pagati profumatamente per queste missioni a mare.
“Non è vero. Mare Jonio è marina mercantile, per cui il personale è composto da marinai professionisti. Che devono avere, giustamente, il contratto sindacale nazionale, queste sono le persone. Sulla Alex, che è una nave da diporto, sono tutti volontari. Ci sono leggi da rispettare e noi siamo felici di rispettarle. I comandanti sono comandanti di lungo corso. Il nostro Piero Marrone, inquisito come me il 18 di marzo, viene da una lunga esperienza da pescatore. È in mare da 40 anni”.
Niente Soros, dunque?
“Soros purtroppo non ci ha dato una lira. Abbiamo fatto anche un video ironico. Per favore caccia due spicci, tanto dicono paghi tu almeno dacceli davvero. Non abbiamo grandi finanziatori, anche se a me interesserebbe ci fossero. Non mi interessa niente da dove viene il denaro. Ci fossero persone perbene che mettono soldi su questa cosa saremmo felici. Diciamo che finora la nostra è stata Una Raccolta Proletaria”.
Il primo politico ad aver focalizzato l’attenzione sul ruolo delle Ong è stato il ministro Marco Minniti. Sul suo ruolo è in corso infatti in questi giorni una forte polemica. Vede continuità tra Minniti e Salvini?
“Io vedo un innato opportunismo di Salvini nel cogliere quello che scientificamente ha colto Minniti. Secondo me Salvini non è il tipo che avrebbe avuto l’idea che ha avuto Minniti, il quale ha teorizzato una strategia fallimentare e tragicamente funzionale a quanto avvenuto dopo: quella dell’esternalizzazione delle frontiere. Fallimentare perché ha provocato disastri dal punto di vista umanitario perché poggiava sull’autorità libica che non esisteva. Ma era una idea politica. Il Vicepremier attuale invece, secondo me, non è uno che fa molto. Fa molto sui social, ma meno fa e meglio sta. Più aumentano i clandestini, il casino, sbarchi o non sbarchi, più lui ci guadagna perché rappresenta il paese in balia di emergenze insanabili. Basti pensare a Dublino, la modifica del regolamento. Salvini è il primo motivo insieme al gruppo di Visegrad per cui ci teniamo ancora il regolamento di Dublino”.
Non c’è dubbio però che l’esistenza delle Ong ha certo aiutato i salvataggi, ma al contempo è diventata un magnete. Insomma, il confine tra operare per salvare e operare per attirare migranti è molto sottile.
“Non è cosi. Le do dei dati: dall’inizio dell’anno (2019) abbiamo 1800 morti accertati nel Mediterraneo centrale. Arrivi in Italia nello stesso periodo: 2,300 persone; in Grecia 18mila, in Spagna 13mila. A Malta 1044. Pensiamo ai numeri del 2014/15/16 - 2300 persone arrivavano in un giorno a Palermo. Invece i morti in mare sono aumentati: da 1 a 29, a 1 a 6. Le Ong sono dal punto di vista dei numeri assolutamente trascurabili rispetto al fenomeno. Bisogna sfatare questo mito. Con le Ong arriva qualche centinaio di migranti.Ma a loro interessa eliminare i testimoni, e affermare il principio, non quante persone salviamo. Tra maggio e giugno l’assenza delle navi Ong ha fatto aumentare la presenza delle persone in mare: spinte non certo dalle nostre navi, ma dalla guerra, come il bombardamento di Haftar”.
Vista dalla vostra parte, come si differenziano le operatività in mare del governo Minniti e di quello Gialloverde?
“Il governo gialloverde porta alle estreme conseguenze la strada aperta da Minniti, quella di una esternalizzazione delle frontiere europee, passando il compito alla Libia. Salvini non risolve, invece, apparentemente nessun problema. Dice: ‘Devono annegare tutti’, e prende consenso su questo. Salvini però in realtà sta facendo diventare l’Italia la Libia. Nel senso che noi oggi prendiamo il ruolo della Guardia Costiera Libica. Cosa che per altro fa piacere a una certa idea dell’Ue - controllo dei flussi, fatta con i confini del sud. Un’idea di “funzionalità” non di umanità, condivisa anche dalle socialdemocrazie: ricordo che la multa che Pedro Sanchez commina alle navi Ong è di 900mila euro, cioè la stessa del milione di Salvini”.
Sta dicendo che il sud dell’Europa si sta trasformando nell’esercito del nuovo confine europeo? Che se finora i gendarmi erano quelli del nord-Africa, ora sono i paesi del Sud?
“Sì. Salvini propaganda la difesa di un confine nazionale, ma non è vero. Loro in realtà stanno difendendo il confine europeo, alle dipendenze di altri. Altro che sovranità. E’ solo il lavoro sporco, allo stesso livello di quello che noi facciamo fare ai galoppini libici. Lo stesso è avvenuto per la rotta balcanica. O in Grecia. E sulla rotta turca. E’ questa blindatura delle rotte di terra che ha causato il gonfiarsi della permanenza in Libia e poi della via del mare. Tutti loro dicono di essere quelli che vogliono fare la voce grossa. Contro l’Europa, ma ne sono i soldatini. E Salvini è il primo soldatino di quell’Europa che dice di contestare. È il primo suddito di quella Ue molto tecnocratica, molto centrata sul nucleo centrale dell’Europa e non sui paesi del Sud. Salvini sta trasformando l’Italia in una portaerei avanzata di questo modello europeo”.
E quale sarebbe invece la maniera giusta?
“Ragionare sul fatto che siamo un paese del Mediterraneo. Dovremmo avere un ruolo non da poliziotti, ma politico, sociale, culturale. A me interessano le dinamiche con cui si costruisce l’autorevolezza, non l’autorità. Ad esempio gestire noi una grande operazione umanitaria in Libia, ci farebbe contare in Europa. Noi invece facciamo carne da massacro. Facciamo carta straccia dei diritti umani. I diritti umani mica sono un orpello, sono il pilastro della differenza europea nella storia. Tutte queste cose qua non le facciamo e giochiamo a fare i soldatini scemi degli speculatori finanziari, delle multinazionali che hanno tutto l’interesse che l’Europa sia più tecnocratica possibile”.
Da tutti questi discorsi mi sembra che forse Salvini ha ragione a dire che è nata dalle Ong una operazione di sfida politica al suo governo.
“C’è chi fa politica facendo morire le persone e chi salva una vita e magari fa politica con quello. Tra le due, io preferisco la seconda. Se è definita politica quello che noi facciamo, va bene. Ma vorrei sottolineare che, rispetto al classico meccanismo antagonisti e potere io, che ho personalmente una lunga storia, mi sto misurando per la prima volta in vita mia con il fatto che stiamo sfidando il potere attraverso un meccanismo positivo: questo tipo di reazioni di Salvini, di grande casino, su cosa lo otteniamo? Sul fatto che salviamo delle persone”.
Insomma, un cambiamento è in corso. Le ong diventano politiche?
“Io credo sia diventato politico il campo umanitario. Le Ong erano abituate a collaborare, ad avere medaglie, ad avere un ruolo definito e riconosciuto”.
E dunque inoffensivo?
“Compatibile, diciamo. Poi si sono trovate di colpo su un terreno in cui gli facevano la guerra. Il tema umanitario è diventato tema di conflitto. Perché interviene sui diritti umani, le costituzioni. Adesso il decreto di un governo vale di più del diritto. Ricordo che il decreto sicurezza bis, di Salvini, è in vigore, ma non è stato ancora votato dal Parlamento. E scade il 13 di agosto”.
E’ molto attento alle date. Puntate a non farlo approvare?
“Noi speriamo che cada”.
Queste tensioni stanno avendo un impatto nel governo. Si dice che il fatto che il giudice abbia scarcerato Carola abbia ringalluzzito le Ong. Secondo lei è vero?
“No. Ma ha fatto emergere nodi di fondo tra giudici e politica. Nodi irrisolti da sempre. E il rapporto con la giustizia che c’è in Italia: se il giudice ti piace allora va bene, sennò è da criticare. Ma noi siamo ben consapevoli che il tema è il diritto; il tema è che cosa dice la legge. Le cose che sta facendo Salvini sono la trasformazione da uno Stato di diritto in uno Stato di Polizia”.
Però gli ultimi sondaggi dicono che il 60% dei cittadini italiani è d’accordo con Salvini sulla questione immigrazione. Cosa pensa di questo sostegno? Sono tutti questi cittadini stupidi o disumani?
“Lo vedo come in altri momenti storici che conosciamo del 900, in cui il tema della crisi è strutturale, globale. Di fronte a questi problemi in America nel 29 hanno risposto con Roosevelt, in Europa con Hitler”.
Insomma, Salvini riporta al fascismo?
“Non il vecchio, ma a una forma di fascismo contemporaneo, funzionale a governare senza dare risposte. Sull’immigrazione, uno che ha a cuore la politica, gli statisti veri, vedrebbero che il processo è una roba che coinvolge tutto il pianeta. O lo gestisci e affronti come nuova risorsa o hai poco da fare, puoi solo fare danni, perdere occasioni. Ricordo che questo paese è a demografia negativa. Boeri ricordava, chi paga le pensioni?”.
Dentro il Governo non si capisce i 5 stelle cosa pensano di questi temi. Di Maio fu il primo a parlare di taxi del mare. Voi avete mai avuto contatti con loro?
“Sì, forse avevano all’inizio una componente diciamo ‘democratica’. Ma oggi è finita. Si sono consegnati manine e piedi a uno bravo a fare il suo mestiere. A Palermo, appena qualcuno di loro ha preso posizione contro la criminalizzazione di chi salva le vite in mare è stato immediatamente epurato, buttato fuori. Noi i taxi del mare? No, sono loro che sono i taxi della Lega. Basta vedere i sondaggi, Salvini li sta mangiando vivi.
Con il Pd avete invece una interlocuzione?
“Credo sia giusto interloquire con tutti coloro che davvero sentono il dovere di non stare a guardare di fronte alla tragedia della Libia e del Mediterraneo. Ma il Pd proprio perché con Minniti e Gentiloni ha messo la la sua firma su questo disastro, deve essere onesto, deve capire fino in fondo le conseguenze di quelle scelte. Per cambiare rotta nettamente. Alcuni lì dentro, penso a Orfini, Smeriglio, Majorino, Bartolo, lo stanno sicuramente facendo. Con loro c’è un’interazione. Ho visto l’intervista di Sassoli al Corriere. Gli chiederemo un incontro. Con Zingaretti non abbiamo cercato interlocuzione diretta ma abbiamo visto Orfini, Smeriglio, Bartolo che interagiscono e creano questo dibattito nel campo generale. Più che sul governo Italiano, abbiamo una questione di Unione Europea”.
Vi hanno sequestrato Alex e la Jonio. Che fate ora senza navi?
“Noi non ci vogliamo fermare. Faremo appello alla società civile perché ci aiuti a tornare in mare per quello che serve. Spero che i sequestri durino poco. La Jonio ad esempio è sotto sequestro probatorio. Noi rispettiamo le leggi, non abbiamo paura dei processi. Vogliamo fare i processi, noi non scappiamo utilizzando immunità che non abbiamo. Vogliamo vedere chi rispetta le leggi e chi no.”
Gad Lerner accecato dall'odio contro Matteo Salvini: "Le pericolosissime controfigure di Soros". Libero Quotidiano il 7 Luglio 2019. Non perde occasione, Gad Lerner, per deliziare il pubblico con il suo odio fervente contro Matteo Salvini. L'ultima, lo sbarco dei migranti della Alex a Lampedusa e le parole del ministro dell'Interno, il quale in una diretta su Facebook ha affermato che "darò anche la vita per difendere i confini". E partendo proprio da quest'ultima frase, Lerner parte all'attacco, parlando di "sproloquio" del "ministro ex secessionista Matteo Salvini". E ancora: "Ve lo vedete opporre il suo corpo all'arrivo dei migranti, pericolosissime controfigure di Soros, sulla banchina di Lampedusa?". Una strepitosa esplosione di rabbia, strepitosa perché il passaggio - assai traballante - sulle "pericolosissime controfigure di Soros" - strappa, oggettivamente, strepitose risate. Gad Lerner non sa davvero più cosa inventarsi nella sua crociata contro Salvini.
LA LUNGA MANO DEGLI HACKER. Jacopo Iacoboni per “la Stampa” l'11 luglio 2019. Martedì sera, commentando il sequestro della nave "Alex" della ong Mediterranea Saving Humans, il vicepremier Matteo Salvini è stato tagliente, ora «magari utilizzeranno un deltaplano, un dirigibile, un bimotore». Di sicuro per tutto il pomeriggio di quella convulsa giornata, Mediterranea non ha potuto usare il suo sito; dove peraltro, cosa importante, stava avvenendo una raccolta fondi per pagare le pesanti multe per il dissequestro della nave. Cosa è successo, esattamente? Mediterranea denuncia che il sito è caduto per lunghe ore a causa di un attacco informatico, avvenuto dall' estero, in particolare da molti indirizzi IP russi (ma non solo). «Il nostro sito ha subito innumerevoli attacchi informatici da server russi che l' hanno momentaneamente compromesso, e che denunceremo alle autorità competenti», ha spiegato la comunicazione ufficiale della ong, che ha dovuto affidarsi a quel punto solo a canali social per continuare a promuovere il suo crowdfunding. Che cosa è accaduto di preciso, a parte l' espressione «innumerevoli attacchi», che andrebbe chiarita? Beppe Caccia, ex assessore comunale di Venezia (con Massimo Cacciari), oggi armatore della nave "Alex", spiega che sono stati informati di un attacco avvenuto con modalità che un buon provider, come quello che hanno, non ha potuto fermare. Si è trattato, ci viene assicurato dai loro informatici, di un classico attacco ddos - denial of service - la richiesta contemporanea di accessi (non quindi un altro attacco più banale, "path trasversal"). Molti degli indirizzi IP hanno una chiara provenienza geografica, russa o est europea, ci viene detto. Il provider di Mediterranea è Netsons, ha individuato l' attacco, comunicandolo alla ong, che nel frattempo era alle prese con la vicenda del sequestro e la polemica sul mancato arrivo a Malta (quelli di Mediterranea sono convinti che a Malta li aspettava un sicuro arresto). L' organizzazione sta preparando un dossier informatico e, dice Caccia, «lo porteremo in Procura per denunciare. Siamo una piccola ong, nata non da molto, e riceviamo un' attenzione di questa portata proprio mentre siamo bersaglio del governo». Netsons possiede gli IP e ha una mappatura geografica degli attacchi. Va detto che un hacker può far vedere l' IP che gli pare, o invece può voler "firmare" l' azione. Nel caso di un attacco di questo tipo le possibilità più comuni sono due: o che gli attaccanti abbiano usato più macchine precedentemente infettate magari con un malware o, più probabile, delle semplici botnet, reti automatiche che bombardano di richieste di accesso un sito che non può reggerle, comandate da un centro. Il sito è stato ripristinato con un' azione di filtraggio cloudfare. Questa storia è però interessante anche per la tempistica, palesemente politica, della vicenda. In quel pomeriggio Mediterranea stava pubblicizzando al massimo la sua raccolta fondi. «Per aver salvato 59 persone, abbiamo ricevuto 65 mila euro di multa. Lo rifaremo. Per noi la vita non ha prezzo». L'ong aveva lanciato una sottoscrizione online per pagare la multa, con 50 mila euro raccolti già nel primo pomeriggio. Poi è crollato tutto. La pagina della raccolta fondi è gestita dal sito di un altro ente (Banca Etica), che però era linkato nel sito di Mediterranea, inutilizzabile per lunghe ore. Che strano che dall' estero tante persone si siano improvvisamente interessate a questa piccola ong italiana.
Mediterranea, la portavoce Alessandra Sciurba: "Subito in mare", poi gli insulti a Matteo Salvini. Libero Quotidiano l'8 Luglio 2019. Ci mettono solo poche ore, quelli della ong Mediterranea, a dichiarare ancora guerra all'Italia e alle sue leggi. A meno di un giorno dall'attracco del veliero Alex a Lampedusa, e del sequestro del mezzo, a parlare è Alessandra Sciurba, portavoce dell'organizzazione, la quale subito si riferisce alla "prossima volta". Già, nonostante due barche sotto sequestro - la Mare Jonio dal 10 maggio scorso a Licata e, ora, anche Alex -, la ong italiana vuole proseguire la sua missione. Parlano di salvataggi, in verità è politica. Insomma, torneranno in acqua il prima possibile e torneranno il prima possibile a sfidare il governo italiano e Matteo Salvini. Da parte della Sciurba, anche i consueti attacchi al ministro dell'Interno: "Come si fa ad essere così cinici e crudeli? Invito chi ci accusa a salire a bordo con noi, la prossima volta, per andare nella Sar libica. Si renderà conto allora di come funziona laggiù", conclude.
Mediterranea, il ricatto della portavoce Alessandra Sciurba: "Ci fermiamo soltanto così". Libero Quotidiano il 10 Luglio 2019. Impazza ancora in tv Alessandra Sciurba, la portavoce dalla ong Mediterranea, che questa volta fa la sua lezioncina in un collegamento a In Onda su La7, davanti allo sguardo compiaciuto di David Parenzo. Luca Telese le chiede se "vi aspettavate questa ritorsione contro il capitano della Alex", indagato per aver forzato il blocco navale al porto di Lampedusa in barba alle leggi. E la Sciurba, come sempre in questi giorni, mostra di non capacitarsi del fatto di non essere al di sopra della legge: "Ripeto, come la storia del fatto che avremmo reiterato il reato perché abbiamo scarrocciato di pochi metri col gps rotto senza accorgercene, a noi sembra una collezione di atti vessatori che assomigliano quasi a vendette private. Ormai ci aspettiamo di tutto". Insomma, la signorina si aspetta "di tutto" semplicemente perché lei e la sua nave continuano a violare la legge. Ma tant'è, la portavoce non ha ancora finito, infatti a strettissimo giro di posta passa al ricatto diretto. "Ma qui c'è qualcuno che proprio non ha capito che per noi la vita umana non ha prezzo, non è così che ci fermiamo - riprende -. Ci fermeremo in un solo modo: aprite canali umanitari per evacuare la Libia e canali di ingresso legali per portare tutti in sicurezza. Fatelo e vi giuro, prometto, non metterò mai più piede su una barca nemmeno per una regata. Volete toglierci di mezzo? Date una possibilità alle persone di mettersi in sicurezza dalle guerre". Insomma, la Sciurba si improvvisa anche ministro degli Esteri, della Difesa, degli Interni e chi ne ha più ne metta: il suo diktat è quello di aprire "canali umanitari" per portare in Italia "tutti". Dice letteralmente "tutti". Altrimenti, questo il sottinteso, continuerà a fregarsene della legge.
Mediterranea, la portavoce Alessandra Sciurba: "Così il governo italiano finanzia i trafficanti libici". Libero Quotidiano il 7 Luglio 2019. La guerra passa anche per la più infame delle accuse, quella rivolta dalla ong Mediterranea al governo italiano, nei fatti a Matteo Salvini. A parlare è ancora una volta Alessandra Sciurba, portavoce della ong a cui fa riferimento Alex, la barca a vela che sabato ha fatto irruzione al porto di Lampedusa per poi far sbarcare nella notte i 46 immigrati a bordo. La Sciurba, dopo aver fornito una traballante ricostruzione in televisione circa le ragioni che avrebbero spinto Alex a non andare a Lampedusa, è tornata all'attacco direttamente al molo Favaro di Lampedusa, dove si trova il veliero posto sotto sequestro: "I trafficanti sono favoriti dalle politiche di questo governo perché sono pagati due volte in Libia - ha premesso -: innanzitutto dal governo italiano che ha rifinanziato una missione allucinante, in quanto queste milizie sono quelle che ogni tanto si travestono da Guardia Costiera, ricatturano le persone e le riportano nei centri. Trafficanti pagati indirettamente dal governo italiano e direttamente dai migranti", ha tuonato la Sciurba. Insomma, siamo al punto in cui una ong accusa il governo italiano di finanziare i trafficanti in Libia. Quegli stessi trafficanti che si servono delle ong, come Mediterranea, per il "recupero" immediato degli immigrati che pagano profumatamente per ritrovarsi su un gommone in mezzo al mare.
Agorà, Delmastro di Fdi demolisce la portavoce di Mediterranea: "Sa dove deve andare?" Libero Quotidiano l'8 Luglio 2019. Scontro ad Agorà su Rai 3 tra Andrea Delmastro di Fratelli d'Italia e Alessandra Sciurba, la portavoce della ong Mediterranea, quella a cui fa riferimento Alex, il veliero sequestrato dopo l'irruzione illegale al porto di Lampedusa. La portavoce spiega perché si sente al di sopra della legge e, riferendosi a Delmastro, afferma: "Lei sa benissimo che ci sono per il diritto delle situazioni in cui è doveroso non ottemperare a un ordine, quando ci sono beni superiori in gioco". Durissima le replica del deputato: "È talmente poco vero che neanche l'amico gip che vi ha permesso di invadere l'Italia ha scomodato lo stato di necessità. Lei non sa neanche cos'è lo stato di necessità. Non si permetta". Quindi la Sciurba ribatte: "Posso invitare l'onorevole a bordo dell'Alex prima che venga pulita, così capisce il nostro stato di necessità?". E lui: "Non ho nessun piacere a salire con lei. Venga lei a Biella a casa mia a lavorare e a vedere la gente che lavora". Colpita e affondata.
Nicola De Felice, l'ammiraglio della Marina contro le ong: "Ma quali aiuti umanitari? Salvini ha stra-ragione". Libero Quotidiano l'8 Luglio 2019. Non solo Matteo Salvini sostiene che le ong siano, seppur indirettamente, al servizio degli scafisti, facilitando il loro lavoro. In tal senso, e in modo nettissimo, si esprime anche l'ammiraglio della Marina, De Felice, intervistato dal Tg4 e rilanciato sui social da Silvia Sardone. "Salvini non ha ragione, ha stra-maledettamente ragione. E c'è un popolo, quello del buonsenso, che lo segue e condivide le sue iniziative - sottolinea il militare -. Dobbiamo smetterla di credere ai falsi aiuti umanitari delle ong. Sono responsabili del fenomeno di attrazione che i vari schiavisti e mercanti di uomini attuano perché sono dei pirati e hanno ben chiaro movimenti e rotte delle navi ong. Io non sono un giurista, ma un militare, e quando si prendono iniziative giudiziarie o politiche verso le leggi dello Stato italiano o delle norme internazionali ratificate dal Parlamento italiani, bisogna muoversi con cautela. Dobbiamo conoscere le conseguenze che ne derivano. In particolare quando vengono messe in discussione le competenze delle forze dell'ordine, come nel caso della Guardia di Finanza", conclude De Felice. Parole fortissime, quelle del militare, che spara ad alzo zero contro le ong. Rilanciando il video sui social, la Sardone commenta come le parole del militare confermino "la bontà dell'azione di Salvini" e smontino "le tesi della sinistra radical chic".
LA BARCA A VELA ALEX DELLA ONG MEDITERRANEA ATTRACCA AL PORTO DI LAMPEDUSA. Ansa.it il 6 luglio 2019. La barca a vela Alex della ong Mediterranea ha attraccato nelle banchina del porto di Lampedusa. Dal molo qualcuno ha applaudito, altre persone hanno gridato "bravi, bravi". Sono presenti le forze dell'ordine. I migranti, tutti con il salvagente addosso, sono ora sul ponte del veliero in attesa. "Siamo in una situazione surreale. Ci sono persone che rischiano di svenire e che devono andare in bagno, i nostri servizi igienici sono inservibili e nessuno ci dice cosa fare. Questo è un sequestro di persona, non è più uno Stato di diritto. Devono farci sbarcare". Lo ha detto Alessandra Sciurba, portavoce di Mediterranea Saving Humans commentando la situazione a bordo del veliero Alex. "Non autorizzo nessuno sbarco di chi se ne frega delle leggi italiane e aiuta gli scafisti". Lo dice il ministro dell'Interno Matteo Salvini, a proposito della nave Alex appena arrivata a Lampedusa. "Io denunciato per sequestro di persona? Siamo al ridicolo", aggiunge Salvini. "La nave dei centri sociali, che a quest'ora sarebbe già arrivata a Malta che aveva dato la disponibilità di un porto sicuro, infrange la legge, ignora i divieti ed entra in acque italiane. Le Forze dell'ordine sono pronte ad intervenire, vediamo se anche in questo caso la 'giustizia' tollererà l'illegalità: in un Paese normale arresti e sequestro della nave sarebbero immediati. Questi non sono 'salvatori', questi sono complici dei trafficanti di esseri umani". Lo dice il ministro dell'Interno Matteo Salvini. "Al Decreto Sicurezza Bis la Lega presenterà emendamenti per aumentare le multe fino al milione di euro e rendere più semplici sequestri dei mezzi". Lo afferma il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini, facendo riferimento al caso dell'ultimo arrivo a Lampedusa del veliero Alex. La Germania è pronta ad accogliere alcuni dei migranti che si trovano a bordo delle due navi delle ong al largo di Lampedusa. Lo ha detto il ministro dell'Interno tedesco Horst Seehofer. "Sia nel caso della 'Alan Kurdi' che nel caso di 'Alex' siamo pronti, nell'ambito di una soluzione solidale europea, a prendere alcune delle persone salvate", ha detto. E' ancora scontro fra le Ong ed il ministro dell'Interno Salvini sui salvataggi di migranti in mare e la volontà di portarli a Lampedusa. La nave 'Alan Kurdi' della Ong Sea Eye, con a bordo 65 naufraghi, sfida il titolare del Viminale e si dirige verso l'isola. In un tweet la Ong afferma: "Non siamo intimiditi da un ministro dell'Interno". "Ieri sono stati consegnati più di 400 litri di acqua potabile alla barca a vela Alex e altrettanti sono stati successivamente rifiutati. Oltre all'acqua, l'Italia ha garantito cibo, coperte e medicinali". Lo rende noto il vicepremier Matteo Salvini. "Attraverso il proprio ufficio stampa, Alex ha fatto sapere che le bottiglie d'acqua erano troppo ingombranti e a causa delle condizioni igienico-sanitarie ha deciso di infrangere il divieto di accesso nelle acque italiane", aggiunge il titolare del Viminale. "Pur di infrangere la legge mettono a rischio la vita degli immigrati", commenta Salvini. "Con 65 persone soccorse a bordo ci stiamo dirigendo verso Lampedusa. Non siamo intimiditi da un ministro dell'Interno ma siamo diretti verso il più vicino porto sicuro. Si applica la legge del mare, anche quando qualche rappresentante di governo rifiuta di crederlo". Così Sea Eye in un tweet in mattinata, sulla rotta presa dalla nave Alan Kurdi dopo il salvataggio di ieri. Una motovedetta della Guardia di Finanza ha notificato al comandante della nave il divieto di ingresso, transito e sosta nelle acque territoriali italiane.
Da Ansa il 7 luglio 2019. I migranti sbarcano a terra dalla Alex per effetto del sequestro penale disposto di iniziativa dalla Guardia di Finanza. Lo fa sapere il Viminale, aggiungendo che l'equipaggio è indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. La Alan Kurdi ha cambiato rotta verso Malta, lasciando le acque al largo di Lampedusa. "Non possiamo aspettare finche' lo stato di emergenza non prevale", fa sapere la ong Sea Eye. "Ora - aggiunge Sea Eye - Sì deve dimostrare se gli altri governi europei appoggiano l'atteggiamento dell'Italia". Un esposto alla Procura di Agrigento sulle procedure che sono state seguite nei confronti della Alex, l'imbarcazione alla quale era stato intimato dalle autorità italiane di recarsi a Malta come "porto sicuro", è stato presentato dai legali di Mediterranea Human Savings prima ancora dell'approdo a Lampedusa. Lo ha detto all'ANSA il capo missione Erasmo Palazzotto, parlamentare di Leu. "Ancora non ci è stato notificato nulla. Siamo assolutamente sereni perchè convinti di avere operato correttamente e perchè abbiamo già presentato un esposto alla magistratura. Diciamo che questa volta siamo arrivati prima della Guardia di Finanza". Così il capo missione di Mediterranea Erasmo Palazzotto, commenta la decisione del Viminale di fare sbarcare tutti i migranti a bordo della Alex, sequestrare l'imbarcazione e indagare tutto l'equipaggio per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
Alex, dopo lo sbarco Matteo Salvini annuncia: "Emendamenti e multe fino a 1 milione di euro". Libero Quotidiano il 7 Luglio 2019. Sbarcati nella notte tra sabato e domenica i 46 immigrati a boro della Alex, la nave della ong Mediterranea. Sbarcati sì, ma la ong paga: immediatamente è stato disposto il sequestro della nave. "La Finanza sta effettuando il sequestro penale preventivo della nave dei centri sociali. Bene così", ha affermato Matteo Salvini. Il Viminale di conseguenza ha disposto lo sbarco dei 46 migranti che verranno trasferiti nell'hot-spot dell'isola siciliana. La Guardia di Finanza ha poi denunciato comandante ed equipaggio della barca per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Insomma, tutti i membri dell'equipaggio della Alex - che ha "sfondato" al porto di Lampedusa poco dopo le 17 - sono indagati. In quelle ore, Salvini aveva commentato: ""Non autorizzo nessuno sbarco di chi se ne frega delle leggi italiane e aiuta gli scafisti. Io denunciato per sequestro di persona? Siamo al ridicolo". Ma non è tutto. Perché il ministro dell'Interno alza il livello della sfida contro le ong e annuncia emendamenti al decreto sicurezza-bis, obiettivo aumentare le multe fino a un milione di euro. Cifra in grado di mettere ko i taxi del mare, anche a fronte delle crescenti donazioni: " Al decreto sicurezza-bis la Lega presenterà emendamenti per aumentare le multe fino al milione di euro e rendere più semplici sequestri dei mezzi". Salvini ha poi esplicitamente accusato Mediterranea e tutte le altre ong di speculare sui soccorsi per aumentare le donazioni: "Rifiutano acqua per poter dichiarare lo stato di necessità a bordo e forzare il blocco: così sperano nell'impunità. Chiedono soldi per pagare le multe previste dal decreto sicurezza bis: così aumentano le donazioni e il business. Sono tornate davanti alla Libia: così incentivano le partenze e il rischio di naufragi e fanno felici gli scafisti. Queste sono le Ong. Non ci faremo intimidire, non ci piegheremo ai ricatti, difenderemo l'Italia".
Il capitano Tommy, ex skipper di Giovanni Soldini: scendo solo con i migranti. Pubblicato sabato, 06 luglio 2019 da Fabrizio Caccia, inviato a Lampedusa, su Corriere.it. «Non dormo e non mi lavo da una settimana, ma adesso mi sento un uomo felice, perché abbiamo salvato 54 persone, le abbiamo aiutate a fuggire dall’inferno della Libia, anche queste nella vita sono soddisfazioni». Tommaso Stella, 46 anni, milanese, skipper di successo e navigatore in solitaria, protagonista di mille regate transoceaniche, a lungo nell’equipaggio di Giovanni Soldini, è il comandante del veliero Alex: «Nella mia vita di skipper sono stato sulle barche più belle del mondo, ma sono di origini umili e mi sono sempre sentito dalla parte di chi è povero e di chi soffre. Per questo ora mi trovo qui e mi ci trovo benissimo, malgrado tutto». Alle nove di sera del giorno più lungo, dopo aver forzato anche lui il blocco del governo italiano come fece la capitana Carola, la barca è ormeggiata al molo Favarolo. E poiché il ministro Salvini non ha ancora autorizzato lo sbarco dei migranti, il comandante Tommy, com’è chiamato a bordo, chiarisce agli uomini della Guardia costiera: «La nostra linea è questa, molto semplice: anche noi dell’equipaggio restiamo a bordo, da qui non sbarca nessuno, noi scenderemo solo in compagnia di queste altre persone che da più di 50 ore condividono questo spazio con noi». Il comandante Stella non è sposato e non ha figli, «è un vero lupo di mare», racconta Francesca Zanoni del legal team della ong italiana «Mediterranea», qui a bordo non percepisce un euro, è un semplice volontario come gli altri undici membri dell’equipaggio. Giovedì scorso, nella zona Sar libica, a nord delle piattaforme petrolifere, c’era un gommone di appena quattro metri, azzurro come il mare, con i migranti alla deriva, il suo motore ormai non marciava più. E quando dal veliero Alex li hanno visti, il comandante Stella non ci ha pensato un solo minuto: ha lasciato il timone a un altro e si è calato sul rhib, il canottino da soccorso, per andare verso di loro. È stato lui ad abbracciare per primo i neonati e le donne incinte e a issarli con i suoi muscoli sempre molto allenati sullo scafo. In salvo. La prima cosa che ha letto nei loro occhi è stata la paura, quella di tornare indietro, in Libia. «Meglio passare cent’anni sulla vostra barca che un solo secondo in Libia», dicevano tutti in un inglese stentato. La cosa più bella capitata a bordo in questi tre giorni? Il comandante Tommy non ha dubbi: «Quando una delle donne incinte è stata visitata dai medici e ha visto dall’ecografo che il feto era vivo. Non potrò mai dimenticarlo».
Mediterranea, gli sfoghi di Salvini sul figlio di Tria: "A bordo anche lui". Domenica, 7 luglio 2019 Affari italiani. "La nave Mediterranea è quella che aveva a bordo il signor Casarini, dei centri sociali del Nord-Est, se non ricordo male c'era anche il figlio del ministro dell'Economia. Poi, per carità, ognuno passa il tempo dove meglio crede e con le compagnie che più gradisce". Nel suo attacco alla ong Mediterranea, ai “miliardari finanziatori alla George Soros” al Ministero della Difesa, il ministro dell’Interno e a quello dell’Economia, Matteo Salvini ricorda come per la ong lavori anche Stefano Tria, 38 anni figlio del numero uno del Tesoro Giovanni, a bordo ad marzo della Mediterranea, la barca a vela che ha supportato la Mare Jonio, nave umanitaria che lo scorso è approdata (il 19 marzo) a Lampedusa con 48 migranti soccorsi. Stefano Tria fa parte del circuito degli skipper che si alternano nelle varie missioni di Mediterranea sulla barca a vela che appoggia la stessa Mare Jonio. Una partecipazione, aveva fatto sapere la stessa ong, nata da un normale invio della propria candidatura al sito. Non è la prima volta, ricorda il Corriere della Sera, che i figli, con le loro attività politiche e non solo, mettono in imbarazzo padri celebri e impegnati in politica. E’ successo con Veronica Padoan, figlia del ministro Giancarlo, impegnata a lottare nelle piazze per i diritti degli sfruttati dal caporalato. Ma anche con Giuliana, figlia di Ignazio Visco, nel movimento di estrema sinistra della Capitale. "Se le colpe dei padri non ricadono sui figli, le colpe dei figli non devono ricadere sui padri. Ognuno passa il tempo come vuole...se mio figlio andasse in giro per barconi lo riporterei a casa per l'orecchio, ma ognuno fa come vuole", era stata la critica di Salvini sempre su Stefano Tria in occasione del precedente salvataggio della Mare Jonio.
Mediterranea, il capo missione è un deputato di Leu. Vergogna: sempre assente in aula, lo paghiamo noi. Alessandro Giorgiutti su Libero Quotidiano il 6 Luglio 2019. Il parlamentare di Leu Erasmo Palazzotto, che è anche capomissione di Alex, si è buttato in acqua violando il divieto di sbarco appena la barca è arrivata a Lampedusa. Ecco l'articolo ritratto oggi su Libero. È un deputato di Liberi e Uguali il capo missione di Mediterranea a bordo dell' imbarcazione Alex che giovedì pomeriggio ha strappato alla guardia costiera libica una cinquantina di migranti, perlopiù originari del Camerun e della Costa d' Avorio, che si trovavano a una settantina di miglia dalla costa della nostra ex colonia. Erasmo Palazzotto ha trentasei anni, è alla sua seconda legislatura, fa parte della commissione Difesa e della commissione d' inchiesta sulle mafie, ma per la verità non sembra che passi molto tempo nell' aula della Camera. Anzi, lo scorso 7 maggio il Fatto Quotidiano ha rivelato che, durante le votazioni, il parlamentare dell' ultra-sinistra risulta assente nel 63,7% dei casi; soltanto otto deputati sono meno presenti di lui. Record d'assenze - In questi giorni, comunque, a Montecitorio non cercatelo proprio: Palazzotto come s' è detto è a bordo di Alex, un veliero preso a noleggio dalla italiana Mediterranea Saving humans. È, quest' ultima, un gruppo di associazioni (perlopiù centri sociali) messo in piedi dall' ex no global convertitosi in no border Luca Casarini e dall' antagonista bresciano Beppe Caccia. La loro idea era quella di mettere in mare alla ricerca di migranti una nave battente bandiera italiana, «escamotage del diritto» (così Palazzotto) per respingere le accuse rivolte dal ministro Matteo Salvini alle Ong straniere, che invece di far rotta verso le loro patrie d' origine sbarcano i migranti sulle nostre coste. Per raccogliere i soldi necessari all' impresa, questo arcipelago di associazioni che va dall' Arci nazionale a vari centri sociali, ad Ong ormai arcinote come Sea Watch e Open Arms, e che gode dell' appoggio politico di alcuni Comuni come la Milano di Beppe Sala, la Palermo di Leoluca Orlando e la Napoli di Luigi de Magistris; per fare cassa, dunque, Mediterranea ha potuto beneficiare delle garanzie di Nichi Vendola e di alcuni parlamentari (Nicola Fratoianni, Rossella Muroni e il nostro Palazzotto) presso Banca Etica, la quale ha così concesso un prestito di 480 mila euro. Da quel momento è partita la raccolta fondi, con l' obiettivo di arrivare a quota 700 mila euro. Obiettivo raggiunto e abbondantemente superato: sul sito dell' associazione ieri si leggeva che le donazioni sono arrivate a quota 819.859,50 euro. La prima spesa di Mediterranea è stata per l' acquisto della Mare Jonio, un rimorchiatore costruito negli anni Settanta trasformato in un' imbarcazione atta alla ricerca e al salvataggio di naufraghi. Da oltre un mese, però, la Mare Jonio è ferma al porto di Licata, dopo che la procura di Agrigento ne ha disposto il sequestro. Di qui, l' idea di ricorrere ad Alex, che originariamente doveva servire per il monitoraggio e l' assistenza dell' imbarcazione principale: i suoi diciotto metri di lunghezza e la sua diecina di cuccette sono stati ritenuti comunque sufficienti per partire alla volta della Libia. La risoluzione anti-Minniti - L' annuncio è stato dato dalla stessa Mediterranea, con un post sul suo sito datato 2 luglio: «Mediterranea non si è mai fermata, perché non è sequestrando una nave che si ferma Mediterranea. Ma adesso siamo tornati. Di nuovo. In mare». Con Erasmo Palazzotto, per l' appunto, a sostituire Luca Casarini nel ruolo di capo missione. Il quale Palazzotto, infine, se anche non è uno tra i più presenti in Parlamento, ha recentemente fatto molto parlare di sé. È stata infatti una sua risoluzione, nella quale chiedeva la «sospensione degli accordi con la Libia, anche alla luce delle condizioni in cui (i migranti, ndr) sono detenuti in quelli che appaiono come veri e propri lager», a spaccare il Partito democratico, con alcuni deputati, tra cui l' ex presidente del partito Matteo Orfini, a mettere la propria firma in calce a un testo che di fatto sconfessava la linea tenuta dal ministro dell' Interno Marco Minniti ai tempi del governo Gentiloni. Una sconfessione fatta propria ieri anche dall' ex premier Matteo Renzi in una lettera pubblicata in prima pagina su Repubblica. Alessandro Giorgiutti
Migranti, Orlando: "Da Salvini stiamo assistendo a sequestro di persona". Nuovo affondo del sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, contro il ministro dell'Interno Matteo Salvini in merito alla vicenda della nave Alex attraccata al porto di Lampedusa. Roberto Chifari, Domenica 07/07/2019 su Il Giornale. Lo scontro tra il sindaco di Palermo e il vicepremier continua, senza esclusioni di colpi. Prima per la Sea Watch, adesso per la nave Alex attraccata al porto di Lampedusa. "Da Salvini e dal governo ancora una violazione del diritto internazionale e della Costituzione col tentativo vano di bloccare il salvataggio di vite umane e di sabotare l'azione umanitaria", dice il primo cittadino di Palermo che non risparmia le critiche per chi sta portando a valutare una situazione che oggi ha "l'aggravante di quello che ha tutti i connotati di un sequestro di persona con naufraghi ed equipaggio della Alex bloccati a bordo". Ieri era la difesa di Carola Rackete oggi di tutto l'equipaggio della Alex. "Ma tanto si sa già - prosegue Orlando -: il capitano dei pavidi è pronto a nascondersi dietro l'immunità parlamentare. Per fortuna di tutti noi, c'è chi resiste e ci rende tutti ancora umani". Su Facebook, nella pagina di Mediterranea Saving Humans scrivono: "La barca a vela Alex di Mediterranea Saving Humans con 41 naufraghi a bordo ha appena attraccato al porto di Lampedusa. Non ci sono porti chiusi per l'umanità". Sull'argomento è intervenuto anche il sindaco di Lampedusa Totò Martello. "Evidentemente il clima di tensione alimentato ad arte sui migranti, porta a interpretazioni forzate di alcune mie dichiarazioni. Questa mattina rispondendo ai giornalisti in merito alla situazione attuale sull'isola, ho sollevato un tema: il Centro di accoglienza è di nuovo sovraccarico. Ricordo che il nostro Comune non ha alcuna competenza in merito, sono altre le istituzioni che devono far sì che i migranti, una volta giunti sull'isola, restino nell'Hotspot non oltre il tempo previsto, che è di 24-48 ore, e quindi vengano trasferiti in strutture adeguate. Invece cosa succede? Si continua a ripetere che il porto di Lampedusa è chiuso quando invece gli sbarchi non si sono mai fermati: la maggior parte dei migranti raggiunge l'isola a bordo di piccole imbarcazioni che approdano lontano dalle telecamere, mentre si gioca una battaglia politica senza scrupoli sulla pelle delle persone che sono a bordo di navi delle Ong. Questa situazione sta esasperando il clima, sta portando a una mistificazione della realtà. Io l'ho sempre detto e lo ripeto: Lampedusa è un'isola che, per sua stessa collocazione geografica, ha una vocazione naturale all'accoglienza. E da parte nostra non si negherà mai un aiuto a chi è in difficoltà e ha bisogno di soccorso. Ma parallelamente a tutto questo - aggiunge - non si può abbandonare l'isola a se stessa, non si può giocare con i lampedusani e non si può - e non si deve in alcun modo - continuare a sfruttare il disagio dei nostri concittadini per puro calcolo politico o elettorale. Sono il sindaco di Lampedusa e Linosa, ho il diritto di essere messo nelle condizioni di potere amministrare e risolvere le esigenze quotidiane della mia comunità e ho il dovere di tutelarla da speculazioni politiche. I nostri concittadini hanno bisogno di infrastrutture, di collegamenti efficienti, di servizi, di sostegno alla marineria. Ma tutto questo sembra non importare a nessuno. Poi, però, se chiedo anche che l'Hotspot venga gestito in maniera regolare nel rispetto di chi viene accolto, si accendono le polemiche e le strumentalizzazioni".
Il documento inchioda l'ong: ecco i diktat di Mediterranea. Svelata dal Viminale la mail della ong: pretendevano l'impunità e di usare i militari italiani come tassisti del mare. Ecco le 5 condizione dettate. Andrea Indini, Domenica 07/07/2019, su Il Giornale. Per avvalorare lo "stato di necessità" ed far entrare la Alex nel porto di Lampedusa forzando il divieto della Guardia Costiera (guarda il video), il capitano Tommaso Stella e il capomissione Erasmo Palzzotto ne hanno sparate di tutti i colori, dalla mancanza di acqua a bordo alle carenti condizioni sanitarie dei quanranta immigrati. Ma la verità è un'altra. Dal ministero dell'Interno è, infatti, trapelata una mail che svela tutte le pretese dell'equipaggio dell'ong Mediterranea Saving Humans e le mire (politiche) della missione al largo della Libia (qui il documento integrale). "Il Viminale non ha agito da solo e non ha rifiutato la collaborazione di altri ministeri, a partire dalla Difesa", ci spiegano fonti del ministero dell'Interno. Il capitano della Alex aveva un dialogo aperto sia con la Guardia di Finanza sia con la Guardia Costiera. "Il problema - lamentano le stesse fonti - è che la barca della ong si è sempre rifiutata di entrare in acque maltesi e pretendeva di essere accompagnata dalle autorità italiane fino a 15 miglia nautiche da La Valletta, per poi allontanarsi immediatamente ed evitare i controlli e la legge di un paese membro dell’Unione europea". È per questo che le operazioni si sono bloccate, costringendo i quaranta immigrati irregolari, che si trovavano a bordo della nave presa in affitto da Mediterranea Saving Humans, a inutili ore di attesa in mezzo al Mar Mediterraneo. A dimostrarlo c'è una mail della stessa ong in cui tenta di imporre cinque condizioni alle autorità italiane e malesi. Oltre a dettare l'orario di partenza ("entro e non oltre le 22 odierne") e il numero delle persone a bordo, il capomissione Palazzotto pretendeva che "l'operazione di trasferimento" sulle "unità delle forze armata" della Valletta avvenisse "tassativamente a 15 miglia nautiche di distanza dalle coste dell'isola, in acque internazionali" e che vi fosse "la precisa garanzia che nessuna azione coercitiva" sarebbe stata assunta "nei confronti della nave da parte delle stesse autorità maltesi e italiane". Quello che cercavano, insomma, non era la salvezza delle persone che avevano a bordo, ma l'impunità per il capitano e l'equipaggio. Sapevano, infatto, di aver infranto diverse leggi e che per questo potevano essere perseguiti, come è stato poi fatto. Sin dalle prime fasi di confronto, al Viminale è stato sin troppo chiaro che l'obiettivo della ong non fosse quello di raggiungere un accordo. Tra le richieste scritte nella mail, che trovate nella foto, c'erano anche che le "necessarie attività di controllo e identificazione" avrebbero dovuto "svolgersi in alto mare" e che, al termine di queste, la Alex avrebbe dovuto "fare ritorno immediatamente" nel porto di Licata, in provincia di Agrigento. Dal punto di vista del ministero dell'Interno, l'arrivo della barca sull'isola era "irrinunciabile". Diversamente, le nostre Forze Armate si sarebbero trasformate in "tassisti del mare a servizio della ong", un brutto film che era già andato in onda prima che Matteo Salviniarrivasse al governo e che aveva fatto moltiplicare gli sbarchi in Italia. "Il rispetto per i militari italiani da parte del ministero dell'Interno è totale - ci spiegano le stesse fonti - proprio per questo ritiene debbano essere utilizzati per compiti coerenti con la propria missione, come la protezione della legge e dei confini". La Guardia di Finanza e la Marina Militare avrebbero potuto intervenire su Alex, sgravandola dagli immigrati a bordo, a patto che la ong arrivasse nel porto della Valletta. Invece, il capo missione e il capitano della ong fodata da Luca Casarini hanno preferito perdere ore di tempo in mezzo al Mediterraneo per pretendere, appunto, l'impunità. "Invocare lo 'stato di necessità' - fanno infine notare dal ministero dell'Interno - è servito a Stella a forzare i confini nazionali confidando in un orientamento benevolo della magistratura". E, visto come è andata a Carola Rackete con l'assalto della Sea Watch 3 al porto di Lampedusa, potrebbe anche avere la meglio.
Ecco le 5 menzogne delle ong. Dalla mancanza di carburante alle condizioni sanitarie, ecco tutte le balle usate dalle ong per riuscire a sbarcare in Italia. Andrea Indini, Lunedì 08/07/2019, su Il Giornale. Non è facile dipanare la verità dalla propaganda, specie se di mezzo ci sono le organizzazioni non governative. Da quando le loro scorribande nel Mar Mediterraneo sono state rese più difficili dai provvedimenti restrittivi del governo italiano, si sono dovuti ingegnare e usare mezzucci per giustificare le proprie missioni a ridosso delle coste libiche. Un passaggio in un recente servizio di SkyTg24 ha svelato le bugie raccontate dalla “Mediterranea Saving Humans" per giustificare il trasbordo di una quarantina di migranti irregolari. L'ong fondata da Luca Casarini non è certo l'unica a raccontarle. A metterle in fila appare chiaro che seguono tutte lo stesso schema: il rischio di naufragio, le condizioni sanitarie dei migranti a bordo e la mancanza di carburante o di acqua. Una volta che la navi sono riuscite ad ottenere l'attracco a un porto italiano, la verità viene a galla. E differisce dalla narrazione via social degli ultrà dell'immigrazione. Ecco alcuni esempi:
1) quando nei giorni scorsi la Alex, la barca "da crociera" affittata da Mediterranea dopo che è stata messa sotto sequestro la Mare Jonio, ha recuperato quaranta immigrati ha spiegato che "per le condizioni psicofisiche delle persone a bordo e le caratteristiche della nave" non era assolutamente in grado di affrontare la traversata verso Malta. Non solo, al momento del "salvataggio", scrivevano su Twitter che i "naufraghi" erano "in pessime condizioni" e che c'era una donna "in gravi condizioni". Intervistata da SkyTg24, però, Giulia Berberi, medico che si trovava a bordo del veliero, ha raccontato tutt'altra storia (guarda il video): "Noi li abbiamo trovati sul gommone che in realtà erano in buone condizioni". E ancora: "Il problema è stato che ci trovavamo in zona libica e i libici stavano arrivando a prenderli, quindi immediatamente li abbiamo caricati sulla barca e siamo partiti". Quando poi dalla Valletta è arrivata l'offerta di attracco, la Alex ha tirato dritto verso l'Italia.
2) anche l'intervento della nave "Alan Kurdi" non è così cristallino come vogliono farci credere. Dal gommone, su cui viaggiavano 65 migranti, non era partito alcun sos perché, come ha rivelato il capo missione Gordon Isler, "gli occupanti non avevano telefono satellitare o gps". "Le persone a bordo hanno avuto una fortuna incredibile a essere stati trovati… probabilmente non avrebbero raggiunto un luogo sicuro e sarebbero scomparsi in mare", ha poi spiegato ammettendo che il gommone aveva un motore perfettamente funzionante e abbastanza carburante. Anche in questo caso l'ong tedesca Sea Eye ha subito rifiutato di tornare in Libia e di attraccare in Tunisia e ha ingaggiato un braccio di ferro fino ad ottenere l'ingresso alla Valletta.
3) quando Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3, ha forzato il blocco speronando le motovedette della Guardia di Finanza, ha invocato lo "stato di necessità" per i quarantun migranti che aveva a bordo. Quando, però, questi sono sbarcati, è subito stato evidente che nessuno di loro stava male. Non sono stati disposti accertamenti specifici né trasferimenti in elisoccorso verso l'ospedale di Palermo. I malati e bambini erano già stati fatti scendere. Nulla giustificava, dunque, l'attracco non autorizzato e, soprattutto, lo speronamento della motovedetta.
4) tutte le ong puntano sempre ai porti italiani. In molti casi spiegano di aver abbastanza carburante per riuscire a raggiungere altre destinazioni. Talvolta è anche vero. Ma fino a un certo punto. La Libia e la Tunisia vengono scartate a priori perché non le vogliono considerare "porti sicuri". Malta è l'extrema ratio, quando la trattativa va proprio male. Ma nessuna di queste si sogna di portare i migranti nei porti del Nord Europa. La Sea Watch 3, per esempio, è stata ben due settimane a zigzagare davanti alle acque territoriali italiane: avrebbe avuto tutto il tempo per navigare verso la Germania, dove ha sede l'ong, o in Olanda, la cui bandiera batte sulla nave. Anche la nave "Alex" si è rifiutata di andare alla Valletta spiegando che "non poteva percorrere 100 miglia". In realtà un documento pubblicato dal Giornale.it svela che il capo missione Erasmo Palazzotto aveva preso in considerazione la possibilità di dirigersi verso la Valletta a patto che "nessuna azione coercitiva" sarebbe stata assunta "nei confronti della nave da parte delle autorità maltesi e italiane".
5) l'aspetto più drammatico della propaganda delle ong è nei tweet che denunciano i morti in mare. Troppo spesso si tratta di fake news create ad hoc per accattivarsi l'opinione pubblica. Il caso più eclatante è stato quando, l'anno scorso, l'ong spagnola Proactiva Open Arms ha accusato la Guardia costiera libica di aver "affondato una barca e lasciato morire una donna e il suo bambino". “Sono assassini arruolati dall'Italia”, ha detto il fondatore Oscar Camps. Due testimoni, una giornalista tedesca e un freelance libico, lo hanno però smentito: "In mare non c'erano corpi". Anche a fine maggio, quando il pattugliatore Cigala Fulgosi ha recuperato 100 migranti, Alarm Phone, il centralino che risponde a un numero francese, aveva parlato di "una bambina di 5 anni morta a bordo". Fortunatamente la notizia era infondata, ma ha permesso di riaccendere i riflettori su questa organizzazione che, secondo i ben informati, viene usata "anche dai trafficanti sotto mentite spoglie per sollecitare i soccorsi".
Di esempi potevamo farne molti di più. Questi bastano a dimostrare come la filiera delle operazioni di soccorso orchestrate dalle ong sia costellata da vere e proprie menzogne che gli ultrà dell'accoglienza usano per raggiungere i propri fini politici.
La Cedu "respinge" Sea Watch Salvini: "I porti restano chiusi". La Corte di Strasburgo ha respinto il ricorso dell'Ong contro l'Italia. Il Viminale: "Confermata scelta di buon senso". Angelo Scarano, Martedì 25/06/2019, su Il Giornale. La Corte di Strasburgo ha respinto il ricorso della Sea Watch. Di fatto la Cedu, la Corte per i diritti dell'uomo ha rifiutato l'istanza presentata contro l'Italia dall'ong tedesca. Il braccio di ferro tra la Sea Watch e il governo va avanti ormai da qualche giorno. La Corte "ha indicato al governo italiano che conta sulle autorità del Paese affinché continuino a fornire tutta l'assistenza necessaria alle persone che si trovano a bordo della nave in condizioni di vulnerabilità a causa della loro età o delle loro condizioni di salute". La nave si trova in stand by a 15 miglia nautiche da Lampedusa. Il Viminale ha vietato all'imbarcazione l'ingresso nelle acque territoriali italiane. Il tutto applicando il dcereto sicurezza bis che prevede, in caso di forzo del blocco, la confisca della nave e una multa salata. La "capitana" della Sea Watch proprio questa mattina ha fatto sapere di voler forzare il divieto imposto dal Viminale per poter far sbarcare i migranti in Italia. L'esecutivo ha chiesto all'Olanda (Paese di bandiera della nave) di interessarsi della vicenda. Ma dai Paesi Bassi per il momento non arrivano notizie con indicazioni di sbarco. In Germania invece è braccio di ferro tra almeno 50 Comuni che hanno dato disponibilità per l'accoglienza e il ministro degli Interni Sehofer che ha chiuso le porte alle possibilità di sbarco. La situazione dunque non si sblocca. Salvini ha commentato così il verdetto della Cedu: "Anche la Corte Europea di Strasburgo conferma la scelta di ordine, buon senso, legalità e giustizia dell’Italia: porti chiusi ai trafficanti di esseri umani e ai loro complici. Meno partenze, meno sbarchi, meno morti, meno sprechi. Indietro non si torna". La sentenza di Strasburgo arriva dopo quella del Tar che aveva respinto il ricorso contro il divieto imposto dal Viminale. Il braccio di ferro dunque continua e a quanto pare è destinato a durare a lungo.
Sea Watch, il retroscena sui magistrati: i "bastoni tra le ruote", l'ostacolo per Salvini e Viminale. Libero Quotidiano il 28 Giugno 2019. Il "bastone tra le ruote" di Matteo Salvini sul caso Sea Watch lo avrebbe messo (di nuovo) la magistratura. Secondo il Corriere della Sera, in un retroscena di Fiorenza Sarzanini, il ministro degli Interni "avrebbe voluto far scattare subito il sequestro della nave" della ong tedesca che due settimane fa ha soccorso 42 migranti nelle acque al largo della Libia, dirigendosi poi verso l'Italia e ferma da giovedì a un miglio dal porto di Lampedusa. "Quando si è capito che la magistratura non avrebbe disposto alcun provvedimento - spiega al Sarzanini -, si è deciso di approfondire la possibilità di arrivare al fermo amministrativo, una misura che potrebbe essere firmata anche oggi". In violazione del decreto sicurezza, sicuramente la ong dovrà pagare una multa fino a 50mila euro per non aver rispettato l'intimazione a rimanere nelle acque territoriali a seguito del rifiuto dell'Italia di concedere il Pos (il permesso a entrare nel porto sicuro), mentre per la confisca della nave serve "la reiterazione commessa con l'utilizzo della medesima nave". Dal Viminale puntano sul fatto che la capitana Carola Rackete abbia acceso i motori e si sia ulteriormente avvicinata nonostante l'alt della Finanza, forzando così di nuovo il blocco. "Proprio su questo potrebbe essere consegnata al prefetto di Agrigento anche una relazione di servizio della Guardia di Finanza".
Sea Watch, la trappola dell'Ue "Fateli sbarcare o sanzioni". L'Europa entra a gamba tesa sulla vicenda Sea Watch e di fatto chiede all'Italia di "fare presto". Angelo Scarano, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. L'Unione Europea adesso mette nel mirino l'Italia e ci "ordina" in modo chiaro di far sbarcare i migranti della Sea Watch. La nave, come è noto, dopo aver forzato il "blocco" del Viminale, adesso è ferma davanti al porto di Lampedusa. La Commissione Ue in questo momento è "in contatto con diversi Stati membri per trovare una soluzione per il trasferimento dei migranti a bordo della Sea Watch 3, ma una soluzione sarà possibile solo dopo lo sbarco". Di fatto Bruxelles attende che venga data l'autorizzazione allo sbarco da parte dell'Italia. Ma su questo punto è muro contro muro col Viminale che ha detto chiaramente "no" ad un attracco della nave in un porto italiano, in questo caso quello di Lampedusa. Per questo motivo, Bruxelles chiede all’Italia "una soluzione rapida" della vicenda. "La Commissione è strettamente coinvolta nel coordinamento con gli Stati membri per trovare una soluzione per il trasferimento dei migranti a bordo del Sea Watch 3 una volta sbarcati -dice Avramopoulos - alcuni Stati membri dimostrano la volontà di partecipare a tali sforzi di solidarietà, ma una soluzione per le persone a bordo è possibile solo una volta sbarcati. Questo è il motivo per cui spero che l’Italia contribuirà a una rapida risoluzione delle persone a bordo. Allo stesso tempo, invito gli altri Stati membri a mostrare solidarietà", ha affermato il commissario europeo all’immigrazione, Dimitrsi Avramopoulos. E ancora: "Continueremo a stare accanto all’Italia e tutti gli Stati membri sotto pressione - aggiunge il commissario Ue - è solo attraverso un approccio europeo congiunto, mano nella mano con i nostri partner esterni, che saremo in grado di trovare soluzioni reali". La posizione di Salvini però non si ammorbidisce: "L'Unione europea non sta facendo nulla e poi perseguita l'Italia per uno 0,1 di infrazione sul deficit, sul debito. Siamo il terzo Paese che paga di più, non scherziamo, non è che paghiamo l'Europa per farci richiamare e poi sull'immigrazione si voltano dall'altra parte". Lo scontro dunque resta aperto. E ad accenderlo ancora di più sono arrivate le parole della portavoce della Commissione, Natasha Bertaud: "Una legge europea precisa che ogni nuovo arrivo sul territorio europeo deve essere registrato e le impronte digitali devono essere registrate in Eurodac. Non ci sono eccezioni a questa regola. La conseguenza sarebbero una procedura di infrazione, ma non siamo a questo stadio". Insomma Bruxelles punta a farci identificare i migranti di Sea Watch per poi lascirceli in Italia come prevede il trattato di Dublino. Un altro schiaffo a un Paese che da anni deve far fronte ai flussi migratori.
Sea Watch, esposto in procura "I migranti privati della libertà". Il Garante nazionale per i diritti dei detenuti ha presentato un esposto alla Procura di Roma sul caso della Sea Watch. Angelo Scarano, Martedì 25/06/2019, su Il Giornale. Nemmeno un istante dopo il respingimento del ricorso alla Cedu, si apre un altro fronte sulla Sea Watch. A entrare sul campo di "battaglia" è il Garante dei detenuti, Mauro Palma. Il Garante infatti ha presentato un esposto alla Procura di Roma. Il Garante di fatto non interviene sulle scelte politiche in merito al "blocco" sullo sbarco imposto dal Viminale, però punta il dito contro "la privazione della libertà personale". Palma fa sapere che "non può nè intende intervenire su scelte politiche che esulano dalla propria stretta competenza. Tuttavia, è suo dovere agire per fare cessare eventuali violazioni della libertà personale, incompatibili con i diritti garantiti dalla nostra Carta, e che potrebbero fare incorrere il Paese in sanzioni in sede internazionale. In particolare, ribadisce che le persone e loro vite non possono mai divenire strumento di pressione in trattative e confronti tra Stati. Ritiene inoltre che la situazione in essere richieda la necessità di verificare se lo Stato italiano, attraverso le sue Autorità competenti, stia integrando una violazione dei diritti delle persone trattenute a bordo della nave". Il Garante ha poi aggiunto: "L’esercizio della giurisdizione italiana sull’imbarcazione sembra inoltre confermato dalla valutazione delle vulnerabilità delle persone a bordo a cui è stato permesso lo sbarco: non può essere però questa la sola via d’uscita dalla situazione presente che, a parere del Garante, sta degenerando". Il Garante infine mette nel mirino il divieto imposto dal Viminale sull'ingrasso della Sea Watch nelle acque territoriali italiane. Su questo punto il Garante nazionale si interroga se "nel caso della Sea Watch 3, sia proprio il pur legittimo esercizio della sovranità da parte del nostro Paese a determinare giurisdizione e responsabilità nei confronti delle persone, incluso almeno un minore non accompagnato, bloccate in condizioni sempre più gravi al confine delle sue acque. Del resto, l’esercizio stesso del divieto e la sua attuazione implicano che il Paese garantisca l’effettività dei diritti derivanti dagli obblighi internazionali alle persone bloccate: di non essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti; di non essere rinviati in Paesi dove ciò possa avvenire; di avere la possibilità di ricorrere contro l’attuale situazione di fatto di non libertà davanti all’autorità giudiziaria; di richiedere protezione internazionale".
La Sea Watch e la "Capitana" eroe fuorilegge. I fatti "certi" della vicenda della nave Ong e della sua "Capitana" ormai novella idolo della sinistra. Panorama il 28 giugno 2019. La Sea Watch si trova ancora davanti al porto di Lampedusa con i suoi 42 migranti a bordo. Ma già alcune cose sono certe, definitive e su queste andrebbe fatto un ragionamento. E' certo che la nave della Ong tedesca (ricordiamolo per i più distratti, la nazione che "seda" i migranti per poterceli rispedire in Italia con maggior agio) ha forzato il blocco navale. Ora. Provate voi, mentre siete alla guida della vostra auto, a non rispettare un "alt" della Polizia o dei Carabinieri ad un posto di blocco. Cosa accadrebbe? Che saremmo inseguiti, fermati, arrestati e la nostra auto sequestrata. In mare la legge è la stessa (l'acqua salata non cambia le regole). Quindi quanto fatto dalla Sea Watch è illegale. E' certo che la sua Capitana, Carola Rackete, (quella che "vengo da una famiglia ricca quindi aiuto gli altri") sia il nuovo idolo della sinistra. Basta guardare i social con gente che addirittura ci racconta che questa ragazza verrà ricordata sui libri di storia per il suo gesto ribelle (ma illegale). Quello che però nei suoi appelli strazianti e nei suoi video commoventi Carola non spiega è: come mai, se la situazione a bordo era così drammatica invece che aggirarsi per 14, dicasi 14 giorni al largo delle acque italiane non si è diretta subito nel porto più vicino? A Malta, in Tunisia, oppure persino negli splendidi porti dell'Olanda, cioè il paese a cui appartiene la Sea Watch, dove ci sarebbe arrivata in 4 giorni? E' certo che il Pd ha subito preso le difese di Carola al punto che diversi suoi esponenti si sono recati a Lampedusa per portare di persona il loro sostegno. E' certo che l'Europa, ancora una volta, ci ha lasciato soli davanti alla questione migranti. Questi sono i fatti. La Sea Watch, Carola e le altre Ong hanno un unico scopo, molto politico e poco umanitario. La cosa triste è che giocano questa sfida al nostro paese sulla pelle di quei migranti (le uniche vittime in tutta questa situazione) che dicono di voler aiutare. Il resto sono chiacchiere da tifosi.
RACKETE DEI MIGRANTI. Da Libero Quotidiano il 25 giugno 2019. "Io voglio entrare. Entro nelle acque italiane con la Sea Watch e porto in salvo i migranti a Lampedusa". Carola Rackete, 31enne tedesca capitana dell'imbarcazione della ong olandese in lotta da giorni con Matteo Salvini e il governo italiano per far sbarcare 42 migranti a bordo della nave sceglie Repubblica per lanciare la sua ultima sfida all'Italia. "Sto aspettando cosa dirà la Corte europea dei diritti dell'uomo. Poi non avrò altra scelta che sbarcarli lì", spiega la Rackete, che così rischierà l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, oltre a una multa e alla confisca della Sea Watch. "So anche questo - dice - ma io sono responsabile delle 42 persone che ho recuperato in mare e che non ce la fanno più. Quanti altri soprusi devono sopportare? La loro vita viene prima di qualsiasi gioco politico o incriminazione. Non bisognava arrivare a questo punto". C'è chi sottolinea come per tutto il tempo in cui è restata ferma alle porte di Lampedusa, la nave avrebbe potuto materialmente recarsi in Olanda, il Paese della Ong, ma con la Rackete questo passa in secondo piano: "I migranti sono disperati. Qualcuno minaccia lo sciopero della fame, altri dicono di volersi buttare in mare o tagliarsi la pelle. Non ce la fanno più, si sentono in prigione. L'Italia mi costringe a tenerli ammassati sul ponte, con appena tre metri quadrati di spazio a testa". A bordo anche tre minorenni "tre ragazzi di 11, 16 e 17 anni". Rackete conferma che Malta "ha negato l'autorizzazione" e nemmeno l'Olanda collabora. Quanto alla Tunisia, "non ha una normativa che tuteli i rifugiati".
Sea Watch 3, la Boldrini: "Vicenda vergognosa per l'Ue". L'ex presidente della Camera Laura Boldrini, interpellata da "Agenzia Nova", definisce la vicenda Sea Watch 3 "terribilmente incresciosa e dovrebbe essere motivo di vergogna per tutti gli Stati dell'Unione europea". Francesco Curridori, Lunedì 24/06/2019, su Il Giornale. "Noi siamo qui a Berlino, al Bundestag, a parlare di diritti umani, a perorare la causa di un nostro connazionale che è stato brutalmente ucciso e a cercare solidarietà, quindi dovremmo capire che quando si parla di diritti umani, i diritti umani sono per tutti, devono essere rispettati per tutti". Così l'ex presidente della Camera Laura Boldrini, interpellata da "Agenzia Nova", interviene sul caso Sea Watch 3 in occasione della visita a Berlino con i colleghi tedeschi della commissione Affari esteri del Bundestag, svoltasi per perorare la causa di Giulio Regeni, il ricercatore italiano rapito e ucciso al Cairo nel 2016. La situazione della nave Sea Watch 3, che fa riferimento all'omonima ong tedesca, è "terribilmente incresciosa e dovrebbe essere motivo di vergogna per tutti gli Stati dell'Unione europea", ha aggiunto la Boldrini, preoccupata del fatto che non si sa ancora nulla di cosa accadrà ai migranti dopo che saranno soccorsi in mare. Secondo la deputata di LeU "ormai a livello europeo vi sia un doppio piano". "Il fatto che non si senta la necessità di trovare una soluzione" denota "veramente una totale chiusura rispetto all'esigenza legittima di vedere rispettati i diritti umani" dei migranti a bordo della Sea Watch 3. Venendo al caso Regeni, la Boldrini ha definito inaccettabili le parole del ministro del Lavoro egiziano, Mohamed Safaan, pronunciate alla riunione dell'Organizzazione internazionale del lavoro tenutasi a Ginevra il 17 giugno scorso. "Il caso Regeni è criminale e non sindacale. Se ne sta occupando la procura egiziana in collaborazione con i magistrati italiani", aveva detto Saafan. Secondo l'esponente del governo del Cairo, il caso Regeni andrebbe trattato come "ogni caso di omicidio commesso in qualsiasi paese del mondo e come l'uccisione degli egiziani o di cittadini di altre nazionalità in Italia".
(ANSA il 26 giugno 2019) - "Ho deciso di entrare in porto a Lampedusa. So cosa rischio ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo". Così la comandante della Sea Watch, Carola Rackete. In 14 giorni, lamenta la ong, "nessuna soluzione politica e giuridica è stata possibile, l'Europa ci ha abbandonati. La nostra Comandante non ha scelta".
(ANSA il 26 giugno 2019) - "Basta, entriamo. Non per provocazione ma per necessità, per responsabilità", sottolinea Sea Watch in un tweet. I tracciati radar marittimi mostrano che la nave è appena entrata in acque italiane e a breve dovrebbe arrivare a Lampedusa, distante solo poche miglia.
(ANSA il 26 giugno 2019) - "L'immigrazione non può essere gestita da navi fuorilegge: siamo pronti a bloccare qualunque tipo di illegalità. Chi sbaglia, paga. L'Europa? Assente, come sempre". Così Matteo Salvini sulla nave Sea Watch 3 che sta entrando a Lampedusa.
(ANSA il 26 giugno 2019) - "Io non do autorizzazione allo sbarco a nessuno, non la do e non la darò mai, nessuno pensi di poter fare i porci comodi suoi sfruttando decine di disgraziati e fregandosene delle leggi di uno Stato. I governi di Olanda e Germania ne risponderanno, sono stufo". Così il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini dopo la decisione di Sea Watch di violare il limite delle acque territoriali.
(ANSA il 26 giugno 2019) - "Chi se ne frega delle regole ne risponde, lo dico anche a quella sbruffoncella della comandante della Sea Watch che fa politica sulla pelle degli immigrati pagata non si sa da chi". Così il ministro Matteo Salvini su facebook. "Se qualcuno pensa che le leggi sono barzellette pagherà fino in fondo", ha aggiunto.
(ANSA il 26 giugno 2019) - "Il comandante ha deciso di entrare a Lampedusa? Sappia che l'autorizzazione allo sbarco non c'è, schiero la forza pubblica, il diritto alla difesa dei nostri confini è sacra". Lo dice il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini annunciando che non consentirà alla Sea Watch di approdare a Lampedusa. "Se in Europa esiste qualcuno ora li dimostri, se c'è governo ad Amsterdam con un po' di dignità lo dimostri", ha aggiunto il ministro.
(ANSA il 26 giugno 201) - Motovedette della Guardia di finanza hanno lasciato il porto di Lampedusa per dirigersi verso la Sea Watch, che sta navigando in direzione dell'isola con 42 migranti a bordo.
(ANSA il 26 giugno 2019) - "Chiamerò il premier Conte ed il ministro Moavero. Non esiste che Paesi europei se ne fottono di quello che fanno navi battenti bandiera del loro Paese. E' un comportamento indegno. L'Unione europea è assente, non esiste, mi sono rotto le palle. C'e' un limite alla sopportazione, i confini di un Paese sono sacri, le leggi si rispettano". Così il ministro Matteo Salvini su facebook, parlando della Sea Watch. "Useremo ogni mezzo legale - ha assicurato il ministro - per fermare questa situazione. I migranti vadano un po' ad Amsterdam, un po' a Berlino e quel che avanza a Bruxelles. Non si capisce perché debba rispondere l'Italia ed i cittadini italiani e questo vale anche per qualche vescovo che dice 'ci penso io'. Basta. Occupiamoci degli italiani in difficoltà, non del resto del mondo che vuole esser mantenuto a spese degli italiani". I deputati del Pd Graziano Delrio (capogruppo alla Camera), Matteo Orfini e Fausto Raciti saranno stasera a Lampedusa "per testimoniare la solidarietà dem ai migranti della Seawatch3 che ha deciso di entrare nelle acque italiane davanti all'isola", informa un comunicato. Una 'staffetta dem' alla quale parteciperà anche il senatore Pd siciliano Davide Faraone. "Sarò questa sera a Lampedusa, alla guida della delegazione dei deputati Democratici che avvieranno la staffetta di presenza nell'isola, per monitorare la situazione della Sea Watch - ha dichiarato Delrio - e continuare la nostra azione contro il comportamento disumano del ministro Salvini che sta tenendo in ostaggio da settimane i naufraghi raccolti dalla nave". "La Sea watch ha scelto di entrare a Lampedusa. Questa sera insieme a una delegazione del Pd e di altri gruppi sarò anche io lì, a ringraziare l'equipaggio per aver salvato delle vite umane - ha scritto Orfini su Twitter -. E a contrastare la barbarie di chi chiude i porti".
(ANSA il 26 giugno 2019) - "Ora più che mai non si può lasciare sola #SeaWatch. Il sostegno dato nei mesi scorsi a Open Arms e Mediterranea oggi si rinnova con ancora più vigore per Carola, il suo equipaggio e i naufraghi a bordo. Nelle prossime ore sarò con loro a #Lampedusa. Restiamo umani". Lo scrive su twitter Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana.
Sea Watch dichiara guerra all’Italia. Andrea Indini il 26 giugno 2019 su Il Giornale. Avrebbe potuto lasciare che la Guardia Costiera libica facesse il proprio lavoro riportando i 53 immigrati clandestini al porto di Zuara. O avrebbe potuto accettare di farli sbarcare in Tunisia, porto sicuro a poche miglia dall’area di recupero. Avrebbe anche potuto evitare il braccio di ferro con l’Italia facendo rotta verso l’Olanda, Paese che le ha dato la bandiera da sventolare sulla nave. Eppure il capitano Carola Rackete non ha fatto nulla di tutto questo. Dopo aver lasciato decine di disperati sotto il sole per due settimane, ha deciso di forzare il blocco e dichiarare guerra a Matteo Salvini e all’Italia. Quella della Sea Watch è stata un’operazione politica in piena regola, messa in piedi apposta per mettere in difficoltà il governo italiano. Sin dall’inizio l’obiettivo era farsi aprire un porto per forzare il blocco imposto da Salvini per fermare, una volta per tutte, gli sbarchi. Una missione sulla pelle degli immigrati che ha infranto svariate leggi e messo a nudo l’incapacità dell’Unione europea di fronteggiare un problema simile. La forzatura di oggi, però, non è come le precedenti operazioni illegali delle varie ong che negli ultimi anni ci hanno riempito le coste di clandestini. La Rackete ha, infatti, deciso di infischiarsene deliberatamente del provvedimento che le è stato consegnato la scorsa settimana dalla Guardia di Finanza e che le intimava “il divieto di ingresso, transito e sosta” nelle nostre acque. Mai prima d’ora le nostre leggi erano state calpestate in modo tanto plateale. “So cosa rischio…”, ha detto il capitano facendo spallucce quando il Viminale le ha ribadito l’altolà. Al loro arrivo a Lampedusa la Rackete e l’equipaggio saranno denunciati, la nave verrà sequestrata e l’ong si beccherà una multa da 50mila euro. Ma sarà sufficiente? Assolutamente no. Anche il capitano della precedente operazione era stato denunciato a piede libero. E la stessa Sea Watch era già stata sottoposta a un sequestro. Ma a cosa era servito? La multa, poi, troverà subito gli euro dei fan dell’accoglienza che stanno già aprendo i propri portafogli per finanziare l’ong tedesca e aiutarla a saldare le sanzioni. Queste misure, fino ad oggi, non hanno funzionato. Certo, il pugno duro di Salvini ha permesso di ridurre drasticamente gli sbarchi, ma le organizzazioni non governative hanno continuato a infischiarsene. La dichiarazione di guerra della Sea Watch merita, a questo punto, una risposta tanto ferma quanto dura. Altrimenti altre imbarcazioni si sentiranno in diritto di fare carta straccia delle nostre leggi e di entrare nei nostri porti anche se questi sono stati chiusi. Con la stessa fermezza che lo ha portato a chiudere tutti porti, Salvini deve trovare il modo più efficace per far capire alle ong che non potranno più calpestare le leggi italiane. La Meloni, per esempio, ha chiesto che l’equipaggio venga immediatamente arrestato e la nave, una volta sequestrata, sia affondata come previsto dal diritto internazionale. “Userò ogni mezzo lecito per fermarli”, ha promesso il leader leghista. L’importante è che la sua risposta sia definitiva affinché questo attacco sia l’ultimo. La guerra, quella vera, è appena iniziata…
Sea Watch, notte in mare davanti al porto di Lampedusa. Salvini: «In un Paese normale ti arrestano». Pubblicato giovedì, 27 giugno 2019 su Corriere.it. È ferma davanti al porto di Lampedusa la nave Sea Watch 3 della Ong tedesca, con a bordo 42 migranti soccorsi al largo della Libia, e al centro di un nuovo braccio di ferro fra associazioni e governo italiano. «Non sono naufraghi ma viaggi organizzati dalla mafia dei trafficanti di esseri umani che con questi soldi comprano armi e droga» ha detto il vicepremier Salvini a «Radio anch’io». Mercoledì la comandante della nave, Carola Rackete, aveva deciso di forzare il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane. Decisione che aveva scatenato le reazioni politiche, il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini minaccia di sospendere l’accordo di Schengen: «In un Paese normale ti arrestato, ti fermano e ti portano via la nave» aveva detto a «Porta a Porta» riferendosi alla decisione della comandante di entrare in acque territoriali italiane. «Io non autorizzo nessuno sbarco - ha precisato poi Salvini - non faccio il giudice ma ci saranno dei magistrati per esaminare la situazione e mi sembra che i reati siano evidenti. C’e’ un paese europeo che e’ l’Olanda che se ne frega, c’e’ la Germania, di cui ha la nazionalità questo equipaggio, che se ne frega, e l’Unione europea al solito dorme». E ancora, rivolgendosi direttamente alla comandante della Sea Watch 3: «La capitana della Sea Watch 3, eroina della sinistra, questa novella eroina del Partito democratico ha dichiarato qualche giorno fa: “io sono nata bianca, ricca e tedesca e ho deciso di fare volontariato nel Mediterraneo”, ma stai a casa tua. Se sei nata bianca, ricca, tedesca e vuoi fare volontariato, fallo in Germania aiuta gli anziani, i disabili». In Rete intanto in molti si mobilitano invece al fianco della capitana della Sea Watch, con l’hashtag #IoStoConCarola. Mentre a Lampedusa continuano gli sbarchi: dieci migranti, probabilmente tunisini, sono arrivati giovedì mattina con un barchino.
Sea Watch 3, l'arroganza di Carola Rackete: la risposta alla Capitaneria italiana. Libero Quotidiano il 26 Giugno 2019. Alle 14 di mercoledì 26 giugno, la Sea Watch forza il blocco navale ed entra in acque italiane alla volta di Lampedusa, in barba alle leggi italiane. Obiettivo, far sbarcare in Italia i 42 immigrati a bordo. Solo in Italia, perché la ong non ha mai preso in considerazioni soluzioni alternative: il gesto è eminentemente politico. La decisione di forzare il blocco navale viene comunicata dalla capitana, Carola Rackete, alla Capitaneria di porto di Lampedusa: "Buonasera, la informo che devo entrare nelle acque territoriali italiane", afferma (il dialogo è stato diffuso da SkyTg24). "Se il vostro stato di necessità è... non posso più garantire lo stato delle persone", afferma la 31enne. E ancora: "Devo far sbarcare le 42 persone che ho a bordo. Virerò la barca, entrerò in acque territoriali". A quel punto la capitaneria chiede di passare su un altro canale, dunque intima: "Non siete autorizzati ad entrare in acque territoriali italiane". Ma la Rackete se ne frega: "Il tempo di arrivo stimato per l'altro porto è di 2 ore", taglia corto. E la conversazione finisce, con Sea Watch lanciata verso Lampedusa e contro l'Italia.
Il fine dei pirati è demolire gli Stati. Gian Micalessin, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Adesso Sea Watch ha calato la maschera e issato la sua vera bandiera. Quella della pirateria umanitaria. Una pirateria che, al pari delle navi corsare al servizio degli stati nazionali del XVII secolo non agisce per fini propri, ma per soddisfare gli interessi di nuove entità sovranazionali poco disposte a metterci la faccia. A garantire la «lettera di corsa» alle navi con teschio e tibie e il soldo ai loro capitani di ventura pensavano, un tempo, Paesi come Inghilterra, Francia e Spagna interessati a bloccare i commerci del nemico senza esibire e le proprie cannoniere. Oggi la pirateria umanitaria interpretata con un tocco di romantico femminismo dalla 31enne Carola Rackete, capitana di Sea Watch, svolge esattamente la stessa funzione. La capitana Rackete che si dice in dovere di forzare il blocco «per salvare 42 naufraghi allo stremo» sa bene di mentire. E sa altrettanto bene che il suo aiuto ai quei 42 «naufraghi» sarebbe stato molto più sollecito se li avesse sbarcati in Tunisia o in qualsiasi altro porto del Mediterraneo raggiungibile durante i 15 giorni trascorsi a comiziare e far politica davanti a Lampedusa. Ma la «lettera di corsa» garantitale formalmente dall'opaca organizzazione umanitaria di cui è al soldo le richiede altro. Le richiede di approdare solo ed esclusivamente in Italia perché solo da quel ventre molle, dove l'anomalia di un esecutivo giallo-verde ostacola la compattezza dell'Unione, può iniziare lo sfondamento dei cancelli della «fortezza Europa». La missione assegnata alla capitana Carola come a tanti altri capitani mercenari è insomma quello di penetrare in Italia per scavare una breccia nelle mura dell'Europa. Ma per conto di chi? La risposta è semplice. Per ottenerla basta seguire il denaro fatto affluire nelle casse di organizzazioni umanitarie come Sea Watch. Nel XVII e XVIII secolo i corsari servivano agli stati nazionali per garantirsi il controllo dei traffici. Oggi i «pirati umanitari» servono a fare carne di porco delle frontiere e delle ingombranti legislazioni nazionali per far spazio ad entità multi o sovra-nazionali. Entità come i giganti del web o le grandi aziende globalizzate che considerano gli stati, i loro confini, i loro sistema fiscali e le loro leggi sul lavoro alla stregua di limitazioni obsolete da abbattere quanto prima. Spazzare via il concetto d'inviolabilità delle frontiere legittimando l'arrivo di manodopera a basso costo da trasformare in futuri consumatori dei servizi delle aziende globali è la via più breve per accelerare la fine dei vecchi stati nazionali. Per questo la vera missione della capitana Carola non è quella di salvare o proteggere il carico umano di cui s'è impossessata andando incontro ai trafficanti e violando la zona di soccorso assegnata alla Libia. La vera missione di questa capitana di sfondamento è riversare quel carico umano nella breccia del vallo italiano per dividere il nostro Paese e spaccare l'Europa. Dribblando i divieti di Salvini e scaricando sulle coste italiane quei 42 migranti utilizzati alla stregua di ostaggi la Capitana avrà esaurito il suo compito. Potrà dimostrare a chi la paga di aver contribuito a inasprire i rapporti tra l'Italia e un'Olanda che offre ai pirati di Sea Watch la sua copertura di bandiera. Potrà consolare le anime belle di una Germania che mentre lascia agire impunemente la concittadina Carola Rackete scarica in Italia migranti narcotizzati e si vanta di aver deportato in un Paese in guerra come l'Afghanistan più di 530 migranti irregolari.
Sea Watch 3, assist della procura alla ong e la rabbia di Salvini: retroscena, perché non sono entrati. Libero Quotidiano il 27 Giugno 2019. Sea Watch 3, dopo aver forzato il blocco navale ed essersi portata davanti al porto di Lampedusa, ha trascorso una ulteriore notte in mare. Inizia il 15esimo giorno di braccio di ferro tra la ong capitanata dalla tedesca Carola Rackete e l'Italia, e il Viminale di Matteo Salvini. E nel frattempo filtrano indiscrezioni su cosa sia accaduto ieri, mercoledì 26 giugno, nelle convulse ore del forzo al blocco, rilanciate da una ricostruzione del Corriere della Sera. Un ruolo su quanto accaduto lo avrebbe avuto la procura. Si parta da una considerazione: il Viminale vuole arrivare al sequestro della nave battente olandese. Ma il decreto sicurezza-bis prevede la possibilità solo in caso di reiterazione del forzo al blocco navale, e questa è la prima occasione in cui è accaduto da che il decreto sicurezza-bis è stato varato. In questo contesto, rivela il quotidiano di Via Solferino, la Guardia di Finanza si sarebbe attivata nella speranza che la magistratura intervenisse ritenendo la nave "corpo del reato". Ma nella serata di mercoledì è trapelata l'intenzione del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, di non procedere. Ed è per questo che si è rimasti al divieto di approdo a Lampedusa. La Sea Watch 3, infatti, s'ipotizzava potesse entrare in porto attorno alle 20.30. Ma così non è stato: per arrivare alla banchina è necessario il via libera delle autorità, che non è arrivato. Questo perché, pare, la procura di fatto si è "schierata" con la ong, lasciando trapelare l'intenzione di fare il meno possibile. Dunque, lo stallo prosegue. Comunque sia, già nelle prossime ore, la Rackete e l'equipaggio potrebbero essere iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, ma vengono esclusi provvedimenti penali più severi. Dunque, conclude il Corsera, per sbloccare la situazione continua a rendersi necessaria una via diplomatica che coinvolta Olanda, Germania e la Ue.
Sfida del ministro all’Ue: Chi arriverà in Italia non sarà più schedato. Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 da Fiorenza Sarzanini e Claudio Del Frate su Corriere.it. «Identificazione di polizia» senza inserire i nominativi degli stranieri nel sistema Schengen: è questa l’arma che Matteo Salvini intende utilizzare per ritorsione contro gli Stati che gli hanno rifiutato aiuto nella vicenda Sea Watch. L’effetto è fin troppo chiaro: l’Italia non sarà più il Paese di «primo ingresso» e dunque i migranti che arriveranno saranno poi liberi di andare altrove a chiedere asilo. Una decisione che in vista dell’estate — con l’arrivo di piccole imbarcazioni sulle spiagge e l’attraversamento della frontiera terrestre in Friuli Venezia Giulia — rischia di distribuire centinaia, forse addirittura migliaia di profughi in tutta Europa. E proprio questa minaccia viene utilizzata in queste ore per convincere Olanda e Germania ad accogliere le 42 persone che sono a bordo, o almeno una parte di essa. La trattativa condotta da Palazzo Chigi e dalla Farnesina prevede che rimangano i minori e chi li accompagna, mentre gli altri dovrebbero essere trasferiti ancora prima di aver chiesto asilo. Quando la comandante Carola Rackete annuncia che forzerà il blocco ed entrerà nelle acque territoriali, al Viminale si sta già cercando un modo per arrivare al sequestro della nave. Ma la strada è tutt’altro che semplice. Il nuovo decreto sicurezza prevede infatti che il prefetto possa ordinarlo soltanto se c’è la reiterazione e dunque non è questo il caso perché è la prima volta che Sea Watch compie un’azione di forza da quando la legge è entrata in vigore. Si attiva così la Guardia di Finanza nella speranza che sia la magistratura a intervenire ritenendo la nave «corpo del reato». In serata si capisce però che il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio non avrebbe alcuna intenzione di procedere e dunque si rimane al divieto di approdo. Del resto per poter arrivare in banchina la Sea Watch ha bisogno del via libera delle autorità che si trovano in porto e su questo Salvini per tutto il giorno ha dettato la linea: «Non devono toccare terra». Già questa mattina Rackete e gli altri membri dell’equipaggio potrebbero essere indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma sembra esclusa la possibilità di provvedimenti penali più severi. Dunque, per sbloccare la situazione rimane la via diplomatica, sia pur con misure pesanti come quelle minacciate dal ministro nelle ultime ore. Attualmente chi arriva in Italia via mare, ma anche via terra, viene identificato, fotosegnalato, gli vengono prese le impronte digitali e tutti i dati vengono inseriti nel «sistema» accessibile da tutti gli Stati dell’Ue. Se davvero si procederà con la semplice identificazione di polizia, gli stranieri saranno liberi di circolare e dunque sarebbe di fatto vanificato il trattato di Dublino che impone al Paese di primo ingresso di prendere in carico il migrante e garantire accoglienza fino alla decisione sulla concessione dell’eventuale asilo. Già in passato l’Italia era finita sotto accusa a Bruxelles proprio per le mancate identificazioni, ma in questo caso si tratterebbe di una vera e propria sfida nei confronti degli altri Stati. Più complicata appare invece la possibilità di alzare il muro in Friuli-Venezia Giulia visto che la frontiera supera i 230 chilometri, ma il pattugliamento congiunto con la polizia slovena e soprattutto la possibilità di sospendere il trattato di Schengen rende concreta l’ipotesi di limitare gli arrivi. In ogni caso si sta pensando di allestire proprio in Friuli-Venezia Giulia un hotspot (il centro di smistamento degli stranieri) all’interno di una caserma per facilitare le procedure di identificazione e gli eventuali respingimenti. Una «blindatura» che Salvini ribadisce nella consapevolezza che il flusso migratorio non si può fermare e dunque nel tentativo di arginare l’effetto negativo degli arrivi via terra, ma anche degli «sbarchi fantasma» che nell’ultimo mese hanno fatto approdare a Lampedusa più di 300 persone e altre centinaia nelle regioni del sud.
Sea Watch, Salvini va allo scontro: "Userò ogni mezzo per fermarli". La nave dell'ong tedesca forza il blocco. Si muovono le motovedette della Marina. Salvini vieta lo sbarco: "Pronto a schierare la forza pubblica". Andrea Indini Mercoldì 26/06/2019 su Il Giornale. Non appena il capitano Carola Rackete ha forzato il blocco entrando in acque italiane, si sono mosse una motovedetta della Guardia di Finanza e una della Guardia costiera per intimare alla nave Sea Watch 3 l'alt. Uno strappo senza precedenti che obbliga Matteo Salvini a intraprendere contromisure altrettanto dure. "Userò ogni mezzo lecito per fermare una nave fuorilegge, che mette a rischio decine di immigrati per uno schifoso giochino politico", annuncia il ministro dell'Interno ribadendo che non darà mai l'autorizzazione allo sbarco.
"Basta, entriamo. Non per provocazione, per necessità, per responsabilità". E sul proprio profilo Twitter che l'ong tedesca lancia l'assalto alle coste italiane. Dopo quindici giorni di stallo, segnati da continue forzature per poter rompere il blocco imposto dal decreto Sicurezza bis, la Rackete decide di entrare nelle acque territoriali italiane calpestando così le nostre leggi e il provvedimento che le era stato portato a bordo dalla stessa Guardia di Finanza. "So cosa rischio ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo - spiega il capitano in un altro post - li porto in salvo". Al loro arrivo a Lampedusa tutti i componenti dell'equipaggio rischiano una denuncia. "Non solo la sbruffoncella della comandante che fa politica sulla pelle degli immigrati...", annuncia Salvini durante una diretta Facebook. E, mentre la Sea Watch 3 va verso il sequestro amministrativo, per l'ong scatta una multa di 50mila euro. Dal Viminale è comunque arrivato subito il divieto assoluto a sbarcare. "Piuttosto schiero la forza pubblica - tuona il vicepremier leghista - i diritti del mio Paese vengono prima di tutto il resto". Attualmente Salvini si sta muovendo su più fronti. Se da una parte punta a far rispettare le restrizioni imposte dal decreto Sicurezza bis, dall'altra cerca di far sentire la propria voce in Europa dove i Paesi, che dovrebbero rispondere delle azioni della Sea Watch, fanno finta di nulla. Da qui le telefonate al premier Giuseppe Conte e al ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi affinché chiedano ai governi olandese e tedesco di fare la propria parte. "Non esiste che ci siano Paesi che ne se fottono", spiega il leghista secondo cui questo strappo dimostra "l'ennesima dimostrazione" dell'inesistenza dell'Unione europea. "I confini italiani sono sacri - incalza - se qualcuno pensa di essere al di sopra della legge ne pagherà le conseguenze fino all'ultimo".
Sea Watch, Salvini alla comandante: "Sbruffoncella". Salvini come Orbán: "Barriere anti-migranti sulla rotta dei Balcani". In tre giorni fermati 150 clandestini al confine. Il ministro: se serve, estremi rimedi. Fausto Biloslavo giovedì 27/06/2019 su Il Giornale. «Se non si riuscisse a interrompere il flusso d'ingresso via terra dalle frontiere orientali non escludiamo alcun tipo di intervento compreso quello di barriere fisiche», spiega il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, nella conferenza stampa di ieri pomeriggio al Viminale. La dichiarazione «bomba» passa in secondo piano rispetto all'emergenza Sea watch, ma dimostra che i migranti arrivano anche via terra nel Nord Est lungo la rotta balcanica. Lo stesso Salvini ammette che i «numeri sono ridotti», per ora. Il problema è che in Bosnia sono bloccati almeno 6mila migranti, ma potrebbero essere di più tenendo conto di quelli non registrati. «E nel nuovo campo non adatto all'emergenza di Vucijak, vicino al confine nord orientale con la Croazia, tutti sono attaccati alle mappe sui telefonini cercando la strada clandestina migliore per raggiungere Trieste», spiega una fonte sul posto del Giornale. Ieri mattina Salvini ha sentito Massimiliano Fedriga, il governatore leghista del Friuli-Venezia Giulia. Dal primo luglio scatteranno i pattugliamenti misti italo-sloveni lungo il confine aperto europeo. Il 23 giugno sono stati fermati a Gorizia 40 migranti. Il giorno prima alle porte di Trieste è stato arrestato un passeur con cinque clandestini. In tre giorni sono stati intercettati almeno 150 migranti nel capoluogo giuliano. Cento in una sola mattina e chissà quanti sono riusciti a fare perdere le tracce passando di notte attraverso il Carso triestino. Rispetto ai 428 fermati in tutto il 2018, nei primi cinque mesi di quest'anno sono già arrivati in 652 escluso giugno. «Contiamo che il pattugliamento misto italo-sloveno dia i suoi frutti - ha dichiarato ieri Salvini - altrimenti a mali estremi, estremi rimedi. Ci sono esempi in Europa di controllo fisico delle frontiere terrestri». Il premier ungherese Viktor Orban ha alzato per primo barriere anti-migranti sui confini, ma oggi pure sloveni e croati stanno erigendo reti e srotolando filo spinato. Questa mattina il governo bosniaco discuterà provvedimenti simili e l'intervento dell'esercito sui punti caldi, come la frontiera nord occidentale con la Croazia vicina a Bihac. «Spero di non essere costretto ad arrivare a tanto, ma se non si riuscisse di interrompere il flusso d'ingresso via terra - ha rivelato il ministro dell'Interno - non escludiamo alcun tipo di intervento compreso quello di barriere fisiche». Un «muro» anti-migranti a Nord Est è ancora lontano, ma se la situazione degenerasse Fedriga chiederà al governo la sospensione del trattato di Schengen, sulla libera circolazione tra i Paesi Ue, per fermare i migranti. Gianfranco Schiavone, ultrà dell'accoglienza a Trieste, ha spiegato che «da gennaio a giugno ne abbiamo contati un migliaio, ma non possiamo parlare di emergenza. L'incremento degli arrivi dei migranti dalla rotta balcanica fa parte della normalità dei flussi estivi». Se salta l' imbuto bosniaco ne arriveranno molti di più. I turchi hanno bloccato, solo in maggio, 27.536 migranti verso la rotta balcanica attraverso l'Egeo. Dall'inizio dell'anno sono passati per la Bosnia quasi in 10mila. Per il 90% sono uomini afghani, iracheni, indiani, bengalesi, marocchini, algerini. Il 40% sarebbero pachistani, che non hanno diritto all'asilo. A Trieste quando sono stati scoperti in 100 una sola mattina venivano in gran parte dal Pakistan, ma hanno detto subito, imbeccati dalle Ong, di volere presentare domanda di protezione internazionale. E gli agenti italiani non hanno potuto rimandarli indietro.
Affondiamo? È tutta questione di… salvaguardia. Alessandro Bertirotti il 27 giugno 2019 su Il Giornale. Dunque, anche la Corte di Strasburgo respinge il ricorso della Sea Watch. Insomma, rifiuta l’istanza della Ong tedesca, che, con la sua imbarcazione e la capitana continua a fluttuare nel mare, stracolma di povera gente. Oltretutto, è bene sapere qualcosa di più su questa Ong così buona, e lo scoprire qui. Le ultime notizie rivelano che la nave ha forzato il blocco, e che la Guardia di Finanza è a bordo. Ora le conseguenze. Però, cosa significa, in pratica e in sostanza, tutto questo? Significa, semplicemente, che con questo Governo, rispetto ai precedenti, emerge chiaramente la reale natura di questa Europa: egoista, divisa, menefreghista, ipocrita e scandalosamente fiera di essere tale. Eh, sì! Altrimenti, le cose sarebbero ben diverse. Avremmo avuto, da tempo, azioni concrete per risolvere un problema che è, come molti dicono da tempo, me compreso, una questione europea e non solo italiana. Invece, abbiamo dovuto, forse giustamente, attendere l’avvento di un Ministro degli Interni come Matteo Salvini per fa comprendere a tutti che l’atteggiamento europeo verso l’Italia è immorale, politicamente denigratorio. In effetti, non solo questa Europa (e quanto parlo di Europa mi riferisco sostanzialmente alla Francia e alla Germania, perché tutti gli altri Paesi sono ridicoli invitati alla festa, senza nemmeno sapere danzare…) è totalmente inadeguata ad affrontare un flusso organizzato, voluto e gestito di carne umana, di povera carne umana, ma ha imposto tale gestione alla misera Italia, che di miseria interna, appunto, ne ha da vendere. Ora, dopo questo atto di Strasburgo, interviene il Garante nazionale per i diritti dei detenuti, con un esposto alla Procura di Roma. Giustamente, se si intravvede un atteggiamento contro i diritti umani, si deve intervenire e subito, dico io. Sì, secondo lui, si tratta di privazione della libertà personale. Inoltre, Mauro Palma, così si chiama il Garante, afferma che “non può, né intende intervenire su scelte politiche che esulano dalla propria stretta competenza. Tuttavia, è suo dovere agire per fare cessare eventuali violazioni della libertà personale, incompatibili con i diritti garantiti dalla nostra Carta, e che potrebbero fare incorrere il Paese in sanzioni in sede internazionale. In particolare, ribadisce che le persone e loro vite non possono mai divenire strumento di pressione in trattative e confronti tra Stati”. Ritiene inoltre che “la situazione in essere richieda la necessità di verificare se lo Stato italiano, attraverso le sue Autorità competenti, stia integrando una violazione dei diritti delle persone trattenute a bordo della nave”. Ma, non solo, continua: “Del resto, l’esercizio stesso del divieto e la sua attuazione implicano che il Paese garantisca l’effettività dei diritti derivanti dagli obblighi internazionali alle persone bloccate: di non essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti; di non essere rinviati in Paesi dove ciò possa avvenire; di avere la possibilità di ricorrere contro l’attuale situazione di fatto di non libertà davanti all’autorità giudiziaria; di richiedere protezione internazionale”. Come potete leggere, la situazione è davvero complicata. Mi chiedo? È mai possibile che tutte queste legittime ed umane garanzie le debba applicare la nostra nazione, senza il minimo intervento europeo, specialmente ora che la nave è in acque italiane?. Anche la stessa Boldrini si è interessata con la Germania, per risolvere il problema, facendo sapere pubblicamente che si era messa in contatto con il governo tedesco. Se l’Italia non garantisce la libertà a persone in mare, a bordo di qualche nave che basa la propria esistenza sul traffico di merce umana (ricevendo, ovviamente, fior di soldi…) è mai possibile che gli Stati Membri di questa Europa non possano essere accusati di complicità in questa assenza di garanzia dell’Italia? Siamo solo noi i colpevoli, benché sulla nostra Carta costituzionale affermiamo principi che sono altrettanto ammessi nelle altre carte costituzionali? Dunque, cominciamo a produrre qualche atto legale utile. In primis, contro questa decisione della Sea Watch di violare il territorio italiano, visto che dovrebbe essere ancora garantita la sovranità nazionale, da quello che so. E poi, altri atti legali, contro l’Europa intera, invece di prendercela con coloro che, governanti, cercano di porre la questione al livello che merita, ossia internazionale e non italiano. Come sapete, però, non è possibile compiere questi atti, perché noi siamo stati firmatari di tutti i trattati europei. Cosa possiamo fare, allora? Possiamo produrre atti legali contrari alla legislazione europea stando in Europa, come atti di riforma e abrogazione. Ma uno Stato membro, da solo, non può emanare atti contro l’Europa. Ecco qual è la situazione, reale e concreta. E ricordiamoci che, in fondo, siamo un popolo destinato a morire più velocemente di altri, grazie al “mangia mangia istituzionale” e il debito pubblico. Un po’ di compassione anche per noi, povera gente.
Sea Watch: basta col moralismo coi rasta che vuole l’Italia puttana e pattumiera. Emanuele Ricucci il 26 giugno 2019 su Il Giornale. Percepire l’inutilità della protesta. Nulla. Sentirsi inutili, impotenti, sterili spettatori di qualcosa che ci riguarda come sovrani, ma di cui siamo completamente succubi.
“Il governo olandese non può far finta di nulla: una nave battente bandiera dei Paesi Bassi ha ignorato i divieti e gli altolà e sta facendo rotta a Lampedusa. È una provocazione e un atto ostile: avevo già scritto al mio omologo olandese, e ora sono soddisfatto che l’Ambasciatore d’Italia all’Aja stia facendo un passo formale presso il governo dei Paesi Bassi. L’Italia merita rispetto: ci aspettiamo che l’Olanda si faccia carico“. Così parlò Salvini, poco fa sul caso Sea watch, ormai giunta in acque italiane dopo aver forzato il blocco imposto (consegnatole la scorsa settimana dalla Guardia di Finanza, non da una squadraccia di fascisti di mare).
NON scrivo mai di immigrazione, tanto meno delle sue dinamiche.
NON sono affatto, deo gratias, un ennesimo esperto di politica internazionale.
NON mi appassiona il tema immigrazione, preferisco appassionarmi alla lenta morte d’Italia, perché di quella sono, mio involontario malgrado, responsabile anche io, come figlio della storia. Quella sì che ci riguarda. Come ci riguarda, però, anche un caso simile a quello della Sea Watch, con una semplice, magrissima, volutamente poco intellettuale e provocatoria riflessione di stampo estetico, e forse, futile, ma del resto liberatoria, condannati gli italiani come sono, a strillare simili a bestie nel recinto virtuale della propria impotenza (in materia d’immigrazione ed Europa, poi, non ne parliamo): una sciatta con i fusilli in testa, figlia di papà, gioca con la vita di oltre trenta uomini, infrange leggi internazionali, contribuendo a rendere il mondo ancora più ridicolo, e non si sentono fischiare proiettili d’avvertimento? Qualcuno che ha ben più potere di me, faccia la cortesia di parlare con i social media manager delle pagine dell’Esercito, della Guardia Costiera, della Marina Militare, per il cui operato va il più profondo rispetto, chiedendo di evitare di postare video “per uomini veri” in cui si vedono i nostri militari passamontagnati intervenire in 1,8 secondi nell’atto di abbordare navi nella difesa delle nostre coste. Questa volta, il mondo dice di non farlo, l’istituzione dice di non farlo, la Corte Europea dice di non farlo, l’Italia dice di non farlo.
Tutti, stavolta, dicono di non sbarcare, non fosse altro perché in uno Stato legittimamente riconosciuto, democratico e “sovrano”, c’è quel vizio, ogni tanto, magari dopo i pasti, di applicare le leggi, anche se per taluni svuotati d’ogni coscienza, l’unico ruolo dell’Italia dovrebbe essere quello di gran puttana e pattumiera del mondo, eterna migrante, precaria, senza Dio, né confine, senza reazione mentre viene penetrata in un angolo buio del villaggio globale, senza ardore, senza storia, né volto millenario, terra da calpestare. Tutto dicono di non farlo. E quella coi fusilli in testa cosa fa? Lo fa! Sbarcatela lei, sì, ma in carcere. Domani mi carico un migrante sulle spalle e vado a fare una cazzo di rapina in banca. Chiunque può tenere sotto scacco un Paese fantoccio, con chiunque a rappresentarlo al Governo, poco importa. Chiunque. Senza troppi sofismi. Qui, dunque, si apre uno scenario ben più alto del dramma dell’immigrazione: della dignità di questo Paese cosa rimane? La capitana coi fusilli, disgraziata, voleva fare qualcosa di utile? “Avrebbe potuto lasciare che la Guardia Costiera libica facesse il proprio lavoro riportando i 53 immigrati clandestini al porto di Zuara” – scrive Andrea Indini sulle colonne di questo giornale – “o avrebbe potuto accettare di farli sbarcare in Tunisia, porto sicuro a poche miglia dall’area di recupero. Avrebbe anche potuto evitare il braccio di ferro con l’Italia facendo rotta verso l’Olanda, Paese che le ha dato la bandiera da sventolare sulla nave“. Da italiano, proprio come riporta la mia carta d’identità, mi sono rotto i coglioni del moralismo coi rasta, sempre più elevato di ogni sentore, raziocinio ed esigenza nazionale, di essere preso per il culo da porci che pensano esclusivamente al loro business, che se ne fottono della vita, dei confini, dell’umanità da difendere. E che, neanche a dirlo, cercano solo, insistentemente il morto per legittimare il loro perverso tornaconto ideologico, difesi scervellatamente dalla generazione “signore con i capelli bianchi che fa giovane, coi sandali, il mare irrinunciabile l’estate almeno tre settimane tra Puglia e Grecia, l’impegno sociale, lo yoga e i figli alla privata, ma tanto legate al dramma dei migranti”. Ben dice il filosofo Regazzoni: “Se qualcuno in nome del Bene di cui si autoproclama incarnazione agisce in dispregio delle leggi, delle decisioni politiche e dei confini di un paese democratico è auspicabile che ne paghi le conseguenze. Perché non è un eroe: è come minimo un irresponsabile. Chiunque appoggi questa modalità integralista di affrontare (o usare) problemi complessi come quello dell’immigrazione oggi fa un danno in primo luogo alla causa che vorrebbe difendere“. Mi sono rotto i coglioni di vedere l’Italia, ancora una volta, sodomizzata dai lanzichenecchi del pensiero, della vita, del tempo.
L'ultima fake news di Saviano: "Più morti in mare con la Lega". Il Giornale Giovedì 27/06/2019. Roberto Saviano dà i numeri sui migranti in televisione, negando che la politica del governo abbia fatto diminuire i morti nel Mediterraneo. Un monologo senza contraddittorio durato una ventina di minuti, corredato da immagini strappalacrime sui salvataggi in mare, quello concesso allo scrittore di Gomorra durante Carta Bianca, la trasmissione di Bianca Berlinguer su Rai3. Un duro atto di accusa che fa infuriare il direttore de il Giornale Alessandro Sallusti, in collegamento video. Sullo schermo scorrono i dati dell'Unhcr che mostrano come dalle 3.243 persone decedute in mare, nel 2014 si è scesi a 1.279 decessi nel 2018 e a 314 nel 2019. Per Saviano, però, non è vero che la politica di Salvini dei porti chiusi fa morire meno persone in mare. Sallusti si infuria perché la conduttrice fa parlare a ruota libera Saviano sulla tv pubblica senza mettere in discussione i numeri che fornisce e senza sottolineare che invece «Salvini ha fatto morire 4mila persone in meno». Il fatto è che Saviano parla «in percentuale», come la Berlinguer cerca di sottolineare per placare le ire del direttore: «Sono diminuiti in proporzione agli arrivi», dice.
Carmine Massimo Balsamo per Il Sussidiario il 28 giugno 2019. Caso Sea Watch 3, Saviano-Sofri contro Salvini: bufera social per il duro attacco dei due giornalisti nei confronti del ministro dell’Interno. Negli ultimi giorni è scoppiato un nuovo caso migranti: come vi abbiamo raccontato: la capitana della nave Carola Rackete ha ignorato gli ordini della Guardia Costiera ed ha tentato a più riprese di fare sbarcare i 42 migranti. Salvini ha preso una posizione netta sul fatto, non risparmiando attacchi diretti e critiche. E, come ricorrente, il capo del Viminale è finito nel mirino dei suoi storici oppositori: «Salvini e la Sea Watch? E’ vergognoso, passerà alla storia. Chi non lascia entrare la barca passerà veramente alla storia come un mentecatto. Non vorrei essere suo figlio proprio. Non lo invidio proprio, pensa uno che passerà alla storia così. Già sicuramente a scuola si vergogna. Se è un ragazzo intelligente, di sicuro», così Oliviero Toscani a La Zanzara, ma Adriano Sofri è andato ancora oltre…Nella sua rubrica su Il Foglio, intitolata Piccola posta, l’ex leader di Lotta Continua ha insultato così Salvini: «Senti, brutto stronzo. Ti piace insultare una giovane donna in gamba a nome del governo italiano, eh? Maramaldo. A nome degli italiani, 60 milioni? Pallone gonfiato, ceffo vigliacco. Ti sei rotto le palle, eh? Coglione. Te li sudi tu i tuoi selfie, eh? Disgustoso gradasso. Non è granchè, ammetto. Sento che si può fare di meglio, cioè di peggio. Tu sì, mezza calzetta, tu puoi, fatti un altro selfie, completa tu a piacere. Controfirmo tutto». E Saviano ne ha approfittato, condividendo l’articolo sui social e scrivendo: «Condivido con voi l’analisi politica più lucida degli ultimi mesi. Grazie Adriano!», con il “celebre” hashtag #ministrodellamalavita finale. Non è tardata ad arrivare la replica di Matteo Salvini, che promette querele: «Essere insultato dal pregevole duo Sofri-Saviano mi rende ancora più orgoglioso del mio lavoro in difesa del Popolo Italiano! Bacioni e querele».
Sofri-Saviano choc su Salvini: "Brutto str... e ceffo vigliacco". Sofri pubblica sul Foglio un commento choc contro Salvini: "Coglione, disgustoso gradasso". Saviano condivide. E il leghista li querela. Sergio Rame, Venerdì 28/06/2019, su Il Giornale. "Bacioni e querele". Con queste parole garbate Matteo Salvini commenta la violentissima rubrica Piccola posta pubblicata da Adriano Sofri sul Foglio e condivisa su Facebook da Roberto Saviano. L'argomento è, ovviamente, il caso della Sea Watch 3. E, come tutti i progressisti italiani, anche l'ex leader di Lotta Continua si mette in fila ad attaccare il ministro dell'Interno. Lo fa usando insulti e parolacce. Un profluvio di volgarità senza precedenti che solletica a tal punto l'autore di Gomorra da spingerlo a rincarare la dose con un post durissimo. "Senti, brutto stronzo". Inizia così la rubrica di Sofri. E continua peggio: "Ti piace insultare una giovane donna in gamba a nome del governo italiano, eh? Maramaldo". È un insulto via l'altro. Poi continua così: "A nome degli italiani, 60 milioni? Pallone gonfiato, ceffo vigliacco. Ti sei rotto le palle, eh? Coglione. Te li sudi tu i tuoi selfie, eh?". E ancora: "Disgustoso gradasso. Non è granchè, ammetto. Sento che si può fare di meglio, cioè di peggio. Tu sì, mezza calzetta, tu puoi, fatti un altro selfie, completa tu a piacere. Controfirmo tutto". Un rancore mai visto e messo nero su bianco. Questo scritto avrebbe dovuto suscitare lo sdegno di tutti. Ma così non è stato. Saviano si è subito schierato al fianco dell'ex leader di Lotta Continua e ha condiviso il commento aggiungendo, a sua volta, parole al vetriolo contro il leader del Carroccio. "Condivido con voi l’analisi politica più lucida degli ultimi mesi - si legge su Facebook - grazie Adriano!". Ovviamente Salvini non ha lasciato correre ma ha risposto immediatamente. Non ha usato toni inqualificabili come i suoi avversari, ma ha giustamente passato la pratica ai suoi legali. "Essere insultato dal pregevole duo Sofri-Saviano mi rende ancora più orgoglioso del mio lavoro in difesa del popolo italiano", ha scritto su Twitter annunciando, appunto, che querelerà sia Sofri sia Saviano. Anziché fare mea culpa, Saviano ha risposto all'annuncio della querela con un nuovo post velenosissimo. "Ministro, mi aspetto almeno un Editto Reale - scrive l'autore di Gomorra - potrebbe incaricare Ginotto Di Maio per notificarmelo. Mi pare ’nu guaglione affidabile". Al limite non c'è mai fine.
Gino Strada difende Sea Watch: "Resistono ai criminali politici". Anche Gino Strada difende la capitana e torna ad attaccare Salvini: "Bisogna far piazza pulita di questo coacervo di fascisti e coglioni". Sergio Rame, Venerdì 28/06/2019 su Il Giornale. Alla festa per i 25 anni di Emergency vanno in scena ancora una volta gli insulti. È, infatti, bastato mettere un microfono davanti a Gino Strada per farlo iniziare ad attaccare a testa bassa Matteo Salvini. "La soluzione è fare piazza pulita di questo coacervo di fascisti e coglioni", tuona il fondatore dell'associazione umanitaria (guarda il video) prendendo apertamente le difese di Carola Rackete, il capitano della Sea Watch 3 che infrangendo il blocco del Viminale ha portato la nave carica di immigrati clandestini davanti al porto di Lampedusa. Per festeggiare i suoi 25 anni di impegno Emergency torna nella città dove è nata, Milano, in una tre giorni all'insegna dell'hashtag "di guerra e di pace. "Da 25 anni Emergency mette in pratica un'idea molto semplice: cura chiunque ne abbia bisogno - spiega Strada - nulla di eroico, è il nostro dovere, la nostra resistenza: mettere in pratica, ogni giorno, in tutti i nostri progetti, i diritti umani. È questo il nostro contributo, che ci ha portato a curare oltre 10 milioni di persone. E sarà anche una goccia nell'oceano, però è una bella goccia". Il volto umanitario dell'associazione nasconde, tuttavia, quello più politico. E basta stare ad ascoltare il fondatore per capirlo. Il focus è ovviamente l'emergenze immigrazione e la lotta che Salvini ha messo in campo contro le ong che operano nel Mediterraneo. "Non è stato lui a cominciare, ma il suo predecessore Marco Minniti", attacca condannando sia il respingimento dei migranti ("È un atto disumano") sia "la politica di criminalizzare le ong". Ovviamente, nella vulgata di Strada non c'è spazio per la verità. E così non parla degli interessi (anche economici) legati al business dell'immigrazione né ai pericolosi contatti con i trafficanti di esseri umani. Né, tantomeno, ammette che da quando i porti italiani sono stati chiusi sono sì diminuiti gli sbarchi, ma sono soprattutto diminuiti i morti in mare. Nel suo intervento Strada trova ovviamente l'occasione per dare il proprio sostegno alla Rackete. "Il capitano e tutto l'equipaggio della Sea Watch hanno tutta la mia completa solidarietà", spiega. Anche sul caso della nave dell'ong tedesca, non gli interessa che per arrivare fino a Lampedusa il comandante ha infranto svariate leggi. Anzi, dice pure che "stanno resistendo contro dei criminali politici" che andrebbero addirittura "perseguiti per legge".
Fico insiste: "Chiudere i porti ai migranti non è soluzione". "I migranti in mare devono essere salvati sempre, senza se e senza ma. Non penso che chiudere i porti sia una soluzione di governo dell'immigrazione". Così il presidente della Camera, Roberto Fico (M5s), in un'intervista a Repubblica. Gianni Carotenuto, Mercoledì 26/06/2019 su Il Giornale. "Non penso che chiudere i porti sia una soluzione di governo dell'immigrazione. I migranti in mare? Devono essere salvati sempre, senza se e senza ma". In un'intervista a Repubblica, Roberto Fico prosegue la sua battaglia per i porti aperti. Ancora una volta, il presidente della Camera bacchetta il governo e in particolare il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, che da due settimane dice no all'ingresso nelle acque territoriali italiane della Sea Watch 3 e del suo carico di 42 migranti. È di ieri la decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo di respingere il ricorso della nave battente bandiera olandese, seguita da un esposto presentato alla Procura di Roma dal Garante dei detenuti che ha puntato il dito contro la "privazione della libertà personale" dei 42 clandestini. Una vicenda che il presidente di Montecitorio, esponente di punta del Movimento 5 Stelle, commenta così: "Non penso che chiudere i porti sia una soluzione di governo dell'immigrazione. Servono regole certe, criteri giusti, corresponsabilità europea. A Lampedusa arrivano 100 migranti mentre la Sea Watch è al largo. L'Italia è assolutamente in grado di gestire il salvataggio di quelle persone e la battaglia vera deve farla in Europa per la revisione del regolamento di Dublino. Bisogna far comprendere che la gestione dei migranti in mare, che devono essere salvati sempre senza se e senza ma, deve essere comune", dichiara Fico. Che, subito dopo, respinge con forza la convinzione di Salvini sulla necessità di "chiudere il mare": "Non siamo in una situazione di emergenza, le persone che arrivano sono gestibili in totale sicurezza. E l'Europa deve poi farsene carico. Deve farlo con l'Italia, con la Spagna, con la Grecia". Parole con cui il presidente della Camera conferma ancora una volta la sua posizione a favore dell'immigrazione. Lo aveva già fatto il 30 giugno 2018, quando aveva incensato il "lavoro straordinario" delle ong che "salvano i migranti" nel Mediterraneo. Mentre lo scorso 2 giugno aveva dedicato il giorno della Festa della Repubblica "a migranti e rom", scatenando così un mare di polemiche.
Lo schiaffo di Casarini: "Pagheremo la multa per l'ong di Sea Watch". Casarini, capo missione di Mediterranea, sostiene la "capitana" che con Sea Watch ha forzato il blocco imposto dal Viminale. Angelo Scarano, Mercoledì 26/06/2019 su Il Giornale. Anche Mediterranea entra nella bagarre Sea Watch. L'ong italiana di fatto appoggia la manovra "fuorilegge" della nave umanitaria che forzando il blocco del Viminale si sta dirigendo verso Lampedusa con la pretesa di far sbarcare i migranti. A dare sostegno alla "capitana" Carola Rackete è Luca Casarini, capo missione di Mediterranea. "Diamo il massimo sostegno a Carola Rackete, il comandante della Sea Watch che ha deciso di approdare a Lampedusa in quanto responsabile delle persone salvate. Stiamo già raccogliendo i soldi per pagare l'eventuale multa. Vale più una vita umana", ha affermato all'Adnkronos. A questo punto Casarini contesta anche la sentenza della Cedu che aveva respinto il ricorso contro l'Italia della stessa Sea Watch. Per Casarini, "la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo è poco coraggiosa, un prendere tempo: usa il pretesto di dire 'sono in acque internazionali' ma sostiene di dare assistenza alle persone. E' una sentenza alla Ponzio Pilato, come se non ci fossero convenzioni internazionali. Ma i naufraghi devono approdare nel porto sicuro più vicino: è evidente che quello di Tripoli non lo è. Il porto più vicino rispetto a dove sono stati salvati i migranti in acque internazionali secondo le convenzioni è Lampedusa". Infine contesta le scelte del ministro degli Interni che di fatto ha chiuso i porti: "La Convenzione di Amburgo prevede il soccorso per chi è in difficoltà e questo finisce quando i naufraghi vengono assicurati a un luogo dove vengono rispettati i diritti umani, dove viene fornita assistenza e cura. Andare da un'altra parte avrebbe voluto dire violare questo trattato. Inoltre, secondo l'articolo 33 della Convenzione di Ginevra, non si possono respingere i migranti di guerra. Le convenzioni internazionali hanno valore di rango costituzionale: c'è una gerarchia di leggi da rispettare. Siamo in un mondo alla rovescia dove chi salva vite viene accreditato come il colpevole". Insomma la "galassia" buonista si prepara a sostenere la battaglia legale che inevitabilmente Sea Watch e la "capitana" dovranno affrontare.
Da Lerner alla Boldrini: l'esultanza per la Sea Watch "fuorilegge". Lerner, Bolrdini, sinistra e Pd esultano per la mossa della "capitana" della Sea Watch che ha forzato il blocco imposto dal Viminale. Angelo Scarano, Mercoledì 26/06/2019 su Il Giornale. La sinistra è già a bordo della Sea Watch. Dopo l'annuncio della "capitana" che ha forzato il blocco voluto dal Viminale, i "buonisti" esultano approvando la mossa della ong che si sta dirgendo verso Lampedusa ignorando i divieti sull'ingresso nelle nostre acque territoriali. Il primo a "far festa" è Gad Lerner che su Twitter non usa giri di parole e attacca in modo duro il vicepremier Salvini: "Quelli che sogghignano per le esibizioni di cattiveria in faccia ai #migranti della #SeaWatch3 ("possono star lì fino a Natale") ricordino che pur vincendo le elezioni restano una minoranza di questo paese. Che tace, sopporta, ma un giorno si vergognerà perché è migliore di loro". A stretto giro interviene la Boldrini: "Un governo incapace e sadico si accanisce sulle Ong e lascia 43 persone in mare solo per fare propaganda sulla loro pelle. Vergognatevi, adesso basta, fateli scendere!". Ma non finisce qui. Il Pd, come aveva già fatto in passato per il caso Diciotti, ha deciso di dar vita ad una nuova passerella, questa volta a Lampedusa. "Già questa sera i parlamentari del Pd Graziano Delrio, Davide Faraone, Matteo Orfini e Fausto Raciti saranno a Lampedusa per testimoniare la solidarietà dem ai migranti della Sea Watch3 che ha deciso di entrare nelle acque italiane davanti all'isola", hanno fatto sapere dalle parti del Pd. E Orfini esplicita meglio la "missione" dem: "La #seawatch ha scelto di entrare a Lampedusa. Questa sera insieme a una delegazione del pdnetwork e di altri gruppi sarò anche io lì, a ringraziare l’equipaggio per aver salvato delle vite umane. E a contrastare la barbarie di chi chiude i porti". Anche Sinistra Italiana-Leu è pronta per la "missione Lampedusa": "Ora più che mai non si può lasciare sola #SeaWatch. Il sostegno dato nei mesi scorsi a Open Arms e Mediterranea oggi si rinnova con ancora più vigore per Carola, il suo equipaggio e i naufraghi a bordo. Nelle prossime ore sarò con loro a #Lampedusa. Restiamo umani". Insomma la sinistra si è subito imbarcata sulla nave "fuorilegge" che ignora le norme e forza i blocchi in mare.
Sea Watch 3, Laura Boldrini insulta: "Governo sadico e incapace, fateli sbarcare subito". Libero Quotidiano il 26 Giugno 2019. Dopo che la Sea Watch 3 ha forzato il blocco previsto dall'Italia, entrando nelle acque territoriali, Laura Boldrini è scesa in campo. Logicamente la fu presidenta si è schierata con Carola Rackete, il capitano della nave che ha violato le leggi: "Un governo incapace e sadico si accanisce sulle Ong e lascia 43 persone in mare solo per fare propaganda sulla loro pelle" ha tuonato la Boldrini su Twitter. A seguire il suo esempio anche diversi membri del Pd, tra questi Matteo Orfini, Graziano Delrio, Davide Faraone e Fausto Raciti, che questa sera, mercoledì 26 giugno, saranno a Lampedusa per testimoniare la solidarietà dem ai migranti della Sea Watch. Un'idea che non è arrivata dalla loro bontà d'animo ma, con discreta probabilità, da Massimo Giannini. La firma di Repubblica, ospite a Cartabianca nella puntata di martedì 25 giugno, ha criticato la sinistra per non essere ancora stati - in più di tredici giorni di tempo - sull'isola. Secondo Giannini, una sinistra seria sarebbe stata da giorni al porto "ed è per questo - ha aggiunto - che Lega e M5s hanno autostrade davanti a loro. Il Pd non sa fare opposizione". Difficile dargli torto. Di seguito il tweet di Laura Boldrini: Un governo incapace e sadico si accanisce sulle ONG e lascia 43 persone in mare solo per fare propaganda sulla loro pelle. Vergognatevi, adesso basta, fateli scendere! #SeaWatch3
Sea Watch 3, Laura Boldrini ad Agorà: "Carola Rackete un'eroina". La menzogna: che caso, cosa scorda. Libero Quotidiano 27 Giugno 2019. Siamo ad Agorà, il programma di approfondimento politico in onda su Rai 3. Si parla del caso Sea Watch 3 e ospite in studio c'è Laura Boldrini, la quale ovviamente si schiera con veemenza al fianco della ong, degli immigrati e della comandante Carola Rackete. La fu presidenta spiega che un caso come questo "si conclude quando le persone vengono lasciate in un porto sicuro". Dunque, aggiunge: "In Libia c'è la guerra, ci sono i morti, bombardamenti su ospedali e aeroporti. Ha fatto bene la capitana a non portare queste persone in un posto in guerra: allora sì che avrebbe violato le leggi internazionali". Peccato però che la Boldrini scordi di citare il fatto che Sea Watch 3 non abbia interpellato la Tunisia, ritenuta porto sicuro, e men che meno Malta, due approdi più vicini rispetto a Lampedusa. Ma l'obiettivo della ong è politico, è creare un caso attorno a Salvini, dunque arrivare in Italia. E questo, ovviamente, la Boldrini non lo dice. Infine, l'ex presidente dalla Camera, conclude aggiungendo: "Quindi certo che Carola Rackete è un'eroina, perché fino in fondo si assume le sue responsabilità. E mette il rispetto del diritto e la legge dell'umanità al primo posto", conclude.
Sea Watch 3, Nicola Fratoianni insulta Giorgia Meloni: "Delirante, cattiva. Sarà il caldo?" Libero Quotidiano il 27 Giugno 2019. Dopo il forzo del blocco e l'ingresso di Sea Watch 3 in acque territoriali italiane, Giorgia Meloni ha picchiato durissimo. In un video pubblicato sui suoi canali social, la leader di Fratelli d'Italia ha invocato l'arresto dell'intero equipaggio della ong e, dunque, prima il sequestro e poi l'affondamento della nave, illegale, battente bandiera olandese. Parole alle quali Nicola Fratoianni, il pasdaran pro-immigrazione di Sinistra Italiana, ha deciso di replicare con un ulteriore video. Pieno zeppo di insulti: "Ho visto soltanto ora il video dell'onorevole Meloni contro Sea Watch 3 - premette -. Delirante, cattivo. Sarà il caldo di queste ore", aggiunge. Fratoianni, lo si ricorda, in passato è salito più volte a bordo delle ong che richiedevano di attraccare in Italia, in barba alle regole. Ora, si attende una contro-replica della Meloni.
Vauro tifa la Sea Watch 3 contro Salvini: "Abbasso il Capitano e viva la Capitana!" Il vignettista gongola per il fatto che la Sea Watch 3 abbia forzato il blocco, entrando in acque italiane. Pina Francone, Mercoledì 26/06/2019 su Il Giornale. " M il Capitano, W la Capitana!". Vauro Senesi gongola per il fatto che la Sea Watch 3 abbia forzato il blocco, entrando in acque italiane e puntando dritto verso il porto di Lampedusa. Il vignettista segue in diretta la vicenda e ha già sfornato un disegno a commento della querelle, cogliendo l’occasione – ovviamente – per dare contro a Matteo Salvini, tifando invece sfegatatamente l'azione di Carola Rackete, capitana della nave della Ong tedesca, battente bandiera però olandese. A bordo 42 esseri umani, che la Capitana 31enne vuole portare al porto siciliano: "Buonasera, la informo che devo entrare nelle acque territoriali italiane. Devo far sbarcare le 42 persone che ho a bordo. Virerò la barca, entrerò nelle acque territoriali". Con queste parole l'attivista al timone della Sea Watch 3 ha annunciato alla nostra Capitaneria di porto che avrebbe forzato il blocco dopo 14 giorni al largo delle coste di Lampedusa. "La Sea-Watch forza il blocco" scrive la penna satirica di Pistoia, raffigurando la Rackete sorridente al timone. Dunque il "viva la Capitana e abbasso il Capitano".
Giampiero Mughini per Dagospia il 26 giugno 2019. Caro Dago, sto guardando sul mio computer le immagini della nave che sta accorrendo verso il riparo di un porto italiano dove alleviare la condizione di 43 disperati provenienti dai lager libici, e tra loro tre bambini. E da italiano brucio di rabbia e di vergogna al pensiero – e voglio metterlo per iscritto – che su quel dolore e su quella sofferenza si sta esercitando la prepotenza della politica politicante. E pensare che i miei conterranei di Lampedusa sono lì pronti ad accogliere quei 43 esseri umani, esattamente come hanno fatto tante volte in questi ultimi anni. E ancora l’altro ieri, quando ne hanno presi 120 anche loro stremati e martoriati. Ci dicano se occorrono dei soldi per approntare l’accoglienza. Ovviamente, e per la mia piccola parte di cittadino repubblicano, sono a disposizione. O altrimenti li vogliamo tenere laggiù prigionieri in mare fino a Natale? Sì o no? Giampiero Mughini
"Siamo su Sea Watch 3": l'ennesima sfilata rossa (e buonista) dei piddini. I parlamentari piddini sono saliti a bordo della Sea Watch 3 per "esercitare" le loro "prerogative ispettive". Giovanna Stella, Giovedì 27/06/2019 su Il Giornale. Mentre la capitana della Sea Watch 3 è entrata in acque italiane non preoccupandosi dei divieti e mettendo in pericolo la vita di 42 immigrati, la sfilata buonista può iniziare. I deputati rossi, infatti, dopo aver annunciato ieri l'intenzione di voler salire a bordo dell'imbarcazione, oggi hanno formalizzato il tutto. E così i piddini hanno organizzato un'altra passerella come già era successo lo scorso gennaio, quando alcuni parlamentari salirono sulla Sea Watch mentre si trovava in rada nel porto di Siracusa con 47 migranti a bordo. (E ricordiamolo che per questa sfilata buonista sono pure stati multati). E ora che gennaio è soltanto un lontano ricordo, i piddini si sono (ri)organizzati per preparare la passerella a Lampedusa. "Gentile comandante, con la presente le formalizziamo la nostra decisione, già preannunciata a voce, di esercitare le nostre prerogative ispettive salendo a bordo della motonave Sea Watch3 immediatamente con una delegazione di 6 parlamentari. Le chiediamo la disponibilità di un vostro mezzo che consenta la visita istituzionale". Ecco questa è la richiesta formale che i parlamentari Graziano Delrio (Partito Democratico), Riccardo Magi (+Europa) e Nicola Fratoianni (La Sinistra) hanno rivolto al comandante della Capitaneria di porto di Lampedusa. A rendere noto il teatrino rosso è il parlamentare piddino Davide Faraone. Alla fine della fiera, Graziano Delrio, Davide Faraone, Matteo Orfini, Nicola Fratoianni e Riccardo Magi sono saliti a bordo della Sea Watch 3 con un gommone. Sulla imbarcazione della ong tedesca battente bandiera olandese sono saliti anche giornalisti, cameramen e fotografi. I parlamentari rossi hanno spiegato di volere "esercitare" le loro "prerogative ispettive". Intanto, Sea Watch 3 si trova a un miglio dall'ingresso del porto di Lampedusa con i motori spenti.
De Magistris sta con Rackete: "Difesa vita umana è primo principio". Dopo la lettera a Papa Francesco, il sindaco di Napoli decide di scrivere anche alla Sea Watch 3: “Cara Carola e cari ragazzi e ragazze dell’equipaggio, desidero ringraziarvi profondamente per avere deciso, entrando in acque territoriali italiane e dirigendovi verso Lampedusa, di disobbedire a un divieto ingiusto”. Federico Garau, Giovedì 27/06/2019 su Il Giornale. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris torna a scrivere lettere, decidendo in questo caso di rivolgersi a Carola Rackete, la 31enne tedesca a capo della nave Sea Watch 3, ed a tutto il suo equipaggio. Una mossa che non sorprende, considerata l'opinione più che manifesta del primo cittadino, da sempre sostenitore dell'accoglienza e dei porti aperti. De Magistris, fra l'altro, è il promotore di “Napoli, un mare di Pace”, un corteo fissato per questo sabato. Parlando ai membri della Sea Watch 3, che hanno coscientemente deciso di ignorare le norme italiane vigenti per entrare nel porto di Lampedusa con 42 cittadini stranieri, usa toni affettuosi, e pregni di gratitudine. “Cara Carola e cari ragazzi e ragazze dell’equipaggio della Sea Watch” esordisce infatti la lettera, riportata da “Napoli Today”.“Come sindaco di Napoli, primo cittadino di una città che ha porto e cuore aperti all’umanità, desidero ringraziarvi profondamente per avere deciso, entrando in acque territoriali italiane e dirigendovi verso Lampedusa, di disobbedire a un divieto ingiusto e di obbedire ai valori della costituzione repubblicana del nostro paese”. Il fine giustifica i mezzi, sembra voler suggerire De Magistris, che continua. “La difesa della vita umana è un principio fondante di ogni società libera e giusta. Nessuno dovrebbe rischiare mai nulla in nome di questo principio”. Poi la dichiarazione di indiscussa solidarietà. “Seguiremo con attenzione ciò che accadrà nelle prossime ore e faremo di tutto per esservi vicini e per essere parte di questa enorme comunità solidale che in tutta Europa si sta mobilitando in difesa della vostra decisione”. La missiva si chiude proprio con un rimando alla manifestazione in programma per il 29 giugno, e con un nuovo attacco a chi, invece dell'accoglienza, ha scelto la difesa dei confini nazionali. “Sabato, come sapete, attraverseremo con un corteo composto di imbarcazioni civili, ma anche navi di ong come la vostra, il golfo della nostra città. Un gesto simbolico certo, ma con cui vogliamo ribadire con forza la scelta di chi non si piega alla politica dell’odio e della paura, di chi intende il mare come luogo di incontro e non di morte, forti anche delle parole che qualche giorno fa Papa Francesco ci ha tenuto a spendere per la nostra città, laboratorio speciale di umanità e di accoglienza. Un forte abbraccio, Luigi de Magistris”. Affermazioni, queste, che non mancheranno di far discutere.
Sea Watch, Saviano: "Carola ha fatto gesto di legalità". Non solo Laura Boldrini e i parlamentari del Pd. Al conto dei sostenitori dei Carola Rackete, la "capitana" della Sea Watch 3 non poteva mancare Roberto Saviano. Francesco Curridori, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Non solo Laura Boldrini e i parlamentari del Pd. Al conto dei sostenitori dei Carola Rackete, la "capitana" della Sea Watch 3 non poteva mancare Roberto Saviano. Sia ieri sia oggi l'autore di Gomorra su Twitter non ha esitato a dare il suo sostegno alla Racket e insultare il ministro dell'Interno Matteo Salvini cui ha dedicato nuovamente l'hashtag #ministroDellaMalaVita. "Carola Rackete non scappa di fronte alla giustizia pur di portare a terra le persone salvate dalla Sea Watch 3". Poi l'affondo al leader della Lega: "Matteo Salvini, al contrario, si è sottratto alle sue responsabilità nel caso della Nave Diciotti per aver bloccato migranti in mare". Medesimo refrain ieri quando Saviano, anziché "cinguettare", ha pubblicato un video, ritwittato oggi da Salvini con il commento: "Ci mancava solo lui". "Il capitano della Sea-Watch ha forzato l'alt e ora è in acque italiane. Il suo - dice Saviano - è un gesto di legalità, in piena coerenza con la nostra Costituzione. Le vite umane vanno sempre salvate e il porto sicuro più vicino è quello italiano. Le leggi trionferanno contro la propaganda del ministro Salvini".
Sea Watch, Orlando: "Cittadinanza onoraria a staff ed equipaggio". Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha annunciato di voler concedere la cittadinanza onoraria del capoluogo siciliano allo staff e all'equipaggio della Sea Watch 3 "per rendere omaggio alla loro operazione di umanità e professionalità". Gianni Carotenuto, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Leoluca Orlando di nuovo al centro dell'attenzione politica. Il sindaco di Palermo - poche ore dopo avere accusato Matteo Salvini di voler "criminalizzare chi salva vite umane in mare" a proposito della Sea Watch 3 e dei 42 migranti in attesa di sbarcare a Lampedusa - ha annunciato di voler concedere all'equipaggio e allo staff della nave ong della capitana Carola Rackete la cittadinanza onoraria del capoluogo siciliano. L'onorificenza sarebbe destinata - ha detto Orlando - "agli uomini e alle donne della Sea Watch per l'impegno mostrato di fronte al drammatico e inarrestabile flusso migratorio, contribuendo in modo determinante al salvataggio di vite umane" e "per rendere omaggio a cittadini e cittadine che negli ultimi mesi sono protagonisti di una operazione di umanità e professionalità". Negli ultimi mesi e non negli ultimi giorni, dal momento che non è la prima volta che la nave battente bandiera olandese è impegnata in un'attività di raccolta e sbarco di migranti. Vedi quanto successo il 24 gennaio 2019, quando era stato proprio il sindaco di Palermo a dare la propria disponibilità per accogliere i 47 naufraghi recuperati nel Mediterraneo dalla Sea Watch "per rispondere alle ennesime tragedie del mare causate da politiche criminali e criminogene dell'Europa e dell'Italia". Cinque mesi dopo, Orlando ha usato parole molto simili, congratulandosi con l'equipaggio e lo staff della nave ong per il loro "atto di amore e coraggio che giorno dopo giorno ha salvato e salva vite umane, ridato speranze e costruito un ponte di solidarietà nel mare Mediterraneo, anche contro logiche, politiche e leggi che poco hanno di umano e civile".
Leoluca: Palermo si mobilità per #SeaWatch che sta esercitando il diritto alla vita e alla sopravvivenza, quello che è un diritto umano inalienabile. Quello che è inaccettabile è il blocco e questa maschera disumana del Governo Italiano.
Il sindaco di Palermo è noto per il suo impegno a favore dell'immigrazione. A maggio aveva ingaggiato un duro scontro con il Viminale dichiarando di non voler applicare le norme del decreto sicurezza sull'iscrizione all'anagrafe dei migranti, mentre di recente aveva rivendicato di avere rivitalizzato le periferie della sua città "grazie a turisti e migranti".
Da Radio Cusano Campus il 24 giugno 2019. Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Al sud Italia alcune regioni hanno il maggior tasso di disoccupazione in tutta l’Europa, tra queste c’è la Sicilia. “In questo quadro bisogna cogliere alcuni segnali –ha affermato Orlando-. A Palermo la città è profondamente cambiata, non credo ci sia città in Europa più cambiata di Palermo a livello culturale. Questo cambio culturale ha anche effetti. Sia una città accogliente, sicura, non cara, il report dell’Istat dice che siamo la città più sicura d’Italia. Siamo la terza città turistica italiana. Da 3 anni la disoccupazione è in costante calo. Ci sono segnali di presenza di investimenti internazionali che erano impensabili fino a qualche anno fa. L’azione di una città passa attraverso il coinvolgimento dei cittadini. E’ evidente che oggi una città come Palermo che si apre dà opportunità di lavoro a chi parla più lingue. Utilizziamo al meglio i fondi europei, con decine di sturtup e imprese giovanili. C’è un percorso di ritorno a Palermo da parte di persone che erano andate via. I giovani palermitani devono andarsene all’estero quando compiono di 18 anni, per poi tornare avendo una marcia in più. Oggi se vuoi operare in una città come Palermo devi conoscere una lingua. Il mio obiettivo è mettere i figli in contrasto coi genitori, che ragionano secondo vecchie logiche. Anche a Bari si sta verificando questo tipo di cambiamento, anche se devo dire che a Bari c’è una regione più presente. La regione Sicilia finora è stata disattenta rispetto ai tempi che cambiano. Noi abbiamo avuto un altro dato importante rispetto ai giovani: la diminuzione degli inattivi, dà il segno che c’è un fermento di impegno lavorativo. Oggi stiamo lanciando l’animazione delle periferie, anche con la presenza di Bed and Breakfast, che comportano una modifica della qualità dell’offerta e dell’accoglienza”. Sull’accoglienza e l’integrazione dei migranti. “Considero i migranti come i palermitani. Danno il contributo allo sviluppo e all’internalizzazione della città e anche alla sicurezza della città. Se arriva in città un musulmano criminale, i musulmani che abitano a Palermo mi avvertono e io chiamo il questore, perché si sentono parte della città e la difendono. Questo non accade a Parigi e a Bruxelles, dove gli immigrati vengono trattati male”. Sull’autonomia differenziata. “L’autonomia è un valore fondamentale, ma in un Paese che vuole essere unitario e non frammentato, si devono garantire i livelli essenziali di scuola e salute. Altrimenti si corre il rischio che avremo livelli di scuola di serie A e di serie B. Prima gli italiani, ma gli italiani sono tali in Lombardia come in Sicilia”.
PALERMO: “ORLANDO ERA IL COLLEGAMENTO TRA I POLITICI E LA MAFIA”. Voxnews.info il 3 gennaio 2019. Così il comunista Pio La Torre, poi ucciso dalla Mafia, sul padre di Leoluca. Leoluca Orlando, Sindaco scafista di Palermo, si chiama in realtà Orlando CASCIO. Il padre si chiamava Salvatore Orlando CASCIO e, nel primo dopoguerra, era un Am – professore. Gli Am – professori, erano i docenti nominati dall’Autorità militare alleata. Ora, tutti sanno che gli Usa si erano rivolti ai mafiosi per facilitare l’invasione della Sicilia, mafiosi che non vedevano l’ora di liberarsi dei fascisti e tornare alla democrazia, così avevano nominato docenti scelti tra gli uomini d’onore. Come il padre di Leoluca, secondo molti. E non a caso. Negli anni settanta, le mette nero su bianco. Quel qualcuno era Pio La Torre ucciso poi da Cosa Nostra nel 1982. In Commissione Antimafia, l’onorevole Pio La Torre, comunista, definì Salvatore Orlando Cascio “il collegamento tra i politici e le famiglie mafiose palermitane del dopoguerra”. Oggi il Cascio commemora e celebra i giudici Falcone e Borsellino, ma fu lui ad attaccarlo pubblicamente in una trasmissione televisiva accusandolo “di tenere chiuse nel cassetto le prove dei legami tra mafia e politica”. Con un simile attacco, il giudice Falcone dovette difendersi davanti il CSM il 15 ottobre 1991 e disse: “mi stanno delegittimando, Cosa Nostra fa così, prima insozza la vittima poi la fa fuori”. Forse, ad Orlando CASCIO, non era piaciuto il nuovo mandato di cattura nei confronti di Vito Ciancimino nel 1990, dimostrazione che, nonostante la presenza del Sindaco Orlando CASCIO, don Vito continuasse a gestire a suo piacimento gli appalti. Maria Falcone, sorella del Giudice, ha dichiarato che: “Orlando ha dato inizio ad una campagna denigratoria contro mio fratello, sfruttando le proprie risorse per lanciare accuse attraverso i media”. Anni dopo, Orlando CASCIO, sulla vicenda Falcone, ha dichiarato che “c’è stata una incomprensione con Falcone”. Peccato però che quella incomprensione costò, al Giudice Falcone, una convocazione al CSM e tanto fango sull’onorabilità de la giudice. Il paladino dell’antimafia Orlando CASCIO, aveva anche accusato Salvo Lima e Giulio Andreotti di essere i garanti politici della mafia a Palermo come anche a Roma. (EppureNulla il giovane Orlando CASCIO ha avuto bisogno di loro). Il sindaco Orlando CASCIO ha mostra i primi passi in politica, come consigliere giuridico di Piersanti Mattarella, tra il 1978 e il 1980. Viene eletto Sindaco di Palermo il 16 luglio 1985, all’età di 38 anni. Non appena eletto, Orlando Cascio, corre a ringraziare, nella sua villa di Mondello, proprio Salvo Lima per il sostegno ricevuto. Tutta la Sicilia che contava sapeva che, Salvo Lima era il referente politico di Giulio Andreotti e che manteneva rapporti con uomini d’onore. Per ottenere voti o favori, ci si rivolgeva a Salvo Lima. Possibile che Leoluca Orlando CASCIO ed anche il padre Salvatore, non sapessero dei rapporti tra Lima e Cosa Nostra?
Il Sindaco di Palermo si ammanta di legalità per occultare il controverso fondo oscuro, che aleggia sempre o quasi, negli uomini politici siciliani di lungo corso. Piuttosto che tagliarsi l’indennità che incassa in qualità di Sindaco di Palermo, che ammonta a 121.000 Euro, si taglia il cognome come se eliminare un pezzo del cognome, possa ripulirlo dalle tante accuse mosse al padre e dal suo ricorso a Lima per ricevere un sostegno politico. È quindi certo che sia stato riconfermato alla carica di Sindaco solo dai palermitani perbene e non dagli uomini d’onore e dal loro seguito. Di Leoluca Orlando Cascio, Cossiga disse: ”Questa mattina ho vomitato. Il vomito mi è venuto a vedere accanto alla sorella di Giovanni Falcone, che dovrebbe avere piú rispetto della memoria del fratello, personaggi come Leoluca Orlando-Cascio che con l’accusa a Falcone di aver insabbiato pratiche che riguardavano politici diede il via al linciaggio di Falcone da parte dell’Anm e di un settore rilevante della sinistra. E, l’imperturbabile e cinico Romano Prodi, che nelle sue fila conta non pochi di coloro che preparavano l’assassinio morale del coraggioso e indipendente magistrato. Che vergogna”. ”Non vomitavo più – aggiunse l’ex presidente – dal giorno in cui, rifugiatomi in una città della Francia dopo le dimissioni da presidente della Repubblica, vomitai vedendo alla televisione a mo’ di sciacalli attorno al feretro di Giovani Falcone, non pochi magistrati dell’Anm e di membri del Csm che lo avevano già moralmente ferito con insinuazioni ed insolenti interrogatori in sede di Csm. E con articoli sanguinosi sul l’Unità, che lo avrebbero ucciso moralmente se Dio pietoso non gli avesse, per mano della mafia oggettivamente loro alleata, tolto prima la vita”
Questo è il sindaco di Palermo che apre il porto della sua città agli scafisti e non vuole applicare la legge. Il padre era uomo di fiducia degli invasori americani. Lui di chi?
Negli gli atti della Commissione Parlamentare Antimafia degli anni '70 l'On. Pio La Torre (ucciso dalla Mafia) definiva gli avvocati Mattarella (padre a pag. 577) e Orlando Cascio (padre di Leoluca Orlando a pagg. 577, 578, 579) come i referenti della Mafia nel Dopoguerra. (archiviopiolatorre.camera.it/img-repo/DOCUMENTAZIONE/Antimafia/03_rel.pdf).
Quelle spese milionarie del Pd per una integrazione (farlocca). Dal primo aprile del 2017 al 30 giugno del 2019, infatti, il Comune di Milano ha speso 463.000 euro nei campi rom per favorire percorsi di inclusione sociale, di autonomia abitativa e lavorativa e di integrazione scolastica dei minori. Eugenia Fiore, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Continuano gli investimenti folli da parte dell'amministrazione targata Pd in nome di un'integrazione farlocca. Solo per fare un esempio: dal primo aprile del 2017 al 30 giugno del 2019, il Comune di Milano ha speso ben 463.000 euro nei campi rom per favorire percorsi di inclusione sociale, di autonomia abitativa e lavorativa e di integrazione scolastica dei minori. Ma questi numeri sono solo gli ultimi di una lunga serie. A questi fondi comunali, infatti, si aggiungono gli 1,2 milioni di euro di finanziamenti statali del Progetto Nazionale Rom, Sinti e Caminanti stanziati tra il 2013 e il 2016. "La sinistra non smette mai di buttare via soldi in nome di un’integrazione che esiste solo nelle favole. Basta infatti farsi un giro nei campi rom di Milano per rendersi conto che i bambini che vanno a scuola sono pochissimi e che gli adulti vivono in gran parte di espedienti - commenta Silvia Sardone, consigliere comunale ed europarlamentare della Lega - Mi chiedo quindi perché continuare a sperperare denaro pubblico se i risultati sono questi". Basta un breve elenco per capire il fallimento totale della presunta (e costosissima) integrazione tanto voluta dall'amministrazione comunale. I rom (ribelli) che abitano nel campo Martirano - che per la sinistra doveva essere "il più bello d'Europa" - pagano solo il 20% dei canoni d’affitto dovuti. E ancora: oltre la metà degli ospiti del Cat di via Sacile, costato 2 milioni in tre anni, non ha invece portato a termine il percorso di inclusione. Non è finita qua, perché il 40% degli ospiti accolti nel Centro di autonomia abitativa di via Novara dal 2016 al 2018 non ha di fatto trovato casa al termine dei progetti individualizzati promossi dal Comune per i nuclei famigliari provenienti dal Cat di via Sacile (1 milione di euro dal 2016 all’aprile 2019).
Assedio all’Italia. Al solito, la sinistra tifa per lo straniero. Francesco Storace giovedì 27 giugno 2019 su Il Secolo d'Italia. Assedio all’Italia, attacco alla legge nazionale, colpi d’ariete a suon di migranti. La Sea Watch è l’arma contundente per appiccare il fuoco, incendiare il clima, caricarci ogni responsabilità. Una pazza alla guida dell’imbarcazione tedesca della Ong con bandiera olandese si è messa in testa di regalarci un altro gruzzolo di migranti. Se ne frega delle nostre leggi, del divieto delle autorità italiane e ha deciso di correre per il torneo di Lampedusa. Con il suo personale medagliere in carne umana. No no e no. Mille volte no alla prepotenza contro l’Italia. Questa cavolo di Carola va acciuffata e rinchiusa nelle patrie galere. Perché per entrare in Italia ci vuole il nostro permesso; e senza spaccio di immigrati clandestini.
Sceneggiata rossa. Ma la vergogna peggiore è quella solita che viene da sinistra, come di consueto schierata dalla parte opposta a quella della Nazione. Persino Zingaretti strilla in una sceneggiata senza fine. Attaccano sguaiatamente contro Matteo Salvini e Giorgia Meloni; il primo per la giusta difesa del principio che i confini sono nostri e la sovranità italiana non hanno diritto a violarla neppure le Ong. E la seconda per aver ribadito con chiarezza ad un governo che non ha avuto il coraggio di proporre il blocco navale alle coste della Libia, di fare almeno la cosa minima. Una nave pirata non si accoglie; una nave pirata disconosciuta dal suo Stato si requisisce, si fanno scendere i suoi ospiti migrati, si arresta l’equipaggio e la si affonda a picco. Altro non c’è di fronte alla delinquenza. E chi se ne frega se Roberto Saviano torna a fare commedia. Se Laura Boldriniulula. E se tutti i soliti che non aprono le porte di casa loro abbaiano perché vorrebbe aprire le case nostre. Guai ad esitare di fronte alla demagogia rossa e davvero sinistra.
Quel no al Global compact. L’immigrazione clandestina va fermata ad ogni costo. Protestano quelli che ci fanno affari con le loro cooperative. Alla sinistra antinazionale occorre rispondere che abbiamo già pagato duramente la loro folle politica migratoria che ci ha fatto invadere da centinaia di migliaia di persone senza una prospettiva. Le carceri italiane sono piene di clandestini e noi dobbiamo caricarcene altri? Per fortuna l’Italia si è dovuta almeno astenere dal sottoscrivere quella sciagura chiamata Global Compact, grazie all’accortezza di Fratelli d’Italia alla Camera. Senza quell’azione promossa da capogruppo Lollobrigida a far votare no ad un accordo infame dalla maggioranza dei deputati, oggi non avremmo nulla da opporre a chi rivendica “il diritto a emigrare”. No, vale esattamente l’opposto: il mondo deve garantire ai popoli il “diritto a non emigrare”, a rimanere a casa loro, a sconfiggere lì i motivi della fuga disperata da noi. La battaglia navale aizzata dagli scafisti contro l’Italia non può essere vinta da loro. E mai come in questo momento ci vorrebbe una politica unita nel respingere ogni provocazione. Ma questa sinistra rabbiosa non ce la fa e tifa oggettivamente contro il nostro popolo e il suo diritto alla sicurezza. Ed è il motivo per cui il Pd perde ogni elezione. Perché non ha capito nulla del Paese in cui vive. È l’Italia, non l’Africa.
"Mi sono rotto le palle" ha aggiunto il Ministro dell'Interno in un video su facebook dopo che la Ong ha forzato il blocco navale. Matteo Salvini, ricevuta la notizia che la Sea Watch ha forzato il blocco navale dirigendosi verso Lampedusa ha attaccato in un video su fb. Primo bersaglio la comandante della Ong definita una "sbruffoncella che fa politica sulla pelle di qualche migrante". Poi ha condannato l'Olanda (la Sea Watch batte bandiera dei Paesi Bassi), la Germania ed il resto dell'Europa rimasta ferma e che ancora una volta ha lasciato la gestione della questione migranti nelle mani dell'Italia.
"Gli immigrati che sono a bordo devono essere fatti sbarcare e rimpatriati immediatamente e la nave deve essere affondata". Le parole di Giorgia Meloni, in un video pubblicato sui suoi canali social."Contro la volontà del governo italiano, dello Stato italiano e della sovranità italiana la Sea Watch viola i nostri confini, entra nelle acque territoriali italiane con l’obiettivo di portare gli immigrati clandestini che ha a bordo sul nostro territorio nazionale. Lo fa non solo contro il parere del nostro governo, lo fa anche contro il parere della Corte europea di Strasburgo che proprio ieri aveva detto che l’immigrazione non e’ un diritto degli esseri umani e che quindi quelle persone non potevano essere portate in Italia se il governo italiano non voleva". Queste le parole di Giorgia Meloni, in un video pubblicato sui suoi canali social. "Mi aspetto che il governo italiano faccia rispettare quelle regole che le ong pensano di poter violare e a norma di diritto internazionale questo significa che la Sea Watch una nave che deve essere sequestrata, che l’equipaggio deve essere arrestato, che gli immigrati che sono a bordo devono essere fatti sbarcare e rimpatriati immediatamente e che la nave deve essere affondata, come accade con le navi che non rispettano il diritto internazionale", aggiunge.
ECCO LA NUOVA LEADER DELLA SINISTRA (PER LE PROSSIME 72 ORE). Marco Gervasoni per “il Messaggero” il 27 giugno 2019. Come avrebbe detto il signor De La Palice, è meglio essere ricchi che poveri. E ricca è Carola Rackete, la Capitana della Sea Watch, che potremmo anche chiamare una novella Anne Bonney, la più famosa pirata donna della storia. E se atto di pirateria è da considerare la penetrazione illegale nelle acque di uno Stato, però, diversamente dalle donne pirata della storia, Carola la sua attività la svolge a fin di bene, o almeno il bene come lo intende lei. Certo, non deve essere facile nascere ricchi in Germania, e in particolare nella Bassa Sassonia protestante e luterana. Oltre al clima plumbeo che predispone alla noia e in alcuni casi a gesti estremi, devi sentire di avere un debito con la società e forse con Dio, anche se non ci credi. E' la stessa Frau C. a dirlo: «Ho potuto frequentare tre università, sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto ho sentito un obbligo morale: aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità». Non puoi insomma fare come i millenial kids, categoria in cui la trentenne potrebbe essere inserita, che dilapidino le risorse di papà. Quindi studia nel Regno Unito una curiosa materia, conservazione ambientale, poi si fa capitana sì, ma per l'ecologismo. A 23 anni guida una rompighiaccio, a 25 da vice comandante effettua spedizioni polari, a 27 continua la rotta polare, ma per Greenpeace. Dagli orsi bianchi agli immigrati? Come avviene questo passaggio? Le cronache già apologetiche di quelli che «la sinistra italiana riparta da Carola» non ce lo dicono, ma eccola improvvisamente, dopo lo tsunami migratorio innescato dalla guerra civile siriana e dal poco lungimirante richiamo merkeliano, nel 2016, a collaborare con Sea Watch. Dall'ecologismo all'oeneggismo, che potremmo chiamare anche immigrazionismo: il salto non è così strano. E non è neppure così originale. Tipi come Carola li abbiamo visti in questi ultimi mesi: sono per la maggior parte tedeschi o olandesi, vengono da famiglie benestanti, predicano l'ideologia no border (no ai confini!) che è quella di una borghesia globalista un po' in declino, e soprattutto non hanno timore a violare le leggi dei vari paesi. Anche se per la verità sempre del nostro. Sarà che sono amanti del mare, freddo o caldo che sia, ma certo non li abbiamo visti mai sfidare le leggi e la polizia per esempio ungheresi, anche perché rimedierebbero certo punizioni più pesanti dei tutto sommato contenuti 53000 euro di multa, bruscolini nel bilancio di una Ong. Questi figli di manager o di imprenditori sfruttano infatti le doti di famiglia a gestire le Ong, visto che, per volumi di entrate e di uscite, molte di loro possono essere considerate delle medie, e alcune persino delle grandi imprese. Nonostante la trasparenza dei bilanci, ci piacerebbe che la Capitana Carola utilizzasse una parte della sua loquacità per spiegarci chi finanzia i finanziatori. Forse capiremmo perché puntano sempre sull'Italia e non, per esempio, su paesi che hanno rapporti molto stretti con Berlino. E poi ci piacerebbe che la Capitana ci spiegasse se la grave decisione di violare il blocco sia stata presa da sola o in contatto con altri. Ma forse lo chiarirà al magistrato che, siamo sicuri, non mancherà di imputarle vari reati. Lei recita la sua parte, quella di sfidare Salvini. Avrà grazie a lui il suo quarto d'ora di celebrità. Quelli fuori spartito sono invece gli italiani che l'hanno eletta a leader morale. Non avremo come altrove un partito dei Pirati ma abbiamo una Pirata alla guida della Linke italiana.
Marta Serafini per il “Corriere della sera” il 27 giugno 2019. «Che però sia chiaro che non sono l' unica donna a bordo». È impegnata Carola Rackete. Ha da forzare un blocco e portare in porto i suoi «42 passeggeri». Non le importa cosa dicono di lei a terra. «Mi ricevete? Sto entrando nelle vostre acque territoriali». Parla alla radio. Voce ferma, inglese perfetto e tono di una che non ha tempo da perdere. Al suo fianco ci sono le altre dieci donne del team di Sea Watch 3. Verena, la dottoressa che ha curato i migranti in queste due settimane al largo e che dice «vi prego, fateci sbarcare che loro non ce la fanno più». E Haidi, la mediatrice culturale che con pazienza spiega ai 42 cosa sta succedendo. «Basta, ho deciso di entrare in porto a Lampedusa. So a cosa vado incontro ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo». La «Capitana» contro il «Capitano». La comandante della Sea Watch e il ministro dell' Interno italiano Matteo Salvini. Quando la nave nel primo pomeriggio fa rotta su Lampedusa in rete parte l' urlo. «O capitana, o mia capitana». Carola che con un colpo di timone fa quello che nessuno prima di lei aveva mai osato. I compagni a terra però si preoccupano. Perché ora Carola rischia grosso. Incriminazione per favoreggiamento di immigrazione clandestina, il sequestro della nave e una multa da 50 mila di euro. Ma la «Capitana» non è il tipo che si ferma di fronte a un decreto. Già nei giorni scorsi Rackete aveva risposto agli strali di Salvini. «Non riporterò i migranti in Libia, né tantomeno in Olanda, vorrebbe dire circumnavigare l' Europa, sarebbe ridicolo», aveva scandito sicura. Poi quando Strasburgo ha rigettato il ricorso presentato dalla sua Ong è andata dai suoi «passeggeri» e li ha informati. «Fosse per me sarei già attraccata a Lampedusa fin dal primo giorno». All'arrivo in porto il tono di voce è ancora calmo. «Le autorità italiane sono appena salite a bordo e ci hanno controllato i documenti. Ma non ci fanno sbarcare», spiega. Trentun' anni, passaporto tedesco, Rackete è cresciuta a Hambühren, nella stessa Bassa Sassonia dove i depositi di armi della Seconda Guerra Mondiale oggi sono stati trasformati in edifici residenziali, tra piste ciclabili e foreste. Poi Carola lascia mamma e papà e va a studiare all' estero, alla Edge Hill University nel Lancashire, in Gran Bretagna. Si diploma con una tesi sugli albatros, prende un master.
«Amo la natura e gli animali». Il profilo perfetto della ragazza tedesca che si batte per l' ambiente. E per i diritti. Così dopo la laurea si mette al timone di una nave rompighiaccio nel Polo Nord per uno dei maggiori istituti oceanografici tedeschi l' Alfred Wegener, per cui lavora dal 2011 al 2013. Cinque lingue sul curriculum, a 25 anni è secondo ufficiale a bordo della Ocean Diamond. E due anni dopo è sull' Arctic Sunrise di Greenpeace. Avanti fino al 2016, quando è volontaria di Sea-Watch. Sono gli anni in cui alle Ong ancora è permesso stare in mare senza problemi. Carola che ci crede e che non si arrende. In poco tempo diventa coordinatrice dei team di avvistamento di Moonbird e Colibrì, i piccoli aeroplani della Ong che pattugliano il Mediterraneo alla ricerca dei barconi in difficoltà. Lì impara cosa significa scrutare per ore e ore l' orizzonte in attesa di un puntino nero. E apprende la delicata arte di districarsi tra i messaggi in codice della capitanerie. Roma, Tripoli, Malta. Per diventare una che forza il blocco bisogna studiare. I sovranisti di lei dicono che è una figlia di papà, lei invece di sé a La Repubblica ha raccontato: «La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto ho sentito un obbligo morale: aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità».
Sea Watch, Salvini alla capitana: "Stai in Germania a far volontariato". Il leader della Lega: "Se sei nata bianca, ricca, tedesca e vuoi fare volontariato, fallo in Germania aiuta gli anziani, i disabili". Nico Di Giuseppe, Mercoledì 26/06/2019 su Il Giornale. "La capitana della Sea Watch 3, eroina della sinistra, questa novella eroina del Partito democratico ha dichiarato qualche giorno fa: "io sono nata bianca, ricca e tedesca e ho deciso di fare volontariato nel Mediterraneo, ma stai a casa tua. Se sei nata bianca, ricca, tedesca e vuoi fare volontariato, fallo in Germania aiuta gli anziani, i disabili". A dirlo è il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, durante la registrazione di "Porta a Porta", in onda questa sera su Rai1, parlando della comandante della Sea Watch 3 battente bandiera olandese, Carola Rackete, che ha forzato il blocco del governo italiano ed è entrata nelle acque italiane con 42 migranti a bordo, arrivando di fronte al porto di Lampedusa, ignorando l'alt intimato dalla Guardia di Finanza. "Invece - ha aggiunto il vicepremier - arriva in Italia, mettendo a rischio la vita di 42 esseri umani che sta sequestrando da 15 giorni. Io non autorizzo nessuno sbarco, non faccio il giudice ma ci saranno dei magistrati per esaminare la situazione e mi sembra che i reati siano evidenti. C'è un paese europeo che è l'Olanda che se ne frega, c'è la Germania, di cui ha la nazionalità questo equipaggio, che se ne frega, e l'Unione europea al solito dorme". Intanto è stallo sulla Sea Watch. Il natante della ong tedesca giunto davanti a Lampedusa intorno alle 17 resta al momento all'imboccatura del porto, a circa mezzo miglio. A bordo due ore dopo era salita la Guardia di finanza che ha controllato i documenti della nave e i passaporti dell'equipaggio. "Aspettano istruzioni", aveva detto la comandante Carola Rackete. In mare alcune motovedette che controllano lo specchio d'acqua.
Carola, 31 anni, la capitana che sfida il Viminale: «La mia vita è stata facile, per questo aiuto gli altri». Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 da Marta Serafini su Corriere.it. Sa benissimo che rischia di essere incriminata per favoreggiamento di immigrazione clandestina, il sequestro della nave e una multa fino a 50mila euro. Ma Carola Rackete, 31 anni, passaporto tedesco, originaria di Hambühren, Bassa Sassonia, non è il tipo che si ferma davanti ai decreti. «Ho deciso di entrare in porto a Lampedusa. So a cosa vado incontro ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo», ha scritto su Twitter mentre faceva rotta nelle acque territoriali italiane. La capitana contro il capitano. La comandante della Sea-Watch e il ministro dell’Interno italiano: nei giorni scorsi Rackete ha risposto più volte a Salvini. «Non riporterò i migranti in Libia, né tantomeno in Olanda, vorrebbe dire circumnavigare l’Europa, sarebbe ridicolo», ha dichiarato. Poi quando Strasburgo ha rigettato il ricorso presentato dalla sua ong è andata dai suoi passeggeri e li ha informati. «Fosse per me sarei già attraccata a Lampedusa fin dal primo giorno». Carola è una veterana dell’ong tedesca, volontaria a partire 2016. L’anno successivo inizia a coordinare gli avvistamenti di Moonbird e Colibrì, gli aerei di ricognizione di Sea-Watch, utilizzati per pattugliare il Mediterraneo. Laureata in conservazione ambientale alla Edge Hill University nel Lancashire, in Gran Bretagna con una tesi sugli albatros, è stata al timone di una nave rompighiaccio nel Polo Nord per uno dei maggiori istituti oceanografici tedeschi, ufficiale di navigazione per l’Alfred Wegener Institute, per il quale ha lavorato dal 2011 al 2013. Cinque lingue sul curriculum, a 25 anni è secondo ufficiale a bordo della Ocean Diamond. Oltre l’impegno politico, c’è quello per l’ambiente e la natura e così due anni dopo è al lavoro sull’Arctic Sunrise di Greenpeace. I sovranisti di lei dicono che è una figlia di papà, lei invece di sé racconta: «La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto ho sentito un obbligo morale: aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità». E ora Carola fa rotta su Lampedusa.
Carola, quella capitana coraggiosa. Chi è la capitana Carola che guida l’imbarcazione della ong Sea watch. Angela Azzaro il 26 giugno 2019 su Il Dubbio. Molto probabilmente la coraggiosa capitana Carola Rackete della Sea Watch deciderà, nonostante la Corte europea per i diritti dell’Uomo abbia respinto inspiegabilmente il ricorso, di far scendere i passeggeri che dal 12 giugno attendono al largo dell’isola di Lampedusa. Rischia molto: di perdere la nave e di essere accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di associazione a delinquere. Ma giustamente pensa che la misura sia colma e che le 42 persone, costrette a stare in mezzo al mare senza potersi muovere, abbiamo il diritto di raggiungere la terra ferma e di essere assistite. Sono persone che sono state chiuse nei terribili campi libici. Pensavano che per loro fosse finita, che una volta scappati la comunità internazionale si sarebbe presa cura di loro. Invece sono lì, senza speranza. Il ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, ha ribadito il suo no, dicendo che per lui possono stare sulla nave anche fino a Natale. L’assenza dell’Europa in queste ore è fortissima, ancora di più si avverte come insensato il pugno di ferro del governo italiano che per far valere le sue ragioni con l’Ue se la prende con i più indifesi. È uno spettacolo che di ora in ora diventa più intollerabile: ogni minuto che passa senza risolvere la situazione, allontana i passeggeri della Sea Watch dai loro sogni e dalla salvezza, a noi dalla nostra umanità. È un po’ come se in questi mesi, ogni volta che si ripropone la questione dei porti chiusi, ci si abituasse alle immagini delle persone lasciate in mezzo al mare. Questo non deve accadere. Non ci si deve né ci si può abituare. Eppure ci sono persone che vedendo l’appello di uno degli ospiti della Ong, in cui si chiede di farli scendere, scrivono che è tutto falso, che non è vero che stanno male e che dall’aspetto si deduce che non dicano la verità. Il rischio è quello di distorcere la realtà, di farne una rappresentazione a proprio uso e consumo. Ma la verità è che quelle sono persone che fuggono da guerre e povertà. Li chiamano clandestini, ma in Italia non possono arrivare in maniera diversa perché da anni non si fanno decreti che regolino i flussi. Eppure di loro c’è bisogno: in molti settori del mondo del lavoro e ormai lo dico tutti gli esperti – per contrastare il calo demografico che si sta abbattendo sull’Italia con gravi danni anche dal punto di vista economico. Molti di loro non vogliono stare in Italia considerato, a ragione, un Paese poco ospitale e senza prospettive. Il gesto di farli scendere, che Carola ha promesso di compiere, è un atto di disobbedienza civile: un atto di pietà per i migranti, un atto che salva noi dal diventare disumani. Capitana coraggiosa, grazie.
Sea Watch 3, Carola Rackete? Tedesca, vegana e ricca: chi è la nuova eroina della sinistra. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 27 Giugno 2019. È il nuovo mito della sinistra chic e radicale. Che adesso si precipita in massa sulla banchina di Lampedusa per accogliere Carola Rackete, capitano della Sea-Watch 3, che ha disobbedito al divieto di attracco ed ha puntato dritta con la sua nave il porto italiano. Ciao Greta Thumberg. Nel cuore della sinistra ora Carola prende prepotentemente il suo posto. Ecologista, vegana, poliglotta, plurilaureata. Rackete è volontaria della ong tedesca dal 2016. Una veterana. Nel 2017 coordina gli avvistamenti degli aerei da ricognizione della Sea-Watch, Moonbird e Colibrì, con i quali la ong individua i barconi carichi di migranti facendo scattare i soccorsi. Grande esperta di animali: è laureata in conservazione ambientale alla Edge Hill University nel Lancashire, con una tesi sugli albatros. Poi però è diventata una lupa di mare. È stata nostromo a bordo di navi oceanografiche nel Polo Nord per l' Istituto Wegener specializzato in ricerca marina, fondazione con sede a Bremerhaven inserita nel circuito dei centri di ricerca ambientalista. A 25 anni è secondo ufficiale a bordo della Ocean Diamond. A 27 è sull' Arctic Sunrise di Greenpeace. A chi la accusa di essere una figlia di papà, risponde: «La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto ho sentito un obbligo morale: aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità». Ieri la Rackete si è presta tutta la scena quando ha deciso di forzare il blocco: «Basta, entriamo. Non per provocazione, per necessità». Così ha sentenziato dal profilo twitter, annunciando che la Sea Watch 3 sarebbe entrata nelle acque territoriali italiane. «Ho deciso di entrare in porto a Lampedusa. So cosa rischio ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo». Poi altri aggiornamenti e video: «Le autorità italiane sono appena salite a bordo impedendoci di attraccare. Hanno controllato la nave ed i passaporti dell' equipaggio e ora attendono istruzioni dai loro superiori. Io spero veramente che facciano scendere presto i migranti». Così il capitano Carola, aggiornando i suoi fan con un video postato dalla ong. È nata una star, insomma. Una star che però, almeno in teoria, rischierebbe fino a 15 anni di carcere per rifiuto di obbedienza a nave da guerra, resistenza o violenza contro nave da guerra e favoreggiamento dell' immigrazione clandestina.
Carola, l'apoteosi dei cliché di sinistra. La capitana della Sea Watch è la donna perfetta per tutti i cliché di sinistra. Alessandro Gnocchi, Domenica 07/07/2019 su Il Giornale. Carola Rackete, la capitana della nave Ong Sea Watch, è la «donna di Vitruvio» perfettamente inscritta nel cerchio del politicamente corretto, la incarnazione della cultura dominante in questa epoca. Vediamo quali sono le sue caratteristiche, prelevando le sue parole dall'intervista rilasciata ieri a la Repubblica. Apolide e senza radici. Non si sente tedesca, al massimo europea. Ci vorrebbe più Europa. Non c'è un luogo che chiamerebbe «casa». Cosmopolita e senza confini. L'altra faccia della medaglia. Quella che spinge a ritenere giusto, anzi doveroso, non rispettare la legge di uno Stato sovrano. Secondo Rackete, «talvolta servono azioni di disobbedienza civile per affermare diritti umani e portare leggi sbagliate davanti a un giudice». Secondo altri, quelle azioni sono un reato. I confini non hanno alcun senso per una cosmopolita. E qui forse c'è una contraddizione: la Sea Watch, che trasporta manodopera a basso costo, non è proprio uno strumento della globalizzazione liberista che Carola Rackete vorrebbe sabotare? Ambientalista. Ammiratrice di Greta, fa parte del gruppo Extinction Rebellion «che lotta contro i cambiamenti climatici». Non prende l'aereo: «Sono andata in Cina in treno». Diritti umani. La destra «radicale e sovranista» viola i diritti umani. Nella destra radicale, la Capitana include tutto ciò che non è sinistra, da Matteo Salvini ai neonazisti della Sassonia. Fior di filosofi insegnano che la politica dei diritti umani ha i suoi limiti e i suoi rischi. Niente. Basta dire «diritti umani» per far diventare tutto buono e giusto. Immigrazionista. Tutti i migranti devono sbarcare in Europa. È loro diritto: «Anche chi scappa dalla fame e dalla mancanza di opportunità ha diritto a un futuro». Una buona percentuale di migranti appartiene a quella che potrebbe e dovrebbe essere la classe media africana: non sarà un problema anche per i Paesi di partenza? Atea. Nulla di strano, nell'età della secolarizzazione. Intellettuale. Ci tiene a sottolineare di provenire da «un ambiente accademico» e di avere «amici in molte università». Carola Rackete non ha una opinione fuori posto. Se non esistesse, le Ong dovrebbero inventare una Capitana Rackete, uguale a questa.
L'ultima follia dei progressisti: "Adesso diamo il Nobel a Carola". Lo scritore Vargas Llosa: "Carola ha violato leggi stupide e disumane. Che altro poteva fare?" Francesca Bernasconi, Mercoledì 10/07/2019, su Il giornale. Carola Rackete, la capitana della Sea-Watch 3, che per 17 giorni ha vagato nel Mediterraneo con 42 migranti a bordo, aveva deciso di sfidare l'autorità italiana e approdare a Lampedusa nonostante il divieto, dopo aver speronato una motovedetta della guardia di finanza. La donna era stata immediatamente arrestata dalla polizia italiana, ma ora c'è chi chiede che venga candidata al premio Nobel per la Pace. E a farlo non è una persona qualsiasi, ma un altro premio Nobel (questa volta per la Letteratura): si tratta dello scrittore Vargas Llosa, che a Repubblica spiega come la Rackete abbia disubbidito a "leggi irrazionali e disumane", dimostrando invece di agire con "le migliori tradizioni dell’Occidente democratico e liberale, ai cui antipodi si trova la Lega e il suo leader". Allora Llosa si scaglia contro Matteo Salvini, che incarnerebbe, insieme ai suoi seguaci, "comportamenti selvaggi e la barbarie di cui accusano i migranti. Non meritano di essere qualificati diversamente coloro che avevano deciso che i 42 sopravvissuti della Sea-Watch 3, piuttosto che calpestare il sacro suolo d’Italia, potevano annegare o morire di malattia o di fame". Ma quei 42 migranti non sono morti, sono sbarcati in Italia "grazie al coraggio di Carola Rackete", che ora meriterebbe il prestigioso riconoscimento. A detta dello scrittore, infatti, la capitana avrebbe combattuto il neofascismo del vicepremier leghista: "Dobbiamo affrontare i Matteo Salvini dei nostri giorni con la convinzione che non sono altro che il prolungamento di una tradizione oscurantista che ha riempito di sangue e cadaveri la storia dell’Occidente e sono stati il nemico più acerrimo della cultura della libertà, dei diritti umani, della democrazia", spiega Llosa. In Italia, lo Stato di diritto sarebbe morto e per combattere questa situazione lo scrittore lancia, infine, un appello: "Questo è l'esempio da seguire", quello di una capitana che avrebbe violato una "legge stupida e disumana", perché "dal carcere si esce, dal fondo del mare no".
Sea Watch 3 e Carola Rackete sfidano Italia e Viminale e fanno i soldi: ecco quanto incassano. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 10 Luglio 2019. Per le Ong i soldi non sono mai stati un problema. Tantomeno lo sono ora che la sfida lanciata al governo italiano le ha messe al centro dell' attenzione globale (ieri il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa ha proposto il conferimento del Nobel per la pace a Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3 che ha urtato una motovedetta della Guardia di Finanza per attraccare a Lampedusa). Niente di più facile, dunque, che lanciare una sottoscrizione on line e raccoglierne i frutti. È quel che ha fatto Mediterranea Saving humans, l' associazione dell' ex no global convertitosi in no border Luca Casarini, che in due giorni ha già raccolto oltre 50 mila euro. È bastato pubblicare su Facebook la foto di Fatima, una bimba di cinque mesi raccolta in mare nei giorni scorsi dal veliero Alex, e più di 2.000 persone hanno messo mano al portafoglio. La sanzione da 65 mila euro comminata dalla Guardia di Finanza sarà dunque di fatto pagata dai sottoscrittori della colletta.
OBIETTIVO 300MILA EURO. Il cui obiettivo però è più ambizioso: si punta ad arrivare a quota 300 mila euro, per poter in questo modo mettere in mare un' altra nave, visto che l' imbarcazione principale, la Mare Jonio, da oltre un mese è sotto sequestro a Licata per decisione della Procura di Agrigento, e il veliero Alex (quella che originariamente doveva essere la barca d' appoggio) è stato confiscato in base al decreto sicurezza bis. Nonostante i «tre comandanti e tre capomissione indagati, per favoreggiamento dell' immigrazione clandestina, non aver obbedito all' ordine di nave da guerra, non aver obbedito all' intimazione di non entrare nelle acque territoriali, più altre piccole cose», come ricorda su Facebook l' armatore di Mediterranea Alessandro Metz, la "battaglia navale" contro il ministro dell' Interno Salvini continua: «Il nostro problema è che siamo testardi e ostinati, continuiamo a pensare che Mediterranea serva e che debba stare in mezzo al mare».
UNA CASSA COMUNE. E forse Mediterranea, che ieri ha denunciato pure di aver subito «da server russi» un attacco informatico che per un po' ha messo ko il suo sito internet, potrà beneficiare anche della generosità della Ong tedesca Sea Watch, che ha detto di voler condividere con le altre associazioni impegnate nel salvataggio di migranti in mare i fondi raccolti in seguito alla campagna pro-Carola lanciata da un presentatore televisivo. Le donazioni in questo caso hanno già superato quota un milione e 300 mila euro e il portavoce di Sea Watch, Ruben Neugebauer, ha annunciato la formazione di «un comitato» per decidere come impiegarli: «Vogliamo usare questo denaro nel modo più efficiente possibile per il soccorso in mare, non solo per Sea Watch. Vogliamo vedere insieme dove sono più necessari». Alessandro Gonzato
Sea Watch 3, il segreto scomodo di Carola Rackete: cosa nasconde la ricca ragazza tedesca. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 3 Luglio 2019. Sarebbe bastato un buon analista per risparmiare all' Italia la seccatura di Carola Rackete, insieme con lo spargimento d' ipocrisia che il suo complesso da piratessa triste porta con sé. La ragazza che solcava i mari per aiutare i poveri sulla nave dei ricchi, la Sea Wacht3, probabilmente verrà soltanto sculacciata (metafora) dalle nostre autorità e poi rispedita in Germania a fare i conti con la propria irresolutezza di bambina ricca, viziata, degna prosapia d' una famiglia alto borghese nella Bassa Sassonia affacciata sul freddo orizzontale del Mar Baltico. In realtà Carola era una predestinata, come lei stessa ebbe modo di dichiarare in tempi sospetti: «La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto».
FOLLIA ROMANTICA. Eccolo, allora, l' inventario del senso di colpa che attanaglia l' eroina delle sinistre orfane di capi: un elenco di virtù non volute, immeritate ed espiate mediante l' invasamento immigrazionista, la coazione al soccorso purchessia degli ultimi della Terra. Ma attenzione, nell' allucinazione terzomondista che ottenebra la giovane Carola non c' è spazio per la personalizzazione dei buoni sentimenti: a Lampedusa, mentre speronava l' imbarcazione della Guardia di Finanza, lei era pronta a sacrificare tutti i suoi adorati (e da noi tutti commiserati) 42 migranti africani pur di affermare la sua battaglia di principio. L' assioma universale è appunto questo: chi siete voi per impedirmi di redimere il mondo pur di acquietare la mia coscienza?; chi siete voi, con le vostre leggi e i vostri confini, per arrestare la nuova Antigone? Insomma «come può uno scoglio arginare il mare» della sua romantica compassione? Chissenefrega delle vite al dettaglio, deve aver pensato lei, men che mai di quelle degli sbirri italiani guidati dal fascistissimo ministro Matteo Salvini. Ma perfino i poveri disgraziati raccolti nelle acque internazionali, in tale ottica, sono niente più che un pretesto in carne e ossa per affermare la religione astratta dei diritti universali, non certo la cura concreta delle persone. È tutta una questione individuale innescata da una teoria seducente che precipita nella prassi egoriferita di una trentenne con le trecce rasta. E quella piega amara delle sue labbra è lo sfoggio d' una supponenza scagliata contro la noia di dover rendere conto di sé, e quale sé!, alle autorità.
SUPER-EGO. A guardarla bene, con la canottierina nera da piratessa, il braccio destro alzato con fierezza nel saluto ai suoi seguaci mentre gli uomini in divisa la portavano via, Carola appare come una specie di eterna fanciulla vittima della scuola Montessori e caduta nella pozione magica di un villaggio barbarico del nord Europa: uno di quei luoghi misteriosi nei quali la realtà cede il posto alla fiaba gotica e ogni pensiero diventa un assoluto, il prologo di un' ordalia, il dettaglio decisivo del Götterdämmerung. La signorina Rackete è dunque l' interprete speciale di un quotidiano crepuscolo degli dèi nel quale mette in scena la lotta ai ferri corti del suo presunto bene contro il male rappresentato dalla complessità del reale. E la dura, esecrabile verità del commercio d' anime e corpi su cui ingrassano gli scafisti nordafricani? E la sovranità degli Stati contemporanei? E la possibilità, anzi la necessità di mediare in modo adulto fra le posizioni che si contendono il successo anziché sfidare il potere? Dettagli fastidiosi e insignificanti, per Carola che è chiamata a salvarci dalle tenebre. Buon per lei e per il suo super-ego. Pessimo, invece, per chi ne calca le sciagurate impronte. Perché la capricciosa Antigone germanica non sconterà il fio delle sue responsabilità, per sua fortuna, mentre i suoi improvvisati seguaci a corto d' idee finiranno sommersi dal ridicolo. Alessandro Giuli
Sea Watch, Carola Rackete e un futuro già scritto. Senaldi: "Dove ci ritroveremo la Saviano in gonnella". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 3 Luglio 2019. Robe da matti. Ci mancava solo la beatificazione. La decisione del Gip che scarcera Carola trasforma la piratessa tedesca in una santa guerriera. Chissà come gode e come se la ride alle nostre spalle grazie al magistrato umanitario di Agrigento. Fortunata lei, che la giustizia non è uguale per tutti. In Italia il 34% della popolazione carceraria è composto da detenuti in attesa di giudizio. Questo significa che abbiamo dietro le sbarre circa 22-23mila persone che per la legge sono presunti innocenti. Tra di loro non c' è Carola Rackete, la capitana Uncino tedesca che ha violato innumerevoli leggi del mare e del codice cavandosela con due notti agli arresti domiciliari. E sì che nel suo caso ci sono entrambi i presupposti per la carcerazione preventiva: la concretezza dell' accusa (fumus boni iuris), acclarata perfino dal pm anti-Salvini Patronaggio, il quale ha scritto che la signora non ha agito in stato di necessità e ha tenuto una condotta violenta, e la probabilità di reiterazione del reato (periculum in mora), visto che Carola rivendica orgogliosamente ciò che ha fatto e alcuni parlamentari addirittura la sostengono. Per di più dalla sua Germania, e anche dalla Francia, sono arrivate irrituali pressioni diplomatiche per liberarla. Insomma, la capitana è fuori non tanto per ragioni di diritto quanto per motivi politici, perché è una raccomandata e ha amici nei posti giusti. Per questo, pur da ferventi garantisti, la sua liberazione ci scoccia. Non ci resta che toglierci la soddisfazione di espellerla. Capiamo le ragioni di Stato e finanche quelle del diritto ma ogni tanto, per credere nello Stato, avremmo anche bisogno di una giustizia più comprensibile dai cittadini comuni. Carola libera di sbarcare nuovi clandestini, diventa un simbolo, una garanzia di immunità per tutti coloro che fanno del trasbordo di profughi in Italia, spesso dietro segnalazione telefonica degli scafisti, una professione. Tant' è che la Sea Watch, l' organizzazione per la quale la Rackete lavora, ha già annunciato che riprenderà il mare alla ricerca di nuovi extracomunitari da riversare sulle nostre coste. Questi pirati umanitari ci ritengono un Paese sull' orlo della dittatura, con un ministro dell' Interno che descrivono nel peggiore dei modi, eppure non smettono di puntarci, zigzagando tra porti sicuri e Paesi più vicini pur di giungere fino a noi.
Santa subito - I soloni della sinistra hanno detto e scritto che non si può tenere in carcere una persona per aver salvato delle vite umane. Siamo d' accordo, solo che nessuno processa Carola per aver caricato a bordo i profughi. L' accusa è di aver messo a rischio la loro vita forzando il blocco navale e tentando un maldestro quanto non necessario approdo notturno che ha rischiato di uccidere anche i nostri finanzieri. L' altra accusa è quella di favorire l' immigrazione clandestina, offrendo un servizio taxi in deroga agli accordi internazionali, visto che la Sea Watch non ha firmato neppure il codice di autoregolamentazione delle ong, quindi la sua scelta di essere fuorilegge è filosofica e di principio, prima ancora che pratica. Le punizioni esemplari ci fanno schifo, ma detestiamo altrettanto le santificazioni di chi sfida le leggi italiane e prende in giro il nostro Paese. Certo, se i primi a esaltare chi infrange le norme sono i parlamentari che queste leggi sono chiamati a farle, il cortocircuito diventa totale e non possiamo aspettarci che un manipolo di giovani invasati, pure stranieri, che si atteggiano a Madre Teresa di Calcutta ma vivono come Giovanni Soldini o gli skipper di Prada abbiano rispetto dei nostri militari e dei nostri ministri.
Saviano in gonnella - La giustizia farà il suo corso e la piratessa Carola magari sarà condannata, anche se le parole assolutorie del gip ci inquietano. Siamo certi che in Italia non sconterà nessuna pena. La ritroveremo tra qualche tempo a concedere interviste ai nostri maggiori quotidiani o a scrivere le sue memorie per Feltrinelli. Ci spiegherà quanto siamo barbari e disumani e migliaia di idioti compreranno il suo libro. Buona invasione a tutti. Forse un giorno la vedremo pure all' Europarlamento, a eruttare norme severe contro l' Italia, o a battersi contro la ripartizione per quote dei profughi tra i vari Paesi. Proprio come i veri colonialisti che dice di odiare tanto ma dei quali si è messa in servizio permanente. L' hanno comprata con un briciolo d' avventura e l' illusione di riscattare la colpa dei propri ricchi e tedeschi natali. Non tenendola agli arresti e cacciandola pensiamo di risolverci un problema, e forse adesso ci togliamo davvero una scocciatura, ma ci assicuriamo una rompiballe alla Saviano per i prossimi dieci anni. Leviamoci almeno la soddisfazione odierna di mandarla a stendere: cara Carola, fuori dai piedi. Pietro Senaldi
La "capitana" Carola e la colpa di essere bianchi. La "Capitana" della Sea Watch 3, la 31enne tedesca Carola Rackete, racconta che essere bianchi e benestanti è una colpa e di avere l'obbligo morale di aiutare i migranti. Roberto Vivaldelli, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Essere benestanti e bianchi dev'essere qualcosa di davvero insostenibile per la "Capitana" della Sea Watch 3, la 31enne tedesca Carola Rackete, nuovo idolo indiscusso della sinistra femminista e no border che sfida, con l'appoggio di stampa, intellettuali e opinionisti chic, le leggi dello stato italiano. È lei stessa a confessare il suo insostenibile senso di colpa in un'intervista rilasciata a Repubblica: "La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, a 23 anni mi sono laureata. Sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto, ho sentito un obbligo morale di aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità". Passaporto tedesco, nata in Bassa Sassonia, di buona famiglia, Carola ha 31 anni e parla quattro lingue oltre a quella madre: inglese, francese, russo e spagnolo. Secondo lo scrittore Roberto Saviano, la comandante Carola Rackete della Sea Watch "agisce secondo i principi costituzionali del nostro Paese e non sta violando nessuna legge. I porti sono aperti, c’è un’emergenza. Siamo con lei, sento di riconoscermi in questo gesto. Sono persone stremate hanno vissuto nell’inferno libico”. Grazie a Saviano e agli intellettuali laici del politicamente corretto, Carola ha già avuto, almeno in parte, la redenzione che probabilmente cercava.
Il suo curriculum è curioso: laureata in scienze nautiche, ha conseguito un master in conservazione ambientale presso l'università inglese di Edge Hill con una tesi sui nidi degli albatros. È ufficiale di navigazione dal 2011 per un istituto di ricerca marina e polare tedesco e ha una serie di esperienze a bordo di varie imbarcazioni di associazioni come Greenpeace e la British Antarctic Survey, un'organizzazione britannica che si occupa della ricerca e della divulgazione scientifica sull'Antartide. Ha lavorato anche come guida nell'artico russo. Dal 2016 collabora con la Sea Watch per far fronte alla crisi migratoria nel Mediterraneo.
"Tipi come Carola - spiega il professor Marco Gervasoni su Il Messaggero - li abbiamo visti in questi ultimi mesi: sono per la maggior parte tedeschi o olandesi, vengono da famiglie benestanti, predicano l'ideologia no border (no ai confini!) che è quella di una borghesia globalista un po' in declino, e soprattutto non hanno timore a violare le leggi dei vari Paesi". Dalle parole della "Capitana" Carola si comprende quanto sia radicata in lei l'ideologia totalitaria che ripudia la sovranità degli stati-nazione, le sue leggi, e nutre un odio profondo e radicato per i bianchi della classe media, di cui la stessa Carola fa parte. Degenerazione ideologica particolarmente in voga fra i liberals degli Stati Uniti, dove la parola "bianco" è diventata quasi un insulto, una parolaccia, sinonimo di "reazionario". Una colpa da espiare.
Una sinistra liberal che appoggia una forma radicale e totalitaria di multiculturalismo che sottovaluta l'importanza di integrare gli immigrati nella cultura nazionale sotto il vessillo dell'antirazzismo militante. Carola è figlia di questa cultura globalista da figli di papà annoiata che è, a differenza di ciò che lei crede, fortemente élitaria e provoca tensioni sociali soprattutto nei ceti meno abbienti. Perché, alla fine, per quelli come la "Capitana", tutta la colpa è sempre "nostra", dei bianchi occidentali. Nel suo ultimo libro La Notte della sinistra. Da dove ripartire (Mondadori), Federico Rampini, facendo riferimento alla tumultuosa storia dell'Etiopia, parla del "vizio che perseguita noi occidentali: quello di credere che siamo l'ombelico del mondo. Ovverosia, nella versione politically correct, dal dogma per cui ogni sofferenza dell'umanità contemporanea si deve ricondurre alle colpe dell'Occidente, dell'uomo bianco. Basta scavare bene, basta seguire le piste giuste, rispolverare le dietrologie adeguate, e alla fine spuntiamo sempre noi, il nostro colonialismo, il nostro imperialismo, il nostro capitalismo. Solo espiare le nostre colpe può appagare una sinistra che non apre mai i libri di storia". Comunque vada, le Ong come la Sea Watch si dimostrano abili nel perseguire i propri obiettivi: attirare l'attenzione per fare pressioni sui governi in quanto portatori di una "coscienza globale" che ha l'obiettivo dichiarato di sfidare gli Stati e la loro autorità. Perché l'immigrazione rappresenta una formidabile arma di coercizione ancor prima che un business. Come scrive Gian Micalessin su IlGiornale, infatti, il fine dei pirati è demolire gli stati e soddisfare gli interessi di nuove entità sovranazionali poco disposte a metterci la faccia. Carola, per costoro, è la perfetta eroina contemporanea.
Sea Watch, il segreto di Carola Rackete: cosa nasconde la capitana della nave Ong. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 28 Giugno 2019. Spiacerà alla Capitana, eppure io non solo sono un uomo occidentale e «bianco»(per usare il suo linguaggio razzista all'incontrario), ma sono fiero di esserlo. Sono nato in questa fetta di mondo, l'unica che alla prova della storia ha coniugato libertà personale e benessere collettivo (e non è un caso, se togliete la prima non avrete nemmeno il secondo, come ha dimostrato il fallimento epocale della distopia comunista). Non ne ho tratto alcun senso di colpa e non penso di dover espiare la mia provenienza biografica e culturale negandola, mortificandola, precipitandomi a fare da navetta tra lo sporco lavoro degli scafistie le coste europee, quelle dei miei avi «bianchi», maledetti loro, come fa Carola Rackete. La comandante della Sea Watch e fresco totem delle sinistre mondiali (tanto da mettere già in discussione il primato che sembrava consolidato dell' ecofondamentalista Greta) rappresenta infatti un caso da manuale di quella che il grande filosofo conservatore Roger Scruton chiama «oicofobia». Letteralmente: l'avversione per ciò che è proprio, per la propria casa, per la propria cultura, per la propria storia. L'odio di sé. Una malattia dello spirito che è diventato il passatempo preferito delle classi dirigenti (?) europee e dei loro figli privilegiati, come Greta, come Carola. Per cui dopo il master in Conservazione Ambientale con una fondamentale tesi sui «nidi degli albatros», si inizia a far la spola tra la Libia e Lampedusa. Perché c'è un unico modo, per quest' intossicati dalla vergogna di sé, di riscattare i torti dell' Occidente verso tutti i dannati della terra. Portarceli in massa. Fino a dissolverlo, ovviamente. Perché vedi, cara Capitana, io che non ho sviluppato alcuna nevrosi ossessivo-compulsiva verso la mia identità, anzi ringrazio ogni giorno di appartenervi, so bene che la civiltà occidentale è eccezionale. In senso tecnico, un'eccezione dentro la storia di quel legno storto che è l' uomo. Solo all'interno di quest' eccezione si è dato quell'aggeggio che chiamiamo «democrazia», sia nel senso degli antichi, con la grande ouverture greca, che in quello dei moderni. Solo all' interno di quest' eccezione è comparsa la nozione cristiana di persona, e di dignità universale insita in essa, che poi si è trasformata nell' idea liberale e illuminista di individuo, e di diritti inalienabili ad esso connaturati. Solo all'interno di quest'eccezione è potuta crescere la più formidabile macchina di creazione di ricchezza e di riduzione della povertà che la storia umana conosca e che si chiama, volenti o nolenti, capitalismo (lo sanno bene, o meglio dovrebbero saperlo bene, Carola e i giovani ultrà del multiculturalismo come lei, visto che appartengono tutti all'alta borghesia, per quanto le loro acconciature non lo diano a vedere). Solo quest'eccezione su cui Carola e i suoi fratelli sputano ogni giorno, e che vorrebbero edulcorare in un'appendice dell'Africa, ha generato qualcosa che si chiama «società aperta», dove coesistono libertà economica, pluralismo religioso, pari dignità tra uomo e donna. Ebbene, io che non solo non mi vergogno di appartenere a quest'avventura, ma lo rivendico, so bene che la sua splendida anomalia rischierebbe di essere spazzata via, se passasse il modello che la Capitana e certi analoghi figli privilegiati d'Occidente in fregola parricida propugnano. Esodo incontrollato di popolazioni, che è cosa ben diversa dal fisiologico fenomeno dell'immigrazione, frullato impazzito di visioni del mondo spesso tra loro incompatibili, sostituzione culturale prima ancora che etnica. Fino alla sparizione dell'(auto)odiato uomo bianco e dello stesso Occidente. L'espiazione finale, il suicidio di una civiltà raggiunto nemmeno con un atto grandioso, ma per agonia ideologica, per triste e sfibrante autoconsuzione, la rinuncia definitiva. Il sogno di tutte le Carola Rackete. L'incubo di chiunque ami la libertà. Giovanni Sallusti
Sea Watch, il "legame oscuro" tra Carola Rackete e George Soros. Diego Fusaro: "Capitali coraggiosi". Libero Quotidiano il 28 Giugno 2019. Capitani? No, "capitali coraggiosi". Con un post su Twitter, il filosofo Diego Fusaro attacca Carola Rackete, capitana della Sea Watch, e il filantropo e speculatore miliardario George Soros da sempre favorevole alla circolazione incontrollata dei migranti lasciando intendere un legame tutto economico tra la nave della Ong tedesca e il finanziatore. Sempre Fusaro ha aspramente criticato la Rackete, definita "figlia di papà che si finge ribelle, per giustificare la propria esistenza annoiata", che "ama il lontano", perché in realtà "odia il vicino".
La famiglia della capitana: faceva autostop in Sudamerica e anche stavolta se la caverà. Pubblicato giovedì, 27 giugno 2019 da Sandro Orlando su Corriere.it. A Ovelgönne, frazione di Hambühren, in Bassa Sassonia, la notizia ha appena aperto il tigì della prima rete pubblica. Il signor Ekkehart risponde al telefono con la voce serena: «Se sono orgoglioso di mia figlia? Certo che sì. Preoccupato per lei? Ma no, se la sa cavare». L’ingegner Ekkehart, 74 anni, è il papà di Carola Rackete, la capitana della Sea Watch, la ragazza che Matteo Salvini ha definito una «sbruffoncella», e di sua figlia dice: «Si possono non condividerne i modi, ma sta facendo la cosa giusta». La signora Siglinde, dalle sue spalle, gli fa eco: «Quello che sta facendo esprime pienamente il suo carattere, Carola fa sempre quello che ritiene giusto». Solo che mentre la mamma ammette di aver paura, il papà, un ingegnere elettronico in pensione dopo 30 anni di lavoro nell’industria militare, si mostra tranquillo: «Mia figlia ha 31 anni, e sa quello che fa». Aggiungendo poi divertito: «Carola parla cinque lingue e conosce anche un po’ di italiano, speriamo solo che non abbia il modo di perfezionarlo in qualche vostro carcere». «Quando era più piccola ha girato tutto il Sudamerica in autostop. È stata in Antartide e al Polo Nord, ha fatto per otto mesi la volontaria in una riserva in Kamtchatka, e andata in Pakistan da sola e non ci ha mai dato preoccupazioni», continua il signor Ekkehart, spiegando di aver sentito sua figlia l’ultima volta domenica scorsa, quando era già vicino Lampedusa: «Ma la linea era molto disturbata, e abbiamo comunicato poi via mail». Lui è stato un ex ufficiale della Marina, «colonnello», aggiunge in italiano. Se questo ha influito sulle scelte di Carola? «Ma no, io al massimo ho navigato su una barca a vela». Eppure mentre la più grande, Barbara, ha seguito le sue orme, studiando ingegneria all’università di Hannover, l’altra ha deciso dopo le superiori di intraprendere la carriera marittima, e si è iscritta alla scuola nautica di Elsfleth, vicino Brema. «All’epoca era miope, e con quel difetto visivo non poteva essere ammessa. Così decise di farsi l’operazione col laser». Dopo otto semestri di corsi ed esercitazioni Carola comincia così ad imbarcarsi come ufficiale di complemento sulle navi da crociera in Sudamerica. «Lavorava dai tre ai sei mesi, ma poi il resto dell’anno viaggiava». È un po’ una mania di famiglia questa, perché anche Barbara gira molto in Sudamerica come volontaria di Ong cristiane, prima di essere assunta nella filiale della Volkswagen in Messico, e poi in quella in Brasile. Dopo l’esame da primo ufficiale nel 2015 Carola si imbarca per sette mesi con la Arctic Sunrise di Greenpeace, per una campagna nel mare del Nord. Dopo di ché si iscrive alla Edge Hill University di Liverpool per prendere un master in conservazione ambientale. Costo: oltre 40 mila euro. «Se siamo ricchi? No, certo gli abbiamo comprato una casa in Inghilterra, ma lei con i suoi imbarchi guadagna abbastanza da potersi poi permettere dei periodi di volontariato». Nel maggio 2016 conosce la Sea Watch, e l’estate successiva partecipa in modo più continuativo alle missioni di salvataggio nel Mediterraneo. Nel frattempo alterna lo studio a lavori per tour operator ed esplorazioni polari. Ad abitare resta nella villa dei genitori tanto è sempre in giro. «Fidanzati? Mai visto nessuno — sospira il padre — del resto con una vita così». (Ha collaborato Christina Ciszek)
Sea Watch: «Fate donazioni per aiutare il capitano Carola a salvare i migranti». Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 su Corriere.it. «Se il nostro capitano Carola porta i migranti salvati dalla Sea Watch 3 in un porto sicuro, come previsto dalla legge del mare, affronta pene severe in Italia». È un tweet della ong tedesca -che invita a donare al fondo per l’assistenza legale di Sea Watch per «aiutare Carola a difendere i diritti umani »- a confermare che la nave sarebbe decisa a entrare in un porto italiano, nonostante lo stop del Viminale e nonostante la Corte di Strasburgo non abbia ravvisato circostanze «eccezionali» tali da intervenire per spingere il governo italiano a cambiare idea. Su Carola Rackete, 31 enne tedesca alla guida dell’imbarcazione, ora si concentra l’attenzione internazionale. «Sono responsabile delle 42 persone che ho recuperato in mare e che non ce la fanno più. Le loro vite sono più importanti di qualsiasi gioco politico», dice Rackete, confermando di voler entrare nel nostro Paese, con o senza autorizzazione, per far sbarcare i migranti. Il suo avversario numero uno è Matteo Salvini, che insiste: «Una nave olandese di una ong tedesca che raccoglie migranti in acque libiche perché deve arrivare in Italia? Sono 15 giorni che stanno qui. In 15 giorni sarebbero arrivati in Olanda». Il ministro dell’Interno sottolinea che «i porti più vicini sono Malta e Tunisia. Perché devono venire in Italia? Vadano in Francia, Olanda, dove vogliono. In Italia no». Secondo Salvini, «se accade qualcosa a questi 42 immigrati la colpa è dei signori delle ong e dei signori del governo olandese, a cui ho scritto tre volte». E «se entreranno in Italia, la nave verrà sequestrata», anticipa Salvini, che continua ad addossare la colpa alla ong, sostenendo che sia «scientemente complice dei trafficanti di esseri umani». Il punto è che, anche se la Corte di Strasburgo ha ritenuto che le condizioni a bordo «non costituiscano un danno imminente e irreparabile all’incolumità dei naufraghi», chiede però all’Italia di «prestare il necessario supporto alla nave», e sottolinea che «resta la responsabilità del comandante di portare in salvo i naufraghi». A questo ultimo elemento potrebbe appigliarsi la Rackete, valutando che la sua responsabilità consiste nel far sbarcare i migranti proprio in Italia, pur rischiando sulla sua pelle una denuncia e una multa. Perché, va detto, per molti migranti l’alternativa alla fuga e all’esilio è la morte, come dimostra l’ennesimo macabro ritrovamento di ieri. Il cadavere di un uomo è stato recuperato a circa 25 miglia dalla costa di Sciacca, in provincia di Agrigento, dal motopeschereccio «Mamma Giovanna». Il corpo si era aggrovigliato nella rete da pesca. Il capitano dell’imbarcazione ha subito avvisato la Guardia costiera. L’ipotesi è che si tratti del cadavere di un migrante annegato nel tentativo di raggiungere l’Italia.
Sea-Watch, corsa alle donazioni: in sole 24 ore raccolti 220 mila euro. Grande successo per la colletta lanciata dalla Rete italiana antifascista. I soldi serviranno a pagare le multe - dai 10 ai 50mila euro - per essere entrati nelle acque territoriali senza autorizzazione. Il contributo medio è stato di 17 euro. Ettore Livini il 27 giugno 2019 su La Repubblica. Il cuore social degli italiani mette sul piatto 220mila euro in 24 ore per aiutare la Sea-Watch 3 a pagare le multe - dai 10 ai 50mila euro - per essere entrata(malgrado l'alt della Finanza) nelle acque territoriali italiane. L'idea della colletta online è nata dal basso. "Ho visto tanti commenti sulla nostra pagina Facebook "Il razzismo non ci piace" che ci chiedevano di fare qualcosa di concreto - spiega Franco Matteotti, l'autore "materiale" dell'iniziativa - e ho deciso di attivarmi". Detto fatto. "Ci siamo coordinati con una serie di attivisti per rilanciare il progetto" racconta Fabio Cavallo della Rete nazionale antifascista. Matteotti ha pubblicato sulla bacheca l'appello. Titolo: "Raccolta fondi per spese legali e sanzioni per seawatch". E in pochi secondi il messaggio in bottiglia buttato nel mare magnum della rete è rimbalzato in ogni angolo del web, più virale di un post di Chiara Ferragni. "Non ci aspettavamo di certo un successo del genere", ammette Cavallo. Nella serata di mercoledì erano già stati raccolti quasi 50mila euro. E il contattore ha continuato a correre per tutta la giornata di ieri: in tarda serata il numero dei donatori aveva raggiunto quota 13mila e la somma messa assieme, in continuo aggiornamento, aveva superato i 200 mila euro. Cifra più che sufficiente per coprire le possibili multe per la missione a Lampedusa, al netto del rischio del sequestro della nave e delle eventuali conseguenze penali (con una pena massima di 15 anni) per la capitana tedesca Carola Rackete.
"Sono soldi di cui noi non vedremo un centesimo - assicura Cavallo -. Vengono gestiti direttamente dalla società di Mark Zuckerberg che li girerà alla ong. E se ne avanzeranno, serviranno per finanziare nuove missioni. Non abbiamo dietro Soros, non ci sono partiti. Il nostro è stato un gesto di umanità, non una scelta politica". La galassia digitale messa assieme dalla Bestia - il megafono social di Salvini - è stata colta un po' in contropiede (e proprio sul suo campo) da questo fiume di soldi e dall'hashtag #iostoconcarola. E ha reagito così con un po' di ritardo all'affronto, limitandosi a riempire di commenti pieni di fiele il post di Matteotti. La frittata però - dal loro punto di vista - ormai era fatta. "Solidarietà e coraggio Carola, i soldi per le multe li troveremo assieme", ha twittato la scrittrice Michela Murgia quando la "capitana" è entrata in acque italiane. È andata davvero così. E il cuore degli italiani è stato più grande di quello di tedeschi e olandesi: la richiesta di aiuto finanziario internazionale messa su Facebook (in inglese e tedesco) direttamente da Sea-Watch aveva raggranellato ieri sera "solo" 5.975 euro. Briciole rispetto all'onda spontanea di solidarietà arrivata dall'Italia che ha provato a spingere i 42 migranti a bordo della nave verso i moli di Lampedusa. La donazione media dell’appello tricolore è stata di 17 euro. Pari, secondo i calcoli di Sea-Watch, a cibo e bevande per tre persone o pappa e latte per due bambini, oppure a un salvagente, 20 coperte per persone in ipotermia, carburante per 20 minuti di navigazione. Oggi, sicuro come l'oro, qualcuno sosterrà che l'obiettivo dei "taxisti del mare" era proprio questo: farsi pubblicità per fare soldi. La miglior risposta è uno degli ultimi commenti in calce alla raccolta fondi di ieri sera: "Speranza batte odio 220mila a zero".
Gianluca Grignani insorge sul caso Sea Watch: "Una colletta per aiutare chi viola la legge...". Il caso politico della Sea watch 3 continua a dividere l'opinione del web: il cantautore Gianluca Grignani ha condiviso un post contenente un messaggio che contesta la colletta pro Carola Rackete. Serena Granato, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. Continua a dividere l'opinione pubblica il caso politico di Sea watch 3 nel porto di Lampedusa. Nella notte dello scorso 29 giugno, la capitana del natante ha deciso di forzare il blocco per entrare nel porto di Lampedusa, nonostante la mancata autorizzazione. La capitana, nella manovra di attracco a Lampedusa, ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza, rischiando uno scontro fatale. Carola Rackete è finita agli arresti domiciliari per le accuse di "resistenza a nave da guerra" e "tentato naufragio". Ma a catalizzare particolarmente l'attenzione del popolo del web, nelle ultime ore, sono i messaggi lanciati dagli artisti italiani sull'affaire Sea watch. Dopo Emma Marrone, Fiorella Mannoia e Paola Turci, anche il cantautore milanese Gianluca Grignani ha voluto condividere con gli internauti un post sull'accaduto, il cui messaggio contesta la strumentalizzazione che una parte della classe politica, rappresentata in particolare dal Pd, attuerebbe sui migranti. "Siamo destinati a stare insieme tutti...Pensa se arrivassero gli alieni ...-scrive il cantautore di "Destinazione paradiso", a corredo di una nuova foto pubblicata su Facebook- Allora cosa saremmo, uomini di serie a e serie b. Il mondo è un diritto di tutti e la politica dovrebbe imparare a togliersi le bende dagli occhi, per iniziare a vedere veramente come stanno andando le cose e vergognarsi di ridurre il proprio operato a mera attività di gossip! Io non ho nessuna paura di essere considerato né di destra né di sinistra, mi preoccupo solo ed esclusivamente del popolo e della gente". Il monito lanciato da Grignani è visibile nella descrizione di una foto, sulla quale è riportato un altro messaggio che contesta la colletta pro Carola Rackete:"Il Pd si mobilita per pagare le spese legali di chi ha violato la legge. Secondo loro questi sono i motivi per cui mobilitarsi". Tra i commenti giunti per Grignani su Facebook, si legge: "I veri popoli da aiutare sono quelli che restano lì, impoveriti senza acqua e poco cibo. Di quelli il Pd non se ne interessa. Credo che un po' tutti dovremmo considerarci parte di un solo mondo". L’obiettivo della colletta, il cui appello è stato lanciato dai conduttori tv tedeschi Jan Boehmermann e Klaas Heufer-Umlauf, è il pagamento delle sanzioni che sarebbero inflitte a Carola Rackete per aver forzato l'ingresso nel porto di Lampedusa, oltre che per le spese giudiziarie previste per l'arresto della capitana.
Col milione di euro per Carola si costruivano 350 pozzi in Africa. La corsa buonista a coprire le spese legali di Carola Rackete. Raccolti 1,4 milioni di euro che finiranno alla Sea Watch. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 03/07/2019, su Il Giornale. Carola è libera. Ma le magagne legali del "capitano" della Sea Watch 3 non si chiudono con l'ordinanza emessa ieri dal Gip di Agrigento. I pm l'hanno indagata, oltre che per "resistenza e violenza" contro la Gdf, anche per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Per la Rackete si prospetta una complessa battaglia giudiziaria che avrà dei costi, compresa una multa da 16mila euro per aver violato le norme contenute nel decreto Sicurezza Bis. Ma i soldi non saranno un problema. I fan dell'accoglienza si sono infatti attivati per la "capitana" 31enne. In Germania due conduttori televisivi, Jan Böhmermann e Klaas Heufer-Umlauf, hanno dato vita ad una raccolta fondi per "salvare i soccorritori del mare", "sostenere" il "capitano incarcerato" e l'equipaggio di Sea Watch. In pochi giorni il contatore delle donazioni ha toccato quota 963.673 euro. Una cifra enorme. A questo milioncino vanno aggiunti i 437.786 euro di una "raccolta fondi per le spese legali e le sanzioni per Sea Watch" nata in Italia e diffusa su Facebook. In totale fanno 1,4 milioni di euro abbondanti. Non pochi, anzi tantissimi. Risorse che (almeno per la parte italiana) nel caso "non fosse necessario" utilizzarle "rimarranno a disposizione dei Sea Watch per la prossima missione" alla ricerca di immigrati. Per carità, ognuno investe le proprie risorse come vuole. Ma se quel milione e mezzo di euro, invece di finire nelle casse di una Ong che pattuglia le coste della Libia, defluisse altrove? Magari per aiutare la popolazione africana a non emigrare, a costruire infrastrutture o a ridurre la carestia? Avete idea di quante cose si possono fare con 1.401.459 euro? Proviamo a fare qualche esempio. L'Azione per un mondo unito (Amu) con 570mila euro sta sostenendo un progetto in Burundi per edificare un acquedotto di 23km, 32 punti d'acqua, 20 servizi igienici e promuovere attività di microcredito. In tutto verranno spesi 571mila euro, un terzo di quanto raccolto per Rackete. Con quel milione abbondante di euro, per dire, si potrebbero acquistare 170 serbatoi da 30 metri cubi per garantire acqua potabile a chi non ne ha. La domanda è: perché investire così tanto in attività di soccorso ormai marginali? Per il pm Luigi Patronaggio, infatti, dei migranti sbarcati ad Agrigento "quelli soccorsi dalle Ong sono una porzione assolutamente minore e, per quanto riguarda il 2019, statisticamente insignificante". Il fatto è che l'azione delle Ong in realtà sembra tradire anche un intento politico. O almeno ideologico. Non vogliono che la Guardia costiera libica riporti a Tripoli i migranti. E considerano solo l'Italia come "porto sicuro" più vicino dove sbarcare quelli che fanno salire a bordo. Portare avanti questo braccio di ferro con Salvini, però, sta drenando risorse ingenti che sarebbero potute finire altrove. Mani Unite Onlus quantifica in 2.800-4.000 euro il prezzo di un pozzo di profondità media di 70 metri. Con i soldi donati a Rackete se ne potrebbero realizzare 350 in Mozambico. Ancora? Un pozzo artesiano in Togo può arrivare a costare 10mila euro, ma con quel milione e mezzo se ne regalerebbero 15 è costretto a fare decine di chilometri per abbeverarsi. Il discorso è serio, non strumentale. In Africa 321 milioni di persone non hanno accesso all'acqua potabile. Per la mancanza di acqua pulita muore un neonato al minuto e le malattie connesse all'igiene uccidono 1 milione di africani all'anno. Fare la conta dei morti è orribile, ma nel Mediterraneo nel 2018 ne sono affogati 2.299. Ecco. Sappiate che con 2mila euro all'Amref si potrebbero donare 4mila litri di acqua pulita. I sostenitori di Carola avrebbero potuto portare in Africa 2,8 milioni di litri. Ma hanno preferito sovvenzionare Sea Watch.
La Sea Watch è entrata (di forza) nel porto di Lampedusa. In piena notte la decisione della Capitana Carola Rackete arrestata dopo l'ennesimo reato. Speronato un barchino della Gdf. Panorama il 29 giugno 2019. E' finita come previsto, come forse la Capitana, Carola Rackete, ha sempre sognato. La Sea Watch 3 ha sfondato per l'ennesima volta il blocco navale dello Stato Italiano ed è entrata al porto di Lampedusa dove è attraccata verso le 2 della scorsa notte. Durante le fasi concitate della manovra di attracco la nave ha urtato una piccola motovedetta della Guardia di Finanza, speronandola e rischiando di falra affondare. Carola Rackete è stata arrestata con diversi capi di imputazione: favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e soprattutto resistenza contro nave da guerra e rischio naufragio. Reati questi ultimi che prevedono diversi anni di carcere. All'arrivo nel porto ci sono stati momenti di tensione tra alcuni manifestanti schierati dalla parte della Ong ed alcuni abitanti di Lampedusa che chiedono soprattutto per la loro isola il rispetto delle regole. Questa la cronaca. Carola Rackete ha fatto la sua scelta, fino in fondo. Ha sfidato più volte l'Italia e le sue leggi, ha infranto tutti i codici possibili ed immaginabili, ha portato fino all'estremo la sua linea "politica" della disobbedienza civile contro le norme sull'immigrazione del Ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Ora la palla passa all'Italia, alle sue leggi, ai suoi giudici ed ai suoi politici. Siamo davanti ad un bivio non da poco che forse cambierà più che le leggi il nostro modo di interpretarle, insomma, la nostra vita. L'Italia deve decidere se sia possibile infrangere i suoi confini e non rispettare le sue leggi in nome della disobbedienza civile. Ps. I Parlamentari del Pd che erano sulla Sea Watch hanno raccontato di aver provato a fermare Carola, a farle cambiare idea nell'attesa e speranza che arrivasse una soluzione politica internazionale ma lei non ha sentito ragioni. Ecco, non solo nuova eroina e donna simbolo. Carola Rackete è la nuova Capitana del Pd.
(ANSA il 29 giugno 2019) - La comandate della Sea Watch, Carola Rackete, è stata fermata dalla Guardia di Finanza dopo avere violato i divieti e avere portato la nave in porto. I militari sono saliti a bordo e l'hanno prelevata. Rackete è poi stata fatta salire su un'auto della Guardia di Finanza ed è stata portata verso la caserma.
(ANSA il 29 giugno 2019) - La comandante della Sea Watch, Carola Rackete, portata via poco fa dalla Guardia di Finanza, è in stato d'arresto. L'accusa nei suoi confronti, secondo quanto si apprende, è violazione dell'Articolo 1100 del codice della navigazione: resistenza o violenza contro nave da guerra, che prevede una pena dai tre ai 10 anni di reclusione. "Il comandante o l'ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. La pena per coloro che sono concorsi nel reato è ridotta da un terzo alla metà": questo il testo dell'Articolo 1100 del codice della navigazione.
(ANSA il 29 giugno 2019) - E' iniziato lo sbarco dei 40 migrati a bordo della Sea Watch. I primi quattro sono già saliti su uno dei mezzi che li trasferirà al centro di accoglienza sull'isola e le procedure di sbarco stanno proseguendo senza problemi. Prima di sbarcare dalla nave i migranti hanno salutato e abbracciato i volontari della ong che in queste due settimane li hanno assistiti. A bordo della nave ci sono anche gli uomini della Guardia di Finanza e della Polizia che stanno ponendo sotto sequestro l'imbarcazione.
(ANSA il 29 giugno 2019) - Dopo le operazioni di sbarco dei migranti che erano a bordo della Sea Watch decine di militari della Guardia di Finanza hanno preso di fatto il comando della nave. La grossa imbarcazione è stata portata fuori dal porto intorno alle 06,30 perché la sua presenza in porto, fa nascere due problemi: il primo riguarda i decolli e gli atterraggi degli aerei, in quanto l'albero della Sea Watch è molto alto e interferisce all'interno del cuneo di sicurezza di decolli e atterraggi del vicino aeroporto; il secondo riguarda i traghetti di linea che collegano Lampedusa con il resto della Sicilia in quanto la nave della Ong impedisce il loro attracco.
(ANSA il 29 giugno 2019) - Dovrà essere portata quasi sicuramente in cantiere per essere riparata la motovedetta classe V 800 in servizio a Lampedusa che è stata quasi "schiacciata" sulla banchina commerciale dalla Sea Watch, dopo che la nave della Ong ha forzato il blocco della Guardia pur di approdare. L'unità della Guardia di Finanza stava ormeggiando quando è stata speronata dalla Sea Watch. Solo grazie alla prontezza del pilota e a un perfetto coordinamento dell'equipaggio è stato evitato il peggio. La motovedetta, infatti, è in vetroresina mentre la nave è in ferro; il problema riguarda naturalmente anche le dimensioni delle due imbarcazioni che sono di uno a 30 circa. La parte inferiore dello scafo è stata seriamente danneggiata e l'unità della Guardia di Finanza dovrà adesso essere portata in cantiere per essere sottoposta a controlli e per tutte le riparazioni necessarie.
(ANSA il 29 giugno 2019) - "Comportamento criminale della comandante della Sea Watch, che ha messo a rischio la vita degli agenti della Guardia di Finanza. Ha fatto tutto questo con dei parlamentari a bordo tra cui l'ex ministro dei trasporti: incredibile". Lo dice il ministro dell'Interno Matteo Salvini.
(ANSA il 29 giugno 2019) - La capitana della nave Sea Watch, Carola Rackete, potrebbe essere trasferita in carcere e processata per direttissima. La comandante è stata infatti arrestata in flagranza di reato per violazione dell'Articolo 1100 del codice della navigazione: resistenza o violenza contro nave da guerra, che prevede una pena dai tre a 10 anni di reclusione. A Carola Rackete potrebbe essere contestato anche il tentato naufragio della motovedetta della Guardia di Finanza, speronata dalla nave durante la manovra di attracco. Il comandante della tenenza di Lampedusa delle Fiamme Gialle, luogotenente Antonino Gianno, ha prelevato personalmente la comandante a bordo della Sea Watch con l'ausilio di altri 4 finanzieri, notificandole in caserma il verbale di arresto. La comandante della Sea Watch potrebbe adesso essere trasferita nel carcere di Agrigento in attesa delle decisioni della Procura di Agrigento che coordina l'inchiesta.
Manovra pirata di Sea Watch: "schiacciata" una motovedetta. La "capitana" ha forzato il blocco attraccando nel porto di Lampedusa. Accusata di "tentato naufragio" rischia 11 anni. Angelo Scarano, Sabato 29/06/2019, su Il Giornale. Una manovra spericolata da vera pirateria. La comandante della Sea Watch, Carola Rackete, quando questa notte ha forzato il blocco per attraccare nel porto di Lampedusa, ha usato le maniere forti. Così forti da "schiacciare" una motovedetta della Guardia di Finanza tra il molo e la nave Sea Watch. Insomma quello che è accaduto questa notte è del tutto fuorilegge. Per fortuna la manovra della comandante non ha avuto conseguenze sugli uomini delle fiamme gialle a bordo della motovedetta. Ma di certo questa mossa avrà conseguenze pesantissime sul percorso giudiziario che la stessa Carola Rackete dovrà affrontare. Il ministro degli Interni, Matteo Salvini, non ha esitato a definirla "criminale". Tra i reati contestati alla capitana ci sono quelli di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, resistenza alle navi da guerra e anche tentato naufragio. Proprio questo reato è quello che potrebbe inguaiare di più la Rackete: la pena prevista va dai 5 ai 12 anni. Quando la nave ha forzato il blocco di fatto una motovedetta della Gdf è rimasta a presidiare il molo facendo la spola tra le due estremità del punto di attracco proprio per evitare l'ingresso in porto della Sea Watch. La Rackete ha del tutto ignorato questo movimento e ha puntato il molo. La motovedetta in questo modo è rimasta schiacciata vicino alla banchina. Da fonti della Gdf emerge tutta la preoccupazione per quei momenti di terrore vissuti a bordo della motovedetta. "Addosso a noi è arrivato un bestione da 600 tonellate. Abbiamo rischiato di morire. Da parte della Sea Watch una manovra criminale, noi siamo stati schiacciati sulla banchina", fanno sapere le fiamme gialle all'Adnkronos. E così adesso si apre un nuovo capitolo. La capitana è stata arrestata e dovrà affrontare tutte le conseguenze del suo gesto. "Non avevamo scelta: al comandante, iscritto nel registro degli indagati, non è stata data nessuna soluzione di fronte a uno stato di necessità dichiarato trentasei ore fa e quindi era sua responsabilità portare queste persone in salvo", ha affermato Giorgia Linardi, la portavoce di Sea Watch. Pronta la risposta del titolare del Viminale: "Comandante fuorilegge arrestata. Nave pirata sequestrata. Maxi multa alla ONG straniera. Immigrati tutti distribuiti in altri Paesi europei. Missione compiuta. P.S. Vergogna per il silenzio del governo olandese. Tristezza per i parlamentari italiani a bordo di una nave che non ha rispettato le leggi italiane, attaccando addirittura una motovedetta delle nostre Forze dell’Ordine. Giustizia è fatta".
"In manette", "Ma tu chi sei...?" Così sul molo della Sea Watch scatta la "rissa". Scontro verbale durissimo tra l'ex vicesindaco di Lampedusa, Angela Maraventano, e l'ex sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini. Angelo Scarano, Sabato 29/06/2019, su Il Giornale. Lo sbarco dei migranti a Lampedusa, dopo la manovra spericolata per l'ingresso in porto e l'attracco, ha creato non poche tensioni nel porto di Lampedusa. Come detto la Sea Watch ha provato a "schiacciare" una una motovedetta della Guardia di Finanza per attraccare e far sbarcare i migranti. Subito dopo l'attracco sul molo si è scatenata una "rissa verbale" tra i sostenitori della capitana, Carola Rackete e chi invece la voleva in manette. A guidare la prima fazione l'ex sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, dall'altro lato invece l'ex vicesindaco della Lega, Angela Maraventano. Proprio l'ex vicesindaco è andata all'attacco: "È una vergogna - ha urlato Maraventano rivolta verso la nave -. Qui non si può venire a fare quello che si vuole, non venite nelle nostra isola se no succede il finimondo". Poi l'affondo e le urla sul molo: "Fate scendere i profughi - ha aggiunto rivolgendosi alle forze dell'ordine - e arrestateli tutti". Pronta la replica ad alta voce, nel cuore della notte, della Nicolini: "Che vuoi tu, chi sei tu per decidere chi deve venire e chi no". La tensione è poi salita alle stelle quando la capitana è sbarcata ed è stata immediatamente arrestata dalla polizia. "Non avevamo scelta: al comandante, iscritto nel registro degli indagati, non è stata data nessuna soluzione di fronte a uno stato di necessità dichiarato trentasei ore fa e quindi era sua responsabilità portare queste persone in salvo", ha affermato la portavoce di Sea Watch, Girgia Linardi. Infine punta il dito contro l'autorità italiane: "La violazione - ha aggiunto Linardi - è stata non del comandante, ma delle autorità che non hanno assistito la nave per sedici giorni". Insomma con lo sbarco e l'arresto della comandante non si spegneranno le polemiche. Ora bisogna capire quale sarà il destino giudiziario della capitana che è anche accusata di tentato naufragio: un reato per cui si rischia fino a 12 anni di carcere.
Il parroco di Lampedusa accoglie i migranti della Sea Watch: "Benvenuti". La reazione di don Carmelo La Magra all'attracco della Sea Watch 3 nel porto di Lampedusa: "Il Natale quando arriva arriva". Luca Sablone, Sabato 29/06/2019 su Il Giornale. Svolta nel caso Sea Watch 3: la "capitana" Carola Rackete ha deciso di sfidare le direttive del governo italiano e della Guardia di finanza attraccando la nave al porto di Lampedusa. La ragazza è stata arrestata in flagranza di reato per aver violato l'Articolo 1100 del codice della navigazione: ora rischia di essere trasferita in carcere e processata per direttissima. Ad accogliere la Ong è stato don Carmelo La Magra, il parroco della città siciliana: "Il Natale quando arriva arriva. Benvenuti nel Porto Salvo di Lampedusa". Anche due fazioni hanno fatto da cornice alla decisione della comandante di forzare l'ingresso: da una parte coloro che hanno applaudito la strada intrapresa da Carola, schierandosi completamente dalla parte della Sea Watch; dall'altra un gruppo di lampedusani che ha inveito contro i volontari dell'organizzazione.
Il battibecco. In particolare si è assistiti a un botta e risposta tra la ex sindaca Giusi Nicolini e la ex senatrice leghista Angela Maraventano subito dopo l'arresto della Rackete. "Non si può venire a fare quello che si vuole, non venite nelle nostra isola se no succede il finimondo. Fate scendere i profughi e poi arrestateli tutti", ha gridato a squarciagola Maraventano, rivolgendosi alla polizia presente. Immediata la replica di Nicolini: "Che vuoi tu, chi sei tu per decidere chi deve venire e chi no?!". Sulla questione è intervenuto anche Graziano Delrio, capogruppo del Partito Democratico alla Camera, che ai microfoni di RaiNews24 ha dichiarato: "L'autorità giudiziaria farà il suo corso e stabiliranno i giudici se la capitana ha davvero commesso un reato. In caso di stato di necessità si possono anche violare le leggi. Il capitano è responsabile dell'incolumità di tutte le persone che sono a bordo, va rispettata la sua scelta, come il percorso che farà la giustizia".
I tedeschi difendono Carola e insultano i "plebei" italiani. Il quotidiano Bild si schiera con la capitana della Sea Watch, attacca Salvini e definisce gli italiani "plebaglia". Andrea Indini, Venerdì 28/06/2019 su Il Giornale. Ora scende in campo pure la stampa tedesca. Nel braccio di ferro tra la Sea Watch e Matteo Salvini non poteva, infatti, mancare l'entrata a gamba tesa della solita Bild. A questo giro, per attaccare il nostro governo, è finita per insultare tutti gli italiani. Non che sia la prima volta. Ma le parole che ha scelto per trattare l'argomento sono violentissime. Ci ha difiniti "Pöbel". Che significa, grosso modo, plebe, pleabaglia, marmaglia. E non si è limitata a questo. Nell'articolo firmato da Albert Link e Nicholas Scharlak ha anche difeso a spada tratta l'ong, che da anni ci scarica immigrati clandestini sulle nostre coste, e la capitana Carola Rackete che ha forzato il blocco del Viminale entrando illegalmente nelle acque territoriali italiane e facendo carta straccia delle nostre leggi. La Sea Watch è un'organizzazione non governativa tedesca con sede a Berlino e ad Amburgo. La stessa comandante è tedesca. Eppure la cancelliera Angela Merkel si è guardata bene dall'intervenire in questo durissimo attacco al nostro Paese. Solo il ministro dell'Interno Horst Seehofer è intervenuto. Ma lo ha fatto per mettere a tacere quei sindaci progressisti che si erano offerti di ospitare i 43 immigrati clandestini caricati a bordo della nave guidata dalla Rackete. Non una parola è stata spesa per condannare la forzatura del blocco né un solo minuto è stato speso, a livello europeo, per cercare di risolvere la situazione. E, mentre lo stallo continua, ci troviamo pure a doverci sorbire le invettive della Bild. Nell'articolo Pöbel-Attacke gegen deutsche Kapitänin (L'attacco della plebaglia alla capitana tedesca) il quotidiano se la prende, in primis, con Salvini accusandolo di stare tanto sui social e di lavorare poco e lo accusa di attaccare i migranti per ottenere il consenso degli italiani. Di per sé l'articolo della Bild è un riassunto dell'estenuante braccio di ferro a cui la Rackete sta obbligando il governo italiano. Ovviamente, non si tratta di un resoconto oggettivo. Basti pensare che le fonti a cui attinge il quotidiano tedesco sono Repubblica e Roberto Saviano. Dei reati commessi dal capitano della Sea Watch 3 non c'è la benché minima ombra. Anzi, arriva addirittura a incensarla per il suo impegno in mare. E nel farlo ricorda i motivi che l'hanno spinta a farlo: "Sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto, ho sentito l'obbligo morale di aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità". Per i due giornalisti tedeschi, che non hanno mancato di criticare Salvini per "la linea dura contro i rifugiati" e "la chiusura dei porti alle navi di soccorso", le sue ragioni (come anche quelle della stessa ong) vanno prese sul serio e difese. Dal canto suo Salvini ha risposto a questo attacco verbale con una emoticon su Twitter. E ha invitato i tedeschi a riprendersi le loro Ong e a lasciar in pace l'Italia e gli italiani. Resta nero su bianco quel "Pöbel" nel titolo. Un termine a dir poco dispregiativo che dovrebbe indignare anche quei progressisti italiani che in questi giorni si sono schierati al fianco della capitana tedesca. Da Berlino ci vedono come della "plebablia", ma sono loro le vere canaglie che ancora una volta ci stanno scaricando addosso un'emergenza tutta europea e lo stanno facendo infrangendo un'infinità di leggi (italiane e internazionali).
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 28 giugno 2019. […] Dopo 14 giorni di navigazione nel Mediterraneo, approda sulle coste italiane la nave SeaWatch-3, di proprietà di un'ong privata tedesca ma battente bandiera olandese, carica di 42 profughi raccolti in acque libiche. In origine erano 52, ma 10 - quelli in pericolo - sono già sbarcati in Italia il 15 giugno. Il natante, guidato dalla capitana tedesca Carola Rackete, ha violato una serie innumerevole di norme italiane e internazionali, il che non le verrebbe consentito da alcuno Stato di diritto del mondo libero. Nel 2017 non ha firmato il Codice di autoregolamentazione del ministro dell'Interno Pd Marco Minniti, regolarmente siglato da altre ong, per farla finita col Far West nel Mediterraneo (migliaia di sbarchi e di morti). S'è addentrata nella zona di ricerca e soccorso libica, competenza della Guardia costiera di Tripoli. Avrebbe dovuto far rotta sul porto sicuro più vicino: cioè in Tunisia o a Malta. Invece ha scientemente deciso di proseguire fino a Lampedusa, per creare l'ennesimo incidente in polemica con le politiche migratorie del governo italiano, secondo il copione collaudato da altre navi della stessa Ong (una saga a puntate: Sea Watch-1, 2, 3 e così via). Il governo ha negato il permesso di ingresso nelle acque territoriali e poi di sbarco nel porto. La capitana Carola, subito idolatrata da una sinistra a corto di idee e simboli, se n' è infischiata. Prima ha tentato di far annullare l' alt dal Tar: ricorso respinto. Poi di farsi autorizzare in via provvisoria e urgente dalla Corte dei diritti dell' uomo di Strasburgo. Che però le ha dato torto, per la seconda volta (il diritto allo sbarco in Italia era già stato negato il 29 gennaio a un'altra Sea Watch con 49 migranti): il provvedimento provvisorio di sbarco, in deroga agli ordini di un governo, può essere adottato solo "nei casi eccezionali in cui i richiedenti sarebbero esposti - in assenza di tali misure - a un vero e proprio rischio di danni irreparabili". E fortunatamente non è questa la situazione degli ospiti della SeaWatch-3 dopo la discesa delle tre famiglie con bimbi e donne incinte. Certo - precisa la Corte - il governo deve "continuare a fornire tutta l'assistenza necessaria alle persone in situazione di vulnerabilità per età o stato di salute". Ma non esiste un diritto di accesso alle acque territoriali di uno Stato in violazione delle sue norme, salvo appunto per gravi motivi di salute, senza i quali la nave che ha compiuto il salvataggio (in questo caso, un'estensione del territorio olandese) è essa stessa un luogo sicuro per i naufraghi. A quel punto, siccome il tribunale italiano e quello comunitario le han dato torto, la capitana ha calpestato entrambe le sentenze. E l'ordine di fermarsi della Guardia Costiera e di Finanza. E s' è affacciata su Lampedusa sventolando una causa di forza maggiore già esclusa da Strasburgo: la salute dei migranti dopo 14 giorni di navigazione (che sarebbero stati molti meno se fosse andata dove doveva: Tunisia o Malta). Quel che pensiamo su questa ennesima guerra delle opposte propagande fra alcune Ong e il governo italiano lo scriviamo da sempre: sulla pelle dei migranti, usati come ostaggi e scudi umani, si sta giocando una lunga, cinica e ipocrita gara tutta politica. Anche e soprattutto nella cosiddetta Europa, che sta a guardare. Sul piano umanitario, è fin troppo evidente che - stando così le cose - quei 42 disperati devono sbarcare in Italia, com' è sempre avvenuto, anche sotto il ministro della Cattiveria di un governo tacciato di fascismo e razzismo da chi in casa propria fa ben di peggio. Ma nessuno ci venga a raccontare che da una parte ci sono i buoni (l' eroica capitana) e dall' altra i cattivi (gli italiani xenofobi). O che un governo non ha il diritto-dovere di proteggere i confini da chi vorrebbe decidere le sue politiche migratorie dalla tolda di una nave tedesca con bandierina olandese. E di indicare l' unica via d' accesso all' Italia per chi ha diritto all' asilo: quella dei corridoi umanitari. Cioè, parlando con pardon, la via legale.
Sea Watch, dito puntato contro Delrio e Pd: "Vergognatevi", nella notte l'affronto all'Italia. Libero Quotidiano il 29 Giugno 2019. "Fossi in loro mi vergognerei". Matteo Salvini ne ha anche per Graziano Delrio, Matteo Orfini e Davide Faraone, i tre parlamentari del Pd saliti a bordo della Sea Watch che hanno contribuito ad alimentare la "guerra politica" tra la ong tedesca e il governo italiano sulla pelle di 40 migranti tenuti sulla nave per oltre due settimane con un solo obiettivo, farli sbarcare in Italia e in nessun altro porto. "Si sarebbe potuto intervenire prima", hanno spiegato i dem scesi nella notte a Lampedusa, insieme ai migranti, dopo il blitz della capitana Carola Rackete. "Erano a bordo di una nave privata straniera che ha infranto tutte le leggi italiane - ha ricordato a Delrio e compagni il ministro dell'Interno, intervistato dal Gr1 Rai -. Tra l'altro stanotte la capitana ha anche messo a rischio la vita degli agenti delle forze dell'ordine". Il riferimento è allo speronamento di una motovedetta della Guardia di Finanza che tentava di impedire l'attracco della Sea Watch al molo. "Solidarietà alle donne e agli uomini delle Forze dell'Ordine e della Guardia di Finanza in particolare - ha poi commentato in una nota lo stesso Salvini -, visto che poche ore fa hanno rischiato la vita per la scelta criminale della SeaWatch. Da giorni stanno difendendo la legalità e i confini italiani, costretti agli straordinari da una nave pirata e da alcuni parlamentari di sinistra (tra cui un ex ministro) che anziché stare con le Forze dell'Ordine e con l'Italia hanno scelto di schierarsi con una ong tedesca che ha schiacciato una motovedetta delle Fiamme Gialle. I nostri finanzieri erano in grave difficoltà ma i parlamentari di sinistra applaudivano la capitana della Sea Watch".
Il Pd agli ordini di Carola, la capitana della Sea Watch 3. "Siamo venuti a Lampedusa quando ce l'ha detto lei" ammettono dal Pd, la prova di una vicenda molto politica e poco umanitaria. Panorama il 29 Giugno 2019. “Volevamo venire prima a Lampedusa ma la Capitana. Carola, ci ha detto di aspettare”. La frase, o meglio, l’ammissione è del senatore del PdDavide Faraone, uno dei rappresentanti del Partito Democratico e della sinistra che sono corsi a Lampedusa fino a salire sulla Sea Watch 3 ferma ancora al largo di Lampedusa con i suoi 40 migranti. Una frase che dimostra, se ce ne fosse bisogno, come più che una missione umanitaria quella della nave che batte bandiera olandese ma di una Ong tedesca sia una battaglia politica contro il Governo Italiano e non una missione umanitaria. Certo, bastava guardare i movimenti della nave nelle due settimane precedenti alla forzatura del blocco navale deciso dalla “Capitana”, Carola, nuova eroina della sinistra, per capire che l’intenzione non fosse quella di mettere al sicuro i migranti ma piuttosto cominciare una battaglia politica contro il Ministro Salvini. Altrimenti non ci si spiega come mai invece che recarsi verso qualsiasi porto del Mediterraneo (o della sua amata Olanda) la nave sia rimasta a traccheggiare per 14 giorni davanti a Lampedusa, da sempre la sua unica, vera, destinazione. Giorni in cui però, ammettono ora dal Pd, non sono mancati i contatti tra la Capitana ed alcuni parlamentari. Colloqui in cui sono stati persino stabiliti i tempi delle azioni politiche e delle proteste. Serve altro? Serve altro per ammettere che sia tutta una questione politica e non umanitaria? In tv anche lo stesso segretario, Nicola Zingaretti, rispondendo alla domanda sul perché i parlamentari non si siano recati prima a Lampedusa ha ammesso che “l’equipaggio della Sea Watch giorni fa ci ha detto di non venire…”. Punto. Ma non è l’unica notizia, o meglio, conferma del giorno. La seconda arriva infatti dall’Olanda, nazione a cui appartiene la Sea Watch. Il Governo, per bocca di un ministro, ha infatti risposto alle richieste del Governo italiano con un “è vero, la nave è nostra ma non i suoi migranti”. W l’Europa.
Ps. Al momento non ci risultano proteste, sit-in, raccolte fondi contro quei razzisti degli olandesi. Magari è solo questione di tempo; si aspetta il prossimo ordine di Carola Rackete, la nuova Capitana - Comandante del Pd e della Sinistra Italiana.
Spazzolini e turni di guardia. Lo "show" rosso su Sea Watch. I parlamentari dem raccontano il loro "diario di bordo" sulla nave fuorilegge. Pensano più ai social che ai migranti. Angelo Scarano, Venerdì 28/06/2019, su Il Giornale. La sfilata rossa a bordo della Sea Watch prosegue. A bordo della nave umanitaria che ha sfidato apertamente il governo italiano sono saliti alcuni parlamentari del Pd e di Sinistra Italiana. Tra questi anche Graziano Delrio, Matteo Orfini e Nicola Fratoianni. Ed è stato proprio Orfini a raccontare questa sorta di "esperienza" a bordo della nave Sea Watch. Su Twitter proprio Orfini ha pubblicato una foto con tanto di spazzolino e dentifricio. Poi il commento: "I criminali dell'equipaggio della #SeaWatch ci volevano lasciare le loro cabine. Abbiamo rifiutato ovviamente, perché sono molto più stanchi di noi. Dormiremo sul ponte, sotto le stelle. Però questo piccolo regalo che ci hanno fatto lo abbiamo davvero apprezzato". Poi c'è anche il "diario di bordo" di Fratoianni che fa da "guardia" sul ponte. "Alle 4,30 Riccardo Magi mi sveglia. È il mio turno. Stanotte la nostra breve crociera sulla Sea Wacht3 prevede una rotazione per dare una mano all’equipaggio nella guardia sul ponte", racconta sull'Huffpost. Poi racconta la notte a bordo: "Gli altri parlamentari stanno dormendo dopo aver fatto i loro turni. La notte la abbiamo passata sul ponte. Su tre comodi materassi messi uno accanto all’altro. Abbiamo fatto una specie di “campo largo”. Una di quelle figure mitologiche del dibattito politico e spesso un po’ politicista che occupa la scena italiana a sinistra". Poi si preoccupa per qualche gesto dei migranti: "La paura è che qualcuno, esasperato possa lanciarsi in mare, per forzare i tempi. Per cercare di arrivare a terra in qualche modo. Magari recuperato da una delle motovedette che girano costantemente intorno a noi. La giornata di ieri è passata aspettando, ancora una volta, qualche segnale di ragionevolezza". Insomma la sinistra tra "turni di guardia" e spazzolini si è imbarcata su uno "show" a largo di Lampedusa speculando politicamente su una vicenda che ha i contorni molto chiari: la nave ha violato la legge e la sinistra anche questa volta sta dalla parte sbagliata.
Daniela Ranieri per “il Fatto quotidiano”il 28 giugno 2019. Il caldo gioca brutti scherzi: da due giorni ci sembra di vedere alcuni parlamentari del Pd a bordo della Sea Watch 3. Il miraggio è allucinante: Delrio in mocassino Capalbio-moda mare senza calzini sistema un materasso di fortuna sul ponte di prua mentre Orfini aggiorna il diario di bordo su Twitter e Davide Faraone si spara una ridda di selfie - con Delrio, con Giuditta Pini, con Riccardo Magi, con la capitana Rackete - rendendoli virali con gli hashtag di tendenza. Orfini, nella sua fantozzianamente tragica mancanza di physique du rôle (pelle bianco-latte, asciugamano sulla spalla e cuffia in testa), ha un principio di ustione sul naso ma obbedisce a un dovere più grande della legge: "26 giugno, ore 22:31: Sono arrivato a Lampedusa. Quella luce gialla che vedete in foto è la #SeaWatch". "27 giugno, ore 16:04: Siamo su un gommone. Proviamo ad avvicinarci alla #SeaWatch". "Ore 16:22: Siamo sulla #SeaWatch", eccetera. Chiamatelo Ismaele. Alle 19:28 la foto di uno splendido tramonto che potrebbe essere pure di Camogli o Ibiza accompagna le lancinanti parole di condanna: "I migranti sono in condizioni di sofferenza psicologica indescrivibile. Crudeltà, non c' è altro modo per definire il comportamento del governo". Dev' essere sempre il caldo, perché la indubbia crudeltà del governo attuale consiste nel tenere sulle barche delle Ong persone che avrebbero potuto benissimo restarsene al fresco nei campi di prigionia libici dove il governo Gentiloni, grazie al ministro Minniti, aveva profumatamente pagato le milizie indigene per trattenerle con tutti i comfort. I meravigliosi selfie sul mare obnubilano la memoria: nel giugno di due anni fa, era Minniti che minacciava di chiudere i porti (minaccia che Delrio si fece in quattro per smentire, attenuare, ritirare), cosa che Salvini ha potuto fare perché non ha l' organo della moralità che invece i piddini ogni tanto si scoprono sviluppatissimo. E fu Renzi - che oggi, mentre i suoi si imbarcano per l' operazione Lampedusa, posta foto delle Dolomiti dall' aereo che lo scarrozza per il mondo a impollinare gli altri Paesi del suo formidabile know how - a dire: "Si è fatto bene a bloccare gli sbarchi. C' è un limite massimo di persone che puoi accogliere. Aiutiamoli davvero a casa loro" (Festa dell' Unità, Bologna, 1/9/17) e a vergare sull' indimenticabile Avanti: "Vorrei che ci liberassimo da una sorta di senso di colpa. Noi non abbiamo il dovere morale di accogliere in Italia tutte le persone che stanno peggio. Se ciò avvenisse sarebbe un disastro etico, politico, sociale e alla fine anche economico". Ecco allora la delegazione marinara del Pd che solca le acque territoriali per raggiungere la nave con sopra i migranti, ai quali mancava solo questa, di disgrazia. Ma lasciando stare Orfini e Faraone, che di Renzi sono stati la proiezione ortogonale e prona, come può Delrio, persona seria, non notare lo stridore tra l' aver sostenuto acriticamente quelle politiche ieri e il portare oggi soccorso a persone che hanno subito fame e violenze nei centri di detenzione libici, prevedibile eterogenesi dei fini del memorandum d' intesa del 2017 tra Minniti e al-Sarraj? Speriamo almeno si mangi bene, a bordo: non vorremmo che i delicati stomacucci dei digiunatori a staffetta ne avessero a soffrire. Vabbè che Orfini ormai è praticamente un lupo di mare, dopo esser salito a gennaio sulla Sea Watch al largo di Siracusa, dato l' inspiegabile insuccesso della protesta del Pd intitolata "Non siamo pesci". Stavolta non c' è con loro la Prestigiacomo, ministra di B. e mementovivente della Bossi-Fini e del decreto Maroni che creò il reato di favoreggiamento all' immigrazione clandestina tuttora vigente, chissà per colpa di chi. Quale cultura di umanità e accoglienza possono vantare, oggi, i nostri statisti alla marinara? È come se Schettino facesse il testimonial della Costa Crociere.
Carola, dopo l’arresto ha chiamato il padre: «Mi ha detto che è serena. Lo rifarà». Pubblicato sabato, 29 giugno 2019 da Sandro Orlando su Corriere.it. Ieri mattina, non appena le sono stati comunicati i domiciliari, la capitana ha chiamato il papà a Ovelgönne, in Bassa Sassonia. «Mi ha detto che stava bene, che era stata arrestata e verrà interrogata lunedì, ma che era serena e anch’io non devo preoccuparmi, perché è tutto a posto», racconta il signor Ekkehart al telefono. «Le cose ora seguiranno il loro corso, ma alla fine l’Italia è una democrazia, per cui ho piena fiducia nelle vostre autorità. Del resto anche Carola mi ha raccontato che tra chi l’ha arrestata c’era chi era dispiaciuto». «No, non andremo a Lampedusa – continua questo ingegnere elettronico esperto di radar, oggi in pensione – credo che Carola saprà cavarsela da sola. Del resto so che è stata fatta già una raccolta di denaro per la sua difesa, e questo rivela anche il carattere del popolo italiano, non penso che dovrà affrontare da sola i magistrati». Il papà della capitana non vuole esprimersi sulla scelta dell’altra notte: «Non posso giudicare perché non ero lì, e di conseguenza non avevo il comando della nave. È responsabilità del capitano decidere se fare o non fare qualcosa. Io stesso sono stato un ufficiale dell’esercito, e capisco che solo lei in quella situazione avrebbe potuto prendere una decisione. Credo che in ogni caso ci abbia riflettuto a lungo, e alla fine sia stata la cosa più giusta». «No, Carola non è un’impulsiva, sa sempre quello che fa, ed è una donna forte: la situazione le era chiara già prima che arrivasse a Lampedusa, due settimane fa. Quello che è successo non è stata una sorpresa, sono sicuro fosse consapevole delle conseguenze a cui andava incontro. Alla fine Carola è un ufficiale, è stata educata ad assumersi le sue responsabilità, e non avrebbe potuto costringere nessuno a prendere il suo posto». Il signor Ekkehart è certo di una cosa: quando la figlia tornerà lui «farà il diavolo a quattro per dissuaderla a partire di nuovo con la Sea Watch». Ma aggiunge anche: «La conosco bene, per cui so anche che è inutile dirle cosa fare, perché prende da sola le sue decisioni, del resto ha 31 anni. Ed è anche vero però che finora non ha mai fatto nulla di sbagliato». E al ministro Salvini vuol far sapere solo una cosa: «Mia figlia non è ricca, si è sempre pagata gli studi da sola, non ha avuto eredità e vive con noi. Ma la Germania non è un Paese in via di sviluppo».
Alfonso Piscitelli per la Verità”il 29 giugno 2019. È il personaggio del momento Carola Rackete, colpisce l' immaginario suscitando reazioni nette. La sua fisionomia evoca una identità ben precisa che è quella della ragazza di buona famiglia, ma con vocazione rivoluzionaria. Capelli biondi e rasta. Non poteva non suscitare interesse la sua estrazione sociale: quell'alta borghesia tedesca che trasforma il suo «senso di colpa» in un programma politico e in una volontà capace di calpestare leggi e confini di un altro Stato. Quasi sempre l' Italia. Nelle scorse ore i riflettori sono stati puntati sul papà di Carola, pacato pensionato benestante con una laurea in ingegneria elettronica ma anche un curriculum significativo nell' industria militare. È il Corriere della Sera a specificare il mestiere di papà Rackete e, indirettamente, la fonte di quel benessere economico che ha permesso alla inquieta Carola di girare il mondo mentre tanti altri coetanei annaspavano tra lavoretti sottopagati e stage: uno dei mestieri più antichi del mondo, quello delle armi. «Sono colonnello della Marina» dichiara Ekkehart Rackete dal suo buon ritiro ad Hambühren, in Bassa Sassonia. Chi immaginava che i familiari di questa hippie del XXI secolo suonassero i tamburelli o girassero per le strade con i vestiti a fiori rimarrà forse deluso: la tradizione di famiglia si riconduce al militarismo della Germania del Nord. Tuttavia il Corriere non scrive che papà Rackete era semplicemente un militare, ma fa un riferimento più ghiotto alla sua appartenenza all' ambito dell' industria bellica. Sandro Orlando ieri lo presentava sulla pagina del quotidiano appunto come «un ingegnere elettronico in pensione dopo 30 anni di lavoro nell' industria militare». Questa cosa ha suscitato l' interesse di Francesca Totolo, autrice per le edizioni Altaforte di Inferno Spa, libro in cui si indaga sui tanti «gironi» del business dell' immigrazione e anche su nessi che le anime candide dell' accoglienza a prima vista non sospetterebbero: i nessi tra organizzazioni non governative che spostano navi nel Mediterraneo e compagnie di contractors, soldati mercenari, come la famosa Blackwater (oggi conosciuta con il nome di Academi), con alcuni soggetti che si muovono dall' uno all' altro ambito. Sulla sua pagina Facebook la Totolo ha rivolto apertamente «una domanda a Carola Rackete, comandante di Sea-Watch: Ekkehart Rackete (nome del padre riportato dal Corriere della Sera) è lo stesso Ekkehart Rackete, ex ufficiale dell' esercito tedesco ed esperto di armamenti ed ora consulente di sistemi militari?». La domanda viene accompagnata dal riferimento a una pagina di Linkedin appartenente a un signor Ekkehart Rackete appunto impegnato nel settore. Domandare è lecito, rispondere è cortesia recita l' adagio. Ma già il Corriere ha forse risolto il quesito parlando di una lunga esperienza nell' industria militare di papà Rackete. La giovane capitana con i rasta certo non maneggia gli esplosivi, ma chi considera l' immigrazione selvaggia come una bomba sociale ad orologeria potrebbe trarre qualche cinica battuta sulle attività predilette in famiglia. È sempre Francesca Totolo a sostenere come queste commistioni tra Ong «umanitarie» e compagnie che si occupano di armi e combattimento esistano. Scrive online la Totolo: "Tutto ciò mi ricorda la Ong maltese Moas che nel direttivo aveva assoldato due ex ufficiali dell' esercito di Malta e un esperto di "sopravvivenza" in zone di guerra e titolare di una società produttrice di coltelli da guerra». Sovrapposizioni abbastanza inquietanti, che meritano di essere approfondite o quantomeno smentite dagli interessati (ma non sembra che ne abbiano molta voglia). Parafrasando un altro tedesco non proprio pacifico, il generale Carl von Clausewitz: «L' immigrazione è la prosecuzione della guerra con altri mezzi».
«Dovevo entrare in porto. Temevo che alcuni migranti potessero suicidarsi». Pubblicato domenica, 30 giugno 2019 Virginia Piccolillo e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. «Non è stato un atto di violenza. Solo di disobbedienza. Ma ho sbagliato la manovra». Carola Rackete, la comandante della nave Sea Watch 3 che ha portato a termine la sua operazione di sbarco dei 53 migranti iniziata con un soccorso nelle acque Sar libiche, è pronta ad affrontare le conseguenze giuridiche del suo gesto che le è valso l’arresto in flagranza di reato per violazione delle norme sul blocco navale. Domani o martedì dovrà essere sottoposto al giudizio di convalida. Ma non era pronta alle accuse che le sono piovute addosso dopo aver investito con la Sea Watch 3 la motovedetta della Guardia di Finanza che, a protezione della banchina, le intimava l’alt contro lo sbarco non autorizzato. In un incontro, ieri, con i suoi avvocati dello studio di Alessandro Gamberini, ha parlato tre ore, chiarendo tutte le sue motivazioni del suo gesto. La capitana trentunenne è ai domiciliari e non può rilasciare dichiarazioni, ma attraverso i suoi avvocati chiarisce i dubbi sollevati da più parti sul suo comportamento. E la sua analisi difensiva parte, nella ricostruzione dei legali, proprio da quell’attracco che stava per mettere a repentaglio la vita dei cinque finanzieri giunti a intimarle l’alt.
Perché non si é fermata alla richiesta della Guardia di Finanza?
«È stato un errore».
Un errore di quale genere?
«Solo di avvicinamento alla banchina».
Non c’era la determinazione di non fermarsi?
«Non volevo certo colpire la motovedetta della Guardia di Finanza. Non era mia intenzione mettere in pericolo nessuno. Per questo ho già chiesto scusa e lo rifaccio: sono molto addolorata che sia andata in questo modo».
La sua intenzione invece qual era?
«La situazione era disperata. E il mio obiettivo era solo quello di portare a terra persone stremate e ridotte alla disperazione. Avevo paura».
Paura di cosa?
«Da giorni facevamo i turni, anche di notte, per paura che qualcuno si potesse gettare in mare. E per loro, che non sanno nuotare, significa: suicidio. Temevo il peggio. C’erano stati atti di autolesionismo».
È apparso a molti come un atto violento. Uno speronamento. Non è così?
«Mai, mai, mai nessuno deve pensare che io abbia voluto speronare la motovedetta della Finanza».
Ma non si è fermata all’alt.
«È stata solo disobbedienza. E ho compiuto un errore di valutazione nell’avvicinamento alla banchina».
Cosa ha fatto per evitare la collisione?
«Quando sono entrata in porto sono scesa al livello inferiore dove c’era il primo ufficiale, per consultarmi con lui. Ma non mi ero accorta che la motovedetta fosse così vicina. Ma io avevo comunicato al porto che stavo entrando».
Perché non ha atteso che la situazione diplomatica si sbloccasse e ha deciso di sfidare i divieti?
«Ripeto, erano iniziati atti di autolesionismo tra i migranti. Temevo si arrivasse ai suicidi».
Ma perché ha deciso proprio venerdì notte?
«Quando sono stata convocata per l’interrogatorio fuori della nave ho capito che non saremmo sbarcati. Ho rischiato la libertà. Lo sapevo. Ma non potevo continuare a rischiare che continuassero gli atti autolesionistici. Però ho tentato di avvertire».
Chi?
«Ho chiamato più volte il porto, ma nessuno parlava inglese. Però ho comunicato che noi stavamo arrivando».
Perché si è diretta verso l’Italia, disobbedendo al coordinamento internazionale?
«Per me era vietato obbedire. Mi chiedevano di riportarli in Libia. Ma per la legge sono persone che fuggono da un Paese in guerra, la legge vieta che io le possa riportare là».
Lo sfogo dei finanzieri speronati: «Ci sono venuti addosso, potevamo morire». Pubblicato sabato, 29 giugno 2019 da Virginia Piccolillo, inviata a Lampedusa, su Corriere.it. Entrano nel “bar dell’amicizia” e ordinano cinque caffè. Amarissimi. Hanno appena «rischiato di morire» i cinque finanzieri che hanno tentato di fermare la Sea Watch 3 nel porto di Lampedusa e hanno visto arrivarsi contro prima la nave da 650 tonnellate. E poi le accuse di aver «messo a repentaglio al vita dei passeggeri della mega imbarcazione del soccorso migranti». «Noi? Abbiamo solo intimato l’alt. È il comandante che, deliberatamente, non ha fermato la nave e ci è venuta addosso, senza curarsi delle conseguenze. Se non fossimo riusciti a compiere una manovra veloce probabilmente saremmo morti», si sfogano, al termine della notte più lunga della loro vita. Mentre i parlamentari che erano a bordo lanciano accuse sulla loro manovra durante l’attracco del comandante Carola Rackete. «Noi siamo uomini dello Stato», spiegano con un velo di commozione negli occhi. -«Abbiamo il dovere di far rispettare le leggi. E rispettare noi stessi le direttive che ci vengono date. Abbiamo passato tre giorni a bordo senza dormire un attimo per contrastare i tentativi di avvicinamento. E abbiamo agito nel profondo rispetto di tutte le norme. Senza preoccuparci di mettere a repentaglio la nostra vita perché in quell’incidente potevamo essere morti». La dinamica i cinque finanzieri la spiegano con semplicità: «Ci sono le immagini. La nave non ha rispettato l’alt e ha schiacciato la motovedetta contro il molo. I parabordi hanno causato una sorta di movimento elastico e hanno per un attimo allontanato la nave. Con una mossa rapidissima siamo riusciti a sfruttare quell’istante e a sfuggire via prima che il rimbalzo tornasse indietro, perché a quel punto la Sea Watch avrebbe distrutto la motovedetta e noi saremo rimasti tutti schiacciati». A bordo c’erano il comandante, il direttore di macchina, il motorista e due radaristi: due in plancia, uno a poppa e due a prua. In due, con le mani, hanno allontanato la motovedetta dalla banchina. Sono tutti lì a consumare questa ritardata colazione, mentre i clienti pranzano ad arancini e gelati. Anche il finanziere saltato sul molo. Perchè quello scatto? «Dovevo capire se ci fosse spazio sufficiente per una via di fuga. Al mio grido c’è stata l’accelerata. Ha funzionato prima che fosse troppo tardi». Ma perché frapporvi tra la Sea Watch e l’attracco? «Ci siamo messi a protezione della banchina. Il nostro compito è non far attraccare le navi prive di autorizzazione e la Sea Watch si è avvicinata manovrando con le eliche di prua, spinta dal vento. Da bordo ci hanno detto “spostatevi” e nient’altro, il comandante non ha fatto nulla per evitarci». Dalla nave fanno sapere che non c’era intenzione di speronarli e rendono note le scuse del comandante. Ma si è ventilata l’ipotesi di contestare il tentato naufragio. Eccessivo? «Sarà il magistrato a valutare le ipotesi. Noi siamo fortunati che oggi non si parli di omicidio». Dalla tv nel locale Salvini parla di «atto di guerra». I militari si sottraggono a commenti politici: «Siamo grati a chi ci difende».
Il Viminale smonta la capitana: "Nessun migrante stava male". Rackete ha forzato il blocco delle motovedette invocando lo "stato di necessità" per i 40 migranti a bordo. In realtà stavano tutti bene: così il Viminale smonta le sue bugie.Andrea Indini, Sabato 29/06/2019 su Il Giornale. Quello che ha raccontato Carola Rackete quando è scesa dalla Sea Watch 3 non corrisponde affatto alla verità. Per giustificare la folle manovra, che ha portato l'imbarcazione dell'ong tedesca nel porto di Lampedusa speronando una motovedetta della Guardia di Finanza, la capitana ha invocato lo "stato di necessità" per i quarantun immigrati clandestini che si trovavano a bordo. In realtà, come confermano fonti del Viminale al Giornale.it, nessuno di loro stava male. "Resta quindi da capire a cosa si riferisse l'ong per giustificare l'attracco non autorizzato", ci spiegano. La situazione è precipitata la notte scorsa quando la Rackete ha deciso di forzare il blocco delle motovedette. Intorno all'1.50 la nave della ong tedesca, battente bandiera olandese, è entrata nel porto commerciale di Lampedusa (guarda il video). Subito dopo è salita a bordo la Guardia di Finanza e, intorno alle 3 di notte, la capitana è stata portata via in stato d'arresto co l'accusa di violazione dell'articolo 1100 del codice della navigazione, che richiama il comportamento del comandante o dell'ufficiale che commetta atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, ed è punibile con la reclusione da tre a dieci anni. "Entrare nel porto di Lampedusa anche senza le autorizzazioni è stata una decisione dell'equipaggio della Sea Watch e non solo della capitana", ha detto l'avvocato dell'ong tedesca, Leonardo Marino. "Siamo orgogliosi del nostro capitano, ha agito nel modo giusto. Ha insistito sulla legge del mare e ha portato la gente al sicuro", ha fatto eco il ceo della Sea Watch, Johannes Bayer. Nelle prossime ore gli inquirenti accerteranno sicuramente cosa è successo durante le procedure di attracco, quando la motovedetta della Guardia di finanza si è accostata al molo mentre la nave della ong continuava ad avvicinarsi all'unità militare fino a speronarla. Nel frattempo, però, il Viminale ha già accertato che lo "stato di necessità" invocato dalla Rackete non aveva alcuna fondamenta. "Nessuno dei 41 immigrati scesi dalla Sea Watch presenta malattie o problemi particolari come scabbia o disidratazione", fanno sapere fonti del Viminale asicurando, tra le altre cose, che tutte le persone che si trovavno a bordo "sono stati rifocillati" e "hanno passato una notte serena". Per nessuno di loro è stato, dunque, disposto alcun accertamento specifico né il trasferimento in elisoccorso verso l'ospedale di Palermo. La notizia non sembra sorprendere il ministero dell'Interno che probabilmente si aspettava che lo stato di salute degli extracomunitari non fosse al centro delle preoccupazioni della capitana. I malati e i bambini con i loro accompagnatori erano stati già fatti scendere a terra nei giorni scori con il via libera del governo italiano. "Resta quindi da capire a quale 'stato di necessita" si riferisse la ong - si chiedono le stesse fonti - per giustificare l'attracco non autorizzato con speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza".
Sea Watch, l’Olanda scarica la capitana: «Ha sbagliato lei». Pubblicato domenica, 30 giugno 2019 da Luigi Offeddu e Marta Serafini su Corriere.it. «Caro Collega…». La lettera è stata mandata via mail al Viminale verso le 22 di ieri sera e verrà poi seguita dalla versione ufficiale cartacea il più presto possibile, domani. Destinatario, il ministro dell’interno Matteo Salvini, che anche nelle ultime ore aveva attaccato l’Olanda su Facebook, accusandola di «menefreghismo» sulla questione dei migranti extracomunitari. Mittente, la segretaria di Stato olandese all’immigrazione, Ankie Broekers-Knol. Tema della missiva (qui la versione integrale), la vicenda della nave Sea Watch 3. Toni cortesissimi, come vuole da in secoli la diplomazia in tutto il mondo, ma sostanza tosta e netta. Ecco un elenco dei temi affrontati, anche se non in quest’ordine esatto. Primo: il fatto che una nave batta la bandiera di un certo Stato, «non implica un obbligo per quello Stato di imbarcare persone soccorse». Secondo: l’Olanda ha deciso, «in assenza di una prospettiva di cooperazione verso una soluzione concreta e strutturale come quella indicata nelle conclusioni del Consiglio Europeo del giugno 2018, che non parteciperà più oltre agli schemi di sbarco “ad hoc”». Terzo: il governo olandese «ha esplicitamente dichiarato che in principio non prenderà più migranti dalle operazioni Sar (Soccorso in Mare) in un’area ampiamente colpita dalle attività dei trafficanti di esseri umani».L’Aja, prosegue la lettera della Segretaria di Stato, «è pienamente impegnata a rispettare l’obbligo di salvataggio delle gente in mare imposto dalla legge internazionale. Tuttavia, come lei (Salvini, ndr) giustamente dice, le operazioni della Sea Watch 3 non dovrebbero contribuire alle attività criminali dei trafficanti». Quanto alla capitana tedesca della Sea Watch, l’Olanda dichiara di non condividere, «come lei» (Salvini, ndr), le scelte che ha fatto. Avrebbe potuto andare in Libia, in Tunisia, o anche nel porto olandese di competenza. Ma «contrariamente a quanto Lei dichiara nella sua lettera, non ha mai chiesto di sbarcare in Olanda». I Paesi Bassi chiedono all’Italia di «lavorare insieme per riformare il sistema europeo di asilo e immigrazione, basato sui principi della solidarietà e responsabilità». E come parte di questa riforma, bisognerà studiare «una procedura obbligatoria europea di espulsione ai confini esterni». «Vorrei anche aggiungere — scrive la segretaria di Stato — che in caso di quei migranti che non hanno diritto alla protezione internazionale, il ricollocamento è uno spreco di sforzi e risorse finanziarie dei contribuenti, che dovrebbe essere evitato». La segretaria di Stato all’immigrazione annuncia anche che si recherà a Roma per «colloqui bilaterali» con Salvini.Fin qui, la lettera di risposta al ministro italiano degli Interni. In un’intervista esclusiva al Corriere della Sera, Ankie Broekers Knol ha poi precisato alcuni altri punti della posizione del suo Paese: «I Paesi Bassi sono acutamente consapevoli della pressione migratoria sull’Italia negli ultimi anni, e particolarmente della pressione sproporzionata sperimentata fino alla metà del 2017. Inoltre, l’Olanda ha sempre riconosciuto l’impegno e la leadership italiana. È anche per questo che ha dimostrato la sua solidarietà in molti modi, per esempio contribuendo allo schema di ricollocamento temporaneo. Grazie allo sforzo dell’Italia e al sostegno degli altri Stati membri fra cui l’Olanda, gli arrivi illegali e le richieste di asilo in Italia sono calati in modo drammatico dalla metà del 2017». Situazione generale in via di risoluzione, dunque? No, risponde la segreteria di Stato olandese, «al contrario noi abbiamo registrato in questo periodo successivo alla crisi migratoria un continuo, alto numero di richiedenti asilo, molti dei quali provenienti dall’Italia. Questi movimenti sono un altro problema che dobbiamo affrontare».
La carica dei preti pro Sea Watch: "Carola è una ragazza straordinaria". Da vescovi e parroci parole di ammirazione nei confronti della "capitana" Carola Ruckete che ha attraccato la Sea Watch a Lampedusa. Giorgia Baroncini, Sabato 29/06/2019, su Il Giornale. "C'è voluta una donna tedesca per mettere in crisi e sparigliare le carte al ministro Salvini, una ragazza tedesca dai grandi valori, una donna straordinaria che ha avuto tutto dalla vita e ora dedica una parte della sua vita a chi non ha niente". Così il padre missionario Alex Zanotelli ha commentato all'AdnKronos l'attracco della Sea Watch a Lampedusa. È stata la capitana Carola Rackete a forzare nella notte il blocco della Guardia di finanza e a entrare nel porto siciliano. E per lei dalla Chiesa arrivano oggi parole di ammirazione. "Questa donna meriterebbe un premio Nobel - ha continuato il religioso comboniano - per il suo coraggio di sfidare una legge assurda, cui bisogna disobbedire, perché è un atteggiamento profondamente cristiano la disobbedienza alle ingiustizie, i primi martiri sono morti proprio per questo motivo". "Secondo me la capitana ha fatto un atto importante per tutelare la vita delle persone", ha commentato monsignor Giancarlo Perego. "Oggi è un giorno bello perché gente che rischiava la vita in mare è potuta approdare". Alla capitana della Sea Watch potrebbe essere dedicato il porto di Lampedusa, ha proposto l'arcivescovo parlando all'AdnKronos. "Carola è una ragazza straordinaria e determinata, la vedo come un testimone di umanità e di diritto, perché c'è un diritto del mare, il diritto fondamentale dell'uomo, che precede le nostre normative", ha invece affermato don Massimo Biancalani, parroco di Vicofaro (Pistoia). Il parroco, uno dei primi preti anti Salvini, si è anche detto "inorridito" dall'approccio del ministro dell'Interno e dalla politica italiana. "Accogliere chi si trova nello 'status' di migrante o rifugiato è un dovere e un principio fondamentale", ha dichiarato il patriarca di Venezia Francesco Moraglia. "La risposta alla tragedia umana di interi popoli non può essere quella dei muri, ma quella della politica. Una politica che, una buona volta, voglia affrontare tale vicenda senza pregiudizi ideologici o ingenuo buonismo ma con realismo". Ad accogliere la Ong al porto don Carmelo La Magra, il parroco della città siciliana. "Il Natale quando arriva arriva. Benvenuti nel Porto Salvo di Lampedusa", ha dichiarato. Anche il presidente della Chiesa evangelica in Germania è intervenuto sulla vicenda della Sea Watch. Il vescovo luterano Heinrich Bedfort-Strohm si è infatti detto "triste e inquieto" per l'arresto della capitana Carola Rackete. "L'accoglienza è la via obbligata del Vangelo", aveva affermato il vescovo di Noto, monsignor Antonio Staglianò, nei giorni precedenti all'attracco. Giorni tesi in cui si sono scontrati diversi religiosi con il ministro dell'Interno, Matteo Salvini. È il caso dell'arcivescovo di Torino che si era detto "disponibile ad accogliere i migranti della Sea Watch". "Aiuti gli italiani in difficoltà", aveva risposto secco il vicepremier leghista.
Chi difende Carola, la Capitana della Sea Watch. Malgrado abbia speronato una motovedetta della Gdf sono in tanti e schierarsi da parte della nuova eroina della sinistra. Panorama il 30 giugno 2019. “Per quanto lo si mascheri da atto dovuto, l'arresto della #Capitana della #SeaWhatch3 resterà una macchia indelebile di disonore a carico di uno Stato che calpesta il principio del soccorso in mare, fingendosi invaso da un equipaggio generoso e da migranti inoffensivi.
Gad Lerner, via twitter, è il primo, poche ore dopo l’attracco notturno della Sea Watch terminato con lo speronamento e schiacciamento contro la banchina del porto di Lampedusa di una motovedetta della Gdf, a prendere comunque le difese della Capitana, Carola Rackete, la nuova “eroina” della sinistra che rischia anche 12 anni di carcere per quanto compiuto la scorsa notte.
Non poteva mancare anche l’appoggio prevedibile, scontato, di Roberto Saviano (sempre via social): “Carola, hai obbedito alla legge degli Uomini, gli stessi Uomini che più di 70 anni fa seppero scacciare nel buco nero della storia quelli che oggi rialzano la testa. Grazie per aver messo il tuo corpo in questa battaglia di civiltà. #SeaWatch3 #CarolaRackete”.
Repubblica, ma anche qui siamo nell’ovvio, oggi dedica ampio spazio al “Processo a Carola” dando voce a vari esperti di navigazione e diritto che spiegano come la manovra della Capitana sia legittima.
Stupisce, e quindi è ancora più grave, come invece Graziano Delrio(Pd), ex ministro ed uno dei parlamentari della sinistra italiana salito sulla Sea Watch per portare il loro sostegno personale e del partito alla Ong, dopo l’accaduto (ricordiamo che era stato Ministro dei Trasporti, uno quindi che per regole delle manovre in mare dovrebbe conoscerle bene) non abbia trovato la forza per dissociarsi da quanto fatto dalla Rackete. “La manovra contro la vedetta della GdF non è stata voluta. Il Pd non cerca eroi ma era giusto salire a bordo. I diritti umani vanno difesi”.
Su twitter poi nascono i primi hashtag #freeCarola e #freeCarolaRackete.
- Sandro Ruotolo (giornalista): #freeCarolaRackete comunque più di 370 mila euro in meno di tre giorni raccolti (siamo 22 mila i donatori fino ad ora) per spese legali e sanzioni per #SeaWhatch #facciamorete schierarsi è rock.
- Gianrico Carofiglio (scrittore): Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Art 54 codice penale che la capitana Carola - quella che ha battuto Salvini - potrà invocare per essere prosciolta.
Lucia Annunziata sull’Huffington rincara la dose: #FreeCarola. Fermate quel pagliacci di Salvini è il titolo del post del suo blog.
Non poteva mancare poi l’Europa che anche in questa vicenda ha dimostrato la totale assenza ed inefficacia delle norme sulla gestione del problema immigrazione.
Francia e Germania infatti hanno commentato così: “I diritti umani vanno difesi e vengono prima di tutto. Salvare vite umane non è fuorilegge”.
Anche i manifestanti che ieri a Milano hanno partecipato al Gay Pride hanno voluto esprimere la loro solidarietà verso la Capitana con un lungo applauso.
Sea Watch, scontro tra Salvini e la Francia. La Germania: «Non criminalizzare il soccorso in mare». Pubblicato sabato, 29 giugno 2019 da Francesca Basso su Corriere.it. Diventa un caso internazionale la vicenda della nave Sea Watch, dopo che la capitana Carola Rackete, cittadina tedesca, è stata arrestata nella notte dalle autorità italiane per aver resistito agli alt della Guardia di Finanza e per resistenza contro una nave da guerra italiana. Il ministro dell’Interno francese, Cristophe Castaner, è intervenuto con una dura nota sul sito del ministero nella quale giudica errate le critiche dell’Italia all’Unione europea e attacca la politica dei porti chiusi varata dal suo omologo Salvini, definendola «in violazione del diritto internazionale del mare». Castaner scrive che è «sbagliato affermare che l'Ue non ha dimostrato solidarietà con l'Italia» e che «ora la crisi migratoria ha drasticamente diminuito la sua ampiezza»: «Nel 2016, 180 mila persone sono sbarcate in Italia. Nel 2018 non sono state più di 23 mila. Quest'anno siamo a 3.500 nei primi sei mesi dell'anno, un calo dell'80 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente». Il ministro francese dichiara inoltre che la Francia, negli ultimi mesi, ha accolto «quasi 400 persone bisognose di protezione sbarcate in Italia e a Malta, e questo di concerto con altri Stati membri e nell'ambito del coordinamento europeo» e aggiunge che il suo Paese è disposto ad accogliere 10 migranti di quelli sbarcati nella notte a Lampedusa dalla Sea Watch. Il ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, ha commentato la nota del ministero degli Esteri francese dicendo che «l’Italia non prende lezioni da nessuno e dalla Francia in particolare: Parigi ha chiuso Schengen, era in prima fila per bombardare la Libia, abbandonava immigrati nei boschi italiani». Anche il governo tedesco ha una posizione critica sulle scelte dell'Italia. «Salvare le vite umane è un dovere umanitario. Soccorrere vite umane in mare non può essere criminalizzato», ha detto il ministro degli esteri della Germania Heiko Mass. «Tocca alla giustizia italiana ora chiarire le accuse» a Carola Rackete. Più dure le prese di posizione dei Verdi tedeschi — il cui leader Robert Habeck definisce «spietato» il governo italiano e un «colpo linguistico di proporzioni orwelliane» l’accusa di pirateria nei confronti di Rackete — e della Chiesa evangelica in Germania, prima finanziatrice di Sea Watch. «Una giovane donna viene arrestata in un paese europeo perché ha salvato vite e vuole portare le persone salvate in sicurezza a terra. Una vergogna per l’Europa!». Anche il ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Asselborn, si rivolge all’Italia chiedendo la scarcerazione di Rackete. In un post su Facebook indirizzato all’«amico» e collega Enzo Moavero Milanesi, Asselborn scrive che «salvare vite è un dovere e non può mai essere un reato o un crimine. Non farlo, al contrario, lo è».Nel 2018, il ministro Asselborn era entrato in polemica con Matteo Salvini, proprio sul tema dei migranti. Il battibecco tra i due si era svolto durante la Conferenza di Vienna sulla sicurezza e l’immigrazione. Salvini aveva risposto a un intervento del responsabile degli Affari Esteri del piccolo stato del centro Europa (che ricopre l'incarico da ben 14 anni) dichiarando che l’Italia non ha «l’esigenza di avere nuovi schiavi per soppiantare i figli che non facciamo più». Asselborn lo aveva interrotto più di una volta e si era anche fatto scappare una frase poco ortodossa: «Merde alors».
La Francia passa agli insulti "Italia isterica sui migranti". Macron contro Salvini: "Porta avanti la strategia dell'isteria". Il vicepremier italiano: "I prossimi barconi verso Marsiglia". Giovanni Neve, Domenica 30/06/2019 su Il Giornale. Dopo le critiche, la Francia passa direttamente agli insulti nei confronti dell'Italia e della sua politica di contrasto all'immigrazione clandestina. Ieri era stato il ministro degli Esteri Cristopher Castaner a scagliarsi contro la chiusura dei porti, sostenendo si tratti di una "violazione del diritto internazionale del mare". Oggi l'attacco arriva direttamente dal Emmanuel Macron: "Ci dispiace vedere che stiamo arrivando a questa situazione perché il governo italiano sta sfortunatamente scegliendo una strategia dell'isteria su argomenti che ovviamente sono molto dolorosi", ha detto la portavoce, Sibeth Ndiaye. "È importante ricordare che la Francia, come l'Unione europea, è stata solidale con l'Italia negli scorsi anni. Al culmine della crisi dei migranti che ha avuto luogo nel Mediterraneo, l'Italia ha beneficiato di circa un miliardo di euro in aiuti comunitari". Secondo la Ndiaye - nominata direttamente dal presidente francese - "Salvini strumentalizza politicamente traiettorie e fatti dolorosi affermando che la Francia e l'Unione europea non sono solidali". "Questa strumentalizzazione quando parliamo di vite umane (la vita di persone che hanno attraversato condizioni estremamente difficili, che hanno viaggi terribili) non è assolutamente degna di Matteo Salvini", ha aggiunto. Parole a cui lo stesso Matteo Salvini ha prontamente risposto ribadendo quanto già detto stamattina: "Visto che il governo francese è così generoso (almeno a parole) con gli immigrati, indirizzeremo i prossimi eventuali barconi verso Marsiglia", ha commentato il vicepremier. "La tattica è questa per creare l’incidente politico", aveva spiegato oggi a La Verità il ministro italiano, "Ma la linea della fermezza paga. Da oggi una destinazione diversa c’è: il governo francese si è espresso per l’apertura di tutti i porti, quindi daremo indicazioni per mandare quelle navi in Corsica o a Marsiglia".
La Francia insulta ancora Salvini ma dimentica le proprie porcherie. La portavoce del governo francese: "Sui migranti il comportamento di Salvini non è accettabile". Ma Parigi non brilla: ecco tutte le malefatte francesi. Domenico Ferrara, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. Sui migranti il comportamento del ministro dell'Interno italiano, Matteo Salvini, "non è accettabile". A emettere la sentenza ci ha pensato, ancora una volta, la portavoce del governo francese, Sibeth Ndiyaye, che in un'intervista all'emittente BFMTV sul caso Sea-Watch ha lamentato che il nostro Paese sull'accoglienza "non è stato all'altezza". Già ieri la stessa Ndiyaye ha attaccato il nostro paese sostenendo che "il governo italiano sta sfortunatamente scegliendo una strategia dell'isteria su argomenti che ovviamente sono molto dolorosi". La risposta del diretto interessato non si è fatta attendere. "Il governo francese la smetta di insultare e apra i suoi porti, gli italiani hanno già accolto (e speso) anche troppo. Prossimi barconi? Destinazione Marsiglia", ha dichiarato il leghista. Da che pulpito viene la predica francese. Non è la prima volta che i maestrini d'Oltralpe puntano il dito contro di noi. Basti ricordare quando ci accusarono di cinismo sul caso Aquarius. Dal canto loro, invece, nessuna autocritica sulle politiche migratorie, nessun pentimento sui respingimenti operati dalla Gendarmeria. Parlano di accoglienza i francesi ma dimenticano che dal 2015 a giugno 2018 dei 9.816 migranti che dovevano essere ricollocati in tre anni ne avevano accolti solo 640. Sul fronte dei respingimenti la musica non cambia, anzi peggiora. Dal 1 gennaio al 31 maggio 2018 hanno respinto alle frontiere 10.249 persone, comprese donne e bambini disabili, in pratica quasi 70 al giorno. Come se non bastasse, ci sono poi le violenze e le vessazioni fatte dagli agenti francesi a Ventimiglia, una su tutte la donna incinta che venne sbattuta giù di forza da un treno che l'avrebbe portata a Mentone. O l'incursione a Bardonecchia, in un centro di accoglienza italiano scortando un migrante e obbligandolo a sottoporsi all'esame delle urine o ancora quel respingimento senza cuore di una donna incinta e affetta da un linfoma, morta qualche settimana dopo in un ospedale di Torino dopo aver partorito. Mano dura anche contro i minorenni extracomunitari e norme non rispettate. Secondo le Ong che lavorano al confine di Ventimiglia, la Francia avrebbe inoltre sistematicamente falsificato i documenti per far diventare maggiorenni i minorenni in modo tale da rispedirli nel nostro paese. Salvini minaccia di spedire i barconi a Marsiglia. Ma poco tempo fa il vicesindaco Dominique Tian disse senza mezzi termini: "No all'apertura del nostro porto alle navi umanitarie che soccorrono i migranti nel Mediterraneo, se ogni settimana facessimo entrare navi con centinaia se non migliaia di migranti saremmo nell'incapacità totale di alloggiare queste persone. Perché una volta sbarcate, queste persone bisogna alloggiarle, ma non abbiamo i mezzi, non possiamo accogliere dei migranti in queste condizioni". Alla faccia dell'accoglienza.
Carola Rackete premiata dal Comune di Parigi «perseguita dalla giustizia italiana». Pubblicato venerdì, 12 luglio 2019 da Stefano Montefiori su Corriere.it. Processata in Italia, premiata in Francia. Carola Rackete riceverà la medaglia Grand Vermeil, la massima onorificenza del Comune di Parigi, «per aver salvato migranti in mare». Oltre alla Rackete sarà premiata anche l’altra capitana della Sea Watch 3, Pia Klemp. La medaglia vuole simboleggiare «la solidarietà e l’impegno di Parigi per il rispetto dei diritti umani» e va alle due operatrici umanitarie tedesche «ancora perseguite dalla giustizia italiana», si legge nel comunicato. L’annuncio lo ha dato il municipio di Parigi aggiungendo che il Consiglio ha approvato anche il versamento di 100mila euro a favore di Sos Mediterranée «per una nuova missione di salvataggio di migranti in mare», dopo che nel 2016 contribuì con 25mila euro e nel 2018 con 30mila euro. Il commento del ministro dell’Interno Matteo Salvini è arrivata via Facebook: «Evidentemente il Comune di Parigi non ha di meglio da fare. Un bacione a Carola, la signorina che ha chiesto la chiusura del mio profilo Facebook. Questa potrebbe essere la mia ultima diretta. Ma io non mollo, quindi Carola vai avanti. Indagate pure sulla Russia, il Lussemburgo, la Finlandia». Intanto la commissione Libertà civili dell’Eurocamera ha proposto di invitare la capitana Rackete al Parlamento europeo. «E’ una proposta vergognosa che ha il sapore della santificazione. La Lega si opporrà - ha dichiarato l’europarlamentare della Lega Marco Zanni -. Non permetteremo che un’istituzione come il Parlamento Ue inviti a presenziare in contesti ufficiali soggetti che hanno deliberatamente violato le leggi di uno Stato membro».
Se il festival buonista proietta un film su Carola Rackete. Nel giorno dell'apertura del Festival dei Popoli di Firenze sarà presentato "Sea Watch 3", il documentario in onore della capitana tedesca girato da due registi che erano a bordo della nave che speronò una motovedetta della Gdf. Gianni Carotenuto, Domenica 20/10/2019, su Il Giornale. Nuova tappa nel processo di beatificazione di Carola Rackete, la capitana tedesca della Sea Watch 3 arrestata - e poi rilasciata - a giugno dopo avere speronato una motovedetta della Guardia di Finanza nel tentativo di sbarcare, pur senza autorizzazione, i migranti a bordo. Per la sua 60esima edizione, in programma tra il 2 e il 9 novembre, il Festival dei Popoli di Firenze - promosso dall'omonima associazione impegnata nella promozione e nello studio del cinema di documentazione sociale - presenterà nella serata di apertura la prima internazionale del film-documentario "Sea Watch 3", dedicato alla nave ong. La pellicola, girata dai giornalisti-registi Jonas Schreijag e Nadia Kailouli che erano a bordo dell'imbarcazione nei concitati giorni di giugno, racconta in presa diretta il salvataggio in mare di 53 migranti, l'arrivo della polizia e l'irruzione della nave sulle coste di Lampedusa. Si tratta dell'ennesimo omaggio alle prodezze di Carola, che di recente era stata invitata al Parlamento europeo per parlare del contributo dato in prima persona nelle attività di salvataggio dei naufraghi nel Mediterraneo. In quella sede Rackete era stata accolta da una standing ovation, che l'aveva motivata ulteriormente per tenere la sua lezione all'Europa sulla gestione dell'immigrazione, accusando l'Italia di essere "fuori dal diritto internazionale". Ma non solo. Infatti, aveva raccontato la sua esperienza a bordo dell'imbarcazione ong. "Abbiamo vissuto delle situazioni alienanti - si era lamentata - abbiamo dovuto legare i corpi affinché non affondassero intorno a noi. Ho visto persone lasciate sole in mare o riportate nella Libia da cui erano appena fuggite. Ma nessuna esperienza è stata pesante come Sea Watch 3 con a bordo i migranti per giorni che nessuno voleva". Per la comandante tedesca, l'intera vicenda era stata "una vergogna" perpetrata dall'Europa, "culla dei diritti umani". "Tutte le istituzioni hanno alzato un muro", si era lamentata a Bruxelles dicendo di essere stata prima attaccata e poi di essersi "ritrovata da sola". Dopo l'omaggio dell'Europarlamento, ora Carola sbarca al cinema. Strumento che contribuirà a darle ulteriore risalto mediatico, ultima tappa di un processo di beatificazione che potrebbe portare la capitana - perché no - a impegnarsi in politica.
E ora Carola Rackete si becca pure una bella medaglia d'onore dalla Catalogna. Carola Rackete è proprio diventata un'eroina. Dopo la cittadinanza onoraria di Parigi, ora si becca pure una bella medaglia. Serena Pizzi, Mercoledì 17/07/2019 su Il Giornale. Non bastava la cittadinanza onoraria di Parigi, ora Carola Rackete diventa un'eroina anche in Catalogna. Dopo la mossa pericolosissima nel porto di Lampedusa e tutto quello che ne è conseguito, la capitana di Sea Watch 3 riceve una medaglia. Sì, avete letto bene: una medaglia d'onore. E da chi? Dalla Catalogna. Dalla cara Spagna che si è ben guardata dal prendere la quarantina di migranti sbarcati (in Italia) dalla Sea Watch 3. Il Parlamento della Catalogna, infatti, ha assegnato la Medaglia d'Onore, nella categoria oro, a Carola Rackete. E a oltre all'eroina, la medaglia è arrivata pure a Oscar Camps, fondatore e direttore dell'ong Proactiva Open Arms. Ad annunciare l'azzardata (e discutibile) decisione è il Parlamento locale della regione spagnola sul suo account Twitter, spiegando che i riconoscimenti sono stati proposti del presidente dell'assemblea, Roger Torrent. Da un Paese membro dell'Unione Europea arriva l'ennesimo schiaffo in faccia all'Italia. Facile premiare, ma non risolvere i problemi. E intanto Carola si becca la sua medaglia. Fiera, orgogliosa. Tanto, solo qualche giorno fa, ha dichiarato che rifarebbe tutto quello che ha fatto. Manovra pericolosissima annessa.
Lorenzo Mottola per “Libero quotidiano” il 20 ottobre 2019. È dai tempi di Babbo Natale alla conquista Marte che la critica cinematografica mondiale non registrava l' uscita di un film tanto irritante. La colpa è dell'ormai onnipresente Carola, capitana di vascello Ong con un passato da ricercatrice in mezzo all' artico e un probabilissimo futuro in politica da militante ambientalista. Come arcinoto, a rendere famosa la ragazza di Preetz non sono state le sue campagne ecologiste, ma le imprese nel Mediterraneo, organizzate per traghettare clandestini dalle acque libiche a quelle italiane, con tanto di inseguimenti mozzafiato e scontri con navi militari. Una bella trama, insomma, tanto che qualcuno ha scelto di dedicare alla vicenda una pellicola in stile Michael Moore: una via di mezzo tra un documentario e un film di pirati. Con molto spazio alla fantasia. Capita infatti che a bordo della nave della Rackete si trovassero anche due sconosciuti giornalisti-registi (Jonas Schreijäg e Nadia Kailouli) che hanno filmato tutti gli eventi: l' avvistamento al largo della Libia di 53 migranti, la sfida alle autorità italiane e i racconti degli africani salpati da Tripoli per arrivare nella ricca Europa. E infine, ovviamente, gli arresti e gli insulti da parte dei cittadini di Lampedusa all' equipaggio al momento dello sbarco. Il tutto è stato raccolto in un'opera che è stata chiamata "Sea-Watch 3" e che verrà proiettata per la prima volta in Italia il 2 novembre in occasione dell' apertura del Festival dei Popoli di Firenze, alla presenza dei due autori. Un altro piccolo passo verso la completa santificazione di Carola, dopo l'ormai celebra discorso al Parlamento di Bruxelles. Per chi se lo fosse perso, la tedesca ha approfittato dell' invito delle istituzioni Ue per riversare una caterva di insulti sugli eurodeputati, accusati di non averla aiutata nella sua missione. «Quel che è successo è stato vergognoso», ha tuonato, «io sono stata attaccata, mi sono ritrovata da sola». E gli onorevoli in questione, tutti contenti, si sono pure messi ad applaudire. I rappresentanti della sinistra europea sono arrivati a ringraziare per questa ennesima provocazione, studiata per cercare il massimo risalto mediatico possibile. Come dicevamo, infatti, la capitana dopo i fatti di Lampedusa ha fatto capire a tutti qual è la sua aspirazione, ovvero occuparsi di politica e ecologia. Le sue avventure le hanno assicurato la necessaria celebrità, anche se la sua resta una figura assolutamente controversa. Per rendersene conto basta raccontare quanto successo nei giorni scorsi in Grecia. La Sea Watch ha recentemente deciso di lasciare il Canale di Sicilia e di avventurarsi verso la Turchia, dove tutti si aspettano un picco di partenze a causa dello scontro con i curdi. All' arrivo in porto a Lesbo, la nave della Ong è stata presa a sassate dagli abitanti dell' isola.
La sinistra incensa la Rackete. Pronti i "premi" pure in Italia. De Magistris e Rossi già pronti a incensare la capitana che ha speronato la Gdf. E la sinistra ora si accoda a Parigi. Angelo Scarano, Sabato 13/07/2019 su Il Giornale. La sinistra ha trovato la sua nuova eroina: Carola Rackete. Dopo la cittadinanza onoraria concessa dal Comune di Parigi anche a casa nostra è scattata la corsa buonista per dare un premio alla capitana che ha speronato con la sua nave una motovedetta della Guardia di Finanza. E di fatto ad aprire questa strada è il Comune di Napoli guidato da Luigi De Magistris. All'interno del premio Pimetel Fonseca che è fortemente sostenuto dall'amministrazione comunale di Napoli, di fatto è già pronto un riconoscimento "honoris causa" per la capitana. Una mossa, quella che arriva da Napoli, che ha scatenato l'immediata reazione della Lega che con la coordinatrice cittadina Simona Sapignoli: "Una scelta vergognosa su cui spero l’opposizione in consiglio comunale voglia chiedere conto. Le scelte amministrative e le politiche portate avanti da de Magistris a Napoli in questi anni sono tutte a discapito della città e dei napoletani". La polemica però non finisce qui. Basta spostarsi un po' più a nord ed ecco che si palesa un altro fan di Carola pronto a premiarla: il governatore della Toscana, Enrico Rossi. Anche la regione "rossa" vuole allinearsi alle ultime mosse del popolo buonista e così propone un premio per la Rackete: "Bisogna dare dei riconoscimenti a questo mondo delle Ong così messo all’indice. E’ un mondo pieno di solidarietà, di impegno. La Toscana deve premiare il suo patrimonio importante di giovani e meno giovani che sono fortemente impegnati su questi temi", ha affermato Rossi. A stretto giro gli ha risposto il ministro degli Interni, Matteo Salvini: "Da Berlinguer a Carola, com'è caduta in basso la sinistra italiana...Il posto giusto per la ricca tedesca? La galera". Infine va ricordato che già lo scorso 27 giugno, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha deliberato la cittadinanza onoraria per la Rackete: "Dobbiamo solo stabilire il giorno per la cerimonia". Insomma adesso Carola potrebbe ricevere premi da quelle istituzioni che lei stessa ha preso a schiaffi violando in modo consapevole le leggi italiane...
Lo schiaffo della sinistra Ue: Carola invitata a parlare in Aula. Blitz della sinistra nella commissione per le libertà civili. La Lega chiede il rinvio. L'ira di Forza Italia e Fratelli d'Italia: "È una decisione folle". Sergio Rame, Venerdì 12/07/2019, su Il Giornale. Il Parlamento europeo si inchina alla capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete. La commissione Libertà civili e giustizia la ha, infatti, invitata per una audizione all'Eurocamera. A denunciare l'ennesimo colpo basso di Strasburgo è stato l'europarlamentare di Forza Italia, Fulvio Martusciello, che ha definito la decisione "profondamente sbagliata". La notizia ha subito fatto infuriare i partiti di centrodestra. "Ccè un procedimento giudiziario in corso a carico della Rackete - hanno ricordato gli eurodeputati di Fratelli d'Italia - concederle il palcoscenico delle istituzioni europee significherebbe forzare la mano dei giudici che stanno ancora valutando la legittimità del suo comportamento". "A che titolo la signora Rackete dovrebbe relazionare in un panel composto da esperti?", ha chiesto la leghista Annalisa Tardino. Fonti parlamentari del Partito popolare europeo, sentite dall'agenzia Agi, spiegano che durante la riunione dei coordinatori dei gruppi in commissione, che si è tenuta ieri, i rappresentanti del gruppo della Sinistra unitaria della Gue hanno avanzato la richiesta di audire la capitana della Sea Watch 3. A livello di coordinatori la richiesta è stata subito accolta, ma deve essere ancora formalizzata. La commissione deciderà se dare il via libera l'ultima settimana di luglio dopo la seduta plenaria di Strasburgo. "Spero che gli altri gruppi politici - ha commentato la Tardino - decideranno di non prestarsi a questo gioco delle sinistre". Ma, secondo il piddì Pietro Bartolo, l'audizione potrebbe essere sentita già prima della pausa estiva, quindi in concomitanza con gli interrogatori che sono in corso nel nostro Paese. Durante la riunione di ieri, gli eurodeputati della Lega si sono fermamente opposti all'invito proponendo piuttosto di invitare altri esponenti del mondo delle Ong da affiancare a un esperto del Viminale, così da "garantire il necessario contraddittorio" ed "evitare che i lavori della Commissione diventino una farsa ad esclusivo uso mediatico". Anche Forza Italia ha chiesto ufficialmente alla Commissione di far partecipare anche un rappresentante della Guardia di Finanza e del ministero dell'Interno italiano per "difendere l'onore del nostro Paese". "Spiace davvero che alcuni gruppi si prestino a queste iniziative che hanno come unico scopo quello di danneggiare l'immagine dell'Italia", ha commentato Martisciello. Anche per gli eurodeputati di Fratelli d'Italia l'invito della Sinistra unitaria del Gue è a dir poco "folle". "Si tratta di una violenta offesa all'Italia, alle sue forze dell'ordine messe in pericolo dall'azione della Rackete, oltre che una violazione dei più elementari principi di legalità", hanno tuonato il co-presidente dei Conservatori europei, Raffaele Fitto, il capodelegazione Carlo Fidanza, Nicola Procaccini della commissione Libe e gli eurodeputati Raffaele Stancanelli e Pietro Fiocchi. Una decisione "folle" che arriva dopo pochi giorni dall'inizio della nuova legislatura europea. "Appare già evidente come la democrazia e la legalità vengano quotidianamente calpestate proprio da quella sinistra che se ne riempie la bocca ad ogni intervento pubblico", hanno lamentato gli esponenti di Fratelli d'Italia che ora si aspettano dal governo Conte una posizione ufficiale "reagendo adeguatamente a questo affronto" per evitare di "barattare la dignità nazionale con uno strapuntino in Commissione europea".
Carola Rackete invitata all'Europarlamento, Salvini, ultimo colpo di grazia: smantellato il sovranismo. Libero Quotidiano il 5 Settembre 2019. Per Matteo Salvini l'ultimo colpo di grazia: Carola Rackete è stata invitata ufficialmente all'Europarlamento. La comandante della Sea Watch, i cui legali hanno denunciato l'ex ministro degli Interni per diffamazione, parteciperà a un'audizione nella commissione Libertà civili (Libe) a Strasburgo il prossimo 3 ottobre, se non saranno sollevate obiezioni nella riunione della commissione parlamentare della prossima settimana. Lo ha reso noto l'ufficio stampa del Parlamento europeo, precisando che è stato raggiunto un accordo dai coordinatori della Libe, ma che la commissione deve ancora confermarlo formalmente. All'audizione, dal tema "Ricerca e soccorso nel Mediterraneo", dovrebbero essere invitati anche rappresentanti della Commissione europea, Frontex, Consiglio d'Europa e Guardia Costiera italiana.
Standing ovation per Carola Rackete alla Ue: “Dove eravate quando chiedevo aiuto?” Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 da Corriere.it. «Dove eravate quando chiedevo aiuto?»: Carola Rackete, la comandate della Sea Watch che nel giugno scorso forzò il blocco a Lampedusa imposto dall’allora ministro Salvini, torna a far sentire la sua voce. Lo ha fatto davanti alla commissione libertà civili dell’Europarlamento che l’ha ascoltata proprio nel giorno dei migranti e nel giorno in cui a Lampedusa si commemora la strage del 2013 in cui morirono annegate 368 persone. «Il caso della Sea Watch ancora una volta ha fatto notare che gli Stati membri non sono disposti ad affrontare i tempi moderni. Non sono disposti a ridistribuire una nave con 53 persone. Come se a bordo ci fosse stata la peste invece che persone esauste» ha dichiarato Rackete, alle cui parole l’assemblea (anche se non al completo) si è alzata in piedi tributandole una standing ovation. «Con il decreto sicurezza venivo considerata una minaccia all’ordine pubblico. Ho ricevuto una serie di attenzioni solo dopo essere entrata in porto. Dove eravate quando abbiamo chiesto aiuto attraverso tutti i canali diplomatici e ufficiali?. Unica risposta ricevuta era stata quella di Tripoli. Ho dovuto entrare nel porto di Lampedusa non come atto di provocazione, ma per motivi di esigenza», ha aggiunto la comandante. La volontaria ha anche criticato il fatto che l’Europa continua a affidare i salvataggi alla Libia: «l’Unione europea ricorre sempre più all’esternalizzazione dei salvataggi con deleghe a Paesi in guerra come la Libia, violando le leggi internazionali». La comandante ha poi rievocato l’episodio dil Lampedusa come una dei più traumatici della sua esperienza: «Nella mia esperienza con Sea Watch abbiamo vissuto delle situazioni alienanti, abbiamo dovuto legare i corpi affinché non affondassero intorno a noi. Ho visto persone lasciate sole in mare o riportate nella Libia da cui erano appena fuggite. Ma nessuna esperienza è stata pesante come Sea Watch 3 con a bordo i migranti per giorni che nessuno voleva». «È stato una vergona notare questo atteggiamento dall’Europa, la culla dei diritti umani. Nonostante il parere delle persone, tutta una serie di istituzioni ha innalzato un muro. Io sono stata attaccata, mi sono ritrovata da sola». Nello specifico l’audizione ha riguardato l’attuale sistema di accoglienza e ricollocamento: «La riforma del regolamento di Dublino è attesa da tempo ma la soluzione è creare canali legali verso l‘Europa. Il nostro caso sottolinea la necessità di affrontare la situazione dei salvataggi in mare a livello europeo, senza negoziati ad hoc. Anche il meccanismo dei ricollocamenti temporanei focalizzato sui rimpatri anziché sull’accoglienza non è realistico». Carola Rackete era stata fermata dalle autorità italiane ai sensi del decreto sicurezza bis, dopo l’ingresso a Lampedusa e l’urto con una imbarcazione della Guardia di Finanza. La gip di Agrigento aveva però subito rimesso in libertà la comandante ritenendo che avesse agito in stato di necessità e che il salvataggio effettuato in mare dalla Sea Watch rispondesse sia a trattati internazionali che a leggi dello stato italiano. La volontaria resta indagata anche se le accuse a suo carico appaiono fortemente indebolite dalle prime valutazioni della magistratura. Matteo Salvini è stato a sua volta iscritto al registro degli indagati per aver definito Carola Rackete «delinquente», «criminale» e «complice di trafficanti di esseri umani». Salvini, proprio oggi, ha definito «un’offesa all’Italia» l’applauso tributato dalla commissione alla comandante.
Schiaffo della Rackete all'Italia. E gli eurodeputati applaudono. Carola parla all'Europarlamento: "Italia fuori dal diritto internazionale". Standing ovation in Aula. L'ira di Salvini: "È una vergogna, provo pena". Andrea Indini, Giovedì 03/10/2019, su Il Giornale. Agli ultrà europeisti che la hanno invitata a parlare davanti alla commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe) del Parlamento europeo non importa affatto che per sfondare il blocco del Viminale Carola Rackete ha speronato la motovedetta della Guardia di Finanza. "Dall'Italia legge contro diritto...Altrimenti, anziché stendere il tappeto rosso per la capitana della Sea Watch 3, avrebbero invitato i militari che si trovavano a bordo e che hanno rischiato. E men che meno gli importa che, pur di far registrare i migranti in Italia, come le era stato "suggerito" dal governo tedesco, ha infranto diverse leggi del nostro Paese. Eppure eccola lì, a Strasburgo, a pontificare ("Il caso della Sea Watch è stata una vera vergogna") e gli eurodeputati tutti in piedi ad applaudirla. L'audizione della Rackete al parlamento europeo è stata anticipata da un'infinità di polemiche che non accenneranno a diminuire nemmeno oggi che la capitana ha fatto la sua reprimenda all'Europa. Il suo è stato un attacco durissimo che non ha risparmiato nessuno e, sebbene abbia sempre fatto di tutto per non fare nomi e cognomi, il suo dito indice è rimasto sempre puntato contro l'Italia che, sulla base del decreto Sicurezza voluto da Matteo Salvini, aveva vietato alla Sea Watch 3 non solo di attraccare al porto di Lampedusa ma anche di entrare nelle acque territoriali italiane. "Abbiamo vissuto delle situazioni alienanti - ha lamentato - abbiamo dovuto legare i corpi affinché non affondassero intorno a noi. Ho visto persone lasciate sole in mare o riportate nella Libia da cui erano appena fuggite. Ma nessuna esperienza è stata pesante come Sea Watch 3 con a bordo i migranti per giorni che nessuno voleva". Per la comandante tedesca, l'intera vicenda è stata "una vergona" perpetrata dall'Europa, "culla dei diritti umani". "Tutta una serie di istituzioni ha innalzato un muro", ha continuato lamentandosi di essere stata prima attaccata e poi di essersi "ritrovata da sola". Sola contro l'Italia che con il decreto Sicurezza, "una legge che non rispetta il diritto internazionale e del mare", l'ha bollata come "una minaccia all'ordine pubblico". Il caso della Sea Watch viene usato dalla Rackete per accusare gli Stati membri di non essere "disposti ad affrontare i tempi moderni" ridistribuendo una nave con 53 clandestini a bordo. "Come se a bordo ci fosse la peste invece che persone esauste", ha quindi incalzato lamentando di aver ricevuto attenzione soltanto dopo essere entrata a forza nel porto di Lampedusa ed essere stata arrestata. "Dove eravate quando abbiamo chiesto aiuto attraverso tutti i canali diplomatici e ufficiali?". In Aula nessuno ha replicato alle accuse. Nessuno le ha fatto presente che non avrebbe dovuto infrangere le leggi italiane e tantomeno speronare la motovedetta della Guardia di Finanza. Nessuno ha ricordato che quel caso avrebbe potuto essere gestito diversamente e che Lampedusa non era per forza il porto d'approdo a cui puntare per scaricare gli immigrati. Di contro si sono alzati tutti in piedi ad applaudirla. "Questo applauso finale molto lungo è simbolo del nostro apprezzamento degli sforzi che lei ha svolto - ha addirittura commentato il presidente della commissione, Juan Fernando Lopez Aguilar - si è impegnata personalmente in modo incredibile e per questo la ringraziamo". Durante il suo intervento, la Rackete non ha mai pronunicato la parola "scusa". Anzi ha pure fatto leva sul gip di Agrigento, Alessandra Vella, che al termine delle indagini ha dichiarato che era stato "seguito l'obbligo di ricerca e salvataggio" e che quanto fatto era "in conformità del diritto del mare". L'intervento della capitana in Aula e gli applausi scroscianti sono uno schiaffo al nostro Paese. "Non mi sognerei mai di applaudire una comandante che, dopo aver aspettato deliberatamente 15 giorni al largo di Lampedusa, per scaricare a tutti i costi degli immigrati in Italia, ha addirittura speronato una motovedetta della Guardia di Finanza, mettendo a rischio la vita delle donne e degli uomini in divisa", ha commentato Salvini spiegando di provar "pena, imbarazzo e vergogna per" chi ha si è alzato ad applaudirla. Anche perché nessuno di questi ha mai avuto il coraggio di commentare la notizia dei tre torturatori di immigrati caricati da Carola e scaricati nel nostro Paese.
(LaPresse il 3 ottobre 2019) - “Non mi sognerei mai di applaudire una comandante che, dopo aver aspettato deliberatamente 15 giorni al largo di Lampedusa per scaricare a tutti i costi degli immigrati in Italia, ha addirittura speronato una motovedetta della Guardia di Finanza mettendo a rischio la vita delle donne e degli uomini in divisa. Provo pena, imbarazzo e vergogna per chi ha applaudito Carola Rackete a Bruxelles. L’omaggio alla comandante della SeaWatch3 è un’offesa all’Italia. E nessuno ha ancora smentito la notizia dei tre presunti torturatori di immigrati caricati da Carola e scaricati nel nostro Paese, cioè in quell’Europa dove qualcuno batte le mani alle ong”. Lo dice Matteo Salvini, commentando la reazione di alcuni parlamentari europei della commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni.
Da Il Messaggero il 3 ottobre 2019. «La mia decisione di entrare in porto con la Seawatch3 dopo 17 giorni in mare senza ricevere risposta non fu una provocazione come molti hanno detto. Ma un'esigenza». Così la comandante della Sea Watch Carola Rackete nell'audizione all'Eurocamera. «Ritenevo che non fosse più sicuro restare in mare e temevo per quanto poteva accadere», aggiunge. Dopo l'episodio della Seawatch3 «ho ottenuto attenzione dalle istituzioni, ma dove eravate quando abbiamo chiesto aiuto?» «L'unica risposta che ho avuto allora - ha aggiunto- è stata da Tripoli, dove non potevo andare. In Europa, la culla dei diritti, nessun governo voleva 53 migranti. E' stata una vergogna. Le istituzioni mi hanno attaccata - aggiunge -. Sono stata lasciata sola. I governi hanno eretto muri, come se sulla nave ci fosse la peste». «Provo tristezza in questo anniversario in cui si ricorda la perdita di oltre 300 vite umane nel Mediterraneo centrale, perché l'Unione europea ricorre sempre più all'esternalizzazione dei salvataggi con deleghe a Paesi in guerra come la Libia, violando le leggi internazionali». «Il nostro caso come quello di altre ong sottolinea la necessità di affrontare la situazione dei salvataggi in mare a livello europeo, che non può essere lasciata a negoziati ad hoc». E anche «un meccanismo di ricollocamenti temporaneo, focalizzato sui rimpatri piuttosto che sull'accoglienza non è una soluzione realistica». «La riforma del regolamento di Dublino è attesa da tempo, ma la soluzione è la creazione di canali legali verso l'Europa».
Carola Rackete, ovazione all'Europarlamento? Il leghista Zoffili: "Amendola prenda le distanze". Libero Quotidiano il 3 Ottobre 2019. Carola Rackete fa infuriare la Lega. Oggi, giovedì 3 ottobre, l'ex comandante della nave Seawatch 3 è stata applaudita all'Europarlamento. Il deputato del Carroccio Eugenio Zoffili, anche Presidente del Comitato Bicamerale Schengen, Europol e Immigrazione, insorge: sostiene di avere verificato "personalmente durante l’ultima missione della bicamerale Schengen a Lampedusa" che "ha schiacciato contro la banchina del porto siciliano una motovedetta della Guardia di Finanza mettendo gravemente a repentaglio la vita del personale a bordo". Parla dunque di "delirante standing ovation prima del suo intervento al Parlamento Europeo". Si tratta - dice Zoffili - "di un episodio dalla gravità inaudita che, al di là delle divisioni politiche, chiama in causa i fondamenti stessi del nostro Stato di diritto". Il deputato dunque si aspetta che il ministro degli Affari Europei Vincenzo Amendola prenda le distanze dall'episodio "affinché si ribadisca senza ipocrisia che le istituzioni sono sempre dalla parte di chi la legge la fa rispettare e non di chi la infrange". "Se questa presa di posizione, doverosa e necessaria, non dovesse arrivare annuncio già ora che da Presidente del Comitato Bicamerale Schengen, Europol e Immigrazione, proprio per il rispetto che dobbiamo ai nostri uomini e alle nostre donne in divisa, mi rifiuterò di presiedere l'audizione del Ministro Amendola in Comitato prevista per il prossimo giovedì alle 9.00 nei locali del Parlamento italiano a San Macuto". Non è meno arrabbiato Matteo Salvini, che tra le altre cose ha tuonato: "In un Paese normale, una che ha rischiato di uccidere cinque militari Italiani per scaricare decine di immigrati a terra sarebbe in galera, non a blaterare al Parlamento Europeo”. Lo dice Matteo Salvini, a proposito di Carola Rackete".
La Germania difende Carola. Conte: "E i condannati Thyssen?". Il presidente tedesco: "La Rackete non è una criminale". Ira di Salvini: "Dica ai suoi cittadini di rispettare le leggi". E Conte: "Alla Merkel chiedo dei condannati della Thyssen". Chiara Sarra, Domenica 30/06/2019, su Il Giornale. Non solo la raccolta fondi per tirar fuori dai guai Carola Rackete. La capitana della Sea Watch che è entrata con la forza nel porto di Lampedusa ha infatti dalla sua persino il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier. "È possibile che in Italia ci siano leggi su quando una nave può avvicinarsi a un porto", ha detto alla Zdf criticando l'arresto della comandante, "Tuttavia l'Italia non è solo uno Stato. L'Italia è nel centro dell'Unione europea, è lo stato fondatore dell'Ue. E quindi ci si aspetterebbe da un paese come l'Italia, che con un caso del genere sia gestito diversamente". Parole che hanno irritato il governo italiano. A partire da Giuseppe Conte che è a Bruxelles per il vertice straordinario dell'Unione Europea. Il premier italiano incontrerà quindi la Cancelliera tedesca, Angela Merkel: "Se mi parlerà di Carola Rackete potrei chiederle a che punto è la Germania con l'esecuzione della pena dei manager della Von Thyssen condannati in Italia...", ha detto Conte ricordando che per il rogo del 2007 in cui morirono 7 operai c'è una sentenza penale passata in giudicato nel 2016. "E attendiamo che la Germania ci faccia sapere dell'esecuzione della pena. Se mi verrà chiesto del comandante, lo dirò", ha aggiunto il premier. "Al presidente tedesco chiediamo cortesemente di occuparsi di ciò che accade in Germania e, possibilmente, di invitare i suoi concittadini a evitare di infrangere le leggi italiane, rischiando di uccidere uomini delle forze dell'ordine italiane", ribatte anche Matteo Salvini, "A processare e mettere in galera i delinquenti ci pensiamo noi".
Sea Watch 3, anche il pm Guariniello contro la Germania: "Gli italiani hanno scontato la pena, i tedeschi no". Libero Quotidiano il 2 Luglio 2019. Raffaele Guariniello è il magistrato che sostenne l'accusa nel caso Thyssen-Krupp nel processo che ne seguì e ottenne sei condanne per omicidio colposo, inflitte ai massimi dirigenti dell'azienda. Oggi, terminata la sua esperienza in magistratura, è presidente della commissione sull'amianto istituita dal ministro dell'Ambiente. Il grave incidente, avvenuto il 6 dicembre 2007 nello stabilimento di Torino dove otto operai furono coinvolti in un'esplosione che causò la morte di sette di loro, è tornato alla ribalta dopo l'incontro tra Angela Merkel e Giuseppe Conte. Nell'occasione la cancelliera tedesca ha chiesto al presidente del Consiglio informazioni su Carola Rackete, la capitana tedesca della Sea Watch 3 ai domiciliari nel nostro Paese. Mentre Conte non si è lasciato intimorire e ha preso la palla al balzo per chiederle dell'esecuzione dei manager (anche loro tedeschi) dell'azienda nel torinese. "In entrambi i casi si pone il problema del rispetto dovuto alle decisioni della magistratura. In Italia e in Germania. E bene ha fatto il presidente del Consiglio a ricordarlo. È un accostamento acuto, si vede che Conte è un avvocato" ha riferito Guariniello al Fatto Quotidiano. "Il rispetto della magistratura deve esserci sia in Italia sia in Germania. Ma dopo un processo lungo e difficile, durato dieci anni, sono state eseguite le condanne solo per i quattro italiani, mentre per i due tedeschi, tra cui il massimo responsabile della fabbrica, la Germania non ci ha ancora dato risposta. Siamo nel 2019 e stiamo ancora aspettando". Per il magistrato i parenti hanno diritto a una risposta: "E che ci sia un problema di equità: perché i manager italiani devono scontare la pena, e i loro superiori tedeschi no? Nel 2013 Martin Schulz, all'epoca presidente del Parlamento europeo, venne in visita a una fabbrica e dichiarò che bisogna essere inflessibilisu sicurezza sul lavoro e tutela dei lavoratori". E allora dov'è la coerenza tedesca?
Sea Watch 3, Carola Rackete inchioda pure Angela Merkel: "Ho chiesto aiuto, non ha mai risposto". Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano l'11 Luglio 2019. Sulla crisi migratoria il trucco dei governi europei è semplice: mostrarsi più aperti della Boldrini a chiacchiere, ma inflessibili come Borghezio nei fatti. È il caso della Spagna, che critica Palazzo Chigi ma spara alla frontiera col Marocco. È il caso dell' Olanda, che permette alle navi Ong di circolare con la sua bandiera ma nega asilo ai profughi. È soprattutto il caso della Francia, che non risparmia critiche all' Italia, ma che da tempo ricaccia i profughi oltreconfine con metodi tutt'altro che civili. L' ennesima prova viene dal caso Rackete. Pochi giorni fa la portavoce dell'Eliseo, Sibeth Ndiaye, aveva avuto la faccia tosta di dichiarare che «il comportamento di Salvini è inaccettabile, segue una strategia d'isterizzazione per trattare un tema doloroso e complicato». Ieri, tuttavia, ci ha pensato la stessa capitana tedesca a sbugiardare l' Eliseo, spiegando in un' intervista al Nouvel Observateur che la Sea-Watch «aveva contattato il porto di Marsiglia per sapere se potevamo attraccare. La richiesta è stata inoltrata al prefetto, fino al Presidente della Repubblica. Ma nessuno ci ha risposto». Bellamente ignorata. In tutta Europa non si trova un governo che voglia collaborare con le Ong. Anche se - sempre a chiacchiere - l' Unione Europea invita tutti i Paesi membri a dare una mano. La nuova commissaria Von der Leyen ieri ha aperto il suo mandato affermando che l' Italia deve tornare ai tempi della missione Sophia, ovvero all'epoca degli sbarchi in massa di Gentiloni. La politica tedesca, però, ha omesso che la Sea-Watch ha chiesto aiuto anche al suo Paese, senza ottenere risposta. Carola, intanto, non si ferma. Come annunciato, ieri la marinaretta tedesca ha presentato quattordici pagine di denuncia-querela nei confronti di Matteo Salvini. Una mossa da film: prima viene arrestata e ne esce indenne, poi trascina il ministro dell' Interno in tribunale. Il leader leghista è stato chiamato in causa per aver chiamato la ragazza «delinquente, comandante fuorilegge, ricca e viziata comunista tedesca, criminale tedesca, comandante criminale». Sempre ieri a Roma si è tenuto l' atteso vertice di governo convocato dal premier Conte per appianare le divergenze in tema di immigrazione. E in particolare per porre fine allo scontro tra Interno e Difesa sull' utilizzo delle forze della Marina, che Salvini vorrebbe impiegare per fermare gli sbarchi. Risultato: sono state confermate tutte le misure già decise e annunciate lunedì per contrastare le Ong: utilizzo massiccio di navi da guerra per respingere e controllare le barche dei volontari, anche alla partenza. «Saranno comunque sotto il mio controllo», ha detto il ministro della difesa Elisabetta Trenta per ribadire la propria indipendenza dal ministero del leader leghista. E Salvini ha replicato: «L' importante è che i confini vengano difesi e ognuno faccia la sua parte». Oltre a ciò arriveranno i ritocchi al decreto sicurezza-bis, con multe milionarie a chi trasporta clandestini e ignora gli ordini delle nostre autorità. Lorenzo Mottola
Carola Rackete in difficoltà durante l'intervista alla Bbc: le differenze con PiazzaPulita di Formigli. Libero Quotidiano il 21 Settembre 2019. Se Corrado Formigli a PiazzaPulita l'ha descritta come un'eroina (o meglio, con le sue domande assai accomodanti ha contribuito a farla passare come tale), lo stesso non si può dire di un giornalista inglese. Carola Rackete è stata ospite del programma della Bbc Hardtalk condotto da Stephen Sackur. Un confronto nel quale la capitana tedesca ha mostrato tutte le contraddizioni delle sue azioni nei confronti dell'Italia. La Rackete era infatti finita nel mirino della magistratura (ad oggi ancora indagata per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina) per aver violato le leggi italiane, prelevando dalle coste libiche 50 migranti, poi fatti sbarcare a Lampedusa. "All'inizio ha dovuto fare una scelta - ha osservato il conduttore -. Era molto più vicina alle coste libiche che a qualsiasi altro luogo del Sud Europa, a circa 40 miglia dalle coste libiche. La Guardia costiera libica ha preso un impegno, grazie al sostegno della Ue, di frenare il traffico di persone e vogliono che tutte le persone che tentano la traversata siano riportati in Libia. Perché non li ha riportati lì, in Libia?". Carola ha subito spiegato che riportare i migranti sulle coste libiche sarebbe stata una violazione della Convenzione di Ginevra "perché sappiamo che queste persone sono vittime di violazioni di diritti umani in Libia". "Ma voi siete partner della Guardia costiera libica, l'ha incalzato Sackur, e la Libia "sta collaborando con l'Ue. Sta dicendo che nemmeno per un secondo ha creduto che i libici avrebbero potuto occuparsi dei bisogni fondamentali di questa gente?". "Neanche per un secondo" ha replicato la capitana della nave Ong. Il conduttore della tv le ha poi ricordato "che la legge è la legge". Il conduttore di Hardtalk ha poi messo la volontaria della Ong di fronte ai dati sui morti in mare, rilevando come gli arrivi verso l'Italia via mare siano crollati dell'84% rispetto al 2018 e del 97% rispetto al 2017, affermando inoltre che "ad oggi, l'Italia, con la sua posizione forte, ha assicurato, ad essere onesti, che migliaia di persone che avrebbero tentato la traversata mettendosi a rischio, non lo facciano più". Un dato di fatto che la "capitana" non ha potuto replicare.
Carola Rackete alla Bbc: "Non mi pento di ciò che ho fatto". La "Capitana" della Sea Watch è stata intervistata sulla Bbc inglese dal conduttore Stephen Sackur e ne esce piuttosto male. "Non mi pento di nulla" afferma. Roberto Vivaldelli, Sabato 21/09/2019, su Il Giornale. Carola Rackete, la "capitana" della Sea Watch-3 "celebrata" l'altra sera da Corrado Formigli su Piazza Pulita, è stata ospite la scorsa settimana del programma della Bbc Hardtalk condotto dal giornalista Stephen Sackur. Un confronto dal quale la 31enne tedesca è uscita piuttosto male. "All'inizio ha dovuto fare una scelta - ha osservato il conduttore della Bbc, riferendosi alla "missione" della Sea Watch dello scorso giugno nella quale recuperò 50 migranti vicino alle coste libiche, forzando poi il blocco italiano - Era molto più vicina alle coste libiche che a qualsiasi altro luogo del Sud Europa, a circa 40 miglia dalle coste libiche. La Guardia costiera libica ha preso un impegno, grazie al sostegno della Ue, di frenare il traffico di persone e vogliono che tutte le persone che tentano la traversata siano riportati in Libia. Perché non li ha riportati lì, in Libia?". Carola Rackete ha spiegato che riportare i migranti sulle coste libiche sarebbe stata una violazione della Convenzione di Ginevra ""perché sappiamo che queste persone sono vittime di violazioni di diritti umani in Libia". Ma voi siete partner della Guardia costiera libica, ha incalzato Sackur, e la Libia "sta collaborando con l'Ue. Sta dicendo che nemmeno per un secondo ha creduto che i libici avrebbero potuto occuparsi dei bisogni fondamentali di questa gente?". "Neanche per un secondo" ha replicato la capitana della nave Ong. Il conduttore della tv britannica ha poi rilevato che nonostante fosse perfettamente consapevole del contesto politico e giuridico in Italia, l'intervistata ha deciso comunque di portare la Sea Watch verso la Sicilia passando giorni e giorni in mare. "Gli italiani ci hanno risposto che non erano responsabili di questo caso di salvataggio perché era stato effettuato nella zona Sar libica" ha sottolineato la 31enne tedesca che poi ammette, su precisa domanda del conduttore, se la tesi del governo italiano fosse corretta. "È vero. E significava che i libici dovevano coordinarlo. Tuttavia, la Libia non ha alcun porto sicuro". Il conduttore di Hardtalk ha però obiettato che la legge è la legge, approvata da un governo democratico in Italia, e la sua ospite "era ben consapevole della legge, e che è illegale che una nave come la sua entri nelle acque territoriali italiane" e che è ancora più illegale "cercare di attraccare in un porto italiano". Nel ricordare l'episodio dello scorso giugno, Sackur ha poi sottolineato come la capitana, dopo non aver ottenuto l'autorizzazione ad attraccare in Italia, alla fine ha deciso di farsi la legge da sé, e ha guidato la sua nave dentro il porto siciliano contro il volere delle autorità, speronando una motovedetta della polizia, schiacciandola contro la banchina del porto, in un modo pericoloso. "Sembra che alla fine si sia spinta veramente al limite di un comportamento sicuro e responsabile". "Ci sono dei video, che invito tutti a guardare, le persone davvero in pericolo erano i rifugiati a bordo" ha spiegato la capitana, che ha affermato di non essere affatto pentita di ciò che ha fatto. Mi dispiace che ci sia questa mancanza di solidarietà nell'Unione europea, ha sottolineato Rackete, che ha ammesso come, a causa del trattato di Dublino, il peso dell'immigrazione sia tutto sulle spalle di Paesi come l'Italia "e questa è una situazione provocata dagli Stati dell'Europa centrale e settentrionale". Il conduttore di Hardtalk ha incalzato la volontaria della Ong sui dati e sui morti in mare, rilevando come gli arrivi verso l'Italia via mare siano crollati dell'84% rispetto al 2018 e del 97% rispetto al 2017, affermando inoltre che "ad oggi, l'Italia, con la sua posizione forte, ha assicurato, ad essere onesti, che migliaia di persone che avrebbero tentato la traversata mettendosi a rischio, non lo facciano più". Un dato di fatto che la "capitana" non ha potuto confutare.
Carola Rackete come Greta: ora fa l'ecologista. Dopo essere stata ospite di Corrado Formigli a Piazza Pulita, Carola Rackete ha partecipato allo sciopero globale per il clima a Berlino: "La Terra sta morendo e noi adulti siamo responsabili". Roberto Vivaldelli, Domenica 22/09/2019, su Il Giornale. Carola Rackete, la capitana della Sea Watch beniamina del partito Open Borders, segue le orme di Greta Thunberg - altra idola della sinistra chic - e si ricicla ecologista. C'era anche Carola Rackete allo sciopero globale per il clima a Berlino, a cui secondo gli organizzatori hanno partecipato nella giornata di ieri circa 80mila persone. "Noi adulti siamo responsabili per il fatto che la Terra sta morendo", ha detto Rackete rivolgendosi alla folla, invitando tutti a unirsi alla protesta del movimento Extinction Rebellion in programma per il 7 ottobre e promettendo che "non finirà qui". Intervistata da Corrado Formigli a Piazza Pulita l'altra sera, la 31enne tedesca ha sottolineato di non voler rispondere a Matteo Salvini e alle sue parole da Pontida. "Io vorrei dire che di professione faccio l'ecologista, ho un master in conservazione della natura, non mi interessa della politica interna italiana. Il nostro clima sta andando fuori qualsiasi regime, le temperature aumenteranno, l'umanità è di fronte a una crisi esistenziale" ha spiegato.
In uscita il nuovo libro della Capitana della Sea Watch. Frontiere aperte e Greta Thunberg: i totem ideologici della nuova Carola Rackete in salsa "green", che ora è pronta a pubblicare un libro in Italia, edito da Garzanti, in libreria il prossimo 14 novembre. S'intitola Il mondo che vogliamo e l'ambiente sarà uno dei temi principali affrontati dalla "Capitana", come si evince dalla scheda di presentazione: "Carola Rackete è molto più di quello che i media di tutto il mondo hanno raccontato in quei giorni concitati: è una attivista con una chiara visione e una fortissima passione civile, un modello per tanti ragazzi e ragazze che scelgono di impegnarsi per un mondo migliore, e con questo libro ci ispira a combattere in difesa dell'ambiente, dei diritti umani, del nostro pianeta, perché agire oggi non è più una scelta ma una necessità". Un modello, dunque. Peccato che i progressisti italiani si dimentichino un piccolo particolare: la capitana della Sea Watch è indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violazione dell’articolo 1099 del codice della navigazione contestato al comandante che non obbedisce all’ordine di una nave da guerra nazionale. Non propriamente una sciocchezza. E anche se ai progressisti desiderosi di spazzare via i confini questo non sembra interessare più di tanto, e da noi la capitana viene celebrata in maniera a dir poco stucchevole in tv, all'estero qualcuno si ricorda di fare delle domande, mettendo a nudo tutta la debolezza e superficialità delle sue argomentazioni. Ospite della trasmissione Hardtalk sulla Bbc, infatti, la 31enne tedesca è uscita piuttosto malconcia dal confronto con il conduttore televisivo Stephen Suckur, che non gliene ha fatta passare una e che l'ha messa davanti alla cruda realtà delle sue azioni.
Carola Rackete: dai migranti alla svolta "green". Dall'immigrazionismo all'ecologismo gretino il passo è brevissimo. D'altronde il mantra della sinistra chic è sempre lo stesso: i migranti scappano sempre di più dalle loro terre a causa dei cambiamenti climatici, che sono colpa dell'uomo (rigorosamente bianco). In ogni caso Carola è fortunata: a differenza di tanti suoi coetanei italiani - ma anche tedeschi - che ogni giorno devono recarsi in ufficio, piuttosto che in fabbrica per portare a casa lo stipendio, può tranquillamente permettersi di fare l'ecologista di professione e fronteggiare così i suoi sensi di colpa di essere bianca e occidentale. Carola, infatti, è figlia di quella sinistra liberal che appoggia una forma radicale e totalitaria di multiculturalismo che sottovaluta l'importanza di integrare gli immigrati nella cultura nazionale sotto il vessillo dell'antirazzismo militante. Proviene da quella cultura globalista da figli di papà annoiati che è, a differenza di ciò che lei crede, fortemente elitaria e provoca tensioni sociali soprattutto nei ceti meno abbienti. Perché, alla fine, per quelli come la "Capitana", tutta la colpa è sempre "nostra", dei bianchi occidentali, responsabili delle migrazioni così come dei cambiamenti climatici. E ora Carola si fa portavoce, insieme a Greta, del nuovo millenarismo green e climaticamente corretto.
Spagna diffida Open Arms nel silenzio dell'Europa. Il governo di Sanchez minaccia multe fino a 900mila euro, ma Francia e Germania si indignano solo per quelle previste dall'Italia nel dl sicurezza bis che non supererebbero il 50mila euro. Giorgia Baroncini, Venerdì 05/07/2019, su Il Giornale. Quando la Spagna ha diffidato Open Arms dal salvare i migranti con una pena fino a 900mila euro, nessuno in Europa ha avuto niente da ridire. Ora che l'Italia si parla di multe da 10.000 a 50.000 euro al massimo per la Sea Watch, come il Decreto sicurezza bis prevede in caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane da Germania e Francia arrivano parole di condanna. Come spiega La Verità, la Spagna era stata categorica quando aveva ordinato all'imbarcazione di Óscar Camps di non andare a prendere migranti nelle acque internazionali prossime alla Libia e portare il carico umano "in luoghi troppo lontani dalle zone di riscatto". La nave era stata poi bloccata per tre mesi. Camps, che non aveva gradito l'ordine, si era messo ad aspettare fino a quando le gesta della capitana Carola Rackete non lo hanno risvegliato: dopo che la Sea Watch ha forzato il blocco a Lampedusa, il catalano ha twittato che era venuto il momento anche per lui di trasgredire gli ordini. Così Open Arms è tornata a salvare naufraghi con l'approvazione del sindaco di Barcellona, Ada Colau. Nel documento fatto recapitare due giorni fa a Camps si legge che se l'imbarcazione si ostina a perlustrare il Mediterraneo in attesa di operazioni di salvataggio, Open Arms dovrà rientrare in qualche porto spagnolo per poi non muoversi più. Prevista anche una mulya che va da un minimo 300.000 euro fino a un massimo di 900.000. Ma Óscar Camps non sembra interessato e continua a sfidare Spagna ed Europa, nel silenzio di Francia e Germania.
Ong, Maria Giovanna Maglie smaschera l'ipocrisia di sinistra: "E poi i cattivi siamo noi?". Libero Quotidiano il 7 Luglio 2019. Dipingono Matteo Salvini come una sorta di mostro, un cattivone pronto a tutto contro gli immigrati. Ma probabilmente non è così. Una dimostrazione la offre su Twitter Maria Giovanna Maglie, la quale ricorda un qualcosa che in molti - soprattutto i paladini pro-migranti della sinistra - fingono di scordare. "Fino a 900mila euro di multa per altri salvataggi nel Mediterraneo - premette -. È quanto, secondo El Diario, il governo socialista di Madrid ha minacciato di infliggere alla ong Proactiva Open Arms se violerà il blocco dell'esecutivo di Pedro Sanchez. Siamo noi i cattivi, vero?", conclude interrogandosi retorica. Per inciso, dopo lo sbarco degli immigrati della Alex al porto di Lampedusa, anche Salvini ha proposto emendamenti al decreto sicurezza-bis per innalzare fino a 1 milione di euro le sanzioni alle ong che violeranno il blocco navale.
Il socialista più salviniano di Matteo. Francesco Maria Del Vigo, Martedì 09/07/2019 su Il Giornale. In Europa c'è qualcuno più salviniano di Salvini? Sì, c'è. Si chiama Pedro Sánchez Pérez-Castejón ed è il premier spagnolo. Non è brutto, cattivo e fascista come Salvini perché è del Partito Socialista operaio e quelli di sinistra, si sa, sono sempre belli, buoni e altruisti. Per definizione. Anche quando fanno delle salvinate. Infatti non abbiamo mai sentito nessun moralista tuonare contro la politica del premier spagnolo. Ci spieghiamo: la democraticissima Spagna ha deciso di imboccare la stessa strada dell'Italia sull'immigrazione. Cioè bloccare gli sbarchi delle navi ong per arginare i flussi. Solo che Madrid ha deciso di farlo con un approccio decisamente più muscolare: le sanzioni per i tassisti dei migranti vanno da 200mila a 901mila euro. Quelle di Roma, contenute nel decreto «Sicurezza bis», partono da 10mila e arrivano a un massimo di 50mila euro. Un atteggiamento, quello spagnolo, denunciato da Open Arms, attraverso un tweet del suo fondatore Oscar Camps: «Salvini non è solo, anche in Spagna multano chi salva esseri umani. E molto più che in Italia». E ora chi glielo spiega a tutti i sedicenti samaritani che si stracciano le vesti in favore dei migranti che il governo più salviniano d'Europa è di un loro amico socialista? Un fascioleghista camuffato che, al Parlamento europeo, siede nei loro stessi banchi. Corrano a farsi le vaccinazioni. Invece no, in Italia i deputati del Partito democratico sfilano a bordo della Sea Watch 3 nella speranza di raccattare qualche voto e si fanno i selfie con la Capitana Carola. Nuova leader morale di una gauche sempre più allo sbando. E nel frattempo i loro compagni iberici chiudono i porti a doppia mandata. Nel silenzio generale. Senza nessuno scandalo. Forse la sinistra nostrana, sempre alla ricerca di papi stranieri e perennemente innamorata dell'erba del vicino, potrebbe farsi un Erasmus in Spagna, per capire che bloccare i flussi migratori, con tutti i mezzi dei quali uno Stato dispone, non è né di destra né di sinistra. È solo di buon senso.
SOCIALISTI CHE SBAGLIANO? Patrizia Floder Reitter per “la Verità” il 4 luglio 2019. Altro che multe da 10.000 a 50.000 euro al massimo, come il Decreto sicurezza bis prevede per le navi di soccorso in caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane. Germania e Francia sprizzano indignazione per la sanzione amministrativa elevata dal nostro Paese nei confronti di comandante, armatore e proprietario della Sea Watch, ma nulla hanno da ridire sulla penale che la Spagna ha in serbo per Open Arms. Minimo 300.000 euro fino a un massimo di 900.000, se l' imbarcazione di Óscar Camps si azzarda a trasgredire l'ordine di non salvare migranti. Un divieto del governo spagnolo giunto a gennaio di quest' anno e che aveva bloccato per tre mesi la nave dell' associazione non governativa con al suo attivo almeno 450 salvataggi in mare durante lo scorso anno. Non deve andare a prendere migranti nelle acque internazionali prossime alla Libia e portare poi il suo carico umano «in luoghi troppo lontani dalle zone di riscatto». La Spagna era stata categorica. Ad aprile un piccolo disgelo venne dal governo di Pedro Sánchez con il permesso di portare aiuti umanitari in Grecia, tenendosi però ben distante dalla zona Sar. Nulla, infatti, è cambiato per Proactiva Open Arms, deve rispettare la regola imposta, l'ha ricordato due giorni fa il direttore generale della Marina mercantile (che si occupa anche di salvataggi in mare), Benito Núñez Quintanilla, funzionario del ministero dello Sviluppo da cui dipende l' equivalente della nostra Guardia costiera, inviando una lettera di avvertimento al fondatore della Ong, Óscar Camps. Sa bene che cosa rischia, il cinquantacinquenne catalano idolo di Roberto Saviano, di Sandro Veronesi e di tutta la sinistra che mitizza i salvataggi in mare effettuati dai barconi, rifiutando di riconoscere i collegamenti con i trafficanti di esseri umani. Protestando per l' arresto della capitana Carola Rackete, Camps aveva fatto anche lo sbruffone ricordando lui stesso che Salvini non è «da solo, anche la Spagna multa chi salva vite umane», cinguettava ai suoi ammiratori facendosi bello delle penali che rischia di pagare e inondando Twitter di hashtag #meglioinprigionechecomplici. L' imprenditore, noto in Spagna per il tratto poco umano verso i suoi dipendenti e che era stato coinvolto in scandali riguardanti la sua attività commerciale, la Pro Activa Serveis Aquatics, non aveva gradito il blocco di inizio anno nelle acque di Barcellona dopo che gli era stato promesso un lavoro alle dipendenze di Salvamento Marítimo nel pattugliare il Mediterraneo. Era solo questione di tempo, Proactiva Open Arms aspettava solo il pretesto per forzare il blocco e così è stato la scorsa settimana. Approfittando delle gesta di insubordinazione della capitana Rackete, il catalano aveva twittato al mondo che era venuto il momento anche per lui di trasgredire gli ordini. Dopo una settimana di ozi a Napoli, con un fitto programma di conferenze e incontri sulla «barca simbolo di speranza», Open Arms aveva levato le ancore. Equipaggio e capo missione, l' italiano Riccardo Gatti, tornavano a salvare naufraghi perché «il confine più pericoloso del mondo è lasciato abbandonato, senza alcuna nave di salvataggio», annunciava Óscar Camps dando il via all' ennesima, intrepida missione. Subito erano arrivati gli applausi della riconfermata sindaca di Barcellona, Ada Colau, pronta ad augurare buon viaggio: «Grazie per il vostro coraggio nel dimostrare, ancora una volta, che per salvare vite umane non è necessario chiedere il permesso». Brava la Colau, non se ne perde una di occasioni per disprezzare le decisioni del governo spagnolo. Domenica la Ong aveva intercettato un barcone in avaria con circa 55 migranti a bordo, limitandosi a dare l' allarme alle nostre unità della Guardia costiera e della Guardia di finanza, ma c' è da giurare che sfiderà divieto e multe. Il documento fatto recapitare due giorni fa a Camps dice chiaramente che se l'imbarcazione si ostina a perlustrare il Mediterraneo in attesa di operazioni di salvataggio, Open Arms dovrà rientrare in qualche porto spagnolo per poi non muoversi più. Ordini ben precisi, come l' avvertimento al comandante spagnolo, Gonzalo Gómez, che se prosegue imperterrito a condurre la nave dove non gli è permesso, verrà sospeso dal titolo professionale marittimo. Non ci sembra di aver sentito alzarsi voci di biasimo dalla Germania, «contraria a criminalizzare le attività di salvataggio in mare» solo se si tratta dell' Italia. Né il governo francese si è detto scioccato per le multe che minacciano l' operato di Open Arms. Óscar Camps sfida il suo Paese e l' Europa, già ha mandato un canotto di fronte al Parlamento europeo per denunciare gli attacchi e la «criminalizzazione» delle Ong. Ieri ha ricevuto l' ennesimo riconoscimento a Barcellona, quello della Welcome talent society che premia chi fa del bene all' umanità, ma sui social c' è chi ricorda che il suo barcone è «l' autobus dei trafficanti di esseri umani».
"Ci ha dato delle merda e ora vuole che liberiamo Carola". Salvini smaschera Asselborn. Libero Quotidiano il 30 Giugno 2019. "Ve lo ricordate il ministro lussemburghese che, urlando merda, diceva che voleva più immigrati in Europa?", scrive Matteo Salvini sul suo profilo Twitter, "adesso pretende che la comandante fuorilegge sia rimessa in libertà". "Pazzesco", sbotta il ministro dell'Interno, "ma non ha niente di meglio da fare?". Jean Asselborn, ministro degli Esteri del Lussemburgo ha infatti scritto al suo omologo Enzo Moavero Milanesi: "Caro Enzo, ministro degli Esteri italiano, vorrei sollecitare il tuo aiuto" affinché "Carola Rackete, che era ai comandi della nave battente bandiera olandese", la Sea Watch, "ed era in obbligo di far sbarcare 40 migranti a Lampedusa, oggi 29 giugno, sia rimessa in libertà". Asselborn ha sottolineato che "salvare delle vite umane è un dovere e non potrà mai essere un delitto o un reato; non salvarle, al contrario, lo è. Come in passato il Lussemburgo resterà sensibile all'idea di solidarietà con l'Italia per quanto concerne la ripartizione dei migranti salvati dalle navi delle ong nel mar Mediterraneo".
Ecco perché l'Europa vuole scaricare solo sull'Italia i migranti delle ong. In Italia sono più coloro che vengono ricollocati nel nostro paese da altri paesi Ue che i migranti che sbarcano lungo le nostre coste: effetti del trattato di Dublino, le cui regole sarebbero scomode per il resto d'Europa in caso di sbarchi in porti diversi da quelli italiani. Mauro Indelicato, Sabato 06/07/2019, su Il Giornale. C’è un dato, ripreso nei giorni scorsi da IlSole24Ore e confermato da fonti del Viminale, che spiega in parte l’attuale polemica sui migranti tra Italia ed Europa. Si tratta del numero dei cosiddetti “dublinanti”, i migranti cioè che dai paesi dell’Ue in cui risultano domiciliati vengono rispediti in Italia od in altri Stati di primo approdo per via delle regole del trattato di Dublino. Un accordo, quello firmato nel 1990 presso la capitale irlandese, che dà la massima responsabilità dell’accoglienza e della gestione della domanda d’asilo per l’appunto ai paesi di primo approdo. Ebbene in questa prima parte del 2019 è vero che in Italia si assista ad una diminuzione degli sbarchi del 90%, ma in compenso il numero di coloro che dal resto dell’Ue vengono rispediti nel nostro paese supera di gran lunga quello di coloro che approdano lungo le nostre coste. Dal primo gennaio 2019 all’8 maggio, in Italia sbarcano 857 migranti. Nello stesso arco temporale, solo dalla Germania vengono rispediti nel nostro paese 710 dublinanti. A questi occorre aggiungere poi i migranti rimandati indietro dall’Austria e dalla Francia, oltre che ad altri paesi dell’Ue. Un totale che supera le mille unità. E qui si arriva quindi a quanto accade negli ultimi giorni: con le navi Ong tornate ad operare nel Mediterraneo dall’inizio della bella stagione, spesso il nostro governo invoca la solidarietà europea. A cominciare da quei paesi d’origine di alcune di queste Ong. Ad esempio, nel caso della Sea Watch, il ministro dell’interno Matteo Salvini chiede alla Germania ed ai Paesi Bassi di accogliere i migranti raccolti dalla nave. Questo perché l’Ong è tedesca ed il mezzo batte bandiera olandese. Ma nessuno si fa avanti e lo stesso discorso vale per gli altri casi in cui sono Ong non italiane a portare, anche forzando i blocchi, i migranti all’interno del nostro paese. La preoccupazione della Germania e degli altri governi, è quella di diventare di primo approdo e dunque di non poter poi spedire indietro i migranti: qualora realmente le Ong virano la propria rotta verso i paesi di origine, ovviamente l’applicazione del trattato di Dublino darebbe loro massima responsabilità su accoglienza e gestione delle domande d’asilo. Per cui la pressione sul governo italiano di mantenere i porti aperti per tutte le Ong, molto forte dall’Europa e da Berlino soprattutto, può essere spiegata anche in base al criterio previsto dal trattato di Dublino. In tal modo sarebbe sempre e solo l’Italia a sobbarcarsi l’onere di gran parte del fenomeno migratorio. Del resto nei giorni scorsi un articolo di Repubblica svela le modalità con le quali la Germania invia in Italia i dublinanti: sedati e forzati in molti casi, i migranti vengono caricati a bordo degli aerei e trasportati nel nostro paese. Un “giochetto” sulla pelle e sulla vita di molti richiedenti asilo che, ovviamente, non si potrebbe applicare nel momento in cui le Ong sbarchino nei porti tedeschi, olandesi o di altri paesi dell’Ue. Un modo quindi per scaricare all’Italia l’onere per intero, rivestendo con toni umanitari un escamotage volto a conservare l’attuale status quo. Da qui si spiega anche il motivo per il quale il trattato di Dublino, in questi 30 anni di vita, è stato rivisto poche volte e raramente ritoccato nei suoi tratti fondamentali.
Sea Watch, J-Ax insulta Matteo Salvini: "Stronzo pronti a fottere, come i nazisti". Anche il rapper J-Ax è intervenuto a sostegno di Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3. lanciandosi in citazioni di Sant'Agostino, Madre Teresa di Calcutta, Martin Luther King e Gandhi. Il cantante ha addirittura interrotto il suo concerto di Bologna per sottolineare la motivazione sul perché ha postato sui social #iostoconcarola. "Secondo me salvare 40 persone dall'affogare in mare e portarle in salvo, a costo della propria libertà, significa affrontare una di quelle ingiustizie fottendosene delle conseguenze e di cosa ne pensano i commentatori sui social". Poi ancora: "Ora stiamo vivendo un'ingiustizia, è arrivato il momento di intervenire. Che cazzo vuol dire violare le leggi italiane?". E fa il pugno duro a Matteo Salvini. "Per inciso, Martin Luther King è stato arrestato 30 volte. Non fatevi fottere da questi stronzi che hanno nascosto il Rolex sotto la felpa. Non sono il popolo, e non lo rappresentano. Lo sapete che quello che hanno fatto i nazisti in Germania era legale e quindi era giusto?". Insomma, il buonismo ha colpito anche il rapper che guadagna milioni, ma fa la morale.
Il nuovo attacco di Vauro: Salvini è uno “sbruffone e mascalzone”. Il vignettista Vauro dichiara di capire la gravità della forzatura del blocco nella notte e afferma che Carola Rackete è una donna coraggiosa e dignitosa. Gabriele Laganà, Sabato 29/06/2019, su Il Giornale. "Quanto sta accadendo alla Sea Watch mi sembra un film dell'orrore e del cinismo. Un atto di disumanità e inciviltà”. È quanto ha dichiarato all’Adnkronos da Vauro, con chiaro riferimento all’azione portata avanti dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il noto vignettista e giornalista dichiara addirittura di capire quanto compiuto dalla “capitana” Carola Rackete. “Capisco la gravità della forzatura del blocco nella notte, ma quello che non riesco a comprendere, ancora, è la condotta della autorità italiane. Si continua a far politica con la 'p' minuscola, solo per accumulare '"like". E consensi. Che purtroppo ci sono". Vauro ha, poi, aggiunto che "contro uno sbruffone e un mascalzone, come il ministro Salvini, e che mi quereli pure, c'è dall'altra parte il coraggio e la dignità del capitano della See Watch, Carola Rackete". Il vignettista lancia una accusa, piuttosto pacata, anche all'Europa e all'Olanda, responsabili di negligenze sulla vicenda. Eppure, anche in questo caso, Vauro non perde occasione di attaccare il ministro Salvini: “Bisogna partecipare, in Europa, agli incontri tra ministri, per poter, poi, battere i pugni sul tavolo. Quello che Salvini non ha fatto". “Forse, oggi, abbiano perso tutti. Non c'è umanità, non c'è empatia. E se non c'è verso il migrante che giunge nel nostro Paese, non ci sarà nemmeno nei confronti del vicino di casa. Costretti o condannati ad accettare la legge del più forte", ha concluso il vignettista.
Cacciari: "Governo di capre impazzite. La legge di Salvini va trasgredita". Il filosofo commenta l'azione della capitana della Sea Watch: "Totale solidarietà nei confronti di chi infrange leggi che trasgrediscono principi fondamentali sanciti dal diritto internazionale". Luca Sablone, Domenica 30/06/2019, su Il Giornale. Massimo Cacciari interviene sul caso Sea Watch 3 e si schiera completamente dalla parte di Carola Rackete. Il filosofo afferma all'AdnKronos: "Ci sono delle leggi, è evidente che la conseguenza sia quella prevista dalle leggi. Ma questa del Decreto Sicurezza di Salvini è una legge ingiusta ed è un onore, per le persone di coscienza, trasgredirla in quanto ingiusta: averla violata va a tutto onore di questa capitana e a tutta vergogna di Salvini e dei suoi commilitoni". Cacciari si è dunque espresso sull'azione intrapresa dalla capitana della Ong che nelle ultime ore ha provocato diverse reazioni: "Quando una legge, sulla base della tua coscienza, è ritenuta del tutto iniqua, è un dovere trasgredirla. Dunque, totale solidarietà nei confronti di chi infrange leggi che trasgrediscono principi fondamentali sanciti dal diritto internazionale. Il parallelo della SeaWatch con i migranti rispetto a un'ambulanza che trasporta un malato è del tutto evidente: un medico in stato di emergenza è giusto che vada in senso vietato e infranga il codice stradale".
L'attacco al governo. Infine si è detto piuttosto negativo: a suo parere i recenti avvenimenti non comporteranno alcuna riflessione da parte dei ministri. "Oramai siamo governati da capre impazzite, con la Lega che agisce e M5s che resta zitto. Non cambierà nulla: finché non andranno a sbattere, non rivedranno un bel niente e si andrà avanti così", conclude il filosofo.
Sea Watch, Vecchioni: "Rackete è il cuore, Salvini la ragione". In una lettera a Repubblica, il cantante "professore" Roberto Vecchioni usa la mitologia greca per descrivere lo scontro tra i due "capitani" Carola Rackete e Matteo Salvini: "È la madre di tutte le battaglie, il conflitto tra cuore e ragione". Gianni Carotenuto, Sabato 29/06/2019, su Il Giornale. Tra i due "capitani" Matteo Salvini e Carola Rackete, protagonisti dello scontro sulla Sea Watch 3 che ha portato dopo 16 giorni di stallo all'attracco della nave ong nel porto di Lampedusa e all'arresto della comandante tedesca, spunta ora il terzo incomodo: il "professore" Roberto Vecchioni. Autore tra le canzoni più iconiche della musica italiana del dopoguerra, il cantante di "Luci a San Siro" e "Samarcanda" - che alla carriera di musicista ha affiancato per oltre 30 anni il ruolo di insegnante di latino e greco al liceo - ha inviato una lettera a Repubblica per commentare il durissimo scontro che ha visto opporre il ministro dell'Interno alla comandante della nave ong. Per il cantautore milanese, in realtà, qualcosa in più di un semplice sfida, ma "la madre di tutte le battaglie, il conflitto eterno tra ragione e cuore". Vecchioni, prendendo spunto dalla letteratura, descrive la vicenda della Sea Watch attraverso i personaggi e le storie dell'epica e della mitologia greca che tanto lo appassionano. "Qualsiasi storia, intreccio, episodio, qualsiasi accidente, doloroso percorso, strazio o trionfo che la vita ci presenti nelle sue infinite variazioni c'era già stato, era lì da 2500 anni nella tragedia, nella commedia, nella lirica o nell'epica, nel romanzo e nell'epigramma dell'antica Grecia".
Infatti Vecchioni paragona la vicenda dei 42 migranti bloccati al largo di Lampedusa a quella del re di Tebe, Edipo, e dei figli maschi Eteocle e Polinice che "si prendono a mazzate per salire al trono", e "succede che quello legittimo la spunta ma crepa e l'altro, l'illegittimo crepa pure e manco la spunta". Salvini è Creonte (fratello della moglie-madre di Edipo, Giocasta), "regnante ad interim nell'attesa speranzosa che i due fratelli (le due anime del Pd) si facessero fuori l'uven l'altro. Creonte ordina che il buono ('il bianco') Eteocle venga seppellito con tutti gli onori, ma il cattivo ('il nero)', rimanga insepolto. A questa decisione si oppone fermamente la sorella dei due, una meravigliosa, indomita ragazza: Antigone". Che per Vecchioni, ovviamente, è la Rackete. Tra Salvini-Creonte e Rackete-Antigone "lo scontro è epico. Creonte non si sposta di un centimetro: la legge dice così e basta, caso chiuso. Ma Antigone gli tiene testa con una fierezza che la fa forte dentro di un'altra legge più alta, più universale delle convinzioni umane. No. Lei seppellirà il fratello a qualsiasi costo, a qualsiasi conseguenza potrà andare incontro". Ecco combattersi "la madre di tutte le battaglie", con i due avversari - Salvini e Carola - a rappresentare rispettivamente ragione e cuore. Vecchioni si schiera dalla parte di lei. "Carola-Antigone non ha dubbi, non ha bilance, su cui pesare il male e il bene, il vero e il falso: lei entrerà in quel porto qualsiasi siano le conseguenze. [...] Io me la vedo Carola, bella, ritta sul ponte a prendere quella decisione che per lei è solamente normale. Nessun tentennamento, nessuna paura, un riso naturale, convinto, gli occhi semichiusi nel sole accecante, nella certezza che tutti gli uomini sono diamanti". Alla fine a vincere, secondo l'autore di "Stranamore", è una cosa sola, che Edipo ha svelato alla figlia Antigone in punto di morte: l'amore, "l'unica parola che ci libera dall'oscurità e dal male del mondo".
Giusto Forzare il blocco? Calpestare le leggi aiuta i prepotenti. Il commento del direttore: «Voler contrapporre necessità a legalità conduce su un sentiero tortuoso, impervio e alla fine sbarrato dall’azione del più forte» Carlo Fusi il 29 giugno 2019 su Il Dubbio. Ha fatto bene o no la “capitana” della Sea- Watch 3 a forzare il blocco? La risposta mette in conto ragioni etiche, umanitarie, giuridiche. A mio avviso è negativa, seppur tra mille cautele e distinguo e senza in nessun caso avallare scelte sull’immigrazione che ripugnano nei modi e negli obiettivi. Ma altresì sapendo che se sono legittime, possono essere contestate a grandissima voce, ma vanno comunque rispettate. Voler contrapporre necessità a legalità conduce su un sentiero tortuoso, impervio e alla fine sbarrato dall’azione del più forte. In molti, a proposito di questa vicenda – pur se non sempre con cognizione di causa – hanno invocato la vicenda di Antigone. Nel dramma scritto da Sofocle, ci sono i germi del conflitto tra chi, da un parte, osserva la legge divina e i valori universali che ne derivano e, all’opposto, i dettami del potere dispotico che invece li nega volendo assoggettare tutti alle sue volontà. È esattamente il tipo di conflitto che l’umanità ha provato a risolvere attraverso la definizione dello Stato di diritto, cioè di un sistema imperfetto come è la democrazia, che tuttavia rimane il migliore finora escogitato. In questo perimetro ideale e sociale, la difesa della legalità è elemento preminente ed è volta a salvaguardare i più deboli dalle prepotenze degli illiberali. Le leggi e le disposizioni – tutte: quelle che ci piacciono e le altre – se adottate nell’ambito del corretto circuito democratico che prevede il vaglio del Parlamento e la promulgazione del Colle, sono legittime e vanno osservate. Se non è così, salta il principio di legalità e salta pure lo Stato di diritto. E’ vero che i codici – nel caso si tratti di tutelare un bene superiore: ad esempio la sopravvivenza – prevedono l’esimente della situazione di necessità. Ma anche quella fattispecie va maneggiata fuori dell’ambito della soggettività. La disobbedienza civile, quel “ribellarsi è giusto”, producono moti dell’animo in tanti casi nobili. Però sottrarsi all’imperio della legge non sempre è sinonimo di giustizia. Più spesso di dissennatezza.
Mittelfest, paragone tra Antigone e Rackete: il governatore diserta inaugurazione. "Antigone" con la regia di Konstantinos Ntellas. Il leghista Fedriga ha sdegnosamente disertato l'apertura del festival di Cividale in polemica con il direttore Haris Pasovic che parlando della tragedia di Sofocle in programma ha fatto un riferimento alla comandante della Sea Watch. "Non si deve fare politica con i fondi pubblici". Anna Bandettini il 13 luglio 2019 su La Repubblica. Guai a nominare Carola Rackete in una regione leghista. Succede in Friuli, esattamente a Cividale del Friuli dove si è inaugurato il Mittelfest, storico festival di confine, per vocazione fin dall'origine attento alle diversità culturali. Venerdì 12 luglio, però, il governatore leghista Massimiliano Fedriga ha sdegnosamente disertato l'inaugurazione della manifestazione in polemica con il direttore. Haris Pasovic, regista serbo bosniaco, dallo scorso anno alla guida del Mittelfest, presentando il programma su un giornale locale, aveva fatto un riferimento, nemmeno troppo esplicito alla comandante della Sea Watch per l'Antigone sofoclea che verrà presentata lunedì 15 luglio nella versione di una compagnia greca. "Non si deve fare politica con i fondi pubblici", è stata la reazione inattesa di Fedriga. "Bisogna capire che la cosa pubblica non è privata, non è loro e non è nostra, ma è dei cittadini". Ancora più duro nelle dichiarazioni al Messaggero Veneto: "Se pensa (il direttore di Mittelfest, ndr) di utilizzare in questo modo i soldi frutto del sudore e della fatica dei friulani si sbaglia di grosso. Per quanto mi riguarda questo signore può, e anzi dovrebbe, tranquillamente lasciare il suo posto tanto non mancherà a nessuno". Il più sorpreso di questa polemica è il regista di Antigone, il greco Konstantinos Ntellas, 43 anni, anche in scena con altri cinque interpreti più un gruppo di abitanti di Cividale che faranno da coro. "Certo, quanto è successo con Carola ricalca lo schema della storia di Antigone, lei che oppone la legge morale, la legge del cuore e del rispetto umano verso la salma del fratello, alla legge dello Stato rappresentata da Creonte, ma la similitudine è tutta qui. Perché il mio spettacolo vuole anzi affermare quanto sia importante la libertà di pensiero e quanto sia necessario l'ascolto dell'altro, invece che restare ossessionati dal proprio pensiero. Nella tragedia di Sofocle nella mia visione non c'è un colpevole e una eroina, Antigone e Creonte sbagliano entrambi perché nessuno dei due ascolta le ragioni dell'altro. Ed è esattamente quello che sta succedendo con questa polemica: il governatore ha scelto di manifestare il proprio potere senza ascoltare le ragioni del direttore. Carola? Non so dire se quello che ha fatto è giusto, né quello che avrei fatto io al suo posto. Ciò che conta è rispettare le diverse opinioni". Nei prossimi giorni si capirà se la polemica avrà conseguenze. A Cividale (il sindaco leghista Stefano Balloch, per ora si è tenuto fuori dalla polemica) temono che Fedriga possa usarla per tagliare i contributi al festival (la Regione è il principale finanziatore con 700mila euro), ma il direttore Pasovic è sereno. "Non sono qua per cercare consensi, ma per fare un buon lavoro. Ho invitato Antigone qualche mese fa e nessuno poteva prevedere gli eventi futuri. Ma rimango affascinato da un testo scritto 2400 anni fa che ancora suscita discussioni. Credo che sia proprio questo il significato che l'arte deve avere".
LA SINISTRA SELFIE E FUGGI. Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 30 giugno 2019. Meglio finire in galera con la piratessa germanica che circolare a piede libero con Nicola Fratoianni e Graziano Delrio e Matteo Orfini o Davide Faraone e Riccardo Magi. Insomma la solita banda dei sinistrati che per due giorni ha lucrato sulla vicenda della Sea Watch3, salvo poi lasciare Carola Rackete al suo destino di arrestata (ai domiciliari, niente di eccessivo: con ogni probabilità verrà espulsa dall' Italia) e tornarsene poi a casa presumendo di aver compiuto chissà quale atto di eroismo. Almeno l' invasata tedesca approdata a Lampedusa sfondando il blocco della Guardia di Finanza, pur di attraccare con i suoi disgraziatissimi migranti, ha dimostrato un carattere sbruffonesco ma d' acciaio e si è assunta le responsabilità della propria sfida. Chiamatela fuorilegge o narcisista umanitaria; consideratela pure una svampita di buona famiglia divorata dall' assurdo senso di colpa di una ricca Germania che si vergogna d' essere se stessa (in effetti è così): fatto sta che Frau Rackete vale da sola tutti gli Orfini spiumati che hanno eletto domicilio coatto su quella nave, godendosi l' ebbrezza di una gita con sacco a pelo a beneficio di telecamere e social network, giustificando con piglio falso-dannunziano l' infrazione della legge da parte della teutonica salvo poi rimanersene con le mani in mano una volta giunti all' epilogo della storia. Parafrasando Ezra Pound, potremmo dire che Carola ha accettato di correre determinati rischi per le sue idee e dunque, se pure le sue idee siano errate come pensiamo qui, lei ha dimostrato in ogni caso di valere qualcosa. Ma tanto è coerentemente sbagliata Carola, quanto incoerentemente ridicola si è dimostrata la sua piccola corte italiana che - fingendo di prendersela con il solito cattivissimo ministro Matteo Salvini - ha ingaggiato contro le leggi nazionali una battaglia navale a salve, come in una specie di adolescenziale playstation politica. Il comunista scapigliato Fratoianni lo conosciamo: non ha un voto e fa del suo meglio per continuare a non averne. Delrio, solitamente schivo e misurato, di punto in bianco ha deciso di dare l' assalto alla logica più spiccia paragonando il contegno della Sea Watch3 a un' ambulanza che passa col semaforo rosso a sirene spiegate. Orfini è il fenotipo del gregario capitolino trascinato a forza nel teatro dell' assurdo, una vittima della solitudine. Magi, il radicale intruppato con Emma Bonino, ha invece i tratti dell' eterno velista alle prime armi. Il quadro d' insieme è talmente desolato da rappresentare lo spot insuperabile di un mondo in confusione da non imitare. Non perché non si abbia il diritto, qualora ci si senta in dovere, di solidarizzare anche in modo estremo con l' immigrazionismo delle Ong; ma perché non c' è nulla di epico e c' è parecchio d' inopportuno nel farlo così, a dispetto del buon senso e della maggioranza dei concittadini che pretendono il rispetto delle regole e l' impegno dell' Europa intera nel risolvere (o almeno contenere) la questione migratoria. Se poi costoro avessero davvero aderito alla dottrina di Carola, e cioè "avanti tutta costi quel che costi", avrebbero dovuto pagare un prezzo più elevato d' una scottatura solare sul naso. Potevano almeno improvvisare qualche forma di resistenza passiva. E invece la loro inerzia ne ha tradito la coscienza infelice e paracula. Buono forse per cazzare una gomena sul veliero di qualche megapresidente fantozziano, il quintetto dei sinistrati di Lampedusa ha certificato una volta in più che i progressisti italiani sono votati alla sconfitta e forse non vinceranno mai più. Però arrivano sempre primi al traguardo dell' autolesionismo. In fondo dovremmo essergliene riconoscenti. Una prece, infine, per i 42 disperati traghettati dall' Africa alla ricerca di un futuro migliore. Diceva Omero nell' Odissea che "gli stranieri e i mendicanti vengono tutti da Zeus; ciò che ricevono, anche se poco, è gradito" al più alto degli dèi. Ma loro sono finiti al centro di una disputa mediatica infelicitante: l' immeritato sacrificio umano andato in scena in una brutta carnevalata fuori stagione.
I Fantastici cinque che portano voti a Salvini. Daniele Capezzone l'1 luglio 2019 su Nicola Porro.it. Inutile girarci intorno, c’è un dovere politico e morale a cui Matteo Salvini non può assolutamente sottrarsi: è quello di conferire una tessera d’onore della Lega al quintetto Delrio-Orfini-Faraone-Magi-Fratoianni. A meno che non venga fuori che siano già tutti “undercover agents” del Carroccio, impegnati a moltiplicare i voti leghisti. Poteva infatti esserci una fetta non piccolissima di italiani che, pur non avendo in alcuna simpatia l’immigrazione illegale e le missioni sospette delle navi Ong, aveva forse trovato eccessivi alcuni toni di Salvini. O che magari, pur condividendo nella sostanza la linea dura del ministro degli Interni, aveva giudicato esagerate certe forme, una postura sempre da battaglia, forse sproporzionata rispetto a questa specifica vicenda della Sea Watch. Ma non appena sono comparsi sulla scena i “fantastici cinque”, per la maggioranza schiacciante degli italiani è stato impossibile avere ulteriori dubbi. Un ex ministro dei Trasporti che filosofeggia e si arrampica sugli specchi per attenuare e quasi giustificare una manovra da pirati; l’ex presidente di un partito già di governo che dichiara che avrebbe fatto proprio come la Capitana (inclusa – par di capire, e speriamo di aver compreso male – la spericolata manovra finale, che poteva avere conseguenze fatali), le patetiche foto con i bicchierini di plastica (che, nelle intenzioni dei deputati, avrebbero dovuto muovere a compassione i cittadini). Un armamentario suicida: politicamente e in termini di comunicazione. Intendiamoci bene. In politica e nella vita civile, puoi decidere (a volte può essere altamente meritorio) di compiere un gesto impopolare. Ma a maggior ragione devi essere pronto a spiegare la tua posizione, devi comprendere lo stato d’animo dell’immensa maggioranza che la pensa diversamente, devi essere capace – anche da un punto di vista minoritario – di non farti respingere emotivamente dalla maggioranza dei cittadini. E invece, con tutta la buona volontà, i cinque parlamentari crocieristi sono parsi indifendibili. Senza argomenti solidi, indistinguibili dai fan (alla “facciamo rete”) della Capitana, senza un racconto che fosse non dico condivisibile ma almeno comprensibile e accettabile da parte dell’opinione pubblica. Con un’opposizione così, Salvini può dormire tra due guanciali.
Il Pd si spacca pure su Carola "Ottuso chi è salito sulla nave". Dem divisi tra linea Minniti e porti aperti. De Luca sfotte Orfini. Pinotti: «Solidarietà alla Gdf». I renziani in silenzio. Paolo Bracalini, Lunedì 01/07/2019, su Il Giornale. L'operazione mediatica di Orfini e Delrio a bordo della Sea Watch può far pensare che il Pd sia unito nella battaglia contro Salvini e a fianco della capitana Carola Rakete. Ma non è così. In realtà sul caso Sea Watch è riemersa la spaccatura tra la «linea dura» alla Minniti e l'ala sinistra (i cosiddetti Giovani Turchi) guidata per l'appunto dal naufrago lampedusano Matteo Orfini, più varie componenti che hanno sempre combattuto le direttive dell'ex ministro dell'Interno piddino per regolamentare le Ong e delegare il controllo delle partenze alla guardia costiera libica. La frattura dentro il Pd è rimasta intatta e si vede. Specie tra chi ha avuto incarichi di governo diventa difficile difendere il comportamento fuorilegge della Ong tedesca. L'ex ministra della Difesa Roberta Pinotti, che ricopre anche il ruolo di responsabile Politiche per la sicurezza nella segreteria nazionale Pd, pur criticando (ovviamente) l'azione del ministro leghista, non solidarizza affatto con la volontaria tedesca nuova beniamina della sinistra italiana ma al contrario «con la Guardia di finanza e l'equipaggio della motovedetta speronata dalla nave Sea Watch. Hanno dovuto fronteggiare una situazione di altissima difficoltà e pericolosa. Noi siamo a fianco dei nostri operatori che assolvono quotidianamente al proprio dovere con professionalità e umanità». Toni e concetti molto lontani da quelli di Orfini, Delrio e soci. Anche ad un padre nobile del Pd come Romano Prodi riesce difficile giustificare in toto l'iniziativa dei parlamentari Pd. Quando l'Annunziata su RaiTre gli chiede se hanno fatto bene ad andare a bordo, la risposta è evasiva: «Dipende da cosa gli hanno detto». Prodi alla fine si rifugia in una posizione di compromesso, né con Salvini ma neppure con la capitana fuorilegge: «La legge va rispettata» dice, «ma fianco di questa ci deve essere umanità e comprensione e così si risolvono i problemi». Minniti è sotto attacco della sinistra Pd anche in questi giorni. Proprio Orfini ha detto che gli accordi con la Libia, siglati appunto dal governo Pd nel 2017, «vanno cancellati, la Libia è un paese in guerra e rimandarci chi dalla guerra scappa è illegale. Oltre che disumano». Sempre Orfini disse che la linea Minniti contro le Ong «ha favorito la destra». L'ex ministro Pd infatti inquadra la vicenda Sea Watch con toni molto diversi da quelli drammatici dei piddini saliti a bordo: «in Italia non c'è nessuna emergenza, l'arrivo di 42 migranti si risolve in cinque minuti» ha spiegato Minniti, che fa capire come le ong siano parte del problema, infatti «noi avevamo redatto un codice di condotta delle Ong che è stato firmato anche dalla Sea Watch, dimostrando che era possibile governare i flussi migratori senza restringere gli spazi delle Ong e senza far venire meno né il ruolo della Ue né - aggiunge - il protagonismo prestigioso della Guardia costiera italiana». Insomma quanto di più lontano dalla sceneggiata dei parlamentari Pd. Su cui interviene, con il suo abituale linguaggio diretto, il governatore pd della Campania, Vincenzo De Luca. «Chi viola le leggi e pretende di entrare contro legge nei nostri confini, deve essere arrestato, non c'è niente da fare. Il fatto che i parlamentari del Pd non abbiano colto questo aspetto del problema è un altro atto di ottusità politica» spiega De Luca. Nella guerra interna al Pd si aggiunge anche il virologo Burioni, a cui Renzi offrì la candidatura senza successo. Scrive lo scienziato di area Pd: «Tutti i tweet contro Salvini e a favore della capitana hanno politicamente la stessa efficacia che ha urlare davanti alla Tv arbitro cornuto durante una partita di calcio». A proposito dei renziani, per completare il quadro. Si registra il loro strano silenzio sulla questione Sea Watch. Renzi non twitta, mentre l'ultimo post della Boschi è sulla nazionale femminile di calcio. Il rischio di portare acqua al mulino di Orfini e soci è troppo alto, meglio astenersi.
Minniti: "La risposta ai populismi non può essere accogliamoli tutti". L'ex ministro dell'Interno Marco Minniti, attacca l'esecutivo Conte che dipinge il fenomeno dell'immigrazione "come una continua emergenza". Francesco Curridori, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. "Il ministro dell’Interno e il governo puntano tutto su quella che definirei una strategia della tensione comunicativa". Marco Minniti, intervistato da La Stampa, attacca l'esecutivo Conte che dipinge il fenomeno dell'immigrazione "come una continua emergenza". "Ciò premesso, sulla vicenda della Sea Watch, le responsabilità non sono soltanto del governo italiano…", aggiunge l'ex titolare del Viminale che nei suoi 18 mesi da ministro aveva ridotto del 78% gli sbarchi. Minniti spiega che "Se l’Italia si è dimostrata piccolissima, l’Europa ha dimostrato di essere una piccola Europa" dal momento che nella nave Sea Watch si trovavano soltanto 42 migranti. Oggi, poi, nel Mediterraneo si vive una situazione completamente dicersa rispetto al recente passato. Prima "vigeva un sistema di ricerca e salvataggio coordinato dalla Guardia Costiera, le Ong avevano firmato un codice di condotta, c’erano Frontex, la Guardia costiera libica e una missione militare europea, Sophia. Oggi tutto questo, di fatto non c’è più". Secondo Minniti, nel caso Sea Watch, l'Europa sarebbe dovuta intervenire subito evitando di rispondere "con una logica piccina : io ne prendo 3 e tu ne prendi 4" perché la sfida ai nazional- populisti non si vince così. Ma, precisa, subito dopo: "l'alternativa ai nazional-populisti non può essere accogliamoli tutti" e, in merito all'invito all'accoglienza si Papa Francesco sottolinea: "una forza riformista non può che declinarlo attorno a tre valori: umanità, libertà e sicurezza".
Libia, il Pd sconfessa Minniti. I Dem non votano il rinnovo degli accordi con Tripoli. Pier Francesco Borgia, Giovedì 04/07/2019, su Il Giornale. Il Pd cambia pelle e abbandonare la «linea Minniti» per abbracciare la tesi della sinistra: mai più accordi con la Libia. Mai più collaborazione con chi è parte in causa in un conflitto armato. Il Pd insomma «licenzia» Minniti e Gentiloni (ma anche Matteo Renzi prima di loro) e sposa la tesi di Leu, Radicali e Articolo 1 e +Europa per ribadire un secco no alla riconferma dell'impegno (anche economico) del nostro Paese nella missione internazionale legata alla crisi libica. Ieri in aula a Montecitorio, infatti, il partito di Nicola Zingaretti ha votato no al rinnovo degli accordi con la Libia. Proprio lo stesso tipo di intesa che era stata confezionata dal predecessore di Conte, aiutato dal suo ministro degli Interni Minniti. Regista di questo cambio di passo all'interno del Pd è il capogruppo alla Camera Graziano Delrio. I suoi lo faranno passare come un compromesso per «ricompattare il partito» a Montecitorio ma di fatto è una sconfessione del «teorema Minniti». Una sconfessione che Matteo Orfini ha mostrato con vigore nel corso dell'assemblea dei parlamentari Dem prima del voto in Aula. L'accordo con la Guardia costiera libica è, per l'ex presidente del partito, «intollerabile», dato il quadro bellico del Paese nordafricano e soprattutto per via della politica di chiusura dei porti adottata dal governo giallo-verde. Per evitare, però, la figuraccia alla componente renziana Delrio ha chiesto e ottenuto che il partito si ricompattasse, ma fuori dall'Aula, con l'astensione. Con un'astuzia degna di politici navigati. Vale a dire sostenendo che è colpa dell'attuale governo che non ha saputo interpretare nel giusto modo lo spirito degli accordi presi con la Libia. «Siccome il governo ha nei fatti stracciato quegli accordi - spiega Lia Quartapelle, in verità paladina di quella intesa - ci asterremo sulla missione della Guardia costiera libica perché non abbiamo avuto abbastanza rassicurazioni». «Non c'è più vigilanza - aggiunge lo stesso Delrio - non c'è più controllo e quindi l'approccio integrato che si era scelto di fare con gli accordi precedentemente sottoscritti non è più rispettato». Nei fatti i Dem si sono trovati nella stessa posizione della sinistra rappresentata da Articolo 1 e Leu. Però il senatore Francesco Laforgia stigmatizza i sofismi del Pd. «Oggi, sulla Libia, bisognerebbe votare contro tutti gli accordi - commenta su Twitter -. Ieri c'erano i lager. Oggi quei lager vengono bombardati. Su questo non ci possono essere mediazioni o bizantinismi parlamentari». «Si stanno ancora contando le vittime del bombardamento che ha appena colpito un centro di detenzione per migranti a sud est Tripoli - aggiunge Riccardo Magi di +Europa durante la sua dichiarazione di voto -. È oramai innegabile che la linea politica perseguita a partire dal 2017 dall'Italia non ha favorito alcuna stabilizzazione in Libia».
Minniti: mi leccavano solo quando ero ministro. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano l'8 Luglio 2019. Marco Minniti è il migliore fra i peggiori ma i suoi ex compagni, invece di ringraziarlo per i successi in materia di controllo dell' immigrazione selvaggia, oggi lo sputacchiano con vile ipocrisia. Ieri l' ex ministro dell' Interno ha consegnato a Repubblica uno sfogo informale per le parole d' accusa ricevute da Matteo Renzi in un articolo pubblicato il giorno prima. Titolo: "Allarmisti sui migranti, pavidi sullo ius soli". Minniti è un uomo schivo, degno esemplare di quella antica e minoritaria schiatta di comunisti con il senso dello Stato. Difficilmente lo vedremo polemizzare a cielo aperto con il suo ex premier fiorentino, ma già sappiamo come la pensa: quando il Viminale era nelle sue mani e lui inaugurò una politica di contenimento delle partenze dalla Libia, d' intesa con le autorità di Tripoli e aprendo corridoi umanitari insieme con l' Onu, sia Renzi sia i suoi influenti subalterni stavano tutti con il ministro. Al punto che Renzi, una volta caduto sul rovinoso referendum costituzionale del 2016, l' ha voluto ancora al suo posto nel governo di Paolo Gentiloni; e addirittura gli ha chiesto di candidarsi come portabandiera renziano alle ultime primarie. Sappiamo com' è andata: Minniti aveva accettato con spirito di servizio, salvo poi ritirarsi visto lo scarso e oscillante sostegno delle fazioni in lotta riconducibili al giglio magico. lontano da twitter Ma qui il punto è un altro. Minniti è un politico strutturato, solido, di formazione novecentesca, un faticatore d' apparato che non ha tempo per Twitter e playstation. Dalemiano per vecchia obbedienza, tra il 1999 e il 2001 fu sottosegretario alla presidenza del Consiglio con lui e poi sottosegretario alla Difesa nel Giuliano Amato bis. In quel periodo prese confidenza con le deleghe ai servizi segreti che gli consentirono di addentrarsi nello Stato profondo dal quale si governano i conflitti e si proteggono i cittadini. Nella passata legislatura, si deve appunto a Minniti un silenzioso lavoro ispirato al concetto della sicurezza compassionevole. Ha sacrificato la sua leggendaria riservatezza soltanto nell' estate del 2017, di fronte a un picco di sbarchi dal nord Africa sulle nostre coste, interrogandosi pubblicamente sulla tenuta della nostra democrazia e ventilando la chiusura dei porti. Poi si è rimboccato le maniche per ridurre drasticamente il traffico degli schiavi subsahariani «senza muri, senza filo spinato e senza evocare l' invasione». Matteo Salvini non ha fatto altro che ereditare da Minniti un lavoro ben fatto e un ministero impiegato a regola d' arte per combattere malaffare e degrado urbano (ricordate il Daspo metropolitano? Idea di Minniti maltrattata dai sindaci). continuità al viminale Certo, il leader leghista ha saputo spingersi fin dove mai Minniti sarebbe approdato. Perché l' ex comunista ha pur sempre sostenuto la battaglia goscista per lo ius soli (in realtà ius culturae) e ha ripetutamente criticato Salvini con accenti accorati e a volte sopra le righe. E tuttavia nessuno ha potuto contraddire una linea di continuità tra i due, trattandosi nel caso di Salvini della prosecuzione del lavoro di Minniti in forma più intensiva e dirompente. Sarà dunque questo che l' ipocrita Renzi non perdona al suo ex beniamino? E stiamo parlando dello stesso Renzi che nel suo libro Avanti scriveva orgoglioso: «Vorrei che ci liberassimo da una sorta di senso di colpa. Noi non abbiamo il dovere morale di accogliere in Italia tutte le persone che stanno peggio ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. E di aiutarli davvero a casa loro». Parole che Minniti non avrebbe mai pronunciato, preferendo limitarsi alla soluzione dei problemi piuttosto che alla tardiva declamazione retorica di una verità così indigesta al popolo della sinistra estrema. Insomma, quando le cose andavano bene, quello lavorava e l' altro si prendeva i meriti e faceva il fenomeno. Ora che la sinistra mangia pane e cicoria e si disseta col fiele, il povero Minniti è diventato lo spaventapasseri abbandonato sul campo infecondo della sconfitta. Invece di tenerselo stretto, dopo averlo apprezzato e rispettato quale riserva della Repubblica stimata anche a destra, i compagni autolesionisti in servizio permanente ed effettivo l' hanno subito sconfessato. Ancor più stupisce che sia proprio Renzi a scivolare nell' errore: in politica si deve sempre comprendere l' ingratitudine, se non condonarla perfino; ma non la stupidità.
Sea Watch, Pierluigi Bersani su La7: "Ho vissuto tutto questo come un film diretto da due sovranisti". Libero Quotidiano l'1 Luglio 2019. Pierluigi Bersani, ospite a In Onda su La7, durante il programma di David Parenzo e Luca Telese, commenta le ultime vicende sulla Sea Watch e del capitano Carola: "Ho vissuto tutto questo come la rappresentazione di un film di due sovranisti che non vogliono risolvere il problema immigrazione. È un film imbastito per coltivare il problema e non per risolverlo. Mentre ci si preoccupava della Sea Watch e dei migranti che ballavano per quindi giorni, arrivavano altri 500 naufraghi. Non solo la solidarietà diventa un reato ma diventa un reato anche il naufragio. Mi chiedo fino a quando gli italiani si faranno prendere in giro da questa tragicommedia sulla pelle di poveracci".
«Il governo e Salvini non hanno neanche commentato gli insulti a Carola Rackete» lamenta L’ex segretario Pd sul silenzio del governo. Ansa - CorriereTv l'1 luglio 2019. «Il governo e Salvini non hanno neanche commentato gli insulti a Carola Rackete. A me di fronte a parole del genere scappa il cazzotto»: così Pierluigi Bersani commenta gli insulti rivolti a Carola Rackete la notte del suo arresto nel porto di Lampedusa. La comandante della nave Sea Watch, scendendo dalla scaletta sul molo, è stata accolta da un gruppo di persone che le hanno urlato insul tidi vario genere.
Sea Watch, Alessia Morani pubblica la foto segnaletica di Carola Rackete per criticare chi l'hanno fatto. Libero Quotidiano il 2 Luglio 2019. La foto segnaletica di Carola Rackete, pubblicata ieri da alcuni siti, ha suscitato l'indignazione di molti. La più curiosa è stata quella del senatore Pd Davide Faraone (uno di quelli saliti a bordo della Sea Watch), che per deprecare la cosa non ha trovato di meglio che pubblicare a sua volta lo scatto su Twitter: «Chiederemo con un'interrogazione immediata di sapere chi è quel delinquente che ha scattato e messo in rete questa foto. Mentre fa i rilievi dattiloscopici, viene fotografata e sottoposta al pubblico ludibrio. Una lapidazione social. Vergogna!». Faraone se l'era presa poco prima con Giorgia Meloni: «È tempo che si faccia un blocco navale solo dopo che ti sarai organizzata un lungo viaggio». "Sulla diffusione di questa foto abbiamo presentato una interrogazione parlamentare e un esposto ai garanti dei detenuti e della privacy", ha annunciato su Twitter Alessa Morani, della presidenza del gruppo Pd alla Camera, postando anche lei la stessa foto che contesta. "Questo spettacolo schifoso deve finire. Ora basta". Ma sono seri?
CHI HA DIFFUSO LA FOTO DI CAROLA NELL’HOTSPOT DELLA POLIZIA A LAMPEDUSA? Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 2 luglio 2019. Una foto della comandante della SeaWatch, Carola Rackete, scattata durante le procedura delle fotografie segnaletiche nell' hotspot della polizia a Lampedusa, è incredibilmente finita, la sera del 29 giugno, sul sito russo VKontakte e - leggermente tagliata - su alcuni siti d' informazione italiani. Segno che chi l' ha postata su VKontakte aveva la foto originale. Non è chiaro con certezza assoluta se la foto sia autentica, ma La Stampa può provare ricostruire alcuni fatti di questa vicenda inquietante. La questura di Agrigento non ha negato l' autenticità della foto (le sono arrivate numerose richieste di chiarire il punto). Lo stesso avrebbe potuto fare, e non ha fatto, la polizia di stato, alla quale sono arrivate numerose richieste pubbliche da parte di giornalisti. Anzi: Il questore di Agrigento ha annunciato di aver aperto un' inchiesta interna, che avvia un procedimento disciplinare, per accertare cosa sia effettivamente accaduto, e fatto sapere di avere informato l' autorità giudiziaria. Un' analisi della fotografia attraverso un software deputato a individuare eventuali manipolazioni non ha trovato tracce di taroccamento operate sulla foto. L' unico particolare interessante è che sono stati cancellati i metadati della foto, che consentono di identificare con certezza la macchina e l' ora in cui la foto è stata scattata. La cosa è confermata da Stop Fake - un sito specializzato nello smascheramento di disinfo ops, con un focus particolare sulla Russia. Secondo Stop Fake «le successive foto pubblicate su altri media sono state ritagliate da questa, nella quale si vede chiaramente anche l' operatore di polizia che presumibilmente ha proceduto alle operazioni di fotosegnalazione». Non è il solo aspetto preoccupante di questa storia. Colpisce naturalmente che, alle 21,39 del 29 giugno, la versione più ricca di dettagli della foto sia apparsa su un profilo social in lingua italiana, sul social network russo VKontakte (un' altra è apparsa su Adnkronos, con un taglio più stretto dell' inquadratura, poi rimossa, come ha notato la reporter Cecile Landman). La foto su VKontakte ritrae Rackete mentre guarda in direzione di una macchina fotografica, e accanto a lei un uomo con la pettorina della polizia. Il terzo elemento per nulla rassicurante è il profilo italiano su VKontakte che ha pubblicato (e poi rimosso) la foto. Si tratta di un tale "Giancarmine Bonamassa", che pubblica ossessivamente post contro il Pd, contro i migranti, ultrasovranisti, di sostegno al governo Conte, di attacco pesante al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e è collegato a numerosi altri account italiani, con contenuti di estrema destra neonazionalista. Non sappiamo se "Bonamassa" sia un' identità fittizia o reale (il team di Stop Fake ha reperito una sua presunta foto, su altri siti russi). Il Pd ha rivolto un' interrogazione parlamentare urgente al ministro Matteo Salvini, per avere lumi su questa ennesima brutta storia di manipolazione dell' opinione pubblica.
Da Il Messaggero il 4 luglio 2019. «Karola troia, torna in Germania»: l'auto di un turista tedesco vandalizzata a Ferrara. La sua unica colpa? Quella di essere connazionale di Carola Rackete, la capitana della Sea Watch 3, e di essere venuto in vacanza in Italia con la sua auto. Un'incredibile disavventura, quella vissuta da un giovane turista tedesco, giunto a Ferrara per visitare la città e che ha avuto la più spiacevole delle sorprese quando è tornato a riprendere la sua vettura. Sui due finestrini, lato guidatore, qualcuno aveva infatti scritto insulti a Carola Rackete: «Karola troia, torna in Germania». Tutto questo solo perché l'auto, posteggiata nei pressi del Lido di Spina, aveva la targa tedesca (che dire, allora, del boom di auto immatricolate in Germania dai nostri connazionali per vari motivi?). È accaduto tre giorni fa e a raccontare la vicenda, su Facebook, è stata una ragazza, Ilaria Castelluzzo, che ha assistito alla scena, avvenuta a Lido di Spina ed ha spiegato: «Quel turista era sbigottito: non capiva perché e cosa significassero quelle frasi. Non sa neanche chi è Carola, glielo abbiamo spiegato e mentre cercava di grattare via la scritta dal vetro ci ha detto che si trova in Italia da poco e non aveva mai avuto problemi prima di questo atto vandalico, gratuito e senza senso». Ieri pomeriggio io e pochi amici ci imbattiamo in questa automobile. Il proprietario, un giovane turista tedesco, visibilmente sbigottito e incredulo ci chiede "Why? What does It mean?"- Perché? Cosa significa? Nemmeno sa chi è, Karola (Carola Rackete). Glielo spieghiamo. Mentre cerca di grattare via la scritta dal vetro ci racconta che è in Italia da poco e non aveva mai avuto problemi prima di subire questo atto di vandalismo completamente gratuito e senza significato. Comunque, così tanto per dire, #iostoconCarola e chiudo con una citazione di J-Ax "significa che dovremo amare più forte per compensare il loro Odio" ?
Emma Marrone difende Carola Rackete e viene attaccata. Pubblicato lunedì, 01 luglio 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. «Solo una parola: vergogna. Il fallimento totale dell’umanità. L’ignoranza che prende il sopravvento sui valori e sul rispetto di ogni essere umano. Stiamo sprofondando in un buco nero. Che amarezza, vergogna». Così Emma Marrone ha diffuso sui propri canali social il video diffuso in rete nel quale Carola Rackete — la comandante della Sea Watch — viene insultata all’arrivo al porto di Lampedusa: «Venduta […] Spero che ti violentino... zingara, tossica, drogata…». Una presa di posizione — quella della cantante pugliese, uscita da Amici di Maria di Filippi, che nè stata duramente attaccata (e ricoperta di insulti) sui social da un gruppo di hater: «Torna a cantare, che ti passa»: «Pensa a cantare che a governare ci pensano gli altri», «Portateli a casa tu». Marrone si è difesa, e ha ricevuto il sostegno di diversi musicisti. Tommaso Paradiso dei TheGiornalisti ha scritto in un commento su Instagram: «Per l’ennesima volta ci siamo sopravvalutati, invece rappresentiamo il punto più basso e infimo della grandiosità dell’universo tutto». In difesa di Marrone anche Paola Turci («Quanto hai ragione, amica mia») e Fiorella Mannoia («Concordo. Avanti, scatenatevi pure. I vostri insulti sono medaglie»). A difendere la comandante Rackete era intervenuto anche J-Ax: «La comandante della Sea Watch ha violato le "leggi ingiuste" come Gandhi, Mandela e Luther King a "costo della propria libertà», aveva tuonato sabato dal palco del Bologna Sonic Park, davanti a oltre 9 mila spettatori. «Ieri ho postato #IoStoConCarola su Instagram - ha detto J-Ax- e ho ricevuto i soliti commenti che si ricevono oggi, quando sei così arrogante da empatizzare e interessarti agli altri», invitando a intervenire contro le ingiustizie.
Dal profilo twitter di Emma Marrone il 2 luglio 2019. "Ho espresso solidarietà verso una donna che è stata ricoperta di insulti irripetibili. La politica non c'entra nulla. Questa è umanità, senso civico, rispetto. Amen".
Dal profilo twitter di Alessandro Gassmann il 2 luglio 2019. Un paese che sta tirando fuori il peggio di se stesso, forte con i deboli e debole con i forti. Chi la pensa come me è una minoranza, ma rimanere umani è fondamentale.
Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 2 luglio 2019. Un vescovo vuole dedicare il porto di Lampedusa alla «capitana» paragonandola nientemeno che a Garibaldi. Cantanti, partiti, intellettuali di sinistra «stanno con Carola» fregandosene se è diventata una star violando la legge. Gian Carlo Perego, vescovo di Ferrara-Comacchio, pensa che la giovane tedesca sia come Garibaldi. Ex direttore di Migrantes, la fondazione della Conferenza episcopale italiana, in prima linea nell' aiuto agli immigrati, è convinto che Carola sia un' eroina dei due mondi. «Il porto di Lampedusa propone può esserle intitolato. Garibaldi assassino e brigante contro lo Stato (per gli austriaci, nda), oggi è un eroe. Lasceremo alla storia giudicare chi è il vero eroe: se chi chiude un porto e caccia o chi salva la vita delle persone». La chiesa, soprattutto tedesca, è in prima linea nella difesa a spada tratta di Carola. Ieri ha tuonato l' arcivescovo di Amburgo, Stefan Hesse, a nome della Conferenza episcopale tedesca giudicando «inaccetttabile» il comportamento italiano nei confronti della capitana. Nei giorni precedenti si era fatto sentire il presidente della Chiesa evangelica, Heinrich Bedford-Strohm. Assieme al cardinale cattolico, Reinhard Marx, finanziano o fanno da testimonial per la raccolta fondi dei talebani dell' accoglienza di Sea Watch. Micromega, la rivista della «sinistra illuminata» lancia una pugnace raccolta firme con un titolo secco: «Libertà per Carola, subito!». Il direttore, Flores D' Arcais, scrive senza mezzi termini che l' arresto «è stata una scelta di mostri di cui il capo del governo Salvini è stato punta di diamante e di cui gli accucciati Conte e Di Maio sono corresponsabili». Ieri pomeriggio avevano già firmato in 31.750. Nel fronte solidale a Carola non mancano ex volti televisivi e cantanti. Daria Bignardi scrivendo su Vanity fair ci tiene a fare sapere ai sostenitori della capitana, in inglese che va di moda, «you are not alone» (non sei sola). Emma ha scritto un post in difesa di Carola, che era stata travolta da insulti sessisti a Lampedusa. «Solo una parola: vergogna - recita il testo - Il fallimento totale dell' umanità» ribadiva la cantante ricevendo una valanga di critiche e peggio. «Coglio... canta che ti passa» ha scritto un' utente sotto al post. E ancora: «Emma mi piaci come canti - si legge - Ma non ti permetto di esprimere giudizi contro chi non la pensa come te». Tanti condividono un solo pensiero: «Ma pensa a cantare che a governare ci pensano altri». E poi: «Portateli a casa tu» scrivono in molti riferendosi ai migranti sbarcati da Sea Watch 3. Al fianco di Emma si sono schierati il frontman dei TheGiornalisti, Tommaso Paradiso, Paola Turci e Fiorella Mannoia. Il polverone sollevato dal caso Carola si sta trasformando in un «affare» per Sea watch. La raccolta fondi in Germania e Italia per le spese legali della capitana, le sanzioni e la nave sequestrata ha superato il milione. I volti noti della tv tedesca, Jan Boehmermann e Klaas Heufer, che si sono offerti come testimonial per aiutare i talebani dell' accoglienza hanno raggiunto 801mila euro. In Italia sono stati raccolti altri 410mila euro. Anche il Pd Lazio si è impegnato con una foto dell' eroina di Sea Watch 3, il simbolo del partito, l' iban e la semplice causale: «Capitano Carola». Nessun problema se ha violato la legge. I più furbi sono gli ideatori di un sito di commercio in rete che propone ad associazioni no profit e Ong «di realizzare le tue idee, vendendo direttamente sul sito le tue magliette con il tuo design e raccogliere fondi per la tua causa!». Il 27 giugno hanno postato due modelli in maglietta rossa e bianca con il simbolo dei talebani dell' accoglienza tedesca e il titolo: «Sostieni Sea Watch».
FEMMINISTI SOLO CON LA RACKETE. Lorenzo Mottola per “Libero quotidiano” il 3 luglio 2019. «Puttana». «A quando il prossimo marito». «Ti devono sbranare i cani». «Zoccola». «Topo di fogna». È questa una piccola cernita degli insulti riversati negli ultimi giorni su Giorgia Meloni, limitandoci a quelli che è possibile pubblicare senza correre il rischio di mettere eccessivamente in imbarazzo chi scrive e chi legge. La leader di Fratelli d' Italia è stata presa di mira sul web per aver lanciato una sua proposta sulla questione immigrazione, suggerendo di confiscare e affondare le navi delle Ong che si ostinano a fare la spola tra Libia e Italia trasportando clandestini. Ovviamente, l' idea non è certo quella di mandare a picco le navi con gli equipaggi a bordo, ma tanti a sinistra - e tra loro anche una valanga di politici Pd - sembrano aver voluto capire il contrario. E così hanno iniziato a sparare contro Giorgia, scatenando un uragano di ingiurie. Parliamo dei classici insulti sessisti, per esser chiari, un po' come quelli che è toccato ascoltare a Carola Rackete al suo arrivo a Lampedusa. Nel caso della tedesca, però, nella sinistra italiana è scattata una gara a chi si indigna di più. Per la Meloni, al contrario, nessuno s' è sognato di alzare il ditino. Il punto, per esser chiari, è che nella nostra imbarazzante arena politica quando la signora che si becca della "zoccola" è di destra non gliene frega niente a nessuno. Pierluigi Bersani si è perfino improvvisato boxeur l' altra sera, annunciando che a quelli che hanno insultato la capitana della Sea-Watch avrebbe dato «un cazzotto». Altrettanto agitato è apparso lo scrittore Roberto Saviano, che su Repubblica s' è lanciato in un' inquietante analisi sull' invidia del pene che attanaglierebbe il maschio italiano. La gente chiede i porti chiusi per via del sesso e del «senso di inferiorità che qualcuno ha in questo campo verso gli africani» (e con quel "qualcuno" non si è capito se l' autore volesse distinguersi in quanto super dotato intellettualmente o fisicamente). Il problema sarebbe la concorrenza sleale con le donne, quindi. Un ragionamento che oltra a tradire una visione del mondo da Fred Flinstone lascia irrisolta un' annosa questione: ma quindi se a sbarcare fossero i pigmei andrebbe tutto bene? Altrettanto sbalorditiva l' intemerata di Gino Strada di Emergency, secondo il quale a scatenare la pioggia di contumelie contro la Rackete è stata la "cultura di Salvini". In altre parole, se un lampedusano ubriaco che vota Cinquestelle si mette a insultare nella notte una donna che odia per via delle sue campagne marittime, la colpa ricade automaticamente sul ministro dell' Interno. Siamo a una versione politicamente corretta del "piove governo ladro". Come dicevamo, purtroppo la Meloni difficilmente conoscerà mai un uguale livello di solidarietà da parte dei maschi italiani, almeno per quanto riguarda. Nessuno ha fiatato neanche quando la politica ex-An si prese della "cicciona" da Asia Argento perché incinta, figuriamoci ora. Anzi, all' ex ministro della Difesa tocca subire gli attacchi sguaiati del dem Davide Faraone: «È tempo che ti chiudano Facebook, così come si tagliavano i Super-Santos ai bimbi che disturbavano durante il riposo. È tempo di restare in Parlamento proprio per contrastare i fascisti come te». In altre parole, stai zitta fascista, disse il femminista.
Capitana, mia capitana”. La sinistra orfana sempre a caccia di testimonial. Da Ivano a Simone fino a Carola la capitana, l’ennesima figura eletta dalla sinistra a eroina e a testimonial nella sua crociata contro “il populismo” in assenza di una linea politica alla quale affidarsi. Paolo Delgado il 29 giugno 2019 su Il Dubbio. “La capitana? È ricca e annoiata”, il livello della polemica via social sulla decisione di Carola Rackete di forzare il blocco e portare a Lampedusa i 42 profughi della Sea Watch è triviale ma indicativo. Discutere sulla scelta di volgere la prua verso Lampedusa ignorando altri porti, come Malta o la Tunisia, è comprensibile. Mettere sul piatto della bilancia, a contrappeso di quello dove figurano la “legge etica” e quella del mare, l’obbligo per ogni Paese di far rispettare le proprie leggi, giuste o sbagliate che siano, è quasi doveroso. Ma cosa tutto questo c’entri con il conto in banca della famiglia Rackete almeno a prima vista è oscuro. C’entra eccome, invece, perché Carola la capitana è l’ennesima figura eletta dalla sinistra a eroina e a testimonial nella sua crociata contro ‘ il populismo’ in assenza di una linea politica alla quale affidarsi, spesso con effetti involontariamente comici e comunque desolanti. Per settimane, pochi mesi fa, abbiamo sentito ripetere “La sinistra riparta da Simone”, alludendo al quindicenne di Torre Maura che aveva baccagliato con i neofascisti di CasaPound impegnati nella caccia ai neo- inqulini Rom. Quel ‘ A me non mi sta bene che no’, così dialettale e verace, così popolano, mandava in visibilio una sinistra che con quel popolo proprio non sa più come parlare e, peggio, non immagina neanche cosa dire. Prima c’era stato Ivano, ruvido e verace, vocione da basso e residenza a Rocca di Papa. Ai tempi della Diciotti, meno di un anno fa, il suo commento caustico deliziò un’opposizione tramortita: “Dopo essese fatti la navigata, la sosta e mo’ pure 10 ore di pullman, quando arivano qua se devono gode’ pure sta rottura de’ cojoni dei fascisti”. Applausi a scena aperta: ‘ La sinistra riparta da Ivano’. Adesso c’è Carola, che popolana non è, e non a caso il rozzo popolino salviniano sottolinea il particolare. La nascita una certa differenza la fa, almeno quando la partita si gioca nella disperata ricerca di simboli populisti da contrapporre al populismo. Ma la capitana ha altre doti da portare all’incasso sul mercato politico della simbologia: è coraggiosa, audace, disobbediente. Non parla in romanesco ma richiama Sandokan. La sinistra può ripartire da Carola. Il problema è che questa caccia al testimonial non paga. La sinistra, invece di ripartire, resta al palo. A Torre Maura la destra, alle ultime elezioni, ha spopolato. L’immancabile sondaggio pret- à- porter sulla Sea Watch registra un 61% contrario all’attracco a fronte del 33% favorevole e del 6% che non prende posizione. L’ironia facile sui selfie di Matteo Salvini, sulle dichiarazioni truculente, sullo stile comunicativo volutamente plebeo, finisce per far dimenticare che Salvini un progetto politico chiaro ce l’ha. Rozzo e semplicista forse, per molti versi discutibile, ma senza dubbio un disegno politico. E’ vero che è perennemente impegnato in una campagna di cui lui stesso è il testimonial. Non è però testimonial di se stesso ma di una visione politica nel complesso omogenea e certamente comprensibile. Per la sinistra non si può dire la stessa cosa, e in particolare non la si può nemmeno sussurrare in tema di immigrazione. Molti degli esponenti politici e degli autorevoli opinionisti che in queste ore bersagliano la chiusura di Lampedusa in nome della legge superiore del diritto umano avevano applaudito meno di due anni fa l’accordo del governo Gentiloni- Minniti che incaricava la Libia di chiudere quegli stessi esseri umani in lager tra i più disumani. Il balbettamento in materia è permanente e anche quella parte di sinistra, ormai ridotta a frangia, che invece non balbetta, evita di mettere in campo una possibile soluzione. Si limita a ripetere che il problema non esiste, e non è di solito la strategia migliore per comunicare con un popolo votante che invece il problema evidentemente lo avverte. L’immigrazione, pur rappresentando un problema specifico enorme in sé, è però solo la punta emergente di un iceberg di dimensioni ciclopiche. Sui rapporti con l’Europa, ad esempio, la situazione è identica. Sul modello di sviluppo, come il caso dell’accordo con Ancelor Mittal sull’Ilva concluso da Gentiloni e Calenda, anche. Sulle politiche del lavoro, problemino che tocca molti da vicinissimo, ben più della stessa immigrazione, è peggio che andar di notte. Forse sarebbe ora di ripartire dalla politica invece che da Simone e Carola. Dall’offerta politica invece che dal testimonial di turno pescato dove e come capita.
A sinistra spuntano le “nuove eroine”, ma è solo un trucco. Francesco Boezi il 29 giugno 2019 su Il Giornale. È complicato dare della radical chic a una piratessa con i rasta. Uno tende a immaginarsela sì a bordo di un’imbarcazione, ma non a sfondare blocchi navali e ad infrangere leggi. La stessa Carola Rackete ha ammesso di partire da una posizione agiata, ma attaccarla su questo aspetto saprebbe troppo di marxismo. E una persona che tiene davvero al valore supremo della libertà non può limitarsi – forse neppure dovrebbe – a verificare lo stato patrimoniale della famiglia di provenienza. Servono altri elementi. È il nuovo trucco comunicativo del radicalismo di sinistra: muovere da queste novelle protagoniste del progressismo, conoscendo bene come siano meno vulnerabili di altre figurine sul piano mediatico. Voi avete destrutturato prima e battuto poi Hillary Clinton perché troppo legata a certi potentati economico-finanziari? E allora noi rispondiamo, sostenendo un’ex bartender che si è fatta eleggere da sola, contro tutto il partito, a Brooklyn peraltro. Stiamo parlando di Alexandria Ocasio Cortez. La narrativa sorosiana sui migranti alimenta il dissenso dell’elettorato popolar-populista? Rafforza quei partiti? Nel dubbio, ecco spuntare un'”Antigone contemporanea” (a proposito: qui abbiamo provato a spiegare perché il paragone con la tragedia sofoclea non regge) che è disposta a mettere a repentaglio il suo futuro da libera cittadina pur di perseguire un ideale di accoglienza universale. Si tratta pure di un tentativo di normalizzare istanze che gli elettori occidentali hanno spesso respinto perché troppo contigue con stili di vita inavvicinabili per i più. Uno sguardo nelle tasche, quando si tratta di comprendere le ragioni dietro i comportamenti elettorali, bisogna darlo per forza, purtroppo. Così pure l’ecologismo diviene un espediente buono per far passare certi messaggi. Ecco spuntare una minorenne che è talmente tanto intrisa d’idealismo da non andare a scuola pur di cambiare questo mondo scelerato. Mettere in dubbio l’azione di Greta Thunberg significa essere ricoperti da un coro, quello sì greco per compattezza e uniformità, di critiche. Dall’attivista svedese ad Alexandria Ocasio Cortez, passando dalla “Capitana” della Sea Watch 3 e da Megan Rapinoe, capitana della nazionale femminile di calcio degli Stati Uniti, che continua ad attaccare Donald Trump a mezzo stampa: in questi giorni avete letto e leggerete, e molto, di ognuna di loro. Sono idealiste, ma sono anche “donne del fare”. Hillary Clinton – lo ripetiamo – ha insegnato che l’essere troppo accostabile all’establishment economico-finanziaria conduce a un’ineluttabile sconfitta. E allora bisogna cambiare. È l’escamotage individuato per le prossime fasi: sempre donne, ma abbastanza solide per storia e saldissime per credo politico. La sinistra, dovendo ragionare sul da farsi dopo un filotto di sconfitte davvero godibili per chi milita dall’altra parte, ha scelto il restyling. Se avete una trentina d’anni, siete donne, magari femministe, e non disprezzate il fatto d’incarnare il migrazionismo, l’estremizzazione dell’ambientalismo, il pauperismo e i “nuovi diritti” Lgbt, beh, questo è il momentum per scendere in campo. Federico Rampini va dicendo che la sinistra, per recuperare voti, deve smettere di essere il “partito dello straniero” e quello “della finanza”. Tornare a parlare agli operai del Midwest che hanno votato per The Donald potrebbe non essere una cattiva idea, insomma. Questi non hanno nessuna intenzione di modificare il loro palinsesto, che è tutto centrato su ideologismi e minoranze. Al massimo proveranno a cambiare i volti in grado di issare le medesime bandiere. Il compito dell’elettorato europeo ed americano, che è sempre più informato e sempre meno soggetto a raggiri comunicativi vari, è sin troppo semplice: non cascarci.
Carola e gli anti italiani. Andrea Indini il 29 giugno 2019 du Il Giornale. Cosa ci faceva una delegazione piddì su una barca pirata? E perché ora gli stessi progressisti si sono messi a intasare i media per difendere la capitana della Sea Watch Carola Rackete nonostante quello che ha fatto? Ancora una volta ci troviamo a che fare con italiani mossi da uno spirito profondamente anti italiano. Da subito la sinistra si è schierata al fianco di una ong straniera che, infrangendo ogni tipo di legge, è arrivata addirittura a forzare il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane, a speronare una nave della Guardia di Finanza e a obbligare il nostro Paese a far sbarcare i 53 immigrati clandestini che aveva recuperato al largo della Libia apposta per mettere in difficoltà il governo Conte. Lo sdegno, in certi casi, dovrebbe essere unanime. Ma così non è stato. Pur di andare contro Matteo Salvini, la sinistra ha, infatti, sposato la crociata di chi vuole il male dell’Italia e degli italiani. I vari Matteo Orfini, Graziano Delrio e Davide Faraone sono saliti a bordo della nave pirata solo per scattarsi qualche selfie con la capitana. Che, poi, dopo l’attacco alla motovedetta della Guardia di Finanza, hanno anche giustificato: “In caso di stato di necessità si possono anche violare le leggi”. Questa gente fa il male del nostro Paese. E con loro anche tutto il codazzo sinistro delle associazioni (Emergency, Acli, Anpi e così via), dei “preti di strada”, degli opinionisti e degli scrittori che per cieca ideologia sostengono una ong tedesca che si sente in diritto di calpestare le nostre leggi e insultare il nostro governo senza il timore di finire nei guai. Tanto i soldi per pagare le spese legali e le multe arrivano sempre dai portafogli di certi italiani. È l’atteggiamento anti italiano di questa gente che indebolisce il nostro Paese. E così succede che un quotidiano tedesco arrivi a definirci “plebaglia” perché vogliamo il rispetto delle leggi e che il premier olandese Mark Rutte si spinga addirittura a minacciare ritorsioni sul fronte economico, caldeggiando la procedura di infrazione per non farci alzare la voce sul fronte immigrazione. Quello che questi anti italiani non capiscono è che la Sea Watch 3 è stata una testa d’ariete. In queste ore il Mar Mediterraneo ha ripreso ad essere solcato dalla nave “Alan Kurdi” dell’ong tedesca Sea Eye e dalla nave “Open Arms” della ong spagnola Proactiva Open Arms. Stando ai dati del sito Marine Traffic, starebbero pattugliano il mare alla ricerca di immigrati da recuperare prima che vengano avvistati dalla Guardia costiera libica per poi portarli (ovviamente) in Sicilia. Tanto sanno di poter contare su una nutrita schiera di italiani disposti a svendere il proprio Paese in nome dell’ideologia terzomondista.
Renato Mannheimer per “il Giornale” il 30 Giugno 2019. La tormentata vicenda della Sea Watch ha riportato al centro dell' attenzione la questione, peraltro mai sopita, della regolazione dei flussi migratori. È infatti da molto tempo che gli italiani prestano una crescente attenzione alla problematica degli immigrati. E, malgrado le polemiche di questi giorni, il loro atteggiamento si è fatto sempre più severo nei confronti degli arrivi, anche di quelli di coloro che possono essere a tutti gli effetti considerati profughi da guerre o da eventi naturali. I risultati dalle ricerche sono eloquenti: se diversi anni fa prevaleva l' atteggiamento di apertura e grossomodo la metà degli intervistati dichiarava addirittura di approvare l' idea di «accogliere tutti gli immigrati, anche perché l' Italia è un paese cattolico», oggi questa percentuale è drasticamente crollata, sino a diminuire a meno del 20%. E si è di converso fortemente accresciuta la quota di chi dice che «dobbiamo respingerli tutti» o, come sostiene la maggioranza relativa, che «dobbiamo accettare solo i profughi da guerre o eventi naturali e respingere tutti gli immigrati per motivi economici». Insomma, siamo diventati sempre più contrari a nuovi arrivi (e alla permanenza degli irregolari) o, per alcuni, quantomeno molto più selettivi. Tra tutti i politici, Matteo Salvini ha saputo e voluto - più di altri cogliere e interpretare (e, spesso, stimolare) questo trend dell' opinione pubblica del nostro paese e farlo proprio in modo dirompente e talvolta provocatorio. Le sue scelte hanno suscitato, come si sa, molte critiche, ma la maggioranza degli elettori pare a tutt' oggi condividere la sua linea e le sue azioni. Ma il consenso alla «linea dura» va addirittura oltre la mera accettazione delle scelte del Governo: da un recente sondaggio (effettuato dall' Istituto EumetraMR, intervistando un ampio campione della popolazione al di sopra dei 17 anni di età) emerge come, secondo gran parte degli intervistati, l' azione dell' esecutivo appaia loro non solo positiva, ma addirittura ancora insufficiente rispetto alle esigenze del paese. E che vada incrementata. Quasi il 40% del campione intervistato nell' ambito dello studio afferma infatti che «Il Governo dovrebbe contrastare l' immigrazione in misura maggiore e più efficace». Quindi, in altre parole, intensificare (e non ridurre, come alcuni esponenti politici propongono) le scelte di freno rigoroso agli sbarchi. Lo dicono con maggiore frequenza gli uomini, le persone con basso titolo di studio e, come ci si poteva facilmente aspettare, gli elettori della Lega, ove questa convinzione raggiunge il 60%. Solo in parte meno convinti appaiono gli elettori di Forza Italia, tra i quali il 42% condivide l' opinione in questione. Seguiti dai votanti per il M5s ove il consenso raggiunge il 38%. Ovviamente ostili a questa presa di posizione sono invece gli elettori del Pd, ove essa convince solo il 14%. Sul fronte opposto delle opinioni, il 29% degli intervistati nel sondaggio sostiene invece che «Il Governo dovrebbe ridurre le politiche di contrasto all' immigrazione» (lo dicono, com' è intuitivo, in particolare gli elettori del Pd), diminuendo cioè l' intensità della propria azione. Mentre il restante 23% (oltre al 9% di chi non sa o non vuole esprimere un' opinione al riguardo) assume una posizione di soddisfazione per la situazione attuale senza volerla cambiare granché, dato che sostiene che «l' azione del Governo nei confronti dell' immigrazione va bene così com' è ora». In definitiva, nell' insieme, oltre il 60% dei cittadini approva le scelte dell' esecutivo o le vorrebbe ancora più restrittive. Dunque, anche sulla base di questi risultati - che, come si è detto, non fanno che confermare un trend dell' opinione pubblica in atto da tempo è facile comprendere come il tema dell' immigrazione rappresenti oggi uno dei più trattati nella comunicazione politica e che lo sarà probabilmente anche nei prossimi mesi. Ancora, questi dati suggeriscono come le scelte di Salvini corrispondano almeno sino a questo momento al sentiment prevalente tra la popolazione e gli portino quindi una seguito considerevole. È ragionevole pensare, quindi, che anche l' episodio della Sea Watch e i suoi ultimi sviluppi finiscano, in fondo, forse, col favorire (paradossalmente, se si vuole) lo stesso leader della Lega.
Guido Crosetto attacca i sinistri: "Fanno finta di interessarsi ai derelitti e poi si vendono i bambini...". Libero Quotidiano il 29 Giugno 2019. "C'è gente che fa finta di interessarsi ai poveri, ai derelitti, al volontariato e poi si vende i bambini...". Guido Crosetto con un post sul suo profilo Twitter attacca i colleghi del Pd, quelli che salgono sulla Sea Watch, che stanno sempre e comunque dalla parte delle Ong e poi invece, come nel caso di Reggio Emilia, si mettono a vendere bambini. Una frase molto forte quella del "fratello" d'Italia che ha suscitato molte reazioni sui social. "Ma i media a reti unificate hanno fatto cadere tutto nell'oblio", scrive uno. "Le uniche vittime sono i clandestini del peschereccio di una sbruffona sguaiata e criminale, ma elevata ad eroina dalla sinistra radical chic. Sono questi ultimi il cancro del nostro Paese".
Sea Watch, Roberto Saviano ringrazia Carola Rackete e Diego Fusaro: "Nessuna protesta per gli operai italiani". Libero Quotidiano il 29 Giugno 2019. "Carola, hai obbedito alla legge degli Uomini, gli stessi Uomini che più di 70 anni fa seppero scacciare nel buco nero della storia quelli che oggi rialzano la testa.Grazie per aver messo il tuo corpo in questa battaglia di civiltà", scrive su Twitter Roberto Saviano ribadendo per l'ennesima volta di stare dalla parte di Carola Rackete, la capitana tedesca della Sea Watch. Ma il filosofo Diego Fusaro lo asfalta con un cinguettio feroce: "No, caro bardo cosmopolita. La signorina Carola ha obbedito alla medesima legge cui obbedisci tu, d'in su la vetta dell'attico cerimonioso di Nuova York: la legge del capitale. Quella per cui le sofferenze degli operai della Whirlpool di Napoli non valgono una sola vostra protesta".
Domenico Quirico per “la Stampa” il 29 giugno 2019. Dico la verità: dopo otto anni passati a raccontar i migranti, a camminare insieme, a spartir tutto con il primo di loro che piangesse lacrime nel deserto o tra le onde del mare, non provo simpatia per Carola, capitano della Sea Watch. Non credo ci sia grandezza, neppure tragica, nell' errore. C'è solo l' errore e il danno per la causa per cui ci si batte. Non voglio indignarmi, accusare: la Buona Causa resta quella e non la rinnego, gli xenofobi, sabbia arida, alghe putride, non mi avranno. Ma non mi schiero con la giovane attivista tedesca, il suo sbandierato umanesimo a tempo pieno, il narcisismo fanatico della sua misericordia. Non salgo sulla sua nave. Attenta, vorrei avvertirla, stai redigendo, con il micidiale fanatismo delle buone intenzioni, il manifesto propagandistico perfetto per i razzisti. Alla fine, temo, i quaranta sventurati passeggeri, che ancora una volta non contano, vedranno crescere il loro affanno di tagliati fuori. E questa sarà l' ennesima sconfitta. Le instillo un dubbio: oggi esser virtuosamente sovversivi non è violare la Legge ma obbligare chi è al potere a rispettarla. Si invoca, a sproposito anche per lei, Antigone e la sua disobbedienza morale: dimenticando che, poi, alla fine del dramma, Creonte, il tiranno, resta al potere. Dopo otto anni, scudisciati da delusioni e amarezze, è giunto il momento di riconoscere che il peccato originale è stato credere che si potesse vincere la battaglia sulla Migrazione utilizzando l' arma della pietà, della empatia verso chi soffre. E' stato anche il mio errore. La compassione non dimostra nulla. Non porta a nulla. Non credo più all' efficacia di queste reazioni di natura animale. La compassione, anche se grande, come avviene nel buon medico, deve passare oltre la piaga che si vuole sanare. Palpare e non ascoltare i gemiti. Suturare. Comporre. Guarire. Questo conta. Il capitano della Sea Watch è solo l' ultimo di una schiera di persone di buona volontà ma cieche che ha consegnato i migranti a Salvini, legati mani e piedi con i lacci della loro pietà. Perché anche loro cercavano nel migrante il tornaconto, l' esito, il successo. Per otto anni si è chiacchierato, soddisfatti samaritani, in una (mediocre) rive gauche progressista, ripetendo fino allo sfinimento quanto erano giuste profonde belle le nostre ragioni di fronte al cupo e sgangherato barrire dei ciurmadori e degli ignoranti. Occorreva invece domandarsi (dovrebbe farlo anche Carola): è questa pietà, che porta sempre dentro un quoziente di disprezzo altezzoso, che cercano gli uomini e le donne che sopravvivono al mare? O sono invece naufraghi fuggiti dal vasto mondo dove vige il non diritto che cercano disperatamente di entrare nel mondo del diritto? Dove l' arresto deve essere legale, la tortura è punita, il potere controllato, la corruzione reato, il muoversi scelta libera. Un sistema, quello, che arrota, decapita, uccide. Questo invece dovevamo garantir loro: il diritto. La battaglia con gli altri, i negatori e gli egoisti dei diritti, non si combatteva sull' esser più buoni. Ma con una azione maieutica, pedagogica, paziente, nel denunciare e esigere la correzione delle violazioni che loro commettono: i decreti sicurezza che colano macroscopiche deviazioni illiberali e incostituzionali, redatti da frettolosi azzeccagarbugli sovranisti; lo scandalo, giuridico, di appalti repressivi affidati a Stati in mano a bande criminali come la Libia; le violazione fragranti del diritto internazionale commesse nel riconsegnare i rimpatriati a Stati canaglia; i fraudolenti ritocchi di un mostruoso diritto etnico che vale solo per gli italiani. Ci volevano giuristi attenti e implacabili, non pasionarie e commozioni, che sono fuoco fatuo, sdegno o fiaba. Era quella la strada, procedere secondo la applicazione della Legge più alta, che è diritto positivo non fatua retorica: tutti gli uomini hanno diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Conosciamo l' album della nostra Storia: è un codice di leggi, sfogliamolo.
Giampiero Mughini per Dagospia il 29 giugno 2019. Caro Dago, è tutta la mattina che leggo gli articoli di chi scrive di Carola-Antigone a cominciare dall’autorevole Domenico Quirico che voi avete messo in pagina, dal fiammeggiante come di consueto Giuliano Ferrara a un magnifico articolo di Massimo Fini sul “Fatto”. Sì o no la Capitana ha fatto bene a violare leggi e confini pur di mettere a riposo 40 poveri disgraziati che da oltre due settimane rullavano sulle onde del Mediterraneo? Sì o no, per dirla con Quirico, quello di Carola è “il narcisismo fanatico della sua misericordia”? Sì o no in quell’atto finale del suo attracco a Lampedusa, lei ha messo in pericolo la vita di quei funzionari italiani che su una motovedetta (perché questo era l’ordine ciarlatanesco che veniva del ministero degli Interni) hanno cercato di ostare con il proprio corpo all’arrivo dei 40 poveri disgraziati divenuti la carne da cannone di tutta intera la politica politicante del nostro governo? Condivido in toto gli argomenti addotti da Quirico, come sempre un maestro negli argomenti di cui si occupa. E con tutto questo non riesco a non essere d’accordo con la capitana Carola, con la sua decisione di andare fino al molo di Lampedusa e attraccare. Attraccare, in modo che scendano giù quei 40 poveri disgraziati sulla cui pelle stiamo ricamando le ragioni del pro e del contro di tutta questa tragedia. Perché di una tragedia si tratta, e a parte la farsa di chi tuona che la Sea Watch andrebbe “affondata” e lo fa per raccattare qualche voto in più per quando si siederà al tavolo dei vincitori e per quanto ciarlatani. Quei 40 poveri disgraziati. Di loro mi sono occupata e dei 21 membri del mio equipaggio, ha detto la Capitana. E difatti io fossi stato Salvini e avessi le sue idee, avrei fatto quanto segue. Mi sarei fatto portare da una motovedetta fino alla Sea Watch e le avrei indicato la strada fino al porto di Lampedusa, dicendole che noi italiani siamo meglio degli olandesi che dei 40 disgraziati non ne vogliono sapere, razza di bastardi che Erasmo da Rotterdam si sta rivoltando nella tomba. Che noi italiani un quinto di quei 40 poveri disgraziati li prendiamo e gli altri li facciamo arrivare ai Paesi che si sono dichiarati pronti a riceverli. Prontissimi, e perciò non c’è bisogno di attracchi audaci e di motovedette che rischiano di essere distrutte. Che tutto è molto semplice, che la legge del mare che vale da secoli vale ancora oggi. Chi è in pericolo, deve essere messo al riparo, punto e basta; i discorsi seguiranno. Avesse fatto così, Salvini avrebbe fatto bingo senza smettere per un secondo di essere “sovranista”, dato che ci tiene tanto e anche se non significa nulla. E dunque. Grazie capitana, della sua ostinazione. Grazie Italia della tua intelligenza e generosità, e anche se questa volta l’Antigone che va oltre il dettato delle leggi è una ragazza olandese. Una che fa parte delle élites bianche e occidentali del nostro tempo, una delle migliori razze mai esistite al mondo. (Io ne faccio parte.) Una che nell’aver torto ha avuto perfettamente ragione (Massimo Fini dixit). Una che parla cinque lingue e che lo sa che il mondo è un tutt’uno, e noi di quel mondo facciamo parte. Non dell’una o dell’altra fazione ciarlatanesca.
Giampiero Mughini per Dagospia il 30 giugno 2019. Caro Dago, io che non sono mai stato un vero giornalista e che nello scrivere sui giornali ho sempre aspettato che la cronaca diventasse storia, adesso sono ore e ore che fremo quanto alla sorte della magnifica capitana Carola. Fremo da italiano, da cittadino repubblicano di un Paese che in questo momento presenta al mondo aspetti allarmanti. Mi riferisco in particolare alla turba sciagurata che ha accolto Carola tempestandola di insulti del tenore che sapete. Quando ieri voi di Dagospia avete postato l’articolo che riferiva il comportamento di questi indecenti energumeni, mi sono stupito che non lo aveste messo a modo di insegna un occhiello così: Monnezza contemporanea. C’è della monnezza nel regno di Danimarca, in questo miscuglio di realtà e virtualità che è il nostro. Monnezza, non c’è un altro termine. Veniamo subito al dunque. La capitana Carola stava facendo un’azione perfettamente consona alla legge del mare. Stava portando in salvo 40 esseri umani _ ho detto esseri umani _ che da due settimane rullavano sulle onde, disponevano di un unico bagno chimico, dormivano per terra, minacciavano di suicidarsi. A quel punto di questo spaventevole romanzo contemporaneo, la soluzione in realtà c’era. Quattro o cinque Paesi europei avevano già accettato ciascuno una quota parte dei 40 esseri umani. A quel punto il ministro dell’Interno di un Paese che si vuole umanamente decente non ha altro da fare che accogliere la capitana e il suo carico, dicendole che l’Italia ha esperienza di esseri umani partiti alla disperata per lidi migliori, Usa e Argentina eccetera. Era risolvibilissimo, era facilissimo da uscirne tutti a testa alta, e la capitana e l’Italia che noi amiamo e che non è certo rappresentata da quel mucchietto di monnezza sul porto di Lampedusa. Purtroppo non abbiamo un ministro dell’Interno di questa levatura, non ce l’abbiamo e sta parlando uno che mai nella vita userà una parola insultante nei confronti di Matteo Salvini, e questo perché gli insulti volgari sono robaccia da dementi e insozzano la bocca di chi li pronuncia. E invece contro la capitana Carola è stata sguinzagliata una motovedetta abitata da finanzieri italiani che per quattro soldi erano lì a rispettare un ordine venuto dall’alto. Un ordine indecente, un ordine insultante, un ordine che va contro la legge del mare. Non fare attraccare a qualsiasi costo al mondo quel carico di poveri disgraziati. La manovra della capitana si è fatta concitata in quei momenti drammaticissimi, la Sea Watch ha urtato la motovedetta: non certo con l’intenzione di speronarla, di mettere in pericolo la vita dei nostri finanzieri, dei nostri amatissimi concittadini che stavano facendo il loro dovere. L’ha urtata perché può succedere nell’ultima di un romanza che nessuno avrebbe mai dovuto scrivere. Pena da tre a dieci anni per Carola? Non bestemmiamo. C’è una tragedia in atto nel Mediterraneo, nel “mare nostrum”, ossia nel mare dove è nata la civiltà umana, nascita di cui gli italiani del tempo sono stati grandi protagonisti. Un abbraccio ai nostri finanzieri, un abbraccio a Carola. Che mai e mai e mai vorremmo su un banco degli accusati. E’ stata magnifica.
Sea Watch, il procuratore Patronaggio: "Carola Rackete contro i finanzieri, gesto volontario". Libero Quotidiano il 2 Luglio 2019. "Lo abbiamo ritenuto un atto condotto con coscienza e volontà". Così il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, ha commentato in conferenza stampa l'urto tra la nave Sea Watch 3 e la motovedetta della Finanza avvenuto durante l'approdo a Lampedusa della nave, con 40 migranti a bordo, deciso per "motivi umanitari" dal capitano, Carola Rackete, nonostante il divieto delle autorità italiane. Una decisione per la quale il comandante della Sea Watch è ora indagata ad Agrigento, con l'accusa di rifiuto di obbedienza a nave da guerra, resistenza o violenza contro nave da guerra e navigazione in zone vietate e ritenuta non necessaria dai magistrati. "La Sea Watch, attraccata alla fonda, aveva già ricevuto assistenza medica ed era in continuo contatto con le autorità marittime e militari per ogni tipo di assistenza, per cui non versava in stato di necessità", ha detto il procuratore al termine dell'interrogatorio di convalida dell'arresto. la decisione del Gip arriverà nella giornata di martedì. Per il reato relativo al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina si procederà separatamente.
Patronaggio: solito noto.
Il pm Patronaggio in Senato: «Mai provato il legame tra le ong e gli scafisti». Pubblicato martedì, 02 luglio 2019 su Corriere.it. Necessità di varare un decreto sicurezza-bis? Non pare, visto che gli sbarchi sono in netto calo e quelli effettuati dalle ong sono «insignificanti»: è quanto ha riferito in commissione affari costituzionali del Senato il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, uno degli stessi che in queste ore si sta occupando del caso Sea Watch e della comandante Carola Rackete. Sui requisiti di «straordinaria necessità e urgenza» del decreto sicurezza bis, i dati di Agrigento indicano che «dagli 11.159 migranti sbarcati nel 2017 si è passati ai 1.084 del primo semestre di quest’anno. E quelli soccorsi dalle ong rappresentano una porzione insignificante» ha detto Patronaggio ai senatori.«Le finalità del dl sicurezza bis sono assolutamente condivisibili per quanto riguarda il contrasto al traffico di esseri umani», ma non vi erano «le condizioni di straordinaria necessità e urgenza» che giustificano la decretazione di urgenza. Se poi l’obiettivo che viene colpito sono coloro che fanno salvataggi in mare «ci sono profili di criticità con il diritto internazionale e diritto interno. È evidente - ha aggiunto - che il legislatore può fare quello che crede ma ciò non può prescindere da trattati internazionali e da quanto stabilito dalla Costituzione». Il magistrato ha poi aggiunto che mentre era in corso il braccio di ferro sulla Sea Watch, a Lampedusa sono arrivati 200 persone con barchini oppure salvate da Guardia di Finanza e Guardia Costiera. Altro particolare aggiunto dal pm.non è stato mai provato il legame tra ong e trafficanti : «L’attività delle ong potrebbe essere considerata illecita solo nel caso di un accordo preventivo tra trafficanti e ong, cosa finora mai provata».
L'assist di Patronaggio alle Ong: "I porti libici non sono sicuri". Il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio a Roma risponde in audizione alla Commissione Affari Costituzionali della Camera: "I porti libici non possono essere considerati sicuri". Intanto l'indagine su Carola Rackete va avanti. Mauro Indelicato, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. Mentre la procura di Agrigento è ancora una volta sotto i riflettori sul caso Sea Watch ed all’interno del palazzo di giustizia proseguono le indagini su Carola Rackete, il procuratore della città dei templi Luigi Patronaggio è chiamato a parlare a Roma nel corso di un’audizione presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera. Un’audizione importante per il magistrato impegnato nell’ultimo anno con alcuni dei casi più spinosi riguardanti il fenomeno dell’immigrazione: dal mancato approdo della Diciotti al braccio di ferro con la Mare Jonio, fino all’ultimo episodio che riguarda per l’appunto la nave Sea Watch 3 e che fino a ieri tiene impegnato Patronaggio per via dell’interrogatorio alla Rackete. È per questo forse che la Commissione Affari Costituzionali vuole sentire il procuratore di Agrigento sul decreto sicurezza bis. E di certo lo stesso Patronaggio non manca di dare spunti non indifferenti, alcuni dei quali riguardano per l’appunto il caso Sea Watch. A partire da un passaggio importante dell’audizione del magistrato, inerente la considerazione da attribuire ai porti della Libia: “Quelli libici – dichiara infatti Patronaggio, così come riporta l’agenzia Agi – Non possono essere considerati sicuri. Non sono porti dove il migrante possa avere garantiti tutti i diritti fondamentali della persona”. Una frase che subito crea “rumore”: proprio nel corso della conferenza stampa immediatamente successiva all’interrogatorio di Carola Rackete, Patronaggio afferma che la sua procura è impegnata nella verifica della sicurezza dei porti libici. Questo perché gli inquirenti vogliono verificare i motivi per i quali la Sea Watch è presente in acque Sar libiche e, conseguentemente, capire se vi sono contatti tra la Ong e gli scafisti. Un passaggio importante dell’inchiesta, un binario parallelo rispetto all’indagine che vede coinvolta Carola Rackete per lo speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza avvenuto nella notte tra sabato e domenica a Lampedusa. Un filone che vede la stessa Rackete indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La procura di Agrigento, in questi giorni, sta acquisendo tutto il materiale necessario per proseguire lungo questo sentiero delle indagini, i cui contorni vengono tracciati soprattutto nelle ore a cavallo dell’interrogatorio della ragazza tedesca. Ecco quindi perché la dichiarazione di Luigi Patronaggio suona come molto importante sotto un profilo mediatico e non solo. Una considerazione, quella sui porti libici, in linea con quanto affermato dal ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, secondo cui scandagliando il diritto internazionale “si riscontrano oggettivi elementi che non possono far considerare la Libia come porto sicuro”. Ma è anche vero che l’affermazione di Patronaggio sopra riportata può in qualche modo essere rilevante solo in minima parte per quanto concerne l’inchiesta attualmente in corso su Carola Rackete. Lo stesso procuratore infatti, proprio poco dopo l’interrogatorio della capitana della Sea Watch, fa sapere di non riscontrare al momento elementi che possano portare ad un qualche stato di necessità volto a giustificare non solo la forzatura della Rackete di entrare a Lampedusa, ma anche la presenza stessa della Sea Watch in acque di competenza libiche. I porti libici possono anche considerarsi non sicuri dunque, ma è la stessa procura di Agrigento a voler verificare il motivo della presenza del mezzo dell’Ong nella Sar libica. Anche perché, a prescindere, la Sea Watch si vede rigettare, nel corso dei 15 giorni di permanenza in alto mare, sia un ricorso al Tar e sia uno alla Cedu in cui ad essere chiesto in entrambi i casi è il via libera all’ingresso in acque italiane. Un indizio che porta la procura agrigentina a non ravvisare gli estremi dello stato di necessità per l’approdo a Lampedusa.
Sea Watch, Salvini contro Patronaggio: "Denuncio chi ha aperto i porti". Il procuratore fa sbarcare i migranti della Sea Watch senza avvisare il Viminale. L'ira di Salvini: "Così agevola l'immigrazione clandestina". Andrea Indini, Lunedì 20/05/2019, su Il Giornale. "È un Paese strano...". Matteo Salvini non si lascia andare allo sconforto, ma è ancora visibilmente irritato per quanto accaduto ieri. Lo sbarco non programmato degli immigrati che si trovavano a bordo della Sea Watch avrà sicuramente conseguenze pesanti. Contestualmente al sequestro della nave, la procura di Agrigento guidata da Luigi Patronaggio ha chiesto di trasbordare i clandestini e affidarli alla Questura, andando contro la volontà del ministro dell'Interno che lo è venuto a sapere a cose fatte, mentre era ospite di Giletti a Non è l'Arena (guarda il video). "Se c'è favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, chiunque agevoli sbarchi di immigrati irregolari dovrà vedersela con la legge", ha avvertito il vicepremier leghista rispondendo ai microfoni di Coffee break alla domanda se avesse intenzione di denunciare Patronaggio. Per Salvini far scendere altri immigrati dalle navi delle ong è "un segnale pericoloso" perché, "se gli scafisti vedono che ce la fanno, mettono altre donne e bambini in acqua". Il colpevole, a questo giro, ha un nome e un cognome: Luigi Patronaggio, il procuratore di Catania che in passato aveva già indagato il ministro dell'Interno accusandolo di sequestro di persona per il caso della nave Diciotti. "Non gli sono in massima simpatia", ha ironizzato il vice premier leghista che sull'affaire Sea Watch vuole andarci a fondo prima di tutto per capire se dietro c'è la manina dei Cinque Stelle e in secondo luogo per inchiodare la magistratura ai propri blitz che valicano l'operato del governo. "Il procuratore ha preso questa iniziativa, senza avvisare il ministro dell'Interno che non ha dato alcuna autorizzazione", ha denunciato il vice premier leghista su La7. "Se c'è favoreggiamento, chiunque agevoli gli sbarchi di immigrati irregolari dovrà vedersela con la legge". Ora che la Sea Watch 3 è stata sequestrata, Salvini pretende dalla procura di Catania un'azione eclatante per mettere fuori gioco l'ong tedesca. La stessa imbarcazione era già stata sequestrata. Eppure, una volta tornata in libertà, aveva ripreso le scorribande nel Mar Mediterraneo. "Le navi pirata illegali - ha intimato a Coffee break - devono essere messe in condizioni di non essere più utilizzate". E alle politiche buoniste dei "porti aperti", ha quindi contrapposto le politiche del rigore. Che fin qui "hanno salvato vite". E, snocciolando i dati del Viminale, ha zittito chi in queste ore continua a criticarlo: "I numeri dicono che grazie alla politica del rigore e dei porti chiusi abbiamo ridotto del 90% i morti e i dispersi in mare e non solo gli sbarchi. I porti aperti creavano il disastro, come ricorda Papa Francesco, la politica dell'attenzione salva vite".
Il migrante di Sea Watch "Carola brava ragazza Ma Salvini ha ragione..." Khadim Diop è uno dei migranti sbarcati dalla Sea Watch: "Gli altri Stati devono fare di più. Non può accogliere solo l'Italia". Angelo Scarano, Lunedì 01/07/2019 su Il Giornale. "Carola è una brava ragazza, ma Salvini ha ragione". A dirlo è uno dei migranti che sono sbarcati dalla Sea Watch qualche giorno fa. Khadim Diop, 24 anni, originario del Senegal è stato intervistato da Euronews proprio qualche ora dopo lo sbarco che così tanto ha fatto discutere e che ha portato all'arresto della capitana della nave, Carola Rackete. Il migrante 24enne conosce bene le dinamiche politiche che vanno a determinare la gestione dei flussi migratori. Di fatto, pur ringraziando la capitana e l'equipaggio di Sea Watch per l'assistenza che gli è stata offerta a bordo della nave, Diop parla anche di Salvini e condivide le ragioni delle proteste del ministro degli Interni che chiede più impegno da parte dell'Europa per la redistribuzione dei migranti: "Conosco Salvini, in realtà credo che abbia in parte ragione". Parole chiare che danno un punto di vista diverso su questa vicenda che tanto ha fatto discutere. Diop ha capito che la questione migratoria non riguarda soltanto l'Italia ma tutta l'Europa. E sa bene che i migranti che spesso vengono salvati in quel tratto di mare che separa il nostro Paese dalla Libia, spesso arrivano proprio sulle nostre coste con l'aiuto delle Ong. E così, lo stesso Diop parla di Salvini e condivide le richieste che fa il titolare del Viminale: "Vuole che l'Europa faccia la sua parte sui migranti. La Germania deve prenderne una quota, così come la Francia e gli altri paesi. Non si può lasciare fare tutto all'Italia. C'è crisi ovunque, non è facile per nessuno". Poi racconta gli ultimi giorni (tesi) a bordo della Sea Watch. Parla anche di Carola e di quelle discussioni con i libici dopo il rifiuto da parte della capitana di approdare a Tripoli. Diop sottolinea il sostegno ricevuto da Carola: "Lei ci diceva sempre di non preoccuparci, che non saremmo tornati indietro ma che ci avrebbe portato a destinazione". E ancora: "L'Unione europea dovrebbe lodarla". Intanto la Rackete questa mattina è stata trasferita da Lampedusa ad Agrigento dove sarà ascoltata dai magistrati nel corso dell'interrogatorio. Dovrà chiarire tutte le circostanze dello sbarco e soprattutto le manovre spericolate fatte con la nave nel porto di Lampedusa. L'ingresso nel porto ha messo a rischio l'incolumità dei finanzieri a bordo della motovedetta che ha tentato di bloccare l'attracco della nave.
Carlo Nordio per “il Messaggero” il 30 giugno 2019. Due giorni fa, scrivemmo su queste pagine che la plateale violazione di legge della Sea Watch costituiva una provocazione programmata verso il nostro Paese. Non pensavamo che l'irresponsabile arroganza della sua capitana sarebbe giunta al punto di sfidare una nostra imbarcazione militare con un gesto che, in altri Paesi, le sarebbe costato ben peggio di un comodo arresto domiciliare sotto il cielo di Lampedusa. E' sufficiente vedere le immagini in rete per capire che, se la nostra motovedetta non si fosse fortunosamente sfilata dalla banchina, le conseguenze dell'attracco illecito e sconsiderato sarebbero state ben più gravi di un semplice danneggiamento all'imbarcazione. Ora sarà la Magistratura a definire le responsabilità penali di Carola Rackete, per la quale qualche anima bella ha evocato l'esempio di Antigone, che vìola consapevolmente le norme del tiranno contrarie alle leggi non scritte - i famosi àgrafoi nòmoi - scolpite nella coscienza di ciascuno. Esempio improprio e inconsistente, perché Antigone vìola, appunto, le leggi di un tiranno, mentre le nostre sono state promulgate dal Parlamento con la procedura prevista dalla Costituzione «più bella del mondo», e poi perché Antigone, come Socrate, si sottomette tranquillamente al supplizio, senza volerne uscire con un'aureola politica. In ogni caso, chiunque abbia un minimo di rispetto per il nostro Paese - e non si limiti a sgolarsi con l'Inno Nazionale durante i campionati - non può che reagire sdegnato davanti a tanta vituperevole e sfrontata prepotenza. Riservato dunque il quesito giuridico agli addetti ai lavori, resta l'aspetto politico. E qui le considerazioni da fare sono due. La prima è l'esito del conflitto tra il Capitano e la Capitana. Noi avremmo preferito, e lo abbiamo scritto, che il ministro dell'Interno, davanti a una così grave violazione della nostra sovranità nazionale, avesse reagito con compunta severità istituzionale, magari chiedendo al Parlamento - e successivamente all'Europa - di pronunciarsi in modo chiaro e distinto sulla tollerabilità o meno di questa impresa piratesca. Sarebbe anche stato utile chiarire se molti parlamentari, che impartiscono quotidianamente lezioni sulla legalità, fossero schierati con il nostro ordinamento positivo o con il volatile solidarismo dell'esuberante tedesca. Temevamo anche che Salvini - non certo in quanto leader di un partito ma siccome rappresentante dello Stato - declassasse al rango di un'avventurosa bravata dannunziana quella che secondo noi era un'evidente sfida alla nostra dignità. E molte ragioni giustificavano questi nostri timori, non ultime la consueta indifferenza dell'Europa, la sfacciata risposta dell'Olanda, e - peggio di tutte - l'incredibile processione penitenziale a bordo della nave di alcuni nostri esponenti politici. Alla fine la situazione è stata risolta dalla stessa Capitana, che ha dimostrato di non perseguire l'estetizzante decadentismo eroico del Vate, ma una vera e propria azione di forza a costo di rischiare un naufragio. Così, il consenso che auspicavamo arrivasse alle nostre Istituzioni dal Parlamento e dall'Europa, è arrivato direttamente a Salvini proprio dalla Rackete, che non avrebbe potuto inventarsi espediente migliore per provare al mondo sia le frottole precedentemente diffuse sullo stato dell'imbarcazione (dove «il cuoco di bordo ha distribuito - così abbiamo letto ieri - couscous, zuppa allo zenzero e panzerotti fritti al formaggio») sia le sue reali intenzioni provocatorie e violente. Qualcuno potrà ora compiacersi perché lo sbarco, alla fine, è avvenuto. Ma d'ora in avanti, con questo precedente, sarà ben difficile che una Ong possa accostarsi alle coste italiane. Così, mentre sembrava impantanato in una situazione senza uscita, Salvini ha trionfato su tutta la linea. Non così si può dire del Partito Democratico. E questa è la seconda considerazione politica. Questo partito, con l'abile ed efficiente Minniti, aveva dimostrato di aver avuto cervello, coraggio e volontà: Minniti aveva infatti capito benissimo il problema, aveva altrettanto bene scelto la strada della collaborazione con la Libia, e vi aveva dato attuazione con l'encomiabile fermezza di un vecchio comunista. Questo patrimonio non solo di severità, ma di serietà, è stato clamorosamente dissipato con la cerimonia della sfilata dei suoi compagni a bordo della Sea Watch. Ed è motivo di profonda delusione constatare che, ogniqualvolta questo partito prova ad affrancarsi dal massimalismo grezzo delle sue vecchie utopie, viene inevitabilmente risospinto nella palude dell'irenismo inconcludente e confusionario. Come altrimenti si potrebbe definire questa benevolenza cortigiana verso una comandante che aveva già violato le nostre leggi, e proclamato di volerle ancora violare, quando, fino a pochi mesi prima, si era avallata una strategia completamente diversa? Possiamo supporre un estremo tentativo di captazione di consensi tra qualche grillino deluso. Ma possiamo anche immaginare la desolazione del povero Minniti, che avrà contemplato, come Geremia nel noto quadro di Rembrandt, la distruzione della sua Gerusalemme mediterranea costruita con tanta abilità e tanta fatica.
Concludo. Sarebbe un errore se, ancora una volta, affidassimo alla Magistratura la soluzione di questa vicenda. Carola Rackete è, per principio costituzionale, presunta innocente, come son tutti gli indagati, anche quelli arrestati in flagranza di reato. Gli addebiti saranno specificati solo dopo un'attenta lettura degli atti, e la concomitanza di leggi succedutesi nel tempo può prospettare varie soluzioni. Ma al di là del giudizio penale - dal quale ci auguriamo che la Capitana non esca come una paladina ma nemmeno come una terrorista - resta la perniciosa confusione politica che questa storia ha creato. A fronte di un governo che - almeno in questo - ha dimostrato una responsabile unità, sta un'opposizione, ovviamente quella di sinistra, disorientata e sconcertante, che non si accredita come alternativa credibile né oggi né probabilmente domani. La parata dei compagni di Renzi, che un tempo avevano dimostrato moderazione e realismo, è naufragata - come rischiava di naufragare la motovedetta della Finanza - davanti alle sconsiderate manovre di Carola Rackete. E quella che nelle loro intenzioni voleva essere un'operazione di salvataggio, si è convertita in un involontario soccorso a Salvini.
Vincenzo Iurillo per il “Fatto quotidiano” il 30 giugno 2019. È una "toga rossa" in pensione e collabora con l' Osservatorio Internazionale offrendo assistenza legale gratuita ai perseguitati politici e religiosi del Nordafrica. Dunque, Nicola Quatrano non può certo essere tacciato di simpatie salviniane o sentimenti sovranisti. Eppure l'ex pm della Tangentopoli partenopea degli anni '90, non le manda a dire a Carola Rackete, a Sea Watch e a una sinistra che "non capisce niente di quel che sta accadendo e si riduce a fare il tifo pro o contro il personaggio del momento".
Hanno fatto bene ad arrestare la capitana?
«In flagranza di reato, l'arresto ci può stare. Dubito che possano ravvisarsi esigenze cautelari che ne consentano la prosecuzione, ma non mi pare che Carola Rackete sia un'eroina».
Pd e sinistra l'hanno difesa, fino a salire sulla Sea Watch.
«Da uomo di sinistra dico che è sconfortante l'incapacità della sinistra di proporre un ragionamento sensato sui temi della gestione dei flussi migratori, limitandosi a fare il tifo da stadio pro la capitana e contro Salvini, sulla pelle dei poveri 42 profughi».
Perché la capitana Rackete non è un' eroina?
«Premessa: le Ong nella maggior parte dei casi sono organizzazioni che ricevono finanziamenti dai governi. Non è il caso della Sea Watch, della quale mi sono andato a leggere i bilanci. Però tutte le Ong hanno una loro agenda politica ben precisa e la capitana Rackete, in nome della sua Ong, ha deciso come una bulla di imporre l'agenda politica della sua Ong: costringere l'Italia ad accogliere i 42 profughi. Altrimenti non si spiega perché, pur sapendo che il porto di Lampedusa sarebbe stato chiuso per chissà quanto tempo, non si è diretta a Tunisi, in Grecia, in Turchia o in Israele. Nossignore: ha girato intorno all'isola per 14 giorni fino a quando gli eventi in qualche modo non l'avrebbero costretta a entrare in Italia. E anche questo è un reato».
Quale?
«Dal punto di vista penalistico, si chiama violenza privata. È il reato che si commette quando si costringe qualcuno a fare qualcosa che non vuole fare. E secondo me dovrebbe rispondere anche di questo davanti al giudice».
Come giudica l' operato del ministro Salvini?
«Anche lui si è mosso come un bullo, il capo ultrà di una curva. Al ricatto della capitana ha reagito animando un braccio di ferro, senza capire che un vero statista, come lui pretende di essere e non è, non gioca sulla pelle di 42 profughi e che ci sono ricatti ai quali bisogna cedere, quelli che riguardano la vita delle persone. Un comportamento irresponsabile».
Come invece giudica il comportamento della sinistra?
«Non ha capito niente. Se bisogna accettare i ricatti quando in ballo ci sono vite umane, bisogna però chiamare le cose col loro nome. E un ricatto va chiamato ricatto. La sinistra ha sbagliato nell' ergere a ruolo di eroina una ragazza che ha compiuto un ricatto, compatibile con la mission della sua Ong e basta: prendere i profughi e portarli in Italia, e solo in Italia. Lo hanno deciso loro, quelli della Sea Watch, e basta. Contribuendo anche loro a mettere a repentaglio la vita dei 42 profughi».
Nessuno ne esce bene.
«Tranne per fortuna i 42 profughi, finalmente al sicuro.
Politicamente chi ne esce meno peggio?
«Temo che questa vicenda abbia fatto guadagnare a Salvini molti punti percentuali in più nei consensi».
E perché vanno peggio i tifosi della capitana?
«Perché la risposta ai temi complessi della gestione dei flussi migratori non può essere l' accoglienza tout court e basta. Nessun Paese al mondo può dire "venite tutti qui", per la semplice ragione che non è possibile. Bisogna riaprire una vertenza con l' Ue, ridiscutere la redistribuzione dei migranti, e una trattativa seria non si può aprire attraverso ricatti e ricattini, forzando i blocchi tra gli applausi dei parlamentari Pd».
Ecco perché diciamo #IoNonStoConCarola. In questa vicenda non siamo allo scontro tra civiltà e inciviltà, bensì tra legalità e illegalità. Le Ong non sono giustificabili. Alessandro Sallusti, Lunedì 01/07/2019 su Il Giornale. Due mezze verità non faranno mai una verità intera, per questo non ha senso stare dalla parte di Carola - la capitana della Sea Watch 3 arrestata per una sfilza di reati legati all'immigrazione e alla sicurezza nazionale -, ma nemmeno da quella della Guardia di Finanza, che Carola l'ha arrestata su ordine della magistratura, così come si era augurato il ministro Salvini. Stare nel mezzo di una carreggiata, come stanno facendo in queste ore la parte più ipocrita della sinistra e molti illustri opinionisti senza nerbo, può sembrare la soluzione più comoda, ma, in realtà, è una scelta stupida in quanto espone al rischio di essere investiti da entrambi i sensi di marcia. Per questo noi abbiamo scelto una sola verità, quella per cui schierarsi senza esitazione dalla parte dell'hashtag #IoNonStoConCarola lanciato sul nostro sito dal collega Fausto Biloslavo. In questa vicenda non siamo allo scontro tra civiltà e inciviltà, bensì tra legalità e illegalità. Carola non è stata arrestata per aver salvato vite umane, né il governo vieta alle ong di raggiungere i barconi, previo appuntamento con gli scafisti. Lo facciano, ma non pretendano il diritto di portare a prescindere i loro carichi in Italia, contravvenendo alle leggi del mare in base alle quali l'approdo deve essere nel porto più vicino (Tunisi o Malta in questo caso) o, in subordine, nel Paese di provenienza della nave o dell'armatore. La prova che l'Italia non è un Paese incivile l'abbiamo anche in queste ore. Mentre Germania, Francia, Olanda e Lussemburgo pontificano contro di noi, noi abbiamo accolto qualche centinaio di disgraziati che, con mezzi propri, hanno attraversato con successo il Mediterraneo. Non li abbiamo affondati, non respinti, non arrestati, anche se pure loro hanno aggirato, in un certo senso, i nostri divieti. Perché un conto sono la solidarietà e la comprensione con l'indigente che ruba un tozzo di pane al supermercato, altro è permettere che un miliardario (le Ong) organizzi una spesa collettiva e pretenda di non pagare il conto una volta arrivato alla cassa. Queste Ong dovrebbero cambiare sigla in Oag, cioè da «Organizzazioni non governative» a «Organizzazioni anti governative». O, meglio ancora, in Oai, «Organizzazioni anti italiane». Quindi per nessun motivo giustificabili. Almeno non da noi.
Carcere giusto per chi calpesta le nostre leggi. Salvare chi viola norme e lede l'immagine del nostro Paese sarebbe un grave precedente. Gian Micalessin, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. I giudici hanno deciso di dormirci sopra e attendere quest'oggi per annunciare eventuali provvedimenti contro Carola Rackete. Questa pausa ci preoccupa. Sul caso di questa pseudo-eroina della sinistra non c'è nulla da capire. Le sue violazioni delle norme nazionali e internazionali si sono svolte alla luce del sole in aperto segno di provocazione. Ha sfidato le norme internazionali quando ha portato la Sea Watch dentro la zona Sar libica mettendosi in illecita competizione con la Guardia costiera libica per aggiudicarsi un carico di migranti. Ha apertamente calpestato le leggi italiane quando ha fatto rotta verso la nostra penisola infrangendo il blocco ed entrando nelle nostre acque territoriali. Ha messo a rischio la vita dell'equipaggio di una motovedetta della Guardia di Finanza quando, pur d'attraccare, l'ha stretta contro la banchina tentando di schiacciarla con il peso delle sue 60 tonnellate. Tutto questo basta per spedirla in galera e tenerla dietro le sbarre per almeno qualche anno. Come del resto succederebbe a qualsiasi italiano colpevole di aver violato un posto di blocco tentando d'arrotare le Forze dell'ordine. Ma ci sono anche altre più importanti ragioni per esigere una «tolleranza zero» nei suoi confronti. La prima è l'indebita e immeritata maschera d'eroina cucitale addosso dalla parte peggiore di questo paese, ovvero da quella sinistra sempre pronta a calpestare gli interessi nazionali e il prestigio dell'Italia. Gli atteggiamenti della «capitana» sprezzante e boriosa quand'era ai comandi della sua nave da 50 metri, ma piagnucolosa e pronta a invocare inesistenti ragioni di necessità una volta in Tribunale ci dà la misura della miseria umana del personaggio. Per non parlare del tentativo di scaricare sulla Guardia di Finanza la responsabilità della manovra che ha messo in pericolo l'equipaggio della motovedetta. Garantire la libertà a una persona non solo colpevole, ma anche bugiarda e vigliacca come Carola Rackete significa offrire un pessimo esempio ai nostri concittadini e soprattutto ai più giovani. Le leggi sono il fondamento dello stato di diritto e della comunità nazionale. Rilasciarla significa accettare che si possa prima calpestarle e poi salvarsi inanellando patetiche frottole e scaricando sulle proprie possibile vittime le proprie responsabilità. Ma il ritorno in libertà di questa bugiarda sarebbe anche gravemente lesivo dell'immagine dell'Italia. Tra sabato e domenica alcuni esponenti del governo francese e tedesco hanno accusato il nostro paese di mancanza di umanità nei confronti dei migranti. Sono accuse infamanti e non solo perché entrambi i paesi avevano tre settimane di tempo per offrire un loro porto alla Sea Watch o accogliere il suo carico di migranti, ma anche per la condotta di Parigi e Berlino. Due capitali che sul tema migrazione dovrebbero imporsi un rispettoso silenzio. Parigi continua a respingere migliaia di migranti verso la frontiera italiana. La Germania li ha addirittura narcotizzati per riuscire a metterli senza fatica sui voli per il nostro paese. Per non parlare dei 500 migranti afghani costretti da Berlino a tornare in un paese straziato dalla guerra. Rimettendo in libertà la pirata Carola finiremo per dare ragione a chi ci accusa e confermeremmo quell'immagine di stato zimbello che molti in Europa stanno tentando di cucirci addosso. Un tentativo che nasconde quello, molto più insidioso, di trasformarci nel campo profughi dell'Europa. Un tentativo di cui la signora Carola Rackete è un ben pagato strumento.
Ormai il reato è dissentire sulle Ong. Alessandro Gnocchi, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. Erano due settimane che la sinistra non chiedeva di censurare, cacciare, emarginare qualcuno. Un improvviso cambiamento di linea in favore della libertà d'espressione? Un'inedita volontà di confronto con opinioni diverse dalla propria? No, niente di tutto questo. È la solita sinistra. Si era soltanto assopita. Ieri l'Associazione nazionale dei partigiani italiani ha consigliato, neppure troppo velatamente, di sbattere fuori dall'università del Molise Marco Gervasoni, professore ordinario di Storia contemporanea. Una bella censura dal sapore fascista nel nome dell'antifascismo. Motivo: sui social, e non in un'aula universitaria, Gervasoni ha espresso, nel modo provocatorio che i suoi «amici digitali» ben conoscono, una opinione politicamente scorretta, questa: «Ha ragione Giorgia Meloni, la nave va affondata. Quindi Sea Watch bum bum, a meno che non si trovi un mezzo meno rumoroso». Il rumore del «bum bum» ha risvegliato i militanti dell'Anpi molisano: «I toni pesantemente irridenti, ed ancor più le parole usate nell'augurarsi che la nave Sea Watch venga fatta saltare in aria, sono in se stessi inaccettabili, e certo indicativi di una visione del mondo e dei diritti umani a dir poco sconcertante», dice il presidente Loreto Tizzani. Segue lezione di storia impartita a uno studioso con pubblicazioni importanti come Gervasoni: «Ma ciò che li rende assolutamente vergognosi (i toni, ndr) è il fatto che ad usarli sia un docente universitario, e per di più un docente di storia». Gran finale. L'auspicio che «comportamenti così gravi, soprattutto per i possibili effetti negativi sugli studenti dal punto di vista umano e didattico, siano adeguatamente valutati dall'Università». La quale si è dissociata da Gervasoni che ha invece incassato la solidarietà, fra gli altri, di Giorgia Meloni e Gaetano Quagliariello. I maestrini dell'Anpi, veri e propri paladini della verità storica, potrebbero dare l'esempio e fare finalmente chiarezza sulle zone oscure della Guerra fredda, sull'apparato militare clandestino del Pci intrecciato con la Figc e... l'Anpi. C'è lavoro di un paio di commissioni parlamentari. La Gladio rossa era pronta a fare «bum bum». Nella realtà, non per ridere sui social network. Gli antifascisti (non anticomunisti e dunque non democratici) dovrebbero fornire delucidazioni. A parte questo, osserviamo la applicazione della consueta doppia morale. I professori di storia schierati a sinistra riempiono non solo i libri ma anche le pagine di giornali con analisi ridicole della destra, falsità palesi sulle vicende italiane, ingiurie ai defunti, da Zeffirelli alla Fallaci. Nessuno ha niente da dire. Se Gervasoni esprime un parere personale controcorrente sulla vicenda Sea Watch, allora l' università, mondo notoriamente super partes, è in pericolo. Gli atenei, proprio in questi giorni, rischiano di essere sgominati come la Banda Bassotti a causa di estese inchieste su concorsi truccati e altre prelibatezze. Ecco, denunciate questo, se avete a cuore l' istruzione degli studenti.
Santa Carola. Augusto Bassi il 2 luglio 2019. Non mi piacciono molto le autocitazioni, ma fa troppo caldo per commentare Orfini e Migliore che scalpellano La Pietà Rondanini, con Gennaro pieno di grazia e Matteo in abbandono cristologico. Così, se vi pare, tornerei al 13 settembre 2017, quando pubblicai il dialogo La minorata difesa. Allora inventai dei nomi propri, che fossero rappresentazione antroponomastica di un delirio in carne vegana e ossa. Fra queste denominazioni emblematiche… c’era Carola. Il cui fantasticante ritratto era profezia di realtà, che si è rivelata come sempre ancor più caricaturale della fiction. Perché oggi Carola è sbarcata davvero, dopo essere stata a conoscere culture lontane, da Santa. Mentre quella semenza di opinione pubblica genitoriale, vittima di ubriachezza terzomondista indotta, sta cospirando affinché l’Europa si riduca in stato di minorata difesa, docilmente proclive a subire abusi foresti. Ma senza alcuna aggravante per chi ne approfitta.
Hai sentito di quei due Carabinieri?
Sì. Che vergogna!
Ma nessuno ne parla!
In realtà ne parlano. Ma c’è chi vuole aspettare la sentenza! Fanno schifo…
Quando c’era di mezzo un migrante però… erano tutti pronti a gridare allo stupratore, al mostro!
Il razzismo è duro da estirpare.
Secondo me la colpa è dei giornali. Quelli di destra alimentano l’odio.
Sciacalli! Xenofobi! Populisti!
Ascoltavo quelle signore di educatissime letture mentre dibattevano così lucidamente sulla vescicante attualità… anche lì… fra i tavolini di un caffè di Largo Treves. La dama in tortora degustava una centrifuga melanzana e sedano. Quella in cremisi, carota, kiwi, mango, più un pizzico di zenzero. E con che urbanità!
Tua figlia l’ha saputo?
Sì. Secondo me è rimasta scioccata. Non vorrà più avvicinarsi alle Forze dell’Ordine.
La capisco. Ci hanno tradito. E anch’io ho un po’ di paura.
Uno per fare il poliziotto deve essere fascista secondo me…
Lo sono, lo sono tutti!
Io li farei arrestare! Adesso il fascismo è reato!
Finalmente!
Quanti ne dovevano morire ancora!?
E quest’estate che hai fatto? Sei andata a Santa con Carola?
No, lei è stata in giro per il mondo, con amiche e amici.
Giusto! Deve aprire la mente.
Sì. A Milano sente il soffitto basso. E la capisco.
Quanto conformismo!
E’ stata a Formentera, in Nepal, Cambogia e poi in Sardegna.
Però la signorina! Si tratta bene!
Deve viaggiare! Deve conoscere culture lontane…
E non hai avuto paura?
No. E perché?
Beh, la Cambogia…
Ho più paura qui a Milano! In Cambogia non è mai successo niente di brutto da che mondo è mondo. Vivono in armonia con la natura. Carola mi ha portato dei cestini intrecciati a mano carinissimi! Polpottini li chiamano! Qui invece se ne sentono ogni giorno… e ci mancavano i follower di Mussolini! Gli orrori della storia ci perseguitano…
E’ l’ignoranza. Tutta colpa dell’ignoranza.
Quella conversazione di così ampie vedute, animata da giovani mamme tanto erudite, mi prendeva per la coda, ma il senso di inadeguatezza aveva il potere di paralizzarmi. Dopo qualche minuto presi il coraggio sotto braccio e mi avvicinai con il pretesto di dare un’occhiata a Repubblica…
Non ho potuto fare a meno di ascoltare, signore, e me ne scuso. Ma davvero c’è di che aver paura a Milano? Anch’io ho una figlia adolescente e lei vorrebbe fare l’università qui. Sapete, noi veniamo dalla provincia…
Ma si figuri, ora le spiego io. Certo che è pericolosa! Ma non per gli immigrati come dice quello scimmione di Salvini e i populisti dalla parte del popolo bue! Sono i professori i veri maniaci!
I professori?
Sì! Mia figlia fa il liceo e mi racconta cose allarmanti. Da denuncia!
Anche la mia! Si guardi dai professori!
Grazie. Lo farò. Ma devo dire che quando vedo le compagne di classe della mia bambina rimango perplesso. Si presentano in aula con braghine talmente corte, con canottiere così scollate! E sono così audaci poi… quasi spudorate! Ai miei tempi le liceali giravano con la focaccia nel cestino della Holland; adesso sfrecciano in due sullo scooter, con i biker ai piedi, la sigaretta in mano, piselli di gomma nella borsa e una bestemmia tatuata sulla schiena…
Non ci vedo niente di male. Una ragazza deve poter esprimere se stessa senza tabù. Siamo mica dei bacchettoni che ci scandalizziamo per un pantaloncino un po’ corto. Ahahah! Ha sentito che caldo faceva quest’estate? Le vorrebbe vestite come in Iran? Cultura che comunque rispetto moltissimo, sia chiaro. Anzi. Quest’inverno vorrei andare a sciare a Dizin. Sei mai stata Geraldine?
No. In Iran mai. Ma sono stata in Vietnam due anni fa. Adoro!
Anch’io! Tre volte. Quest’estate per un mese. Il Vietnam è top!
Certo, ma se poi un malintenzionato mette loro una mano sulle chiappe… beh, lì allora un po’ bacchettoni diventiamo. Almeno… io da papà lo divento… sono molto geloso, lo confesso.
Ma che paragoni sono?! Che il mio compagno solo provasse a dire cose del genere! Una donna deve poter essere libera di uscire come le pare, fare quello che le pare, senza per questo venir molestata!
Naturalmente. Eppure succede. Purtroppo. Mi scusi la grettezza dell’empiria…
Sì! Perché gli uomini non sanno controllarsi! Siete dei maiali!
Appunto. Siamo dei maiali. Spesso non sappiamo controllarci. Come scrisse Céline: «A dire il vero ero un gran maiale. Lo restai». Quindi succede…
Ma siete voi i maiali. E invece si punta il dito sulle donne. C’è anche chi osa dare loro delle troie, delle puttane, delle baldracche. Dire che se la sono andata a cercare!
No! Certo che no! Nessuna provocazione, involontaria o volontaria, può giustificare una molestia. Però… proprio in considerazione del fatto che gli uomini non sanno controllarsi, forse sarebbe il caso di tutelarsi e…
E già! Torniamo all’Iran! La cui cultura comunque amo moltissimo. Il burqa poi è chicchissimo. Io adoro la tradizione dell’outfit etnico.
Ah, anch’io! Alcuni sono supercarini!
Est modus in rebus…
Cosa?!
Dico, esiste una misura nelle cose. Quando vedo ragazze minorenni vestite come zoccole da saloon… mi chiedo che cosa passi per la testa dei genitori…
La prego! La volgarità mi ripugna!
Scusi. Quando vedo ragazzine vestite da cocotte…
Da che?!
Diciamo da impertinenti lolite, che fanno gestacci, che bestemmiano come mongoli…
Si chiamano diversamente abili!
No… intendevo di razza mongolica, lingua altaica, religione musulmana…
Lei è un leghista?
Cielo no! Perché?
Così… mi pareva….
Anche a me!
Dicevo, se queste ragazzine girano in abiti succinti, magari barcollando per la città con una boccia di vino in mano e urlando “fuck me! Fuck me!”… beh… forse possono attirare l’attenzione dei malintenzionati. E’ come sanguinare davanti agli squali, non credete?
Perché gli uomini non sanno controllarsi! Sono dei maiali! Altro che squali!
Appunto. Quindi rischiano di essere violate…
Si dice violentate. Usiamo le cose con il loro nome! Quanta ipocrisia!
Scusi. Rischiano di essere violentate…
Ma che lei forse non lo sa!? Se una ragazza è ubriaca o ha fatto uso di droghe, è un soggetto in condizioni di minorata difesa; quindi è un’aggravante!
Non lo sapevo, in effetti. Ma lo capisco. Se una ragazza si riduce in quelle condizioni, alterata dall’alcol e inebetita dall’hashish, ha poche scusanti…
Sta scherzando o è ubriaco anche lei?! E’ un’aggravante per chi ne approfitta! Perché approfitta di chi non è consapevole di ciò che fa!
Santi numi! Che bizzarria! Mi perdoni signora, ma sembra si tratti del sopruso su un disabile. Chi si riduce a camminare sui gomiti è perché lo sceglie. Perché volontariamente vuole mettersi in condizioni di minorata difesa. Non è una giustificazione verso chi ne approfitta, va da sé, ma mi pare sia indicativo…
Di cosa?
Di una condotta poco assennata. Non credo che la leggerezza di comportamento riveli la libertà, anzi. Dopotutto lo asserì anche Simone de Beauvoir: «Una donna libera è il contrario di una donna leggera».
Io devo essere libera di ridurmi come voglio senza che lei osi toccarmi! Io dico così e la legge dice così!
Sacrosanto. Ma che cosa cambia per sua figlia? Al selvaggio non interessa la legge; perché è un fuorilegge. E non ha nulla da perdere. Coglie solo l’occasione migliore. E quale migliore occasione dell’avere di fronte una ragazza annebbiata, inerme?
Selvaggio sarà lei! Si chiamano immigrati e sono molto più civili di noi!
No, abbia pazienza… ha frainteso. Non mi riferivo al selvaggio in senso etimologico, di chi viene dalla selva; selvaggio come belluino assalitore in senso lato.
Ma dalla selva ci verrà lei e beduino anche, mi scusi!
Scappano da guerre sanguinose, non dalla foresta! Ma lei dove vive?! Ah già, in provincia…
D’accordo, chiedo scusa. Ma tutto ciò non cambia il fatto che sua figlia, così facendo, si mette nelle condizioni di essere nuda di fronte al piglio grifagno del furfante…
Mia figlia?!? Lei che ne sa di cosa fa o come si concia mia figlia?!
Questo è fuori Matilde Sofia, lascialo perdere! Andiamo a pilates piuttosto, sono quasi le otto!
Aspetta un attimo! Mia figlia si concia come vuole se permette!
Appunto. Quindi immagino che…
A lei piacciono gli short corti come a tutte le sue amiche e quelli usa. Poi beve la birra, mica i superalcolici. E le ho insegnato a non essere razzista. Quello è l’importante!
Però ha visto il recente episodio di Roma… fidarsi è bene…
Che luoghi comuni! Che generalizzazioni! E invece dei Carabinieri ci si può fidare?
Bene, concediamolo. Immagini dunque, se non ci si può fidare neppure di un Carabiniere in divisa… figuriamoci di un immigrato poco civilizzato, scorbutico e arrapato, che magari non giace con una donna da molti mesi e che alla donna stessa attribuisce il valore di una capra nana africana…
Ma poco civilizzato mi sembra lei che fa questi discorsi! Il suo sessismo è disgustoso!
Forse ha ragione. Ma a me pare, e lo dico da padre, che rischi di passare codesto scivoloso messaggio: Figlia mia, tu tira pure fuori il culo e devastati. Se ti violentano, sbagliano loro, rammentalo bene. Non colpevolizzarti. E più ti ubriachi, più ti droghi, più ti alteri, meno sei presente a te stessa, più sbagliano loro.
Ma non blateri sciocchezze! Andiamo Geraldine… questo se non vota Salvini, come minimo è un lettore del Giornale! La saluto…
Rimasi crucciato da quel commiato, allocchito dall’intero colloquio, immerso nei dubbi e in quel sentore di zenzero alla carota. Ordinai un frullato al finocchio per riprendermi dalla strigliata e iniziai a sfogliare Repubblica per capire da dove ripartire: «Ma quali sono i posti che i visitatori e soprattutto gli appassionati di fotografia non possono assolutamente perdere in Vietnam? Li descrive perfettamente Luca Bracali, fotografo esperto del Sud Est Asiatico. Bracali ha fatto un viaggio di otto giorni, attraversando il Vietnam a bordo di una vespa, visitando posti celebri come Ha Long Bay, Sa Pa, Hoi An Ho Chi Min City, e Can Tho, e ha realizzato un diario fotografico in collaborazione con Emirates». Adoro!
Sea Watch, Vittorio Feltri: "La capitana Carola Rackete ha fatto l'eroina con i nostri soldi". Libero Quotidiano il 29 Giugno 2019. Non nutro alcuna antipatia per la cosiddetta capitana Carola, tedesca, impegnata al timone di una nave che raccoglie in mare i soliti disperati in cerca di approdo, di ospitalità e ovviamente di sussistenza gratuita. Costoro chiedono aiuto perché nei loro Paesi di provenienza vivono da cani, e probabilmente lo meritano dal punto di vista umano. Siamo cinici ma non al punto da negare che le persone disagiate non vadano abbandonate all'impeto delle onde. La Capitana che si dà da fare con la sua imbarcazione battente bandiera olandese è degna di tutto rispetto, e noi la rispettiamo, tuttavia non la consideriamo ammirevole. Per una semplice ragione che mi accingo a spiegare. Soccorrere il prossimo, da amare come noi stessi ma non di più, è cosa buona e giusta, però farlo scaricandone gli oneri su altri non è una operazione di generosità, bensì di egoismo. Dedicarsi alla beneficenza con i propri soldi è un atto di eroismo morale e, quindi apprezzabile; farla attingendo sostanze dalle tasche di terzi è una furbatala quale azzera anche le ottime intenzioni che l'hanno animata. Carola è una brava ragazza, ciò nonostante non ha capito che un bel gesto, quanto quello che ha compiuto, deve essere accompagnato da senso della responsabilità. Ella non può pensare che condurre un bastimento allo scopo di salvare potenziali naufraghi sia sufficiente per conquistare la gloria. Per essere issata sugli altari avrebbe dovuto provvedere a portare in Germania o in Olanda il carico umano raccolto tra i flutti, non rifilarlo a noi obbligandoci a sostenere le spese per accoglierlo e mantenerlo. Non è onesto fare i froci col culo altrui, diceva volgarmente ma efficacemente un costruttore romano. Il problema in questo caso non è etico: è pratico. Difficile dimostrare il contrario. Le iniziative della Capitana sono esteticamente molto eleganti e piacciono ai progressisti plaudenti nonché ai cattolici francescani, però non sono digeribili a gente normale che ama aiutare i bisognosi con i propri quattrini e non con quelli della collettività. Carola, torna al tuo paese con i tuoi migranti di cui noi abbondiamo. Tieniti il frutto degli sforzi che hai fatto senza la nostra benedizione. Vittorio Feltri
La Linea dei giornali.
Sea Watch, Vittorio Feltri: "Perché Carola Rackete è ai domiciliari e non in galera". Libero Quotidiano il 30 Giugno 2019. Alcuni giorni orsono Libero ha pubblicato una notizia raccapricciante: un tizio innamorato perso di una donna più grande di lui, nel senso dell' età, è stato arrestato perché mandava troppi mazzi di fiori alla persona per cui spasimava. L'accusa, molestie. Il provvedimento, secondo me troppo severo, probabilmente è stato emesso in ottemperanze alla legge. Ma posso dire che si tratta di una norma del cacchio, esattamente come quella in base alla quale sono stati concessi gli arresti domiciliari a Carola, la capitana della nave attraccata in Italia mediante uno sfondamento criminale, che ha rischiato di uccidere un certo numero di guardie di finanza. La marinaia teutonica in fondo, e anche in cima, è stata considerata quale principessa, rispettata, non ammanettata e infine dolcemente, molto dolcemente, trasferita in casa di un ignoto amico pronto ad ospitarla. In pratica non le hanno torto un capello e la cosa non ci dispiace, però ci sorprende. Il donatore seriale di omaggi floreali è stato sbattuto in carcere senza aver commesso alcuna violenza, ma solo perché rivelatosi un gran rompicoglioni, mentre colei che pretendeva di rifilarci contro ogni regola un pugno di clandestini, pur colta in flagranza di reato, è stata ricevuta sul suolo italiano come gradita turista, una brava ragazza dal buon cuore meritevole di essere osannata quale benefattrice di neri. Quando, viceversa, ella è soltanto una che ha violato i principi dello Stato di diritto. Una operazione repellente che pone in evidenza macroscopiche ingiustizie che gridano vendetta al cospetto di Dio, ammesso che l' Altissimo si occupi delle nostre miserevoli vicende nazionali. Addirittura, il sindaco di Napoli, De Magistris, ex magistrato salito alla ribalta per inchieste discutibili, ha dichiarato senza manco arrossire di vergogna: «Ringrazio Carola per aver avuto il coraggio di disubbidire». L' elogio della illegalità non dovrebbe passare in cavalleria. Ma il fu pm non è stato l' unico a fare la pipì fuori dal vaso. Vari parlamentari, tra cui l' ex ministro Delrio, finto renziano, medico che ha mandato la medicina alla malora, si sono recati a bordo della imbarcazione olandese allo scopo di manifestare solidarietà alla signorina che ha sputato sulle nostre disposizioni nazionali. Costoro, a mio modesto giudizio, sono sospettati di favoreggiamento. Tuttavia, nessuno li perseguirà, mica sono giornalisti che hanno titolato così le vicende romane: «Patata bollente».
Prevedo che Carola sarà liberata nel giro di qualche minuto e rispedita in Germania. Altro che punizione analoga a quella del signore che inviava boccioli alla sua bella. Vittorio Feltri
Carola Rackete, Repubblica perde il controllo: la paginata sulle "prigioni", siamo oltre il "Forza Capitana". Libero Quotidiano l'1 Luglio 2019. Dal "Forza Capitana" a "Le prigioni di Carola", il passo è breve. Repubblica ha scelto di schierarsi senza se e senza ma a fianco di Carola Rackete, la capitana della Sea Watch, e la linea non cambia anche dopo il blitz con tanto di speronamento di una motovedetta della Guardia di finanza che ha portato allo sbarco dei 40 migranti a bordo della nave della Ong. Adesso Carola è ai domiciliari in una casa di Lampedusa (non in carcere, dunque), ma enfaticamente il quotidiano diretto da Carlo Verdelli parla di "prigioni", citazione fin troppo drammatica del capolavoro di Silvio Pellico. Altri tempi, altri costumi ma Repubblica non ci fa caso e infatti il tono è da feuilleton. Si parla di "capitana in lacrime" e di un messaggio ai suoi: "Vi voglio bene, siate forti e non preoccupatevi". Anche perché a preoccuparsi ci pensano nella redazione di Repubblica.
CHI DETTA LA LINEA AL “FATTO”? Da “Libero quotidiano” il 30 giugno 2019. Al Fatto quotidiano sul caso Sea Watch hanno qualche problema di "linea". Se il direttore Marco Travaglio aveva "condannato" la capitana Carola Rackete ("Viola tutte le norme sulla pelle dei migranti"), la sua schiera di vignettisti si piazza nettamente a favore dello sbarco a Lampedusa. E Mannelli, in prima pagina, va giù pesante anche con le parole: "La miglior difesa è l'attracco", gioca con le parole nello slogan sotto una Carola versione "santino". Ma difesa da chi? "Contro gli imbecilli", aggiunge polemico il vignettista del Fatto. Non troppo complicato identificare i destinatari dell'insulto.
Il paradosso di Lampedusa: sbarcati 300 migranti in un mese (ma non con le ong). Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 da Fiorenza Sarzanini e Claudio Del Frate su Corriere.it. A Lampedusa, nell’ultimo mese, sono successe molte cose. Certo, la Sea Watch che oggi ha deciso di forzare il blocco peer tentare di far sbarcare i suoi 43 migranti esausti, è la più drammatica. Ma nel silenzio, un giorno dopo l’altro, circa 300 migranti hanno toccato le coste dell’isola arrivando con i barconi e sono stati avviati alle strutture di pronto intervento. Gli ultimi 8, secondo quanto fa sapere il sindaco Totò martello, sono approdati stanotte. Il paradosso è evidente: chi arriva grazie agli scafisti trova accoglienza, chi viene soccorso dalle ong viene ostacolato con ogni mezzo ed è costretto a trascorrere settimane in balìa del mare. Ma non solo a Lampedusa il confine italiano si sta rivelando molto permeabile: continuano gli sbarchi anche lungo la rotta ionica che ha il suo terminale in Calabria. A Lampedusa l’ultimo sbarco è del 21 giugno: in cento sono arrivati in due ondate su piccole imbarcazioni. La tratta più lunga della traversata è avvenuta a bordo di un peschereccio che una volta arrivato in vista del primo lembo d’Italia ha trasferito i migranti su piccoli barchini grazie ai quali il viaggio è stato portato a termine. Un aerei di Frontex ha filmato il trasbordo dalla «nave madre» alle unità più piccole, un trucco a cui gli scafisti ricorrono sempre più spesso per sfuggire ai controlli . Il peschereccio è stato messo sotto sequestro. Ma nelle settimane precedenti, sempre a piccoli gruppi, altre 200 persone circa sono riuscite ad arrivare a Lampedusa: senza l’ausilio di navi Ong i barchini sono arrivati in prossimità della costa e qui la Guardia di Finanza o la Guardia Costiera hanno soccorso gli occupanti delle imbarcazioni. Nessuno di loro è stato rimandato indietro, tutti hanno trovato accoglienza. Così come sono rimaste in Italia le altre persone (anche in questo caso almeno un centinaio) giunte nella zona di crotone e Isola Capo Rizzuto a bordo di barche a vela: sono tutte partite dalla Turchia grazie a skipper russi o ucraini (spesso arrestati) e usano l’espediente della navigazione a vela proprio per sfuggire ai controlli.
· Salvataggio criminale.
Art. 104, comma 1, della Costituzione italiana cattocomunista.
La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. (.)
La magistratura per la destra è un Ordine (come acclarato palesemente), per la sinistra è un Potere (da loro dedotto dalla distinzione "da ogni altro potere").
Autonomia dei Magistrati: autogoverno con selezione e formazione per l’omologazione, nomine per la conformità e controllo interno per l’impunità. Affinchè, cane non mangi cane.
Indipendenza dei Magistrati: decisioni secondo equità e legalità, cioè secondo scienza e coscienza. Ossia: si decide come cazzo pare, tanto il collega conferma.
A discrezione del giudice. Ordine e disordine: una prospettiva "quantistica". Libro di Roberto Bin edizione 2014 pp. 114, Franco Angeli Editore. Ci può essere una teoria dell’interpretazione giuridica che riduca la discrezionalità dei giudici? Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l’inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Questo libro, rivolto agli operatori del diritto e a tutti i lettori colti, suggerisce un’altra strada.
Presentazione del volume. La discrezionalità del giudice nell'applicazione delle leggi è un problema noto a tutti i sistemi moderni, specie ora che i giudici si trovano ogni giorno ad applicare direttamente principi tratti dalla Costituzione e persino da altri ordinamenti. Sempre più spesso le valutazioni del giudice sembrano prive di briglie, libere di svolgersi secondo convinzioni personali, piuttosto che nell'alveo dei criteri fissati dal legislatore. Ogni sistema giuridico ha il suo metodo per scegliere e istituire i giudici, ma in nessun sistema è ammesso che essi operino in piena libertà, liberi di creare diritto a loro piacimento. Il legislatore è l'unica autorità che può vantare una piena legittimazione democratica, per cui ogni esercizio di potere pubblico che non si leghi saldamente alle sue indicazioni appare arbitrario e inaccettabile. Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l'inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Ma la fisica quantistica ci suggerisce di procedere per altra via, di inseguire altri obiettivi e di accettare una visione diversa della verità oggettiva.
Roberto Bin si è formato nell'Università di Trieste e ha insegnato in quella di Macerata. Attualmente è ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. È autore di alcuni fortunati manuali universitari e di diversi libri e saggi scientifici.
Ecco tutte le misure del decreto Sicurezza bis. Assenti cinque senatori del M5s e Salvini commenta: "Bene il voto nel giorno di Medjugorje". Il decreto sicurezza è diventato legge ottenendo la fiducia del senato con 160 voti. Nicola De Angelis, Lunedì 05/08/2019, su Il Giornale. Il Senato ha votato la sua fiducia al governo sul decreto Sicurezza bis con ben 160 voti favorevoli, 57 contrari e 21 astenuti. Assenti cinque Senatori del M5S, ora rimane soltanto uno step: la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale che lo farà diventare Legge. Fratelli d'Italia si è astenuta mentre FI non ha partecipato al voto, ma è rimasto comunque in Aula. Il decreto Sicurezza è diventato legge con la presenza di 289 senatori, mentre i votanti erano 238. Immediatamente, Matteo Salvini ha espresso tutta la sua gioia per quello che da sempre è il suo cavallo di battaglia: ""Il #DecretoSicurezzaBis, più poteri alle Forze dell'Ordine, più controlli ai confini, più uomini per arrestare mafiosi e camorristi, è Legge. Ringrazio Voi, gli Italiani e la Beata Vergine Maria". Divieto per le navi che soccorrono i migranti di ingresso nelle acque territoriali italiane, con possibilità di multe e confische per chi viola la disposizione. Pene più severe per incidenti durante manifestazioni pubbliche e maggiori tutele per le forze dell'ordine. Giro di vite per le violenze nelle manifestazioni sportive. Sono i pilastri sui quali si regge il cosiddetto decreto legge sicurezza bis, convertito definitivamente questa sera dal Senato.
Porti chiusi. Il testo in totale conta 18 articoli introducendo nuove norme sulla gestione dell'ordine pubblico in particolare durante manifestazioni ed eventi sportivi. Inoltre prevede lo stanziamento di fondi aggiuntivi che andranno ad aumentare la disponibilità economica delle forze dell'ordine. Tra le novità quella denominata porti chiusi, in cui il ministro degli Interni "può limitare o vietare l'ingresso il transito o la sosta di navi nel mare territoriale", cioè quando si presuppone che sia stato violato il testo unico su immigrazione e in particolare si sia compiuto il reato di "favoreggiamento dell'immigrazione clandestina". In una prima versione del decreto, i ministri delle Infrastrutture e della Difesa dovevano semplicemente essere informati dal Viminale dell'attuazione del blocco. Nel testo definitivo, invece, il provvedimento deve essere controfirmato dai titolari dei due dicasteri.
Sanzioni pesanti. Sanzioni pesantissime che partono da 150mila euro fino ad arrivare a un milione di euro per il capitano della nave che violi la legge e decida comunque di attraccare. L'articolo 2 prevede una sanzione da un minimo di 150mila euro a un massimo di un milione di euro per il comandante della nave "in caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane". Inoltre, come sanzione aggiuntiva, è stabilito anche il sequestro della nave. Per il capitano della nave è inoltre previsto l'arresto in flagranza nel caso in cui incorre nel "delitto di resistenza o violenza contro nave da guerra, in base all'art. 1100 del codice della navigazione". Gli oneri di custodia delle imbarcazioni sottoposte a sequestro cautelare sono imputati all'armatore e al proprietario della nave. Quando invece le stesse imbarcazioni sono affidate in custodia agli organi di Polizia, alle Capitanerie di porto o alla Marina militare perché ne facciano uso per attività istituzionali, i relativi oneri sono a carico delle amministrazioni affidatarie. Previsto l'arresto obbligatorio in flagranza per resistenza o violenza contro nave da guerra. Istituito, presso il ministero degli Affari esteri, un fondo per le politiche di rimpatrio volto a sostenere iniziative di cooperazione o intese bilaterali per la riammissione degli stranieri irregolari presenti nel territorio nazionale e provenienti da Paesi extra-Ue. Il fondo ha una dotazione iniziale di 2 milioni di euro per l'anno 2019, che potranno essere incrementati da una quota annua fino a 50 milioni di euro determinata annualmente con decreto interministeriale. Il fondo è destinato a finanziare interventi di cooperazione attraverso il sostegno al bilancio generale o settoriale: intese bilaterali.
Immigrazione clandestina. L'articolo 3 va a modificare l'articolo 5 comma 3-bis el codice di procedura penale e stabilisce che la procura distrettuale diventi competente per tutte le indagini che riguardano il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Nuovi fondi in arrivo per il contrasto all'immigrazione clandestina: nel 2019 verranno stanziati 500mila euro, un milione di euro per il 2020 e un milione e mezzo nel 2021. L'articolo 12 garantisce il rimpatrio di tutti gli immigrati irregolari.
Ordine pubblico. Dall'articolo 6 al conclusivo articolo 18, il decreto Sicurezza bis introduce nuove norme e reati in merito alla gestione dell'ordine pubblico durante le manifestazioni di protesta e sportive. Si introduce "una nuova fattispecie delittuosa, che punisce chiunque, nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, utilizzi - in modo da creare concreto pericolo a persone o cose - razzi, fuochi artificiali, petardi od oggetti simili, nonché facendo ricorso a mazze, bastoni o altri oggetti contundenti o comunque atti ad offendere". Il provvedimento prevede anche che "qualora i reati siano commessi nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico" il fatto costituisca un'aggravante. L'uso dei "caschi o di qualsiasi altro dispositivo che renda irriconoscibile una persona", nelle manifestazione di questo tipo, è vietato. Inasprite anche le pene per chi compie una serie di reati: "violenza o minaccia a un pubblico ufficiale", "resistenza a un pubblico ufficiale", "violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti", "devastazione e saccheggio", "interruzione di ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità". Prevista la reclusione da 1 a 4 anni per chiunque, nel corso delle stesse manifestazioni, lancia o utilizza illegittimamente razzi, petardi, fumogeni, ovvero oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere, creando un concreto pericolo per l'incolumità delle persone. Per chi determini concreto pericolo per l'integrità delle cose è prevista la reclusione da sei mesi a due anni. Pene più dure anche per i reati di violenza o minaccia a pubblico ufficiale, di interruzione di pubblico servizio e di devastazione e saccheggio, quando le condotte siano poste in essere durante manifestazioni. Nuova fattispecie di danneggiamento compiuto durante le manifestazioni, con reclusione da 1 a 5 anni e conseguente applicabilità dell'arresto facoltativo in flagranza. Pene più severe anche in caso di oltraggio a pubblico ufficiale e oltraggio a un magistrato in udienza, con esclusione della tenuità del fatto quando si procede per i delitti di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, di resistenza a pubblico ufficiale e di oltraggio a pubblico ufficiale commessi nell'esercizio delle loro funzioni.
Manifestazioni sportive. Viene ampliata la portata del cosiddetto Daspo (Divieto di accesso a manifestazioni sportive), si estendono anche agli arbitri e agli altri soggetti chiamati ad assicurare la regolarità delle competizioni sportive le tutele attualmente previste dall'ordinamento per gli addetti ai varchi di accesso agli impianti, si amplia il divieto, per le società sportive, di concedere biglietti o altre agevolazioni, nonché di contrattare, con i soggetti destinatari di Daspo e di misure di prevenzione o con i pregiudicati per specifici reati. Modificato il codice antimafia per consentire il fermo anche per coloro che risultino gravemente indiziati di un delitto commesso in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Si stabilizza nell'ordinamento l'istituto dell'arresto in flagranza differita sia per reati violenti commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, per i quali è obbligatorio o facoltativo l'arresto; sia quando per gli stessi reati, compiuti alla presenza di più persone anche in occasioni pubbliche, sia obbligatorio l'arresto. Viene ampliato l'ambito applicativo della disciplina sanzionatoria per il cosiddetto bagarinaggio, con la possibilità per il sindaco di ordinare l'allontanamento dei bagarini dalle stazioni ferroviarie e marittime, dagli aeroporti e dalle banchine degli autobus.
Risorse a forze dell'ordine. Previste più risorse per forze di polizia, forze armate e vigili del fuoco e personale del ministero dell'Interno. Il provvedimento contiene inoltre misure straordinarie per l'eliminazione dell'arretrato relativo ai procedimenti di esecuzione delle sentenze penali di condanna, consentendo al ministero della Giustizia di procedere all'assunzione a tempo determinato, per un anno, di 800 unità di personale amministrativo non dirigenziale. Prorogato al primo gennaio 2020 il termine per l'entrata in vigore della riforma Orlando sulle intercettazioni.
Ong, la ricetta estrema dell'ammiraglio De Felice: "Gli arresti non bastano, come si fermano i barconi". Libero Quotidiano il 6 Agosto 2019. Come si fermano i barconi delle ong? Certo, le politiche di Matteo Salvini aiutano. Ma un parere autorevole a tal riguardo arriva dall'Ammiraglio di divisione Nicola De Felice. In un intervento su Il Tempo, infatti, stila il decalogo per fermare le navi delle organizzazioni non governative. Obiettivo, "evitare che l'Italia diventi l'unico scalo d'alaggio europeo".
Punto primo, "convocare immediatamente l'Ambasciatore dello Stato di bandiera nel momento dell'ingresso si una nave Ong nel Mediterraneo centrale.
Punto secondo, raccomandare allo Stato di bandiera della nave Ong di far dirigere l'imbarcazione verso il porto indicato dallo Stato che coordina il soccorso, "altrimenti - rimarca De Felice - far dirigere la nave verso un porto tunisino qualora fosse più vicino.
Terzo punto, nel caso in cui le Convenzioni internazionali venissero infrante, sollecitare lo Stato di bandiera a prendere provvedimenti coercitivi verso nave ed equipaggio;
punto quattro, "ingiungere lo Stato di Bandiera di avviare immediatamente la procedura di protezione internazionale dei migranti al loro primo passaggio illegale a bordo della nave e quindi sul suo territorio", sottolinea l'ammiraglio.
Va poi - punto 5 - definito reato internazionale l'operato della nave;
punto 6, "considerare la nave Ong quale "nave pirata" in attività di concorso interno o esterno alle attività di tratta di esseri umani".
De Felice aggiunge al punto sette che è necessario "ritenere decaduto l' ordinamento giuridico dello Stato di Bandiera ed inviare una nave militare e applicare l' ordinamento giuridico dello Stato italiano".
Quindi, al punto 8, invoca l'attuazione del diritto di visita, ispezione a bordo e nel caso in cui venissero ravvisate le infrazioni, bisogna prendere possesso della nave "con equipaggio miliare, arrestare il comandante e l'intero equipaggio, spiccare un mandato di cattura internazionale verso l'armatore".
Pugno d'acciaio, quello che vuole l'ammiraglio, che al punto 9 insiste sul "dirigere verso un porto italiano per sbarcare i 'naufraghi a pagamento', confiscando la nave".
Infine, punto 10, "applicare il Codice di Navigazione italiano", per chiedere allo Stato di Bandiera il rimborso di tutte le spese sostenute dall'Italia per fronteggiare il caso aperto dalla nave che fa a loro riferimento. Ricetta semplice, durissima e tremendamente efficace.
I nuovi scafisti ucraini dei barconi «di lusso»: 10 mila euro a testa. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 su Corriere.it da Marco Imarisio, inviato a Crotone. Partono dalla Turchia, trasportano migranti economici. La rotta che conduce al litorale ionico si è riaperta nell’estate di tre anni fa. Era la via classica delle sigarette di contrabbando. Gli scafisti sono quelli biondi e con gli occhi azzurri. Anche venerdì scorso i carabinieri di Reggio Calabria sono andati a colpo sicuro. Una barca a vela abbandonata in mare, cinquanta immigrati pachistani, un gommone sulla spiaggia poco distante. Una pattuglia ha incrociato due uomini che camminavano a piedi sulla statale, muniti di quegli inconfondibili segni particolari. Documenti prego. Entrambi ucraini, naturalmente. Con visto di ingresso in Turchia sul passaporto, ma non quello d’uscita. Come tutti gli altri che li hanno preceduti. Non è facile tenere una contabilità aggiornata. Le maglie della rete sono larghe. La rotta che dalle coste greche e turche conduce al litorale ionico si è riaperta nell’estate di tre anni fa. Era la via classica delle sigarette di contrabbando. Dalle ordinanze della procura di Crotone, la più interessata da questo tipo di sbarchi. «A mero titolo esemplificativo, tra il 2016 e il 2017 le organizzazioni criminali e transnazionali hanno allestito circa 26 imbarcazioni tra velieri e yacht dirette verso il territorio calabrese, e nel medesimo periodo questa polizia giudiziaria ha sottoposto a provvedimenti restrittivi della libertà personale più di quaranta scafisti di nazionalità ucraina». Nel 2018 gli sbarchi sul litorale crotonese sono stati 18, nel resto della Calabria ionica sono stati 18, dodici quelli avvenuti sulle coste del Salento. Quest’anno i numeri vanno aggiornati al rialzo. Nel mese di settembre, 15 arrivi tra il reggino e Crotone. Mai meno di trenta migranti, mai più di sessanta. Al tim0ne sempre scafisti dell’Est. Circa ottanta arresti in totale. Tutti ucraini, tranne due lettoni. Gli addetti ai lavori la chiamano «immigrazione di prima classe», definizione che compare ormai anche in qualche informativa delle forze dell’ordine. Non è cinismo. È solo per distinguerla da quella ancora più disperata che dall’Africa punta alla Sicilia. «Sono due fenomeni completamente diversi» conferma il procuratore capo di Crotone, Giuseppe Capoccia. «Qui parliamo di immigrati curdi, pachistani, spesso del Sud Est asiatico, quasi tutti diretti in Germania, migranti economici, dotati di una certa scolarizzazione, interi nuclei familiari che dispongono di informazioni e consapevolezza. Pagano tanto, vengono fatti viaggiare in condizioni quasi accettabili, tanto che spesso non riusciamo a contestare il trattamento inumano e degradante agli scafisti». La parola «yacht» è una esagerazione forse dovuta alla necessità di sintesi giudiziaria. Ma è vero che si tratta di imbarcazioni da 10-12 metri, alcune a vela, neppure paragonabili ai barconi che giungono sulle coste siciliane. E ogni volta, questa anomalia degli scafisti ucraini. Così vistosa, così fuori contesto. «Nazionalità eccentrica rispetti ai clandestini trasportati», scrive un giudice per le indagini preliminari. Sui loro telefonini viene ritrovato ogni volta «un messaggio ricevuto dalla Turchia comunicante coordinate geografiche coincidenti con quelle dell’avvenuto sbarco». Alcuni sono stati arrestati in albergo. Avevano prenotato una stanza, si stavano cambiando d’abito dopo la doccia. Altri mentre si allontanavano senza fretta. «Lo scorso marzo ho messo un annuncio su un giornale ucraino, chiedendo un lavoro ben pagato per le mie qualità di marinaio e di ex militare dell’esercito. Pochi giorni dopo sono stato contattato telefonicamente da una persona. Mi ha proposto, per una paga di 2.600 euro, di effettuare un viaggio in barca, senza entrare in altri particolari». Nel luglio di quest’anno Y. K., 29 anni, accetta di parlare agli inquirenti. «Sono partito insieme a un equipaggio di due persone da una città fluviale dell’Ucraina, dove una persona mi ha fornito i documenti e la chiave della barca. Dal fiume abbiamo raggiunto il mare e poi la Turchia, facendo sosta nei porti di Canakkale e Babakale. Qui abbiamo fatto salire a bordo le persone. Abbiamo navigato per cinque giorni. Mi è stato chiesto di non accettare nessuna somma dai migranti». Alcune barche risultano rubate in Bielorussia. La maggioranza di quelle usate per la traversata vengono noleggiate nei porti di partenza. I migranti dichiarano di aver pagato cifre che si aggirano sempre intorno ai diecimila euro a trafficanti di nazionalità turca. «Gli scafisti erano muniti di cibo per tutti e di attrezzatura per sfuggire ai controlli» mette a verbale Zeeshan Tubassum, agronomo pachistano. «Dopo aver ricevuto un messaggio, scendevano sottocoperta per prendere da un mobiletto le bandiere che issavano ogni qualvolta, credo, giungevamo in acque territoriali di uno Stato. Siamo partiti con la bandiera turca, poi siamo passati a quella greca e infine alla bandiera italiana». Alcuni scafisti hanno fatto più viaggi. Uno degli ultimi arresti nel crotonese riguarda un marinaio ucraino ricercato anche dalla procura di Lecce per due sbarchi avvenuti l’anno scorso. «L’esistenza di un racket criminale e transnazionale sembra ormai provata» scrivono i magistrati. Infatti ora indaga la direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Sono già partite due rogatorie in Grecia e in Turchia. Il mistero degli scafisti ucraini non è una nota a margine nel dramma dell’immigrazione. Nel silenzio, la rotta dell’Est che attraversa l’Egeo e finisce nel mar Ionio rappresenta ormai la principale via di ingresso per l’Italia. Ed è anche la più redditizia, per i trafficanti che la sfruttano.
Tremila euro per venire in Italia: così ci portavano i migranti dall'Est. Si tratta in gran parte di siriani, iracheni, iraniani, eritrei e afghani, riconducibili al traffico dai Balcani al nostro Paese. Le indagini delle Polizie di Slovenia, Italia, Bosnia e Croazia hanno permesso di smantellare l'organizzazione composta da 10 persone, che avrebbero guadagnato illegalmente circa 450 mila euro. Andrea Pegoraro, Martedì 22/10/2019, su Il Giornale. Sono arrivati in Italia illegalmente attraverso la rotta balcanica, pagando i trafficanti tra i 1.500 e i 3.000 euro. Si tratta di 150 migranti in gran parte siriani, iracheni, iraniani, eritrei e afghani. Le indagini delle polizie di Slovenia, Italia, Bosnia e Croazia hanno consentito di smantellare una rete criminale di trafficanti di uomini composta da almeno 10 persone. Le ricerche sono state coordinate da Europol, l’agenzia dell’Unione europea finalizzata alla lotta al crimine. In Slovenia sono stati quindi denunciati per il reato di immigrazione clandestina tre sloveni, sei serbi e un croato. Durante le perquisizioni sono state sequestrate anche piccole quantità di droga e una pistola carica. Secondo le stime degli inquirenti, l’organizzazione avrebbe guadagnato in modo illecito circa 450 mila euro. Basti pensare, che i migranti erano disposti a pagare fino a 3.000 euro pur di scappare dai loro Paesi. Venivano fatti arrivare in Italia dai Balcani, attraversando Bosnia, Serbia, Croazia e Slovenia. Dean Juric, della direzione Polizia di Capodistria ha detto che gli attraversamenti illegali dei confini di stato si sono svolti prevalentemente lungo la valle del Dragogna. Come riporta TV Koper-Capodistria, uno degli episodi chiave per smantellare la rete risale all’estate scorsa quando un cittadino sloveno è stato fermato a Trieste durante un inseguimento dal confine di Rabuiese. Giuseppe Colasanto, dirigente della Polizia di Frontiera del capoluogo giuliano, ha spiegato che “il cittadino sloveno aveva nascosti dentro la sua vettura 3 migranti clandestini iracheni. L’auto risultava essere stata presa a noleggio in Slovenia. È stata sequestrata dalla polizia italiana e l’autista è tuttora in carcere a Trieste”. Fondamentale è stato quindi lo scambio di informazioni tra le Polizie dei vari Stati coinvolti da questo traffico illecito. Per l’Europol questa operazione ha avuto una grossa importanza perché la rotta balcanica è tra le più battute dai migranti clandestini. Uros Lavric, della direzione generale Polizia slovena, ha spiegato che sul lungo termine, lo smantellamento di organizzazioni come questa "non significa molto. Lo è invece a breve termine perché almeno per un po' di tempo non sarà più operativa. Lo scopo principale è sempre il profitto, perciò si fa presto a ricostruire la rete e a riprendere l’attività”. Valter Grzeta, della Questura istriana ha sottolineato che grazie agli strumenti previsti dagli accordi bilaterali e dall’Unione europea "anche la Croazia è riuscita a portare a termine questa operazione con l’arresto nel nostro Paese di 3 persone dedite all’organizzazione dell’immigrazione clandestina”.
«Io, trafficante di uomini vi racconto il mio lavoro». «Ho visto gli annegati, mi sono commosso. Ma poi ho pensato che in fondo li avevo aiutati. Se decidono di partire è perché pensano di non avere scelta. Si sentono morti nel loro paese e anche qui». Francesca Mannocchi il 31 ottobre 2019 su La Repubblica. Cinquemila migranti chiusi nei centri di detenzione ufficiali, decine di migliaia in quelli non ufficiali gestiti dalle milizie. una guerra in corso dal 4 aprile che ha provocato 120 mila sfollati, 1000 morti di cui 100 civili. In mezzo i soldi dell’Europa e dell’Italia, arrivati negli ultimi anni, aumentati anno dopo anno. Sullo sfondo il business del traffico di uomini. L’Espresso in edicola da domenica e già online su Espresso + è riuscito ad incontrare e registrare un’intervista con un trafficante di Sabratha, che - per ragioni di sicurezza - vuole restare anonimo.
Come è cambiato in questi mesi il traffico di uomini?
«Al momento è molto complicato per i migranti raggiungere la costa, a causa delle condizioni di sicurezza. Per questo il traffico si è un po’ indebolito, perché i migranti non riescono in gran parte ad arrivare sulla costa. Le strade sono bloccate dai combattimenti e i negoziatori non riescono ad attirare clienti».
Cerca di riassumere la rete, come funzionano gli spostamenti da una zona all’altra?
«I migranti arrivano da sud, ci sono varie reti di contrabbando. A volte a trasportare i migranti è gente comune, che di solito non lavora come trafficante. Sono civili, gente normale che fa semplicemente un viaggio con un carico di migranti fino alla zona successiva. Ci sono diversi punti di consegna, ogni regione, tribù, ha qualcuno che prende il trasporto fino al punto successivo. Ad esempio da sud, da Sabbha, da Beni Walid da Al-Hamada, da Ghadamas raggiungono Zintan. A Gharian vanno verso le aree di montagna e scendono nella valle di Wadi Al-Hayya fino all’ultimo punto di trasporto che è Zawia, o Sabratha. E ovviamente ci sono gruppi da Tripoli, partono dalle vicinanze dell’aeroporto di Mitiga verso le coste ovest».
Bija, i misteri del supertrafficante libico: a Roma nel 2017 ospite della Guardia costiera. "Avvenire" documenta con foto la partecipazione del boss di Zawyah a un vertice con nostri funzionari. Quattro giorni prima era al Cara di Mineo per un "incontro formativo" coordinato dall'Onu. Nei campi profughi da lui gestiti le prove di molte uccisioni. La Repubblica il 06 ottobre 2019. La foto è del 15 maggio 2017, è scattata a Roma nel quartier generale della Guardia costiera, accanto agli ufficiali italiani c'è Abdalrahman al-Milad detto Bija, trafficante di uomini libico, elegantissimo, posa atletica, capelli impomatati. Sul sito della Guardia costiera, nota Nello Scavo nell'inchiesta scoop di "Avvenire", si afferma che l'incontro con una delegazione di rappresentanti di diverse amministrazioni libiche e di funzionari dell'Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) è avvenuto "nell'ambito del progetto Sea Demm- Sea and Desert Migration Management for Lybian authorities to rescue migrants. E' l'inizio della cooperazione che delegò alla Guardia costiera libica la cattura dei migranti in mare. A che titolo un noto aguzzino di migranti venne accolto a Roma, si domanda il giornale vicino alla Cei? Quattro giorni prima Bija era stato ospite in Sicilia della nostra Guardia costiera al Cara di Mineo e in altri centri per l'immigrazione per "incontri formativi". Già l'anno precedente nei report dell'Onu si parlava di uccisioni di profughi nel campo di prigionia di Zawyat, in Libia, sotto il controllo dello stesso Bija e del suo clan. Che sia lui il boss di un network nel traffico di esseri umani è cosa nota da tempo. La nostra intelligence (l'Aise, il servizio per l'estero) ha smentito la presenza di agenti italiani al meeting avvenuto a Mineo. Ma i punti oscuri restano. La portavoce del Servizio europeo di azione esterna Maja Kocijancic, scrive "Avvenire", ribadisce che "nessuno dei guardiacoste addestrati da Operazione Sophia è sulla lista di sanzioni Onu". E la Ue ha chiesto alla Guardia costiera libica di occuparsi del caso Bija, "a quanto ci risulta sospeso dal servizio", dunque non un referente delle guardie costiere europee. Ma secondo indagini delle Nazioni Unite le motovedette del boss di Zawyah sono ancora attive e rispondono alle chiamate della centrale di Tripoli, a sua volta allertata dalle guardie costiere, per esempio, di Italia e Malta.
Il trafficante libico Bija in Italia: ecco la lettera ufficiale di invito. Una missiva protocollata da un’agenzia Onu. Destinatario: il consolato italiano a Tunisi. E il “comandante Bija”, considerato un potente boss degli scafisti, è venuto nel nostro Paese per incontri istituzionali. Telesio Malaspina il 18 ottobre 2019 su L'Espresso. Come mai il libico Abd Raman al Milan, detto “comandante Bija”, ex capo della Guardia costiera accusato dalle Nazioni Unite di essere uno dei più potenti trafficanti di esseri umani, nel 2017 è stato invitato a una serie di incontri ufficiali in Italia? Chi lo ha davvero invitato? E chi ha concesso e protocollato i documenti? La questione, esplosa dopo un’inchiesta del reporter Nello Scavo sul quotidiano Avvenire , è ora al centro di polemiche, indagini e interrogazioni parlamentari nel nostro Paese. L’Espresso è in grado di mostrare in esclusiva un documento fondamentale della vicenda: la lettera con cui il 3 aprile di due anni fa l’Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni, chiedeva all’ufficio consolare italiano di base a Tunisi l’emissione dei visti per la delegazione libica di cui faceva parte anche Bija. Abd Raman al Milan è poi effettivamente venuto in Italia il maggio successivo: sia in Sicilia sia a Roma, dove ha avuto anche colloqui con «autorità italiane», così come anticipava la stessa lettera dell’Oim. L’Oim è un’agenzia delle Nazioni Unite con sede centrale a Ginevra e uffici anche in Italia. Il suo presidente è il portoghese Antonio Vitorino, ex commissario Ue. L’Onu stessa ritiene che il “comandante Bija” sia un signore della guerra tra i principali boss del traffico di esseri umani. Nel 2018 il Consiglio di sicurezza ha ordinato il congelamento dei suoi beni e gli ha imposto il divieto d’espatrio. Secondo la versione ufficiale delle autorità italiane, il nostro consolato sarebbe stato ingannato da “documenti probabilmente falsi” presentati da Bija. Lo stesso boss libico, ex capo della guardia costiera di Zawhia, ha smentito questa tesi sostenendo di essere arrivato in Italia con il suo vero nome e i suoi regolari documenti, facendo seguito a un invito ufficiale. Le domande sull'incontro a Mineo, dunque, restano ancora aperte. Le versioni troppe e troppo discordanti.
Inchiesta sui trafficanti di essere umani: il giornalista Scavo sotto tutela. Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 da Corriere.it. È da venerdì sotto tutela della Polizia Nello Scavo, il giornalista di «Avvenire» che sta seguendo l’inchiesta che ha svelato la presenza del trafficante di esseri umani Abd al-Rahman al-Milad, meglio conosciuto come Bija, all’incontro di Mineo in Sicilia nel 2017 con le autorità italiane. «Sono sereno e rifarei tutto il lavoro che ho fatto, senza alcun timore» queste le parole del cronista minacciato dopo la pubblicazione degli articoli. Nei giorni scorsi era stato il viceministro dell’Interno, Vito Crimi, a commentare che «le minacce, neanche tanto velate, di Bija sia contro Nancy Porsia che contro Nello Scavo per l’inchiesta che sta conducendo per Avvenire sono intollerabili. Invece di rispondere nel merito accusa il governo italiano di affermare il falso e oltremodo attacca chi cerca di fare luce sulla sua visita in Italia anche se indicato come trafficante di esseri umani». Scavo, sulle pagine del quotidiano della Cei, ha condotto un’inchiesta sulla presenza di Bija all’incontro nel 2007 tra le autorità italiane e le autorità libiche per arrivare ad un accordo e bloccare le partenze di profughi da quel Paese verso il nostro. «Ho grande preoccupazione ma anche la consapevolezza dell’importanza del lavoro svolto da parte del collega Nello Scavo e di tutta la redazione del giornale» ha commentato il direttore dell’Avvenire Marco Tarquinio.
Le verità di Bija: "Nel 2017 sono stato anche a Roma". Questa sera è andata in onda l'intervista integrale a Bija, il presunto trafficante libico presente in Italia nel maggio 2017 come rappresentante della Guardia Costiera del suo paese: "Sono stato anche a Roma ed ho incontrato molti personaggi delle istituzioni italiane". Mauro Indelicato, Venerdì 25/10/2019, su Il Giornale. In questo venerdì mattina erano sorte già delle anticipazioni sull’intervista curata da Francesca Mannocchi a Bija, nome di battaglia di Abdou Rahman e presunto trafficante che ha però partecipato come rappresentante della Guardia Costiera libica in un incontro al cara di Mineo. Ed in quelle anticipazioni era già possibile notare alcuni particolari di non poco conto, come ad esempio la divisa della Guardia Costiera addosso a Bija ed la dovizia di dettagli con cui l’intervistato ha rivelato la modalità con la quale regolarmente ha ottenuto il visto per l’Italia. Dettagli che già di per sé potevano mettere in imbarazzo il governo, ma con la visione dell’intervista integrale andata in onda questa sera su Propaganda Live dubbi e domande sono aumentati. In primo luogo, l’intervista viene effettuata in quella che è sembrata una sede istituzionale del governo di Tripoli. Bija è apparso con la divisa della Guardia Costiera, la sua menomazione alla mano destra frutto di un episodio accaduto in battaglia nel 2011 era ben visibile e, non di rado, durante il colloquio si è sentita una voce fuori campo che suggerisce all’intervistato alcune risposte. Come ha poi rivelato Francesca Mannocchi, quella voce era di Ayoub Qassim, storico portavoce della Guardia Costiera Libica. E qui sono emerse spontaneamente altre e diverse domande. La prima sul ruolo di Bija: lui, raggiunto da inchieste che negli anni lo hanno inchiodato quale trafficante, nel 2018 è stato sanzionato dal consiglio di sicurezza dell’Onu proprio in base ai report compromettenti. Da quel momento, come ha ribadito appena poche settimane fa il governo di Tripoli, Bija è risultato estromesso da ogni ruolo. Invece eccolo davanti alla giornalista italiana con tanto di divisa e con lo stesso portavoce Qassim a suo fianco. “È stato evidentemente reintegrato – ha poi specificato la stessa Francesca Mannocchi dallo studio – Ha fatto intendere di aver ripreso il suo posto grazie al suo operato sul campo”. Bija dunque è, ad oggi, un effettivo della Guardia Costiera libica e si è fatto anche intervistare in una sede istituzionale. Lui, durante l’intervista, è sembrato avere l’aria di chi sa di avere i riflettori puntati addosso, un elemento di prestigio per lui e per la sua tribù di Zawiya. E Bija forse sapeva bene pure che ogni sua parola è destinata ad centellinata in Italia e potrebbe avere pesi non indifferenti. Per prima cosa il libico ha confermato di essere stato in Italia l’11 maggio 2017, così come rivelato dal reportage di Nello Scavo, anch’egli presente alla trasmissione Propaganda Live. Non solo: Bija ha parlato di un vero e proprio “tour” in Italia, che non lo ha portato solo all’incontro incriminato dentro il Cara di Mineo, bensì anche a Roma. Assieme alla sua delegazione composta da dodici persone, di cui però non ha fornito (a precisa domanda) alcuna indicazione, avrebbe varcato la soglia anche di alcuni palazzi romani. “Ho incontrato personalità della Guardia Costiera – ha poi continuato Bija – Ho visto come funzionavano i vari centri d’accoglienza”. Lui descrive quei giorni quasi come un vero e proprio corso di formazione. Ed ha aggiunto anche un dettaglio importante: “L’invito è arrivato dall’Oim”, con riferimento all’agenzia Onu che si occupa di migranti. Una circostanza questa che andrebbe a smentire quanto dichiarato, dalla sede di Ginevra, proprio dall’Oim la quale, nei giorni scorsi, ha invece dato al Viminale la paternità di quell’incontro. “Le trattative con l’Italia comunque – ha precisato Bija, aggiungendo un altro particolare importante – Non andavano avanti solo in quei mesi, andavano avanti da anni”. Dunque, da Roma la situazione era molto conosciuta. Secondo il libico, l’aiuto italiano è stato importante perché sono stati forniti mezzi alla “sua” Guardia Costiera, circostanza che avrebbe permesso poi ai suoi uomini di operare. Bija si è poi lanciato verso una critica nei confronti delle organizzazioni non governative: “Quando le Ong si avvicinavano alla Libia, il traffico di migranti cresceva”, ha dichiarato a Francesca Mannocchi. In poche parole, si ha a che fare con uno scenario in cui a saltare fuori è la conferma degli incontri ad alto livello tra Bija e le autorità del nostro paese, trattative che sono andate avanti per anni e concluse poi sotto il governo Gentiloni. E quando l’intervistatrice ha fatto presente le accuse sul suo ruolo di trafficante, Bija è sembrato avere per un attimo un ghigno per poi rispondere che si tratta solo di bugie: “Ma rispetto la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu”, ha però concluso in un insospettabile tono diplomatico. Ed anche quando è stato fatto notare un video dove si è notato Bija picchiare alcuni migranti, il libico si è difeso dicendo che in quel momento è servito per riportare ordine in una fase di agitazione durante un soccorso. Per nulla turbato ma anzi quasi inorgoglito da questa attenzione mediatica degli ultimi giorni, Bija ha quindi fornito la sua verità che non può fare altro che imbarazzare ulteriormente le autorità italiane. Tanti infatti gli elementi confermati: dalla trattativa alla visita in Italia, passando per il suo ingresso con regolare visto e senza manomissioni della sua identità, come invece nei giorni scorsi ha sostenuto il Viminale. Tante conferme, ma anche tanti dubbi. A partire da quello che riguarda il ruolo attuale di Bija, il motivo reale del suo reinserimento tra gli uomini in divisa libici e la composizione della delegazione presente in Italia due anni fa. Interrogativi che, nei prossimi giorni, faranno crescere la pressione politica anche sull’attuale governo.
Chi è Bija, tra petrolio e schiavi un uomo al centro del sistema. Ritratto di Abdul Rhaman Milad, capo della guardia costiera libica della zona Ovest, e accusato di essere al centro del traffico di essere umani. Francesco Mannocchi il 25 ottobre 2019 su L'Espresso. Abdul Rhaman Milad detto Bija (foto di Alessio Romenzi)Abdul Rahman Milad, nom de guerre Bija, classe 1989, è il prototipo più efficace di cosa è stata la Libia dopo la rivoluzione del 2011. Nel 2011 Bija, giovanissimo, lascia l’accademia navale e si unisce ai ribelli, combattendo per deporre l’ex rais Muammar Gheddafi. In combattimento viene ferito nove volte, perde un pezzo della mano destra per lo scoppio di una granata, perde un fratello morto in combattimento. Bija, dopo essere stato ferito più gravemente, viene curato in Germania, tornerà dopo mesi essendosi guadagnato la fiducia dei suoi pari e di quelli che diventeranno i suoi capi. Dopo la rivoluzione, governi deboli, contrapposti e guerre civili irrisolte hanno creato un il vuoto di potere e di controllo che è stato riempito dalle milizie, le stesse che erano state protagoniste della rivoluzione e che cominciano a spartirsi le aree di interesse, gli asset strategici, economici, ma anche i consigli comunali e naturalmente istituzioni come la guardia costiera. Dopo il 2011 la tribù di Bija - Awlad Bu Hmeira - conquista il controllo del porto di Zawhia, zona più che strategica, per il petrolio e per le partenze dei migranti. A Zawhia infatti c’è una delle più grandi raffinerie di tutto il paese, con una capacità di 150 mila barili al giorno. A Zawhia dunque cominciano a incrociarsi le rette dei traffici libici: i migranti e il petrolio. Che troppo spesso sono unite, e troppo poco vengono descritte come parte dello stesso meccanismo criminale. La tribù di Bija conquista dunque di fatto il controllo della raffineria. Che significa controllare chi entra chi esce, ma soprattutto controllare i traffici, il petrolio di contrabbando che - secondo Mustafa Sanalla, capo del NOC (National Oil Corporation, cioè l’unico ente libico che può tassare vendere e trattare il gas e il petrolio) - ammonterebbe al 40% dell’intera produzione del paese. A Bija in questo “sistema” spetta il controllo del porto e diventa capo del ramo locale della guardia costiera, cioè la Guardia Costiera Ovest. Dopo la rivoluzione e i bombardamenti della Nato buona parte della flotta della Marina è andata distrutta e i dipendenti non sono stati pagati per mesi, mentre la Libia diventava la sede di un traffico di uomini che andava assumendo la struttura dell’industria e diventava il principale punto di transito per la rotta del Mediterraneo centrale. Miliziani come Bija hanno riempito i vuoti, diventando parte di una triangolazione di interessi che descrivono perfettamente il sistema-Libia. All’inizio del 2017 alcune inchieste giornalistiche (si veda soprattutto il lavoro di Nancy Porsia, ma anche Annalisa Camilli, lo stesso Espresso di quei mesi) cominciano a descrivere Bija come il perno dei traffici di Zawhia e un video pubblicato dal quotidiano inglese The Times riprende i suoi uomini picchiare migranti con una frusta dopo averli recuperati in mare, nel video i migranti sono terrorizzati, vorrebbero buttarsi in mare e si attaccano spaventati al bordo della nave. Il 2017 è l’anno cruciale in cui viene rinnovato il Memorandum d’Intesa con lo Stato libico. Febbraio del 2017. Il titolo del testo è: Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana.
Comma b e c dell’articolo 1:
B) la parte italiana fornisce sostegno e finanziamento a programmi di crescita nelle regioni colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale, in settori diversi, quali le energie rinnovabili, le infrastrutture, la sanità, i trasporti, lo sviluppo delle risorse umane, l’insegnamento, la formazione del personale e la ricerca scientifica.
C) la parte italiana si impegna a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, e che sono rappresentati dalla guardia di frontiera e dalla guardia costiera del ministero della Difesa, e dagli organi e dipartimenti competenti presso il ministero dell’Interno.
Significa che uomini come Bija vengono inseriti in un doppio gioco di fatto. Prendono risorse dall’Italia e dall’Ue per intercettare i migranti e prendono denaro dai trafficanti per proteggere le loro operazioni illegali, il traffico dei migranti e la gestione dei centri di detenzione. Nonostante le informazioni su Bija fossero note da mesi e non potevano non essere note agli staff locali delle organizzazioni internazionali e delle sedi diplomatiche, a marzo 2017 Bija viene selezionato dall’Oim (organizzazione internazionale per le migrazioni) come uno dei due membri della Guardia Costiera Libica per fare parte della delegazione che nel maggio 2017si è recata in Italia per una visita di “studio”, in Sicilia e Lazio. Obiettivi: studiare il sistema di accoglienza italiano nei centri di accoglienza e nei porti di sbarco. Operare con la Guardia Costiera Italiana, studiare i radar, le procedure. Stringere accordi. Nell’estate del 2017 un lungo report delle Nazioni Unite inserisce per la prima volta il nome di Bija come parte del sistema criminale della zona di Zawhia. Il report descrive la Brigata al-Nasr, comandata da un cugino nonché uno dei capi di Bija - Mohammed Koshlaf - come la brigata che ha in mano i principali traffici della zona, il traffico di carburante e il traffico di uomini che gestirebbe in accordo con Bija, responsabile di far partire solo i gommoni di trafficanti “amici”, cioè quelli affiliati o quelli che pagano mazzette per partire e bloccare gli altri, recuperandoli in mare e gestendoli a terra, attraverso il centro di detenzione locale, anch’esso denominato “al Nasr” come la milizia, e gestito da uomini vicini al capo Koshlaf. Uomini accusati di violenze, torture e estorsioni a danno dei migranti, che una volta portati indietro rientrano in un circolo di violenza e abusi e ricatti. Secondo le Nazioni Unite, gli uomini di Milad consegnavano i migranti al centro di detenzione, una struttura fatiscente dove diventavano vittime di abusi e si legge nel report «nel centro i migranti venivano venduti ad altri trafficanti». E le donne «sono state vendute sul mercato locale come schiave del sesso». Gli investigatori e il panel di esperti delle Nazioni Unite affermano che Bija e altri membri della guardia costiera «siano direttamente coinvolti nel naufragio delle barche dei migranti attraverso l’uso di armi da fuoco». E sempre secondo le testimonianza raccolte nel report, la guardia costiera guidata da Bija tasserebbe ogni barca e gommone. Chi non pagava veniva punito. Sempre nel 2017 Amnesty International pubblica un lungo, dettagliatissimo report. Si legge «Le reti criminali [di Zawhia, ndr] tramite la guardia costiera, impediscono alle bande rivali di svolgere con successo operazioni di contrabbando. Anche la guardia costiera di Zawiya è coinvolta nel commercio di contrabbando». La documentazione di Amnesty International rivela che alcuni membri della guardia costiera libica sono collusi con i trafficanti fornendo un passaggio sicuro in cambio di un pagamento. Il fatto che Bija fosse un personaggio quantomeno controverso non ha impedito ai paesi europei di stringere accordi con lui. Questo lo porta al seminario. Proprio lui, spiegano nella base della Marina al porto di Tripoli, perché si è distinto sul campo. «È uno dei nostri uomini migliori», ripetono tutti nell’ufficio di Ayub Qassim, portavoce della Guardia Costiera. Dunque Bija nel Maggio 2017 arriva con la delegazione libica in Italia, dorme in Sicilia, viaggia a Roma dove alloggia in un hotel del centro della città. Fa foto ufficiali nella sede della guardia costiera italiana, che vengono pubblicate salvo poi sparire dal server dopo l’inchiesta di Nello Scavo su Avvenire che ha rivelato la presenza di Bija, lo scorso 4 ottobre. Il sistema-Libia consiste esattamente in questo. La milizia Nasr controlla ogni cosa a Zawhia: raffineria, traffici, centro di detenzione. Ma la guardia costiera è una istituzione ufficialmente riconosciuta e Bija è un ufficiale del governo sostenuto dalle Nazioni Unite e basato a Tripoli. Nel Luglio 2018 Bija viene sottoposto a sanzioni dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sanzioni che prevedono il divieto di viaggio e blocco dei beni, proprio per i crimini su cui sta indagando la Corte Penale Internazionale de L’Aja. «Alcuni dei suoi uomini - si legge nei documenti della Corte - avrebbero beneficiato dei programmi Ue di addestramento nelle operazioni Eunavfor Med e Operazione Sophia ». Bija è inoltre accusato di aver dato ordine ai suoi uomini di sparare su pescherecci e navi umanitarie. Dopo le sanzioni viene sollevato dall’incarico. Smette cioè di essere a capo della Guardia Costiera Ovest. Ma lo scorso 15 ottobre Bija riceva la lettera ufficiale dalla Guardia Costiera di Tripoli per riprendere il suo posto a capo della Guardia Costiera di Zawhia. Dopo l’inizio della guerra il 4 Aprile scorso, Bija è stato visto più volte al fronte combattendo a difesa della città di Tripoli contro le forze del generale Haftar. Un altro importante documento, firmato dal governo di Sarraj ad agosto assegna alla zona Ovest, cioè la zona che comprende Zawhia, 8 milioni e novecento mila dinari attraverso il Ministero della Difesa. Che è come dire che il governo assegna ai gruppi armati che fanno parte del ministero della difesa soldi per difendere la città sotto assedio. Sarraj in un discorso pubblico in tv ha chiesto a tutte le forze miliari e di sicurezza e a tutte le istituzioni sotto il Ministero dell’Interno di scendere in campo in difesa della città. Tutte le istituzioni sotto il Ministero dell’Interno, tutti i gruppi armati, inglobate nelle forze ufficiali a colpi di decreto. Cambia l’uniforme, ma non la sostanza. Anche Bija è uno di loro, parte del sistema Libia.
Bija racconta la sua visita in Italia: «Sì, sono stato anche al Ministero dell'Interno». «A Roma ho visto diverse persone. Il ministro Minniti? Non ricordo». Parla Abdul Rhaman Milan detto "Bija", l’uomo accusato di essere un trafficante e invitato in italia nel 2017. «Siamo andati anche alla Guardia Costiera italiana, alla Croce Rossa Italiana, al Ministero della Giustizia italiano e poi siamo andati al Viminale stesso». Francesca Mannocchi il 25 ottobre 2019 su L'Espresso.
Nel maggio del 2017 lei era in Sicilia, cominciamo dal principio. Chi l’ha invitata?
«Ho ricevuto l’invito da Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) tramite la Guardia costiera che fa parte della Marina libica. Il viaggio non riguardava solo l’Italia ma anche Tunisi e la Spagna. È stato un viaggio molto fruttuoso, in Italia abbiamo cambiato posto ogni giorno, in Sicilia, a Roma, nel Lazio. È stato utile perché abbiamo visitato le navi dell’Operazione Sofia e della Guardia costiera italiana, il centro di accoglienza in Sicilia a Mineo».
Sul foglio in possesso de L’Espresso - datato 3 aprile 2017 – l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) in veste di ente organizzatore di una visita di studio in Italia “prega la sezione consolare italiana a Tunisi di facilitare le procedure di emissione dei visti” e si parla di tredici persone. Chi erano queste persone? Chi componeva la delegazione libica?
«C’erano dodici membri oltre me, alcuni del ministero dell’Interno libico, specificamente del Dcim cioè l’ente che si occupa dell’Immigrazione illegale, poi membri del ministero degli Esteri, del ministero della Giustizia, un membro dell’ufficio del Procuratore generale e un altro membro della Guardia costiera».
Quindi lei è partito per l’Italia con un visto regolare?
«Sono partito con un visto regolare, ho fatto un colloquio in una sede dell’Ambasciata italiana in particolare presso l’ufficio di rappresentanza al dodicesimo piano della torre di Tripoli. Sono andato lì, ho fatto richiesta del visto, mi hanno fatto le foto e dunque tutti sapevano che Abdul Rhaman sarebbe arrivato in Italia. Sempre nella lettera di invito di Oim si legge che la proposta di programma “prevede incontri presso diverse autorità italiane e comunitarie”».
Quali membri delle istituzioni italiane avete incontrato?
«Per prima cosa abbiamo visitato il porto di sbarco in Italia, in Sicilia, non ricordo bene la zona precisa e lì ci hanno spiegato come vengono accolti i migranti quando sbarcano, poi li hanno trasferiti da un centro ad un altro e abbiamo visitato i centri per migranti. C’erano anche migranti libici e siriani, ricordo. Solo questo».
Lei ha detto all’inizio del nostro incontro che la conferenza italiana è stata molto fruttuosa, perché?
«Ho visitato le motovedette italiane e come trattano i migranti, come noi. Fanno le foto con le registrazioni, abbiamo imparato come la Guardia costiera usa radar e altri mezzi. Abbiamo stretto una cooperazione tra la Guardia costiera libica e quella italiana per riattivare i termini dei Memorandum, come quelli vecchi del 2008».
Due mesi dopo la sua visita in Italia, le partenze dalle coste libiche verso l’Italia improvvisamente si fermano, in modo drastico. Una delle ricostruzioni del suo incontro in Italia è che quella conferenza sia stata occasione per una trattativa segreta tra lei e le istituzioni italiane per bloccare le partenze. È vero?
«È molto complicato da spiegare. E lungo. Noi consideriamo la trattativa in corso da anni non da pochi mesi. Prima dell’arrivo delle motovedette italiane la Guardia costiera libica era debole, lavoravamo solo con uno Zodiac di sette metri. Dopo gli accordi con l’Italia abbiamo rimesso in mare una motovedetta, la Tallil. E quando abbiamo ricevuto le motovedette eravamo sempre in mare, ne recuperavamo a migliaia. Partivano da tutta la costa, da Sabratha, da Zuwara, ma li prendevamo subito. Se i migranti vengono catturati poi non si fidano più dei trafficanti. Volevamo questo. E poi abbiamo cominciato a prendere i motori e bruciare i gommoni. Era il modo di dire: è finita».
Ma il vero problema erano le Ong. Perché ce l’ha tanto con le Ong?
«Perché erano troppe e troppo vicine, a sei sette miglia dalla costa. È stato un problema, perché le Ong hanno aumentato il numero delle persone che lavoravano nel traffico di uomini. A quel tempo chiunque lavorava nel traffico, donne, bambini, chiunque. Allora cosa abbiamo fatto? Ho chiesto un incontro al colonnello Ayub Qassim (portavoce della Guardia costiera libica, ndr) e gli ho chiesto di spingere le Ong oltre 60 miglia dalla costa. Perché per i gommoni non è possibile arrivare a 60 miglia, solo uno su cento ce la può fare. Era il nostro obiettivo. Mandare via le Ong. E quando ci siamo riusciti, i gommoni arrivavano a venti miglia dalla costa libica e per noi era facile prenderli. Quando abbiamo mandato via le Ong le partenze sono diminuite. Questa era la nostra soluzione».
Perché hanno scelto proprio lei, Abdul Rhaman Milad, tra tanti, per far parte della delegazione libica?
«L’Oim voleva gente esperta che lavorava sul campo. Quando mi hanno chiamato cercavano i più attivi, quelli che avevano più risultati. E come membro della Guardia costiera e capo della Guardia costiera Ovest, a Zawhia ero la persona giusta. Ora mi chiedo, perché questa guerra su Abdul Rhaman? Cosa vogliono queste Ong? Per sfortuna noi non ci siamo trovati a combattere solo le Ong ma anche i Paesi che le finanziano. Le Ong vogliono che smettiamo di fermare il traffico perché vogliono il caos. Le Ong vogliono mettere a tacere la Guardia costiera libica».
Durante il viaggio ha incontrato qualche membro del governo italiano?
«Abbiamo incontrato membri del Ministero dell’Interno».
Chi?
«Non ricordo i nomi, non chiederli perché non ricordo».
Poi?
«Siamo andati anche alla Guardia Costiera italiana, alla Croce Rossa Italiana, Ministero della Giustizia italiano e poi siamo andati al Palazzo del Ministero dell'Interno stesso».
Ricorda di aver incontrato anche l’allora Ministro dell’Interno Marco Minniti?
«Non so, forse, non ricordo».
Qualche mese dopo la sua visita in Italia, l’Onu impone sanzioni contro lei e altre cinque persone, ritenuti boss dei traffici in Libia. Lei è ritenuto un pericoloso trafficante perché secondo le accuse faceva il doppio gioco, “fermando le imbarcazioni dei trafficanti concorrenti per avere il monopolio sulla rotta”.
«Pericoloso trafficante? Ok. Il consiglio di sicurezza i suoi report erano fondati su post su Facebook e social media e altri report maliziosi, falsi. Rispetto la decisione del Consiglio di Sicurezza però non hanno alcuna prova per condannarmi. Vengano qui a interrogarmi. Sono disponibile. Così mi portano le prove. Il video in cui picchio quel migrante? Ve lo spiego perché lo picchio».
A proposito di quel video, durante una intervista con Reuters lei ha detto: “Sì, colpisco i migranti e così si siedono correttamente e non si muovono”, come dire che picchia i migranti che recupera in mare per tenerli calmi.
«Guardate il video per capire perché abbiamo fatto così, nel gommone c’erano donne e bambini e volevano salvarsi saltando velocemente sulla motovedetta. Proviamo a parlare con loro, non ci capiscono. C’erano 140-170 persone e se saltavano tutti insieme non avrei potuto salvarli. Allora ho picchiato uno di loro per fare ordine».
Dopo la decisione del Consiglio di Sicurezza lei è stato sollevato dal suo incarico come capo della Guardia Costiera di Zawhia.
«Ho smesso di lavorare perché ho ricevuto ordine dall’ammiraglio della Guardia Costiera, e come qualsiasi membro, quando riceve una denuncia deve interrompere il suo lavoro e ho lasciato tutto il carico al mio sottoposto».
Tornerà al suo posto?
«Due settimane fa ho ricevuto una lettera ufficiale per tornare al mio posto, a capo della Guardia Costiera di Zawhia».
Immigrazione, l'ex ministro Minniti replica al trafficante libico Bija: "Quando venne in Italia non l'ho mai incontrato". In un'intervista rilasciata all'Espresso, Bija ricostruisce la visita italiana della delegazione libica nel 2017 e alla domanda se Minniti fosse presente agli incontri risponde: "Non ricordo, forse". La Repubblica il 25 ottobre 2019. "Non ho incontrato Bija e non ho incontrato nessuno della delegazione libica". Interpellato da Repubblica, l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti precisa le circostanze della visita in Italia nel 2017 di una delegazione libica, di cui faceva parte anche Bija, uno dei capi della Guardia Costiera libica in seguito accusato di essere un trafficante di esseri umani. Bija, in un'intervista esclusiva pubblicata dall'Espresso, ricostruisce così quella visita: "Abbiamo incontrato i membri del ministero dell'Interno, non ricordo i nomi. Siamo andati anche alla Guardia Costiera italiana, Croce Rossa italiana, centri di accoglienza, ministero della Giustizia, poi siamo andati al palazzo del ministero dell'Interno". Alla domanda se il ministro fosse presente agli incontri, Bija risponde: "Non ricordo, forse". Questa la versione di Minniti: "Una delegazione di funzionari libici era stata portata in Italia dall’OIM, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, un organismo ONU. All’epoca su Bija non c’era il warning (l'avvertimento, ndr) che successivamente è stato lanciato dall’Onu. Non ho incontrato Bija e non ho incontrato nessuno della delegazione libica”.
Il trafficante di esseri umani Bija a Roma dalla Guardia Costiera? Gallinelli: Non sapevamo fosse lui. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 su Corriere.it da Amalia De Simone. Parla l’ammiraglio in congedo della Guardia Costiera, ritratto nel maggio 2017 con Abd al-Rahman Milad: «A noi era stato chiesto solo di ricevere una delegazione che veniva accreditata dalle autorità italiane competenti. La delegazione libica di cui faceva parte anche un uomo considerato dall’Onu un trafficante di esseri umani, che partecipò all’incontro presso il Comando Generale della Guardia Costiera a Roma nel maggio 2017, sarebbe stata composta da persone accreditate dalle competenti autorità italiane con una procedura che riguardava anche l’ambasciata italiana a Tripoli. Lo ha affermato l’ammiraglio in congedo della Guardia Costiera Sandro Gallinelli, ritratto nelle foto pubblicate sullo stesso sito della Guardia Costiera, a margine di uno degli appuntamenti del Festival «Conversazioni sul Futuro» organizzato a Lecce. Gallinelli aggiunge di non sapere come siano andati i fatti, che probabilmente le verifiche saranno state fatte ma che non sa se dietro questo caso ci sia un errore o motivi politici. Mario Morcone, all’epoca capo di gabinetto del ministro Marco Minniti, sostiene che la delegazione fu probabilmente scelta dall’agenzia dell’Onu IOM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e che i controlli avrebbero dovuto farli i servizi segreti e la polizia, senza contare il ruolo dell’ambasciata italiana a Tripoli che è tenuta a rilasciare i visti per chi viaggia verso l’Italia. Il caso riguarda Abd al-Rahman Milad, noto come Bija. Un’inchiesta del giornalista Nello Scavo pubblicata su Avvenire ha ricostruito, prove fotografiche alla mano, la visita di Bija, nel maggio 2017, al Cara di Mineo e successivamente a Roma, nel quartier generale della Guardia costiera italiana. «Innanzitutto va chiarito che non sapevamo che quella persona fosse un trafficante di essere umani né tantomeno che fosse il famoso Bija – spiega l’ammiraglio Gallinelli – anche perché con i nomi arabi spesso ci sono delle difficoltà. Anche se la persona ha delle caratteristiche fisiche particolari noi non dovevamo fare nessuno screening. A noi era stato chiesto solo di ricevere una delegazione che veniva accreditata dalle autorità italiane competenti». Ma chi ha deciso chi doveva far parte di questa delegazione? «Non lo sappiamo. Sappiamo solo che tramite l’IOM che cooperava con il Ministero dell’Interno in un progetto di cooperazione con la Libia per una serie di attività, ci era stato chiesto di ricevere questa delegazione per illustrare come noi lavoravamo nell’attività di soccorso in mare». Gallinelli precisa anche di non sapere se i partecipanti fossero stati decisi dal governo libico. «Sappiamo solo che c’era una procedura di accreditamento tramite l’ambasciata italiana a Tripoli e che queste persone che sarebbero arrivate da noi erano accreditate dalle competenti autorità italiane. Sicuramente la delegazione sarà stata proposta dai libici alle nostre autorità di rappresentanza italiane». Senza verifiche? «Questo non lo posso dire. Sicuramente le verifiche ci saranno state. Evidentemente la verifica è stata fatta a monte». E non si sono accorti che c’era un trafficante di esseri umani? «Adesso non so dire se sia stato un errore o una scelta politica. Noi non possiamo saperlo». Il prefetto Mario Morcone, attualmente direttore del Consiglio italiano per i rifugiati e all’epoca dell’incontro nel maggio 2017 capo di gabinetto del Ministero dell’Interno, precisa di non essersi occupato della composizione della delegazione. «Credo che la proposta dei nomi partisse dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni che è quella che poi aveva costruito questo incontro formativo – spiega – L’OIM è un’agenzia delle Nazioni Unite quindi se i nomi li hanno fatti loro, come io credo, la delegazione l’ha costruita un’agenzia dell’Onu. Naturalmente uno si può porre il problema: ma com’è che non ci siamo accorti della presenza di un trafficante di esseri umani? Questa non è però una questione che riguarda me né il ministro dell’epoca (Marco Minniti n.d.r.)». Morcone chiarisce che sarebbe stato compito di «chi si occupava della sicurezza e cioè i servizi segreti in particolare ed eventualmente le forze di polizia che hanno partecipato. I controlli doveva farli chi li fa in maniera istituzionale». E l’Ambasciata italiana a Tripoli aveva un ruolo?«Doveva avercelo per forza, per il semplice motivo che se tu devi venire in Italia da un paese come la Libia dove c’erano una serie di restrizioni, è chiaro che c’è bisogno del visto. Non è che puoi salire sull’aereo e arrivare in Italia. Comunque c’è bisogno del visto e il visto lo rilascia l’ambasciata».
Libia, le 5 domande che esigono una risposta. Dopo l'intervista dell'Espresso a Bija, l'ex capo della Guardia Costiera di Zawhia accusato di essere un trafficante, le istituzioni devono rispondere a questi quesiti. Anche alla luce del rinnovo del memorandum d'intesa con la Libia sui migranti. L'ESPRESSO il 31 ottobre 2019. La scorsa settimana abbiamo pubblicato un’esclusiva intervista ad Abdul Rhaman Milad, detto Bija , l’ex capo della Guardia Costiera di Zawhia, accusato dalle Nazioni Unite di essere un pericoloso trafficante e perciò sanzionato dal Consiglio di Sicurezza. Durante l’Intervista - svoltasi nella sede ufficiale della Marina a Tripoli - Milad si presenta in uniforme e dà alcune notizie e mostra alcune prove.
1) È arrivato in Italia nel maggio 2017 con un visto regolare, che ci ha mostrato, dopo aver sostenuto una intervista nell’ufficio di rappresentanza dell’ambasciata italiana a Tripoli.
2) È stato richiamato al suo posto, a capo della Guardia Costiera di Zawhia, nonostante le sanzioni, e nonostante un mandato d’arresto dell’aprile 2019.
3) Sostiene di aver visitato alcuni ministeri in Italia (Giustizia e Interni) durante la sua missione del maggio 2017.
TANTE, TROPPE DOMANDE ASPETTANO ANCORA RISPOSTA:
1) L'OIM (l’organizzazione mondiale per le migrazioni) che ha organizzato la “visita di studio di una delegazione di funzionari libici nell’ambito del progetto Sea Demm” si è anche occupata di selezionare i suddetti funzionari? E se sì, quali sono stati i criteri seguiti in questa selezione?
2) La lettera di cui L'Espresso è entrato in possesso è indirizzata all’Ufficio Visti sezione Libia dell’Ambasciata d’Italia. Milad dice di aver sostenuto un’intervista e di essere stato fotografato. «Tutti sapevano che Milad stava arrivando in Italia» dice. Ci sono registri di quell’incontro? Quali sono stati i contenuti di quell’intervista? Chi ha emesso il visto?
3) Sebbene, come ricordato da membri del Governo Gentiloni allora in carica, il primo report delle Nazioni Unite con informazioni su Bija porta la data del giugno 2017, dunque successivo alla visita di maggio, ci chiediamo: nelle lunghe trattative (tra Tunisi, Roma e Tripoli) che hanno preceduto la stesura e la firma del Memorandum di Intesa del febbraio 2017 poteva il governo non essere a conoscenza della composizione della Guardia Costiera ovest, dei report dei servizi di alcuni Paesi europei che circolavano in quei mesi proprio sul clan di Bija? Poteva il governo italiano non sapere che il clan cui Bija fa riferimento si occupa della sicurezza della più importante raffineria della zona che è geograficamente vicina a uno degli asset energetici cruciali del nostro Paese, l’impianto Mellitah Oil Gas? Poteva il governo, che stava stringendo un’intesa economicamente e politicamente così importante, non sapere che la Guardia Costiera libica ha molte facce e tante sfumature e che Bija era a capo della Guardia Costiera Ovest dal 2014 e che la brigata al Nasr aveva già allora in mano i principali traffici (uomini/carburante) della zona?
4) Dopo la pubblicazione del report delle Nazioni Unite Abdul Rahman Milad è stato sanzionato (blocco dei beni e divieto di viaggio) e le autorità libiche hanno emanato nell’aprile 2019 un mandato d’arresto nei suoi confronti. Numerose inchieste giornalistiche italiane e internazionali hanno mostrato in questi anni che il clan di Bija controlli il centro di detenzione di Zawhia, circostanza al centro anche di una inchiesta della Procura di Agrigento, passata alla Dda di Palermo, che hanno contestato per la prima volta il reato di tortura a tre persone arrivate nell’hotspot di Messina, accusati di abusi proprio nel centro di detenzione di Zawhia. Può l’Italia continuare a finanziare centri di detenzione come questo?
5) Infine, Milad afferma di aver visitato dei ministeri nella sua tappa romana della visita di studio e di aver incontrato funzionari di questi ministeri. Chi sono? Esistono registri di queste visite?
Ong, l'ufficiale libico: "Contatti con gli scafisti, sulla pelle dei migranti". Svelato il gioco sporco. Libero Quotidiano il 25 Luglio 2019. "Ho visto personalmente molti contatti su Facebook o Twitter tra Ong e scafisti e vedo molti contatti tra loro". A parlare è il comandante della motovedetta Guardia Coste, Ras Lgder libica, che rivela quella che sarebbe la prova dei comportamenti illeciti delle organizzazioni non governative. "Per prima cosa parlo con lo scafista che a bordo ha gli immigrati - spiega il comandante della guardia costiera - e chiedo che spenga il motore. Se nessuno ferma il motore, avvicino il mio zodiac alla barca. A quel punto sono molto vicino, fermo il motore, parlo a tutti, uno a uno e dico loro di salire". Ma loro temono di ritornare in Libia e quindi oppongono resistenza fino a quando non vedono una ong. La Guardia costiera libica infatti si trova spesso in mare con le navi delle organizzazioni che pattugliano il mare di fronte alle coste all'Africa: "Parlo con le Ong - prosegue Mustafa - chiedo loro di non avvicinarsi per non mettere a rischio la vita dei migranti. Ma a volte non stanno ad ascoltare". Di scontri tra navi umanitarie e Marina di Tripoli nel tempo ce ne sono stati diversi, con accuse incrociate. "Non stanno ad ascoltare - insiste Mustafa - vogliono solo prendere i migranti. E questo crea una situazione pericolosa". Alla domanda fatidica se esiste un "coordinamento" tra scafisti e Ong, il militare risponde: "Sì, senz'altro. Ho visto personalmente molti contatti tra Ong e scafisti".
Ora i libici accusano le ong: "Usano i soldi dei trafficanti". L'ammiraglio Qassem non usa giri di parole e punta il dito contro le navi "buoniste": "Legami coi trafficanti di uomini". Angelo Scarano, Sabato 06/07/2019, su Il Giornale. Adesso parla la Guardia Costiera libica. Dopo il caso Sea Watch e soprattutto dopo il braccio di ferro con Alex e Alan Kurdi, i libici prendono una posizione chiara sui salvataggi delle ong davanti alle coste di Tripoli. A parlare di quello che accade in mare e di presunti rapporti tra le stesse ong e gli scafisti: "Con un pieno ritorno delle attività delle ong nel Mediterraneo ci sarà un esodo di migranti verso l’Italia", ha affermato all'Adnkronos Ayoub Qassem, ammiraglio e portavoce della Guardia Costiera libica. Il militare manda un messaggio chiaro alle ong ma anche al governo italiano. Il rischio, a suo dire, è che gli arrivi con le ong diventino una sorta di prassi che può risvegliare un'ondata di partenze dalla Libia: "Il governo italiano - continua - non deve permettere alle persone salvate da queste navi di poter sbarcare perchè altrimenti si diffonderà di nuovo la cultura dell’emigrazione verso l’Europa, con evidenti ripercussioni sia sulla Libia che sull’Italia". A questo punto Qassem parla proprio delle mosse delle ong. L'accusa è abbastanza chiara: interferiscono con le operazioni di soccorso. Spesso le ong intervengono senza aspettare l'arrivo delle motovedette e dunque caricano i migranti a bordo senza averne l'autorizzazione. "Non possiamo continuare a fare gare di velocità con le imbarcazioni delle ong. Quando il centro di coordinamento di soccorso riceve la conferma del nostro intervento, non deve permettere ad altri di entrare in azione. Noi non vogliamo scontrarci con le ong", ha aggiunto. Infine arriva l'accusa più pesante per le ong. L'ammiraglio parla di presunti rapporti tra gli equipaggi delle navi e i trafficanti di esseri umani: "Abbiamo il sospetto che ottengano ricompense dirette, oltre a quelle indirette, per ogni persona che fanno arrivare in Europa. Ogni intervento che fanno loro è per favorire l’immigrazione in Libia dall’Africa subshariana e per avere maggiore peso politico in Europa. A questo si aggiunge l’aspetto materiale: non solo aumentano le raccolta dei fondi a proprio favore ma non escludiamo che abbiano finanziamenti direttamente legati ai trafficanti di essere umani". Parole pesantissime che di certo faranno discutere. Mediterranea ha infatti deciso di portare in tribunale Salvini che ha definito "trafficanti" gli operatori delle ong. Ora i "buonisti" quereleranno anche l'ammiraglio Qassem?
Gli scafisti usano i social per portare i migranti in Italia. Sempre più organizzazioni criminali si avvalgono delle comunicazioni via social per organizzare le traversate dei migranti verso le coste italiane. Mauro Indelicato, Giovedì 03/10/2019, su Il Giornale. Già nell’estate di due anni fa sale alla ribalta la pagina HaRaGa Dz, la quale su Facebook dava informazioni sui viaggi della speranza lungo la rotta algerina, la quale porta centinaia di migranti dalle coste del paese nordafricano a quelle sarde dell’area del Sulcis. Al suo interno foto e selfie di chi parte, l’atmosfera quasi di una gita fuori porta tra amici ed aggiornamenti di ogni tipo sulle traversate effettuate verso la Sardegna. Sembra un caso isolato, in realtà non lo è: sui social, sono decine le pagine che presentano le traversate verso l’Italia come un normale viaggio da effettuare con una qualsiasi agenzia. Ed in effetti il ruolo di queste pagine appare proprio quello di una compagnia che organizza i viaggi: al loro interno infatti, si trovano prezzi, informazioni, foto e qualsiasi cosa possa portare alla scelta, da parte dei migranti, di quella determinata rotta verso l’Italia. Succede ad esempio con le pagine Facebook in cui si raccolgono le info per partire con i barconi dalla Turchia: in copertina foto dei nostri monumenti, poi scritte in arabo, in cirillico ed in inglese per promuovere la rotta verso la Calabria. Ci sono i prezzi, i porti turchi da dove ci si imbarca, i giorni di viaggio stimati. Un vero e proprio passaparola, che ovviamente alimenta anche l’appetibilità di una delle rotte più in crescita negli ultimi mesi, ossia quella turca per l’appunto. Dall’Egeo fino alla Calabria ci sono in media cinque giorni di viaggio, i quali vengono coperti da velieri o veri e propri yatch che solo a settembre portano tra le coste delle province di Reggio Calabria e Crotone almeno 700 migranti. Si tratta di rotte organizzate il più delle volte da organizzazioni criminali dell’est Europa, nei giorni scorsi suscita scalpore la rivelazione di uno scafista ucraino che dichiara di essere stato ingaggiato dagli organizzatori della rotta tramite un’inserzione su un giornale del suo paese. Non solo Facebook, ma anche Skype appare un mezzo molto usato dai trafficanti di esseri umani che operano in Turchia, così come in nord Africa. Si tratta di strumenti che non lasciano molta traccia o che comunque, nonostante le varie inchieste, rendono difficoltoso capire chi realmente tira le fila dell’organizzazione malavitosa. Tutto si basa infatti su promesse, scambi di informazioni via social o via chat oppure, come nel caso di Skype, tramite video chiamate. Difficile poi trovar traccia di tutto ciò, quasi impossibile capire chi dall’altra parte delle coste mediterranee trama per far arrivare sempre più migranti nel nostro paese. Il peso dei social nell’organizzazione dei viaggi della speranza appare sempre più importante, in quanto permette istantaneità nelle conversazioni e negli aggiornamenti e, come detto in precedenza, vengono lasciate molte meno tracce che con altri strumenti. E adesso è proprio sui social che si concentrano le principali inchieste: anche se difficile, poter però rimuovere quello schermo di mistero ed inquietudine che avvolge le pagine gestite dai trafficanti, potrebbe permettere di svelare ulteriori dettagli sulle dinamiche riguardanti i viaggi dei migranti verso le nostre coste.
Carola ha dato un passaggio anche a tre torturatori libici. Gli uomini fermati a Messina 10 giorni fa sarebbero arrivati in Italia il 29 giugno sulla nave della Capitana. Chiara Giannini, Giovedì 26/09/2019, su Il Giornale. L'arresto di tre trafficanti di esseri umani, poco più di una settimana fa, accusati di torturare i migranti in un campo di detenzione libico, aveva scatenato le polemiche da parte dei supporters dell'accoglienza. Ora si scopre che i malviventi erano arrivati in Italia lo scorso 29 giugno a bordo della Sea Watch III, la nave Ong salita alla ribalta delle cronache per le azioni della comandante Carola Rackete. Secondo fonti attendibili, il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese avrebbe imposto il silenzio sulla notizia, forse per non dare un assist al predecessore Matteo Salvini, peraltro indagato dopo la querela di quella che lui aveva definito «viziatella tedesca». Scelta che pare sia stata fatta anche dal procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio. Guai far sapere che Mohammed Condè, detto "Suarez", originario della Guinea, 27 anni, Hameda Ahmed, egiziano, 26 anni e Mahmoud Ashuia, egiziano, 24 anni, erano approdati grazie alla comandante tedesca, prima arrestata e poi rilasciata dopo aveva letteralmente schiacciato contro la banchina una motovedetta della Guardia di Finanza. Peraltro, i tre risulta fossero a bordo dell'imbarcazione al momento in cui sulla stessa salirono i parlamentari Pd che gridarono allo scandalo perché l'ex titolare del Viminale, Matteo Salvini, non autorizzava la nave a entrare in porto. Al momento dell'arresto, avvenuto grazie agli uomini della Dda di Palermo, che avevano disposto a Messina il fermo dei tre, si era gridato allo scandalo. I malviventi erano stati riconosciuti da alcuni migranti sbarcati il 7 luglio a Lampedusa dalla nave Mediterranea, che avevano raccontato le indicibili torture subite a Zawya, tra violenze sessuali e condizioni di vita disumane. Era stata la Squadra mobile di Agrigento a eseguire il provvedimento contro i tre, accusati di associazione per delinquere dedita alla gestione di un centro di prigionia illegale, associazione finalizzata a commettere una pluralità di delitti, «quali tratta di persone, violenza sessuale, tortura, omicidio, sequestro di persona a scopo di estorsione, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina». Sulla vicenda l'europarlamentare di Fratelli d'Italia, Luca Procaccini, chiarisce: «Continuando a sottacere questi fenomeni che si palesano ogni volta non si risolve la questione. Vorrei capire se il silenzio di ministro e magistratura sia una normale procedura legata alle indagini o si tratti di opportunità politica». Il segretario generale del Sap, Sindacato autonomo di Polizia, Stefano Paoloni, sottolinea che «il 25 per cento dei migranti che arrivano fanno domanda come rifugiato. Gli altri sono migranti economici ed è facile che tra questi ci sia anche chi sfrutta un business redditizio che è difficile da contrastare». Mentre il senatore Toni Iwobi, responsabile immigrazione della Lega, chiarisce: «Non capisco le motivazioni per cui in Africa ci siano le Ong che lavorano per impedire l'emigrazione dei giovani africani attraverso quel tunnel della morte in cerca di un futuro illusorio in Europa, mentre da questa parte del Mediterraneo ci siano alcune Ong come quella in questione che incentivano le partenza dalla Libia in aiuto ai trafficanti di esseri umani». Il procuratore capo Patronaggio, a margine degli arresti, aveva chiarito che «c'è la necessità di agire, anche a livello internazionale, per la tutela dei più elementari diritti umani e per la repressione di quei reati che, ogni giorno di più, si configurano come crimini contro l'umanità». Solo che, alla luce dei fatti, se le Ong si rendono complici del traghettamento di delinquenti, forse non aveva tutti i torti Salvini quando parlava delle stesse come «complici dei trafficanti di esseri umani».
Migranti, Lega sfida Lamorgese: "Nascose la notizia sui torturatori". La Lega deposita un'interrogazione parlamentare sul caso dei tre torturatori a bordo della Sea Watch 3: "Perché ha secretato la notizia?" Chiara Sarra, Martredì 01/10/2019, su Il Giornale. Come abbiamo raccontato qualche giorno fa, infatti, i tre erano a bordo della Sea Watch 3 - la nave della ong tedesca al cui timone c'era proprio la comandante tedesca e che ha speronato una motovedetta della guardia di finanza - e sono stati arrestati con l'accusa di essere trafficanti di esseri umani e di sevizie sui migranti. Ora il Carroccio ha depositato un'interrogazione a risposta scritta per chiedere conto della questione al ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese. "Alcuni migranti sbarcati il 7 luglio a Lampedusa dalla nave Mediterranea, vittime di indicibili torture subite a Zawya, hanno riconosciuto i tre malviventi nei confronti dei quali ora pende l'accusa di associazione per delinquere dedita alla gestione di un centro di prigionia illegale e associazione finalizzata a commettere una pluralità di delitti, quali tratta di persone, violenza sessuale, tortura, omicidio, sequestro di persona a scopo di estorsione, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina", dicono i parlamentari leghisti, sottolineando come proprio ilGiornale aveva riportato "fonti attendibili" secondo cui "il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese avrebbe imposto il silenzio sulla notizia (...) scelta che pare sia stata fatta anche dal procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio". A questo si aggiungono i dati del segretario generale del Sap, Stefano Paoloni: "Il 25% dei migranti che arrivano fanno domanda come rifugiato. Gli altri sono migranti economici ed è facile che tra questi ci sia anche chi sfrutta un business redditizio che è difficile da contrastare", ha spiegato il sindacalista della polizia. "Un'apertura incontrollata dei porti che fa prevalere il concetto dell'accoglienza indiscriminata ad un principio di cooperazione internazionale che inverta, in una visione di lungo raggio, il meccanismo perverso secondo cui un intero continente si sposta verso un altro, non può essere una soluzione a lungo termine", incalzano quindi i parlamentari della Lega nell'interrogazione a prima firma Matteo Salvini, "Si rischia solo di aumentare il numero delle persone che si mettono in viaggio in condizioni disumane e, conseguentemente, il numero degli incidenti e delle vittime. Senza considerare che l'assenza totale di controllo ha come inevitabile conseguenza, quella di accogliere anche temibili delinquenti, che si sono macchiati di crimini feroci nei propri Paesi di provenienza". Per questro il Carroccio chiede "un segnale chiaro ai trafficanti di essere umani, mostrando, anche a livello internazionale, che il nostro Paese non vuole rendersi complice del loro traghettamento". E chiede alla Lamorgese "se risponde al vero quanto riportato in premessa e, in caso affermativo, quali siano le reali motivazioni che hanno spinto il Ministro dell'interno a secretare la notizia". E se lo stesso ministro voglia ora utilizzare i decreti sicurezza (ancora vigenti) "anche al fine di evitare che si ripetano casi come quelli descritti in premessa". Inoltre la titolare del Viminale dovrà ora rispondere anche del fatto che i tre fossero a bordo quando "autorevoli esponenti istituzionali della politica italiana" sono saliti sulla Sea Watch 3 e che questo "abbia creato una situazione di fatto che ha impedito i necessari e stringenti controlli per accertare l'identità dei migranti anche al fine di individuare fin da subito, fra loro, le vittime e i carnefici".
Luciana Lamorgese ammette: "Sbarchi in aumento. Ma la colpa è della Tunisia". Libero Quotidiano l'1 Ottobre 2019. Da giorni, a fronte di un'impennata clamorosa degli sbarchi e degli arrivi di immigrati clandestini, Matteo Salvini chiede una spiegazione a Luciana Lamorgese, che ha preso il suo posto al ministero degli Interni. E la titolare del Viminale, dopo un lungo e assordante silenzio, ha deciso di dare la sua spiegazione. Che però fa acqua da tutte le parti. La Lamorgese ha parlato dal palco del festival delle Città: "Sì, c'è stato un aumento degli sbarchi - ha dovuto ammettere -. Ma è dovuto anche alla situazione politica in Tunisia, perché la maggior parte provengono da là". Insomma, la colpa degli sbarchi a livello record è della Tunisia, non di un governo che ha stravolto la linea sull'immigrazione imposta da Salvini, quella dei porti chiusi. L'ondata migratoria sarebbe quindi dovuta alla "distrazione" delle forze di sicurezza tunisine, anche se - giusto per fare un esempio - proprio le forze tunisine, nella notte di venerdì 20 settembre, fermarono cinque barconi che avrebbero portato in Italia 75 immigrati irregolari.
Matteo Salvini contro Luciana Lamorgese per l'aumento degli sbarchi: "Temo non sia incapace, ma complice". LIbero Quotidiano l'1 Ottobre 2019. Ogni giorno un attacco a chi ha preso il suo posto al ministero dell'Interno. Nel mirino di Matteo Salvini ci finisce ancora Luciana Lamorgese, attaccata nel corso di una diretta Facebook fatta direttamente dall'Umbria. Il tema ovviamente è quello dell'immigrazione: "Triplicare gli sbarchi in un mese è una roba da record mondiale. Sono convinto che non sia incapacità, è complicità: è ancora più grave. Un conto è non essere capace di fare i ministri. A proposito, sommessamente, si attendono notizie dal ministro dell'Interno - rimarca il leader della Lega -: pubblica sicurezza, controllo dei confini, di clandestini e tratta degli esseri umani è sua responsabilità. Sicuramente Conte, Di Maio, Renzi e Zingaretti hanno le loro responsabilità, ma attendiamo che dica qualcosa al popolo italiano il ministro dell'Interno il cui stipendio è pagato per difendere confini, sicurezza, onore e dignità del nostro Paese", conclude Matteo Salvini.
E' in arrivo un bastimento carico di Migranti. Cavilli burocratici e donazioni religiose; ecco come le Ong fanno arrivare centinaia di migranti in Italia. Fausto Biloslavo il 13 settembre 2019 su Panorama. La nave Eleonore, che il 26 agosto imbarcava 101 migranti davanti alla Libia, con quali soldi è stata comprata e come ha potuto levare le ancore? Grazie all’impegno dell’accoglienza della chiesa cattolica tedesca e a un imprenditore della moda filo-Lgtb, uniti in una strana alleanza pro Ong. E che dire della Mare Jonio, già sequestrata due volte, che è tornata a salpare per ripetere il copione precedente, chiedendo di sbarcare in Italia un altro centinaio di migranti intercettati il 28 agosto? Alla fine le Ong estremiste riescono quasi sempre a far sbarcare i migranti in Italia nonostante la politica dei porti chiusi, che probabilmente verrà cancellata dal governo che si sta preparando. Il caso della Eleonore, la nave della Ong tedesca Mission Lifeline, è clamoroso. Al timone c’è il capitano Claus-Peter Reisch, condannato a Malta lo scorso anno a 10 mila euro di multa dopo avere sbarcato 230 migranti. La nave era stata sequestrata e l’Ong tedesca ha lanciato una raccolta fondi. Il cardinale di Monaco Reinhard Marx ha risposto all’appello offrendo 50 mila euro. È stato quindi seguito da un altro esponente cattolico, l’arcivescovo Hans-Josef Becker di Paderborn, che ha utilizzato il fondo per i disastri e le emergenze della diocesi tedesca versando ulteriori 50 mila euro a Mission Lifeline. Per comprare la nuova nave è intervenuto Benjamin Hartmann, un imprenditore del mondo della moda che ha lanciato il marchio anti razzista Human blood con lo slogan «il colore del sangue è uguale per tutti». Alla fine sono stati raccolti circa 600 mila euro da 10.690 donatori per acquistare un vecchio peschereccio, riadattato in gran segreto, che batte bandiera tedesca. Hartmann ha candidamente sottolineato «la crescente carenza di lavoratori qualificati in Europa. I migranti africani sono per lo più non addestrati, ma potrebbero venire formati e trovare lavoro da noi». Grazie alla strana alleanza con la chiesa cattolica tedesca, il capitano Reisch voleva registrare Eleonore in Vaticano per sventolare la bandiera della Santa Sede. La richiesta è stata respinta, ma in Italia religiosi alla ribalta delle cronache appoggiano apertamente i talebani dell’accoglienza. Don Luigi Ciotti alla partenza di Mare Jonio ha ringraziato «per il ritorno in mare. Chi lo fa senza sconti e non resta indifferente alle grida di soccorso (dei migranti, ndr) rappresenta la parte migliore del nostro Paese». Come i fondatori dell’Ong armatrice della nave, Luca Casarini e Alessandro Metz, già esponenti no global, carichi di denunce e processi. Le sirene dell’accoglienza sono ben radicate anche nelle chiese evangeliche. La Federazione italiana non solo si offre ogni volta per ospitare una quota dei migranti trasportati in Italia dalle Ong, ma finanzia gli estremisti umanitari. A fronte di entrate del 2017 per oltre 3 milioni di euro, ben 2.162.292 sono stati utilizzati per progetti a favore di migranti e rifugiati. Il grosso arriva dall’8 per mille garantito dallo Stato (1.708.319 euro), ma non mancano i ricavi provenienti dalla Rai per i programmi sul protestantesimo (470.642 euro). Gli evangelici finanziano direttamente anche la Ong spagnola Proactiva Open arms e la sua nave. E hanno creato Mediterranean hope, che oltre a coordinare tutte le attività pro immigrazione punta a creare un corridoio umanitario europeo dalla Libia per 50 mila persone. E il premier incaricato per il bis, Giuseppe Conte, ha espresso interesse per l’iniziativa. Non solo: gli evangelici, assieme agli spagnoli di Open Arms e ai tedeschi di Sea Watch, stanno lanciando «La giusta rotta», una campagna pro Ong che girerà l’Italia. Parole d’ordine: «Salvare vite non può essere reato, corridoi umanitari europei, accoglienza degna per i migranti». I protestanti italiani hanno solidi contatti con la chiesa evangelica in Germania (Ekd), che finanzia le Ong più agguerrite come Sea Watch e Sea Eye. Il 3 giugno il presidente della costola tedesca, il potente vescovo Heinrich Bedford-Strohm, si è incontrato a Palermo con il rappresentante evangelico Daniele Garrone e Paolo Naso, coordinatore di Mediterranean hope per stringere un patto sui migranti. Con il nuovo governo giallo-rosso le Ong non avranno più problemi, ma nell’ultimo anno hanno cercato di scardinare, spesso con successo, la politica dei porti chiusi grazie a cavilli e tribunali. La magistratura ha sequestrato otto volte le navi dell’accoglienza a tutti i costi, che poi sono tornate a salpare esattamente come prima. L’ultimo sequestro di Open Arms, del 20 agosto scorso, ha permesso lo sbarco dei migranti della discordia, nonostante il «no» del Viminale. La Ong spagnola ha ringraziato Luigi Patronaggio, procuratore capo di Agrigento con un tweet: «Giorno 1. Quello in cui la giustizia italiana ha restituito alle persone a bordo la loro umanità». Il sequestro della nave è durato solo nove giorni. Il gip Stefano Zammuto ha dato ragione alla procura sostenendo che era «illecita la privazione della libertà personale» dei migranti. E ha dissequestrato l’imbarcazione nonostante non sia abilitata al salvataggio. Oscar Camps, fondatore di Open Arms, aveva dichiarato all’inizio della campagna estiva: «Preferisco che la nave sia fermata da Salvini e non da Pedro Sánchez (il premier spagnolo, ndr), a causa delle conseguenze economiche e legali». Infatti, Benito Núñez Quintanilla, direttore generale della Marina mercantile spagnola, aveva appena certificato, in una lettera del 27 giugno, che Open Arms «non può svolgere operazioni di salvataggio». E se lo fa rischia una multa «da 300 mila a 901 mila euro». Il procuratore capo di Agrigento non è nuovo a sequestri delle navi delle Ong che fanno sbarcare i migranti, ma durano poco. Una sorta di bluff, come per le tre confische dell’unità di Sea Watch. Il 19 maggio Patronaggio aveva fatto entrare in porto Sea Watch-3 permettendo lo sbarco di 65 migranti. La nave era già stata sequestra una prima volta a fine gennaio dopo avere recuperato davanti alla Libia 47 migranti. Il 22 febbraio è stata lasciata andare dalla decisione di un Gip per poi ripetere lo stesso copione. Dissequestrata il 10 giugno, la seconda volta in sei mesi, è tornata in mare con Carola Rackete, poi entrata di forza nel porto di Lampedusa, provocando il terzo sequestro e il suo arresto. Pochi giorni dopo la «capitana» è stata liberata da un’ordinanza della Gip Alessandra Vella; e lo stesso Patronaggio ha fatto ricorso in Cassazione definendola «contraddittoria, errata e non adeguatamente motivata». Il bluff è evidente anche con Mare Jonio, la nave della Ong Mediterranea sequestrata due volte da gennaio, ma tornata alla ricerca di migranti anche se non è autorizzata per il salvataggio. In questo marasma giudiziario passa in secondo piano o procede a rilento l’inchiesta per il reato, contestato a ogni sbarco, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Nonostante ci siano casi recidivi come Ana Isabel Montes Mier, la capo missione di Open Arms dell’ultimo contestato sbarco del 20 agosto. Il 4 luglio la procura di Ragusa, per un caso molto simile del marzo 2018 con la stessa nave e stessa Ong, ha chiesto il rinvio a giudizio di Mier per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E «violenza» (morale) per avere obbligato le nostre «autorità a concedere l’approdo in un porto del territorio italiano».
“L’AUMENTO DEL FLUSSO DI MIGRANTI E’ LEGATO ALL’ATTIVITÀ DELLE ONG”. Valentino Di Giacomo per “il Messaggero” 9 luglio 2019. L'ammiraglio Abdalla Tumia, Capo della Guardia Costiera di Tripoli, ha deciso di parlare per chiarire e difendere il lavoro dei suoi uomini. È lui che con le motovedette donate dal governo italiano pattuglia le coste libiche per non far partire i migranti, un lavoro sempre più complesso anche a causa dei bombardamenti aerei dell'esercito del generale Haftar.
Negli ultimi giorni sono arrivati diversi barconi. Queste partenze sono dovute al bel tempo oppure alla guerra in corso?
«Tra le priorità del nostro Paese e della Marina militare c'è quella di salvare gli immigrati in difficoltà in mare e fornire loro l'aiuto necessario dopo le operazioni di salvataggio per la consegna in uno dei centri di accoglienza sotto la direzione degli organismi internazionali. Non abbiamo maggiori o minori difficoltà a causa della guerra, i dati dei migranti che arrivano in Italia sono eloquenti e rispetto agli anni scorsi non si può non riconoscere il lavoro che stiamo svolgendo. Dall'inizio dell'anno sono arrivati in Italia meno di 3mila migranti dalla Libia, fino a tre anni fa potevano arrivarne anche il doppio in un solo giorno. Significa che i nostri sforzi servono e che siamo in grado di rispettare gli accordi con il vostro governo».
Serraj ha detto di voler aprire i centri di detenzione liberando i migranti non essendo più in grado di difenderli dagli attacchi di Haftar, come a Tajoura. Partiranno più persone?
«Non credo che l'apertura dei centri influisca sul numero di immigrati che partono, non le sfuggirà che le persone che sono nei compound sono circa 7mila, ma ce ne sono dieci volte di più all'esterno».
E allora qual è la ragione di questo aumento di partenze?
«Anche la presenza delle navi delle ong è un fattore. Attraverso la mia esperienza, la ragione principale dell'aumento dei flussi migratori ha una forte relazione con l'attività delle ong e sicuramente non l'eventuale apertura dei centri per migranti. Lo abbiamo visto quando le ong si avvicinavano alla Libia a soli 15 miglia, questo incoraggiava i migranti a partire e i trafficanti a mettere i barconi in mare.
Mentre la Guardia Costiera sta compiendo sforzi scrupolosi per le operazioni di salvataggio, le organizzazioni ostacolano il nostro lavoro e incoraggiano i migranti lanciando false voci contro la Guardia Costiera con storie inventate. Le ong offrono sicuramente un effetto-calamita. Ancora più grave è quando andiamo in mare per recuperare un barcone e ci troviamo una nave delle ong: le persone si tuffano in mare per raggiungere le loro imbarcazioni mettendo a rischio la vita».
Oltre a controllare le coste, siete in grado di contrastare i trafficanti che alimentano questi flussi? Avete i loro nomi?
«I nominativi dei trafficanti e la raccolta dei dati sono di competenza dell'Ufficio Anti-immigrazione. La Guardia Costiera ha come compito le operazioni di salvataggio e bloccare la partenza. Ovviamente forniamo tutte le informazioni agli ufficiali preposti».
Sono diventate più complesse le vostre operazioni da quando sono iniziati i bombardamenti di Haftar?
«Le nostre mansioni non sono cambiate, per noi resta un obbligo morale proteggere la vita umana. Abbiamo solo il timore che le vite salvate vengano poi messe a rischio con gli attacchi aerei da parte di Haftar come avvenuto a Tajoura dove sono morte più di cinquanta persone. Questo è il vero problema che dovrebbe porsi la comunità internazionale».
Cosa chiede all'Italia.
«La situazione a Tripoli è eccellente anche grazie alla presenza della Ambasciata italiana, quello che ha fatto Salvini, condannando l'attacco al centro di accoglienza e l'offensiva di Haftar contro la capitale è una cosa positiva, ma per quanto riguarda le nostre richieste sono dettagli tecnici delle commissioni delegate».
La Mare Jonio sequestrata, l'Ong: "Si tratta di vendetta". L'Ong Mediterranea Saving Humans parla adesso di vendetta dopo il sequestro della nave Mare Jonio, notificato all'equipaggio dalla Guardia di Finanza dopo l'ingresso in acque italiane. Mauro Indelicato, Martedì 03/09/2019, su Il Giornale. Non è ancora chiuso il caso relativo alla nave Mare Jonio: l’imbarcazione infatti risulta adesso sequestrata, raggiunta da un mezzo della Guardia di Finanza per la notifica dell’atto non appena il mezzo ha fatto il suo ingresso in acque territoriali italiane. La querelle, l’ennesima, che riguarda la Mare Jonio inizia nello scorso fine di agosto: la nave dell’Ong “Mediterranea Saving Humans” ha a bordo 98 migranti recuperati a largo della Libia. Per cinque giorni il mezzo rimane al di fuori delle acque italiane, dopo lo stop all’ingresso decretato sia dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini, sia da quelli di Difesa ed Infrastrutture, rispettivamente Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli. Nel frattempo un primo gruppo di 64 migranti lascia la Mare Jonio per ragioni sanitarie, tra loro anche donne e bambini. Domenica pomeriggio è la volta di altri tre migranti, i restanti 31 alla fine vengono fatti scendere lunedì pomeriggio. In virtù delle ragioni sanitarie, a seguito dell’ispezione di un team di medici inviati dal ministero della Sanità, ma anche per il progressivo peggioramento delle condizioni del mare, alla fine dunque si decide per il trasbordo di tutti i migranti in una motovedetta della Guardia Costiera per raggiungere Lampedusa. La Mare Jonio, oramai senza più migranti a bordo, viene quindi fatta entrare in acque italiane. Ed è qui che scatta la nuova fase del braccio di ferro con le autorità italiane. Infatti, poco dopo l’arrivo nelle acque territoriali non lontane da Lampedusa, il mezzo dell’Ong viene raggiunto dalla Guardia di Finanza. Gli uomini delle Fiamme Gialle notificano il decreto di sequestro della nave, la motivazione riguarda la violazione delle norme contenute nel recente decreto sicurezza bis. In particolare, l’equipaggio della Mare Jonio non avrebbe ottemperato a quanto previsto in uno degli ultimi documenti varati dal governo gialloverde prima della crisi. La reazione dell’Ong Mediterranea non si fa attendere e viene affidata ai propri canali social: “Abbiamo fatto ingresso in acque territoriali con l'autorizzazione formale della Guardia Costiera – si legge nel Tweet di Mediterranea – Adesso ci contestano la violazione del Decreto Sicurezza Bis. È l'ultima vendetta di chi non tollera che l'umanità prevalga”. L’Ong non la prende dunque bene: dopo essere rimasta fuori dalle acque territoriali per cinque giorni, senza però far mancare il pressing mediatico e politico per spingere verso lo sbarco, i vertici della Mediterranea sperano di sfuggire al sequestro dell’imbarcazione. In realtà potrebbe aprirsi ugualmente un fascicolo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, da qui la notifica del sequestro. Adesso la Mare Jonio rimane a largo di Lampedusa, in attesa di sapere la prossima destinazione e dove verrà ormeggiata in caso di conferma del fermo. Nello scorso mese di giugno, la Mare Jonio per diverse settimane è rimasta ancorata presso il porto di Licata prima del dissequestro. Intanto raggiungono la Sicilia i migranti a bordo della Mare Jonio fatti sbarcare nei giorni scorsi a Lampedusa: domenica è la volta di più di sessanta migranti approdati a Porto Empedocle con il traghetto di linea, da lì poi il gruppo è stato portato nei vari centri di accoglienza siciliani.
Quelle diagnosi false sulle ong per sbarcare a terra i migranti. Nell'ultima puntata di Quarta Repubblica un'inchiesta mette in luce possibili casi in cui, pur di arrivare allo sbarco dei migranti, alcune Ong forniscono diagnosi false ed errate ai medici che operano a Lampedusa. Mauro Indelicato, Martedì 03/09/2019, su Il Giornale. Nei giorni scorsi a Lampedusa scendono diversi migranti dalla nave Mare Jonio, usata dall’Ong italiana Mediterranea Saving Humans per le proprie attività di ricerca e soccorso di barconi in avaria. È forse la prima volta che un mezzo di una Ong giunge nel nostro paese senza migranti a bordo, fatti scendere prima per motivi sanitari. Su 98 persone soccorse dalla Mare Jonio, 64 sono scese quasi subito: alcuni sono minorenni, altre donne, altri migranti risultano invece bisognosi di cure. Nei giorni successivi ne scendono altri tre, infine i 31 rimasti vengono tutti trasbordati su una motovedetta della Guardia Costiera per essere trasferiti a Lampedusa. Il motivo è sempre lo stesso: problemi di salute. Pochi giorni prima un epilogo molto simile si ha per la Open Arms, la nave dell’omonima Ong spagnola: dopo i primi trasbordi per motivi di salute di alcuni migranti, il mezzo viene sequestrato dalla procura di Agrigento in base alle testimonianze raccolte che evidenziano situazioni drammatiche all’interno della nave. Dunque in entrambi i casi i motivi di salute riguardante alcuni migranti appaiono decisivi per il loro trasbordo oppure, come accaduto alla fine, per l’approdo di tutte le persone soccorse presso il porto di Lampedusa. Ma andando a spulciare tra i referti medici raccolti nel poliambulatorio dell’isola più grande delle Pelagie, si notano alcune diagnosi discordanti. Se ne parla nel servizio andato in onda nell’ultima puntata di Quarta Repubblica, la trasmissione di Nicola Porro la cui inviata chiede lumi ai medici di turno operativi a Lampedusa. Le telecamere, in particolare, si trovano sull’isola più grande delle Pelagie mentre arrivano dalla Mare Jonio tre migranti che, secondo la ricostruzione fornita dalla nave dai membri di Mediterranea, necessitano di cure molto urgenti. Difficoltà a deambulare per una donna, ematuria per un ragazzo del Mali, dolori addominali atroci per un altro migrante di diciotto anni. Queste le urgenze segnalate dall'Ong. Una volta però giunti presso il presidio medico di Lampedusa, i medici constatano una situazione differente ed i tre protagonisti vengono visti salire con le proprie gambe dentro un pulmino e diretti verso il locale hotspot di contrada Imbriacola. “Come stanno i ragazzi?”, chiede l’inviata di Quarta Repubblica appena fuori il poliambulatorio, la risposta del medico è lapidaria: “Bene, vengono portati adesso al centro”. Viene fatta la stessa domanda in inglese direttamente ad uno dei migranti, il quale risponde anch’egli di stare bene. “Stanno benissimo, lo ha visto anche lei”, dichiara poi una donna del personale sanitario davanti alle telecamere, la quale accusa chi ha fornito la diagnosi di prendere in giro il collega di turno: “Non puoi inventarti una diagnosi per farli scendere – prosegue infatti la donna in questione – Anche perché poi devi confrontarti con un collega ed il collega si sente preso in giro”. Ma non è la prima volta che accade. Sempre all’interno del presidio medico di Lampedusa, un’altra testimonianza parla di un caso che riguarda una ragazza fatta sbarcare da una nave Ong nei giorni precedenti al caso Mare Jonio. Archivio alla mano, potrebbe trattarsi della Sea Watch 3 o della Open Arms. “Una volta hanno fatto sbarcare una ragazza perché il medico di bordo aveva fatto una diagnosi di metrorragia – dichiara l’altro testimone intervistato, che però non vuole farsi riconoscere – Metrorragia vuol dire perdere sangue. Portano la ragazza qua, ma aveva la pressione a posto, niente di particolare, aveva valori nella norma”. Il referto, mostrato poi alle telecamere, nella parte finale smentisce la prima diagnosi: “Assenza di tracce di sangue, in atto nessuna emergenza sanitaria”. Ci sono dunque due diagnosi del tutto differenti. Una delle due, o quella redatta dal medico di bordo della nave Ong oppure quella del medico di turno presso il poliambulatorio di Lampedusa, è sbagliata. Secondo il testimone ascoltato da Quarta Repubblica, a fare la diagnosi a bordo sarebbe stata una volontaria dell’Ordine di Malta: “Perché devo sobbarcarmi di farmi prendere per i fondelli – continua la persona intervistata – Qui non c’è errore, c’è dolo”. Dalla sede dei volontari dell’Ordine di Malta non arrivano spiegazioni in merito. Di certo, tra chi opera nel presidio sanitario di Lampedusa, emerge forte il sospetto di diagnosi redatte a bordo in modo tale da favorire lo sbarco di migranti, anche in situazioni non di emergenza.
Dario Galli stronca Alessandra Sciurba di Mediterranea: "Ecco i video delle Ong che aiutano gli scafisti". Libero Quotidiano il 2 Settembre 2019. "L'Italia è in fondo alla lista dei Paesi dell'accoglienza". Alessandra Sciurba di Mediterranea Ong attacca in diretta le politiche di Matteo Salvini sull'immigrazione. Ma Dario Galli, della Lega, ospite in studio di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, risponde per le rime: "Ci sono video di Ong che aiutano gli scafisti". "Ce lo invii questo video di cui parla, lo inseriremo nelle querele", ribatte la Sciurba. Galli riporta la discussione sul fatto che "i bambini che arrivano in condizioni disperate vengono salvati" ma "non si possono salvare 5 miliardi di persone".
Migranti, dopo Lifeline e Mediterranea è invasione: 10 navi Ong nel Mediterraneo pronte a sbarcare in Italia. Libero Quotidiano il 2 Settembre 2019. Non ci sono solo la Eleonore e la Mare Jonio. La nave della Ong Lifeline è sbarcata questa mattina a Pozzallo con 100 migranti dopo aver forzato il divieto imposto dalle autorità italiane. Poche ore dopo, a Lampedusa sono sbarcati a Lampedusa i 31 a bordo della imbarcazione della Mediterranea Saving Humans. Ma al largo delle coste italiane c'è anche la Alan Kurdi della ong tedesca Sea Eye, in attesa di trovare un "porto sicuro". E come ricorda Il Giornale, secondo i dati in possesso del Viminale, ci sarebbero almeno dieci imbarcazioni nel Mediterraneo pronte a "soccorrere" i barconi degli immigrati che partono dalla Libia per traghettarli in Europa. La strana coincidenza è che il possibile nuovo "assalto" arriverebbe nel momento di trapasso tra il governo di Lega e M5s, quello dei "porti chiusi" ( che aveva sostanzialmente contenuto l'emergenza limitandola a una decina di casi mediatici in un anno), e quello nascente di M5s e Pd all'insegna di politiche molto più lassiste sul tema immigrazione, con tanto di ritocchi ai due decreti sicurezza di Matteo Salvini già dati per certi dai democratici. Un segnale chiaro: avanti tutti, di nuovo.
Nel Mediterraneo 10 navi Ong: è ripreso l'assalto ai porti italiani. M5s e Pd prontri a chiudere l'accordo. In agenda anche una nuova politica per l'accoglienza. E le ong tornano in mare e a puntare l'Italia. Andrea Indini, Lunedì 02/09/2019, su Il Giornale. "Leggi e confini vanno rispettati". Quando la nave "Eleonore" della ong Mission Lifeline decide di forzare il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane e fare rotta verso il porto di Pozzallo, Matteo Salvini reagisce con fermezza intimando un nuovo alt. "Se qualcuno pensa di fregarsene senza conseguenze ha sbagliato di grosso e ha sbagliato ministro", intima il ministro dell'Interno promettendo di fare "di tutto per difendere l'Italia". L'imbarcazione dell'organizzazione non governativa tedesca non è l'unica a impensierire il Viminale. Da giorni, infatti, la Mare Jonio dell'ong "Mediterranea Saving Humans" staziona davanti al porto di Lampedusa chiedendo di poter far sbarcare gli immigrati che ha a bordo. Al largo, invece, c'è la Alan Kurdi della ong tedesca Sea Eye che sta cercando un "porto sicuro" a cui attraccare. Con la crisi di governo e l'avvicendarsi di una nuova maggioranza sicuramente più buonista della precedente, le ong hanno ripreso a solcare le acque del Mar Mediterraneo. Attualmente, secondo i dati in possesso del Viminale, ci sono almeno dieci imbarcazioni in mare in cerca di immigrati clandestini da recuperare e portare sulle coste del Vecchio Continente. Di queste solo una appartiene a una organizzazione non governativa italiana, la "Mediterranea Saving Humans" messa in piedi da Luca Casarini, una rete di centri sociali veneti e una sfilza di associazioni rosse. Tutte le altre sono straniere, in gran parte tedesche. E il fatto che si siano riattivate proprio quando il Movimento 5 Stelle e e il Partito democratico hanno deciso di formare un nuovo governo pone non pochi interrogativi. "La vicenda Mare Jonio conferma che in Italia sull'immigrazione bisogna cambiare tutto", ha già messo in chiaro il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, chiedendo a Giuseppe Conte discontinuità rispetto ai decreti Sicurezza voluti da Salvini e alla politica dei porti chiusi. In queste ore il Partito democratico che ha appena trascorso la quinta notte davanti al porto di Lampedusa senza poter far sbarcare gli immigrati che ha a bordo. "Il governo non faccia finta di niente, stiamo parlando di esseri umani", ha tuonato in queste ore Zingaretti lanciando un messaggio netto ai nuovi alleati Cinque Stelle. L'attacco del segretario piddì è stato immediatamente rilanciato dai soliti ultrà dell'immigrazione che tifano accoglienza indiscriminata. Da Fiorella Mannoia a Cecilia Strada, sono tornati tutti a far sentire la propria voce per chiedere che il Conte bis riapra i porti chiusi da Salvini. E così questa mattina un'altra ong tedesca ha optato per l'ennesimo atto di forza contro l'Italia: la nave "Eleonore" ha infranto il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane e ha fatto rotta verso il porto di Pozzallo. Non solo. Stando ai dati forniti dal ministero dell'Interno, il Mar Mediterraneo ha ripreso ad essere affollatissimo. Nel caso in cui i dem riusciranno a imporre ai Cinque Stelle un cambio totale di rotta sul contrasto all'immigrazione clandestina ci si deve plausibilmente aspettare una nuova, massiccia ondata di ingressi irregolari nel nostro Paese. E ovviamente la ripresa del business dell'accoglienza tanto caro alle cooperative e alle associazioni rosse.
I pm sequestrano la Open Arms e fanno sbarcare tutti i migranti. Col sequestro di Open Arms arriva l'assist dei pm all'ong: tutti i migranti a terra a Lampedusa. Angelo Scarano, Martedì 20/08/2019 su Il Giornale. Adesso arriva l'assist dei pm a Open Arms. La procura di Agrigento ha disposto il sequestro della nave. E questa scelta, da parte della procura implica lo sbarco di tutti i migranti a bordo. Dunque le toghe, dopo aver agevolato il ritorno in mare delle ong con i dissequestri delle navi, adesso danno una mano a Open Arms con un sequestro. Una situazione paradossale che però porterà allo sbarco di tutti i migranti a Lampedusa. La mossa della procura è arrivata proprio nel giorno in cui la Spagna ha annunciato l'invio di una nave militare per dare assistenza ai migranti e per procedere al trasbordo per poi dirigersi verso un porto iberico. E sul caso Open Arms, subito dopo il dibattito parlamentare sulla crisi di governo, è tornato a parlare il ministro degli Interni, Matteo Salvini: "Molto probabilmente mi arriverà un’altra denuncia perchè la procura di Agrigento ha aperto un fascicolo per abuso di ufficio contro ignoti", ha affermato il titolare del Viminale. Insomma adesso lo scenario si complica. I migranti sbarcheranno a Lampedusa e molto probabilmente si aprirà un altro braccio di ferro tra il ministero degli Interni e la procura di Agrigento. Questa mattina il pm Patronaggio è salito a bordo della nave per una ispezione. Con questo sequestro dunque viene messa la parola fine all'ipotesi di uno sbarco in Spagna. Madrid si è svegliata in ritardo e ha indicato un porto sicuro per l'ong ben 17 giorni dopo il salvataggio dei migranti. Intanto dalla Francia proprio nelle ultime ore era arrivata la richiesta di uno sbraco immediato con le parole del ministro degli Interni, Cazeneuve. Parigi, insieme a Berlino, ha dato la sua disponibilità ad ospitare alcuni dei migranti salvati da Open Arms. Intanto Salvini, impegnato anche sul fronte della crisi, sottolinea come possa cambiare la musica con un nuovo governo dell'inciucio tra Cinque Stelle e Pd: "Qualcuno nel nome del governo dell'inciucio vuole riaprire i porti ma finchè campo io difenderò la sovranità del mio paese e quindi sono corso dal Senato al Viminale. Rischio altra denuncia per abuso d'ufficio perchè avrei dovuto far sbarcare immigrati di questa Ong spagnola".
Migranti e Open Arms, lite Salvini-Trenta. «Inciuci» «Falso». Pubblicato mercoledì, 21 agosto 2019 da Erica Dellapasqua su Corriere.it. «Roba da matti. Non hanno perso tempo, i nuovi ordini della Difesa sono stati formalizzati ieri. Prime prove tecniche di inciucio Pd-5 Stelle sulla pelle degli italiani, riaprendo i porti e chiudendo un occhio sulle Ong?». È Matteo Salvini, ieri su Twitter, a riaprire la campagna elettorale sui migranti attaccando la collega di governo — almeno ancora formalmente — Elisabetta Trenta, responsabile della Difesa, che secondo questa notizia fatta circolare dal Viminale col suo ministero avrebbe «modificato unilateralmente i compiti affidati a coloro che intervengono nelle operazioni di pattugliamento». Subito sui social monta il caso. Salvini, per dimostrare l’inciucio con la sinistra, getta in Rete un fotomontaggio che accosta Trenta e Laura Boldrini, deputata di Leu apertamente ostile alla politica dei porti chiusi. Trenta gli risponde su Facebook, che già aveva utilizzato per replicare a chi le scriveva critiche sulla Open Arms: «Trentadue minori, due di nove mesi, onde di due metri e mezzo, da sedici giorni in mare: ma che uomo è lei?». A Salvini, invece, dice che «il tuo tentativo di screditare non solo me ma l’intera Difesa è inqualificabile. In una riunione in cui eri presente ho disposto di intensificare l’attività di polizia marittima. Le navi della Marina non hanno scortato la Open Arms per far sbarcare a Lampedusa i migranti; bensì come da sollecitazione del Tribunale dei minori di Palermo erano pronte a intervenire in favore dei minori. Sei stato bravo a piegare ogni cosa a tuo vantaggio ma questo metodo non funziona più. Impara a rispettare il ruolo delle istituzioni e a non appropriartene». Per il ministero dell’Interno le nuove indicazioni, formalizzate martedì, per gli assetti militari in azione nel Mediterraneo centrale, «denotano un chirurgico ma significativo arretramento rispetto a quanto concordato per il contrasto dell’immigrazione clandestina». Tutto falso, fanno invece filtrare dal ministero della Difesa, chiarendo che «nessun indebolimento è stato apportato al dispositivo Mare Sicuro». Semmai, continuano sempre dal ministero, il 17 luglio — quindi quando ancora la crisi era nell’aria ma non ufficialmente aperta — la ministra Trenta ha inviato al capo di Stato maggiore della difesa Enzo Vecchiarelli una lettera in cui tra l’altro «si dispone di intensificare le attività di polizia marittima». Lettera ribaltata, nel suo significato, dal Viminale, che a questo punto fa circolare anche la risposta del 19 luglio: «Corre l’obbligo di trasmetterti la preoccupazione — scriveva il capo di Gabinetto del Viminale al suo omologo della Difesa — che l’ipotizzato incremento del pattugliamento aeromarittimo in acque internazionali possa fungere da fattore di attrazione per le partenze dalle coste libiche». Così si arriva ad agosto. Per la Difesa le novità additate da Salvini sarebbero in realtà solo modifiche assolutamente non sostanziali, solo definizioni — contenimento, contrasto, dissuasione — che non implicherebbero cambiamenti numerici delle missioni, né di uomini né di mezzi. Ma la polemica è ormai accesa e investe anche l’Open Arms e la Spagna: «Nave spagnola, Ong spagnola — scrive il Viminale —: è corretta la decisione del governo Sanchez di inviare una nave militare verso l’Italia, la linea dura ha pagato nonostante i dubbi del premier e di alcuni ministri, ora Madrid si faccia carico anche degli sbarcati».
Da Ansa.it il 21 agosto 2019. "Caro Matteo, il tuo tentativo di screditare non solo me ma l'intera Difesa è inqualificabile". Comincia così il duro post del ministro Elisabetta Trenta nei confronti del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, nel quale gli ricorda "che le istituzioni non sono le nostre e che noi diamo solo l'indirizzo". "Impara a rispettare il ruolo delle istituzioni e a non appropriartene", la conclusione. In una lettera - datata 19 luglio e di cui l'ANSA ha preso visione - del capo di Gabinetto del Viminale al suo omologo della Difesa si legge: "Mi corre l'obbligo di trasmetterti la preoccupazione, condivisa anche dalle Forze di polizia competenti, che l'ipotizzato incremento del pattugliamento aeromarittimo in acque internazionali possa fungere da fattore di attrazione, piuttosto che di deterrenza, per le partenze dalle coste libiche, qualora non risulti consolidata la possibilità di sbarchi in quel Paese". "Un conto è contestare l'utilizzo delle navi militari come veri e propri taxi del mare al servizio delle Ong (da qui l'esigenza di un approccio diverso, sollecitato dal ministero dell'Interno), un altro modificare il tipo di attività delle navi della Marina", sottolineano fonti del Viminale, spiegando che "il cambiamento voluto dalla Difesa non c'entra con le indicazioni del ministero dell'Interno. La Trenta ha addirittura fatto accompagnare la Open Arms verso l'Italia". Fonti dello Stato Maggiore della Difesa "rassicurano" sul fatto che "nulla cambia per quanto riguarda compiti e struttura dell'operazione Mare Sicuro rispetto a quanto disposto in sede di Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica ". Così le fonti dello Stato Maggiore - che coordina Mare Sicuro - replica a quanto sostenuto dal ministro dell'interno Matteo Salvini.
Tutti i fallimenti della Trenta: così ha messo a rischio la Difesa. Il ministro ha usato i militari per combattere la sua battaglia sui migranti e contro Salvini: ma l'Italia ora rischia grosso. Lorenzo Vita, Giovedì 22/08/2019 su Il Giornale. Mai come in queste ultime settimane il ministero della Difesa è stato al centro di uno dei più importanti scontri politici in seno a un governo. Da una parte Matteo Salvini, leader della Lega e ministro dell'Interno, che ha da subito individuato nel dicastero delle forze armate uno dei pilastri su cui costruire la sua strategia politica (in particolare sul tema migranti). Dall'altra parte il ministro, Elisabetta Trenta, che in questi 14 mesi di governo gialloverde - e in particolare negli ultimi - ha spesso suonato la carica trasformandosi nell'anti-Salvini. In colei che, da titolare della Difesa, avrebbe potuto frenare le velleità del capo del Viminale. Partendo proprio dal contrasto all'immigrazione clandestina e imponendo un'altra visione della gestione dei flussi che aveva nella rotta del Mediterraneo centrale un vero e proprio campo di battaglia tra Movimento 5 Stelle e Lega. Ma limitarsi all'immigrazione sarebbe un grave errore per comprendere gli errori compiuti in questi mesi dal ministro Trenta. Ed anzi, forse è proprio questo collegamento tra Difesa e flussi migratori che può essere preso come punto di partenza per comprendere dove ha il ministro ha fallito: ovvero cercare a qualsiasi costo di dare delle Forze armate non un'immagine di strumento dello Stato per difendere gli interessi nazionali dentro e fuori i nostri confini, ma come una sorta di protezione civile più o meno armata votata a fare altro rispetto a quanto la stessa Costituzione richiede. No, non è retorica: è una vera e propria linea strategica. Il ministro Trenta, al pari del suo predecessore Roberta Pinotti, ha ben chiaro il concetto di "dual use", che da qualche tempo viene agitato nei settori della Difesa come se fosse una sorta di bandiera del politicamente corretto. Un duplice uso delle Forze armate che però nel tempo, almeno nell'immagine che voleva dare la Trenta, sembrava dovesse essere rovesciato. Più protezione civile, meno forze di mare, aria e terra, la Difesa ha avviato quel processo di svilimento che l'ha portata ad avere quale ruolo primario quello di diventare non solo strumento di propaganda politica, ma anche quello di svolgere compiti del tutto diversi dai reali obiettivi. Un "tradimento" degli scopi delle Forze armate che però racchiude il vero grande problema di questo mandato: l'aver piegato esercito, marina e aeronautica al politicamente corretto evitando però di parlare degli scopi reali dei nostri uomini in armi. Mentre il ministro si è dedicato al tema dell'inclusione come bandiera del 2 giugno, alla politica migratoria, alle battaglie sui sindacati militari fino all'epico scontro con il Viminale, c'è dall'altro lato una Difesa che deve rispondere in maniera netta ai tanti punti interrogativi del nostro secolo. Che non sono banali e che di certo non riceveranno risposte con arcobaleni e post sui social network. C'è da capire cosa l'Italia farà dagli F-35. Un contratto che i Cinque Stelle sembra non vogliano rispettare, ma che di fatto sta incrinando i rapporti tra il nostro Paese e gli Stati Uniti e che rischia di vederci esclusi da importanti operazioni in ambito Nato. C'è un problema di missioni all'estero: cosa farne? Dalla Difesa tutto tace. Eppure dagli Stati Uniti hanno già reso palese il fatto di volere l'Italia in Siria, così come hanno chiesto un aumento delle spese militari in ambito Nato. I nostri militari sono a Misurata, in Libia, mentre le bombe cadono vicino all'ospedale da campo in cui operano. Ma la Trenta è apparsa sempre più impegnata a osservare quanto accadeva a al largo di Lampedusa, ma non sembra esserci stato lo stesso impegno mediatico nei confronti dei nostri uomini impegnati nei più remoti angoli del mondo a tutelare gli interessi nazionali. Ci sono diverse crisi in atto: dalla Libia al Medio Oriente, ma il ministro tace mentre parla di migranti e di Salvini. E ci sono tutta una serie di questioni aperte sui finanziamenti alla nostra difesa di cui al governo sembra che nessuno (in sede pentastellata) voglia realmente parlare. Ci sono i contratti, i fondi da destinare ai sistemi missilistici, dossier anche bollenti che riguardano l'intelligence così come la nostra partecipazione ad altri programmi europei e atlantici. Ma i Cinque Stelle hanno sempre pensato ad altro. A una Difesa politicamente corretta e del politicamente corretto. Una concezione figlia di quel pacifismo che ha da sempre contraddistinto di 5 Stelle e che si è manifestato in tutta la sua assurdità con le parole del premier Giuseppe Conte, che il 17 maggio, spiegava a tutti di aver rinunciato all'acquisto di cinque nuovi fucili per finanziare una borsa di studio di "Leader for Peace". Un gesto pericoloso non tanto nel concreto, quanto nell'idea: perché quel facile non rappresenta un'arma in mano a un criminale, ma uno strumento che serve ai nostri soldati per tutelare la nostra comunità.
Diego Fusaro: "La Open Arms ha aspettato la caduta del governo per fare l'ingresso trionfale". Libero Quotidiano il 20 Agosto 2019. La Procura di Agrigento ha deciso che i migranti a bordo della Open Arms dovranno sbarcare immediatamente a Lampedusa e solo dopo ci sarà il sequestro dell'imbarcazione. Il provvedimento, a ridosso della caduta del governo gialloverde e del via libera dalla Spagna per accoglierli, fa venire qualche dubbio. A interrogarsi sulla coincidenza è Diego Fusaro: "Ve l'avevo detto. La nave carica di migranti è pronta. Ma non deve andare in Spagna. Per entrare in porto, a Lampedusa, aspetta solo la caduta del governo. Per fare l'ingresso trionfale. Per dimostrare che la sovranità degli Stati è estinta: decidono enti privati e finanziari" questa l'ipotesi che il filosofo aveva avanzato e che, ora più che mai, sembra azzeccatissima.
Ecco perché i migranti che si gettano in mare sono portati a Lampedusa. Secondo la normativa Sar "Soccorso e ricerca" sono naufraghi e come tali in base alla Convenzione di Amburgo del 1979 e al diritto internazionale del mare le autorità competenti, cioè quelle italiane, devono essere portati a terra. La Repubblica il 20 agosto 2019. Dopo 19 giorni in mare, in attesa di un porto sicuro, per i migranti della Open Arms rimane apparentemente una sola, disperata possibilità per raggiungere la terraferma in tempi brevissimi: gettarsi in mare. Già molte persone a bordo della nave, battente bandiera spagnola, lo hanno fatto. I primi sono stati portati al molo di Lampedusa, dopo essere stati recuperati dalla Capitaneria di porto italiana, che non ha fatto altro che applicare la Convenzione di Amburgo del 1979. Secondo la normativa Sar (Search and rescue - Ricerca e soccorso), "le autorità di uno Stato costiero competente sulla zona di intervento in base agli accordi regionali stipulati, che abbiano avuto a propria volta notizia dalle autorità di un altro Stato della presenza di persone in pericolo di vita nella zona di mare Sar di propria competenza, dovranno intervenire immediatamente senza tener conto della nazionalità o della condizione giuridica di dette persone". In pratica, una volta in mare, i migranti sono da considerarsi dei naufraghi a tutti gli effetti e quindi per le autorità, in questo caso italiane, scatta l'obbligo di soccorso previsto dal diritto internazionale del mare. La Convenzione Sar del 1979 impone, infatti, un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare e il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro. Secondo le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, il governo responsabile per la regione Sar in cui è avvenuto il recupero è tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso vega fornito. "Un luogo sicuro - si legge nelle Linee guida - è una località dove: le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte". In sostanza, l'unica soluzione è portarli a Lampedusa. Dopodichè, si legge nelle Linee guida, "può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale".
Ecco il "metodo Open Arms" per portare migranti in Italia. La procura che indaga sulla ong spagnola svela i trucchi usati dagli attivisti per impedire l'intervento delle navi di Tripoli. Fausto Biloslavo e Valentina Raffa, Domenica 28/07/2019, su Il Giornale. «Andiamo in Italia, in Italia... Aspettate» ripete due volte un «umanitario» dell'Ong spagnola Proactiva Open arms mentre recupera i migranti a bordo di un gommone al largo della Libia. E un altro aggiunge di attendere che «la nostra nave sta arrivando» per portarli in Sicilia sfidando apertamente la motovedetta grigia dei libici giunta sul posto. Una di quelle donate dall'Italia per contrastare l'immigrazione clandestina. Il tutto filmato dalle go pro, le mini telecamere montate sull'elmetto dei soccorritori di Open arms. Video che il Giornale pubblica sul sito. Il 4 luglio il procuratore capo di Ragusa, Fabio D'Anna, e il sostituto Santo Fornasier firmano la richiesta di rinvio a giudizio per il capitano Marc Creus Reig e Ana Isabel Montes Mier, capo missione dell'Ong spagnola, che il 18 marzo dello scorso anno sbarcavano a Pozzallo 216 migranti. La procura li accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e di «violenza» (morale) per avere obbligato le nostre «autorità a concedere l'approdo in un porto del territorio italiano». Negli atti, in possesso del Giornale, vengono ricostruite nei dettagli le mosse della Ong spagnola, un vero e proprio «metodo» per fare arrivare da noi i migranti, in gran parte senza diritto all'asilo. Gli eventi dimostrano, secondo la procura, come «l'unico vero obiettivo dell'Ong non fosse quello umanitario di salvare i migranti, ma (...) di portarli ad ogni costo in Italia in spregio alle regole». Al governo, ancora per qualche giorno, c'è il centrosinistra di Gentiloni, a Tripoli non era scoppiata la guerra e Proactiva Open arms aveva sottoscritto il Codice di condotta del ministro dell'Interno Marco Minniti, che obbliga le Ong a non intralciare le operazioni della Guardia costiera libica. Alle 4 e 35 del mattino del 15 marzo 2018, nave Open arms scopre dal Centro di soccorso della Guardia costiera a Roma (Imrcc), che tre gommoni carichi di migranti sono partiti dalla Libia. L'elicottero di Nave Alpino, della marina militare, li ha avvistati e comunica che sono «tutti in buono stato di galleggiabilità» e le «condizioni meteo» non destano preoccupazione. Alle 9.30 del mattino gli spagnoli rintracciano il primo gommone, che «fino a poco prima dell'intervento di Open arms era in perfetto assetto di navigazione». Guarda caso alcuni migranti sono in acqua e vengono tutti portati a bordo. La Guardia costiera di Tripoli ha già assunto dalle 6.45 del mattino la responsabilità dei soccorsi, ma gli spagnoli se ne fregano nonostante le ripetute richieste del centro di Roma e libiche «di rimanere fuori vista». Per arrivare prima dei libici Open arms lancia in avanscoperta due natanti di salvataggio veloci (Rhib). Alle 14.18 individuano il secondo gommone, ma sul posto arriva una motovedetta italiana che abbiamo donato a Tripoli, la Ras al Jaddar. Open arms denuncia che i libici vogliono aprire il fuoco e con il megafono il comandante intima in stentato inglese la consegna dei migranti altrimenti «vi uccido». Dai filmati delle go pro dei soccorritori salta fuori tutta un'altra storia. «Nessun concreto atteggiamento minaccioso è stato posto in essere dai libici, i quali si sono sempre tenuti a debita distanza dai gommoni dei soccorritori e di quello dei migranti fino all'arrivo della nave madre» si legge nell'appello contro il rigetto della misura cautelare per gli indagati. E «non si dà atto dell'uso o della minaccia delle armi». In pratica «è stata rappresentata una situazione altamente drammatica verosimilmente al solo fine di giustificare la loro inosservanza (di Open arms, nda) alle indicazioni provenienti da Imrcc Roma (di collaborare con Tripoli nda) e costringere i libici a desistere dall'opera di soccorso». Non solo: «Open arms pur di costringere i libici ad abbandonare il campo (...) non ha avuto scrupoli ad attivare il pulsante antipirateria (...) simulando una situazione di emergenza inesistente». I video delle go pro mostrano, al contrario, che i gommoni veloci spagnoli si piazzano fra la motovedetta e i migranti con l'intento di ostacolarla. Non si capisce bene se il comandante dell'unità navale di Tripoli pronuncia la frase minacciosa «vi uccido» se non ci lasciate i migranti, ma una perizia audio della procura stabilisce che alla fine chiede la loro consegna quasi per favore. In questo frangente gli «umanitari» ripetono ai migranti sul gommone «andiamo in Italia... Aspettate». E poi dicono sempre in inglese «la nostra nave sta arrivando» riferendosi all'imbarcazione madre Open arms poco distante e di nuovo «andiamo in Italia». La dimostrazione per l'accusa della premeditazione dello sbarco a casa nostra. Non solo: «L'intervento della Open arms ha potenzialmente messo a repentaglio la vita dei migranti, posto che alcuni di loro, già tratti in salvo dalla motovedetta libica, non hanno esitato a gettarsi in mare rischiando di annegare (...), pur di raggiungere il loro obiettivo, ovvero non quello di essere tratti in salvo, ma di raggiungere l'Italia (...)». I libici desistono, ma il «metodo» Open arms entra nella seconda fase. Gli spagnoli tempestano il centro di soccorso di Roma chiedendo il famoso «Pos», «luogo sicuro» di sbarco. Dal comando della Guardia costiera rispondono che devono rivolgersi a Malta, il porto più vicino. Pure il centro di soccorso spagnolo ribadisce lo stesso concetto, ma dalla conversazione telefonica fra Madrid e Open arms «emerge a chiare lettere la malafede del comandante della motonave», che non ha nessuna intenzione di sbarcare i migranti a La Valletta. Creus, nell'interrogatorio dopo l'arrivo in Italia, dichiara che il rifiuto era dettato dal fatto che «nell'ultimo anno non è mai stato fatto uno sbarco di migranti a Malta (...) La persona che mi ha consigliato di andare verso nord, è Gerard Canals, coordinatore generale dell'Ong». Il 18 marzo 216 migranti sono sbarcati a Pozzallo. Comandante e capo missione vengono indagati, ma nonostante la ricostruzione del «metodo» Open arms, la nave viene velocemente dissequestrata per tornare a caccia di migranti nel Mediterraneo.
Sea Watch 3, ong alleata degli scafisti? La telefonata-bomba: "Il gommone è partito". Libero Quotidiano il 10 Luglio 2019. Questa volta c'è "ciccia"? Si parla dei presunti rapporti tra ong e scafisti, da tempo nel mirino di Matteo Salvini, il quale ha infatti sganciato la bomba: "I magistrati hanno elementi concreti su telefonate fatte dagli scafisti a una ong dalla Libia". Così ieri, martedì 9 luglio, il ministro dell'Interno in televisione. Il punto è che, svela sempre il leader della Lega, un libico ha chiamato per errore il Centro di coordinamento delle Capitanierie di porto di Roma, il Mrcc, credendo di parlare con Sea Watch. L'uomo parlava in inglese: "Pronto, Sea Watch? È partito un gommone da Zuara". Il Mrcc, come sempre, ha registrato la comunicazione, fatta ascoltare - sottolinea Il Fatto Quotidiano - più di un mese fa al Comitato nazionale per l'ordine pubblico che si riunisce al Viminale, presieduto da Salvini. Dunque la vicenda è passata alla magistratura, Roma prima e Agrigento poi, dove si indaga sugli sbarchi, compreso l'ultimo della Sea Wach 3 di Carola Rackete. Ad ora gli investigatori sono scettici, Luigi Patronaggio ha affermato che "non ci sono prove di accordi tra ong e scafisti". Ma le indagini continuano. Troppo sospetta quella telefonata, anche se sempre secondo Il Fatto, in procura qualcuno teme che sia una polpetta avvelenata. Resta il fatto che l'intelligence italiana è convinta del fatto che ong e scafisti abbiano rapporti, anche se nessuna prova ufficiale è mai stata esibita in pubblico.
Soccorsi in mare. Un anno dopo cadute le accuse di legami tra Ong e scafisti. Nello Scavo martedì 14 agosto 2018 su Avvenire. Sulle Ong sono state archiviate o sono in via di archiviazione le inchieste della magistratura di Trapani, Catania, Ragusa e Palermo. Erano quattro le inchieste a carico delle Ong che salvano migranti. Tutte accusate di essere in combutta con gli scafisti. Ma di indagini ne sopravvivono due: una (Catania) si avvia all’archiviazione; l’altra (Trapani) ha derubricato l’associazione per delinquere all’ipotesi di irregolarità allo scopo di commettere salvataggi. Le procure di Palermo e Ragusa, invece, hanno già archiviato, concludendo che non ci sono stati reati.
CATANIA. Il procuratore Carmelo Zuccaro ipotizzava a carico della Ong Open Arms il reato di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione illegale. Secondo diverse fonti, sarebbe vicina.
RAGUSA. A Ragusa il Tribunale del Riesame ha stabilito che la disobbedienza delle organizzazioni non governative che scelgono di non cooperare con le autorità libiche è motivata dallo «stato di necessità» connaturato al soccorso dei naufraghi.
TRAPANI. Nell’inchiesta sono stati adoperati infiltrati a bordo delle navi delle Ong. Lo scopo? Dimostrare un presunto patto tra scafisti e volontari per raccogliere i migranti in mare. Per proteggere gli equipaggi, sarebbe stato reclutato personale vicino a movimenti identitari.
PALERMO. Le indagini, condotte anche dagli investigatori che avevano segnalato anomalie, non hanno portato ad alcun risultato. I pubblici ministeri hanno chiesto e ottenuto dal gip l’archiviazione di entrambe le inchieste. Quasi due anni di indagini (la cui esistenza è stata ufficializzata alla vigilia dell’estate scorsa) e un dispiegamento di forze e risorse senza precedenti – con agenti infiltrati, intercettazioni satellitari, elaborazioni di tracciati radar, informative richieste ai servizi segreti – ad oggi hanno prodotto un unico risultato: l’allontanamento dal Mediterraneo della gran parte delle organizzazioni non governative e l’aumento dei naufragi in rapporto al numero di migranti messi in acqua dai trafficanti.
Le Ong respinte e quelle bloccate a terra (due le navi sequestrate, di cui una ancora bloccata nel porto di Trapani) non sono state rimpiazzate da dispositivi degli Stati Ue, mentre la comunità internazionale non è stata in grado di stabilizzare la Libia né di fermare i trafficanti di uomini e chiudere i loro lager. Due procedimenti sono già stati definitivamente mandati in archivio. A Ragusa il Tribunale del riesame ha stabilito che la 'disobbedienza' delle organizzazioni non governative che scelgono di non cooperare con le autorità libiche è motivata dallo «stato di necessità» connaturato al soccorso dei naufraghi. Un’ordinanza contro cui la procura non ha avanzato ricorso in Cassazione, di fatto diventando giurisprudenza a cui possono appigliarsi tutti gli operatori che agiscono nel Canale di Sicilia. Sempre a Ragusa era stata inizialmente sequestrata (per ordine della procura di Catania, poi spogliata dalla competenza territoriale restituita ai magistrati ragusani) la nave di Proactiva Open Arms. Ma il giudice per le indagini preliminari ne aveva disposto la riconsegna all’equipaggio dell’organizzazione iberica. Anche Trapani si avvierebbe a chiudere definitivamente nel cassetto l’inchiesta. Nel porto rimane sotto sequestro la nave dell’organizzazione tedesca Jugend Rettet. Il pool di magistrati aveva tra l’altro inviato un avviso di garanzia al sacerdote eritreo don Mosé Zerai che con la sua agenzia umanitaria Habeshia raccoglie da anni gli Sos dei migranti e li trasmette alle forze dell’ordine. Un comportamento che a qualche poliziotto era sembrato sospetto. Nell'inchiesta vennero anche adoperati infiltrati a bordo delle navi delle Ong. Agli atti ci sono anche le dichiarazioni di alcuni addetti alla sicurezza arruolati da una delle navi umanitarie. Secondo questi ultimi, pur in mancanza di concreti riscontri, doveva esservi una qualche losca intesa tra scafisti e volontari per raccogliere i migranti in mare. Qualche tempo dopo si scoprirà che, prima di venire assunti per proteggere gli equipaggi, i bodyguard avevano avuto a che fare con i movimenti identitari protagonisti della campagna internazionale scatenata contro le organizzazioni umanitarie anche a colpi di false notizie. A Palermo, dove erano aperti due fascicoli d’indagine, a lungo hanno investigato i magistrati della Direzione distrettuale antimafia. Non proprio dei tirocinanti. Ma anche qui non è stata rinvenuta alcuna prova di connivenze tra l’Ong Sea Watch e i trafficanti libici. Le inchieste, condotte dal procuratore aggiunto Marzia Sabella e dai pm Gery Ferrara e Claudio Camilleri, avevano ad oggetto un procedimento avviato a maggio del 2017 dopo lo sbarco, a Lampedusa, di 220 migranti; l’altro aperto dopo una segnalazione della Guardia di Finanza che ipotizzava delle «incongruenze» nel comportamento della Sea Watch in occasione di un soccorso portato ad aprile del 2017. Le indagini, condotte anche dagli investigatori che avevano segnalato anomalie, non hanno portato ad alcun risultato. I pubblici ministeri hanno chiesto e ottenuto dal gip l’archiviazione di entrambe le inchieste. L’esercito di detrattori da tastiera, da mesi fa circolare la leggenda secondo cui i magistrati che archiviano sono, nel migliore dei casi, inquirenti dal cuore tenero oppure, secondo alcune delle bufale più in voga, eterodiretti da una qualche corrente. Il caso di Palermo, però, smentisce platealmente. I pm che hanno indagato e poi chiesto l’archiviazione, sono gli stessi che hanno fatto arrestare il presunto superboss eritreo del traffico di uomini, Mered Medhanie Yedhego. Il ragazzo in carcere si professa innocente e sia le inchieste giornalistiche, come quella che da due anni conduce il Guardian, sia le analisi difensive che l’esame del Dna confermano che si tratterebbe di un clamoroso scambio di persona. Nonostante questo i magistrati inquirenti – autori dell’archiviazione per le Ong – vanno avanti. Segno che non si tratta di giudici che rispondono a inesistenti diktat umanitari. Le archiviazioni contrastano e mettono allo scoperto le contraddizioni dell’indagine monstre avviata a Catania dal procuratore Carmelo Zuccaro. La procura etnea, che secondo diverse fonti potrebbe chiedere a giorni l’archiviazione dell’indagine perché gli elementi raccolti non sopravviverebbero all'esame di un tribunale, ipotizzava in particolare a carico della Ong Open Arms il reato di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione illegale. In mancanza di prove incontrovertibili, Zuccaro non ha mai mancato di fare conoscere la sua opinione sull'operato delle organizzazioni non governative. «Fanno parte di un sistema profondamente sbagliato – ha sostenuto –, che affida la porta d’accesso all’Europa a trafficanti che sono criminali senza scrupolo. Questo è l’aspetto sbagliato delle cose che non risponde né a senso di umanità né di solidarietà». Opinione rispettabile e che nell’attuale governo certo trova consensi. Ma giudiziariamente irrilevante.
Stasera Italia, Maria Giovanna Maglie: "Avvenire? Sono peggio di un pretore d'assalto, mi vergogno per loro". Libero Quotidiano il 5 Luglio 2019. Maria Giovanna Maglie non ha dubbi riguardo Avvenire. Per la giornalista, ospite a Stasera Italia di Rete 4, il quotidiano cattolico conduce una vera propria battaglia contro l'operato del governo. "Nella grande confusione di questo momento, il contributo di Avvenire è davvero pernicioso". Poi ancora: "Come direbbe Verdone alla mattina gli devono cambiare il fornitore della prima colazione. Questo sparare nel mucchio, sono peggio di un pretore d'assalto. Scrivono inesattezze su tutto. Sono ignoranti, io mi vergogno per loro" ha detto nella puntata di ieri sera, giovedì 5 luglio. La trasmissione ripercorreva il problema immigrazione e le provocazioni continue tra il ministro Salvini e le ong.
PROCEDIMENTI ANCORA APERTI ONG (Agorà Rai 4 luglio 2019)
FAVOREGGIAMENTO DELL’IMMIGRAZIONE
Sea Watch 3 - Procura di Agrigento
Juventa (Jugen REtter) - Procura di Trapani
Mediterranea Saving Humans Procura di Agrigento
FAVOREGGIAMENTO DELL’IMMIGRAZIONE E VIOLENZA PRIVATA
Open Arms - Procura di Ragusa
RESISTENZA O VIOLENZA CONTRO NAVE DA GUERRA NAZIONALE
Sea Watch 3 - Procura di Agrigento
TENTATO NAUFRAGIO
Sea Watch 3 - Procura di Agrigento
DIVIETO DI INGRESSO NELLE ACQUE ITALIANE
Sea Watch 3 - Procura di Agrigento
Marco Mensurati per La Repubblica l'8 luglio 2019. La Guardia di Finanza di Lampedusa ha convocato questa mattina in caserma Tommaso Stella e Beppe Caccia, rispettivamente il capitano e l’armatore della barca a vela Alex – il diciotto metri che giovedì scorso ha tratto in salvo 59 persone al largo della Libia –, per comunicare loro la decisione di confiscare l’imbarcazione ai sensi del decreto sicurezza. Per giustificare un provvedimento tanto duro, i militari hanno usato un escamotage giuridico, affermando che Alex, la mattina di sabato, ha violato il decreto non solo al momento di entrare in porto a Lampedusa (come da contestazione originaria), ma anche qualche ora prima, quando a causa delle correnti marine e di un difetto delle comunicazioni indipendente dalla volontà del capitano, la barca – che era tenuta a non entrare in acque nazionali – aveva scarrocciato oltre il limite delle dodici miglia. Considerando, dunque, lo scarroccio la prima violazione, l’ingresso in porto del pomeriggio è stato considerato una “reiterazione”. Dunque, confisca. Adesso Mediterranea dovrà presentarsi davanti al prefetto di Agrigento – al quale spetta la decisione finale – per spiegare le proprie ragioni ed evitare così un provvedimento durissimo, che tra l’altro farebbe salire a 65mila euro il conto delle multe. Ragioni, quelle di Mediterranea, che sono molte, solide e certificate da chi era a bordo. Per tutto il periodo in cui Alex è stato alla deriva al limite delle acque internazionali – dall’alba di venerdì fino alle 14,45 di sabato - sia il vhf di bordo sia il gps hanno fatto fatica a funzionare rendendo complessa l’individuazione esatta della linea di confine. Cosa che il capitano Stella ha più volte comunicato alla Capitaneria di Porto (che ne era ampiamente consapevole) e che gli stessi finanzieri – da subito e fino a ieri – hanno sempre ammesso, dicendosi disponibili a collaborare con il comandante avvertendolo ogni volta che l’imbarcazione fosse andata oltre. Due giorni dopo lo sbarco e in coincidenza con l’evidente fallimento della “linea Salvini” - a Lampedusa da sabato ad oggi sono entrati quasi cento migranti - la Guardia di Finanza ha cambiato idea.
Michela Allegri per “il Messaggero”l'8 luglio 2019. Il copione è quello seguito nelle ultime indagini a carico delle Ong: sequestro dell'imbarcazione su iniziativa della Guardia di Finanza - la procura domani dovrà decidere se convalidarlo -, sbarco dei migranti a bordo e iscrizione sul registro degli indagati del comandante della nave per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, e disobbedienza e resistenza contro nave da guerra, per avere violato il divieto di ingresso nel porto di Lampedusa imposto dal decreto sicurezza bis. Ma nel caso della nave Alex della Ong Mediterranea ci sono due novità. La prima è che il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio e l'aggiunto Salvatore Vella ipotizzano gli stessi reati anche a carico del capo missione della Ong italiana, il deputato di Leu Erasmo Palazzotto. La seconda è che, a differenza della Sea Watch e della Mare Jonio - le altre navi finite al centro di altrettante inchieste -, il veliero Alex è una barca più piccola e disagiata, inadatta ad ospitare a bordo 41 migranti. Per questo motivo gli inquirenti stanno valutando con attenzione anche l'esposto presentato dalla stessa Ong, in cui veniva dichiarato lo stato di necessità, l'obbligo di sbarcare per la criticità della situazione a bordo, il sequestro in danno dei migranti e dell'equipaggio messo in atto dal ministro dell'Interno, Matteo Salvini, che non ha autorizzato lo sbarco e il tentativo - considerato dalla Ong coercitivo - di dirottare la nave verso Malta. Nei prossimi giorni verranno ascoltati l'equipaggio e i profughi che hanno effettuato la traversata. L'obiettivo è individuare la presenza di eventuali scafisti e ricostruire la situazione a bordo. I pm vogliono chiarire se la Alex abbia sfondato il posto il blocco agendo effettivamente in stato di necessità, visto che i bagni erano inutilizzabili, lo spazio ridotto e le condizioni precarie. Comandante e capo missione, comunque, restano sotto inchiesta. La Finanza ha sequestrato i documenti dell'imbarcazione e ha inviato ai pm un'informativa. Palazzotto è stato indagato perché dalla comunicazioni - le mail inviate all'Mrcc di Roma - e dalle segnalazioni arrivate in procura, è emerso che comandante e capo missione seguivano una linea concordata: gli atti erano a doppia firma, compreso quello con cui la Alex accettava di dirigersi a Malta, a condizione che l'operazione di trasferimento delle persone avvenisse in acque internazionali e «a garanzia che nessuna iniziativa coercitiva sarà assunta nei confronti della nave». L'accordo era poi saltato - «volevano evitare i controlli e garantirsi l'impunità», ha detto Matteo Salvini - e il veliero della Mediterranea ha fatto ingresso a Lampedusa. Un'altra verifica che deve essere effettuata riguarda proprio lo scontro con il Viminale. Perché per la Alex era stato individuato un porto sicuro - Malta - e le era anche stato offerto supporto per effettuare il viaggio, circostanza che potrebbe fare venire meno la necessità di sbarcare direttamente a Lampedusa. Intanto sono scattate le sanzioni amministrative previste dal decreto sicurezza bis: 16.600 a testa per il comandante e per l'armatore. Cifra che potrebbe salire fino a 50mila euro in caso di mancato pagamento. «Mi è stata notificata la sanzione perché ho soccorso persone - ha detto l'armatore, Alessandro Mertz - È uno degli aspetti più odiosi del nuovo decreto sicurezza, perché ha come obiettivo chiaro quello di mandare un messaggio ai naviganti: se trovate qualcuno in mare, lasciatelo morire. Non salvatelo. Ed è un messaggio che non serve alle Ong».
Migranti, perché i pm non sequestrano le navi delle Ong? Gli ultimi sbarchi sono un ritornello: le navi vengono sequestrate e subito dissequestrate. E così tornano in mare. Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 17/06/2019, su Il Giornale. Sequestri, dissequestri e ancora sequestri. Nel mare del Mediterraneo si giocano più partite: quella umanitaria, quella politica e quella giudiziaria. Chi si perde solo una puntata della lunga fiction rischia di perdere la barra della questione. Qualcuno si chiederà: come mai le navi Ong vengono fermate, i comandanti e capo missione indagati, ma le imbarcazioni tornano sempre al largo per soccorrere immigrati e riaprire ogni volta la quotidiana lotta col ministro Salvini? Un motivo c'è. E si chiama: decisioni dei magistrati. Scelte che hanno fatto storcere il naso ad alcuni giuristi, che si sono domandati il motivo per cui le procure di Catania e Agrigento non abbiano mai messo i sigilli "definitivi" alle navi Ong in attesa della conclusione di indagini e processi. A sollevare i dubbi sulle toghe è Pietro Dubolino, presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione. Non l'ultimo degli arrivati. Dubolino parte dall'analisi dell'ultimo caso Sea Watch, l'Ong che ha caricato 52 migranti al largo della Libia e si è diretta verso l'Italia. Un braccio di ferro che forse poteva essere evitato se la nave fosse rimasta sotto sequestro. Lo scorso maggio, infatti, si era ripetuta una scena simile. Dopo aver salvato 47 immigrati, Sea Watch 3 era entrata in acque italiane "infrangendo" il divieto di Salvini. La Gdf aveva notificato la diffida, ma alla fine i migrantisono scesi a terra per ordine della procura di Agrigento. Il pm aveva disposto il sequestro probatorio del mezzo al fine di verificare l'esistenza o meno del reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. L'atto è stato confermato nei giorni successivi, e nel registro degli indagati è finito il comandante Arturo Centore. Salvini aveva esultato, dicendosi sicuro che questa volta la nave non avrebbe ripreso il largo. Ma così non è andata. Lo sorso 1 giugno l'imbarcazione buonista è stata dissequestrata perché non vi era più l'esigenza di raccogliere le prove. E così è tornata a pattugliare la Libia. Per l'ex presidente di sezione della Suprema Corte c'è qualcosa che non torna. Due i punti focali: primo, "non si comprende - scrive - per quale ragione (...) sia stato denunciato a piede libero e non in stato di arresto"; secondo, "in casi come questo è prassi" trasformare "il sequestro probatorio in sequestro preventivo", in modo da tenere la nave in porto fino alla fine del processo. Ma così non è andata. Ad oggi solo la Iuventa, nave di Jugend Rettet, è bloccata in porto dopo l'inchiesta di Trapani. Basta fare un salto indietro per pescare le tante sentenze che hanno fatto esultare le Ong. Lo scorso marzo, dopo lo sbarco di 218 migranti a Pozzallo, la procura di Catania aveva chiesto il fermo della Open Arms, decisione confermata dal Gip (che però ha escluso il reato di associazione a delinquere). Restando solo l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina (poi archiviata), la competenza è dunque passata a Ragusa, dove il Gip Giovanni Giampiccolo l'ha dissequestrata. Qualcosa di simile è successo anche alla Mare Jonio. Il 19 marzo alla nave di Mediterranea Saving Humans viene notificato il sequestro probatorio della nave su iniziativa della Guardia di Finanza. L'atto viene confermato e nel registro degli indagati finisce prima il comandante Pietro Marrone e poi l'ex no global Luca Casarini. L'indagine è ancora aperta, ma anche in questo caso - cessate le esigenze probatorie - la nave viene liberata e riprende il largo. Neppure un mese dopo, è il 9 maggio, l'Ong soccorre 29 persone e chiede all'Italia un porto sicuro. Si riapre lo scontro col Viminale, la nave arriva a Lampedusa, i migranti sbarcano e sull'Ong si abbatte un nuovo sequestro. Questa volta preventivo. L'obiettivo del Viminale è quello di fermare per sempre l'imbarcazione in porto e impedire che "reiteri il reato": il comandante viene indagato, ma la procura di Agrigento respinge l'atto della Gdf e dispone il "sequestro probatorio". Dunque solo per raccogliere le prove. La nave è ancora ancorata al porto di Licata, ma se il sequestro da "probatorio" non verrà trasformato in "preventivo", è possibile che presto potrà riprendere il largo. La domanda sorge spontanea: perché è così difficile che le procure procedano col blocco preventivo, visto che le indagini sono ancora aperte? Se focalizziamo l'attenzione su Sea Watch, secondo Pietro Dubolino le ipotesi sono due e in entrambi i casi i pm avrebbero commesso degli errori. Primo, se all'atto del dissequestro erano già convinti dell'insussistenza dei reati contestati, avrebbero dovuto anche "chiedere l'archiviazione del procedimento" (di cui per ora non si ha notizia). Se invece la procura "riteneva che il reato fosse rimasto comunque configurabile" e quindi, "essendo pendente il relativo procedimento penale", avrebbe "dovuto chiedere la trasformazione del sequestro probatorio in sequestro preventivo a garanzia, nell'eventualità della condanna, della eseguibilità della confisca obbligatoria". Eppure non l'ha fatto. Perché?
Alex, confiscata barca a Mediterranea: "Pretesto illegittimo, non ci fermerete". I dubbi dei pm: Ong graziata? Libero Quotidiano l'8 Luglio 2019. La Guardia di Finanza ha proceduto alla confisca immediata della nave Alex con sanzione di 65mila euro di multa per essere entrata sabato scorso nelle acque territoriali di Lampedusa nonostante l'alt della stessa GdF. A renderlo noto su Twitter l'account della Ong italiana Mediterranea, che parla di "ingresso incidentale" come di un "pretesto del tutto illegittimo", per poi rilanciare: "Se pensano di fermare così Mediterranea si illudono di grosso: stiamo già preparando i ricorsi e con il sostegno di tutti voi torneremo presto in mare". Sostegno che per ora arriva da Pd e centrosinistra, ma che potrebbe arrivare anche dagli inquirenti. Secondo il Messaggero, i dubbi del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio e dell'aggiunto Salvatore Vella sono sulle dimensioni della barca a veli di Mediterranea, che a differenza di Sea Watch e Mare Jonio è decisamente "più piccola e disagiata, inadatta ad ospitare a bordo 41 migranti". Per questo motivo, si legge, "gli inquirenti stanno valutando con attenzione anche l'esposto presentato dalla stessa Ong, in cui veniva dichiarato lo stato di necessità, l'obbligo di sbarcare per la criticità della situazione a bordo, il sequestro in danno dei migranti e dell'equipaggio messo in atto dal ministro dell'Interno Matteo Salvini, che non ha autorizzato lo sbarco e il tentativo - considerato dalla Ong coercitivo - di dirottare la nave verso Malta".
Ora il migrante smonta la Alex "Il viaggio? È stato perfetto..." Uno dei migranti a bordo della Alex non parla di "condizioni estreme a bordo". E a chi gli chiede del viaggio dà una risposta che spiazza. Angelo Scarano, Martedì 09/07/2019, su Il Giornale. Sarim Karafae, 19 anni, somalo, è uno dei migranti sbarcati dalla Alex. La storia del veliero di Mediterranea ormai è nota. L'imbarcazione con 42 migranti a bordo ha forzato il blocco imposto dal Viminale, ha ignorato l'alt intimato dalle motovedette ed è entrata nel porto di Lampedusa per lo sbarco. Un atto di forza quello dell'ong che è costato a Mediterranea un'indagine a carico del comandante e del capo missione e una pesante sanzione. L'ingresso nel porto di Lampedusa è avvenuto dopo la dichiarazione di "stato di necessità" da parte dell'equipaggio della Alex. Una mossa, quella dell'Alex, che viene in parte "smontata" proprio da uno dei migranti a bordo e poi sbarcati a Lampedusa. Intervistato da La Stampa, Sarim a chi gli chiede quanto sia stato duro attendere tutte quelle ore senza cibo e acqua, risponde in modo inaspettato, come sottolinea la Verità. Il migrante infatti non ha dubbi: "Al contrario. È stato un viaggio perfetto". Parole chiare che vanno contro quanto affermato dallo staff della ong e soprattutto dall'equipaggio a bordo del veliero. Più volte, nel corso della giornata di domenica, la barca ha dichiarato lo "stato di necessità" per mancanza di acqua e per le temperature elevate: "Nel nostro stato di necessità c’era anche la responsabilità di 10 minori a bordo, sotto 40 gradi al sole", aveva affermato Alessandra Sciaruba parlando ai cronisti sulla banchina del porto di Lampedusa. Ma a sentire Sarim casca un po' lo "stato di necessità" denunciato dall'ong. Proprio nelle ore precedenti allo sbarco, la Alex aveva ricevuto assistenza piena dalle motovedette della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza. Un aiuto che però non ha fatto desistere il comandante-skipper dal forzare il blocco e il divieto imposto dal ministro degli Interni. I migranti dunque non erano stati abbandonati al loro destino ma la situazione era costantemente monitorata dalle autorità italiane e anche da quelle maltesi.
Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 18 luglio 2019. Carola Rackete non aveva alcun diritto o dovere «umanitario» di forzare il blocco imposto dal Viminale e schiacciare contro il molo la motovedetta della Guardia di Finanza per far sbarcare i migranti. Il ricorso della procura di Agrigento contro l' ordinanza del Gip, che aveva lasciato andare la capitana ha un punto fermo molto chiaro. «Non si può ritenere sussistente la scriminante dell' avere adempiuto a un dovere visto, che i migranti erano in sicurezza nella rada con la massima assistenza delle autorità che avevano anche disposto alcuni sbarchi per motivi sanitari», scrivono nelle 18 pagine presentate in Cassazione il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, l'aggiunto Salvatore Vella e il pubblico ministero Gloria Andreoli. In pratica il 29 giugno la comandante tedesca di Sea watch 3 ha violato la legge e non è vero che a bordo i migranti erano in pericolo di vita e dovevano venire sbarcati ad ogni costo. I reati contestati a Rackete sono di resistenza a pubblico ufficiale e resistenza o violenza a nave da guerra. Secondo la procura ci sono altri tre motivi che dimostrano l'errata valutazione giuridica del Gip Alessandra Vella, che con la sua ordinanza «assolutoria» del 2 luglio ha trasformato Carola in un' eroina dei due mondi. Anche se venisse accolto il ricorso «blindato», che non è trapelato, la talebana dell' accoglienza della Ong tedesca resterà libera e bella. Per decidere sulla misura cautelare la procura avrebbe dovuto investire il Tribunale del riesame. L'obiettivo è fissare dei paletti alle operazioni delle Ong, che fanno quello che vogliono violando norme e divieti. La decisione della Cassazione sul ricorso servirà da pietra miliare anche per i prossimi casi. Carola, però, deve preoccuparsi di più del secondo filone d' inchiesta sull' ipotesi di reato di favoreggiamento dell' immigrazione clandestina. Oggi è previsto ad Agrigento il suo interrogatorio fiume sul recupero dei migranti davanti alle coste libiche. Il procuratore aggiunto Salvatore Vella è deciso a portare fino in fondo l' inchiesta. Una fonte del Giornale, che si occupa del caso, spiega che «questa volta non finirà in una bolla di sapone come le altre». Gli investigatori avrebbero in mano indizi e prove che potrebbero incastrare l' estremista umanitaria dell' Ong tedesca Sea watch. Ieri è continuato l' interrogatorio, iniziato il giorno prima, di Erasmo Palazzotto, deputato dell' estrema sinistra di Liberi e uguali, capo missione del veliero Alex. Anche in questo caso pur di sbarcare i migranti in Italia il 6 luglio è stato seguito l'«esempio» di Carola e l' imbarcazione della Ong Mediterranea Saving Humans ha forzato il blocco. Palazzotto è indagato per favoreggiamento dell' immigrazione clandestina e «disobbedienza, resistenza e violenza a nave da guerra». Secondo il suo avvocato, Fabio Lanfranca, «la vicenda è lineare. È stato fatto di tutto per aiutare gente in difficoltà. E questo è quello che l' onorevole sta raccontando in maniera puntuale, precisa e documentando tutti i passaggi». Sia Alex che la nave Sea watch 3 sono sotto sequestro. Nel frattempo è stata intercettata l' ennesima lettera minatoria con polvere da sparo e l' ogiva di un proiettile indirizzata al procuratore capo di Agrigento e alla Gip Vella. Le minacce sono firmate da una fantomatica «ultradestra sovranista». Il braccio di ferro con le Ong ha provocato l' invio alla procura di venti lettere minatorie. A Patronaggio è stata assegnata una scorta. In Toscana sono state raccolte in 24 ore 2.248 firme contro il premio che la Regione guidata dal centro sinistra vuole conferire a Carola Rackete. Marco Stella, vicepresidente del Consiglio regionale di Forza Italia e promotore della petizione ha spiegato che «la gente è arrabbiata perché non ci sta a vedere premiata ed eletta a modello una persona che viola le nostre leggi».
Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 19 giugno 2019. Carola Rackete, accolta come una star da uno sparuto gruppo di fan, è stata interrogata ieri alla procura di Agrigento. Al momento la montagna ha partorito un topolino con la capitana ed i pm che parlano all' unisono di «incontro sereno». L' ex comandante della Sea watch, libera e bella, potrebbe pure tornare nelle prossime ore a casa in Germania. La notizia ben più importante, ma oscurata dalla capitana, è la prima richiesta di rinvio a giudizio di un' inchiesta sulle Ong dopo il caso Juventa di due anni fa. La procura di Ragusa vuole processare il comandante e la capo missione di Open arms per un recupero di migranti davanti alla Libia. Il sequestro delle videocamere go pro sugli elmetti dei soccorritori della Ong spagnola hanno rivelato che fin dall' inizio dicevano in inglese ai migranti «we go to Italy», andiamo in Italia. Ieri mattina al tribunale di Agrigento la tedesca Rackete ha risposto dell' ipotesi di reato di favoreggiamento dell' immigrazione clandestina. L' interrogatorio, che doveva essere fiume, è durato appena 4 ore e sembra quasi avere messo d' accordo il procuratore aggiunto Salvatore Vella, i sostituti Alessandra Russo e Cecilia Baravelli e l'indagata. «É stato un incontro sereno al quale seguiranno tutte le valutazioni del caso» trapelava dalla procura. «É in corso l'interrogatorio di #Carola. La nostra Capitana è serena e spiegherà agli inquirenti come ha adempiuto al dovere di soccorrere e portare in salvo le persone trovate in mare» annunciava Sea watch, l' Ong estremista tedesca. Finito l'interrogatorio la stessa Carola ha spiegato di essere «molto contenta per l'opportunità di aver spiegato tutti i dettagli del salvataggio del 12 giugno». E subito dopo ha colto l' occasione per lanciare i soliti proclami da eroina dei due mondi. «Spero che la Commissione europea dopo l' elezione del nuovo Parlamento faccia il meglio possibile per evitare queste situazioni e che tutti i Paesi accettino le persone salvate dalle flotte di navi civili» ha aggiunto. Alla domanda su cosa pensa del ministro dell' Interno, Matteo Salvini, ha risposto in maniera sibillina: «Niente». Più duro e «politico» il suo avvocato, Alessandro Gamberini: «Che il clima di odio ci sia e che venga alimentato da dichiarazioni irresponsabili, aggressive e false come ha fatto il ministro Salvini sui social è pacifico». Ovviamente Carola ha ribadito davanti ai pm di avere agito «per necessità». Secondo la capitana Lampedusa «era l' unico porto sicuro» e «rifarebbe tutto». Il legale ha sottolineato che «è libera e non fa più parte dell' equipaggio di Sea watch 3» la nave della Ong sotto sequestro. Se volesse potrebbe tornare in Germania anche subito. L'improvvisata conferenza stampa di Carola ha fatto passare in secondo piano la notizia della richiesta di rinvio a giudizio della procura di Ragusa nei confronti del comandante Marc Reig Creus di Open arms, la nave dell' omonima Ong spagnola e il capo missione Ana Isabel Montes Mier. L'accusa di violenza privata funzionale al favoreggiamento dell' immigrazione clandestina riguarda il caso del 15 marzo 2018. Secondo i titolari dell' inchiesta, il procuratore capo Fabio D' Anna e il sostituto Santo Fornasier, gli indagati avrebbero imposto all' Italia lo sbarco dei migranti recuperati la largo della Libia senza rispondere alle indicazioni del centro di soccorso di Roma e del loro paese di bandiera, la Spagna, che li sollecitava a fermarsi a Malta. Il 18 marzo dello scorso anno erano stati sbarcati 218 migranti a Pozzallo. Open Arms è stata sequestrata e poi lasciata andare. Nelle ultime ore, in contemporanea con l' interrogatorio di Carola, la nave della Ong spagnola è salpata da Lampedusa dirigendosi verso la Libia. Ieri pomeriggio era all' altezza del porto tunisino di Sfax alla ricerca di migranti.
''LITI A BORDO E TELECAMERA ROTTA'': CAROLA SPIEGA AI PM L'ATTRACCO PROIBITO. Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 24 luglio 2019.
«Nome?»
«Carola Rackete».
«Ha una residenza?»
«Sono registrata a casa dei miei genitori, per motivi di tasse».
«Qual è la sua dimora abituale?»
«Da otto anni non ho una residenza né un appartamento».
«Come sta dal punto di vista economico?»
«Non ho un reddito, in questo momento. Sono una lavoratrice indipendente ».
«Qual è il suo lavoro oggi?»
«Sto lavorando a un mio progetto sulla conservazione naturale, ho raccolto interviste sull' argomento».
La notte dell'attracco forzato al molo di Lampedusa è passata da quarantotto ore, quando la Capitana Carola affronta l' interrogatorio davanti alla giudice per le indagini preliminari Alessandra Vella, chiamata a decidere della convalida del suo arresto. Sono le 15.29 del primo luglio. La trentunenne tedesca ha passato due giorni ai domiciliari, il ministro Salvini va dicendo che è una criminale e che la vuole espellere a tutti i costi, la Sea-Watch 3 sotto sequestro sta navigando verso il porto di Licata. Nell' aula del Tribunale di Agrigento ci sono gli avvocati difensori, Leonardo Marino e Alessandro Gamberini, una interprete e due pm. Deve spiegare tanto, Carola: l'urto con la motovedetta della Finanza, la decisione di violare il divieto di ingresso, le condizioni a bordo. «Voglio rispondere».
La promessa dei finanzieri. Dopo aver ripercorso le fasi del salvataggio dei 53 naufraghi in zona Search and Rescue della Libia («Siamo stati informati da un aereo della Sar che c' era una barca in difficoltà. Era un gommone in condizioni precarie, nessuno aveva il giubbotto di salvataggio, non avevano abbastanza benzina per raggiungere qualsiasi posto. Chi guidava il gommone non aveva alcuna esperienza e nessuno strumento di navigazione»), e dopo aver ricostruito i contatti via mail con la guardia costiera libica, a Carola Rackete viene chiesto di dare conto di ciò che è successo tra il 28 e il 29 giugno. L' approdo notturno e senza permesso, dopo 17 giorni di stallo in mare. «Stavo aspettando la soluzione politica che mi era stata promessa». Da chi?, chiede la giudice Vella. «Dalla stessa Guardia di finanza, che mi diceva: "Comandante, si calmi, presto ci sarà una soluzione". Tramite il governo tedesco, dovevano prendere i migranti e dividerseli (...). La mattina seguente mi sono alzata presto e ho chiesto ai parlamentari a bordo (erano saliti in cinque, ndr): non c' era alcuna soluzione».
La tensione tra i migranti. Intanto, sotto il tendone di poppa dove erano tenuti i migranti, la situazione si era fatta complicata. «C' era il rischio di auto-lesioni, di suicidi e di atteggiamenti ostili verso l' equipaggio ». Il pm Salvatore Vella le domanda se qualcuno avesse mai perso il controllo. «So di una lite tra migranti. La cosa mi fu trasmessa con una chiamata di sicurezza via radio interna». Intervennero il mediatore culturale e un altro membro dell' equipaggio. «Li hanno fatti parlare e sono riusciti a calmarli, risolvendo la lite. I migranti erano stanchi e quindi non ero più sicura di poter controllare un' eventuale lite».
La manovra della discordia. E si arriva alla famosa manovra. «Ho deciso di entrare in porto alle 23, perché non c' era più alcuna opzione rimasta. Dopo tre tentativi mi ha risposto un canale radio, "Lampedusa Traffic", quindi ho cercato di comunicare la mia intenzione, ma non parlavano inglese. Allora ho spiegato all' equipaggio che le manovre dovevano essere fatte molto lentamente, perché eravamo stanchi ed era la prima volta che attraccavo a Lampedusa ». Da terra le autorità la ammoniscono. «Dicevano: "Non hai il permesso, non sei autorizzata". Mi sono resa conto che non potevo navigare e parlare con loro. Come quando guidi la macchina, non dovresti usare il telefono. Ho detto per l' ultima volta che stavo andando al molo, che non potevo utilizzare la radio e che dovevano rimanere in stand-by». La motovedetta dei finanzieri, invece, ha provato a bloccarla. «Si sono messi davanti a me, io stavo procedendo a velocità molto bassa. Poi ho girato e loro sono andati al molo. Dal ponte non puoi vedere cosa succede lateralmente. Di solito c' è una videocamera, però era rotta dall' inizio del viaggio. Mi sono spostata fuori dal ponte, per vedere se potevo andare indietro o in un altro posto del molo. Ero sicura che si sarebbero spostati loro, perché sapevano che avevo bisogno di ormeggiare».
La telecamera e le liti a bordo. Il retroscena sulla mossa pirata di Carola. La Rackete racconta nei verbali dell'interrogatorio cosa è successo quella notte. E accusa la Gdf: "Si sono messi davanti". Angelo Scarano, Mercoledì 24/07/2019, su Il Giornale. Confusione, liti e radio in stand by. A qualche settimana di distanza dalla notte dell'attracco della Sea Watch nel porto di Lampedusa, emergono i retroscena sull'interrogatorio della capitana davanti al giudice Vella 48 ore dopo lo sbarco. Nel racconto della Rackete, riportato da Repubblica, di fatto emergono chiari i contorni di quanto accaduto a bordo della nave proprio nei minuti che hanno preceduto l'attracco e lo speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza. Di fatto, la "capitana" parla di alcune liti a bordo della nave tra i migranti e sottolinea l'atteggiamento ostile di alcuni naufraghi nei confronti dell'equipaggio. Con la radio interna alla nave, la Rackete avrebbe appreso di una rissa tra alcuni migranti. Da qui, secondo il suo racconto ai giudici, l'idea di accelerare lo sbarco dato che "la situazione a bordo era diventata insostenibile". Poi si arriva al punto focale della questione Rackete: l'attracco in porto con la manovra spericolata che ha messo a rischio l'incolumità dei finanzieri a bordo della motovedetta. La Rackete afferma di aver contattato le autorità ribadendo la sua volontà di entrare in porto: "Ho deciso di entrare in porto alle 23, perché non c' era più alcuna opzione rimasta. Dopo tre tentativi mi ha risposto un canale radio, "Lampedusa Traffic", quindi ho cercato di comunicare la mia intenzione, ma non parlavano inglese. Allora ho spiegato all' equipaggio che le manovre dovevano essere fatte molto lentamente, perché eravamo stanchi ed era la prima volta che attraccavo a Lampedusa". La risposta che arriva è il divieto assoluto di attracco in porto come previsto dal provvedimento notificato alla Rackete. Le risposte che arrivano sono fin troppo chiare: "Dicevano: "Non hai il permesso, non sei autorizzata". Mi sono resa conto che non potevo navigare e parlare con loro. Come quando guidi la macchina, non dovresti usare il telefono. Ho detto per l'ultima volta che stavo andando al molo, che non potevo utilizzare la radio e che dovevano rimanere in stand-by". A questo punto entra in azione la motovedetta della fiamme gialle. I finanzieri fanno di tutto per evitare l'attracco della Sea Watch. A bordo della motovedetta tentano una manovra posizionandosi sulla traiettoria della nave a pochi metri dal molo del porto di Lampedusa. Qui la Rackete spiega il motivo di quella manovra così spericolata che ha portato poi allo speronamento della motovedetta. La Rackete parla di una videocamera in plancia di comando gusta. Proprio la videocamera che a suo dire le avrebbe permesso una visuale completa. "Si sono messi davanti a me, io stavo procedendo a velocità molto bassa. Poi ho girato e loro sono andati al molo. Dal ponte non puoi vedere cosa succede lateralmente. Di solito c' è una videocamera, però era rotta dall' inizio del viaggio. Mi sono spostata fuori dal ponte, per vedere se potevo andare indietro o in un altro posto del molo. Ero sicura che si sarebbero spostati loro, perché sapevano che avevo bisogno di ormeggiare". Insomma la Rackete punta il dito contro la Guardia di Finanza che ha invece svolto il proprio lavoro tentando in ogni modo di far rispettare la legge ad una capitana che ha violato tutte le norme in pochi minuti.
Carola libera, gli errori del gip. Il ricorso in Cassazione contro la scarcerazione. La Procura: senza fondamento, letture sbagliate. Fausto Biloslavo, Mercoledì 24/07/2019, su Il Giornale. La scarcerazione di Carola Rackete? Un errore madornale. L'ordinanza del giudice per le indagini preliminari, Alessandra Vella, che ha trasformato la capitana della Sea Watch 3 in eroina dei due mondi? Senza fondamento giuridico e basata su interpretazioni o letture sbagliate di sentenze oltre che sulle dichiarazioni della stessa capitana, indagata, prese per oro colato. Il ricorso in Cassazione della procura di Agrigento demolisce l'ordinanza del 2 luglio, che ha rimesso in libertà la capitana permettendole di tornare in Germania. E chiede alla Suprema corte di annullarla perché risulta «viziata per violazione di legge». Oltre a non avere «provveduto correttamente a valutare gli elementi di fatto e di diritto». E ancora: «L'impostazione offerta dal Gip sembra banalizzare gli interessi giuridici coinvolti nella vicenda e non appare condivisibile la valutazione semplicistica». Una pietra tombale di 16 pagine, che non servirà a nulla. Il ricorso è apparso ieri su un sito giuridico, una settimana dopo l'invio in Cassazione. Scelta di basso profilo opposta all'exploit mediatico dell'ordinanza considerata totalmente infondata. A pagina 3 il procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio e il sostituto Gloria Andreoli, partono all'attacco: «Si ritiene che (...) il Gip nel pronunciarsi sulla legittimità dell'arresto di Carola abbia travalicato i limiti di approfondimento attenenti a tale fase procedendo a un'autonoma valutazione dei dati in suo possesso e pervenendo a un giudizio sostanziale della gravità indiziaria». Un giudizio che travalica le competenze del giudice ed è comunque sballato. A cominciare dal non avere considerato «nave da guerra», la motovedetta della Guardia di finanza schiacciata dalla capitana contro la banchina per sbarcare i migranti. «È di tutta evidenza - scrive la procura di Agrigento - che l'affermazione del Gip sia stato frutto di autonoma interpretazione che non trova alcun appiglio nella sentenza della Corte costituzionale» citata da Vella. «Al contrario si precisa che la giurisprudenza in più casi ha qualificato le motovedette della Guardia di finanza come navi da guerra» si legge nel ricorso. Dalla pagina 8 in poi viene smontata, pezzo per pezzo, la tesi del Gip sul «dovere di soccorso e assistenza ai naufraghi», che permetteva a Carola di fare quello che voleva forzando il blocco del Viminale. Innanzitutto «il Gip ha affrontato tutta una serie di valutazioni in ordine alla condotta di Rackete fondando per buona parte le proprie argomentazioni sulle dichiarazioni dell'indagata». Il ricorso sottolinea che il governo stava per risolvere il caso a livello europeo, ma la capitana ha compiuto l'atto di forza senza tenerne conto. I procuratori si chiedono, inoltre, come sia possibile che la Gip si aggrappi alla giustificazione di un «soccorso in mare avvenuto 15 giorni prima dell'arresto». E ribadiscono che davanti a Lampedusa «i migranti non erano più esposti a un pericolo imminente per la loro vita e incolumità». Una serie di «mazzate», che spiegano come «non poteva ragionevolmente ritenersi giustificata l'azione di forza della Rackete, che per attuare nella maniera ottimale un dovere, esponeva con la propria manovra di schiacciamento della motovedetta V.808 verso la banchina, a concreto pericolo sia i migranti, che l'equipaggio della motovedetta». In definitiva «la conclusione a cui è pervenuto il Gip si ritiene contraddittoria, errata e non adeguatamente motivata», ma ha comunque trasformato Carola in eroina con un'aureola innocentista in nome di un superiore diritto umanitario deciso dai talebani dell'accoglienza. «Diritto» sancito di fatto dall'ordinanza, che ha avuto un enorme clamore mediatico. A differenza dal ricorso che la fa a pezzi passato sotto silenzio.
Sea Watch, la sentenza del gip Vella su Carola Rackete ha frantumato i confini italiani: legge stravolta. Libero Quotidiano l'8 Luglio 2019. La sentenza del gip di Agrigento, Alessandra Vella, sulla scarcerazione di Carola Rackete, capitana della Sea Watch 3, ha revocato la componente sanzionatoria della regola che vieta l'ingresso nelle acque territoriali italiane. La conseguenza è scontata: il carattere "imperativo" della norma giuridica decade. E così l'accesso abusivo nello spazio marittimo italiano - violato successivamente anche dalla Alex (ong Mediterranea Saving Humans) - sta assumendo una vera e propria espropriazione di sovranità nazionale. Le regole - riferisce Il Tempo - hanno efficacia fintantoché la loro trasgressione innesca il dispositivo della sanzione, ma se la punizione viene disattivata da interpretazioni elastiche, rendendola cedevole, decade l'impianto dissuasivo a protezione della legalità. Non sono solo le ong italiane a non rispettare le regole del loro Paese, ma a permettersi di fare la morale per poi decidere deliberatamente di fare quello che meglio si crede, ci pensano anche le imbarcazioni battenti bandiere straniere. È il caso del natante Alan Kurdi della Ong tedesca Sea Eye, con a bordo 65 ospiti. La nave infatti, prima di ottenere il consenso da Malta, ha manifestato l'intenzione di seguire le orme della Sea Watch. A minare la sovranità e anche la credibilità d'Italia - prosegue Il Tempo - ci ha pensato proprio il nostro sistema giuridico con il tribunale di Agrigento che, autorizzando le pretese della Sea Watch 3, prima negate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, ha dato lo start a replicare azioni di navigazione illegittime.
Sea Watch, Matteo Orfini e Maurizio Martina multati per essere saliti a bordo: "Non è un Paese normale". Libero Quotidiano il 9 Luglio 2019. Multati per aver trasgredito la legge. Si parla dei piddini Matteo Orfini e Maurizio Martina, i quali sono stati sanzionati nelle ultime ore per un fatto che risale a mesi fa, quando salirono a bordo della Sea Watch 3 nonostante il blocco che era stato imposto. Tutto normale, ma non per loro. Non a caso, su Facebook, Orfini scrive: "In questo Paese accadono cose inquietanti che non possiamo rassegnarci a considerare normali". Il piddino, nella mattinata di oggi, martedì 9 luglio, a Siracusa ha chiesto, assieme a Maurizio Martina, di essere ascoltato dalla Capitaneria di Porto, per ricordare che "a gennaio salimmo sulla Sea Watch 3 bloccata dal governo al largo di Siracusa. E fummo denunciati per questo. Violazione dell’articolo 650 del codice penale. L’accusa è di aver disobbedito a un divieto di avvicinamento alla nave. E mesi dopo siamo stati multati. L’accusa è di non aver osservato le norme di polizia relative alla libera pratica sanitaria", sottolinea "Peccato - prosegue nel suo intervento - che le cose non andarono così. Prima di salire incontrammo in prefettura prefetto e comandante della capitaneria ai quali notificammo la nostra intenzione di salire per verificare le condizioni della nave. Esercitando così le nostre prerogative parlamentari di sindacato ispettivo. Fummo autorizzati, tanto che le istituzioni in questione ci aiutarono a organizzare la logistica del breve tragitto di avvicinamento alla nave e comunicarono alla Sea Watch che eravamo autorizzati a salire a bordo". E ancora: "Al ritorno a terra fummo denunciati. Da quelle stesse istituzioni che ci avevano autorizzato a salire a bordo. Ovviamente - conclude il deputato Pd - dichiarammo subito che, a differenza di Matteo Salvini, qualora si fosse arrivati a processo avremmo rinunciato all’immunità. Ma soprattutto iniziammo con i nostri legali a costruire una memoria difensiva che non solo è servita a smontare le accuse, ma ha evidenziato un fatto molto grave: qualcuno ha scelto di denunciare dei parlamentari di opposizione che nel pieno rispetto della legge stavano semplicemente facendo il loro lavoro. E quel qualcuno sono corpi dello stato che rispondono al governo. Non sappiamo chi abbia dato l’ordine e perché, ma vogliamo capirlo. A noi non interessa semplicemente il riconoscimento della liceità del nostro operato, che siamo certi arriverà. A noi interessa capire cosa è accaduto, perchè non è normale. Almeno non lo è in uno stato di diritto", conclude.
Sea Watch 3, retroscena-choc: "Telefonate tra Carola Rackete, Pd e procura", ecco a cosa miravano. Libero Quotidiano il 4 Luglio 2019. "La politica conta nulla, la politica la fanno i giudici. Ad Agrigento prima il Pm fa il duro e arresta Carola Rackete, ma il gip usa il guanto di velluto e la rimette in libertà. Poi il prefetto espelle Carola e il pm usa il velluto e dice che non è possibile. Tutti d'accordo per non far nulla". A parlare è il forzista Enrico Costa che si confida con Augusto Minzolini, il quale riporta tutto nel suo articolo su Il Giornale. Poi l'accusa più pesante: "Tra le telefonate tra Carola, i parlamentari del Pd e la Procura c'è da pensare che i tempi siano stati studiati per trovare di turno proprio quel gip", insinua l'azzurro Piergiorgio Cortelazzo. Il centrodestra è in fibrillazione sul tema giustizia e politica. "Ci vorrebbe un esame comparato tra i casini del Csm e la procura di Agrigento: visto che Carola ha riavuto la libertà per la politica, il pm dovrebbe avere il coraggio di incriminare i finanzieri" spiega il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, a Minzolini. Una sfida che però non convince l'ex ministro dell'Interno, Marco Minniti, continua Minzo. "Le leggi su questi temi non servono: Salvini può fare pure cento decreti, ma con in ballo le organizzazioni umanitarie e il diritto internazionale, il giudice dà l'interpretazione che vuole. L'unica strada è il codice di comportamento concordato con le Ong. Né il ministro dell'Interno può ritagliarsi un ruolo alternativo alla magistratura: così il sistema salta! Salvini dovrebbe parlare senza proclami ma solo con gli atti, come un certo Minniti".
Il pm Patronaggio in Senato: «Mai provato il legame tra le ong e gli scafisti». Pubblicato martedì, 02 luglio 2019 da Corriere.it. Necessità di varare un decreto sicurezza-bis? Non pare, visto che gli sbarchi sono in netto calo e quelli effettuati dalle ong sono «insignificanti»: è quanto ha riferito in commissione affari costituzionali del Senato il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, uno degli stessi che in queste ore si sta occupando del caso Sea Watch e della comandante Carola Rackete. Sui requisiti di «straordinaria necessità e urgenza» del decreto sicurezza bis, i dati di Agrigento indicano che «dagli 11.159 migranti sbarcati nel 2017 si è passati ai 1.084 del primo semestre di quest’anno. E quelli soccorsi dalle ong rappresentano una porzione insignificante» ha detto Patronaggio ai senatori.«Le finalità del dl sicurezza bis sono assolutamente condivisibili per quanto riguarda il contrasto al traffico di esseri umani», ma non vi erano «le condizioni di straordinaria necessità e urgenza» che giustificano la decretazione di urgenza. Se poi l’obiettivo che viene colpito sono coloro che fanno salvataggi in mare «ci sono profili di criticità con il diritto internazionale e diritto interno. È evidente - ha aggiunto - che il legislatore può fare quello che crede ma ciò non può prescindere da trattati internazionali e da quanto stabilito dalla Costituzione». Il magistrato ha poi aggiunto che mentre era in corso il braccio di ferro sulla Sea Watch, a Lampedusa sono arrivati 200 persone con barchini oppure salvate da Guardia di Finanza e Guardia Costiera. Altro particolare aggiunto dal pm.non è stato mai provato il legame tra ong e trafficanti : «L’attività delle ong potrebbe essere considerata illecita solo nel caso di un accordo preventivo tra trafficanti e ong, cosa finora mai provata».
Ugo Magri per La Stampa il 2 luglio 2019. Al grido di «Carola libertà», un gruppo di manifestanti austriaci ha accolto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, mentre entrava nella casa Natale di Mozart, a Salisburgo. Sono stati esposti striscioni e cartelli con su scritto, in lingua tedesca, «Salvare i profughi non è reato», e qualcuno ha lanciato slogan antifascisti. Mattarella, che era accompagnato dal presidente austriaco Alexander Van del Bellen, è passato davanti ai manifestanti (una ventina in tutto) senza fermarsi a ripetere quanto aveva già dichiarato alla vigilia, che del caso Sea Watch si sta occupando la magistratura e non è nei suoi poteri interferire.
Da Libero Quotidiano il 2 luglio 2019. Se Matteo Salvini si trovasse alla deriva in alto mare, nessuna nave interverrebbe in suo soccorso. Ogni comandante temerebbe, infatti, di venire arrestato in esecuzione del decreto sicurezza bis, come accaduto a Carola Rackete, capitano della Sea Watch 3, attualmente agli arresti domiciliari a Lampedusa. È la "provocazione" del quotidiano tedesco Die Welt nella sua rubrica satirica, ironizzando sugli ultimi sviluppi della vicenda della Sea Watch, la nave battente bandiera olandese della ong tedesca. Secondo Die Welt, persino la Marina militare italiana non soccorrerebbe Salvini poiché, come afferma un immaginario ufficiale dell'arma, il ministro dell'Interno "reagirebbe molto male se osassimo fare qualcosa del genere". Paradossalmente, il salvataggio del leader della Lega verrebbe impedito proprio dal decreto sicurezza bis, ideato dal ministro dell'Interno. "Il problema maggiore è impedire alle navi delle Ong di prendere a bordo Salvini", sostiene Die Welt, secondo cui "la Guardia costiera di Lampedusa auspica che un gommone carico di migranti abbia pietà" e salvi il titolare del Viminale. Piccolo dettaglio che sembra sfuggire a Berlino e dintorni: il caso Sea Watch non riguarda il soccorso dei migranti né l'accoglienza, quanto piuttosto la "redistribuzione" tra i paesi dell'Ue dei profughi e la violazione della legge da parte di un'organizzazione privata che vorrebbe imporre la propria volontà (quella di attraccare e far sbarcare migranti a piacimento) a uno Stato sovrano.
Sea Watch, Carola Rackete torna libera: il gip non ha convalidato l’arresto. Pubblicato martedì, 02 luglio 2019 i Virginia Piccolillo, inviata ad Agrigento, e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. Libera. Carola Rackete - che venerdì notte ha sbarcato sul molo di Lampedusa i migranti soccorsi davanti alle acque libiche, ignorando il divieto, ignorando l’Alt della Finanza e schiacciando contro il molo la motovedetta con 5 finanzieri a bordo - non è più ai domiciliari. Il gip di Agrigento, Alessandra Vella, non ha convalidato l’arresto della comandante della Sea Watch, escludendo il reato di resistenza e violenza a nave da guerra e ritenendo che il reato di resistenza a pubblico ufficiale sia stato giustificato da una «scriminante» legata all’avere agito «all’adempimento di un dovere», quello di salvare vite umane in mare. Bocciata anche la richiesta dei pm di divieto di dimora in provincia di Agrigento e dunque nei porti di competenza (Lampedusa e Linosa, Licata, Porto Empedocle) perché secondo il gip la scelta di Carola di attraccare a Lampedusa non è stata strumentale ma obbligatoria giacché i porti della Libia e della Tunisia non sono stati ritenuti porti sicuri. La capitana dunque può tornare al timone. Anche se la Sea Watch 3 per ora è ancora sotto sequestro. Immediata la reazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini: «Per la magistratura italiana ignorare le leggi e speronare una motovedetta della Guardia di Finanza non sono motivi sufficienti per andare in galera. Nessun problema: per la comandante criminale Carola Rackete è pronto un provvedimento per rispedirla nel suo Paese perché pericolosa per la sicurezza nazionale». In un appartamento al primo piano di una palazzina gialla in via Dante, Rackete ha atteso la pronuncia fino alle 20,30. Mentre, dalle 6 del mattino, un gruppo di fotoreporter, via via più folto, attendeva il momento in cui Carola avrebbe potuto rilasciare dichiarazioni. Anche un piccolo nucleo di sostenitori ha atteso a lungo.
Carola Rackete, ecco perché il gip non ha convalidato l’arresto. Le motivazioni della decisione del giudice. Che smonta il Decreto Sicurezza. Simona Musco il 3 luglio 2019 su Il Dubbio. Il capitano della Sea Watch Carola Rackete non ha commesso alcun reato, bensì ha rispettato l’obbligo di legge di soccorrere persone in pericolo, adempiendo ad un dovere di soccorso che «non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro». Nelle 13 pagine con le quali il gip di Agrigento Antonella Vella rigetta la richiesta di convalida della misura cautelare a carico della 31enne tedesca c’è di tutto, come il richiamo a norme internazionali, che in nessun modo possono essere messe da parte dalle norme del singolo Stato. Ma soprattutto c’è la decostruzione del Decreto Sicurezza bis, che di fronte alla prova dei fatti, di fronte al suo primo obiettivo polemico – le ong – crolla, dimostrandosi non solo insufficiente, ma anche inutile. Quella norma, che vuole i porti chiusi per le organizzazioni non governative impegnate nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo, non si può infatti applicare a chi salva vite. Vale per gli scafisti, che quotidianamente approdano indisturbati, senza clamore mediatico, sulle coste italiane. Così, mentre tutta l’attenzione del Viminale si concentrava sulla Sea Watch, centinaia di migranti sono arrivati in Italia. E coloro ai quali quel decreto poteva essere applicato non sono stati nemmeno visti.
IL QUADRO DI RIFERIMENTO. Per il gip, i reati contestati alla capitana Carola Rackete non possono essere esaminati senza analizzare anche ciò che è successo prima, ovvero il soccorso in mare dei migranti e «gli obblighi che ne scaturiscono». Il giudice richiama dunque la Costituzione, le convenzioni internazionali, il diritto consuetudinario ed i principi generali del diritto riconosciuti dalle Nazioni Unite, che pongono obblighi specifici, non solo per i comandanti delle navi, ma anche per gli Stati che hanno sottoscritto tali accordi, in relazione alle operazioni di soccorso in mare. E gli accordi internazionali, ricorda il giudice, hanno un carattere di «sovraordinazione» rispetto alla disciplina interna. Insomma, non si può legiferare ignorando gli obblighi internazionali. Tra questi c’è la Convenzione Unclos, che impone al comandante di una nave di assistere chiunque si trovi in pericolo in mare e di recarsi al più presto in soccorso delle persone in difficoltà. Obblighi rafforzati dal Codice della navigazione italiano, che punisce l’omissione di soccorso, indipendentemente da quale bandiera batta la nave intervenuta.
L’ITER DEL SALVATAGGIO DEI MIGRANTI. Nel motivare la propria decisione, il giudice riporta passo passo quanto accaduto il 29 giugno scorso, giorno in cui Carola Rackete finisce ai domiciliari, dopo essere entrata di forza nel porto di Lampedusa, decidendo, infine di attraccare, urtando, nella manovra, una motovedetta della Guardia di Finanza. Una condotta che aveva portato la procura di Agrigento a contestare gli atti di resistenza con violenza a nave da guerra – ovvero la motovedetta della Guardia di Finanza che aveva intimato l’alt alla capitana – e il concorrente reato di resistenza a pubblico ufficiale. Per il procuratore Luigi Patronaggio, quella della Rackete sarebbe stata «una azzardata manovra» dopo essere stata ripetutamente intimata a fermarsi. Una condotta valutata «come volontaria», così come la manovra effettuata con i motori laterali, «che ha prodotto lo schiacciamento della vedetta contro la banchina, fatto prodotto con coscienza e volontà». E per il magistrato non c’era lo stato di necessità, dunque, perché la nave era già attraccata alla fonda ed aveva ricevuto assistenza tecnica. Ma per il giudice le cose stanno diversamente. Tutto inizia il 12 giugno, giorno del soccorso di 53 persone in zona Sar libica, a 47 miglia nautiche dalla costa, dopo una segnalazione da parte dell’aereo “Colibrì”. «Era un gommone in condizioni precarie – spiega Rackete al gip durante l’udienza di convalida – e nessuno aveva giubbotto di salvataggio, non avevano benzina per raggiungere alcun posto, non avevano esperienza nautica, né avevano un equipaggio». Una situazione che ha fatto sorgere, sottolinea il gip, «l’obbligo, per il comandante della nave, di prestare soccorso alle persone trovate in mare in condizioni di pericolo», come da Convenzione Unclos.
LA COMUNICAZIONE A QUATTRO PAESI. A questo punto Rackete comunica la presenza dell’imbarcazione in difficoltà ai centri di coordinamento in mare di Libia, Olanda, «perché la nave batte bandiera olandese e Italia e Malta, perché erano le più vicine». È il centro di coordinamento a dover indicare il luogo con il porto più sicuro. «Nel mio caso – sottolinea il capitano – verso mezzanotte la guardia costiera libica ci ha detto di indirizzarci verso Tripoli. A quel punto ho capito che non potevamo farlo, perché non sicuro, perché lì vi erano stati, per altri casi di diverse violazioni dei diritti umani. La Commissione europea ci dice che il porto di Tripoli non è sicuro». E la decisione, sottolinea ancora il giudice, «risultava conforme alle raccomandazioni del Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa e a recenti pronunce giurisprudenziali».
IL PORTO SICURO. Malta viene dunque esclusa perché meta più lontana, mentre in Tunisia «non ci sono porti sicuri», come riferito da Amnesty International. Parlare di porto sicuro, spiega l’ordinanza del gip, significa che «la sicurezza della vita dei naufraghi non è più in pericolo, le necessità primarie (cibo, alloggio e cure mediche) sono assicurate, può essere organizzato il trasferimento dei naufraghi verso una destinazione finale». Condizioni non rispettate dalla Tunisia, anche perché tale paese «non prevede una normativa a tutela dei rifugiati, quanto al diritto di asilo politico». Rackete decide dunque di avvicinarsi a Lampedusa, porto sicuro più vicino, chiedendo invano alle autorità di poter entrare per lo sbarco. Richieste reiterate con continue mail agli organi competenti, nelle quali viene sottolineata la presenza «di casi medici urgenti» a bordo, facendo anche ricorso al Tar e alla Cedu, senza successo.
IL PEGGIORAMENTO DELLA SITUAZIONE A BORDO. Nel frattempo la condizione a bordo peggiora, la frustrazione cresce e le condizioni di salute si fanno sempre più precarie. «La situazione psicologica stava peggiorando ogni giorno – spiega al giudice – molte persone soffrivano lo stress post traumatico, quindi quando abbiamo detto che l’esito era negativo la pressione psicologica era diventata intensa, perché non avevamo nessuna soluzione e le condizioni mediche peggioravano. Abbiamo deciso di dichiarare lo stato di necessità e di entrare nelle acque territoriali. Questo il 26 giugno. Quindi noi abbiamo cercato per 14 giorni di non infrangere la legge». Nel frattempo diversi migranti vengono evacuati dalla nave per emergenze sanitarie, mentre la nave, per altri due giorni, rimane a mollo nelle acque italiane, in attesa del permesso di attraccare. «Ho aspettato – spiega il capitano – per una soluzione politica che mi era stata promessa dalla Guardia di Finanza». Una soluzione che consiste in un accordo tra i paesi Ue in merito all’accoglienza dei migranti, che durante l’attesa non arriva. La soluzione continua solo a peggiorare. «Diverse persone del mio team hanno espresso serie preoccupazioni, uno dei medici ha detto che non avrebbe potuto prevedere più le reazioni delle persone a bordo – spiega Rackete – diceva che ogni piccola cosa avrebbe potuto far esplodere la situazione ed il coordinatore-ospite ha detto che le persone stavano perdendo la fiducia nell’equipaggio».
IL SUPERAMENTO DELLE LINEE ROSSE. Il 28 giugno, alle 23 circa, dopo aver rilevato il superamento delle linee rosse che un comitato ristretto dello stesso equipaggio si è dato, Rackete decide di sollevare l’ancora e iniziare la manovra d’ingresso nel porto di Lampedusa, comunicandolo subito alla Finanza e portando avanti, nonostante l’alt imposto dalle Fiamme Gialle, le manovre di attracco. Una decisione, spiega il gip, supportata dall’articolo 18 della Convenzione del mare, che «autorizza il passaggio» della nave battente bandiera straniera «ma anche la fermata e l’ancoraggio» se tali eventi sono necessari «a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo». L’attracco, inoltre, è conforme all’obbligo di legge «di prestare soccorso e prima assistenza allo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o estera ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare».
NIENTE PORTI CHIUSI, NESSUNA VIOLENZA. Per il giudice, dunque, le direttive ministeriali dei “porti chiusi” non possono avere «nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della ea Watch 3, oltre che delle autorità nazionali». Una direttiva che, in ogni caso, prevede soltanto una sanzione amministrativa. Non può esserci, inoltre, resistenza o violenza contro una nave da guerra, perché le motovedette della Finanza possono essere considerati mezzi bellici «solo quando operano fuori dalle acque territoriali» o in porti esteri privi di autorità consolare. Mentre per quanto riguarda la resistenza a pubblico ufficiale, secondo quanto «emerge dal video» in possesso della procura, «il fatto deve essere di molto ridimensionato, nella sua portata offensiva, rispetto alla prospettazione accusatoria fondata sulle rilevazioni della polizia giudiziaria».
«HA AGITO SOLO PER SALVARE VITE». La manovra pericolosa, «scelta volontaria seppure calcolata», permette di ritenere sussistente la resistenza. Ma tale reato «deve ritenersi scriminato» in quanto Rackete ha agito «in adempimento di un dovere». Il salvataggio in mare di naufraghi, spiega il gip, «deve, infatti, considerarsi adempimento degli obblighi derivanti dal complesso quadro normativo» di convenzioni e diritto internazionale, oltre che dalla Costituzione. E il divieto previsto dal Decreto Sicurezza di ingresso, transito e sosta può avvenire «solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti», ovvero se a farlo sono scafisti e trafficanti, cosa che, aggiunge il gip, non riguarda la ong, trattandosi di un salvataggio in mare in caso di rischio naufragio. Una legge che, comunque, non può far venir meno gli obblighi di soccorso e conduzione dei naufraghi in centri di assistenza. Il segmento finale del comportamento di Rackete, dunque, ovvero la resistenza a pubblico ufficiale, costituisce l’esito «dell’adempimento del dovere di soccorso», il quale «non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro».
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 3 luglio 2019. È un bluff l' espulsione immediata di Carola Rackete annunciata ieri sera dal ministro dell' Interno Matteo Salvini. Perché il pubblico ministero di Agrigento ha già negato il nulla osta al provvedimento e lo ha notificato al Viminale. E perché la comandante della Sea Watch - nonostante il gip ieri sera abbia ritenuto infondate le accuse - deve rimanere a disposizione dei magistrati che l' hanno indagata anche per favoreggiamento dell' immigrazione clandestina. Il decreto firmato dal prefetto non potrà dunque essere eseguito. Quanto basta per far salire il livello di scontro tra Salvini e le toghe in una polemica che nei prossimi giorni potrebbe aggravarsi ulteriormente viste le accuse esplicite rivolte dal ministro. Anche perché la decisione del giudice di Agrigento, che accolto le tesi dell' avvocato difensore Alessandro Gamberini, potrebbe costituire un precedente importante anche per altri casi analoghi di navi delle Ong e questo spinge Salvini «a fare tutto il possibile per bloccarle», come ha ripetuto ieri sera. Sono le 20.50 quando Salvini annuncia che la comandante «sarà allontanata dal territorio e accompagnata alla frontiera». Chiarisce che il provvedimento deve essere convalidato dal giudice, ma in realtà non dice che il nulla osta è già stato negato perché il 9 luglio è fissato l' interrogatorio di Rackete. E in realtà la capitana rischia di rimanere in Italia ben più a lungo. Nelle prossime ore l' avvocato Gamberini depositerà un' istanza di rinvio perché proprio quel giorno ha un altro impegno professionale e dunque è possibile che il faccia a faccia con i magistrati possa slittare almeno di una settimana. Fino a quel momento Rackete rimarrà libera in Italia. Un' eventualità che Salvini vorrebbe scongiurare. Ieri sera il ministro ha ribadito che «bisogna provarle tutte per far capire che in Italia le Ong non possono arrivare, i porti sono chiusi e chi vuole soccorrere in mare i migranti deve poi portarli altrove». In realtà la decisione del prefetto rischia di aprire una grossa falla su questa linea e dunque già oggi al Viminale saranno analizzati gli strumenti e le possibili misure di intervento proprio per impedire che altri possano essere tentati di imitare quanto fatto da Rackete forzando i blocchi navali e approdando nei porti del Sud Italia. Soprattutto perché la scelta del giudice di evidenziare come Libia e Tunisia non possano essere considerati «porto sicuro» potrebbe costituire un precedente anche per altri giudici. I numeri degli arrivi continuano a essere molto bassi rispetto agli anni precedenti, ma nelle ultime settimane sono aumentati in maniera considerevole i cosiddetti «sbarchi fantasma». Il Viminale non fornisce numeri ufficiali su questo fenomeno, ma le stime parlano di almeno 600 persone approdate nell' ultimo mese a bordo di barchini e gommoni in Sicilia e nelle altre Regioni meridionali. Un andamento che preoccupa i responsabili del ministero dell' Interno, anche perché rischia di intensificarsi ulteriormente, smentendo l' efficacia della linea di fermezza che Salvini continua a rivendicare come arma vincente.
Sea Watch, Carlo Nordio: "Carola Rackete come i clandestini. Perché è ancora in Italia". Libero Quotidiano il 4 Luglio 2019. "Sea Watch, il naufragio della legge". E' titolato così l'editoriale di Carlo Nordio pubblicato su Il Messaggero. L'ex magistrato entra nel merito della vicenda di Carola Rackete, la capitana della Sea Watch. "Il fenomeno dell'immigrazione irregolare è troppo complesso per lasciarne la gestione alla magistratura", lo dimostrano "le contraddizioni che spesso emergono durante le indagini penali, e che possono portare a conclusioni diverse - e spesso opposte - a quelle della politica e persino del buon senso". Secondo Nordio "alcuni problemi non possono essere risolti dai giudici", in particolare quelli "che si presentano con un impatto emotivo nella società moderna, e che richiedono strumenti di valutazione, di controllo e di guida ben più efficaci della maestosa incertezza del processo penale". Nel caso della Rackete, arrestata e liberata, "l'opinione pubblica", sottolinea Nordio, "si è come al solito atrocemente divisa, ma la cosa era nell'aria. Innanzitutto perché la stessa Procura aveva chiesto il solo divieto di dimora, quindi il Gip non poteva applicare una misura più grave, e poi perché una camera di consiglio così lunga non poteva che preludere a una motivata contestazione delle ragioni che avevano indotto i pm a disporre l'arresto della capitana". La decisione di non convalidare l'arresto, non significa che la Rackete sia stata scagionata: "probabilmente - spiega Nordio - il Pm ricorrerà per Cassazione" e in ogni caso "sarà il processo a decidere sulla colpevolezza o meno dell'imputata, che nel frattempo, come è giusto che sia, è presunta innocente. Tutto questo è conforme alla nostra procedura e al nostro stato di diritto, e guai a noi se non fosse così". Mentre la politica, continua l'ex magistrato, "purtroppo sembra ignorare che il processo ha le sue regole, che a molti possono sembrare stravaganti ma che vanno rispettate". Il ministro Salvini "ha proclamato l'espulsione di Rackete, con esecuzione immediata. Sennonché è proprio la condizione di imputata che consente alla capitana di restare in Italia. Avendo infatti il diritto di difendersi dalle imputazioni elevate - e da quelle suppletive di favoreggiamento all'immigrazione clandestina - non può essere cacciata e magari poi processata in absentia". "Il nostro severo giudizio complessivo sul comportamento della Rackete non ci fa affatto dimenticare che la carcerazione preventiva dev'essere un'eccezione giustificata - anche se questo da noi non avviene - solo da fattori eccezionali", dice Nordio aggiungendo che "queste regole le sanno benissimo proprio i clandestini, che spesso si fanno arrestare per reati banali proprio perché, una volta indagati, hanno il diritto di restare qui fino alla sentenza definitiva, che, come sappiamo, interviene dopo circa un decennio".
Sea Watch, cosa dice la gip di Agrigento su Carola Rackete. Pubblicato mercoledì, 03 luglio 2019 da Virginia Piccolillo, inviata a Agrigento, e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. Carola Rackete, la comandante della Sea Watch ha agito nell’«adempimento di un dovere di soccorso il quale non si esaurisce nella mera presa a bordo dei profughi ma nella loro conduzione fino al più vicino porto sicuro». E’ questa la frase chiave contenuta nell’ultima delle 13 pagine dell’ordinanza della gip di Agrigento Alessandra Vella. Ordinanza che ha scarcerato la capitana e che non ha convalidato l’arresto operato nella notte di sabato 29 giugno. Il provvedimento, oltre a ricostruire gli avvenimenti, dice che Carola Rackete non ha infranto la legge in nessuna delle fasi del salvataggio, neanche quando ha fatto ingresso a forza nel porto di Lampedusa. I reati contestati dalla procura di Agrigento alla comandante della nave ong erano come è noto due: la violazione dell’articolo 1100 del codice della navigazione (non aver obbedito agli ordini della Guardia di Finanza) e l’articolo 337 del codice penale (resistenza a pubblico ufficiale). Nessuna contestazione, invece, di aver attentato o messo in pericolo la vita dei finanzieri. Ma, premetta la giudice Vella nella sua ordinanza «Il fatto deve essere vagliato alla luce di ciò che lo precede, ossia il soccorso in mare e gli obblighi che ne derivano». Ecco dunque che la «carta» processuale elenca le fonti di diritto sulle quali occorre basare il giudizio: innanzitutto l’articolo 117 della Costituzione, che obbliga le leggi italiane a uniformarsi agli obblighi sottoscritti in sede internazionale. Questi sono la Convenzione sul diritto del mare (Montego Bay 1982), la convenzione che impone il dovere di prestare assistenza a persone in pericolo (Londra 1974), la convenzione sulle zone Sar (Amburgo 1979). Le ultime «fonti» sono poi due leggi italiane, l’articolo 1158 del codice della navigazione (che sanziona le omissioni di soccorso) e una legge del ‘98 in base alla quale «lo straniero giunto in territorio nazionale a seguito di salvataggio in mare deve essere presso appositi punti di crisi». Tutte queste norme «pongono obblighi ai comandanti delle navi e agli Stati» sottolinea la gip di Agrigento.
Un passaggio chiave del provvedimento sono poi le dichiarazioni rese da Carola Rackete in sede di interrogatorio. la dottoressa Vella ne ritiene alcune particolarmente rilevanti: «Il gommone (dei naufraghi, ndr.) era in condizioni precarie, nessuno aveva giubbotto salvataggio, non avevano benzina, non potevano andare da nessuna parte». Scartati Libia e Tunisia in quanto ritenuti porti non sicuri, ecco la decisione di dirigersi a nord ma «Quando abbiamo detto alle persone che l’esito era negativo (a proposito dello sbarco a Lampedusa, ndr) la pressione psicologica era intensa, non avevamo nessuna soluzione e le condizioni mediche a bordo peggioravano». Ma soprattutto «abbiamo cercato per 14 giorni di non infrangere la legge».
A questo punto la giudice passa a valutare il comportamento della capitana e il giudizio è fin da subito netto: «La decisione di Carola Rackete risulta supportata dall’art. 18 convenzione del mare e legge 98 nella parte in cui fa obbligo di prestare soccorso e prima assistenza allo straniero giunto sul territorio nazionale a seguito di salvataggio in mare...non c’erano obblighi derivanti da direttive ministeriali in materia doi porti chiusi o dal provvedimento del 15 giugno del ministro dell’interno», che altro non è che il decreto sicurezza bis».
Sul primo dei due reati contestati (l’aver ignorato l’ordine di una nave da guerra) la giudice Vella, liquida la questione in poche righe: «Le navi della Guardia di Finanza Gdf sono navi da guerra solo quando operano fuori dalle acque territoriali o in porti esteri», circostanza palesemente diversa da quella di Lampedusa. Sullo «speronamento» della motovedetta invece scrive: «Da quanto emergente dalla visione dei video il fatto deve essere notevolmente ridimensionato nella sua portata offensiva».
In conclusione, Carola Rackete «ha agito in adempimento di un dovere» partendo da «un’ipotesi di salvataggio in mare a rischio naufragio», quanto all’ingresso forzato nel porto di Lampedusa «Il segmento finale della condotta dell’indagata costituisce l’esito dell’adempimento di un dovere di soccorso il quale non si esaurisce nella mera presa a bordo dei profughi ma nella loro conduzione fino al più vicino porto sicuro».
L’avvocato di Carola Rackete: illegale non salvare migranti. Intervista all’avvocato Alessandro Gamberini, legale della capitana della Sea Watch. «Pensare di poter fare accordi con questa Libia finché c’è una guerra civile in corso e finché non si sa se la guardia costiera sta con le guardie o coi ladri è sconcertante». Simona Musco il 3 luglio 2019 su Il Dubbio. L’avvocato di Carola Rackete. C’era lo stato di necessità. Anzi, c’era il dovere di far sbarcare i migranti. Intanto perché tenerli in mare sull’assunto che sono un pericolo per l’ordine pubblico «è pretestuoso e illegittimo». Di più, «è uno sviamento di potere». A parlare è Alessandro Gamberini, legale di Carola Rackete, comandante della Sea Watch 3. Secondo cui una nuova indagine sui presunti contatti tra ong e trafficanti continuerà a dimostrare soltanto che non esistono. Ma non solo: «i porti non sono chiusi – spiega al Dubbio – è solo una guerra ideologica contro le ong». Una guerra che contiene «tutti gli argomenti più beceri con cui la destra in Italia ha operato, fin dalle epoche fasciste»».
Avvocato, c’era o no lo stato di necessità per l’ingresso in porto?
«Sì, come confermato da documenti e da alcune testimonianze. Erano in mare da 15 giorni e avevano continuamente chiesto, reiterando mail a tutte le autorità possibili, di poter sbarcare, per rendere la situazione dei migranti a bordo umanamente accettabile, visto che andava via via degenerando. Prima sono stati soccorsi una decina di migranti in condizioni molto difficili, poi, negli ultimi giorni, ne avevano recuperati altri due, uno dei quali ricoverato al pronto soccorso, a riprova della situazione urgente. Situazione documentata dai medici di bordo, tra i quali anche esperti in psichiatria, che hanno sottolineato il pericolo di forme di autolesionismo: ormai si era diffuso lo scetticismo e si erano convinti che per sbarcare fosse necessario farsi del male. Ma c’erano anche idee persecutorie e un certo antagonismo nei confronti dell’equipaggio, perché si sentivano dire, di volta in volta, che sarebbero sbarcati senza che poi avvenisse. E questo crescente malcontento creava anche un problema di sicurezza».
E quando ha deciso di entrare in porto?
«Quando si è vista convocare dal magistrato che le chiedeva di scendere e rendere la sua dichiarazione. Lei voleva farlo, ma quella richiesta è stata un’ulteriore conferma che non c’era speranza per una soluzione negoziata, nonostante, tra l’altro, lei avesse avuto notizia, giorni prima, che c’erano governi europei che si erano offerti per dare ospitalità ai migranti».
Questo basta a definire lo stato di necessità?
«Secondo me ci sono molti elementi per dirlo. Si era di fronte ad un diniego ingiusto a far sbarcare i migranti. Non far sbarcare 40 migranti sull’assunto che sono un pericolo per l’ordine pubblico, dei terroristi, è una cosa palesemente pretestuosa e illegittima. È uno sviamento di potere, tecnicamente: il ministro dell’Interno ha utilizzato un potere per uno scopo diverso per quel potere gli è stato conferito e gli altri, che sono i suoi sottoposti, si sono adeguati. Si potrebbe parlare anche di un rilievo penale, ma non mi interessa questo ora. Il rifiuto di dare il porto era, a mio avviso, del tutto illegittimo».
Lei sostiene che Carola si sarebbe limitata a disobbedire ad un ordine ingiusto?
«Io non l’ho fatto valere, ma c’è un decreto del 1944, varato dopo la caduta del fascismo e quindi frutto del ritorno di una dimensione liberale nei rapporti tra autorità e cittadini, che scrimina la resistenza come reazione agli atti arbitrari dell’autorità. Per ora abbiamo posto la questione sul versante dello stato di necessità, ma si può porre anche sotto questo profilo, perché è un atto arbitrario quello a cui è stata costretta a rispondere».
Il capitano ha ammesso di essere entrata con la forza in porto. Ma si può parlare di tentato naufragio?
«Non è vero che avesse l’intenzione di colpire la nave e risulta da più indici. Intanto da una manovra molto lenta, come tutti i testimoni dicono, durante la quale si accorge che si sta accostando troppo alla nave e perciò mette in moto i motori in retromarcia. Che ci sia stato un toccamento – è folle qualificarlo come speronamento – questo è sicuro. Ma a sua insaputa e senza che lo volesse minimamente. Tutto qua. Lei ha interrotto la manovra e l’ha ripresa quando i finanzieri hanno messo in moto e mollato le cime e quindi ha operato il completamento della manovra quando il molo era sgombero. Loro hanno prospettato che ci fosse un tentato naufragio ai loro danni e che non poteva- no fare altro. Io non sottovaluto che chi stava lì ad adempiere al proprio dovere si sia impaurito per questa manovra, ma non c’era alcuna intenzione di provocare lesioni che, non a caso, non ci sono state. Quindi tutto si riconduce alla solita resistenza, cioè è un atto di forza. Punto. E non si può non porre un bilanciamento tra diritti e doveri, così come va tenuta presente l’arbitrarietà del dominio del porto».
Ma si possono chiudere i porti?
«I porti non sono mai stati chiusi, come dimostra l’arrivo di 600 migranti in dieci giorni a Lampedusa. E poi, quando Open Arms ha segnalato al reparto mobile di comando e controllo che c’erano dei migranti in difficoltà è stato obbligatorio salvarli, altrimenti ci sarebbe stata una denuncia per omissione di soccorso e magari anche per omicidio colposo, se non volontario. Questa è solo una guerra contro le ong, fatta per motivi simbolici, di fazione, ideologici e propagandistici. Ci sono tutti gli argomenti più beceri con cui la destra in Italia, fin dalle epoche fasciste, ha operato».
C’è un’altra indagine, finalizzata a stabilire se la Libia sia un porto sicuro. Vi fa paura?
«Penso che ci possa solo giovare. Ci sono già state due indagini su Sea Watch, se ne faccia pure un’altra, si indaghi ancor più approfonditamente: c’è poco da indagare, perché non ci sono relazioni tra le ong e gli scafisti. Il tema è solo rappresentato dal fatto che ci si trovi in acque internazionali, che pretendono di chiamare “acque Sar libiche”, dimenticando che non solo la Libia non è un posto sicuro, ma che quelle acque la Guardia Costiera le presidia un giorno no e uno sì. E quando lo fa, chi sa cosa ha in mente quando riporta in Libia i migranti. Sono terreno di sfruttamento. Pensare di poter fare accordi con questa Libia, finché c’è una guerra civile in corso, finché non c’è uno Stato minimamente costituito o contare su una Guardia Costiera che non si sa bene se appartenga alle guardie o ai ladri, francamente, è sconcertante».
Salvini ha annunciato di aver pronto un decreto di espulsione per Rackete. Ma può davvero mandarla via?
«Se lo fa senza chiedere il nulla osta all’autorità giudiziaria compie un’operazione illegittima. C’è già una convocazione per Carola da parte dell’autorità giudiziaria per la prossima settimana, che forse slitterà ulteriormente. Se dovesse compiere un gesto di prepotenza, faremo ricorso, bloccando l’iter. Gli toccherà aspettare».
Da Radio Cusano Campus il 5 luglio 2019. L’avv. Alessandro Gamberini, difensore di Carola Rackete, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sull’attuale posizione di Carola Rackete.
“Carola Rackete rimane attualmente indagata per il reato di resistenza a pubblico ufficiale e del reato previsto dall’articolo 1100 del Codice della navigazione – ha affermato Gamberini -. Io mi sono subito affrettato a dire che abbiamo vinto una battaglia, ma non la guerra. Il procedimento continua. Carola è tornata libera senza alcuna limitazione e il giudice ha sgombrato il campo dalla possibilità che quella della Guardia di finanza possa essere considerata nave da guerra".
Espulsione?
"Quando esiste un procedimento a carico di una persona, è fisiologico che venga chiesta l’autorizzazione al magistrato, il quale deve concedere un nullaosta rispetto all’espulsione di una persona, addirittura accompagnandola alla frontiera. Per i cittadini comunitari l’espulsione deve essere accompagnata da un provvedimento che ne sottolinei i validi motivi. Lasciamo perdere la propaganda truculenta che la qualifica come delinquente, quella che è abituato a fare il ministro dell’interno in maniera invereconda e irresponsabile, il giudice ha detto che non c’è nulla, che quella condotta è stata nell’ambito di una risposta ad una situazione drammatica che c’era a bordo. Trattare come nemico principale una barca che ha salvato 50 naufraghi che si avvicina alle nostre coste è davvero ridicolo, considerando che contemporaneamente sono arrivati a Lampedusa centinaia di migranti con dei barconi. La battaglia contro le Ong è una battaglia pregiudicata, si è scelto un nemico. L’ong salva dei naufraghi in male nei limiti delle proprie possibilità, accusare le ong di essere responsabile di un’invasione barbarica è ridicolo. L’ong non fa politica. Abbiamo fornito alla Procura un report dettagliato di come è avvenuto il salvataggio. Il tema è evidente che non può essere quello di dirci: dovete portare i migranti in Libia. Chiunque sa che quello non può essere considerato un porto sicuro”.
Salvini ha detto che se Carola non avesse forzato l’attracco, il Viminale il mattino dopo avrebbe autorizzato lo sbarco.
“Questo non era stato assolutamente comunicato a Carola. Lei è una giovane, brillante comandante di nave, ma forse non è abituata ai giochini politici di cui Salvini è maestro. Questa barca atteso due settimane che qualcuno autorizzasse lo sbarco, non è stato detto e fatto nulla e quindi ha deciso di sbarcare. Ci sono dei report medici che evidenziano situazioni drammatiche di alcuni migranti a bordo. Alcuni minacciavano di buttarsi per raggiungere a nuoto la riva, altri di suicidarsi. La fiducia di una soluzione era venuta meno”.
Sulle possibili querele.
“Come Sea Watch noi abbiamo già preparato la querela nei confronti del ministro Salvini. Non è facile raccogliere tutti gli insulti che Salvini ha fatto in queste settimane e anche le forme di istigazioni a delinquere nei confronti di Carola, cosa che è ancora più grave se fatta da un ministro dell’interno. Nel circuito di questi leoni da tastiera abituati all’insulto, è lui che muove le acque dell’odio. Una querela per diffamazione è il modo per dare un segnale. Quando le persone vengono toccate nel portafoglio capiscono che non possono insultare gratuitamente”.
Matteo Salvini il 4 luglio 2019: Così, giusto per sapere... Sentenza di condanna a 16 mesi di carcere a un uomo che speronò una motovedetta della Guardia di Finanza, considerata nave da guerra. Ma quella persona non si chiamava Carola.
Da Libero Quotidiano il 4 luglio 2019. Si deve tornare al lontano 14 giugno 2006 per trovare una sentenza che dimostra in modo davvero lampante come per Carola Rackete, la comandante di Sea Watch 3, la magistratura italiana - almeno fino a questo momento - abbia avuto un occhio di riguardo. Una sentenza rilanciata in pompa magna sui social da Matteo Salvini. In breve, nel lontano giugno 2006, un uomo fu condannato 16 mesi di carcere per aver speronato una motovedetta della Guardia di Finanza, considerata una nave da guerra. Esattamente quello che ha fatto Carola Rackete alla guida della nave della ong, senza considerare tutte le aggravanti del caso-Sea Watch 3, a partire dalle violazioni delle acque territoriali italiane e fino all'ingresso nel porto di Lampedusa nonostante l'esplicito no delle autorità italiane. Nella sentenza, si legge: "L'imbarcazione però, dopo l'intimazione di alt, si era data alla fuga a luci spente ed era riuscita a speronare l'unità militare (...). La corte suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese". Salvini, rilanciando la vicenda sui social scrive: "Così, giusto per sapere... Sentenza di condanna a 16 mesi di carcere a un uomo che speronò una motovedetta della Guardia di Finanza, considerata nave da guerra. Ma quella persona non si chiamava Carola". Poco da aggiungere.
Cinque bugie in una sentenza L'impunità oggi è «umanitaria». La capitana giustificata in punta di diritto «per aver agito in adempimento di un dovere». Ma la realtà è diversa. Fausto Biloslavo, Giovedì 04/07/2019, su Il Giornale. «Impunità» umanitaria sono le prime parole che vengono in mente dopo la lettura dell'ordinanza del giudice per le indagini preliminari, Alessandra Vella, che ha fatto tornare Carola Rackete libera e bella. La capitana viene di fatto giustificata, in punta di diritto, «per avere agito in adempimento di un dovere» ovvero di fare sbarcare ad ogni costo i migranti in Italia.
1. SI È TRATTATO DI UN SOCCORSO O DI UN RECUPERO? Il giudice Vella basandosi su una relazione della Guardia di finanza e soprattutto sulle parole della capitana dà per scontato che il 12 giugno il gommone individuato dall'aereo delle Ong, Colibrì, decollato da Lampedusa, rischiava di affondare da un momento all'altro. «Era un gommone in condizioni precarie e nessuno aveva giubbotto di salvataggio, non avevano benzina per raggiungere alcun posto» sono la parole di Carola riportate nell'ordinanza. In realtà una foto scattata dalla stessa Sea Watch dimostra che i tubolari del gommone blu sono gonfi e a bordo ci sono diverse serbatoi usati per il carburante. Sulle modalità del «soccorso» è aperta una seconda inchiesta per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina che stabilirà se non si tratti di un «recupero» più o meno concordato. Per di più il Gip non prende minimamente in considerazione l'assunzione di responsabilità dell'operazione, in acque di ricerca e soccorso libiche, della Guardia costiera di Tripoli.
2.«LA TUNISIA NON È UN PORTO SICURO». Sea Watch, una volta imbarcati i migranti, si trovava a 69 miglia dalla Tunisia rispetto alle 124 da Lampedusa. Dopo avere rifiutato lo sbarco a Tripoli, zona di guerra, poteva puntare su Zarzis, ma la giudice Vella spiega che «venivano esclusi i porti tunisini perché secondo la stessa valutazione del Comandante della nave, «in Tunisia non ci sono porti sicuri». Circostanza che riferiva risultarle «da informazioni di Amnesty international». E così via verso l'Italia. Peccato che la Tunisia ha firmato le Convenzioni sul salvataggio in mare e quella di Ginevra sui diritti dell'uomo. Ogni anno 5 milioni di turisti la considerano sicura per le vacanze. Non solo: è datato l'esempio citato nell'ordinanza di un mercantile da due settimane al largo di Zarzis in attesa di sbarcare 75 persone partite dalla Libia e soccorse in mare. Il 18 giugno i migranti, che non avevano diritto all'asilo, sono scesi a terra con un accordo mediato dall'Onu che li ha rimpatriati.
3.CAROLA POTEVA VIOLARE IL BLOCCO. Il leit motiv del salvataggio di vite umane e dei migranti in pericolo continua anche davanti alle acque territoriali italiane, dove le persone malate o vulnerabili, come donne e bambini, sono state sbarcate. La procura di Agrigento ha detto chiaro e tondo che non c'era alcuno «stato di necessità». La giudice Vella, al contrario, sostiene che la decisione di violare il blocco imposto dal Viminale «risulta supportata» da una serie di norme «per prestare soccorso e assistenza allo straniero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare». In pratica non possiamo fermare le navi delle Ong con i migranti a bordo e le «direttive ministeriali in materia di porti chiusi» non hanno «nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3» di far sbarcare i migranti nel porto di Lampedusa.
4. IL SUO DOVERE. Le accuse di violenza e resistenza nei confronti dei finanzieri a bordo della motovedetta, che fino all'ultimo hanno tentato di fermare Sea Watch, vengono smontate. Stupefacente l'opinione del giudice sulla manovra di Carola che ha schiacciato l'unità dello Stato contro la banchina. «Dalla visione del video il fatto deve essere di molto ridimensionato, nella sua portata offensiva» scrive Vella. Bontà sua il gip ammette che per i cinque pubblici ufficiali a bordo, la manovra era «pericolosa e volontaria seppure calcolata». Però il fatto non è punibile «per avere l'indagata agito in adempimento di un dovere» di sbarcare i migranti in Italia.
5. L'INTERVENTO DEI LIBICI. Il Gip non prende minimamente in considerazione l'assunzione di responsabilità dell'operazione, in acque di ricerca e soccorso libiche, della Guardia costiera di Tripoli. E scrive riportando il rapporto della Finanza che «al termine delle operazioni giungeva una motovedetta libica, che preso atto di quanto accaduto si allontana senza dare indicazioni al comandante di Sea Watch 3». In realtà la capitana ammette con una mail inviata il 12 giungo a tutti i Centri di soccorso dell'area che i marinai libici «mi contattano via canale 16 Vhf, dopo l'imbarco dei migranti» tirati a bordo, guarda caso, appena in tempo.
"Anche ai fini dell'applicazione dell'art. 1099 cod. nav. (rifiuto di obbedienza a nave da guerra), questa corte ha già avuto modo di affermare che "una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima, deve essere considerata nave da guerra" (Cass. Sez. III, n. 9978 del 30.6.1987, Morleo, rv. 176694).
Sea Watch, il Csm fa quadrato "Ora tutela per il giudice Vella". Il Csm apre una pratica a tutela per il Gip Vella che ha revocato gli arresti per Carola Rackete. Angelo Scarano, Mercoledì 10/07/2019, su Il Giornale. Il Csm adesso fa quadrato attorno al gip di Agrigento, Alessandra Vella che ha revocato l'arresto per Carola Rackete. La decisione della toga agrigentina ha fatto parecchio discutere. La Vella ha infatti sostenuto la necessità da parte della capitana della Sea Watch di entrare nel porto di Lampedusa sottolineando i rischi che correvano i migranti a bordo della nave dell'ong tedesca. Adesso il Consiglio superiore della Magistratura ha deciso di aprire una pratica a tutela del gip. La richiesta è arrivata dal Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli. Mercoledì scorso era partita infatti l'istanza con la firma di tutti i consiglieri togati del Csm. Al centro della pratica gli attacchi e le critiche ricevute dal gip dopo la sua decisione da parte di diversi esponenti del mondo politico, tra questi il ministro degli Interni, Matteo Salvini. Adesso la prima commissione dovrà esaminare e discutere la pratica. Di fatto dunque il Csm si schiera dalla parte del gip e prova a metterla a riparo dagli attacchi di questi giorni. Intanto sul fronte delle indagini, il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio e l'aggiunto Salvatore Vella, hanno convalidato il sequestro della Alex di Mediterranea che era stato predisposto dalla Guardia di Finanza nella notte tra sabato e domenica. Il sequestro comunque è passato da preventivo a probatorio. In questo senso c'è il rischio che, come già accaduto in passato, al termine dei riscontri di indagine la nave possa essere dissequestrata e quindi tronare in mare. Contestualmente alla convalida del sequestro è stato iscritto nel registro degli indagati il capo missione ndi Mediterranea, il parlamentare Erasmo Palazzotto. Infine va ricordato che la Guardia di Finanza ha anche rilevato un ingresso accidentale nelle acque territoriali italiane da parte di Alex nella giornata di venerdì. E questa infrazione potrebbe far scattare una sanzione da 65mila euro e il sequestro amministrativo (con confisca) dell'imbarcazione.
Lei è la magistrata che ha rilasciato Carola Rackete. Shadow Ranger 4 Luglio 2019 su Bufale.net. Internet è quello stranissimo posto dove si può indicare la foto di qualcuno che non esiste e urlare “Lei è la magistrata che ha rilasciato Carola Rackete”. È il mondo, dove abbiamo visto, in cui l’imberbe o sgallettata (a seconda del sesso: siamo bipartisan) Goccediluna05, laureando all’Università della Vita pochitto pazzerello con Master in Perzoni Farzi (sic!) può decidere che se non esisti su Internet, non esisti nella vita vera. Ed in cui il resto del popolo della Rete può invece sostituirti con qualcuno che, effettivamente non esiste nella vita reale, ma esiste su Internet e tanto lo rende più vero del vero in un iperralismo per videodipendenti. Lei è la magistrata che ha rilasciato Carola Rackete…
Sorprenderà chi si è scagliato in insulti verso l’inesistente personaggio credendo di difendere il Ministro dell’Interno Salvini, che le loro ingiurie hanno colpito proprio lui: il ministro dell’Interno Salvini. “La magistrata che ha rilasciato Carola Rackete” è infatti un volto costruito al computer con una semplicissima applicazione per Android, Faceapp, alla quale è stato dato in pasto il volto del Ministro dell’Interno Matteo Salvini allo scopo di creare una illusoria figura femminile. Come la Simone del film di Andrew Niccol, affascinante attrice virtuale la cui esistenza è diventata per il suo pubblico più vera del vero, come Max Headroom, giornalista virtuale creato da una scansione cerebrale di un giornalista reale e diventato suo fedele alleato nell’omonima serie TV degli anni ’80, questo clone femminile virtuale di Matteo Salvini è diventato non già un alleato, ma incarnazione del Nemico da combattere. Per quanto attiene le frasi, queste sono un centone di diverse affermazioni. Io ho solo applicato la legge che avevo a disposizione, secondo la quale la Rackete non era colpevole di alcun reato. È infatti una grossolana semplificazione ad uso indignazione del dispositivo con cui Carola Rackete ha visto non confermato il suo stato di fermo. È una questione lunga e complessa, e ne abbiamo parlato qui. Se il ministro Salvini vuol contestare la mia decisione si dimetta da da ministro, si metta a studiare Giurisprudenza e diventi magistrato. È un’altra semplificazione, rinfocolata dall’indignante dichiarazione “Per me è ininfluente” di quanto asserito da Leonardo Agueci, ex procuratore aggiunto di Palermo e oggi in pensione, come replica alle affermazioni di Salvini nei confronti della magistratura a seguito del provvedimento del GIP Alessandra Vella (peraltro, ricordiamo, già oggetto di brutali attacchi social e basse insinuazioni prima di questo meme, che quindi riteniamo non abbia ragione di esistere in un dibattito già al fulmicotone). Affermazioni di tal tenore, riportate da Adnkronos. “E’ superiore ad ogni immaginazione la violenza e volgarità di alcuni commenti alla decisione del Gip di Agrigento e davvero profondo è il disgusto che provocano. Ovviamente non è in gioco il dissenso verso il contenuto della decisione – che può anche essere opinabile – ma piuttosto la grave sollecitazione all’intolleranza verso la Giurisdizione non gradita al potere od alle masse adeguatamente indottrinate”. E’ la denuncia di Leonardo Agueci, ex procuratore aggiunto di Palermo e oggi in pensione. “E al Ministro Salvini, che invita il Giudice a candidarsi alle elezioni per entrare in Parlamento, mi sento di rispondere con un corrispondente invito a mettersi a studiare diritto per prepararsi al concorso in magistratura!!”, aggiunge. Non tenere, certo, ma in alcun modo afferibili al personaggio inventato che ha sostituito Alessandra Vella nel ruolo de “la magistrata che ha rilasciato Carola Rackete”. Siamo nel fantastico mondo del Web: se esisti nel Web, come il Cavaliere Inesistente di Calvino, hai il diritto di ricevere attenzione nella vita reale anche se neppure esisti.
Eppure proprio su sulla pagina Facebook di Bufale è apparso questo commento. Bufale 2 luglio alle ore 22:37 "L'ha presa male, molto male Matteo Salvini. Quanto ha dichiarato con presa di posizione ufficiale netta, però, va oltre il suo potere decisionale. In un momento così carico di tensione, occorre chiarire delle cose importanti, indipendentemente dalle idee che gli italiani sostengono. Commento: Dario Calderone "Se non le sta bene studi giurisprudenza, si laurei, vinca il concorso e diventi giudice" semi-citTwitter Matteo SalviniAccount verificato @matteosalvinimi 04:14 - 3 lug 2019
E che dire dei commenti sulla pagina Twitter di Matteo Salvini? Giudici o politici??? Mah.... Commenti:
enrico priviero @enricopriviero 3 lug 2019 In risposta a @matteosalvinimi Politici o aspiranti giudici? Mah? Mah, dott. Morisi, per fare i politici non serve nemmeno la terza media e ben si vede, per fare i giudici il percorso è più lungo e faticoso. Studiate, capre.
Abolizione del suffragio universale @AUniversale 3 lug 2019 In risposta a @matteosalvinimi Se vuoi fare il giudice, dimettiti, iscriviti a Giurisprudenza, consegui la laurea e infine vinci il concorso da magistrato.
E che dire poi, a proposito di tutela...
Busta con proiettile per Salvini. "È colpa dell'odio della sinistra". Ancora minacce di morte contro Salvini: nella busta il colpo avvolto nella stagnola. Il ministro: "Le parole di odio di certa sinistra convincono certe menti malate". Sergio Rame, Giovedì 11/07/2019, su Il Giornale. È il risultato della continua campagna d'odio contro Matteo Salvini. Dopo gli attacchi alle sedi leghiste, ai blitz dei centri sociali per bloccare gli interventi pubblici e gli slogan violenti che vengono ripetuti ad ogni manifestazione anti governativa, è arrivata anche una busta con all'interno un proiettile. Si tratta del colpo di una calibro 22, avvolto nella carta stagnola e inviato al ministro dell'Interno. "Oltre 100 minacce di violenza e di morte contro di me da quando sono ministro". Quando lo avvertono della busta, Salvini scuote la testa e constata l'ennesima minaccia di morte nei suoi confronti. Quando ieri, al centro meccanografico di Poste Italiane di Sesto Fiorentino, è stato intercettato il plico anonimo, è stata fatta immediatamente intervenire una squadra di artificieri dell'Arma dei Carabinieri. Sulla busta era stato scritto, con lettere ritagliate probabilmente da un giornale, al "ministro Duce Matteo Salvini". E sotto l'indirizzo: "Camera, Roma". Niente di più. Al suo interno, invece, i militari hanno trovato un proiettile calibro 22 che era stato avvolto nella carta stagnola. "Evidentemente le parole di odio di certa sinistra convincono certe menti malate, ma sicuramente non mi fanno paura - garantisce il ministro dell'Interno - anzi, mi danno ancora più forza e voglia di combattere criminali di ogni genere". Dopo essere stata allertata dal centro meccanografico di Poste Italiane di Sesto Fiorentino, la squadra di artificieri dell'Arma dei Carabinieri ha subito ispezionato il plico per verificarne il contenuto e analizzarlo accuratamente. La Polizia di Stato ha già avviato le indagini per riuscire a risalire al mittente.
Comunque a fior di diritto...
"Capitana" della Sea Watch libera "Ingiusto, lo Stato è sovrano". Live Sicilia Mercoledì 10 Luglio 2019. Il punto di vista dell'avvocato palermitano Salvatore Ferrante. Il caso di Carola Rackete e la mancata convalida dell’arresto. Decisione Giusta o sbagliata? Ieri Livesicilia ha ospitato la riflessione dell'avvocato Paolo Grillo. Oggi pubblichiamo un differente punto di vista, firmato da un altro penalista del foro di Palermo, Salvatore Ferrante.
"È notizia di qualche giorno fa la mancata convalida, da parte del G.I.P. di Agrigento, dell’arresto di Carola Rackete, capitano della Sea Watch 3, per i reati di resistenza e violenza nei confronti di una nave da guerra (art. 1100 codice della navigazione) e di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 codice penale), per avere ignorato l’alt impostole dai militari della Guardia di Finanza e per avere urtato una loro motovedetta con lo scafo della Sea Watch 3. Il paese intero si è appassionato alla vicenda, dividendosi tra coloro che approvano il provvedimento del G.I.P. di Agrigento e coloro che, invece, lo ritengono ingiusto. Ognuno influenzato nel giudizio dall’orientamento politico per il quale simpatizza. Io mi annovero tra coloro che ritengono il provvedimento ingiusto. Alla base del mio convincimento non pongo, però, questioni di tipo ideologico, bensì valutazioni di natura esclusivamente giuridica, che in questa sede ho l’occasione di esplicitare. Il G.I.P. di Agrigento non ha convalidato l’arresto per il delitto di resistenza e violenza nei confronti di una nave da guerra in quanto ha ritenuto che la motovedetta della Guardia di Finanza non fosse qualificabile come nave da guerra, poiché operava all’interno delle acque territoriali. A sostegno della propria decisione il Giudice citava una vecchia Sentenza della Corte Costituzionale, la numero 35 del 2000, che decidendo sull’ammissibilità di un referendum abrogativo mirante alla smilitarizzazione della Guardia di Finanza, affermava che le unità navali di quel corpo armato sono considerate navi da guerra “solo quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un’autorità consolare”. La Sentenza citata dal Giudice non dice, però, questo. Dice, semmai, che i mezzi nautici della guardia di finanza, al pari di quelli della Marina Militare, sono mezzi militari e a riprova di ciò afferma, tra le altre cose, che quando operano fuori delle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un'autorità consolare, le sue unità navali esercitano le funzioni di polizia proprie delle "navi da guerra”. Ma non esclude da nessuna parte che esse svolgano la medesima funzione anche quando operano in acque territoriali. La natura di nave da guerra delle motovedette della Guardia di Finanza è confermata, inoltre, da alcune pronunce della Suprema Corte di Cassazione, che il Giudice di Agrigento ha del tutto omesso di valutare. Mi riferisco, in particolare, alla Sentenza numero 31403 del 14 giugno 2006, che riguarda un caso di speronamento di un'imbarcazione della Guardia di Finanza da parte di una barca privata che nel corso di un'operazione di controllo sulla pesca abusiva di molluschi non si era fermata all'alt. La Corte, in quel caso, ha affermato che è indubbia la qualifica di nave da guerra attribuita alla motovedetta non solo perché essa era nell'esercizio di funzioni di polizia marittima e risultava comandata ed equipaggiata da personale militare, ma soprattutto perché è lo stesso legislatore che indirettamente iscrive il naviglio della Guardia di Finanza in questa categoria. La Cassazione nella sua decisione ha richiamato anche un’altra pronuncia precedente, la numero 9978 del 1987, che aveva stabilito che una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima, deve essere considerata nave da guerra. Tra l’altro, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay del 1982, che cito solo perché il G.I.P. di Agrigento nella sua Ordinanza ha richiamato più volte, all’articolo 29 afferma che “per nave da guerra si intende una nave che appartenga alle Forze Armate di uno Stato, che porti i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità e sia posta sotto il comando di un Ufficiale di Marina al servizio dello stato e iscritto nell'apposito ruolo degli Ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio sia sottoposto alle regole della disciplina militare”. Insomma, tutte le fonti normative e giurisprudenziali confermano la natura di nave da guerra delle motovedette della Guardia di Finanza e sembrerebbe che l’Ordinanza del G.I.P. di Agrigento sia il primo provvedimento di un’autorità giudiziaria che neghi tale status. Con riferimento al reato di resistenza a pubblico ufficiale, il G.I.P. di Agrigento ha, invece, affermato che la condotta di Carola integra l’elemento soggettivo di detto reato (in altre parole, ha considerato il suo gesto intenzionale), tuttavia, ha ritenuto tale condotta “scriminata” (giustificata, non punibile) a norma dell’articolo 51 del codice penale, perché la Capitana avrebbe agito nell’adempimento di un dovere: quello del salvataggio in mare di soggetti naufraghi e la loro conduzione fino al porto sicuro più vicino. È indubbio che in capo al capitano di una nave vi sia il dovere in parola, ritengo che Carola detto dovere l’abbia però violato. Il G.I.P. ha più volte richiamato nella sua Ordinanza la Convenzione S.A.R. di Amburgo del 1979, sulla ricerca e soccorso in mare. La Convenzione in parola dispone che la nave che effettua un salvataggio debba richiedere al paese competente per l’area S.A.R. l’assegnazione di un porto sicuro. Quindi, la scelta del porto sicuro non è lasciata alla libera valutazione e alle conoscenze personali del capitano di una nave, bensì è riservata dall’autorità marittima dello stato responsabile per l’area di ricerca e salvataggio nella quale è avvenuto il soccorso. Ebbene, risulta che il salvataggio dei naufraghi sia avvenuto a 47 miglia marine dalle coste libiche, ovvero, in piena area S.A.R. di quel paese. Il capitano della Sea Watch 3, secondo quanto riportato nell’Ordinanza del G.I.P., avrebbe chiesto alla Libia, all’Olanda, all’Italia e a Malta l’indicazione di un porto sicuro. La Libia, responsabile per quell’area S.A.R., ha immediatamente risposto alla richiesta, assegnando quale porto sicuro di approdo quello di Tripoli. Carola, tuttavia, ha deciso che quello di Tripoli non fosse un porto sicuro e si è diretta verso Lampedusa. Nel corso del suo interrogatorio la “capitana” ha precisato di avere scartato anche la possibilità di sbarcare a Tunisi, poiché non riteneva neanche quello un porto sicuro, e Malta, in quanto più lontana. A mio parere Carola non aveva alcuna possibilità di scegliere il porto sicuro dove condurre i naufraghi ma aveva il dovere giuridico di condurli nel porto indicatogli dall’autorità marittima responsabile per l’area S.A.R. nella quale è avvenuto il soccorso. È inammissibile che un soggetto privato, che opera per conto di una O.N.G., sindachi l’indicazione fornitagli dal governo legittimo di uno stato sovrano che ha aderito ad una Convenzione tra stati, che gli attribuisce la responsabilità di un area S.A.R., che nell’adempimento degli obblighi derivanti dalla stipula di tale Convenzione individua un porto sicuro, dove - tra l’altro - consente all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni di operare. Ciò rappresenta un’indebita interferenza nei rapporti tra gli stati. Tra l’altro, bisogna ricordare che i naufraghi in questione non erano croceristi che si sono scontrati contro un iceberg, bensì soggetti che si sono imbarcati per tentare di entrare clandestinamente in Italia. Carola, ha scelto di non portare i migranti nel porto che gli era stato indicato dall’autorità che, secondo la Convenzione che ella stessa stava invocando era l’unica legittimata ad individuare il porto sicuro di approdo, per portare i migranti nel luogo desiderato, ovvero quello della destinazione prefissata fin dalla partenza, scartando ogni altra possibile destinazione alternativa. Il governo Italiano, a mio parere, era più che legittimato ad opporre il rifiuto di concedere un porto alla Sea Watch, perché era evidente la violazione della Convenzione di Amburgo da parte della “capitana” della nave. Diverso sarebbe stato il caso in cui la Libia non avesse ottemperato al suo dovere di indicare alla Sea Watch 3 il porto sicuro di approdo, perché in tal caso sarebbe stato compito dell’Italia indicarne uno ed in caso di rifiuto, forse, la forzatura del blocco navale poteva anche ritenersi giustificata. In conclusione, ci tengo a precisare che non condivido, anzi, condanno, gli attacchi, anche personali, al G.I.P. di Agrigento che ha emesso l’ordinanza impugnata. L’autonomia e l’indipendenza della magistratura sono un valore che va difeso. I provvedimenti dei giudici vanno sempre rispettati, se non si condividono, si impugnano, come auspico faccia la Procura della Repubblica di Agrigento, ma non si mette in discussione l’integrità del giudice.
Carola Rackete, Antonio Di Pietro: "I giudici devono sempre applicare le leggi, doveva essere arrestata". Libero Quotidiano il 10 Luglio 2019. La decisione del gip di Agrigento, Alessandra Vella, sulla mancata convalida d'arresto di Carola Rackete, è contraria anche al pensiero di Antonio Di Pietro. "Sul piano tecnico-giudiziario - spiega nella puntata di lunedì 8 luglio di Quarta Repubblica - io avrei convalidato quell'arresto". L'ex magistrato però mette le mani avanti: "È un'ordinanza fatta da una persona in buona fede. Non condivido e deploro le infamie che gli hanno detto contro". Poi chiarisce al conduttore Nicola Porro: "È un provvedimento da non condividere, fermo restando che io capisco le ragioni umane. Un giudice rispetta ed applica le leggi anche se non gli piacciono. Quella persona - prosegue - è stata arrestata per due ragioni: per la violazione di un codice della navigazione o per resistenza a pubblico ufficiale". "Se fossi giudice avrei applicato il decreto Sicurezza".
LO SCOMODO CASO DELLA SEA WATCH 3: UN PERICOLOSO PRECEDENTE (di Avv. Marco Valerio Verni) il 03/07/19 su difesaonline.it. Nella serata di ieri il giudice per le indagini preliminari di Agrigento ha emanato la sua ordinanza sulla convalida di arresto e richiesta di misura cautelare avanzata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale della medesima città nei confronti della comandante della Sea Watch 3, Carola Rackete, indagata per i noti fatti di questi giorni, per i reati di Resistenza o violenza contro nave da guerra (art. 1100 cod. nav.) e di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.). Nel merito, il magistrato in questione, ha, in buona sostanza, non solo non convalidato l’arresto dell’indagata ma, addirittura, ha dichiarato:
1) non sussistere il reato di cui all’art. 1100 del codice della navigazione dal momento che, secondo lui, una unità della Guardia di Finanza che operi in acque territoriali non possa considerarsi una nave da guerra, secondo una interpretazione avanzata, a suo dire, dalla Corte Costituzionale, con una sentenza del 2000;
2) essere scriminato quello di cui all’art. 337 del codice penale, perché compiuto nell’adempimento di un dovere, ossia quello derivante dal rispetto dei trattati internazionali riguardanti il soccorso in mare dei naufraghi.
Orbene, se i provvedimenti giurisdizionali, come si dice, debbano essere rispettati, non vuol dire, però, che ad essi non si possano muovere delle censure, pur nella doverosa premessa - ovviamente - di ragionare in assenza di tutto l’incartamento processuale, ma basandosi solo sul provvedimento richiamato, pubblicato da alcuni organi di stampa. Quanto al primo punto, a parere del sottoscritto, il Gip di Agrigento ha mal interpretato la sentenza da esso richiamata (la n. 35 del 2000), che peraltro interveniva sulla richiesta di referendum popolare inerente il riordino proprio della Guardia di Finanza. Scrive infatti il magistrato agrigentino che “Invero, per condivisibile opzione ermeneutica del Giudice delle Leggi (v. Corte Cost., sent. N. 35/2000), le unità navali della Guardia di Finanza sono considerate navi da guerra solo “quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia una autorità consolare”. Ebbene, andando a leggere bene, e per intero, il testo della citata sentenza, in essa, sembra affermarsi altro: ossia che “le unità navali in dotazione della Guardia di finanza sono qualificate navi militari, iscritte in ruoli speciali del naviglio militare dello Stato (…), battono 'bandiera da guerra' e sono assimilate a quelle della Marina militare (artt. 63 e 156 del r.d. 6 novembre 1930, n. 1643 - Approvazione del nuovo regolamento di servizio per la Regia Guardia di finanza -); sono quindi considerate navi militari agli effetti della legge penale militare (art. 11 del codice penale militare di pace); quando operano fuori delle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un'autorità consolare esercitano le funzioni di polizia proprie delle "navi da guerra" (art. 200 del codice della navigazione) e nei loro confronti sono applicabili gli artt. 1099 e 1100 del codice della navigazione (rifiuto di obbedienza o resistenza e violenza a nave da guerra), richiamati dagli artt. 5 e 6 della legge 13 dicembre 1956, n. 1409 (Norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi)”. In sintesi, le unità navali della Guardia di Finanza sono sempre considerate come navi militari, battono bandiera da guerra e sono assimiliate a quelle della Marina Militare. In aggiunta (ma è un’aggiunta, appunto), quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri dove non vi sia una autorità consolare, esercitano le funzioni di polizia proprie delle “navi da guerra”, con tutto quello che ne consegue. Questo non vuol dire, dunque, come erroneamente supposto, che, al contrario, quando esse si trovino in acque territoriali, non siano, invece, da considerarsi “non da guerra”, soprattutto al ricorrere di certi presupposti. Per non annoiare troppo, basti ricordare, tra tante, una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 31403, sez. III, del 14 giugno 2006, secondo cui, anche ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 1100 del Cod. nav., è indubbia (il riferimento è alla fattispecie lì trattata, ma è chiaramente estensibile a casi simili), “la qualifica di nave da guerra attribuita ad una motovedetta, non solo perché essa era nell’esercizio di funzioni di polizia marittima, e risultava comandata ed equipaggiata da personale militare, ma soprattutto perché è lo stesso legislatore che indirettamente iscrive il naviglio della Guardia di Finanza in questa categoria, quando nella L. 13 dicembre 1956, n. 1409, art. 6, (norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi) punisce gli atti di resistenza o di violenza contro tale naviglio con le stesse pene stabilite dall’art. 1100 c.n., per la resistenza e violenza contro una nave da guerra”. Nella stessa sentenza citata, peraltro, gli stessi giudici hanno ricordato che “Anche ai fini dell’applicazione dell’art. 1099 c.n. (rifiuto di obbedienza a nave da guerra), questa Corte ha già avuto modo di affermare che una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima, deve essere considerata nave da guerra” (Cass. Sez. 3^, n. 9978 del 30.6.1987, Morleo, rv. 176694). Quanto al secondo punto, invece, occorre premettere, per una maggior completezza di ragionamento che, in una dinamica basata sul rispetto delle regole, queste ultime non si dovrebbero far valere con atti di forza, al limite, quasi, di una giustizia privata, ma nelle sedi opportune che, nel mondo civile, è costituto dai tribunali, nazionali o internazionali che siano. Per semplificare, ad ognuno di noi credo sia stato insegnato che, se vantassimo un diritto, ed esso ci venisse negato, è alle autorità giurisdizionali che dovremmo rivolgerci, evitando di agire per conto proprio. Nel caso di specie, una organizzazione non governativa ha deciso, invece, di sfidare uno Stato, nel nome - secondo i responsabili - del rispetto del diritto del mare e di quello internazionale. Ebbene, quand’anche lo Stato italiano, in questo caso, avesse violato le richiamate norme, questo non avrebbe dovuto giustificare, in automatico, quanto ne è poi conseguito, in termini di azioni, da parte della comandante della Sea Watch: ossia entrare forzosamente in un porto di quello stesso Stato sopra richiamato che, comunque, volenti o nolenti (al netto di quelle che poi potrebbero essere le conseguenze) rimane sovrano, nonostante gli obblighi internazionali assunti ed asseritamente violati. Diversamente, la suddetta (comandante) avrebbe dovuto raggiungere qualche altro porto (d’altronde, lo avrebbe potuto benissimo fare, visti i numerosissimi giorni di navigazione che la hanno comunque vista impegnata in mare) e poi, una volta trovata ospitalità in altra destinazione, attivarsi nelle opportune sedi giurisdizionali per denunciare l’Italia per tutte le violazioni ritenute commesse. Sul punto, vorrei appena ricordare che la nave in questione batte(va) bandiera olandese e che, dunque, era come se i migranti fossero stati accolti in quel paese, con tutte le conseguenze del caso. Anche questo è un concetto che - evidentemente scomodo per i fautori dell’immigrazione incontrollata a carico dell’Italia - viene sovente dimenticato, sebbene vada certamente meglio armonizzato e specificato nella normativa di riferimento (e chissà che - de iure condendo - non possa essere fatto, in futuro: allora sì, sarebbe interessante vedere se ci sarebbe ancora la corsa al “salvataggio” da parte di navi battenti bandiera francese, tedesca, olandese e via dicendo).
Inoltre - ed è questo l’altro punctum dolens della vicenda - non vi era nessun motivo di urgenza o necessità, come pure è stato scritto da qualcuno, anche come giustificazione dell’adempimento del dovere, che potesse giustificare una simile azione che - lo si ripete -, oltre a violare delle precise disposizioni di uno Stato sovrano, sembra aver messo in pericolo la vita di alcuni finanzieri. Infatti, coloro che erano realmente bisognosi di cure erano già stati fatti sbarcare, e sul punto, si erano espressi già due tribunali, circostanza che, appena accennata nel provvedimento del Gip di Agrigento (ma non poi considerato nelle sue conseguenze) viene spesso sottaciuta: quello amministrativo del Lazio (T.A.R. Lazio) e, se ciò non fosse bastato, la stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Rackete and Others v. Italy, application no. 32969/19), che, dopo aver rivolto - lo ricordo - delle precise domande a tutte le parti in causa1, ha negato ai ricorrenti (ossia la stessa comandante dell’imbarcazione ed alcuni migranti) le interim measures, non ravvisando, evidentemente, l’esistenza di un imminente rischio di danno irreparabile, in presenza del quale, viceversa, sarebbero state disposte. Quello della Sea Wacth - occorre sottolinearlo - non rappresenta, peraltro, un episodio sporadico di soccorso a dei naufraghi (poi, si potrebbe pure discutere sulla nozione di naufrago, rapportata al caso in questione), ma l’ennesimo di un sistematico e ripetuto agire nel tempo che non ha nulla a che vedere con lo spirito originario del diritto del mare né del Regolamento di Dublino che, chiaramente, non era certo stato creato per affrontare la trasmigrazione di interi popoli. E che, politicamente, doveva comunque essere sorretto da una condivisione di oneri e di responsabilità, a livello europeo, che, invece, non sembrano, nei fatti, aver avuto seguito. Con buona pace di chi, su questi traffici, ci lucra e, per ciò stesso, ne continua a promuovere le ondate: prevedibili, a tal riguardo, le conseguenze che potranno aversi, proprio in termini di una massiccia ripresa dei viaggi della speranza verso l’Italia, nella convinzione, anche da parte delle organizzazioni non governative, di poter tranquillamente entrare nei porti del nostro Paese in totale autonomia ed in spregio alle volontà politiche interne. Chissà cosa, nel frattempo, avranno pensato e penseranno i finanzieri coinvolti nella vicenda, e, con loro, tutto il personale quotidianamente impiegato nelle operazioni di pattugliamento delle nostre coste e di search and rescue. La giustizia, si dice, è amministrata nel nome del popolo italiano: siamo davvero sicuri che sia ancora veramente cosi?
I PRESUNTI ERRORI ED OMISSIONI DEL GIUDICE. Ammiraglio e legali contro il giudice Vella, avrebbe ignorato precise sentenze della Cassazione. Paola Padoin, giovedì 4 luglio 2019 su Firenze Post. Un nostro lettore ci ha segnalato che l’ordinanza del Gip di Agrigento avrebbe ignorato precise sentenze della Cassazione. Abbiamo approfondito la questione e ci risulta che anche un ammiraglio e un gruppo di avvocati abbiano contestato pesantemente il gip Vella e la sua decisione a favore della Rackete. L’Ammiraglio Nicola De Felice in particolare ha segnalato che la Corte di cassazione, in passato, si è già occupata della questione del rifiuto di obbedienza a nave da guerra, il reato contestato alla Rackete ed escluso dal giudice Vella in quanto la motovedetta sarebbe tale solo fuori dalle acque territoriali. L’Ammiraglio rileva correttamente che la Cassazione nel 1987 ha sentenziato in tutt’altro modo rispetto alla recente ordinanza: «Anche ai fini dell’applicazione dell’art. 1099 cod. nav. (rifiuto di obbedienza a nave da guerra), questa corte ha già avuto modo di affermare che una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima, deve essere considerata nave da guerra (Cass. Sez. III, n. 9978 del 30.6.1987, Morleo, rv. 176694)». Le imbarcazioni della GdF di mare hanno il vessillo della Marina Militare; hanno specializzazione CEMM; hanno rango di Forza Armata, tutte circostanze ignorate dal giudice. Anche di questo dovrebbe tener conto il procuratore Patronaggio nel decidere se ricorrere (speriamo di si) o meno contro la Vella.
Questa tesi è confermata da altri interventi di avvocati specializzati, che ricordano anche altre decisioni della Suprema Corte su questo tema, visto che l’effettiva applicazione delle disposizioni, esclusa dalla Vella, è stata pienamente giustificata anche da un altro precedente costituito da Cass. pen. Sez. III, (ud. 14-06-2006) 21-09-2006, n. 31403. In quell’occasione la Suprema Corte ha pienamente ravvisato il reato de quo «essendo pacifico che l’imbarcazione dell’imputato aveva concretamente manovrato per opporsi all’inseguimento e all’abbordaggio da parte della motovedetta della Guardia di Finanza (OMISSIS)», comportamento simile a quello del caso di specie.
La Suprema Corte ha avuto modo di rilevare che «indubbia è infatti la qualifica di nave da guerra attribuita a tale motovedetta, non solo perchè essa era nell’esercizio di funzioni di polizia marittima, e risultava comandata ed equipaggiata da personale militare, ma soprattutto perchè è lo stesso legislatore che indirettamente iscrive il naviglio della Guardia di Finanza in questa categoria, quando nella L. 13 dicembre 1956, n. 1409, art. 6, (norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi) punisce gli atti di resistenza o di violenza contro tale naviglio con le stesse pene stabilite dall’art. 1100 c.n., per la resistenza e violenza contro una nave da guerra».
Secondo la tesi degli avvocati citati esiste anche la violazione dell’art. 1099 c.n. (rifiuto di obbedienza a nave da guerra), considerato che, alla stregua di un altro precedente della Suprema Corte, che abbiamo ricordato già sopra, «una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima, deve essere considerata nave da guerra (Cass. Sez. 3^, n. 9978 del 30.6.1987, Morleo, rv. 176694)». Così come sussisterebbe il delitto di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p., che «per giurisprudenza costante concorre con quello di cui all’art. 1100 c.n., in ragione della diversità del bene tutelato, individuato rispettivamente nella tutela fisica o morale del pubblico ufficiale e nella tutela della polizia marittima». Tutte sentenze e norme ignorate bellamente dal giudice Vella. Anche di questo dovrebbe tener conto il procuratore Patronaggio nel decidere se ricorrere (speriamo di si) o meno contro l’ordinanza beatificata dalle sinistre e dai buonisti nostrani e inernazionali .
Sea Watch attracca nella notte, Carola Rackete arrestata da GdF, ecco i reati a lei contestati. Redazione di avvocatirandogurrieri.it Sabato, 29 Giugno 2019. La comandante della Sea Watch, Carola Rackete, portata via poco fa dalla Guardia di Finanza, è in stato d'arresto. L'accusa nei suoi confronti, secondo quanto si apprende, è violazione dell'Articolo 1100 del codice della navigazione: resistenza o violenza contro nave da guerra, un reato che prevede una pena dai tre ai 10 anni di reclusione. "La comandante Carola non aveva altra scelta - dice Giorgia Linardi, portavoce di Sae Watch Italia - da 36 ore aveva dichiarato lo stato di necessità che le autorità italiane avevano ignorato". "E' stata una decisione disperata - dicono i legali della Ong tedesca Leonardo Marino e Alessandro Gamberini - per una situazione che era diventata disperata". Il reato contestato alla comandante è quello previsto e punito dall'articolo 1100 del Codice della Navigazione, secondo cui "Il comandante o l'ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. La pena per coloro che sono concorsi nel reato è ridotta da un terzo alla metà". Pertanto, se pure manchi ancora l'emissione di un fermo giudiziario nei confronti degli altri membri dell'equipaggio, si può ragionevolmente ipotizzare che anche a carico di costoro possa essere aperto un procedimento. Tra i presenti allo sbarco, qualcuno ha avanzato perplessità in ordine alla sussistenza degli elementi sintomatici del reato ex articolo 1100 Codice della Navigazione, dato che le imbarcazioni della Guardia di Finanza - che anche nella notte, durante i movimenti della Sea Watch verso il porto avrebbero cercato in ogni modo di impedire l'attracco, correndo tuttavia il rischio di essere speronate - non sarebbero propriamente "navi da guerra". In realtà, però, il richiamo della disposizione sembra oltremodo giustificato dal precedente costituito da Cass. pen. Sez. III, (ud. 14-06-2006) 21-09-2006, n. 31403. In quell'occasione, La Suprema Corte ha pienamente ravvisato il reato de quo "essendo pacifico che l'imbarcazione dell'imputato aveva concretamente manovrato per opporsi all'inseguimento e all'abbordaggio da parte della motovedetta della Guardia di Finanza (OMISSIS)", esattamente come nel caso di specie. Rispetto agli argomenti della difesa, che, anche di fronte al Giudice di legittimità, chiedevano accertarsi la non ricorrenza della figura criminosa di cui all'articolo 1100 Codice della Navigazione trattandosi di imbarcazione della guardia di finanza, la Suprema Corte ha avuto modo di rilevare che "indubbia è infatti la qualifica di nave da guerra attribuita a tale motovedetta, non solo perchè essa era nell'esercizio di funzioni di polizia marittima, e risultava comandata ed equipaggiata da personale militare, ma soprattutto perchè è lo stesso legislatore che indirettamente iscrive il naviglio della Guardia di Finanza in questa categoria, quando nella L. 13 dicembre 1956, n. 1409, art. 6, (norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi) punisce gli atti di resistenza o di violenza contro tale naviglio con le stesse pene stabilite dall'art. 1100 c.n., per la resistenza e violenza contro una nave da guerra". Ma, a ben vedere, potrebbero essere almeno altri due i reati che potrebbero essere contestati alla comandante e all'equipaggio. Dall'art. 1099 c.n. (rifiuto di obbedienza a nave da guerra), considerato che, alla stregua di un altro precedente della Suprema Corte, "una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima, deve essere considerata nave da guerra" (Cass. Sez. 3^, n. 9978 del 30.6.1987, Morleo, rv. 176694). Così come il delitto di resistenza a pubblico ufficiale di cui all'art. 337 c.p., che per giurisprudenza costante di concorre con quello di cui all'art. 1100 c.n., in ragione della diversità del bene tutelato, individuato rispettivamente nella tutela fisica o morale del pubblico ufficiale e nella tutela della polizia marittima. Ne sapremo di più nelle prossime ore.
Magistrati italiani. Alessandro Bertirotti il 4 luglio 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… realismo. Bene, lo sapevamo tutti, in fondo, che sarebbe finita così. Quello che però non vogliamo ammettere, e che, invece, io scrivo con serenità, è che il magistrato Alessandra Vella ha esercitato il suo potere di giudice secondo i termini discrezionali che la legge italiana le permette. Tutto qui. Cosa voglio dire, ancora in altre parole? Voglio dire che secondo lei “non è stato commesso il reato di resistenza e violenza a nave da guerra, mentre il reato di resistenza a pubblico ufficiale è stato giustificato da una scriminante legata all’avere agito nell’adempimento di un dovere, quello di salvare vite umane in mare”. “Inoltre, la scelta del porto di Lampedusa non sarebbe stato strumentale” – sempre a detta della toga -, ma “obbligatoria perché i porti della Libia e della Tunisia non sono stati ritenuti porti sicuri. Per questo la capitana tedesca è stata liberata dai domiciliari”. Dunque la Sig.ra magistrato ha esercitato la sua libera interpretazione e penso che questo debba ancora essere concesso nella nostra nazione. Io, come la maggior parte degli italiani, avrei esercitato il potere discrezionale diversamente, e rinvenuto il reato. Ma io non sono un magistrato e non conosco tale professione come invece conosco la mia. Scritto questo, per amore di equilibrio e democrazia, il problema sta a monte. È di tipo governativo, europeo, nel senso che non si sarebbe dovuti arrivare a questo punto. Ossia, dobbiamo trovare una soluzione affinché gli atteggiamenti europei di libero scambio umano, unito al business dell’accoglienza con la partecipazione di bande calabresi di stampo mafioso, assieme allo smercio di droga, siano neutralizzati in tempo. E se qualche nave volesse attraccare, potremmo trovare soluzioni governative basate su ricatti all’Europa, su interventi con una certa e migliore determinazione delle nostre Forze Armate, e, alla fine, sulla minaccia della nostra uscita dall’Europa. Infine, sappiamo che da anni la riforma della Magistratura dovrebbe procedere, con la separazione delle carriere, ma questo non avviene. È semplicemente ridicolo pensare che un Pubblico Ministero non sia in contatto ideologico, persino professionale e personale, con un qualsiasi magistrato giudicante. Al di là di tutte le dichiarazioni divergenti, gli accordi vengono fatti. E questo è permesso dalla nostra legge, e dunque non lamentiamoci. La “comandanta” è giustamente libera, e forse sarà espulsa (lo speriamo, almeno questo…), perché sono gli italiani ad essere schiavi di un gruppetto di zombi ideologicamente sinistrati che esercitano il loro potere nei gangli dell’amministrazione, secondo le indicazioni di Antonio Gramsci. Hanno lavorato assai bene, questi signori di sinistra. E la destra non ha mai pensato a formare professionisti che siano anche intellettuali, mentre ha sempre pensato ai soldi, al commercio e a mandare avanti le sue corruzioni e collusioni. Dunque, mi sembra chiaro: il più sano ha la rogna!
Alessandra Vella, chi è il gip che ha liberato Carola Rackete (e che ora insultano su Facebook e Twitter). Pubblicato mercoledì, 03 luglio 2019 da Corriere.it. Da 24 ore è bersaglio di invettive e volgarità sui social network. Alessandra Vella, gip di Agrigento, non ha convalidato l’arresto della comandante della Sea Watch Carola Rackete e non ha disposto nei confronti della “capitana” tedesca nessuna misura cautelare. La decisione del gip non è piaciuta ai sostenitori della linea dura sull’immigrazione, che da ieri ingolfano i social network con post critici, insulti e persino auspici di morte all’indirizzo del magistrato. Una decisione maturata dalla giudice siciliana dopo l’interrogatorio della Rackete, nel corso del quale la difesa della tedesca ha sostenuto che la decisione dell’attracco non autorizzato a Lampedusa sia stata dettata da uno stato d’emergenza (ritenendo che il reato di resistenza a pubblico ufficiale sia stato giustificato da una «scriminante» legata all’avere agito «all’adempimento di un dovere», quello di salvare vite umane in mare) e che il contatto con una motovedetta della Guardia di Finanza sia stato solo un incidente. Gli avvocati avevano anche contestato il reato di resistenza a nave da guerra, contestato dalla Procura, in quanto la motovedetta della Finanza non sarebbe una nave da guerra. Per il giudice delle indagini preliminari il Dl sicurezza bis “non è applicabile alle azioni di salvataggio”, facendo riferimento alle norme del diritto italiano e internazionale e respingendo così la lettura dei fatti proposta dalla procyra guidata da Luigi Patronaggio. Già ieri Matteo Salvini aveva commentato a caldo: «Per la magistratura italiana ignorare le leggi e speronare una motovedetta della Guardia di Finanza non sono motivi sufficienti per andare in galera. Dalla giustizia mi aspettavo pene severe per chi ha attentato alla vita di militari italiani, evidentemente sbagliavo». Da lì, una lunga sequela di post su facebook e twitter di tanti utenti. Qualcuno ha anche pubblicato la foto della Vella apostrofandola con epiteti volgari. «Soliti magistrati di sinistra che pensano solo di fare dispetto a Salvini», uno dei commenti apparsi su twitter. «Il nemico è nello Stato contro noi stessi italiani! Gip#Alessandra Vella»”, scrive un altro utente. E c’è poi chi trascende in volgarità e chi augura la morte al giudice. Ma non mancano i commenti che lodano l’operato del giudice, qualcuno pubblica la sua ordinanza, definendola «lo stato di diritto, messo nero su bianco».
Alessandra Vella, classe 1975, è nata ad Agrigento. Lavora al tribunale della sua città dal 2011, dopo essere stata in servizio a Caltanissetta. È stata presidente della sezione agrigentina dell’Anm, il sindacato dei magistrati. Da gip si è occupata in questi anni dei casi più svariati: dalla tragica morte di una bambina di tre anni schiacciata da un televisore caduto a casa a Campobello di Licata a procedimenti per reati di droga o contro la pubblica amministrazione. Sui social in queste ore diversi utenti per attaccarla hanno riesumato articoli di stampa che riguardano lo scontro tra l’avvocato Giuseppe Arnone, ex consigliere comunale protagonista di proteste clamorose, poi arrestato dopo una condanna a 3 anni e 5 mesi, e alcuni magistrati agrigentini per presunte irregolarità denunciate da Arnone, scontro che ha portato anche a procedimenti penali, uno dei quali aperto a Caltanissetta coinvolge la Vella: la vicenda riguardava l’allontanamento dall’aula di Arnone durante un processo.
DAGONOTA il 4 luglio 2019. - Ieri sera, sul profilo Twitter di Patrizia Rametta, attivista leghista siciliana, è apparso uno screenshot di quello che dovrebbe essere il profilo della gip che non ha convalidato l'arresto di Carola Rackete, Alessandra Vella. Nell'immagine, si vede un post di sostegno alla raccolta fondi per la Sea Watch iniziata dalla rete antifascista (datato 27 giugno, quindi giorni prima che il caso capitasse sulla sua scrivania), in cui si cita uno dei leader del movimento, ovvero Fabio Cavallo. Non è chiaro se sia davvero il profilo del magistrato, al momento non è più raggiungibile (molti giornali scrivono che la sua pagina è stata disattivata perché riceveva troppi insulti). L'altra cosa strana, e che farebbe pensare che non si tratti del magistrato, è la foto profilo: si tratta del simbolo di Europa Verde, la lista ambientalista che si è presentata alle Europee dello scorso maggio. Sembra strano che un magistrato in servizio usi il simbolo di un partito come foto profilo. Al momento non ci sono conferme, né smentite, al post della Rametta.
CHI È ALESSANDRA VELLA. Patricia Tagliaferri per “il Giornale” il 4 luglio 2019. Prima le udienze in Tribunale, poi in ufficio a smaltire fascicoli. Come sempre. Ma quella di ieri per la gip Alessandra Vella non poteva essere una giornata come le altre. Perché dal quasi anonimato di un lavoro in una Procura defilata come quella di Agrigento, per tutta Italia adesso è il giudice che ha deciso di non convalidare l' arresto di Carola Rackete perché, a suo dire, la capitana della Sea Watch ha agito in adempimento di un dovere. Una decisione che a molti non è piaciuta. Sicuramente non al ministro Matteo Salvini che l' ha accusata di aver emesso una sentenza politica. E neppure ai tanti sostenitori della linea dura sull' immigrazione, che l' hanno presa di mira sui social costringendola a cancellarsi da Facebook per gli insulti ricevuti. Offese, ma anche minacce, che hanno convinto i togati del Csm a chiedere l' apertura di una pratica a sua tutela, anche perché le dichiarazioni del ministro dell' Interno «non si limitano ad una critica, sempre legittima, del merito del provvedimento, ma costituiscono commenti sprezzanti che trascendono in insulti che alimentano un clima di delegittimazione ed odio». Se prima della ribalta legata alla decisione sulla capitana in rete c' erano rare informazioni su Alessandra Vella, adesso il nome della gip è tra i più cliccati su Google. Originaria di Cianciana, un piccolo paese della provincia di Agrigento dove è nata nel 1975, è a Roma che la Vella si è laureata in giurisprudenza. Lavora nel Tribunale della sua città dal 2011, prima è stata gip a Caltanissetta e fino a due anni fa è stata presidente dell' Associazione nazionale magistrati di Agrigento. Finora non si era mai occupata di casi da prima pagina, tutt' al più reati contro la pubblica amministrazione, il caso di una bimba schiacciata da una Tv, quello di un giovane che lo scorso aprile sparò alla madre ferendola o il sequestro di un parcheggio abusivo nell' agrigentino. Martedì la decisione che l' ha trasformata in un giudice d' assalto esponendola alle invettive dei fan di Salvini, il primo a darci dentro con gli attacchi. Per la Vella la Rackete doveva essere scarcerata perché la sua decisione di attraccare a Lampedusa è stata dettata da uno stato d' emergenza, né poteva essere sostenuto il reato di resistenza a pubblico ufficiale perché la comandante della Sea Wacht avrebbe agito per salvare vite umane. Un' impostazione che, insieme all' impossibilità di contestare il reato di resistenza a nave da guerra perché secondo la gip la motovedetta della Finanza non sarebbe da considerasi tale, ha fatto andare su tutte le furie i militari che erano su quella barca: «Noi abbiamo rischiato la vita e chi viola la legge passa per eroina».
La gip che apre i porti alle ong. Andrea Indini il 3 luglio 2019 su Il Giornale. Classe 1975, nata ad Agrigento, con un passato a capo della sezione locale dell’Anm, il sindacato dei magistrati. Alessandra Vella è il gip che ha smontato le accuse a carico di Carola Rackete e l’ha rilasciata come niente fosse. Un buffetto e via. Non ha ritenuto grave né l’essere entrata a forza nelle acque territoriali italiane né aver speronato una motovedetta della Guardia di Finanza. E tantomeno ha considerato grave l’aver fatto entrare in Italia una cinquantina di immigrati irregolari. Via, libera. La decisione dell’ennesimo magistrato politicizzato fa orrore per due motivi: uno legato all’ordine interno e uno connesso alla sicurezza esterna. Da una parte viene rimessa in libertà una persona che ha deliberatamente infranto la legge, avallando qualunque delinquente che decide di disobbedire allo Stato; dall’altra riapre i porti a tutte quelle ong che vogliono scaricare i migranti irregolari sulle nostre coste. Viene da chiedersi: a cosa serve approvare i decreti se poi un magistrato fa spallucce e dà ragione a chi li ha violati? Il decreto Sicurezza bis parla chiaro: il porto di Lampedusa le era precluso. Eppure la capitana di Sea Watch ha preferito la pantomima per far crescere la tensione fino al limite. Nelle due settimane, in cui ha zig-zagato sul limitare delle acque territoriali italiane, avrebbe avuto tutto il tempo (e il carburante) per andare in Germania (dove ha sede l’ong) o in Olanda (il Paese di cui batte bandiera). Ma non lo ha fatto. La decisione di rimanere lì è stata, dunque, politica. Come è stata politica la decisione di non difendere i militari contro cui la capitana è andata addosso per entrare in porto e far sbarcare i migranti. Quale messaggio potrà mai passare da un magistrato che non tutela l’incolumità dei militari che rischiano quotidianamente la vita per garantirci la sicurezza? Ogni antagonista che vuole disobbedire allo Stato “fascista” si sentirà ora in diritto di farlo. Il caso della Sea Watch 3 è anche un pericolosissimo precedente per tutte le ong che Matteo Salvini era riuscito ad arginare nell’ultimo anno. Ancora qualche mese fa non se ne vedeva più alcuna a ridosso delle acque italiane. Adesso, invece, hanno ripreso a popolare il Mediterraneo. Dopo tanti mesi sono, infatti, tornate a farsi vedere Open Arms e Sea Eye. Anche Mediterranea Saving Humans si è rifatta sotto nonostante abbia la Mare Jonio sotto sequestro nel porto di Licata. Per tutte quante Carola Rackete è stato un vero e proprio spot che sta fruttando tanti di quei soldi da potersi assicurare molte altre missioni. Tanto più che sanno di poter fare a meno di accantonare fondi per le spese legali. In Italia troveranno sempre un magistrato, come il gip Vella, pronto ad essere indulgente con loro. La liberazione della capitana di Sea Watch è una sorta di lasciapassare per tutte le ong che adesso si sentiranno legittimate di far carta straccia delle nostre leggi.
La notte sul molo con l’equipaggio, poi la Capitana Carola scherza: «Forse emigro in Australia». Pubblicato mercoledì, 03 luglio 2019 da Virginia Piccolillo, inviata a Agrigento, e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. Era notte fonda quando martedì Carola Rackete ha attraversato Licata fra misure di sicurezza straordinarie. I turisti raccontano della strada chiusa per venti minuti come non era mai accaduto prima. Lei scortata fino al cancello celeste della Guardia Costiera, e poi sulla banchina di destra del porto, dove è ormeggiata la Sea Watch 3 ancora sotto sequestro. La gioia, gli abbracci vigorosi del suo equipaggio. E qualche lacrima di commozione. Da loro si fa vedere. Non è più camuffata, come quando è uscita dall’appartamento di Agrigento, dove ha trascorso gli ultimi giorni degli arresti domiciliari. Senza uscire nemmeno sul balconcino alla notizia della revoca dei domiciliari, nemmeno per salutare i sostenitori che avevano preparato uno striscione e un mazzolino di fuori rosa e hanno gridato “Carola”, per ore, invano. Alla fine le hanno lasciato lo striscione ben ripiegato con il fiore adagiato sopra, fuori della porta. Poi una lunga telefonata con il padre che riferisce: «La prima cosa che vuole mangiare quando torna è qualcosa di vegetariano». Al Der Spiegel il papà della comandante aggiunge: «Carola è molto di buon umore. Capisce molto gli agenti di polizia italiana che sono stati molto disponibili con lei e molto gentili». E fa saper che adesso lei «è da un’amica in Italia anche lei attivista dell’Ong Sea Watch». Secondo il padre, Carola «vuole sicuramente rimanere in Italia fino alla seconda udienza e dopo sicuramente tornerà». Lei scherza: «Forse è il caso di emigrare in Australia per tornare a occuparmi di albatros». Battuta colta al volo dal ministro dell’Interno Matteo Salvini: «Sono pronto a pagarle il biglietto di sola andata». Ma non è uno scambio di toni scherzoso quello che si accende sulla pronuncia del giudice Vella. Volano parole grosse. E, secondo quanto lamentano dalla Sea Watch, anche minacce a Carola. La capitana, dicevamo, ha passato parte della notte sulla banchina e all’alba è sparita. I suoi compagni di viaggio fanno capire che è partita, aprendo le braccia a mo’ di aereo, mentre mangiano patatine fritte e gelati, nei bar del porto. Qui li conoscono tutti. Ai tempi del primo sequestro della Sea Watch li avevano visti uscire dalla nave e fermarsi a bere una birra, o mangiare qualcosa. «Gentili, educati», dicono a Licata. Anche Carola era spesso con loro. E di lei riferiscono di quello sguardo determinato e forte. Quel carattere decisionista che l’ha spinta anche a forzare i divieti e sbarcare i migranti a Lampedusa. L’arresto per aver violato il blocco e investito la motovedetta della Guardia di Finanza non è stato convalidato. E l’espulsione, auspicata dal vicepremier e disposta dal prefetto di Agrigento, non ha ottenuto il via libera dei magistrati. Carola dovrà prima essere interrogata il prossimo 9 luglio (ma la difesa medita di chiedere un rinvio) per l’altro filone d’inchiesta: quello sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Intanto la sua scarcerazione viene agitata come una bandiera dalle Ong che si dicono pronte a tornare a salvare naufraghi. Lei chissà.
L'ira della Gdf contro la toga: "Noi rischiamo la vita e Carola passa da eroina". L'amarezza dei finanzieri dopo la decisione del gip su Carola Rackete: "Chi viola la legge diventa un'eroina e chi difende la patria passa per delinquente". Sergio Rame, Mercoledì 03/07/2019 su Il Giornale. "Il mondo va al contrario...". A parlare, in una intervista all'Adnkronos, è uno dei finanzieri che presta servizio nel gruppo navale della Guardia di Finanza a Lampedusa. All'indomani della decisione del gip Alessandra Vella di rimettere in libertà Carola Rackete, dopo che questa per forzare il blocco del Viminale aveva speronato una motovedetta delle Fiamme Gialle (guarda il video), l'ira è violentissima. "Chi viola la legge diventa un'eroina e chi ha difeso la patria tra un po' passa per delinquente", spiega il militare che preferisce restare anonimo ma che non fatica a dirsi "molto amareggiato" per il comportamento della magistratura. "Questo provvedimento è davvero ingiusto ma soprattutto contiene molte inesattezze". Il finanziere intervistato dall'agenzia Adnkronos ha letto e riletto più volte le carte della scarcerazione della comandante della Sea Watch e non riesce proprio a digerire quel passaggio dell'ordinanza sulla nave da guerra. Pur avendo violato il divieto di attracco al porto di Lampedusa impostole dalla Guardia di Finanza, secondo la ricostruzione del gip Vella, la Rackete non avrebbe commesso alcuna violenza nei confronti di una nave da guerra né avrebbe opposto resistenza ad un pubblico ufficiale. "Lo sanno pure i bambini che l'imbarcazione della Guardia di Finanza è una nave da guerra perché issa il vessillo e ha i colori della Marina militare come nave da guerra...", sbotta il finanziere che ricorda come, in caso di guerra, la Guardia di Finanza passa sotto l'egida della Marina militare. Non solo. Tutti i loro equipaggi appartengono al Cem, cioè appartengono al Corpo militare marittimi. Eppure il gip di Agrigento ha rigettato tutte le accuse nei confronti della camandante non convalidando l'arresto e non disponendo nei suoi confronti alcuna misura cautelare. Nelle parole del finanziere intervistato dall'agenzia Adnkronos si può leggere tutta la frustrazione per quanto accaduto negli ultimi giorni. "Secondo qualcuno dovevamo essere noi a essere puniti", racconta. "È una assurdità. Noi abbiamo eseguito solo ordini legittimi e invece passiamo per chi commette un reato. Non ci sono più regole certe". Al militare sembra di trovarsi a teatro con le comparse. "Ma non so chi è il burattinaio...", dice. "Il collega ha eseguito ordini e gli è andata bene perché poteva rischiare la vita. Per il resto andiamo avanti ma non ci sono più le condizioni per lavorare bene, in serenità". "Quando mi alzo la mattina e leggo queste cose divento matto". Infine si chiede: "Il popolo con chi sta? Noi non abbiamo fatto abusi. Non ci sto a passare per delinquente. Proprio no".
Sea-Watch, Carola Rackete è libera: "Commossa". Gip annulla l'arresto: "Agì per portare in salvo i migranti". L'ira di Salvini. Il ministro dell'Interno annuncia l'accompagnamento coatto alla frontiera della comandante. Di Maio: "Sorprende scarcerazione". La prefettura di Agrigento conferma: "Firmato provvedimento di espulsione". Ma non potrà essere eseguito almeno fino al 9 luglio. Fabio Tonacci ed Alessandro Ziniti il 2 luglio 2019 su La Repubblica. Una giornata in lunghissima attesa. Poi alle otto di sera il verdetto della gip di Agrigento Alessandra Vella. Carola Rackete, la comandante della Sea-Watch 3 torna libera dopo quattro giorni trascorsi agli arresti domiciliari. La comandante si dice "molto commossa per la solidarietà espressa nei miei confronti da così tanta gente". "Sono sollevata dalla decisione del giudice - ha aggiunto Carola - che considero una grande vittoria della solidarietà verso tutti i migranti e rifugiati e contro la criminalizzazione di chi vuole aiutarli". Il gip è andata ben oltre la richiesta dei pm, non convalidando l'arresto della comandante della Sea-Watch, Carola Rackete, escludendo il reato di resistenza e violenza a nave da guerra e ritenendo che il reato di resistenza a pubblico ufficiale sia stato giustificato da una "scriminante" legata all'avere agito "all'adempimento di un dovere", quello di salvare vite umane in mare. Viene dunque meno la misura degli arresti domiciliari deciso dalla procura che aveva chiesto la convalida della misura restrittiva e il divieto di dimora in provincia di Agrigento. Il gip sottolinea anche che la scelta del porto di Lampedusa non sia stata strumentale, ma obbligatoria perché i porti dell Libia e della Tunisia non sono stati ritenuti porti sicuri. Per Salvini un nuovo smacco. Il ministro dell'Interno non nasconde la delusione e annuncia di aver disposto un provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale con accompagnamento alla frontiera. La prefettura conferma: "Firmato il provvedimento di espulsione". Ma il prefetto Dario Caputo fa sapere che non potrà essere eseguito fino a quando la Rackete sarà di nuovo interrogata dai pm, nell'ambito del fascicolo per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. "Per la magistratura italiana ignorare le leggi e speronare una motovedetta della Guardia di finanza non sono motivi sufficienti per andare in galera - il commento di Salvini -. Nessun problema: per la comandante criminale Carola Rackete è pronto un provvedimento per rispedirla nel suo Paese perché pericolosa per la sicurezza nazionale. Tornerà nella sua Germania dove non sarebbero così tolleranti con una italiana che dovesse attentare alla vita di poliziotti tedeschi. L'Italia ha rialzato la testa: siamo orgogliosi di difendere il nostro Paese e di essere diversi da altri leaderini europei che pensano di poterci trattare ancora come una loro colonia. La pacchia è finita". "Sorprende dice il vicepremier del M5S Luigi Di Maio - la scarcerazione di Carola. Io ribadisco la mia vicinanza alla Guardia di finanza in questo caso. Ad ogni modo il tema è la confisca immediata della imbarcazione. Se confischiamo subito la prossima volta non possono tornare in mare e provocare il nostro Paese e le nostre leggi". "Il provvedimento del gip di Agrigento ripristina il primato del diritto rispetto a quello della forza. Si era detto che la forza l’aveva usata Carola Rackete e su questo si era disposto il suo arresto: non è così - scrivono i legali della Sea-Watch, Alessandro Gamberini, Leonardo Marino e Salvatore Tesoriero - Come spiega dettagliatamente il gip nel provvedimento con il quale ha disposto la non convalida dell’arresto, il diritto stava dalla parte della comandante. Il Giudice, attraverso il richiamo a norme internazionali cogenti, dimostra l’illegittimità vuoi della pretesa di chiudere i porti da parte del ministro dell'Interno, vuoi del divieto finale di attracco della Sea-Watch dopo 15 giorni di attesa, così ripristinando l’equilibrio dei valori e la prevalenza dell’incolumità della vita umana rispetto all’arbitrarietà di scelte operate solo per motivi propagandistici"... Rackete dunque è libera di muoversi. Ad Agrigento dovrà tornare il 9 luglio per l’interrogatorio davanti ai pm nell’altro filone d’inchiesta in cui è indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La Sea-Watch 3 intanto è ripartita da Lampedusa: scortata da una vedetta della Finanza è diretta a Licata dove resterà sotto sequestro insieme alla Mare Ionio della Ong Mediterranea. Intanto Sea-Watch ha assicurato che le operazioni di salvataggio in mare andranno avanti. "Serve una soluzione politica in modo che situazioni del genere non tornino a ripetersi", ha detto il portavoce Ruben Neugebauren. Ed ha aggiunto: "Siamo molto delusi dal governo tedesco e dall'Europa". Di stamattina è anche il botta e risposta tra la Francia e Matteo Salvini. La portavoce del governo francese, Sibeth Ndiyaye, intervistata da BFM-TV, afferma che l'Italia "non è un Paese indegno", ma il comportamento di Salvini sulla questione dei migranti "non è accettabile" . Nell'intervista Ndiaye spiega che l'Italia non è stata "all'altezza" sull'accoglienza e ha aggiunto che "stiamo parlando di vite umane: se le leggi del mare si possono applicare, allora devono essere applicate". Per quanto riguardo invece l'inchiesta su Carola Rackete, già fonte di attrito tra Roma e la Germania, Ndiaye, ha aggiunto: "È evidente che si debba rispettare la giustizia di un Paese sovrano. È la cosa che pretenderei per la Francia da parte di qualsiasi altro Paese ed è quello che facciamo in ogni circostanza". Parigi non intende dunque chiederne "la liberazione". Parole a cui Salvini ha subito replicato: "Il mio comportamento sull'immigrazione è inaccettabile? Il governo francese la smetta di insultare e apra i suoi porti, gli italiani hanno già accolto (e speso) anche troppo. Prossimi barconi? Destinazione Marsiglia".
Sea Watch 3, attacco totale di Matteo Salvini alla magistratura dopo la liberazione di Carola Rackete. Libero Quotidiano il 2 Luglio 2019. Libera. Niente domiciliari per Carola Rackete, la comandante di Sea Watch 3 al cui fianco si schiera il gip di Agrigento che non convalida il provvedimento restrittivo nei confronti della tedesca e, anzi, si spinge in una sentenza dal sapore politico, in cui si sbilancia affermando che "ha salvato vite umane" e che Tunisia e Libia non sarebbero porti sicuri. E dopo un primo commento a caldo, Matteo Salvini ha rincarato la dose contro la Rackete e soprattutto contro la magistratura nel corso di una diretta Facebook. Parlando della comandante, ha sottolineato come la sentenza la abbia "legittimata a fregarsene dalle leggi dello Stato. E poi ci sentiamo fare la morale da politici tedeschi e francesi. Se qualcuno pensa che io molli ha sbagliato a capire". Il ministro dell'Interno poi punta il dito: "Chi finanzia le ong? Chi c'è dietro? Ormai abbiamo capito che è un tentativo di cancellare sovranità, leggi, diritti, dignità. Ma non mollo, domani sarò ancor più determinato nel far rispettare i confini del nostro Paese". Quindi l'attacco diventa diretto al gip di Agrigento che non ha convalidato l'arresto: "Signor giudice, proviamo a fare un caso contrario. Oggettivamente, immaginate una nave italiana, di una ong italiana, con bandiera italiana, in acque tedesche o olandesi. Che entra nelle acque territoriali nonostante il no del governo tedesco, che ignora una legge tedesca, che avanza poi verso un porto olandese o tedesco, dunque si ferma per qualche giorno nei pressi del porto e poi una notte, spegnendo la radio, entra dritta sparata verso il porto e sperona una motovedetta tedesca, rischiando di uccidere cinque militari - rimarca Salvini -. E poi la comandante viene accolta dai tedeschi come un'eroina. Poi la raccolta di soldi e firme. Sta ai domiciliari due giorni, dunque trova un giudice tedesco che la scarcera. Massì, dai, cosa vuoi che sia. Magari le diamo pure una medaglia e le intitoliamo una via, un porto. Secondo voi come lo avrebbero trattato un delinquente del genere in Germania, Olanda, Francia? In un Paese normale questa gente va in galera". "In Italia - riprende il leader della Lega - ci sono migliaia di magistrati e giudici che fanno bene il loro lavoro e non fanno politica con le sentenze. Quella di stasera per me è una sentenza che non fa bene né onore all'Italia. Quanti militari si sentiranno legittimati a fregarsene di quel che dicono le forze dell'ordine? Addirittura non vale la galera aver provato a schiacciare cinque nostri militari. Dicono che lo ha fatto per salvare vite? Ma credete ancora a queste cazzate? Questi sono complici dei trafficanti di esseri umani, questi fanno politica", scandisce parole durissime. "Poi il giudice ha detto che la Tunisia non è un porto sicuro. Magari la prossima nave decide di andare in Costiera Amalfitana e magari trovano pure un giudice che dà loro ragione. In che pianeta viviamo? I nostri militari che rischiano la vita meritano rispetto, non sentenze vergognose che liberano i delinquenti", attacca ancora Salvini. "Ovviamente come ministero dell'Interno ci siamo subito adoperati, dopo questa sentenza politica e vergognosa, per l'accompagnamento coatto della signorina sul primo aereo, direzione Germania. Ma anche qua - sottolinea - serve l'ok di un giudice, che ha 48 ore per confermare il nostro diritto: se non è possibile vedere in galera questa signorina tedesca, almeno rispediamola nel suo paese. Questa non è la giustizia che serve a un paese che vuole crescere e che voglio lasciare in eredità ai miei figli. Quanto è urgente la riforma della giustizia. Ci stiamo lavorando. Comunque, non solo non mi tolgono la voglia di lavorare ma mi danno ancora più forza, anche se in questo momento anche un po' di rabbia", aggiunge il vicepremier del Carroccio, che in conclusione si augura "che quel giudice stanotte ripensi a quel che ha fatto e a quel che ha scritto. E ripensi a quei cinque ragazzi che sul molo di Lampedusa hanno rischiato la vita. Il posto di quella signorina questa sera sarebbe stata la galera".
La "Carola italiana": "Non paragonatemi alla capitana della Sea-Watch, sono due vicende diverse". La cuneese condannata in Francia per aver aiutato un gruppo di migranti: per me si scatenò la macchina del fango. Carlotta Rocci il 2 luglio 2019 su La Repubblica. "Non paragonatemi alla capitana della Sea-Watch. Le nostre vicende sono diverse anche se entrambe, alla fine, siamo diventate le pedine di un gioco politico sulle vite umane". Eppure Carola Rackete e Francesca Peirotti, 32 anni, cuneese, hanno tanto in comune. Entrambe poco più che 30enni, convinte sostenitrici dei diritti umani, finite nei guai per aver dimostrato la loro solidarietà verso i migranti. Peirotti vive a Marsiglia e l'8 novembre 2016 è stata arrestata dalla polizia francese, a Mentone, per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina per aver trasportato su un furgone un gruppo di migranti, tra cui un neonato, provenienti dal Ciad e dall'Eritrea, respinti a Ventimiglia. Il tribunale di Aix-en-Provence l'ha condannata a 8 mesi di carcere e 5 anni di interdizione dalla regione delle Alpi Marittime. Oggi è libera, per la sospensione della pena in attesa che il processo arrivi in Cassazione.
Perché dice che la sua vicenda e quella della capitana della Sea Watch non sono paragonabili?
"Perché quella è la Sea-Watch, una ong conosciuta che lavora nel Mediterraneo, l'attenzione mediatica su questa storia è incredibile. Mi chiedo come si possa mettere in croce un'organizzazione che salva le vite. Accusano le ong di fare accordi con i trafficanti ma chi dice queste cose non sa di che parla".
Un anno fa definì anche la sua una sentenza politica, forse è questo il punto di contatto.
"Forse, ma è inevitabile. E' la reazione di fronte a un'organizzazione o un singolo che decidono di non stare a regole disumane. Ma sono tantissimi quelli che si spendono per fare cose del genere e non diventano eroi semplicemente perché riescono a non farsi prendere".
Dopo la condanna la sua vita è cambiata?
"Se sarà confermata l'interdizione sarò tagliata fuori dalla strada più breve per tornare a Cuneo. Ma adesso non è cambiato niente. Vivo a Marsiglia con la mia famiglia e continuo a lavorare con i migranti. Mi spiace di essere stata arrestata, ma rifarei tutto".
E se ci fosse stata lei alla guida della Sea watch?
"Non so immaginarlo. Io non sono una ong che salva vite in mare, non mi sono trovata nella situazione di non avere altro porto sicuro dove attraccare. Io ho scelto di caricare a bordo quelle persone per aiutarle. Mi spiace molto che Carola sia stata arrestata e spero che abbia accanto delle persone in grado di sostenerla in questo momento. Allo stesso modo, però, penso che trasformare questa vicenda in una telenovela svii dal vero problema, che sono le vite umane che si rischiano su confini che non esistono. Carola è stata attaccata per aver detto di aver scelto questa vita perché è bianca, ricca e privilegiata. Ma riconoscere di avere dei privilegi non può essere una colpa".
Il suo arresto suscitò meno clamore. Nessuno dall'Italia interpellò la Francia. Perché?
"Meno male. Non so che farmene delle dichiarazioni dei politici che cercano sempre i riflettori accesi per prendere posizione. Si scatenò però la macchina del fango sui social. Ma d'altronde per qualche ignorante non c'è niente di peggio che essere una donna che aiuta i neri".
La "Carola italiana" condannata in Francia tra l'indifferenza dei buonisti. Nel 2013 Francesca Peirotti fu condannata a 6 mesi di carcere in Francia per aver aiutato 8 migranti a passare il confine. Ma di lei non parla più nessuno. Chiara Sarra, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. C'è una "Carola italiana". Si chiama Francesca Peirotti e anche lei è finita nella bufera per aver aiutato i migranti a entrare clandestinamente in un Paese. Non con una nave come la capitana Rackete, ma attraverso le Alpi, al confine tra Ventimiglia e Mentone. A differenza della tedesca - rilasciata proprio oggi dal gip, però, la 31enne di Cuneo è stata arrestata, processata e condannata per favoreggiamento dell'immigrazione dalla stessa Francia che ora ci fa la predica per il caso Sea Watch. La vicenda risale al novembre 2016, quando la Peirotti (già allora residente a Marsiglia) trasportò 8 persone - tutti richiedenti asilo arrivati in Italia e rimasti bloccati a Ventimilglia - nascoste su un furgone con il logo della Croce Rossa oltre il confine francese. La vettura venne però bloccata sulla A8 all'altezza di Mentone dalla gendarmeria e per Francesca iniziò la trafila giudiziaria. Nel 2017 la condanna di primo grado: una multa da mille euro. Ma in Appello la pena pecuniaria venne trasformata in 6 mesi di carcere, sospesi con la condizionale, e l'interdizione dal suolo francese per 5 anni. Ora la 31enne è in attesa della Cassazione. Ma se per la Rackete si è sollevato un polverone internazionale, con Francia e Germania pronte ad andare allo scontro col governo italiano e sit in persino in Austria durante la visita di Sergio Mattarella, per la Peirotti nessuno striscione. "In realtà si tratta di due vicende molto diverse sebbene entrambe legate al fenomeno dell'immigrazione: la Sea Watch fa salvataggi in mare, io aiutavo delle persone ad andare dove volevano, senza un'organizzazione alle spalle", dice lei stessa all'Adnkronos. Eppure quel silenzio fa rumore. E fa emergere quella doppia morale di cui Parigi ha già più volte dato prova.
Scelta ideologica, schiaffo al paese. Speronare una motovedetta della Guardia di Finanza e mettere a repentaglio le vite dei suoi uomini d'equipaggio non è reato. Gian Micalessin, Mercoledì 03/07/2019, su Il Giornale. Speronare una motovedetta della Guardia di Finanza e mettere a repentaglio le vite dei suoi uomini d'equipaggio non è reato. A spiegarlo, con una decisione che grida vendetta al cielo e al comune senso della giustizia, è il Gip di Agrigento Alessandra Vella a cui spetta il poco invidiabile merito di aver rimesso in libertà la capitana Carola Rackete. Il problema è evidente. A questo punto non stiamo più parlando di giustizia, ma di ideologia. E per capirlo basta leggere le capziose motivazioni con cui il Gip cerca di avvalorare la propria decisione. Escludere il reato di resistenza e violenza a nave da guerra sostenendo che entrambi siano stati giustificati da una «discriminante» legata «all'adempimento di un dovere» identificato nel «salvare vite umane in mare» è un autentica mostruosità giuridica. In primo luogo perché una corte - assai più rilevante nel merito - come quella per i «diritti umani» di Strasburgo aveva già escluso l'assenza di qualsiasi pericolo immediato per i migranti. In secondo luogo perché l'articolo 54 del vigente codice penale prevede sì la non punibilità per chi agisce nella necessità di «salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave» - ma sempre e solo a condizione «che il fatto sia proporzionato al pericolo». Invece di proporzionato e sensato nella condotta di Carole Rackete non c'è assolutamente nulla. La «capitana» ha deciso di tenere sulla tolda per quasi tre settimane il suo carico di umani non in base ad un dovere, ma semplicemente in virtù della scelta politica di farli sbarcare solo ed esclusivamente in Italia. Del resto come sancito dai giudici di Strasburgo, e comprovato dalle visite mediche successive allo sbarco, nessuno di quei migranti era in pericolo di vita. Ma la bestemmia giuridica contenuta nella decisione del Gip è comprovata dalle parole dello stesso Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. Subito dopo il fermo di Carla Rackete il capo della Procura aveva escluso l'esistenza di qualsiasi «ragione di necessità» capace di giustificare lo speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza. «Le ragioni umanitarie aveva detto Patronaggio - non possono giustificare atti di inammissibile violenza nei confronti di chi in divisa lavora in mare per la sicurezza di tutti». Ma evidentemente il Gip Alessandra Vella ha un'altra visione del diritto e della legge. Per lei, come per la tedesca Carola Rackete, pur di portare dei migrati irregolari in Italia è lecito non solo infrangere il codice penale, ma anche mettere a rischio le vite degli uomini in divisa chiamati a far rispettare la legge e a difendere le nostre istituzioni.
Giustizia italiana: si accomodi Carola, faccia come le pare. Il Secolo d'Italia martedì 2 luglio 2019. Giustizia italiana, Carola Rackete può aspirare a chissà quale onorificenza. Il giudice l’ha rimessa in libertà nonostante quel che ha combinato. Una giornata in lunghissima attesa. Poi alle otto di sera il verdetto della gip di Agrigento Alessandra Vella. La comandante della Sea-Watch 3 torna libera dopo quattro giorni trascorsi agli arresti domiciliari. Il gip è andata ben oltre la richiesta dei pm, non convalidando l’arresto della comandante della Sea Watch, Carola Rackete, escludendo il reato di resistenza e violenza a nave da guerra e ritenendo che il reato di resistenza a pubblico ufficiale sia stato giustificato da una “scriminante” legata all’avere agito “all’adempimento di un dovere”, quello di salvare vite umane in mare. Viene dunque meno la misura degli arresti domiciliari deciso dalla procura che aveva chiesto la convalida della misura restrittiva e il divieto di dimora in provincia di Agrigento. Il gip sottolinea anche che la scelta del porto di Lampedusa non sia stata strumentale, ma obbligatoria perchè i porti dell Libia e della Tunisia non sono stati ritenuti porti sicuri.
La reazione di Salvini. Per Salvini una delusione che non nasconde. “Per la magistratura italiana ignorare le leggi e speronare una motovedetta della Guardia di finanza non sono motivi sufficienti per andare in galera. Nessun problema: per la comandante criminale Carola Rackete è pronto un provvedimento per rispedirla nel suo Paese perchè pericolosa per la sicurezza nazionale. Tornerà nella sua Germania dove non sarebbero così tolleranti con una italiana che dovesse attentare alla vita di poliziotti tedeschi. L’Italia ha rialzato la testa: siamo orgogliosi di difendere il nostro Paese e di essere diversi da altri leaderini europei che pensano di poterci trattare ancora come una loro colonia. La pacchia è finita”.
Ma la capitana resta indagata. La Rackete dunque è libera di muoversi. Ad Agrigento dovrà tornare il 9 luglio per l’interrogatorio davanti ai pm nell’altro filone d’inchiesta in cui è indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Adesso tutti gli occhi sono puntati sul Viminale dove si è atteso per tutto il pomeriggio il provvedimento del giudice per decidere di conseguenza come muoversi con il decreto di espulsione più volte annunciato dal ministro Salvini se la Rackete fosse stata rimessa in libertà. Un provvedimento amministrativo non facile però da eseguire visto che la Procura ha rigettato la richiesta di nullaosta del prefetto di Agrigento per esigenze di giustizia.
Ventuno giuristi: «I naufraghi hanno diritto all’approdo». Pubblicato giovedì, 04 luglio 2019 da Corriere.it. «Tutti coloro che vengono soccorsi in mare vanno qualificati naufraghi e hanno il diritto di essere sbarcati in un luogo sicuro, a prescindere dal fatto che abbiano o meno l’intenzione di migrare». Ventuno docenti di Diritto internazionale rispondono così, in una lettera, all’intervista al Corriere in cui l’avvocato Paolo Busco (consulente del Viminale ed esperto di Diritto del mare) sul caso Sea-watch sosteneva che riguardo il salvataggio di migranti «c’è l’obbligo di assistenza, non quello di aprire i porti». I firmatari del documento - capitanati dai professori Enzo Cannizzaro, Pasquale De Sena e Riccardo Pisillo Mazzeschi - affermano: «Non vi è dubbio che nei porti ciascuno Stato eserciti la propria sovranità, ma nel rispetto del diritto internazionale. Per quanto poi tale diritto non imponga un obbligo di accoglienza, esso di certo impone un obbligo di assistere le persone in difficoltà in mare». E allora: «Come può uno Stato “prestare assistenza” a una nave carica di naufraghi che si presenti di fronte al proprio porto, se non consentendo uno sbarco, sia pure temporaneo?». A sostegno di questa tesi, i docenti ricordano «che l’art. 3.1.9 della Convenzione Sar, obbliga gli Stati a cooperare per consentire lo sbarco delle persone in pericolo in un porto sicuro, sollevando il comandante della nave dal proprio obbligo di assistenza». I 21 esperti di diritto internazionale, riguardo al fatto che alcuni Stati non abbiano, «disdicevolmente», adempiuto al proprio obbligo di cooperazione - sottolineata dall’avvocato Busco -, affermano: «Ciò non esime affatto da responsabilità l’Italia, considerando che il porto di Lampedusa era il porto sicuro più vicino e che nessuna “impossibilità di accogliere” sussisteva in questo caso. È proprio la natura “erga omnes” e umanitaria degli obblighi di soccorso a escludere che l’inadempimento da parte di uno Stato possa giustificare l’inadempimento da parte di un altro».
La replica dell’avvocato Paolo Busco (consulente del Viminale ed esperto di Diritto del mare)
Gentili Professoresse e Professori, Grazie per questa vostra lettera che mi consente di approfondire alcuni aspetti della mia precedente intervista. Non vi è dubbio che, se un migrante si trova coinvolto in un naufragio, si applichino le Convenzioni sul salvataggio in mare, come in tutti i naufragi. Non è corretto imputarmi la frase per cui “le convenzioni SOLAS del 1974 e SAR del 1979 non riguardano i migranti”. La mia osservazione - dispiace che ne sia stato travisato il senso - è diversa: è illusorio pensare di poter regolare efficacemente il fenomeno migratorio con Convenzioni concepite per regolare il salvataggio in mare. Sarebbe auspicabile piuttosto dotarsi di strumenti adeguati alla gestione delle migrazioni, anzitutto rivedendo il sistema di Dublino in senso solidaristico. Il diritto internazionale richiede che lo sbarco di chi è stato salvato avvenga presso un “porto sicuro”, ma non già presso “il porto più vicino” (in questo caso, Lampedusa). Questo punto è cruciale e, purtroppo, spesso malinteso. Il criterio del “porto più vicino” non è rintracciabile nelle Convenzioni SOLAS e SAR originarie, né nelle modifiche del 2004. Le linee guida dell’IMO sul trattamento delle persone salvate in mare prevedono che un place of safety debba essere garantito “entro un tempo ragionevole”. Il concetto non è sovrapponibile a quello di “porto più vicino”. Il criterio poi della “deviazione minima possibile dalla rotta prestabilita della nave”, pure indicato nelle linee guida IMO, è difficilmente applicabile nel caso di ONG che non hanno una rotta prestabilita, come invece le navi mercantili, ed è in ogni caso diverso dalla nozione di “porto più vicino”. Ogni tentativo di inserire nelle Convenzioni criteri vincolanti per l’individuazione in termini non equivoci del “porto sicuro” è sempre fallito, per la contrarietà degli Stati rispetto a soluzioni non flessibili. Pertanto, al criterio della prossimità geografica si può legittimamente preferire, e in questo senso sono semmai orientate le Convenzioni e le linee guida IMO, quello dello Stato nella cui area di competenza per ricera e soccorso è avvenuto il salvataggio, se il porto è sicuro. Nel caso Sea Watch 3, nessuna norma convenzionale obbligava specificamente l’Italia a fornire un place of safety. Esistono invece norme che impongono a tutti gli Stati – incluso, soprattutto, lo Stato di bandiera – di cooperare per trovare soluzioni (per esempio, l’art. 3.1.9 della Convenzione SAR del 1979, come emendato nel 2004, dispone che: “Gli Stati parte della Convenzione si coordineranno e coopereranno”. Nello stesso senso l’art. 98 UNCLOS e le Linee Guida della IMO). I casi Women on Waves e Hirsi non mi sembrano rilevanti per radicare una giurisdizione italiana sulla Sea Watch. Nel caso Women on Waves, alla nave era stato impedito l’accesso alle acque territoriali con lo sbarramento fisico da parte di una nave da guerra. L’obiezione di mancanza di giurisdizione non è peraltro mai stata sollevata dal Portogallo, per cui la Corte non si è confrontata con essa. Nel caso Hirsi, la nave era stata abbordata da ufficiali che ne avevano assunto il controllo. Lo stesso controllo fisico e giuridico ha caratterizzato il caso Medvedyev. Niente di tutto ciò è accaduto nel caso Sea Watch. La Guardia di Finanza non ha “abbordato la nave”, ha effettuato una mera notifica a bordo, con il consenso della Sea Watch 3. Tanto meno gli ufficiali italiani hanno assunto il controllo della nave, fisico o giuridico. Lo prova il fatto che la Sea Watch ha varcato il limite delle acque territoriali italiane senza alcuna ostruzione (e nonostante la contraria sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). Da ultimo, non è controverso che l’inadempimento di un obbligo da parte di uno Stato non giustifichi l’inadempimento da parte di un altro. Resta da capire, come dicevo, quale sia l’inadempimento italiano. Per converso, mi sembra evidente l’inadempimento collettivo degli altri Stati rispetto agli obblighi di cooperazione descritti sopra. Con viva cordialità, Paolo Busco
TRE RAGIONI GIURIDICHE PER CUI CAROLA RACKETE HA TORTO. Pietro Dubolino, presidente di sezione a riposo della corte di Cassazione, per “la Verità” il 2 luglio 2019. La Capitana della Sea Watch, prima ancora di mettere in atto la condotta che ora le viene addebitata, aveva pubblicamente dichiarato, stando alle non smentite notizie di cronaca, che quanto si apprestava a compiere trovava giustificazione nello «stato di necessità», determinato dall' esigenza prioritaria di porre fine alle gravi e insopportabili sofferenze fisiche e psichiche che alle persone salvate e prese a bordo al largo delle coste libiche derivavano dal protrarsi della loro forzata permanenza a bordo della nave. E la stessa causa di giustificazione risulta ora evocata da quanti, in ambito politico e mediatico, tendono a prendere le sue difese, anche con riferimento al reato che ha poi dato luogo al suo arresto, e cioè quello, previsto dall' articolo 1100 del Codice della navigazione, di resistenza e violenza contro nave da guerra. Vale la pena di osservare preliminarmente, a quest' ultimo proposito, che un noto personaggio, oggi investito di mandato parlamentare, ha voluto sostenere, facendosi forte della sua qualità di ex ufficiale di marina, che non sarebbe da considerare «nave da guerra» la motovedetta della Guardia di finanza quasi speronata dalla Sea Watch e che quindi il reato in questione non sarebbe configurabile. Peccato che tale rispettabile opinione risulti però in netto contrasto con quanto a suo tempo affermato e mai più contraddetto dalla Cassazione, secondo cui dev' essere invece considerata «nave da guerra», ai fini che qui interessano, anche «una motovedetta armata della Guardia di finanza, in servizio di polizia marittima. Ciò premesso va detto che, in effetti, il vigente codice penale prevede, all' articolo 54, come causa di non punibilità per qualsiasi reato, il fatto che chi lo abbia commesso vi sia stato «costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona»; ciò a condizione, però, che si tratti di «pericolo da lui non volontariamente cagionato né altrimenti evitabile» e «sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo». Ora, ammesso pure (e non concesso) che i migranti presi a bordo della nave fossero realmente esposti, al «pericolo attuale di un danno grave alla persona», occorre chiedersi, però, in primo luogo, se un tale pericolo non fosse stato «volontariamente cagionato» proprio dalla Capitana. Carola Rackete, infatti, era perfettamente consapevole che, in base ai provvedimenti normativi assunti e ampiamente pubblicizzati dalle autorità italiane, non sarebbe stato consentito l'ingresso della nave nelle acque territoriali e, meno che mai, lo sbarco dei migranti. I provvedimenti erano operativi, per cui la Capitana non avrebbe dovuto prendere la decisione di sfidarli, perché ciò equivaleva a mettere consapevolmente e volontariamente gli stessi migranti a rischio di trovarsi proprio nella condizione in cui essi si sono poi effettivamente trovati. Avrebbe dovuto invece fin dall' inizio puntare su porti, ugualmente sicuri ed anche più vicini, diversi da quelli italiani. In alternativa, poi, una volta ricevuta la formale intimazione a non fare ingresso nelle acque territoriali italiane, avrebbe dovuto, almeno a questo punto, cercare altre destinazioni, sicuramente possibili a breve termine, piuttosto che ostinarsi a rimanere in zona per giorni e giorni. Quand' anche, poi, si volesse escludere che la pretesa situazione di pericolo nella quale si sarebbero trovati i migranti fosse addebitabile alle precedenti scelte della Capitana, mancherebbe comunque la seconda delle condizioni previste dall' articolo 54 del codice penale, e cioè che quel pericolo non fosse «altrimenti evitabile» con condotte diverse da quella costituente reato. Al riguardo basti osservare che nulla avrebbe impedito di chiedere e ottenere l'assistenza sanitaria ritenuta necessaria per i migranti; e ciò tanto più in quanto la Corte di Strasburgo, con la stessa decisione con la quale aveva respinto il ricorso della Ong volto ad ottenere l' ordine di sbarco, aveva fatto carico al governo italiano di prestare tutta l'assistenza necessaria alle persone che si trovavano a bordo della nave. Da ultimo, appare anche da escludere la terza condizione, costituita dalla proporzionalità tra il fatto - reato addebitato alla «capitana» ed il «pericolo» per la salute dei migranti, dal momento che lo speronamento della motovedetta della Guardia di finanza comportava, con ogni evidenza, un pericolo immediato e diretto per l' incolumità, se non anche per la vita, dei militari che si trovavano a bordo della motovedetta; pericolo a fronte del quale quello nel quale si sarebbero trovati i migranti non poteva certo dirsi altrettanto immediato e diretto.
Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione, per “la Verità” il 4 luglio 2019. La dottoressa Alessandra Vella, giudice per le indagini preliminari del tribunale di Agrigento e autrice dell' ordinanza con la quale è stata respinta la richiesta della locale Procura volte ad ottenere la convalida dell' arresto della «capitana» della Sea watch 3, dev'essere indubbiamente dotata di una robusta conoscenza di cose marinaresche. Ha infatti magistralmente applicato, nella motivazione del suo provvedimento, un noto stratagemma difensivo, usato nelle battaglie navali del passato e costituito dall' emissione, da parte della nave che cerchi di sottrarsi ad un impari confronto con unità avversarie, di una densa cortina fumogena che valga a sottrarla alla vista dei nemici e a consentirle la fuga. Nulla più che una cortina fumogena si rivela, infatti, il sovrabbondante richiamo, sul quale in gran parte si basa l' ordinanza in questione, ad una serie di norme, tanto interne quanto derivanti da convenzioni internazionali, che, in estrema sintesi, impongono ad ogni comandante di nave il dovere di prestare soccorso a quanti corrano pericolo di naufragio e di condurli nel più vicino «porto sicuro». Secondo il gip di Agrigento la condotta di resistenza e violenza culminata nell'urto volontariamente provocato dalla «capitana» fra la nave al suo comando e la motovedetta della Guardia di finanza che cercava di impedirle l' approdo nel porto di Lampedusa, sarebbe stata priva di rilievo penale perché giustificata, ai sensi dell' articolo 51 del codice penale, proprio dall' intento di adempiere al suddetto dovere. Non è qui il caso di addentrarsi in disquisizioni circa quella che dovrebbe essere la corretta nozione di «porto sicuro» e circa la legittimità o meno della pretesa della «capitana» di volerlo identificare proprio nel porto di Lampedusa, ad esclusione degli altri che pure sarebbero stati più vicini. A confutazione, infatti, della suddetta ricostruzione giuridica (e senza voler in alcun modo suggerire o anticipare le linee dell' eventuale impugnazione che la Procura di Agrigento dovesse decidere di proporre avverso il provvedimento del gip), appare sufficiente osservare che:
1 Il dovere di salvataggio e conduzione dei naufraghi nel porto ritenuto «più sicuro» non implica anche quello di entrare a forza nel porto medesimo, ignorando i divieti posti dalle legittime autorità, quando il pericolo per la vita e la salute dei naufraghi sia comunque venuto meno; condizione, questa, che implicitamente trova conferma proprio nell' ordinanza del gip, non facendosi in essa menzione alcuna del preteso «stato di necessità», originariamente invocato proprio dalla «capitana» a sua giustificazione e determinato, a suo dire, proprio dal progressivo, grave deteriorarsi delle condizioni di salute dei naufraghi a causa del protrarsi dell' attesa dell' autorizzazione allo sbarco.
2 Del tutto privo di rilievo appare il richiamo, contenuto nell' ordinanza del gip, all' articolo 18 della Convenzione di Montego Bay sul «diritto del mare», nella parte in cui stabilisce la legittimità della «fermata» e dell'«ancoraggio» di una nave nel mare territoriale di un altro Stato quando essi siano «finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo»; ciò in quanto, in primo luogo, la «fermata» e l'«ancoraggio» di una nave in mare sono, all' evidenza, cose ben diverse dall' ingresso della stessa in porto; in secondo luogo, non esisteva, nel caso, alcuna necessità di «soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo».
3 Parimenti fuori luogo appare il richiamo, pure contenuto nell' ordinanza, all' articolo 10 ter del Testo unico sull' immigrazione, nella parte in cui stabilisce che lo straniero «giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi», di cui è prevista l' istituzione in base a talune norme successivamente indicate; adempimento, questo che, secondo quanto si afferma testualmente nella stessa ordinanza, fa carico soltanto «alle autorità statali», per cui non si vede a quale titolo potesse sentirne investita la comandante della Sea Watch.
A quella che dovrebbe a questo punto apparire l' assoluta inconsistenza delle argomentazioni poste a base della decisione del gip fa poi riscontro la sostanziale ammissione, da parte del medesimo gip (sia pure con espressioni alquanto involute e contorte), della volontarietà della condotta di violenza e resistenza nei confronti della motovedetta della Guardia di finanza per la quale la «capitana» era stata tratta in arresto. Si legge, infatti, nell' ordinanza in questione, che l' avere ella «posto in essere una manovra pericolosa nei confronti dei pubblici ufficiali a bordo della motovedetta della Guardia di finanza, senz' altro costituente il portato di una scelta volontaria seppure calcolata, permette di ritenere sussistente il coefficiente soggettivo necessario ai fini della configurabilità concettuale del reato in discorso». Una parola va poi detta, da ultimo, anche con riguardo al fatto che il gip ha ammesso soltanto l' astratta configurabilità del generico reato di resistenza a pubblico ufficiale e non di quello, assai più grave, di resistenza o violenza contro nave da guerra, previsto dall' articolo 1100 del Codice della navigazione, sostenendo che non sarebbe da qualificare come «nave da guerra» la motovedetta della Guardia di Finanza. Ho già ricordato, in un mio precedente articolo, che analogo convincimento, espresso da un noto parlamentare, ex ufficiale di marina, è risultato in netto contrasto con quanto a suo tempo affermato e mai più contraddetto dalla Cassazione, secondo cui dev' essere invece considerata «nave da guerra», ai fini che qui interessano, anche «una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima» (Cassazione, sez. III, 30 giugno-22 settembre 1987 n° 9978). L'ordinanza del gip ignora totalmente questa pronuncia ma si richiama ad una sentenza della Corte costituzionale (la n° 35 del 2000) dalla quale si desumerebbe che le motovedette della Guardia di Finanza sono da considerare «navi da guerra» soltanto quando «operano fuori delle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un' autorità consolare». Non si fa caso, però, nella medesima ordinanza, al fatto che nella stessa sentenza della Corte si afferma, subito dopo, che nei confronti delle motovedette della Guardia di Finanza «sono applicabili gli articoli 1099 e 1100 del Codice della navigazione»; e ciò, con ogni evidenza, indipendentemente dal fatto che esse operino fuori delle acque territoriali, dal momento che è sempre la Corte ad aggiungere poi che i detti articoli sono richiamati anche dagli articoli 5 e 6 della legge 13 dicembre 1956, n° 1409, recante «norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi»; vigilanza, quella anzidetta, che si effettua, normalmente, proprio nelle acque territoriali.
Bruno Tinti, ex magistrato, per ''Italia Oggi'' il 4 luglio 2019. L' ordinanza del Gip di Agrigento che non ha convalidato l' arresto del comandante la Sea Watch è giuridicamente errata. In primo luogo, per un fondamentale errore di diritto. Nel territorio dello Stato si applicano le leggi ordinarie dello Stato. Se il giudice ritiene che una di queste leggi, rilevante nel caso che deve risolvere, sia in contrasto con la Costituzione, deve sospendere il procedimento e sollevare eccezione di incostituzionalità. Deve, non può. In altri termini, il giudice non può semplicemente disapplicare la legge dello Stato perché, a suo avviso, in contrasto con la Costituzione. O chiede alla Corte costituzionale di dichiararne l' incostituzionalità o la applica. Chiunque è in grado di valutare cosa succederebbe se ogni giudice, novello Antigone, si ritenesse libero di disapplicare leggi che lui, e magari lui solo, ritiene in contrasto con la Costituzione. A tacer d' altro, ci si chiede (e avrebbe dovuto chiederselo il Gip) a cosa servirebbe, a questo punto, la Corte Costituzionale. Venendo alla Sea Watch, scrive il Gip: Va premesso che, in base all' art. 10 della Costituzione, l' ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Tra queste rientrano quelle poste dagli accordi internazionali in vigore in Italia, le quali assumono un carattere di sovraordinazione rispetto alla disciplina interna ai sensi dell' art. 117 Cost. Sorprende che, dopo aver correttamente esposto questo principio, il suddetto Gip abbia potuto scrivere, a pagina 11 dell' ordinanza: Ritiene, peraltro, questo Giudice che, in forza della natura sovraordinata delle fonti convenzionali e normative sopra richiamate, nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3, oltre che delle autorità nazionali, potevano rivestire le direttive ministeriali in materia di «porti chiusi» o il provvedimento (del 15 giugno 2019) del Ministro degli Interni di concerto con il Ministro della Difesa e delle Infrastrutture (ex. art 11, comma 1-ter T.u. Imm.) che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave Sea Watch 3, nel mare territoriale nazionale. Tra l' altro dimenticando (opportunamente) che direttive ministeriali e provvedimento del Ministro degli Interni erano diretta conseguenza del T.u. Immigrazione, da lui stesso citato. In altri termini il Gip ha riconosciuto l' esistenza di una legge dello Stato che legittimava le disposizioni adottate dalle Autorità competente nel caso di specie; e ha ritenuto che esse dovevano essere considerate illegittime in quanto in contrasto con trattati internazionali che prevalgono sulla legge ordinaria. Errore marchiano, frutto di una visione del proprio ruolo autoreferenziale. Conseguentemente, la scriminante di cui all' art. 51 codice penale (l' adempimento del dovere), che il Gip ha utilizzato per ritenere legittimo l' operato del comandante della Sea Watch, è del tutto insussistente. Il dovere discenderebbe da norme internazionali che però sono in contrasto con una legge dello Stato. Ma, solo ove quest' ultima fosse dichiarata incostituzionale, potrebbe ritenersene obbligatoria l' osservanza. Fino ad allora, violare la legge italiana non è un dovere ma un reato. Le argomentazioni del Gip sono anche criticabili sul piano della corretta applicazione delle stesse norme internazionali che egli assume essere state violate. La Convenzione sulla ricerca e il soccorso in mare (Sar), prevede, all' articolo 19, che il passaggio di una nave nel mare territoriale si considera «inoffensivo fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero. Tale passaggio deve essere eseguito conformemente alla presente Convenzione e alle altre norme de! diritto internazionale». Per non rimanere nel vago, la stessa Convenzione prevede poi che «il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole per la pace, ii buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in una qualsiasi delle seguenti attività: g) il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero». È evidente che la norma internazionale richiamata dal Gip considera illegittimo il transito della Sea Watch nelle acque territoriali italiane: la nave era impegnata proprio nell' attività appena richiamata. Un ulteriore profilo di criticità dell' ordinanza si ravvisa quando il Gip valuta la condotta tenuta dal comandante della Sea Watch che, avendo l' obbligo di sbarcare in un porto sicuro i «salvati in mare», si è arrogato il diritto di sceglierlo discrezionalmente. Così ha rifiutato di condurre i «salvati» a Tripoli, come comunicato dalle Autorità libiche nelle cui acque era avvenuto il «salvataggio» e che erano dunque competenti a indicare il porto in questione. E ha chiesto alle Autorità italiane un altro porto in sostituzione di quello messo a sua disposizione. Ovviamente queste non erano competenti poiché la nave si trovava in acque libiche. Ma per il comandante della Sea Watch la cosa era irrilevante. Possibile che il Gip non sia reso conto che riconoscere al capitano di una nave l' assoluta discrezionalità sull' identificazione del porto dove condurre i «salvati» è privo di senso? Se analoghe richieste fossero state rivolte all' Olanda o alla Germania, quale pensa il Gip sarebbe stata la risposta? Ovviamente, «non siamo competenti, chiedi alla Libia». Perché l' Italia avrebbe dovuto rispondere in maniera diversa? Altro porto sicuro nelle vicinanze era Tunisi, ma nemmeno questo al Comandante andava bene perché, dice il Gip: Venivano, altresì, esclusi i porti di Malta, perché più distanti, e quelli tunisini, perché secondo la stessa valutazione del Comandante della nave, «in Tunisia non ci sono porti sicuri». Circostanza che riferiva risultarle «da informazioni di Amnesty International»; sapeva, inoltre «di un mercantile con a bordo rifugiati che stavano da 14 giorni davanti al Porto della Tunisia senza potere entrare». Considerazione che lascia perplessi: Tunisi non è porto sicuro perché le Autorità tunisine non lasciano sbarcare; Lampedusa, dove le Autorità non lasciano sbarcare, invece sì? Una simile acquiescenza alle argomentazioni difensive è davvero singolare. Sempre con riferimento a Tunisi, il Gip sostiene che non poteva essere considerato porto sicuro perché: «Le persone tratte in salvo devono essere portate dove la sicurezza della vita dei naufraghi non è più in pericolo; le necessita primarie (cibo, alloggio e cure mediche) sono assicurate; può essere organizzato il trasferimento dei naufraghi verso una destinazione finale». Non si capisce però in base a quali elementi (diversi dalle apodittiche affermazioni del Gip e dell' arrestato) la Tunisia dovesse essere considerata non in grado di adempiere a tutto quanto sopra. Vero, non esisteva una normativa che prevedeva il diritto di asilo. Ma al comandante della Sea Watch questo non doveva interessare: i «salvati» vanno sbarcati, curati e avviati a destinazione; ci mancherebbe ancora che si debba anche valutare quale ordinamento giuridico sia per loro più favorevole. Tutto ciò senza considerare l' assoluta infondatezza della tesi di fondo: trattasi di salvataggio in mare. Infondatezza che ho cercato di descrivere nell' articolo pubblicato su questo giornale il 2 luglio. D' altra parte, lo stesso Gip dà atto delle dichiarazioni del comandane della Sea Watch: «Era un gommone in condizioni precarie e nessuno aveva giubbotto di salvataggio, non avevano benzina per raggiungere alcun posto, non avevano esperienza nautica, né avevano un equipaggio». C'è qualcuno che possa davvero credere che i 50 migranti avessero intrapreso la traversata con un mezzo in quelle condizioni? Non è del tutto evidente che si è trattato, in questo come nella maggior arte degli altri casi, di un appuntamento programmato tra una ong e gli organizzatori del traffico? I migranti sono imbarcati, trainati a poca distanza dalla costa (niente benzina), la ong viene avvisata, l' aereo (quello utilizzato in questo caso si chiama Colibrì) li avvista, fornisce le coordinate alla nave-taxi e il gioco è fatto. Davvero il Gip di tutto questo non ha sentore, non sospetta che il preteso «salvataggio» è in realtà una complicità nella migrazione clandestina? Non sarà che gli errori giuridici finora evidenziati sono figli di una visione degli eventi quantomeno improvvida e non ideologicamente orientata? Io credo di sì. Soprattutto per l' incauta scivolata che si legge a pagina 11 dell' ordinanza: «Deve osservarsi, sulla scorta delle dichiarazioni rese dall' indagata (a tenore delle quali ella avrebbe operato un cauto avvicinamento alla banchina portuale) e da quanto emergente dalla visione del video in atti, che il fatto deve essere di molto ridimensionato, nella sua portata offensiva, rispetto alla prospettazione accusatoria fondata sulle rilevazioni della p.g.» Bazzecole, dunque. Va bene arrestare lo scioperante che dà una spinta al carabiniere nel corso di una manifestazione di lavoratori e si giudica episodio modesto quello di una nave da oltre mille tonnellate che schiaccia una motovedetta di 17? Ecco, questa considerazione non era necessaria giuridicamente; ma costituisce una buona chiave di lettura del provvedimento nel suo complesso.
ANCHE L’EX CONSIGLIERE DI STATO, FILORETO D’AGOSTINO, FA A PEZZI LA DECISIONE DEL GIP DI AGRIGENTO, ALESSANDRA VELLA. Filoreto D’Agostino per “il Fatto quotidiano” il 5 luglio 2019. Un esame approfondito delle ragioni giuridiche che militano contro l'ordinanza della gip agrigentina sul caso di Carola Rackete è stato già condotto nelle pagine della Verità e di Italia Oggi da due valenti magistrati in pensione. Gli argomenti addotti sono qui pienamente condivisi. Il profilo da considerare riguarda, semmai, un atteggiamento a monte di una vicenda che lascia l'amaro in bocca. Tra i fatti e le conclusioni raggiunte dal Gip si registrano, infatti, ampi spazi di opinabilità, superati con proposizioni fideistiche delle quali la prima consiste nella lettura impropria dell' art. 10 della Costituzione, che prevede il conformarsi dell' ordinamento italiano alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, individuate, in quel contesto, nella Convenzione per la ricerca e il soccorso in mare. Il parametro costituzionale, coniugato con la Convenzione, costituirebbe chiave di volta per assegnare alla tutela di esseri umani salvati in mare una valenza superiore a quella delle norme vigenti nello Stato. Semplificando: il salvataggio è condizione necessaria e sufficiente per superare qualsiasi sindacato di liceità. Una volta imbarcati quei poveracci, si possono ledere con assoluta serenità e impunità le regole imposte da uno Stato sovrano. Questo perché il principio costituzionale così declinato legittima l' esimente dell' articolo 51 del Codice penale (adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica). Quella affermazione non è solo erronea, ma configura anche una presa di posizione allarmante perché tende a frantumare la coerenza delle proposizioni giuridiche con la gerarchia delle fonti normative. In base a tale principio, una disposizione di rango legislativo, salvo talune previsioni dell' ordinamento comunitario, non può essere disapplicata, ma rimessa, per l' eventuale declaratoria di incostituzionalità, al giudice delle leggi. Soggetto sicuramente diverso dalla Gip autrice dell' ordinanza Proprio sul richiamo al diritto internazionale si apre la falla più ampia del discorso giustificativo. Basti pensare che un giudice internazionale nella vicenda Sea Watch è stato officiato e si è pronunciato. La Corte europea dei diritti dell' uomo, preposta al rispetto degli impegni assunti dagli Stati in materia di diritto alla vita, divieto di schiavitù, diritto alla libertà e alla sicurezza, divieto di discriminazione, ha infatti respinto il ricorso proposto dalla comandante della nave. In altre parole: il giudice internazionale legittimato a conoscere della tutela dei diritti dell' uomo, compresi, in parte qua, quelli assicurati dalla Convenzione ricerca e soccorso in mare, ha negato l' esistenza di condizioni che un giudice, abilitato solo all' applicazione della normativa nazionale, ha positivamente proclamato. Al di là dei singoli rilievi giuridici, emerge con forza il vero tema sotteso all' intera storia: la personalizzazione dell' ordinamento (da sistema normativo ad autoaffermazione del giudicante) in sintonia con il mito sofocleo di Antigone. Il contrasto tra nomos (legge dell' uomo) e fusis (intesa come legge naturale) vi rientra con prepotenza. Solo che, quanto meno per fissare con obiettività la piena coerenza della legge naturale reclamata dalla gip come esposizione ed espansione del precetto costituzionale (il citato articolo 10 della Costituzione), occorre partire dai fatti. Il primo dei quali è la permanenza della nave Sea Watch per molti giorni fuori dalle acque territoriali in attesa di un permesso negato a più riprese. Attendere ciò che si è consapevoli non verrà concesso rende plasticamente la prava volontà di forzare la mano. Se non ci fosse stato dolo, la nave avrebbe potuto, in quell' ampio lasso di tempo, raggiungere porti non italiani: maltesi, tunisini e francesi. Finanche iberici. Ancora più grave è la molto attenuata percezione dell' assolvimento del dovere da parte della Guardia di Finanza e il disconoscimento della natura di mezzo da guerra alla motovedetta. La struttura di un natante preordinato ad attività di pattugliamento delle acque territoriali e di tutela da pericoli provenienti dall' esterno non è paragonabile a quella di un mezzo (per esempio un elicottero della Guardia costiera) che svolge in via principale operazioni di salvataggio (e di polizia della pesca) e che non è armato. Una motovedetta armata è per struttura e funzione un mezzo bellico. Così, l' episodio di contatto tra le imbarcazioni scade, con la decisione del gip, a grottesca scenetta western, quando il prepotente di turno ingiunge al malcapitato di togliere le scarpe da sotto le punte dei suoi stivali La parte del malcapitato, nell' ordinanza in questione, è appannaggio delle Fiamme Gialle. E questo, se si consente a chi, nell' esercizio della funzione giurisdizionale, ha potuto ammirare la sempre elevata qualità e professionalità di quel Corpo, fa proprio male.
Sea Watch, quello che non torna nell'ordinanza del gip su Carola Rackete. Le motivazioni della non convalida dell'arresto della Rackete non convincono ex magistrati e addetti ai lavori: ecco perché. Domenico Ferrara, Giovedì 04/07/2019 su Il Giornale. C'è qualcosa che non torna nell'ordinanza del gip Alessandra Valle in merito alla non convalida dell'arresto di Carola Rackete, comandante della Sea Watch. E non parliamo solo delle cinque anomalie ben spiegate sul Giornale da Fausto Biloslavo. Parliamo anche e soprattutto della giustizia in generale, della discrezionalità del giudice e del rispetto delle leggi di un paese. In questi giorni ex magistrati, docenti di diritto e addetti ai lavori stanno esprimendo la propria opinione sulla decisione del giudice di Agrigento. E, a parte un intervento scritto da Andrea Natale, giudice del Tribunale di Torino, sul periodico di Magistratura democratica (guarda caso la corrente di sinistra delle toghe), gli altri interventi vanno tutti nella direzione opposta a quella sentenziata dalla Valle. E basta questo a far storcere il naso. Ma andiamo avanti. L'ex magistrato Carlo Nordio, sul Messaggero, avverte: "Il fenomeno dell'immigrazione irregolare è troppo complesso per lasciarne la gestione alla magistratura, lo dimostrano le contraddizioni che spesso emergono durante le indagini penali, e che possono portare a conclusioni diverse - e spesso opposte - a quelle della politica e persino del buon senso". Secondo Nordio "alcuni problemi non possono essere risolti dai giudici", in particolare quelli "che si presentano con un impatto emotivo nella società moderna, e che richiedono strumenti di valutazione, di controllo e di guida ben più efficaci della maestosa incertezza del processo penale". L'ex magistrato Bruno Tinti, sulle colonne di Italia Oggi, sentenzia in modo chiaro: "L'ordinanza è giuridicamente errata". Motivo? "Nel territorio dello Stato si applicano le leggi ordinarie dello Stato. Se il giudice ritiene che una di queste leggi, rilevante nel caso che deve risolvere, sia in contrasto con la Costituzione, deve sospendere il procedimento e sollevare eccezione di incostituzionalità. Deve, non può. In altri termini, il giudice non può semplicemente disapplicare la legge dello Stato perché, a suo avviso, in contrasto con la Costituzione. O chiede alla Corte costituzionale di dichiararne l'incostituzionalità o la applica", scrive Tinti. Che poi aggiunge: "Il Gip ha riconosciuto l'esistenza di una legge dello Stato che legittimava le disposizioni adottate dalle Autorità competente nel caso di specie; e ha ritenuto che esse dovevano essere considerate illegittime in quanto in contrasto con trattati internazionali che prevalgono sulla legge ordinaria. Errore marchiano, frutto di una visione del proprio ruolo autoreferenziale. Conseguentemente, la scriminante di cui all'art. 51 codice penale (l'adempimento del dovere), che il Gip ha utilizzato per ritenere legittimo l'operato del comandante della Sea Watch, è del tutto insussistente. Il dovere discenderebbe da norme internazionali che però sono in contrasto con una legge dello Stato. Ma, solo ove quest'ultima fosse dichiarata incostituzionale, potrebbe ritenersene obbligatoria l'osservanza. Fino ad allora, violare la legge italiana non è un dovere ma un reato". Merita una nota a parte la chiusa dell'intervento di Tinti: "Va bene arrestare lo scioperante che dà una spinta al carabiniere nel corso di una manifestazione di lavoratori e si giudica episodio modesto quello di una nave da oltre mille tonnellate che schiaccia una motovedetta di 17? Ecco, questa considerazione non era necessaria giuridicamente; ma costituisce una buona chiave di lettura del provvedimento nel suo complesso".
Il punto è, come segnala l'avvocato Stefano Manfreda del foro di Reggio Emilia, che "il gip ha detto che non sussiste reato perché la nave della GdF non sarebbe una nave da guerra. Nel farlo cita come precedente Corte costituzionale, sentenza n. 35/2000. Nella sentenza della Corte costituzionale non mi pare che si dica che l'imbarcazione della GdF è nave da guerra solo quando la GdF è in alto mare! La Corte costituzionale anzi richiama l'articolo 200 del codice di navigazione che è rubricato "polizia esercitata dalle navi da guerra" che recita così: "In alto mare, nel mare territoriale, e nei porti esteri dove non sia un'autorità consolare, la polizia sulle navi mercantili nazionali è esercitata dalle navi da guerra italiane. A tal fine, i comandanti delle navi da guerra possono richiedere alle navi mercantili informazioni di qualsiasi genere, nonché procedere a visita delle medesime e ad ispezione delle carte e dei documenti di bordo; in caso di gravi irregolarità possono condurre le navi predette per gli opportuni provvedimenti in un porto dello Stato, o nel porto estero più vicino in cui risieda un'autorità consolare. Nei porti ove risiede un'autorità consolare le navi da guerra italiane esercitano la polizia, a norma dei comma precedenti, su richiesta dell'autorità medesima". La Corte costituzionale ha richiamato l'articolo 200 cod. nav. forse durante un copia incolla venuto male perché omette il pezzo che richiama il mare territoriale! La gip poteva rendersi conto molto bene che si tratta di un errore materiale semplicemente leggendo l'articolo. Del resto, esaminando la giurisprudenza in materia di qualifica di nave da guerra, tutte le sentenze sono concordi nel ritenere che le navi della GdF e altri corpi di polizia sono sempre navi da guerra".
Ad aggiungere un ulteriore tassello è Augusto Sinagra, docente di diritto internazionale. "Il famoso Regolamento Ue di Dublino prevede che dei cosiddetti "profughi" (in realtà, deportati) debba farsi carico lo Stato con il quale essi per prima vengono in contatto. A cominciare dalle eventuali richieste di asilo politico. Non si vede allora quale sia la ragione per la quale una nave battente bandiera, per esempio, tedesca, spagnola o francese, debba (d'intesa con gli scafisti) raccogliere i cosiddetti profughi appena fuori le acque territoriali libiche e poi scaricarli in Italia quando la competenza e l'obbligo è, come detto, dello Stato della Bandiera".
Come ha spiegato anche Alfonso Mignone, esperto di diritto della navigazione, "il passaggio della nave non è conforme alla lettera g) dell'articolo 19 Convenzione di Montego Bay del 1982 in quanto è stata violata una legge interna dello Stato italiano in materia di immigrazione (articolo 11 comma ter Decreto Legislativo n. 286 del 1998); è stato violato l'articolo 1100 codice navigazione in quanto, a differenza di quanto argomenta il gip con una sentenza della Corte Costituzionale (n.35/ 2000), ai sensi della Cassazione penale, Sez. III, 21 settembre 2006, n° 31403 "le manovre compiute dall’imbarcazione che cerca di opporsi all’inseguimento ed all’abbordaggio da parte di una motovedetta della Guardia di Finanza integrano il reato di cui all’art. 1100 cod. nav. di resistenza contro nave da guerra, dal momento che il naviglio della Guardia di Finanza, a prescindere dall’esercizio delle funzioni di polizia marittima e dall’equipaggiamento con personale militare, è iscritto dalla legge nella categoria delle navi da guerra come è attestato dal fatto che l’art. 6 L. n. 1409 del 1956 punisce gli atti di resistenza o di violenza contro tale naviglio". Non sussiste la scriminante ex articolo 51 codice penale poiché, violato, come riportato sopra, l'articolo 1100 codice navigazione, sussiste la violazione dell'articolo 337 codice penale".
Insomma, sull'ordinanza della gip, i dubbi degli addetti ai lavori non sono pochi.
Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 3 luglio 2019. Sarebbe bastato un buon analista per risparmiare all'Italia la seccatura di Carola Rackete, insieme con lo spargimento d'ipocrisia che il suo complesso da piratessa triste porta con sé. La ragazza che solcava i mari per aiutare i poveri sulla nave dei ricchi, la Sea Wacht3, probabilmente verrà soltanto sculacciata (metafora) dalle nostre autorità e poi rispedita in Germania a fare i conti con la propria irresolutezza di bambina ricca, viziata, degna prosapia d'una famiglia alto borghese nella Bassa Sassonia affacciata sul freddo orizzontale del Mar Baltico. In realtà Carola era una predestinata, come lei stessa ebbe modo di dichiarare in tempi sospetti: «La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto». Eccolo, allora, l'inventario del senso di colpa che attanaglia l'eroina delle sinistre orfane di capi: un elenco di virtù non volute, immeritate ed espiate mediante l'invasamento immigrazionista, la coazione al soccorso purchessia degli ultimi della Terra. Ma attenzione, nell'allucinazione terzomondista che ottenebra la giovane Carola non c'è spazio per la personalizzazione dei buoni sentimenti: a Lampedusa, mentre speronava l'imbarcazione della Guardia di Finanza, lei era pronta a sacrificare tutti i suoi adorati (e da noi tutti commiserati) 42 migranti africani pur di affermare la sua battaglia di principio. L'assioma universale è appunto questo: chi siete voi per impedirmi di redimere il mondo pur di acquietare la mia coscienza?; chi siete voi, con le vostre leggi e i vostri confini, per arrestare la nuova Antigone? Insomma «come può uno scoglio arginare il mare» della sua romantica compassione? Chissenefrega delle vite al dettaglio, deve aver pensato lei, men che mai di quelle degli sbirri italiani guidati dal fascistissimo ministro Matteo Salvini. Ma perfino i poveri disgraziati raccolti nelle acque internazionali, in tale ottica, sono niente più che un pretesto in carne e ossa per affermare la religione astratta dei diritti universali, non certo la cura concreta delle persone. È tutta una questione individuale innescata da una teoria seducente che precipita nella prassi egoriferita di una trentenne con le trecce rasta. E quella piega amara delle sue labbra è lo sfoggio d'una supponenza scagliata contro la noia di dover rendere conto di sé, e quale sé!, alle autorità. A guardarla bene, con la canottierina nera da piratessa, il braccio destro alzato con fierezza nel saluto ai suoi seguaci mentre gli uomini in divisa la portavano via, Carola appare come una specie di eterna fanciulla vittima della scuola Montessori e caduta nella pozione magica di un villaggio barbarico del nord Europa: uno di quei luoghi misteriosi nei quali la realtà cede il posto alla fiaba gotica e ogni pensiero diventa un assoluto, il prologo di un' ordalia, il dettaglio decisivo del Götterdämmerung. La signorina Rackete è dunque l'interprete speciale di un quotidiano crepuscolo degli dèi nel quale mette in scena la lotta ai ferri corti del suo presunto bene contro il male rappresentato dalla complessità del reale. E la dura, esecrabile verità del commercio d' anime e corpi su cui ingrassano gli scafisti nordafricani? E la sovranità degli Stati contemporanei? E la possibilità, anzi la necessità di mediare in modo adulto fra le posizioni che si contendono il successo anziché sfidare il potere? Dettagli fastidiosi e insignificanti, per Carola che è chiamata a salvarci dalle tenebre. Buon per lei e per il suo super-ego. Pessimo, invece, per chi ne calca le sciagurate impronte. Perché la capricciosa Antigone germanica non sconterà il fio delle sue responsabilità, per sua fortuna, mentre i suoi improvvisati seguaci a corto d' idee finiranno sommersi dal ridicolo.
La Sea Watch non sperona la Camera. Evitato all’ultimo lo sfregio. Francesco Storace mercoledì 3 luglio 2019 su Il Secolo d'Italia. La Camera dei Deputati e dei Fuorilegge. Per carità, non che avessimo dubbi sulla presenza di qualche bandito a Montecitorio, ma che chi delinque dovesse essere ascoltato per pareri sulle leggi da approvare sarebbe stato francamente troppo. Indigeribile. Scandaloso. Cose che possono succedere solo in Italia…Quelli della Sea Watch dovevano essere ascoltati stamane in audizione alla Camera, scatenando l’ira di Matteo Salvini contro Luigi Di Maio. Ovvero, i rappresentanti di una nave pirata accolti in audizione parlamentare a spiegare se una norma da approvare è giusta o sbagliata. E magari per insolentire il ministro proponente tra gli applausi dell’opposizione e le gomitate con tanto di sorrisini tra le fila pentastellate. Come spiegare fatti del genere sarebbe stato davvero inimmaginabile se non con la faccia tosta di chi aveva preso simili decisioni.
Un regista di nome Fico. La faccia tosta aveva le sembianze di due presidenti di commissione, manco a dirlo grillini, costretti poi alla retromarcia con tanto di annullamento dell’audizione. Si tratta del presidente della prima commissione affari costituzionali, Brescia, e di quella della seconda commissione giustizia, Businarolo. Quest’ultima ha preso il posto di madame Sarti dopo il noto scandalo a luci rosse dei mesi scorsi. Ebbene, questi due statisti del terzo millennio, investiti in sede congiunta per la discussione del decreto sicurezza bis del ministro Salvini, avevano avuto la straordinaria pensata. Come facciamo a rompere le scatole? Due sguardi con quelli del Pd reduci dalla crociera sulla Sea Watch et voila. Detto fatto, richiesta di audizione se non di Carola Rackete (da ieri persino libera…) almeno di qualcuno che la rappresenti degnamente. Scatenando la richiesta formale della Lega e di Fratelli d’Italia di annullare la comparsata. Ovviamente, il tutto con la regia di Roberto Fico, verso il quale persino Laura Boldrini comincia a provare un po’ di invidia per le manovre che escogita ogni giorno contro il “suo” governo. Neanche a lei sarebbe venuta in testa una roba del genere, per fortuna rientrata.
L’Italia di Mimmo Lucano. Ma resta la ferita. Se il decreto Salvini punta al controllo pieno dei porti, da chi farsi spiegare come tentare di ammazzare i finanzieri chiamati al pattugliamento? Un pugno di fuorilegge in barcarola può scucire e ricucire il provvedimento a modo suo. I deputati Pd salirci sopra. I grillini pronti a dar loro ragione. Sarebbe stato così il film della mattinata con tanto di addio ad ogni traccia di senso dello Stato. Quando ci sarà una norma sulle periferie magari si sarebbero poi potuti audire i Casamonica, una nuova legge sugli stadi avrebbe visto la consulenza di Marcello De Vito e quando sarà acciuffato sarebbe toccato a Matteo Messina Denarospiegare ai deputati come si scrivono le leggi antimafia. Del resto, siamo nell’Italia di Mimmo Lucano. Per la Sea Watch manca il giro delle televisioni, una lectio magistralis di Carola Rackete alla Sapienza, l’udienza da Bergoglio e qualche buontempone che la proponga per il premio Nobel per la Pace. Il tutto si svolge in Italia, che poi è il Paese più svillaneggiato da tutti quelli che non vogliono immigrati fra i piedi e ce li lasciano arrivare in casa nostra. Ora, i complici dello scafismo pretendevano pure di concionare in Parlamento. Con l’umiliazione delle nostre istituzioni. Per fortuna ha prevalso il buonsenso.
Le Ong: "Continuiamo i soccorsi. Se necessario ci comporteremo ancora come Sea-Watch". Msf, Open Arms e Mediterranea e il Tavolo per l'Asilo protestano per l'esclusione della organizzazione tedesca dalle audizioni alla Camera sul decreto sicurezza bis. Alessandro Ziniti il 03 luglio 2019 su La Repubblica. "Se necessario lo rifaremo. Continueremo a prestare soccorso nel Mediterraneo e a condurre le operazioni così come stiamo facendo, secondo le normative internazionali. Come appunto ha riconosciuto l'ordinanza della gip di Agrigento". Tutti insieme alla Sala stampa estera a Roma i rappresentanti delle principali Ong ma anche le associazioni che compongono il tavolo dell'asilo rilanciano dopo il punto a loro favore segnato con la scarcerazione di Carola Rackete. L'occasione è la decisione di disertare le audizioni previste per questa mattina a Montecitorio dove tutte le organizzazioni non governative, compresa la Sea-Watch, erano state invitate dai presidenti delle commissioni Affari costituzionali e giustizia a dare un parere sul decreto sicurezza bis. Audizioni saltate dopo che, ieri sera, i presidenti delle due commissioni, pressati dalle proteste di molti esponenti di governo, hanno revocato in extremis l'invito alla Sea-Watch. "Riteniamo una decisione sbagliata quella di non autorizzare Sea-Watch a partecipare all'audizione prima che il cosiddetto decreto sicurezza bis sia convertito in legge. Contestiamo il fatto di ascoltare solo chi ha opinioni conformi alla maggioranza", ha detto Filippo Miraglia, responsabile del tavolo asilo. Miraglia quindi ha denunciato le persecuzioni a danno di chi aiuta i migranti, "al pari delle persecuzioni naziste". Vari i punti di incostituzionalità che il testo conterrebbe secondo le ong, tra cui il finanziamento delle forze di sicurezza libiche, "che compiono violazioni dei diritti". Poi ha preso la parola Giorgia Linardi: "Al ministro dell'Interno chiediamo che si adoperi per tutelare i diritti e le vite delle persone, che gli piacciano o meno, in osservanza delle leggi e del diritto internazionale". Al decreto sicurezza bis mancano i presupposti della straordinaria necessità e urgenza. E prevalgono, sulle nuove norme introdotte, le leggi internazionali sul soccorso e il salvataggio in mare e le convenzioni siglate dall'Italia. Questa in sintesi la posizione delle associazioni Tavolo Nazionale Asilo, Antigone, Open Arms, Medici Senza Frontiere, Mediterranea e Sea Watch. "Questo decreto ha l'obiettivo palese di impedire le attività delle ong di soccorso in mare", ha detto Riccardo Noury, del Tavolo Nazionale Asilo. Secondo Alessio Scandurra di Antigone nel decreto c'è una "disomogeneità dei temi assoluta", visto che si affrontano temi diversi che come "unica cosa in comune hanno una presunta emergenza che non sussiste". Anche secondo Arturo Salerni di Open Arms "mancano i presupposti della necessità e urgenza". Per Marco Bertotto di Medici Senza Frontiere, "il decreto non porta soluzioni" e punta a comprimere "i principi fondamentali della legge del mare e del soccorso internazionale. Criminalizza in modo ignobile i principi di solidarietà".
La barca "da crociera" dell'Ong (da 8mila euro a settimana). Mediterranea riparte verso la Libia a bordo di una barca a vela "Alex", la nave "per crociere" affittata da Casarini&co. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 03/07/2019 su Il Giornale. "Siamo partiti". Mediterranea Saving Humans veleggia, è proprio il caso di dirlo, verso le coste della Libia. Lì incontrerà le navi di Sea Eye e Open Arms, in una rinnovata flotta "della società civile" convinta di operare il bene recuperando migranti e trasportandoli (il più delle volte) nel Belpaese. Stavolta l'Ong dei centri sociali non potrà contare sulla grandezza della sua Mare Jonio, l'imbarcazione sotto sequestro al porto di Licata dopo l'indagine sullo sbarco di 30 migranti. A "portare avanti la missione" ora c'è Alex, che non è né un mercantile, né una nave da soccorso. Ma una barca a vela dotata di tutti i comfort e solitamente dedicata a splendide "crociere" tra lidi da sogno. Buonismo di lusso. A qualcuno forse farà pensare l'idea che l'Ong dei centri sociali si diriga nella pericolosa zona Sar libica "cazzando la randa" o spiegando le vele. Farà accomodare i migranti sul ponte come i turisti? In realtà la Alex segue la Mare Jonio ormai da tempo come barca di supporto in quasi tutte le missioni. Non è però attrezzata per le operazioni search ad rescue, per cui nel caso "incontrasse" un barcone in difficoltà dovrà limitarsi a prestare il primo soccorso e poi chiedere aiuto alle autorità competenti. In fondo la mossa di Mediterranea appare più politica che operativa. La nuova missione è quella di "monitorare e denunciare le violazioni dei diritti umani in un mare che i governi europei hanno trasformato in un cimitero e un deserto". Una velleità made in Casarini e soci, diretti verso la Libia col vento in poppa. La Alex in realtà si chiama Benetti Ms 20 ed è una barca a vela lunga 20 metri e larga 5,64. Con i suoi 2,80 metri di pescaggio, le 10 cuccette, 5 cabine e 5 wc, è un'imbarcazione da diporto di tutto rispetto. Perfetta per "crociere in un ambiente raffinato e discreto", viene solitamente pubblicizzata per raggiungere mete come le Eolie, Tropea, Capo Vaticano, Ustica e Favignana. Tutti luoghi per un mare da sogno. Mediterranea l'ha affittata da Azzurro Charter, un servizio che offre a noleggio monoscafi, catamarani e yacht. La nave bialbero vanta un motore 2 x 150 HP, 2700 litri di carburante, vele avvolgibili e il pilota automatico. Inoltre ci sono Gps, lettore cd, plotter cartografico, radio e altoparlanti. Gli interni in legno sono eleganti, la cucina attrezzata, i divanetti bianchi. Sul ponte c'è ampio spazio per prendere il sole, come documentato dalle foto pubblicate online. L'avvenuto affitto "di lunga durata" viene confermato al Giornale.it da un referente della società locataria. Non che vi fossero troppi dubbi: nella foto twittata da Mediterranea si vede stampato il sito di Azzurro Charter e sullo scafo il numero "13RC25D", lo stesso che appare sugli scatti della Benetti Ms20. Il responsabile non si è sbilanciato sulla durata del noleggio o sul prezzo. Il listino online può tuttavia fornire alcune indicazioni. In questo periodo il prezzo settimanale è di 8.650 euro, costo che sale in pieno agosto a 10.650 queo ogni sette giorni. Non è ovviamente inclusa la cauzione (4mila euro) né "carburante, acqua, cambusa, tasse e onere portuali". Non sappiamo se Mediterranea (o chi ha affittato la nave per lei) abbia ottenuto uno sconto visto il lungo periodo di nolo. "Questo non glielo posso dire", chiosa il referente della società. La fattura, comunque, dev'essere stata consistente. Per capirne di più basta guardare alle risorse messe a bilancio dall'Ong per le "imbarcazioni di supporto" dove di solito viaggiano giornalisti e volontari. A ottobre in un primo piano finanziario Mediterranea ipotizzava 25mila euro di spesa. Ma solo per la prima missione. A quella ne sono seguite altre, tanto che ad aprile aveva già versato 95.427,53 euro per noleggio e allestimento delle navi di appoggio. Una discreta somma, anche per chi incamera migliaia di donazioni. E le investe per portare avanti le proprie battaglie politiche. Dalla poppa di una barca a vela.
Giampiero Mughini per Dagospia il 2 luglio 2019. Caro Feltri (Vittorio), tu sai che ti voglio bene e sai che mi diverte il format giornalistico che ti sei dato, mostrare ogni volta quanto siano imbecilli quelli di sinistra. E, come in questo caso, quanto abbiano ragione quelli della sponda opposta: quelli che giudicano la capitana Carola “una matta o peggio una criminale”. Ora tu sai a puntino - e questo perché ci bazzichiamo da trent’anni e ancora una volta ti ringrazio da quanto profumatamente hai sempre pagato il mio lavoro - che io non sono per niente “di sinistra”, termine peraltro vacuo e privo di alcun significato. Eppure questa volta dissento nettamente da quanto hai scritto su “Libero”, il giornale che dirigi e che ha il torto di voler apparire a tutti i costi “il più di destra” possibile, e anche se anche questo è un termine vacuo e privo di significato. Non è questione di “beoti” che applaudono la capitana pur non sapendo bene che vuol dire accogliere sempre e comunque “i disperati” del mare. E’ una questione semplicissima, che poteva essere risolta in cinque minuti, come ha detto l’ottimo Marco Minniti, anche lui credo uno che ci pulisca le scarpe con l’archeologica diade destra/sinistra. Che quei 40 poveri disgraziati continuassero a rullare sul mare e a dormire per terra e a usufruire di un solo bagno chimico magari fino a Natale, è questione talmente indecente che a commentarla non c’è bisogno di paroloni. In realtà la questione era perfettamente risolta prima che la capitana Carola avviasse la manovra disperata di attraccare a ogni costo. C’erano 4 o 5 Paesi europei che avevano dichiarato di accettare ciascuno la sua quota parte dei 40 poveri disgraziati. Non c’era che da farli sbarcare a Lampedusa, farli riposare un paio di giorni e poi consegnarli a ciascuno di quei Paesi. Cinque minuti, non di più. Come vedi non c’era alcuna “invasione della nostra Patria” come purtroppo tu scrivi. E tanto più che nel tempo in cui è durata questa fiction massmediatica, su altre spiagge del nostro Paese sono sbarcate alcune centinaia di immigranti. Ovvio, non li terremo tutti. Ovvio, non possiamo tenerli tutti. Ovvio, sono in tanti in Europa a fare gli stronzi su questo argomento che è di decenza umana, salvare chi è in pericolo sul mare. Quanto ai rischi corsi dalla nostra motovedetta, sei antico del nostro mestiere, caro Vittorio, per non intuire com’è andata. La nostra motovedetta è stata mandata per mare costasse quel che costasse a impedire l’attracco alla “piratessa”. Manovrare di notte e dopo giornate e giornate di tensione non è semplicissimo. Il cozzo è stato sfiorato. Fortuna che i nostri carissimi finanzieri non si siano sbucciati alcunché. Far passare la piratessa come una che voleva il male dei nostri connazionali non sta né in cielo né in terra. E’ stato un caso, è stato un accidente, com’è spesso della nostra vita - Vittorio, è tutto molto semplice. Cinque minuti. Cinque minuti di ragionamenti da esseri umani. Figurati che me ne frega a me della “sinistra”, contro cui battaglio a mio danno e pericolo da quarant’anni. Ti abbraccio.
Carola Rackete, Feltri a Mughini: "Non è neppure tanto affidabile". Libero Quotidiano il 3 Luglio 2019. Caro amico Mughini, hai scritto un libro meraviglioso sui Cretini di sinistra che ha fatto nascere in me una grande ammirazione per te. Sono sedotto dalla tua intelligenza e arguzia. Per quanto riguarda la questione in ballo non hai tutti e torti e neppure tutte le ragioni. Carola suscita in me sentimenti contrastanti: un po' di simpatia e molta antipatia. Non capisco perché ella vada in giro per mare allo scopo di raccattare dei poveracci, con una nave olandese, e dopo averli salvati invece di portarli a casa sua intenda scaricarli a noi italiani. È capitato anche a me di fare della beneficenza, ma con i soldi miei e non con quelli altrui. Essere buoni e umani è cosa lodevole, per cui Carola non andrebbe bistrattata per ciò che ha fatto, ma per come lo ha fatto non merita lodi. Il nostro Paese è pieno di immigrati e uno più o uno meno non cambia. Ci mancherebbe. Rimane il fatto che se non si pone un limite agli ingressi andiamo incontro a una invasione intollerabile. Pertanto non è una follia stabilire un numero chiuso, come nelle università. Più di tanti immigrati non ce li possiamo permettere, altrimenti continueremo ad accogliere poveracci senza avere la possibilità economica per ospitarli in modo decente. Le città pullulano di disgraziati senza arte né parte, che vivono per strada incapaci di inserirsi per mancanza di lavoro e di alloggi. È questo che vogliamo? Non mi pare il modo migliore di agire. Carola se ne fotte delle nostre condizioni economiche e sociali, tanto lei è tedesca, e pensa che l' importante sia evitare naufragi. Io invece penso che per evitarli sia indispensabile chiudere i porti e impedire che certa gente si illuda di trovare nella Penisola un paradiso inesistente. Il problema non è destra o sinistra, ma se la sinistra non capisce che siamo nei guai non posso applaudirla. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 2 luglio 2019. L'avevo scritto alcuni giorni orsono: Carola al massimo starà in galera venti minuti e poi sarà liberata tra l' esultanza degli imbecilli. Ho sbagliato la prima parte del discorso: la ragazza non è stata in cella neanche un minuto. Però sull' esultanza dei beoti ci ho azzeccato in pieno. Quelli che considerano la piratessa una sorta di eroina, tutta gente di sinistra, hanno stravinto su coloro che invece la giudicano una matta, o peggio, una criminale. La maggioranza in Italia da qualche anno è valutata una massa di cretini perché vota Lega, la stessa maggioranza, allorché dava il suffragio a comunisti e affini, era assai lodata in quanto sensibile alle istanze progressiste. La collettività, insomma, ha ragione se appoggia le idee sbagliate di Zingaretti e similari, mentre ha torto marcio qualora si avvicini ad Alberto da Giussano poiché ostile alla invasione degli emigranti e non solo a quella. Carola va in mare con una nave olandese, raccatta dalle acque dei poveracci e, anziché portarseli a casa sua, li scarica sulle nostre coste passando per una santa; noi viceversa, che pensiamo abbia violato la legge, e l' ha violata, siamo dei farabutti degni di essere esposti al pubblico ludibrio, perché convinti che vada punita in base ai nostri codici. C' è chi sostiene addirittura che disubbidire alle norme dello Stato di diritto sia cosa buona e giusta, in certe circostanze. Farle rispettare, di contro, un atto di profonda ingiustizia. Un controsenso. Ma tant'è. Carola ha minacciato di massacrare le guardie di finanza mediante una manovra avventata con la propria imbarcazione? Ha introdotto illecitamente degli extracomunitari nella nostra patria? Che volete che sia? Una ragazzata? No, un gesto nobile. Cosicché ella merita comprensione, nessuna sanzione penale che non sia il delicato rimpatrio in Germania dove sarà applaudita dal momento che ha agito contro le disposizioni di Salvini. Non siamo solo alla ingiustizia, ma alla farsa. Il nostro Matteo da questa circostanza assurda trarrà altri suffragi a proprio favore. È l' unica nostra consolazione. In attesa di nuove elezioni politiche, speriamo definitive, limitiamoci a sacramentare.
Roberto Perotti per “la Repubblica” il 2 luglio 2019. Si parla tanto di minibot, debito pubblico, sanzioni dell' Europa, flat tax, euro, manovra di bilancio. Ma i destini elettorali, e di riflesso i destini del paese, dipendono da una sola variabile: l' immigrazione. È stupefacente come su questo tema la sinistra continui a fare lo struzzo, limitandosi a tre argomenti fallimentari. Il primo è quello di tanti intellettuali: «Voi politici gialloverdi siete ignoranti e incolti, se aveste studiato o leggeste di più, allora capireste». Se anche fosse vero (non ho statistiche sottomano), il basso livello di istruzione sarebbe irrilevante. Il 31 per cento degli italiani ritiene l' immigrazione il problema principale del paese, una percentuale inferiore solo a Malta: i politici gialloverdi interpretano (esasperandole, ovviamente) le paure e le preoccupazioni di tanti italiani. È solo razzismo? C'è anche quello, e tanto: ma da solo non basta a spiegare il malessere. Si può scegliere di ignorarlo sprezzantemente, o di proporre soluzioni. La sinistra ha scelto la prima strada. Qui si innesta il secondo argomento: «L'Italia ha pochi immigrati rispetto agli altri paesi europei, e i dati che circolate e che cavalcate sono profondamente sbagliati; quindi il problema non esiste». Ma le percentuali da sole non dicono tutto. A differenza di tanti altri paesi europei abituati da secoli al multiculturalismo e alla multietnicità, l'Italia è stata colta di sorpresa da un fenomeno cui non era abituata, e che si è innestato su due decenni di alta disoccupazione e bassa crescita, due condizioni che rendono l' immigrazione un fenomeno esplosivo. Armata del proprio senso di superiorità morale, la sinistra ha dunque deciso di non proporre niente di concreto. Pensa di risolvere tutto, e con eleganza, con il terzo argomento: «Aiutiamoli a casa loro» (uno slogan condiviso con i grillini, in verità). Basta un calcolo spannometrico senza pretese per mostrare quanto sia irrealistica questa soluzione. Il reddito medio annuo di un abitante dell'Africa sub-sahariana è di 1600 dollari, un dodicesimo del reddito medio di un europeo occidentale (espressa in dollari la differenza è molto maggiore, ma un dollaro in Africa acquista più beni e servizi di un dollaro in Europa). Attualmente l'Africa riceve 50 miliardi di dollari di aiuti ufficiali l' anno, circa 40 dollari pro capite (un dollaro vale circa quanto un euro). Per aumentare il reddito medio di un quarto, cioè di 400 dollari, il mondo dovrebbe dunque contribuire dieci volte l'ammontare attuale, oltre 500 miliardi ogni anno e un quarto del Pil africano. Per un confronto, tra il 1948 e il 1951 il piano Marshall contribuì circa il 3 per cento del Pil dei paesi Europei riceventi: ai prezzi attuali sarebbero al massimo 200 miliardi. L'Europa contribuisce circa i due terzi degli aiuti totali all' Africa; mantenendo le proporzioni attuali, diventerebbero 350 miliardi. In base al Pil, l' Italia dovrebbe contribuire 35 miliardi, cinque volte la cifra stanziata per il reddito di cittadinanza. Oggi contribuisce meno di un centesimo di questa cifra, 283 milioni. Ma se anche questo aumento pazzesco degli aiuti all' Africa dovesse accadere, ciò non fermerebbe i flussi migratori, ma li aumenterebbe: se si rischia la vita con un reddito medio di 1600 dollari per raggiungere un continente che ha un reddito medio dodici volte superiore, si rischia la vita anche con un reddito medio di 2000 dollari. I soldi ricevuti saranno usati per pagare più viaggi. Inoltre, un così enorme aumento delle risorse disponibili scatenerebbe la guerra civile in tutta l' Africa per accaparrarsi il tesoro, e migrazioni bibliche di conseguenza. È noto che molti paesi africani soffrono della "maledizione delle risorse naturali": la scoperta di giacimenti di petrolio o di minerali preziosi spesso scatena guerre civili, in alcuni casi decennali, che provocano migliaia di morti e di rifugiati, e una diminuzione del reddito medio. Si pensi al petrolio in Nigeria o in Sudan e Sud Sudan, o ai diamanti in Sierra Leone e tanti altri paesi africani. E sarebbero tutte noccioline di fronte a un piano Marshall da 400 miliardi l'anno. La sinistra può continuare a bearsi del proprio buonismo e della propria convinzione di essere culturalmente e moralmente superiore all' ondata gialloverde. Oppure può cominciare a fare proposte concrete, realizzabili, rilevanti per risolvere i problemi di tanti italiani (e non) senza voce e senza mezzi economici o culturali, che vivono i tanti risvolti della immigrazione ogni giorno sulla propria pelle. E per evitare che si affidino sempre più a delle forze politiche che, come mostra Claudio Gatti nel suo libro I demoni di Salvini , non rifuggono da legami, anche nei loro vertici, con nuclei neonazisti.
TRA LERNER E TRAVAGLIO NON METTERE CAROLA.
Gad Lerner per “la Repubblica” il 3 luglio 2019. #FreeCarola! C' è un giudice ad Agrigento. Anzi, una donna giudice per le indagini preliminari (da tre anni la componente femminile è maggioritaria nella magistratura italiana): si chiama Alessandra Vella. Ha dato prova di autonomia e impermeabilità alle correnti furibonde sobillate nell' opinione pubblica da un potere esecutivo che, senza averne diritto, invocava la galera per la comandante della Sea-Watch 3. Alessandra Vella ci ha ricordato che la democrazia italiana si fonda ancora, per fortuna, sulla divisione costituzionale dei poteri, con ciò restituendo al nostro Paese un' onorabilità che rischiava di perdere di fronte ai suoi partner europei. Del resto anche l' Europa è donna, da oggi, più di ieri. Vorrà pur dire qualcosa. La gip non si è limitata a smantellare l' inverosimile versione dell' approdo a Lampedusa, secondo cui - non si sa bene per quale pulsione masochistica - Carola Rackete avrebbe volontariamente cercato di speronare e affondare la motovedetta della GdF, con l' intenzione di nuocere ai cinque militari a bordo. Di più, essa ha riconosciuto che fino allo stremo delle forze la giovane comandante è stata coerente all' adempimento di un dovere: salvare delle vite umane, dei naufraghi che aveva raccolto in mezzo al mare e che molto probabilmente, senza il suo intervento, sarebbero affogati. Poche ore prima il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio - già oggetto di un minaccioso soliloquio via Facebook di Salvini - aveva chiarito che non esiste alcuna prova di legami fra le Ong del soccorso in mare e gli scafisti. Altro che "taxi del mare". Infine, la sentenza che ha rimesso in libertà Carola Rackete, in attesa che l' indagine giudiziaria segua il suo corso, ha ribadito che secondo le convenzioni del diritto del mare Lampedusa era il porto sicuro d' approdo più vicino. Non certo la Libia, dove i migranti erano stati illegalmente detenuti, né la Tunisia che non applica le norme internazionali dell' asilo politico. Nessuna rodomontesca invettiva del ministro Salvini può mascherare, stavolta, la sua completa disfatta politica. Il suo vocabolario zeppo di parolacce (la più in voga del momento è: «Mi sono rotto le palle») affoga nel ridicolo. A poco gli serve coniare nuovi epiteti: dopo "sbruffoncella", ieri è toccato a "la ricca fuorilegge", come se Carola Rackete avesse agito a tutela di chissà quale interesse materiale. Perfino l' ultima sua promessa vendicativa, il decreto di espulsione dal territorio nazionale, dovrà fare i conti con le normative che regolano il corso della giustizia ordinaria. Come un disco rotto, dopo la sentenza, visibilmente alterato, nonostante il sorriso d' ordinanza, Salvini ha ripetuto che anche la gip Alessandra Vella «magari si sarà bevuta un bicchiere di vino» con l' imputata e che dovrebbe levarsi la toga per fare politica con la sinistra. Un' ossessione, la sua, contro lo stato di diritto che il successo elettorale lo induce a vivere come una prigione. La prigione che lui voleva infliggere a una donna libera e coraggiosa, la cui scelta di disobbedienza civile è risultata coincidere con il dettato della legge. A seguire, le patetiche ironie di Salvini sui «professoroni» e sui «soloni» da cui mai e poi mai prenderebbe lezioni (viva l' ignoranza), si sono estese fino a colpire - udite, udite - i «leaderini europei che pensano di poterci trattare come una colonia». Sta parlando di Merkel e Macron, il mitomane. Che non si rende conto di come gli si rivolti contro, stavolta, il ritornello de «la pacchia è finita». C' è solo da augurarsi che la pacchia finisca presto per lui, perché è senz' altro vero che «l' Italia ha rialzato la testa». Ma ieri ad Agrigento l' ha rialzata contro Salvini, finto patriota, riabilitando un' idea di giustizia che mette la salvezza delle vite umane, non importa di quale nazionalità, in cima ai nostri valori.
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 3 luglio 2019. Per il decimo compleanno del Fatto, abbiamo iniziato un giro d' Italia che ci ha portati, come prima tappa, in Sardegna. Ad Alghero e a Cagliari. Due incontri molto partecipati con i nostri lettori e abbonati, quelli che compiono 10 anni con noi e quelli nuovi. Abbiamo invertito l' ordine tradizionale del dibattito: prima le domande del pubblico, poi le nostre risposte. Molte domande riguardavano la SeaWatch-3 e la capitana Carola Rackete. A spanne, anche alla luce delle lettere che riceviamo, possiamo dire che la comunità del Fatto si divide a metà. Una parte, più attenta al lato umano, simpatizza e solidarizza con questa donna coraggiosa e generosa, che potrebbe fare la bella vita e invece si batte per i suoi ideali, recupera migranti da barconi pericolanti in acque libiche e li porta in Italia (anziché negli altri porti sicuri più vicini) per creare l' ennesimo incidente col nemico Matteo Salvini, violando dichiaratamente una serie di leggi, regole e ordini, ma rivendicando la sua disobbedienza civile e accollandosene le conseguenze senza fuggire né piagnucolare (diversamente da Salvini, scappato dal suo processo con l' immunità ministeriale votata anche da lui). L' altra parte, più sensibile alla legalità, non accetta che l' Italia resti il capro espiatorio dei ricatti libici e del menefreghismo europeo (con la beffa delle lezioncine di accoglienza da "partner" egoisti e spietati), teme che il ritorno delle Ong nel Mediterraneo provochi un altro boom di partenze, morti e sbarchi (come fino a due anni fa, prima che Minniti mettesse un po' d' ordine in quella jungla d' acqua), distingue fra l' atto umanitario iniziale e le azioni illegali successive della Rackete, solidarizza coi finanzieri che hanno rischiato la pelle per l' attracco spericolato della capitana, resta incredula dinanzi all' avallo acritico offerto da alcuni parlamentari Pd&C., teme che la Sea Watch abbia regalato altri voti alla Lega e si rimette al giudizio della magistratura. Quasi tutti apprezzano il tentativo del Fatto di ragionare e distinguere, senza intrupparsi nelle opposte tifoserie della curva Sud della Capitana e della curva Sud del Capitano. Ora che la crisi è chiusa, la ricostruzione dei fatti deve prevalere sulle emozioni di quei 17 giorni convulsi. Partendo dalle regole dello Stato di diritto - Costituzione, Codice penale e Codice della navigazione - e da un dato incontestabile: gran parte delle simpatie Carola se l' è conquistata dichiarando la sua disobbedienza civile e dicendosi pronta a subirne le conseguenze. Ora che le subisce, è assurdo e anche un po' ridicolo scandalizzarsene. E gli appelli e i diktat lanciati da cancellerie straniere, politici e firmaioli nostrani perché la capitana venga "liberata" e assolta non hanno alcun senso (al pari dei titoli tragicomici, tipo quello di Repubblica su "Le prigioni di Carola", manco fosse Silvio Pellico ai Piombi e allo Spielberg, anziché un' indagata ai domiciliari in un alloggio di Lampedusa). Così come le sparate di Salvini&C. che la vorrebbero "in galera" o condannata a "pene esemplari". In Italia, per Costituzione, la magistratura è "indipendente da ogni altro potere", che dunque non prende ordini né dalla Germania, né dalla Francia, né da Salvini, né dalle opposizioni di sinistra, né da scrittori, intellettuali e artisti vari; e "l' azione penale è obbligatoria" su ogni notizia di reato. Ora, di notizie di reato la Procura di Agrigento ne ha raccolte parecchie (resistenza a nave da guerra, disobbedienza al divieto di sbarco e tentato naufragio): infatti ha arrestato Carola in flagranza, sia pur con la misura cautelare attenuata dei domiciliari. I salviniani decreti Sicurezza non c' entrano nulla con i reati contestati (esistono dalla notte dei tempi in ogni ordinamento democratico) e il governo non ha avuto alcun ruolo nella decisione del pm. Poi la parola è passata al gip, che ha interrogato l' indagata, ha sentito i suoi avvocati che chiedevano la revoca di ogni misura cautelare e i pm che ne invocavano una ancor più blanda (il divieto di dimora). Alla fine ha deciso per la scarcerazione tout court, escludendo alcuni reati e scriminandone altri per motivi umanitari. Ma l' indagine prosegue e forse seguirà un processo. Il fatto che Carola sia libera non significa né che sia innocente né che sia colpevole: solo che il pm ravvisava gravi indizi di colpevolezza e almeno uno dei tre pericoli che giustificano una restrizione della libertà in fase d' indagine (fuga, inquinamento delle prove, ripetizione del reato), mentre il gip ha deciso diversamente. Il pm che ha arrestato Carola è lo stesso Luigi Patronaggio che voleva processare Salvini per sequestro di persona. Non proprio una toga verde, anzi un idolo dei firmaioli pro-Ong e anti-governo. Poi è bastato che, in base a elementi piuttosto evidenti, smentisse Carola sullo stato di necessità del suo sbarco proibito (i migranti erano in buona salute e assistiti dai medici: quelli a rischio il governo li aveva già fatti sbarcare da tempo) e sull' involontarietà dello speronamento della piccola motovedetta della Gdf (i filmati e le tecniche di manovra dicono l' opposto), per trasformarlo in un nemico del popolo e in una voce da tacitare. Il noto faro di legalità Adriano Sofri e altri giuristi per caso hanno persino sostenuto che, al molo di Lampedusa, fuori posto non era la SeaWatch illegalmente sbarcata, bensì la motovedetta dei militari che per legge hanno l' obbligo di impedire l' attracco a imbarcazioni non autorizzate intimando l' alt e che, per compiere il proprio dovere, hanno rischiato di fare una brutta fine. Poi è bastato che ieri Patronaggio muovesse alcune critiche al dl Sicurezza per tornare l' eroe della Curva Sud della Capitana e il nemico della Curva Sud del Capitano. Ma cos' è, il Bar Sport?
Le giravolte di Travaglio maestrino dalla penna rossa. Il direttore del «Fatto» fa il censore con gli altri Ma si autosmentisce, dallo scandalo Csm a Carola. Paolo Bracalini, Venerdì 05/07/2019, su Il Giornale. Non sono tempi facili per Travaglio. Il mestiere era decisamente più semplice quando c'erano i magistrati difensori della Costituzione e della democrazia da una parte, e dall'altra Berlusconi, lì si che ci si divertiva. Ora la situazione si è ingarbugliata. Ci sono i magistrati accusati di corruzione da altri magistrati, e che magistrati, quelli dell'organo di autogoverno delle toghe. Poi mica uno a caso, ma proprio il consigliere del Csm Luca Palamara che faceva il presidente dell'Anm negli anni ruggenti della caccia giudiziaria all'allora premier Berlusconi, con cui Palamara polemizzò più volte per difendere «l'indipendenza della magistratura», così disse, da «attacchi di una gravità inaudita», così disse, fatti per «favorire l'illegalità», così disse il pm indagato, in perfetto stile Travaglio. E non basta, questo Palamara che ti fa? Va a trafficare proprio con l'esponente più trafficone del giglio magico renziano, Luca Lotti, bersaglio fisso proprio del Fatto. Davvero un colpo basso da Palamara. Ma non è il primo pm che gli tira il pacco. L'altro è stato Antonio Ingroia, sostenuto e pure votato da Travaglio, finito indagato e - pare - ubriaco all'aeroporto di Parigi. L'intervista in cui Ingroia negava la sbronza e sosteneva che fosse tutto un complotto («Fake news uscita proprio il giorno dell'anniversario della sentenza della Trattativa»), non a caso è uscita proprio sul quotidiano da lui diretto. Ma non è che il problema sia la giustizia italiana, è che «oggi i magistrati non sono più quelli liberi e indipendenti del 1992 di Mani Pulite» ha spiegato in tv. Mentre ogni giorno bacchetta tutti gli altri giornali, su questo e altro.
Ma a complicargli la vita c'è pure Carola. Dal direttore di un giornale in area Vauro e Gino Strada, ti aspetti la difesa della Sea Watch, che poi in questo caso significherebbe anche dare ragione al giudice che ha annullato l'arresto, quindi fare filotto e pallino. E invece no, finisce che Travaglio si ritrova dalla stessa parte di Salvini che accusa i magistrati di emettere «sentenze politiche». Ma com'è possibile, Travaglio contro le toghe politicizzate? È un dilemma che solo il rigore del giornalista senza compromessi può risolvere, anche a costo di prendere atto dello spaesamento dei propri lettori: «A spanne, anche alla luce delle lettere che riceviamo, possiamo dire che la comunità del Fatto si divide a metà. Una parte solidarizza con questa donna coraggiosa e generosa che recupera migranti da barconi pericolanti in acque libiche e li porta in Italia. L'altra parte, più sensibile alla legalità, non accetta che l'Italia resti il capro espiatorio dei ricatti libici e del menefreghismo europeo» scrive Travaglio, che - codice alla mano - propende per la seconda parte.
Certo non per difendere a tutti i costi il governo Conte, altra accusa che ha dovuto subire quella di essere troppo filo-M5s, questione emersa anche in una assemblea dei giornalisti del Fatto («Non parlerò più con la redazione, mi rapporterò soltanto con i vicedirettori» sbottò in quell'occasione Travaglio secondo il Foglio). Di certo è rimasto l'unico a difendere la terrificante amministrazione di Virginia Raggi, sotto attacco dei «giornaloni» che, poverina, vogliono «dipingerla come una delinquente, una corrotta, una fascista mascherata, una sgualdrina». Si è anche offeso per conto terzi, per una copertina dell'Espresso che ritraeva la Raggi con le rughe. «Tutti zitti: contro la Raggi si può tutto» si è indignato. Proprio lui, l'inventore dei nomignoli per sfottere chiunque. Per un giornalismo super partes si fa questo e altro.
Lettera di Maria Giovanna Maglie a Dagospia il 3 luglio 2019. Caro Dago, eh no che non ci sto a passare per disumana e ora anche per fessa, viste le decisioni della ineffabile magistrato che non ravvisa nel comportamento di Carola Rackete alcun reato, e loro sì che applicano la legge, nessuna ombra di uso politico della giustizia li sfiora. Non ci sto a sentire che c'è addirittura allarme rosso, e Salvini rischia di alimentare il clima di odio in Italia. Parola dell'Associazione Nazionale magistrati, rappresentanti di quella categoria che si riuniva con politici del PD per decidere posti e poltrone, in un giro di toghe retribuite o castigate, di processi da tenere bassi o da esaltare per rovinare gli avversari politici, che un momento di silenzio per vergogna non lo osserva neanche a morire. Non ci sto a sentire che lui, Salvini, e' cattivo, non la gip che ha deciso che tentare di ammazzare dei finanzieri in servizio non è reato, figurarsi tentata strage, alimentando così qualunque tipo di clima di odio e aggressione futura verso qualunque iniziativa e presenza di forze dell'ordine. E non ci sto a sentire in televisione, era da Nicola Porro se non sbaglio, qualcuno di quelli veramente buoni e umani, non disumani e cattivi come me, che assomiglio o imito per piaggeria Salvini, sostenere che è colpa della motovedetta della guardia di Finanza, che si è messa in mezzo invece di lasciar passare la capitana mia capitana, in missione per conto di Dio. Non ci sto ad apprendere che si è scandalizzata doverosamente anche l'Anpi, associazione zombie di partigiani che dovrebbero aver terminato il lavoro nel 1945, e che invece ci affliggono 74 anni dopo, e intervengono non si capisce a che titolo nella politica italiana stabilendo chi è buono e chi è cattivo, naturalmente a seconda della vicinanza politica alla sinistra. Cattivo, ammoniscono, Salvini, che "compie un attacco eversivo alla magistratura"; pessimo il professor Marco Gervasoni, del quale si chiede la testa per aver scritto che, una volta svuotata di tutte gli esseri viventi, la Sea Watch utilmente si potrebbe affondare, un bel bum bum ed è finita la iacovella dell' avanti indietro con le coste libiche, puntando dritti solo ed esclusivamente verso l'Italia. Buono invece, e già ricoperto di solidarietà partigiana, il sindaco PD di Bibbiano, Reggio Emilia, dove sta venendo fuori una terrificante storia di bambini manipolati e sottratti alle famiglie naturali e legittime per essere ceduti ad in un giro micidiale di affari, favori, complicità sociali. Il Comune era il vertice, sia pur solo burocratico, della banda di medici, psicologi, assistenti sociali tutti ideologicamente motivati oltre che spinti dal portafogli, ed è difficile credere il sindaco nulla sapesse, non l'avesse capito in tanti anni e con tante nefandezze compiute e tanti bambini torturati. Staremo a vedere, ma l'Anpi già deciso che lui è buono, e dal PD quartier generale silenzio di tomba. Stai a guardare il capello, a rispondere di Reggio Emilia o delle truffe della Regione Umbria o di Lotti e Csm, una spiegazione si troverà, intanto tutti sulla prossima barca. Io non ci sto se la vulgata è che dalla barca è scesa la buona per definizione, una che ha invece violato tutte le leggi che le riusciva di violare, italiane, europee, del mare, ed anche quelle umane, visto che pur di arrivare e sbarcare in Italia i suoi migranti li ha lasciati friggere su un ponte bollente in mezzo al Mediterraneo per due settimane invece di sbarcarli in Tunisia. Non ci sto, se nessuno si è mai occupato del caso di Francesca Peirotti; lei la chiamiamo con nome e cognome, perché non è di casa, non le vogliamo tanto bene. 31 anni, studi internazionali, legami con Ong, è stata condannata a sei mesi di prigione dai giudici francesi per avere introdotto dalla frontiera di Ventimiglia in Francia alcuni clandestini, cioe' lo stesso reato di cui è accusata Carola. Le due ragazze infatti hanno la stessa idea del mondo, la certezza che le leggi sono un optional per loro, e che certe volte è un dovere morale infrangerle, E chi se ne frega se tanto l'Italia quanto la Francia sono a tutti gli effetti Paesi democratici. Loro si comportano come se fossero in Corea del nord, tanto di quello che succederebbe se fossero in Corea del Nord per davvero a fare le loro bullate, non hanno la minima idea. Però Francesca Peirotti non ha portato migranti sul territorio europeo, ci stavano già, non ha aggredito o speronato nessuna forza dell'ordine per aiutarli. Ma e' italiana, il reato lo ha commesso In Francia. Ergo per lei nessuno si è mobilitato. Nessun Sofri ha perso la brocca insultando Salvini, nessun piddino ha trovato barche su cui salire, nessuna lucrosa raccolta di fondi, nessuna vocazione a vanvera di Antigone, nessun ricordo di Schindler's list, niente Gino Strada che evoca Hitler, niente, nemmeno per notare la piccola contraddizione per la quale Le President Micron trovi degno a casa sua quel che trova indegno in Italia. A me viene in mente che in Europa tutti zitti perché Francesca è italiana, e non ci sto. Dicono: zitta tu che sei sovranista. Certo che sono sovranista, è legittima difesa. Io non ci sto perché la conosco bene la sinistra italiana e del mondo, quella tradizionale dalla dialettica macha violenta e le nuove versioni metoo e politically correct, ma sempre lo stesso veleno è. L'ho frequentata, e sono scappata quando sono diventata grande e ho capito quale miseria si nasconde dietro la superiorità morale ostentata. So quale mondo ha prodotto Bibbiano e i bambini torturati e sottratti ai genitori in nome di un'educazione più evoluta. Io non ci sto a sentire Carola Rackete dipinta come un'eroina della illegalità morale contro Matteo Salvini bullo della legalità belluina, quando è soltanto una ragazza arrogante e confusa, culturalmente munita solo di autofobia, anti occidentalismo, culto del multiculturalismo, contro un politico che ascolta le sofferenze e la richiesta del popolo e che si espone con coraggio per affermare la legalità. Io non ci sto, non ci sono mai stata, che il moralismo si sostituisca a una concezione razionale della politica. Se Carola si vergogna di essere bianca e occidentale e di essere nata in un Paese del primo mondo, se si sente in colpa, io sono invece orgogliosa e sono molto arrabbiata, parafrasando Oriana Fallaci, all'idea che qualche sventato che ci casca e più di un progetto politico demenziale, tentino di togliermi la forza di queste prerogative e di questa storia. Io non ci sto al racconto opaco di tv e giornali, ai commossi inviati con la lacrimuccia sul porto di Lampedusa, anche loro, i media, tutti intenti a raccontare il lato morale e politically correct, tutti a misurare il buono il cattivo, l'umano il disumano, mai preoccupati di capire dov'è l'italiano e l'antitaliano. Non sia mai, questo è fascismo. Io non ci sto naturalmente neanche alla barbarie degli insulti che alcuni esagitati e maleducati e incivili hanno rivolto alla Rackete nel momento dello sbarco con arresto, con tanto di auguri di stupro e misurazione dei falli dei migranti che hanno ispirato la prosa di Saviano in una originalissima intemerata sull'invidia Italica del pene. Però mi aspetto dagli indignati speciali altrettanto orrore per coloro che hanno ricoperto di insulti Giorgia Meloni che è tanto cattiva visto che ha proposto di affondare le navi delle ong una volta sbarcati i migranti, così non potranno reiterare il reato. «Ti devono sbranare i cani» è la frase più gentile rivoltale su Twitter e Facebook, insieme a «Puttana». «A quando il prossimo marito». «Zoccola». «Topo di fogna». Siccome per una donna di destra va bene tutto, anche gli insulti più feroci, e gli intellettuali di sinistra in questo caso si danno compiaciuti di gomito, io non ci sto. Io non ci sto infine alla vulgata diffusa secondo la quale sono tutti i voti per Salvini e la Lega. Che più li attaccate, più gli date del fascista, più dite che dovremmo aprire i porti, essere buoni e accoglienti, come se la crisi economica già non mordesse gli italiani, più sostenete cavolate contro il sovranismo contrapposto al globalismo, come se il primo non fosse un'esigenza maturata naturalmente e il secondo un fallimento misurato mondialmente; che più negate che i migranti arrivano in Italia nell'indifferenza, nell'egoismo del resto d'Europa, che ci tratta come una pattumiera, soprattutto giovani uomini africani dotati di forte fede musulmana e di grande disprezzo per il mondo occidentale e cristiano, misogini, omofobi, destinati a non integrarsi, non trovare lavoro, a vagare sempre più disperati per il Paese, a diventare manovalanza per la criminalità, per la mafia nigeriana; insomma, che più negate tutto ciò da sinistra e più i media polarizzati nascondono la realtà, più la reazione popolare è forte e il consenso a un partito come la Lega aumenta. Questo è sicuramente vero e lo dimostrano i voti e i sondaggi, ma non è giusto, è un racconto falso e pericoloso della realtà. Non è giusto che gli italiani siano dipinti come dei rancorosi reazionari chiusi nelle loro case, rinserrati, spaventati di ciò che di buono verrebbe dal mondo, perché non è vero, come non è giusto dire che gli italiani non lavorano, che sono le cicale d'Europa, che meritano i richiami severi di quei vampiri che stanno a Bruxelles. Non è per reazione la loro scelta politica, non sono gli analfabeti funzionali del racconto di certi piddini, e non smettono di leggere e comprare giornali perché sono ignoranti e privi di interesse, è perché sanno che ci sono un sacco di bufale, e che è meglio internet e i social. Come è accaduto nel racconto di Carola e della Seawatch. Io non ci sto e sono certa di essere in foltissima compagnia, perciò insultatemi pure.
Sea-Watch, Salvini: "Decisione su Rackete vergognosa". Bonafede gli risponde: "Sentenze vanno rispettate". Scontro M5s-Lega sulla decisione della gip di Agrigento di rimettere in libertà la capitana Carola. Il ministro dell'Interno: "Nessuno mi toglie dalla testa che è una sentenza politica. Togliti la toga e candidati con la sinistra". Il Guardasigilli: "Non si dovrebbe arrivare ad attaccare il singolo magistrato". La Repubblica il 03 luglio 2019. È scontro fra M5s e Lega sulla scarcerazione da parte del gip di Agrigento Carola Rackete, la capitana della Sea-Watch arrestata dopo aver fatto sbarcare 40 migranti a Lampedusa. Se il ministro dell'Interno Matteo Salvini è tornato a criticare duramente la decisione del giudice, definendola "vergognosa", oggi è il Guardasigilli Alfonso Bonafede a rispondergli, mettendosi dalla parte della magistratura.
Salvini-Bonafede. "Una decisione vergognosa - ha detto questa mattina il capo del Viminale alla scuola di polizia di Nettuno - La scarcerazione mi provoca tanta rabbia e tanta vicinanza agli uomini e alla donne in divisa. Una scelta incredibile con motivazioni incredibili". E nel pomeriggio ha aggiunto: "Nessuno mi toglie dalla testa che quella di Agrigento è una sentenza politica". Togliti la toga e candidati con la sinistra" ha aggiunto il titolare del Viminale rivolgendosi al gip di Agrigento in diretta Facebook. E poi ha aggiunto: "Io non mollo, anche perché ci sono tanti giudici che vogliono applicare la legge e non ribaltarla. Io conto su di voi". "Io non entro nelle polemiche sulle sentenze - replica Bonafede - Il mio obiettivo è togliere la giustizia dal pantano della politica. Certo si può essere d'accordo o no però le sentenze vanno sempre rispettate. E vorrei dire che non necessariamente dietro una sentenza con cui non si è d'accordo c'è una connotazione politica". "Non faccio polemica con nessuno, tantomeno con Salvini con cui stiamo facendo un lavoro importante in materia di giustizia. - aggiunge nel pomeriggio il ministro - L'autonomia della magistratura è sancita dalla Costituzione. Si può essere d'accordo o meno su una sentenza, ma non si dovrebbe arrivare ad attaccare il singolo magistrato, dicendogli di togliersi la toga e candidarsi". Salvini però non molla la presa e continua a critcare tutto e tutti sulla vicenda della Sea Watch. Continua ad attaccare la magistratura e il gip di Agrigento per la sua decisione. Salvini però non molla la presa e continua a critciare tutto e tutti sulla vicenda della Sea Watch. "Andremo avanti così e sono convinto che ci sarà prima o poi anche un giudice perché il 99% dei giudici amministra la giustizia con obiettività e non con pregiudizi politici", dice il ministro dell'Interno". "Sono convinto - Salvini - che anche sul tema dell'immigrazione avremo la fortuna di imbatterci prima o poi in un giudice che applicherà le leggi e non le disattenderà perché in quel caso si toglie la toga e si candida col Pd e viene in Parlamento. Fino a prova contraria i giudici devono applicare la legge". "Quindi la vita di un finanziere vale meno della vita di un clandestino. È una bella responsabilità quella che questo giudice si è preso. Secondo me è follia - ha aggiunto Salvini - non è indipendenza della magistratura, ma follia".
I togati del Csm e l'Anm. Parole sulle quali intervengono i consiglieri togati del Csm, sottolineando che il titolare del Viminale e altri esponenti politici hanno fatto "commenti sprezzanti che trascendono in insulti che alimentano un clima di delegittimazione e odio nel confronti" della gip di Agrigento, "come si evince dal tenore dei numerosi post di minacce e insulti pubblicati sui social nelle ultime ore". Per questo "si impone l'esigenza dell'intervento del Csm a tutela dell'indipendenza e autonomia della giurisdizione". Anche l'Anm difende la gip di Agrigento e parla di "clima d'odio" alimentato dal ministro dell'Interno. "Ancora una volta - si legge in una nota della giunta - commenti sprezzanti verso una decisione giudiziaria, disancorati da qualsiasi riferimento ai suoi contenuti tecnico-giuridici, che rischiano di alimentare un clima di odio e di avversione, come dimostrato dai numerosi post contenenti insulti e minacce nei confronti del Gip di Agrigento pubblicati nelle ultime ore".
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Sea-Watch, Fratoianni (Leu): "Salvini rosica e vergognati". Il ministro: "Sporca operazione politica". Repubblica Tv il 3 luglio 2019. Il question time di Nicola Fratoianni sul caso Sea-Watch si trasforma in uno scontro violento tra il leader di Leu e il ministro dell'Interno e vicepremier leghista Matteo Salvini. Fratoianni chiede spiegazioni sulla manovra della guardia di finanza nei confronti della nave della Ong. Salvini ascolta, poi risponde: "Eccoli i veri colpevoli, i finanzieri... Che in maniera inaudita hanno tentato di difendere le leggi e i confini del paese...". Risate e applausi dai banchi della Lega. Poi, rivela: "Lo sbarco era stato autorizzato per la mattina dopo, per questo è inaccettabile la sporca battaglia politica fatta sulla pelle di 41 persone: una sporca battaglia politica, nè più nè meno". Controreplica di Fratoianni: "Non si preoccupi delle mie dirette social...". Arrivano applausi e fischi. I banchi leghisti sono pieni e rumorosi. "Vi capisco- li stuzzica Fratoianni - perché quando si rosica così tanto... Mettetevi l'anima in pace: avete subito una clamorosa sconfitta in nome dello stato di diritto, dell'umanità e della dignità. Vi dovete vergognare. Ogni volta che un ministro dell'interno commenta una sentenza fa un gesto eversivo, lei ministro si comporta in modo eversivo". Fratoianni infine mostra il disegno del figlio di 6 anni: c'è una barca e ci sono dei bambini che aiutano altri bambini. "Vede ministro - aggiunge il segretario di sinistra italiana - un ministro dovrebbe lavorare per togliere le paure, lei invece lavora ogni giorno per aumentare la paura in questo paese, si vergogni se ci riesce ancora".
«Non avere paura, ci sono io»: i migranti salvati nel disegno del figlio di Fratoianni per Salvini. Pubblicato giovedì, 04 luglio 2019 su Corriere.it. «Non avere paura, che ci sono io e ti tengo». È la frase che il figlio di Nicola Fratoianni, deputato e leader dimissionario di Sinistra italiana, ha fatto scrivere alla sua maestra su un disegno in cui un bambino viene ritratto assieme ad alcuni adulti a bordo di una barca in balia delle onde. Il disegno è stato fatto dal figlio di Fratoianni nel novembre scorso, in occasione della settimana dei diritti dei bambini. Un disegno evocativo, in particolare nel momento di massima tensione per il caso Sea watch, che il deputato di sinistra ha consegnato a Matteo Salvini al termine di un infuocato botta e risposta sulla questione migranti, accusandolo di essere «eversivo» e ricevendo come risposta il gesto dei «bacioni» usato spesso dal leader della Lega per ribattere a chi lo contesta. Aggiungendo poi: «Finché faccio il ministro dell’Interno in Italia entra chi ha il diritto di entrare, né uno in più né uno in meno». «Ho consegnato a Salvini un disegno di mio figlio di 6 anni — racconta Fratoianni —: ha disegnato una barca in mare con degli altri bambini e ha fatto scrivere dalla maestra “Non avere paura che ci sono io e ti tengo”. Salvini dovrebbe provare a costruire un Paese libero dalla paura. Ci è arrivato un bambino di 6 anni., ma non il ministro». Alla fine del suo intervento, Fratoianni ha consegnato il disegno sullo scranno di Salvini, che lo ha poi lasciato lì quando ha lasciato l’aula.
Fulvio Abbate per l'inkiesta l'1 luglio 2019. Alla fine, forte del proprio analfabetismo conseguito e testato sui social, ciò che potremmo chiamare la nuova plebe, scacciò dalla memoria l’antica, quella che in certe pitture barocche mostra soprattutto Napoli, la sua storia secolare tribolata, pronta a soffocare nel sangue le idee ordite da generosi nobili infatuati di rivoluzione, di più, dalle “élite”, disprezzate in quanto tali. Pensate al duca Gennaro Serra di Cassano nel 1799, poi al conte Carlo Pisacane nel 1857, la cui sciabola dimora adesso al Museo del Risorgimento, nel ventre del Vittoriano. Meglio ancora se portatrici – le immonde “élite” non certo la plebe, sia chiaro – di un pensiero ora illuministico ora proto-socialista. Dunque non era una prerogativa unica del mondo all’ombra del Vesuvio, forte dei Masaniello o Agostino ‘o Pazzo, per chi di quest’ultimo ha memoria, quel certo modus di reagire alla Vandea subculturale; il duca Gennaro, colpevole di sognare la repubblica, finirà decapitato, da allora il portone del palazzo di famiglia è rimasto doverosamente sbarrato in faccia alla plebe, monito a una coscienza mai raggiunta, calpestata. Uscendo dai sussidiari di storia per ficcarci nel greve reality post-berlusconiano odierno, va detto che la plebe remix appare sempre più un fenomeno metropolitano globale, pronto a mostrare innanzitutto il proprio rifiuto di ogni complessità culturale, fosse anche il semplice “carissimo amico” della democrazia, quasi che il nuovo soggetto prevalente abbia scelto di rispondere a ogni obiezione dialettica con un “E ‘sti cazzi?”. Miserie accompagnate da un repertorio di altre citazioni degno delle “più belle frasi di Osho”, il romanesco come lingua globale del qualunquistico cinismo, cioè ‘sti cazzi e ancora ‘sti cazzi in luogo, che so, del Michel Foucault dei “radical chic”. Scendendo nello specifico, si tratta di un soggetto sociale cresciuto nel grottino-tavernetta di un paese che da “terribilmente sporco”, suggeriva Pasolini, ha completato la propria transizione verso lo stato acefalo, e questo, così pensano i gretti, ritenendo che le conquiste civili siano una profanazione quasi anale dell’orgoglio patrio, un’imposizione giunta dai “comunisti”, dai “sinistri”, dalle “zecche rosse”. Propellente per un Sessantotto della destra che strega la nuova plebe con le sirene spiegate della Lega di Salvini e del M5S di Luigi Di Maio, forze politiche che, in verità, mostrano un effetto-Niagara, cioè stura water, circa un sentire ultimo diffuso e profondo razzista che stava solo in sonno. Questa nuova irresistibile plebe, assente a ogni coscienza individuale, segnata da un riflesso paranoide, come si evince dalla prosa sui social, è assimilabile al branco di nutrie, all’istinto gregario, posseduto dalla narrazione e dalla propaganda populista, mostrando così un background bruciato da decenni di esposizione alla televisione commerciale. Per intenderci, prima di concedersi quasi eroticamente al fascino casual di Salvini, gli stessi soggetti sono rimasti stregati dal fard di Berlusconi. Occorre pensare che decenni di “Uomini e donne” e “Paperissima” e “Ciao Darwin” abbiano lasciato lesioni permanenti sull’encefalo di un paese sostanzialmente illetterato. È accaduto soprattutto a detrimento d’ogni sapere che non corrispondesse al gretto egoismo piccolo-borghese. Si sappia infatti che la nuova plebe ama innanzitutto i propri luoghi comuni, così tanto che quasi quasi vorrebbe recintarli, di più, farli custodire da un bel muro tempestato di punte di lancia, di modo che nessun altro, peggio se straniero, possa giungere, presentarsi - toc toc - magari per bisogno materiale; la nuova plebe infatti ha rimosso, in assenza d’ogni coscienza civile, la memoria di un paese già con le pezze al culo, gli antenati costretti a emigrare e talvolta addirittura pronti a farsi mafia fuori dai propri confini, la plebe remix si sente rassicurata da chi garantisce di innalzare staccionate, come quel leghista che promette un muro di 243 km che corra sul confine est d'Italia: «È un’ipotesi che si sta valutando col Viminale», proclama il governatore del Friuli-Venezia, Massimiliano Fedriga, appunto. E questo «Perché noi dobbiamo dare sicurezza ai nostri cittadini. Tranquillità nelle case, decoro nelle pubbliche vie. Ladri, delinquenti di piccolo o grande calibro non ne vogliamo». Avrà costui coscienza che il racconto dell’umanità è storia di esodi e migrazioni? Con Fedriga dobbiamo immaginare un cervello unicamente abitato da sistemi d’allarme, porte corazzate, bloster, taser e dal “suo” muro? Servirebbe a qualcosa ricordargli che tra i versi di Prévert ce n’è uno, definitivo, che così inquadra certa umana meschinità: «Quelli che in sogno piantano cocci di bottiglia sulla grande muraglia della Cina». E ancora, ci scommetto che nella mente dei nostri dirimpettai razzisti in nome dell’orgoglio identitario, c’è il proposito ulteriore di una narrazione che serva a trasformare il nostro quotidiano in film poliziottesco permanente, con il Capitano, il commissario, l’ispettore, il questore, il questurino, il piantone, un Salvini, pronto a vestire tutti questi ruoli, pronto a ordinare a gazzelle e cellulari di sguinzagliarsi, così come alle motovedette, le pilotine, i cacciatorpediniere laggiù in mare, magari in attesa di fare finalmente fuoco sui barconi, sugli “stranieri”, sulle ragazze con i dread, figlie “viziate” delle solite infami “élite”. Se trent’anni fa, a Berlino, si festeggiava la cancellazione di un confine, adesso, nel sentire, di più, in pugno ai leghisti e ai loro alleati grillini sembra di vedere pronta la cazzuola, micragnosa idea di libertà e di controllo, nella convinzione che, sebbene meschini nella loro bassezza morale, i nostri cognati, perfino i peggiori, sono da preferire ai poveri, neri di pelle, che vengono verso di noi con i barconi, posto che la miseria va ritenuta un crimine in sé, non per nulla la nuova plebe riporta in vita tra una pizzata e l’altra un repertorio di barzellette dove brilla Bongo, “re del Bongo, e “nel culo te lo pongo” (sic), così nei conciliaboli da Ku Klux Klan sezione di Formello o di Trigoria o di Appiano Gentile, o perfino di Lampedusa. Nella convinzione che le semplici aste dalla democrazia siano roba superata - l’ha detto anche Putin, no? – dunque resta da presidiare il mondo, i quartieri, i bar sotto casa con occhio torvo, forte com’è d’avere riconosciuto il nemico nei “sinistri”, negli “intellettualoidi”, i “professorini”, dove Salvini, con cantilena minacciosa, rosario della grettezza securitaria, è il loro Orso Yoghi; neppure Maurizio Merli, nei panni del commissario Tanzi dei succitati poliziotteschi, aveva ottenuto tanta fidelizzazione, pensate. Alla fine, in assenza di opposizioni, posto che il Pd mostra nient’altro che una pietosa afasia, se non talvolta perfino contiguità con il pensiero da mattinale di questura, proprio alle vituperate “élite” è spettata la soddisfazione della risposta individuale, singola, giunta direttamente dal cuore, risposte da “sinistri”, e tuttavia finalmente reattive rispetto alla tracotanza del ministro degli Interni, risposte addirittura aspre che replicano all’insulto con la medesima sostanza, e così frutto di doveroso amor proprio, necessario narcisismo politico ritrovato di fronte alla sensazione, appunto, di una sinistra assente, vedi Adriano Sofri, vedi Oliviero Toscani, vedi Chef Rubio, vedi Saviano, vedi altri che l’arroganza di Salvini ha convinto ad abbandonare ogni galateo per salire sulle barricate. Alla fine, hanno dovuto provvedere le “élite”, di più, proprio duca o il conte a ristabilire una chiarezza resistenziale, dichiarando, come avrebbe detto qualcuno, cioè un “professorone”, guerra all’ovvio e all’ottuso.
Fulvio Abbate per Huffingtonpost.it l'8 luglio 2019. “Bacioni” è un saluto, meglio, un congedo stizzito, figlio della secolarizzazione pop del piccino linguaggio politico che presume familiarità da dirimpettai in slip, dunque con il resto del mondo, implicito insulto travestito da falsa cortesia, possibilmente rivolto all’altro, al “radical chic”, al “sinistro”, al “professorone”, al renitente alla propaganda sovranista. Fiori, frutti, animali del condominio dei social. Bacioni e ancora bacioni, e poco importa se lo stile è da fureria. Nessun ministro finora si era espresso in modo così informale, di più, sbracato, postura da tramezzino, la mano a grattarsi il pacco, il ghigno da implicito ’stocazzo. Bacioni perfino come velata minaccia, volendo. Irrilevante agli occhi di chi contempla questo saluto che nei molti governi trascorsi, a maggior ragione rivestendo cariche pubbliche apicali, e ciò sia detto perfino al di là del più ampio discorso sull’irritualità lessicale del personaggio Salvini, ministro dell’Interno, vicepremier del “Governo del cambiamento”, e forse addirittura aspirante gauleiter d’Italia, del tutto irrilevante che nessuna figura delle istituzioni lo avesse fatto prima, si sia congedato con quei bacioni sguaiati. Bacioni e ancora bacioni, giusto. A prima vista un’espressione che sembra consegnare calore, simpatia e familiarità al destinatario d’ogni smack, le distanze abolite, un inutile peso, da cancellare come tutti i corpi intermedi, bacioni a conferma della deriva plebiscitaria, quindi vigilare e baciare, poi verrà anche il punire, c’è tempo, tranquilli, intanto però amore a tutti. Forse, a pensarci bene, dato il faccione in primo piano di chi quei bacioni invia, potrebbe perfino trattarsi di un gesto intimidatorio, prima i bacioni poi arriverà anche, che so, la testa di cavallo ficcata sotto le lenzuola, come nel “Padrino”. Bacioni. Dove, in verità, si legge scherno compiaciuto verso l’altro, antipatia certificata da La Bestia, bacioni nel senso di “… tranquillo, che tanto sappiamo dove abiti, vai, vai pure…” Bacioni come quel “dormi preoccupato” proprio del nonnismo da caserma, bacioni come gavettone che giunge in faccia direttamente dal Viminale. Bacioni che sempre, nella pronuncia salviniana, si accompagna a un sorriso studiatamente, teatralmente ottuso, orgoglio di chi lo ostenta, di chi porge l’offerta, il sorriso del ministro, la smorfia che si fa ghigno, forse “ghiglia”, direbbe Totò in un noto sketch. Bacioni amplificati dall’effetto fisheyes del primo piano, no, proprio occhio di pesce, i cellulari messi a disposizione dall’attendente alla comunicazione, e anche quest’altro, l’addetto a La Bestia, con ghigno e frangetta. Proprio ieri, un amico che sa di storia repubblicana, commentando l’ennesima schermaglia da social di Salvini, assodata l’evidenza di una guerra civile in atto tra l’ottuso sovranista e chi cerca invece di salvare le capre e i cavoli della dialettica, ha evocato nostalgia per la grisaglia e gli occhiali in cello-metallo di un remoto ministro democristiano, Franco Restivo, al Viminale in anni cruciali, fra 1968 e 1972. Quell’altro in grisaglia mai lo avresti immaginato, metti, nei giorni di Avola o di Battipaglia o di Valle Giulia, rivolto ai manifestanti, sprezzante, con quei bacioni. Bacioni ovvero un’espressione che porta in mente perfino certe cartoline spedite da luoghi di vacanza con baretto e ghiacciolo – Lignano Sabbiadoro, Gargano o piuttosto Riccione - cartoline dove le dune sono culi di procaci ragazze, cartoline che pretendono complicità, e intanto strizzano l’occhio proprio in nome dei succitati bacioni. Quando i pulcini lividi, stipati sempre lì nello stanzino della Bestia, suggeriscono al principale, al padrone, al Capitano di portare un bacione al riluttante, non puoi fare a meno di intuire tanfo di camerata, puzza di camera di sicurezza o di porta carraia di questura, l’eau sauvage sovranista, così almeno nella strategia delle effusioni leghiste. Bacioni a tutti, bacioni dagli abissi, dalle grotte, dai pozzi artesiani, dai tombini del linguaggio solo in apparenza “easy”, cose che neppure Cossiga, per dire un altro, lui sì, prodigio di irritualità, anch’egli già al Viminale, ebbe mai modo di frequentare, spingendosi sul ciglio della bassezza espressiva, scherno da rivolgere alla piazza, ai cortei. Bacioni, perfetta espressione, ancora una volta, da cognati, pronti ad ammiccare, la mano sempre lì che smucina, quando sembrano dire all’amico, al compare, “… oh, sapessi i cazzi amari che ti aspettano…” Bacioni, espressione che pronunciata da nostro cognato Salvini assume addirittura tratti kafkiani. Bacioni, tranquilli, stiamo per venire a prendervi tutti, bacioni, sì, bacioni, ed è quasi amore, di più, è esattamente un’intimidazione. Eppure qualcuno ora dirà che proprio grazie a quei bacioni la politica ha conquistato finalmente un volto a portata di mano, anzi, di portineria, amato tanfo di soffritto di cipolla sovrana, di elastico allentato della felpa, bacioni come quando, nottetempo, il rimandato va a forzare il citofono dell’infame prof, quindi, a debita distanza, si gode la scena di quest’ultimo costretto a scendere in pigiama per liberare il pulsante dallo stuzzicadenti che lo faceva suonare di continuo. Anche lì, bacioni, “professorone”, bacioni stronzo. E questo perché un bacione non si nega a nessuno, di più, i bacioni accorciano le distanze, e soprattutto consentono di fare il bullo con i refrattari, dove il potere ha finalmente agio di mostrare il proprio dito medio, come farebbe, appunto, un compagno di classe un po’ fascio e un po’ idiota. Bacioni come esplicita tracotanza del nuovo potere illetterato, bacioni come esperanto di una subcultura rionale che in filigrana custodisce l’inaffondabile “Me ne frego!” o piuttosto, ma questo in giornate eccezionali, l’ “Eja Eja Eja Alalà!”, saluto che i fascisti mutuarono dal residente del Vittoriale, peccato però che Salvini non sia D’Annunzio, ma assomigli piuttosto a Orso Yoghi. Alla fine, quei bacioni, oscillano tra sfrontatezza e intimidazione, potendo rientrare perfino nel linguaggio ordinario di uno spezzapollici abilitato al recupero-crediti, con il suo vocabolario doverosamente obliquo. Va detto pure per equità che la controparte del Capitano, quando ha cercato di competere con gli irresistibili bacioni, non è andata oltre il modesto ciaone, anch’esso figlio di una koinè subculturale apparentemente ganzissima, peccato però che, pur ributtante, il combattivo “Ciaone” mai riuscì ad avere la medesima potenza balistica del “Bacioni”; spiace dirlo, ma bacioni, almeno al momento, risulta imbattibile, lo dicono i sondaggi. Perché bacioni, se proprio vuoi saperlo, mostra lo stesso greve plusvalore filosofico già riconosciuto a Pierpaolo, esatto, il giovane petulante eroe messo al mondo dagli Squallor. Sia detto sommessamente, sia detto come costatazione ennesima dell’abisso, di fronte a quel Pierpaolo e agli Squallor perfino l’altro, il quasi omonimo, Pasolini, è costretto alla ritirata. Altro che le parole di Zavattini in “Miracolo a Milano”, dove si sogna un mondo dove “Buongiorno voglia davvero dire buongiorno”.
Fulvio Abbate per Huffingtonpost.it il 21 luglio 2019. Siamo caporali o paninari? Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, nei giorni scorsi, intrattenendo pubblicamente i suoi amici della Lega, affidandosi a un linguaggio proprio della subcultura che riassume in un unico fascio lessicale la propria miseria immaginativa, ha definito Carola Rackete una “zecca tedesca” (sic). Che sia il residente al Viminale a esprimersi in questi termini rende l’episodio ancora più discutibile, inaccettabile. Personalmente, se fossimo nei panni di un’opposizione presente a se stessa, perfino impegnandoci in modo sistematico a setacciare le più abissali fogne del linguaggio degradato, a fatica riusciremmo a raggiungere la stessa miseria antropologica, e perfino interiore, propria di chi usi l’espressione “zecche” per riferirsi all’altro da sé. Tra paninaro, caporale e fascista, appunto. Aggettivi da analfabeti in possesso di una protervia da camera di sicurezza. Tuttavia, cercando di stemperare piccineria e orrore, qualcuno prontamente mi fa però notare che, assodati i limiti culturali palesi di un Salvini, potrebbe appunto trattarsi di “un omaggio alla subcultura anni ’80 della gioventù discotecara divisa tra pariolini e zecche”, così testualmente. L’idea, a suo modo assolutoria, che il ministro, forte soprattutto di un’evidente povertà espressiva, attinga a certo deposito di insulti non è da escludere. Ciononostante, oltre la rassegna dei suoi possibili rimpianti poster in cameretta, resta intatta una questione di stile, di civiltà, per non chiamare in causa il protocollo; così, non per nulla, un istante dopo, un’amica, Caterina, filosofo, da Londra, suggerisce che “se lui non ci arriva, benissimo, ma uno dei suoi scendiletto glielo dovrebbe far notare. Fa il ministro, non il paninaro”. Ora, perfino accettando l’idea che Salvini, sul nodo degli sbarchi dei migranti, non sia riuscito ad andare oltre Enzo Braschi, comico poi convertito alla “Sacra Pipa” degli Indiani d’America, che appunto del paninaro interpretava la maschera a “Drive In”, c’è da comunque da supporre che l’uomo Matteo, pur assodata una gittata attitudinale massima che coincide con le cinture “El Charro” e i piumini “Moncler”, non è legittimato a concedersi pubblicamente un lessico da fureria, da porta carraia, meglio, da caserma di Bolzaneto e Scuole “Diaz”. Soprattutto se questo suo esprimersi, nei social, prende subito ad essere coniugato in termini esplicitamente razzisti. Quando i traduttori di Louis-Ferdinand Céline, scrittore francese che nei suoi romanzi racconta l’orrore e l’idiozia militari, hanno cercato di restituire l’argot francese proprio del contesto di una caserma, non hanno potuto fare a meno di attingere alle stesse “zecche” cui si affida Salvini, dove si scrive zecche per intendere “succhiasangue”, “parassiti”, misere filastrocche della bestialità qualunquistica del “compagno, compagno tu lavori e io magno”. Così esprimendosi, Salvini, e il suo coro analfabeta, come già quegli altri, sono subito apparentabili, per tecnica di istigazione all’odio, a coloro che storicamente rubricavano la controparte sotto la categoria esplicita del “subumano”, cioè “untermensch”. Perché la zecca è “rossa” per definizione nella percezione del sovranista medio, lo stesso che mostra il volto del filosofo Giovanni Gentile nel suo profilo personale Twitter e così ci scrive e avverte: “Sinistrato immigrazionista di merda è oggettivamente troppo lungo, zecca è sicuramente più comodo e rende bene l’idea” (sic). Zecca è anche un insulto-stella polare che anticipa e illumina la consuetudine attitudinale tra il leghista Salvini e la post-fascista Giorgia Meloni. Quante volte sui manifesti del Fronte della gioventù e suoi derivati, con la grafica manuale autoctona nera codificata da Jack Marchal, abbiamo letto di “zecche”, magari affiancati a un omaggio a Léon Degrelle o piuttosto a Primo Carnera, “campione d’Italia in camicia nera”? Se provo a voltarmi indietro alla ricerca di un linguaggio altrettanto piccino, a fatica trovo qualcosa di altrettanto discutibile, il gesto delle corna del presidente dell’allora Repubblica Giovanni Leone, rivolto agli studenti di Pisa che lo contestavano nel 1975, era infatti solo una reazione istintiva, non certo testato, verificato e comprovato fra l’altro da una ufficio-comunicazione che, nel caso di Salvini, è addirittura battezzato per ciò che davvero è, “La Bestia”, lì a regolare con sistematicità da applicati di ragioneria un flusso sistematico di insulti intimidatori da offrire ai pappagalli ammaestrati della propaganda capillare di massa, sistematica, che si nutre anche e soprattutto di notizie spesso mistificate – Bibbiano è ora la cuspide di questo sistema, con l’obiettivo di agire sull’irrazionale: se i “comunisti” un tempo mangiavano i bambini, ora li plagiano per poi farne commercio - ottusi perché acefali, segnati dal riflesso meccanico condizionato di “E allora il Pd?”, un’accusa rivolta perfino a chi nulla abbia da condividere con quel partito. Forse soltanto Cossiga si era spinto oltre misura, nel suo caso tuttavia valeva la scusante clinica della bipolarità…Adesso qualcuno, cercando di rintracciare l’origine della deriva lessicale, non senza moralismo, proverà magari a dire che è tutta colpa di quell’iniziale “vaffanculo” giunto ad abbattere ogni altro termine da ritenere miseramente paludato, d’averci liberato da ogni ipocrisia in blazer, può anche darsi, il comico in questione però non ha mai rivestito ruoli istituzionali, quindi la sua irritualità, per quanto inaccettabile, era semplice propellente pre-elettorale, destinato a portare al largo del consenso il suo canotto; sebbene lì presente, la minaccia non era ancora intimidatoria, meglio, non mostrava puzza rancida da mattinale di questura, così come invece appare se pronunciata dal ministro degli Interni, non un paninaro e neppure, per restare nella commedia cinematografica, il Dogui, quel Guido Nicheli cui perdonare ogni grevità in nome dell’amor di battuta e di “libidine”, o siamo in errore? La stessa piccineria di chi, dall’abisso delle sue tute acetate, oggi accusa Carola Rackete di essersi presentata in Procura ad Agrigento senza reggiseno, ottusità da miseri cognati, dove il “sovversivismo delle classi dirigenti”, di cui parlava Gramsci, lì a soffiare sul fuoco del più angusto fornello della visuale piccolo-borghese, si affida a un linguaggio - e qui riprecipitiamo ancora oltre - degno degli indimenticati fumetti di “Il Tromba” e “Zora la Vampira”, questa revanche ha il volto e il taglio di capelli ufficiale di Salvini, e ciò avviene in assenza totale di replica adeguata da parte delle opposizioni. L’ho già detto, perfino impegnandoci a occupare i sottoscala del linguaggio riusciremmo a raggiungere la stessa convincente miseria antropologica e interiore di chi si riferisce all’altro da sé come fosse una zecca. Restando al nodo primario del linguaggio nella sua connotazione: caporale, paninaro o direttamente fascista?
La nuova politica. Dai bacini di Cicciolina ai bacioni di Salvini. Francesco Damato il 9 luglio 2019 su Il Dubbio. L’ultima passione del leader leghista. La nuova politica. Da quando Matteo Salvini ha cominciato a diffondere baci – lui li chiama “bacioni”- ai suoi critici e avversari anche nelle aule parlamentari, come sulle piazze e piazzuole fisiche ed elettroniche, mi sono tornati alla mente i giorni, anzi gli anni, di Ilona Staller a Montecitorio. Dove Marco Pannella – e chi sennò?- si divertì nel 1987 a portare la pornodiva di origini ungheresi facendola eleggere nelle liste del Partito Radicale con tanti voti da rischiare di esserne addirittura superato: 22 mila preferenze nella circoscrizione laziale. Già nota in arte – diciamo così come “Cicciolina”, la deputata cercò di prendersi a suo modo seriamente. Partecipava alle sedute in aula, e qualche vola anche a quelle delle commissioni Difesa e Trasporti cui era stata assegnata, senza mai tradire il suo stile. A chi l’interrompeva, dissentendo a volte anche in modo volgare, o solo le rivolgeva sguardi ironici e scettici, come capitò a volte di fare a Giulio Andreotti dai banchi del governo, l’ancor più ironica e per niente imbarazzata onorevole lanciava bacini. E per coinvolgerli di più nel suo stile e modo di dire chiamava “Cicciolini” i suoi interlocutori. A sentirselo dare, del Cicciolino, quel pomeriggio in cui mi gustai lo spettacolo da una delle tribune riservate alla stampa e affacciate sull’aula di Montecitorio, Andreotti si trattenne a stento da una reazione che non seppi distinguere se più indignata o divertita. Egli si limitò a chiamare un commesso per chiedergli di portargli da bere qualcosa. Il poveretto gli portò un bicchiere d’acqua, su tanto di vassoietto, ma ad Andreotti non bastò. Gliene portò poi una bottiglia. Ora la Staller se la passa davvero male, specie dopo che le hanno ridotto da 2000 a 800 euro mensili il cosiddetto vitalizio parlamentare. Ma come deputata e contributrice delle trattenute previdenziali si guadagnò il diritto riconosciutogli dalle regole in vigore perché la sua prima e unica legislatura – ultima peraltro della cosiddetta prima Repubblica- fu tra le poche a non interrompersi prematuramente, arrivando alla scadenza ordinaria del 1992 per volontà soprattutto di Bettino Craxi. Che non lo fece di certo, impedendo lo scioglimento anticipato delle Camere che l’allora capo dello Stato Francesco Cossiga gli avrebbe concesso nel 1991 se richiestone, per fare un piacere a Cicciolina, ormai uscita anche fuori dalle grazie di Pannella. Craxi salvò quella legislatura, condannandosi peraltro al logoramento del referendum contro le preferenze, alla crescita del fenomeno leghista e all’accensione della miccia sotto la bomba di “Tangentopoli”, per un riguardo politico e umano – pensate un po’- ai comunisti. Lo ha appena ricordato l’ex ministro so- cialista Rino Formica aprendo sul Corriere della Sera una serie di interviste di Walter Veltroni su “misteri e fine della prima Repubblica”. I comunisti di Enrico Berlinguer, e successori, al leader socialista gliene avevano dette e fatte di tutti i colori, prendendo come una provocazione nei loro riguardi il suo arrivo a Palazzo Chigi nel 1983, pur concordato con un segretario democristiano non certamente sospettabile di anticomunismo viscerale come Ciriaco De Mita. Ma a Craxi, prima ancora dell’incontro che fece rumore in un camper con Massimo D’Alema, mandatogli dall’allora segretario comunista Achille Occhetto, sembrò scorretto profittare delle elezioni anticipate per aggravare le difficoltà in cui il Pci già si trovava per la caduta del muro di Berlino, nel 1989, e il cambiamento di nome e di simbolo che si era imposto, chiamandosi Pds e confinando la falce e martello sotto una quercia. In più, a quel Pds Craxi, anche se Formica ha omesso di ricordarlo a Veltroni, avrebbe persino fatto aprire, rinunciando al veto che gli spettava per statuto, le porte dell’Internazionale Socialista, utilissime in quel momento alla sinistra che si definiva post- comunista. Ma torniamo a Salvini, ai suoi bacioni e al richiamo a Cicciolina. Mi chiedo sinceramente se convengano a un ministro dell’Interno, prima ancora che ad un leader politico, quei bacioni così frequentemente e abbondantemente rivolti col proposito per niente nascosto di liquidare sbrigativamente con l’arma dell’ironia critici ed avversari, anche quando il titolare del Viminale ha argomenti più seri e convincenti da opporre. E ne ha: non dico sempre, per carità, come lui stesso dovrebbe ammettere se ha una percezione umana di se stesso, non ritenendosi ormai infallibile neppure il Papa, ma ogni tanto sì, ne ha. E avrebbe il dovere di esporre meglio le sue ragioni, e magari anche lasciando un po’ di spazio e di voce chi lavora con e per lui, e forse non è tanto stanco da lasciarsi scappare qualcosa di troppo o di controproducente, specie sul terreno dei rapporti istituzionali. E’ quanto è capitato in questi giorni al ministro dell’Interno, fra un attracco e l’altro a Lampedusa di navi con migranti sottrattesi ai suoi ordini, dolendosi del fatto di non comandare le Forze Armate, almeno quelle di mare. Beh, le lasci tranquillamente al comando del presidente della Repubblica, come dispone d’altronde l’articolo 87 della Costituzione.
Sea Watch, Fratoianni: "Lo speronamento? Colpa della Gdf che si è frapposta". Salvini: "Roba da matti". Libero Quotidiano il 4 Luglio 2019. Scontro in Aula tra il deputato di Sinistra italiana-LeU, Nicola Fratoianni, e il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, sul caso Sea Watch. "Voglio sapere chi ha ordinato alla motovedetta della Guardia di Finanza di frapporsi la banchina e la Sea Watch" ha osato dire Fratoianni riferendosi allo speronamento della capitana Carola Rackete alla piccola imbarcazione della Gdf. Immediata la risposta di Salvini: "Eccoli i veri colpevoli, i finanzieri. In maniera inaudita hanno tentato di difendere le leggi e i confini del Paese. Lo sbarco era stato autorizzato per la mattina dopo, per questo è inaccettabile la sporca battaglia politica fatta sulla pelle di 40 persone: una sporca battaglia politica". Poi Salvini non ha perso l'occasione per raccontare la vicenda anche sui social: "Secondo il deputato che era a bordo della SeaWatch, se i militari sulla motovedetta hanno rischiato di morire non è colpa della comandante fuorilegge che li ha speronati ma della Guardia di Finanza che ha dato l'ordine di fermare la nave. Questa è la sinistra".
Da “la Zanzara - Radio 24” il 4 luglio 2019. “Mi è venuta un’idea. Invece di arrivare a Fiumicino col mio passaporto, voglio entrare senza passaporto. E portandomi dietro un intero orfanatrofio di bambini. E quindi potrò entrare senza far vedere il passaporto. E magari qualche organizzazione non governativa mi darà pure dei soldi”. Lo dice il politologo americano Edward Luttwak a La Zanzara su Radio 24, in un’intervista in cui attacca l’Italia, Carola Rackete, le Ong e Gino Strada: “In Italia evidentemente la legge è facoltativa. Se il ladro è simpatico, carino, un bel ragazzo, lo lasciamo andare. Se lei è una donna tedesca che decide, lei, di comandare una nave, decide lei di portare gente proprio in Italia, non portarli in Portogallo, Germania, Svezia o Papua New Guinea, ma proprio in Italia. Allora io credo che invece di lamentarsi e urlare, tra i seguaci di Salvini ci sono moltissimi proprietari di barche. Perlomeno 300 di questi con barche vadano a Latakia, porto della Siria, per prendersi gli ex dello Stato Islamico che sono lì perché nessuno li vuole prendere. Li prendano e li portino a Monaco, a Montecarlo o in Francia, per poi dire stavo portando dei profughi che hanno diritto di entrare nel porto”. “O la legge è legge – dice Luttwak - oppure è facoltativa. In Italia è facoltativa. Il paese è fuorilegge anche a causa dei giudici. Tutti sanno che se c’è qualcuno che sta annegando in alto mare, allora si deve salvare. Mentre è ben altra cosa andare sotto le coste della Libia deliberatamente, invece di andare a lavorare onestamente, lavorare per un’organizzazione non governativa per prendere gente e portarla in un terzo paese chiamato Italia…”.
Lo fanno apposta?: “Questa signora tedesca era lì per caso con la sua barca? O ci è andata deliberatamente per prendere i migranti in pratica alleata coi trafficanti che li hanno messo a bordo delle barche? In tacita alleanza con i futuri sfruttatori di questi immigrati. Questa è una tacita congiura”. Lei dice che Carola Rackete è in pratica d’accordo con i trafficanti?: “Sicuramente, perché i trafficanti, sapendo che c’è questa nave, non devono fornire carburante per arrivare fino all’Italia. No, devono semplicemente andare al largo, dove arrivano loro”.
Cosa pensa delle Ong che sono nel Mediterraneo?: “Queste persone non potrebbero esistere un solo minuto se lavorassero sulla costa dell’Australia o sulla costa di qualsiasi paese che rispetta le leggi. Perché in Italia da Gad Lerner, ex simpatizzante dei terroristi palestinesi oggi umanitario, al Papa, tutti sono d’accordo. La legge è facoltativa. La legge si applica solamente se la persona è antipatica”.
Come giudica il magistrato che ha scarcerato Carola?: “E’ l’ennesimo cittadino italiano, come vari extracomunitari come il Papa, che sono sicuri che la legge è facoltativa. E quindi lui confonde il caso di una persona che sta attraversando il mare e trova una persona annegata, con una persona che deliberatamente si mette lì per facilitare il traffico delle persone”. “Ricordatevi – dice Luttwak - che è la borghesia che fa queste cose, che prende i barconi, i poveri in Africa non hanno i soldi per uscire dal villaggio. Questi borghesi comprano il passaggio e sanno che hanno un’alta probabilità, la certezza che arrivi qualche tedesco o qualche giapponese o neozelandese, che li prenda e poi li sbarchi in Italia. Con gli applausi generali”.
Gino Strada dice che bisognerebbe spazzare via un governo di fascisti e idioti: “Due mesi fa mi sono perso in un quartiere di Napoli dove c’era bisogno di Gino Strada e non di tutta questa gente che loro hanno portato. Invece di andare in Afghanistan, doveva andare in quel quartiere che si trova se uno fa un errore dall’autostrada di Napoli. Lui evidentemente non lo sapeva, quindi è andato fino in Afghanistan. Gino Strada ed il suo amore per l’umanità è senza limiti. Solo l’umanità che vive intorno a lui, degli altri se ne frega altamente. E’ interessato all’umanità dove ci sono le telecamere, i giornalisti, dove sei fotografato, sei il grande eroe, sei andato a Bongo Bongo e hai salvato qualcuno. Se invece vai a casa tua, aiuti i poveretti, la signora che non riesce a salire le scale, se vuoi aiutare queste persone, non c’è la stampa. Chi va ad aiutare solamente gli esotici stranieri, lo fa per ragioni non umanitarie”.
Come considera Carola Rackete?: “Una fuorilegge, una persona che congiura tacitamente coi trafficanti. In Italia una persona come il Papa può dire che lo Stato italiano non ha diritto di tutelare le sue frontiere, che il cittadino italiano deve pagare le tasse, ma che lo Stato a cui paga le tasse non ha diritto di chiudere le sue frontiere. Il Papa è un non comunitario che vive in Italia ed invita i cittadini a violare la legge. Un fuorilegge pure lui? No, è una persona che legittima la violazione della legge. Lui non fa niente, solamente parla, ha una certa influenza su certe persone che credono in quest’istituzione, e il suo discorso è che la Repubblica italiana è il contrario di tutti gli altri stati, non ha diritto di proteggere le sue frontiere”.
"Basta verdetti politici". La controffensiva anti toghe. Dopo lo scandalo del Csm e la sentenza che annulla il dl Sicurezza, la Lega promette battaglia. Augusto Minzolini, giovedì 04/07/2019 su Il Giornale. Alla buvette di Montecitorio il ministro della Giustizia, il grillino Bonafede, si appella alla lingua per spiegare il cortocircuito tra il testo del decreto bis sulla sicurezza e la sua applicazione da parte del Gip di Agrigento, che ha rimesso in libertà la capitana della Sea Watch Carola e mandato su tutte le furie Salvini. «Purtroppo osserva le leggi vanno sempre interpretate, come qualunque cosa scritta in italiano. Una lingua che ha le sue sfumature». Per cui secondo questa logica paradossale si suppone che bisognerebbe scrivere i decreti in inglese, in tedesco o, chessò, in greco antico, per renderli più stringenti. Ragionamento che, inutile dirlo, non convince il ministro dell'Interno: Salvini in aula parla di «scelta politica» del magistrato; si scaglia contro «i pregiudizi» di certi giudici che prima «di disattendere le leggi dello Stato, dovrebbero spogliarsi della toga e presentarsi alle elezioni con il Pd»; minaccia decreti sicurezza ter o quater, cioè fino a quando il provvedimento non sarà applicato alla lettera. E questo mentre Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana, gli agita contro la decisione del Gip di Agrigento accompagnato da un «Rosicate!». Qualcuno potrebbe pensare che siamo alla solita diatriba tra politici e magistrati, ma non è così: dopo settimane e settimane di intercettazioni sulle trame nel Csm che hanno svelato il mercimonio e le manovre a sfondo politico che si svolgono nel «dietro le quinte» dell'organo di autogoverno della magistratura, il Re è nudo. Le cronache hanno sdoganato pure quell'espressione, «sentenza politica», alla quale Silvio Berlusconi per venti anni è stato impiccato. Dopo le incursioni a tappeto del trojan di Palamara nel tempio della magistratura, nessuno osa teorizzare che il confine tra Politica e Giustizia sia invalicabile e il concetto stesso di «autonomia» è diventato un sepolcro imbiancato. Resta da vedere solo se è la magistratura a non essere autonoma dalla politica, o viceversa: ma poco importa, perché come nelle addizioni, cambiando l'ordine degli addendi, il risultato non cambia. Un concetto ormai molto chiaro nella mente dei leghisti che hanno lasciato sul campo personaggi come gli ex-sottosegretari Siri e Rixi e vedono in bilico per una sentenza a metà luglio il viceministro Garavaglia. «È l'interpretazione della legge che non convince spiega nei panni del giurista Claudio Borghi -: bisognerebbe istituire un comitato parlamentare che di fronte a sentenze contraddittorie dia un'interpretazione autentica della norma; come pure il Csm non può avere la maggioranza dei membri togati, mettendoli in condizione di infischiarsene di ciò che pensano quelli eletti dal popolo. Succede solo in Albania e in Slovenia. Se poi ci mettiamo pure le correnti, ci accorgiamo che sono i magistrati a fare politica. Sono problemi da affrontare». Concetti che trovano allergici i grillini, ma, come il richiamo della foresta, in piena sintonia i «forzisti». «La politica confida Enrico Costa conta nulla, la politica la fanno i giudici. Ad Agrigento prima il Pm fa il duro e arresta Carola, ma il Gip usa il guanto di velluto e la rimette in libertà. Poi il prefetto espelle Carola e il Pm usa il velluto e dice che non è possibile. Tutti d'accordo per non far nulla». «Tra le telefonate tra Carola, i parlamentari del Pd e la Procura c'è da pensare insinua Piergiorgio Cortelazzo che i tempi siano stati studiati per trovare di turno proprio quel Gip». Già, le battaglie del centro-destra sulla giustizia inquinata dalla politica riaffiorano. «Ci vorrebbe un esame comparato sostiene il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli tra i casini del Csm e la procura di Agrigento: visto che Carola ha riavuto la libertà per la politica, il Pm dovrebbe avere il coraggio di incriminare i finanzieri». Siamo alla sfida. Sfida che non convince, però, l'ex-ministro dell'Interno, Marco Minniti. «Le leggi - spiega su questi temi non servono: Salvini può fare pure cento decreti, ma con in ballo le organizzazioni umanitarie e il diritto internazionale, il giudice dà l'interpretazione che vuole. L'unica strada è il codice di comportamento concordato con le Ong. Né il ministro dell'Interno può ritagliarsi un ruolo alternativo alla magistratura: così il sistema salta! Salvini dovrebbe parlare senza proclami ma solo con gli atti, come un certo Minniti».
Solo che l'ex-ministro sbaglia a pensare che la magistratura sia come un tempo, inviolabile. Le cronache hanno fatto precipitare l'indice di gradimento dei giudici. «Questi con le loro interpretazioni delle leggi si sfoga il vicesegretario leghista, Andrea Crippa sarebbero capaci di far passare un cammello attraverso la cruna di un ago. Solo che la gente se ne è accorta e non ne può più. Sabato in Basilicata avevo la fila di persone a pormi il problema, a dirmi che per mettere in libertà quella il Gip ci ha impiegato 24 ore, mentre una mamma, con una figlia, attende una sentenza da tre anni e intanto paga avvocati su avvocati. Per lo stesso reato, nel suo paese in Germania, Carola si sarebbe beccato mesi e mesi di galera». Appunto, ciò che sciocca nell'operato di pezzi della magistratura è l'assenza di obiettività a cui lo scandalo del Csm ha dato un nome: condizionamenti ideologici e di parte. Così l'atmosfera nel Paese sta mutando. «Se fossi nei panni dei magistrati avverte Giuseppe Gargani, già responsabile giustizia della Dc e poi per anni di Forza Italia avvierei un'autoriforma recependo quei due-tre punti avanzati da Berlusconi. Se non lo fanno rischiano: per molti il nuovo Palazzo d'Inverno da assaltare è la magistratura».
“I DEPUTATI SULLA SEA WATCH HANNO DATO COPERTURA POLITICA AL TENTATIVO DI UCCIDERE AGENTI DELLA GUARDIA DI FINANZA”. Da Libero Quotidiano il 3 luglio 2019. È bagarre nell'Aula di Montecitorio dopo che il deputato della Lega, Igor Iezzi, è intervenuto sulla sconvocazione dell'audizione della Sea-Watch 3 in merito al decreto Sicurezza bis: "Noi eravamo il gruppo politico più presente in audizione per ascoltare le loro ragioni, pur non condividendole. Ma se loro hanno politicamente deciso di non presentarsi, allora ce ne faremo una ragione e se vorranno ci invieranno il loro discorso". E ancora: "Chiedo al presidente Roberto Fico di aprire una riflessione su quanto successo nei giorni scorsi. Noi abbiamo avuto dei deputati che usando il loro ruolo sono saliti su una nave che stava violando un decreto legge e hanno dato copertura politica al tentativo di uccidere alcuni agenti della Guarda di Finanza". Immediato il caos in Aula. I rappresentanti della Sea-Watch insieme a quelli delle altre Ong erano stati invitati oggi, mercoledì 3 luglio, davanti alle commissioni Affari costituzionali e giustizia della Camera per la conversione in legge del decreto Sicurezza bis. Ad accoglierli ci sarebbero dovuti essere Giuseppe Brescia e Francesca Brusinarolo, presidenti delle due commissioni di Montecitorio. Ma le proteste del sottosegretario all'Interno, Nicola Molteni, indignato per la convocazione "di fuorilegge criminali", hanno fatto "fuggire" la Sea Watch. A riferirlo è la stessa portavoce, Giorgia Linardi, che ringrazia anche le altre ong: "Se ci è impedito nei palazzi istituzionali, testimonieremo pubblicamente. Grazie alla solidarietà delle ONG che senza di noi non hanno partecipato".
· Le querele dell’accoglienza.
I giornalisti? Chiamateli Grandi Inquisitori. Angela Azzaro il 7 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ernest Hemingway, premio Nobel nel 1954 con Il vecchio e il mare, era un grande scrittore perché, prima ancora, era un grande giornalista. Un reporter. Il suo primo scritto è un articolo per il giornale della sua città natale, sobborgo di Chicago. Era uno di quelli che prima di scrivere andava a vedere, toccare con mano, annusare. Una curiosità che lo ha portato in Spagna, in Francia, in Italia, in Africa, nella sua amatissima Cuba, quella della pesca, dei sigari, del mojito. Quando toccava una realtà se ne innamorava, cercava di capire entrando in sintonia con quello che raccontava. Si chiamava e si chiama: pathos, pietà, intelligenza. E da quella intelligenza, poi, nasceva il testo: racconto o reportage che fosse. Negli ultimi anni della sua vita, già gravemente dolorante per un incidente aereo, non smise di viaggiare, voleva ancora conoscere, innamorarsi. Scrivere. Oggi invece trionfa un altro modo di fare giornalismo, in cui la pietas è stata sostituita dalla crudeltà. Importante non è conoscere, non è aiutare a capire chi legge, ma fare audience. È il giornalismo che sembra fatto a immagine e somiglianza di un Savonarola per il moralismo, a un Davigo per la “presunzione di colpevolezza”, ma ancora più esattamente il modello è Andrej Vyšinskij, il pubblico ministero che interrogava gli accusati di tradimento durante il Grande terrore staliniano. Per lui tutti erano colpevoli, tutti avevano qualcosa da nascondere e da confessare, tutti dovevano essere messi sotto torchio perché sicuramente avevano minato la causa rivoluzionaria. Spesso venivano mandati a morire. Oggi il terrore (la storia si ripete in forma di farsa…) è quello di un giornalismo che invece di informare, processa, invece di capire condanna, invece di verificare le notizie, cerca il clamore. C’è anche la versione light: quella del giornalista che ti insegue per strada e ti fa la domanda sperando che tu non risponda e così possa dire: «Ah che infingardo, non ha risposto. Quindi è colpevole». Come la metti la metti, sembrano tanti figlioletti di Andrej Vyšinskij, non più ispirati dal sacro fuoco del comunismo, ma da quello della Verità, rigorosamente con la V maiuscola, che però di fatti, date, documenti se ne frega altamente. Il retropensiero è sempre lo stesso: «Non c’è ipotesi di reato? Va beh, qualcosa deve per forza aver fatto». Gli esempi si sprecano e ci sono intere trasmissioni che seguono il metodo Vyšinskij come se fosse il manuale del buon giornalismo. L’altro ieri, a Piazza Pulita, Corrado Formigli non ha intervistato il leader di Italia Viva Matteo Renzi: gli ha puntato la lampada e lo ha interrogato sul caso Open. Il volto contratto, la postura e il ghigno da pm, le domande di chi non ha alcun interesse a sapere cosa pensi o sappia l’altro, ma volte esclusivamente a incastrarlo, metterlo in cattiva luce, se possibile umiliarlo. Per sfortuna di Formigli, Renzi è bravino: si è sottratto abbastanza facilmente a questo gioco al massacro rispondendo per filo e per segno sul caso Open, e respingendo il metodo inquisitorio al mittente. Quasi tutta la tv oggi è costruita sul modello del processo: giornalisti-pm, opinionisti-giudici, spettatori-giuria popolare. È il cuore del populismo televisivo che in questi anni ha prodotto trasmissioni come Le Iene. I suoi giornalisti sono i migliori nel perseguitare l’obiettivo, nell’incalzarlo e nel creare casi che spesso si risolvono nel linciaggio della persona coinvolta. Ci stanno provando anche con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che giovedì sera si è infuriato con la Iena Antonino Monteleone. «Lei – gli ha detto il premier – è fuori di testa». Conte, ormai celebre per il suo aplomb, ha perso la pazienza perché la Iena lo ha accusato di aver lavorato gratis per una consulenza ma di essersi poi fatto versare i soldi sul conto dell’avvocato Alpa: «Continuate a scrivere menzogne su menzogne. Non dovete approfittare del fatto che io da quando sono presidente del Consiglio non ho querelato nessuno». Normale che se si viene diffamati, incalzati con accuse false, ripetute in tutte le circostanze, ci si arrabbi. È quello che è accaduto anche al nostro editore, Alfredo Romeo, che per gentilezza ha accolto due giornalisti di Piazza pulita, rimasti fuori dalla sede per quasi tutto il giorno. Li ha fatti entrare, ha risposto alle loro domande, ma davanti alle inesattezze e alle insinuazioni ha perso la pazienza. I due giornalisti non avevano nessuna intenzione di conoscere i fatti, di sapere la versione dell’interlocutore, di verificare i dati in loro possesso. Erano lì per affermare la loro versione, per renderla più veritiera provando a mettere in difficoltà l’intervistato. Ma i fatti sono i fatti, le date sono le date e se si dice il falso, non è buon giornalismo, perché si nasconde la telecamera che riprende e registra, è – per citare Conte – una menzogna.
Sea Watch, insulti online nel mirino: Carola chiederà risarcimenti a tutti. Sea Watch ha dato mandato agli avvocati di tutelare Carola Rackete. Parte la campagna "odiare ti costa". Giuseppe De Lorenzo, Martedì 23/07/2019, su Il Giornale. Nel mirino ci sono "commenti di odio", post "sessisti", insulti contro Carola Rackete e non solo. L'ultima novità riguarda e investe (probabilmente) una larga fetta degli italiani attivi in Rete. E potrebbe costare non poco alle tasche di chi ha scritto qualcosa (di brutto) sul capitano della Sea Watch 3. Non condanne penalì, né carcere, né servizi socialmente utili. Ma soldi. Molti soldi. L'avvocato Kathy La Torre (insieme a Tlon) ha infatti ideato una campagna dal nome "odiare ti costa" per "arginare l'enorme mole di commenti diffamatori di cui siamo invasi in rete". Iniziativa lodevole. Sarà indirizzata "a tutti" e potrà chiedere un risarcimento anche "il signor nessuno o la signora nessuno". Qualcuno ti insulta su Fb, Messenger, Instagram, Youtube o sui siti dei giornali? Tu chiedi un indennizzo. Semplice. "In 48 ore abbiamo già ricevuto 6mila segnalazioni di odio", esulta la legale. Molti influencer hanno già appoggiato l'iniziativa e presto verrà creato un "pool" di avvocati, filosofi, investigatori, hacker etici e esperti informatici forsensi detito allo scopo: "Il progetto è una bomba e potrà far cambiare il modo stare sui social". La campagna partirà però proprio per Carola Rackete. "Ho avuto mandato da Sea Watch di tutelarla civilmente dall'odio essista e insopportabile di è ormai vittima da un mese", spiega al Giornale.it La Torre, che è co-difensore del capitano insieme ad Alessandro Gamberini (che si occupa delle questioni penali). La legale ha ideato un modo per evitare di dover scovare da sola ogni singolo post da denunciare: invece di passare intere giornate a setacciare profili Facebook, si farà aiutare proprio dagli utenti dei vari social network. Chiunque potrà inviare un link di un post "incriminato" in cui appaiono commenti diffamatori da inserire nel faldone che finirà a giudizio. Saranno poi gli avvocati a "esaminare quelli giudizialmente meritevoli di tutela". L'ammontare del risarcimento potrebbe essere ingente. "Dipende da molti fattori - dice La Torre - Più la persona offesa è nota e più è alto il risarcimento. Ad ogni modo, si parte da circa 5mila euro fino ad arrivare a decine di migliaia di euro". A finire nel mirino saranno "le offese", non "le opinioni" né la libertà di dissenso. Ma l'ingiuria, la calunnia, le minacce. Il tutto senza distinzioni. "L’odio è odio - aggiunge l'avvocato - Se Giorgia Meloni mi chiedesse di agire per tutelarla dalle offese sessiste che riceve, io non avrei alcuni scrupolo a tutelarla. Così come non ne avrei a citare in giudizio lei se offendesse rom, coppie gay, diversi e immigrati. Il senso è: si può esprimere un opinione ma senza offendere nessuno. Chi lo fa pagherà per le proprie affermazioni. Non è censura. Non è liberticidio. È legge". Il problema, se così vogliamo chiamarlo, è che "la differenza tra ciò che è lecito e ciò che è illecito non è ancora chiara nel nostro Paese". Dunque sarà tutto da vedere. Di certo il progetto dunque non si limiterà a Carola Rackete. Andrà oltre. Punta ad essere un "deterrente a lungo termine". "Ci interessa combattere l'odio, non la politica, anche se la politica ha grande responsabilità nel clima di odio che si è creato negli ultimi anni in Italia - spiega La Torre - Per questa ragione l’iniziativa ha lo scopo di fermare un fenomeno dilagante che colpisce chi ha molta visibilità, ma anche persone normali. Vogliamo mettere tutti nella condizione di potersi tutelare e vogliamo trasmettere l’idea che chiunque scriva sui social è responsabile di ciò che scrive davanti alla legge, e quindi deve riflettere prima di cliccare invio".
Alberto Custodero per “la Repubblica” l'11 luglio 2019. «Sparatela questa bastarda, insieme a quelli del Pd». Commenti di tenore sessista e razzista, minacce di morte, insulti, inviti a sparare: parlano così tra di loro i militari della guardia di finanza iscritti nel gruppo chiuso di Facebook "il finanziere" gestito da Alessandro Capace. I contenuti di questa conversazione sono stati divulgati dal sito The Vision, scatenando una violenta polemica politica con il Pd e Sinistra italiana che hanno chiesto l' intervento del ministro dell' Economia Giovanni Tria da cui dipende il Corpo delle fiamme gialle. I finanzieri commentavano l' attracco notturno della "Sea-Watch 3" fatto dalla capitana Carola Rackete nonostante il divieto impartito dal ministro dell' Interno Matteo Salvini, e portato a termine con una manovra che ha rischiato di speronare l' imbarcazione delle fiamme gialle. «Quello che ci vuole in Italia è un bel colpo di Stato militare per ridare ordine e disciplina», posta un finanziere. «Dovevano aprire il fuoco e farla fuori questa nazista compresi i suoi amici del Pd», risponde un altro. E così via un profluvio di odio in rete con una escalation via via sempre più violenta fino a sfociare in attacchi sessisti e razzisti. Dopo la denuncia di The Vision, i parlamentari del centro sinistra sono insorti. La deputata dem Giuditta Pini - che era a bordo della Sea-Watch - ha presentato un' interrogazione a Tria invitandolo «a fornire urgenti chiarimenti» e a «prendere provvedimenti». «Tra quei parlamentari - dice Pini - c' ero io e c' erano i miei colleghi. Stavamo semplicemente svolgendo il nostro lavoro. Pensare che qualcuno, all' interno delle forze dell' ordine, si stava augurando la nostra morte, mi mette i brividi ». «Giuseppe Conte, Matteo Salvini, Luigi Di Maio, pensate di fare qualcosa?», twitta il deputato dem Matteo Orfini. «Chi minaccia non può indossare la divisa della gdf», dichiara il leader di Sinistra italiana Nicola Fratoianni. I vertici delle fiamme gialle hanno subito preso le distanze: «Non è una pagina della Gdf. L' amministratore non indossa più la divisa dal 1996. I commenti incriminati sono una ottantina, abbiamo denunciato alla procura per avviare subito un' indagine ». E Tria? «Il ministro - fa sapere il Mef - condivide la linea di severità e fermezza adottata dal vertice della Gdf».
Salvini indagato per diffamazione della capitana Carola Rackete. Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Valentina Santarpia su Corriere.it. L’ex ministro dell’interno Matteo Salvini è indagato per diffamazione dopo la denuncia presentata a luglio da Carola Rackete comandante della Sea Watch3. Nelle scorse settimane, in base a quanto si apprende, la Procura di Roma ha proceduto all’iscrizione e ha inviato gli atti a Milano, dove Salvini ha la sua residenza, per competenza territoriale. Nella denuncia, in cui tra l’altro si chiedeva il sequestro degli account social di Matteo Salvini, erano riportati alcuni post dell’ex ministro e alcuni commenti di utenti contro la Rackete in relazione alle polemiche legate allo sbarco di alcuni migranti avvenuto a giugno a Lampedusa. Nella denuncia il legale della ong, Alessandro Gamberini, spiegava che «il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha fatto molteplici esternazioni attraverso i diversi canali a sua disposizione (interviste tv, dirette su Facebook, post su Twitter) che non sono manifestazioni di un legittimo diritto di critica, ma aggressioni gratuite e diffamatorie alla mia persona con toni minacciosi diretti e indiretti, che coinvolgono anche la stessa giudice Alessandra Vella del Tribunale di Agrigento». Nei giorni concitati dell’approdo della Sea Watch, Salvini si era opposto duramente allo sbarco. Alla fine di una lunga trattativa diplomatica, la comandante aveva forzato il divieto e deciso di attraccare a Lampedusa per portare in salvo i migranti: un’operazione complessa che aveva causato una lieve collisione dell’imbarcazione con una motovedetta della Guardia di Finanza. Le accuse alla comandante, che il ministro dell’Interno aveva avvalorato, erano però cadute. Non il clima di odio che si era creato intorno alla figura della Rackete: Salvini l’aveva definita «sbruffoncella, criminale, fuorilegge, delinquente», esternazioni che, scrive l’avvocato nella denuncia accolta dalla Procura, «risultano concretamente idonee a provocare la commissione di nuovi delitti, ingenerando e alimentando una spirale massiva e diffusa di violenza, allo stato fortunatamente solo verbale, che si è espressa in migliaia di episodi diffamatori». Il legale della ong parla di «dichiarazioni irresponsabili, aggressive e false», precisando: «Se uno le fa al bar, si dice che è un irresponsabile, ma se le fa un uomo che ha una responsabilità istituzionale, capite bene che il peso specifico che ha questa dichiarazione è ben altro. E noi riteniamo abbia una valenza istigatoria, perché crea, come un grosso macigno nell’acqua, grandi onde intorno a sé».
Carola Rackete querela Salvini: «Sequestrate i suoi account». Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da Corriere.it. Era stata annunciata nei giorni scorsi: sarà depositata venerdì — negli uffici della Procura di Roma — la querela di Carola Rackete contro Matteo Salvini. Il suo difensore, Alessandro Gamberini, è in attesa della firma digitale della donna. La comandante della Sea Watch accusa il ministro dell’Interno di istigazione a delinquere e diffamazione e chiede che vengano bloccati gli account social del vicepremier «propalanti messaggi d'odio». Le parole utilizzate dal ministro «nei confronti della mia assistita — ha spiegato il legale della donna — la stanno esponendo ad eventuali aggressioni: una vera e propria istigazione a delinquere». Nel mirino ci sono le parole e gli insulti pronunciati in diretta Facebook e ribaditi attraverso i canali social del leader della Lega. Rackete, comandante della nave Sea Watch 3, ha definito come «assolutamente corretta» la propria decisione di violare il blocco del porto di Lampedusa. Era fondata, ha detto alla Zdf, «sui rapporti dei medici di bordo riguardo lo stato di salute dei migranti e su quanto riferito dai membri dell'equipaggio, a contatto costante con loro». Sulla nave la situazione era «tanto deteriorata da non poter più garantire la sicurezza delle persone a bordo» e rendere necessario l'ingresso nel porto di Lampedusa. In ogni caso, conclude, «salvare vite umane è più importante di subire un procedimento penale». Il botta e risposta tra Salvini e l’avvocato di Carola, Alessandro Gamberini era iniziato i giorni scorsi. Il legale aveva annunciato una querela e il ministro con un tweet aveva risposto: «Infrange le leggi e attacca navi italiane, e poi mi querela. Non mi fanno paura i mafiosi, figurarsi una ricca e viziata comunista tedesca! Bacioni».
Carola risponde e denuncia il leader leghista: «Offese e bugie». Chiesto il sequestro dei social del ministro Salvini. La replica: «la comunista tedesca vuole chiudere i miei account facebook e twitter? Vorrà dire che userò instagram». Fausto Mosca il 12 luglio 2019 su Il Dubbio. Carola risponde. Denunciato per «diffamazione aggravata» e «istigazione a delinquere». La capitana della Sea Watch, Carola Rackete, presenta querela nei confronti del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e chiede alla Procura di Roma di sequestrare le pagine Facebook e Twitter del leader del Carroccio, considerate il veicolo dei «messaggi d’odio» a lei rivolti. Le offese alla capitana. «Matteo Salvini mi ha definito pubblicamente e ripetutamente sbrufoncella, fuorilegge, accusata di essere complice dei trafficanti, potenziale assassina, delinquente, criminale, pirata, una che ha provato a uccidere dei finanzieri e ad ammazzare cinque militari italiani, che ha attentato alla vita di militari in servizio, che ha deliberatamente rischiato di uccidere cinque ragazzi e che occupa il suo tempo a infrangere le leggi italiane e fa politica sulla pelle dei disgraziati: la gravità della lesione al mio onore è in sé evidente», si legge sul documento redatto dall’avvocato di Carola, Alessandro Gamberini. Ma il diretto interessato, il ministro dell’Interno, non sembra affatto intimidito dall’azione legale intrapresa dalla ragazza e proprio tramite il suo account Facebook replica sprezzante: «La comunista tedesca, quella che ha speronato la motovedetta della Guardia di Finanza, ha chiesto alla Procura di chiudere le mie pagine Facebook e Twitter. Non c’è limite al ridicolo. Quindi posso usare solo Instagram?». Ma nella querela vengono allegati i contenuti dei post, ritenuti lesivi, pubblicati da Salvini oltre ai commenti degli utenti, anche riferiti alla gip di Agrigento, Alessandra Vella, che dispose la mancata convalida dell’arresto di Rackete. Ora toccherà ad altri magistrati esprimersi sul capo della Lega.
Sea Watch, Carola Rackete non si contiene. Il legale: "Timori per la sua incolumità", accusa a Salvini. Libero Quotidiano il 12 Luglio 2019. La querela di Carola Rackete contro Matteo Salvini sta per arrivare. La capitana della Sea Watch dovrebbe presentarla già oggi, e chiedere il sequestro degli account Facebook e Twitter del ministro dell'Interno, da dove sono partiti quelli che nella denuncia vengono definiti "messaggi d'odio". Dopo tutto quello che si è detto e scritto, c'è timore per l'incolumità della capitana? "Abbiamo anche questo timore", ammette Alessandro Gamberini, l'avvocato di Carola, in un'intervista a Radio Capital. "Se una persona viene indicata come un'assassina in libertà, come una delinquente, come un personaggio da mettere all'indice, poi non si sa quali sono le reazioni da parte di coloro che, seguendo queste indicazioni, possono adottare comportamenti gravi nei suoi confronti, anche aggressivi dell'incolumità fisica. Io ho questo timore. Lo scatenamento del discorso dell'odio poi non si controlla più. Chiunque istiga a delinquere in quel modo non ha il controllo poi del comportamento di coloro che vengono istigati". A proposito del sequestro degli account social, Gamberini ricorda che "ci sono già delle sentenze: non è sequestrabile un quotidiano online con direttore responsabile, che gode delle garanzie dell'articolo 21, ma sono sequestrabili blog e pagine Facebook che fanno discorsi diffamatori, che costituiscono reato, quindi non è possibile lasciarle intatte a continuare un'attività che a quel punto è criminosa. Nessuno vuol sequestrare nulla a Salvini: si sequestra ciò che è usato in modo incontinente, aggressivo e quindi delittuoso", specifica l'avvocato, "Nessuno vuole limitare la sua libertà di espressione politica, può fare anche critiche feroci, ma si vuole impedire che possa usare questi strumenti facendo dei reati. Lo si fa a lui come lo si farebbe a qualsiasi altro cittadino. O pensa di avere un privilegio, che lui possa delinquere e altri no?".
E il quotidiano la Stampa attacca Salvini: "Lui non dà il buon esempio, ma moderate il linguaggio". Il quotidiano La Stampa scrive un commento contro il ministro Salvini. Il vicepremier leghista lo vede e lo mostra in rete. Giovanna Stella, Venerdì 19/07/2019, su Il Giornale. Sono giorni davvero particolari questi. Il governo è appeso un filo, anche se oggi entrmabe le parti si sono aperte l'una all'altra. Diciamo che hanno cercato di venirsi incontro anche se sul tema delle autonomie non vanno troppo d'accordo. Ma proprio mentre si cercano di spegnere alcuni fuochi, la notizia del rientro in Germania di Carola Rackete riaccende i riflettori sull'eroina della sinistra. Il motivo? La sua manovra spericolata nel porto di Lampedusa non è paciuta ai più, le medaglie di Francia e Catalogna nemmeno e ora pure un commento dell'autorevole quotidiano La Stampa agita ( di nuovo) le acque. Non si sa di quando sia questo commento, fatto sta che Matteo Salvini lo ha "screenshottato" e postato sui suoi profili social. Ma vediamo bene cosa è successo. Nello screenshot pubblicato dal vicepremier leghista, si vede un video pubblicato La Stampa. Nel video in questione Salvini replica a Carola Rackete. Fin qui nulla di strano se non fosse per un commento del quotidiano: "Gentili lettori, capiamo bene che il ministro Salvini è il primo a non dare il buon esempio, ma vi preghiamo di moderare il linguaggio. Grazie". Commento circondato di rosso dal leader del Carroccio. Commento che ha lasciato un po' perplessi gli utenti e lo stesso Salvini: "Accidenti".
Carola contro Salvini: chiudetegli “il becco”. Michel Dessì l'11 luglio 2019 su Il Giornale. Attenzione, la paladina della democrazia gioca a fare la fascista. Sì, Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3, indossa la camicia nera e alza la voce. Vuole chiudere il becco a Salvini. Basta cinguettii e post su facebook, i profili social del ministro vanno chiusi. La parola d’ordine della capitana è una sola: CENSURARE. Ma come, dov’è finito quello spirito rosso di libertà di pensiero, di parola, di espressione che la capitana ha mostrato sul molo di Lampedusa? Proprio lei “minaccia” ed intimidisce Salvini? La donna dei porti aperti vuole i profili chiusi. Qualcosa non funziona. Troppe offese, dicono i legali, che hanno preparato una bella denuncia per diffamazione e istigazione a delinquere contro il ministro. L’avvocato chiede il sequestro dei profili Facebook e Twitter del leader della Lega. A loro dire “risultano pubblicati e diffusi i contenuti diffamatori e istigatori” contro la capitana tedesca. Già “sbruffoncella” è un po’ troppo. Questo è un nuovo atto della commedia “Sea Watch”. Questa volta, però, il palcoscenico non è quello caldo e umido di Lampedusa, ma il rovente tribunale di Roma. Il sipario si riapre e Carola si riprende la scena puntando il dito contro Salvini. Un ottimo modo per sponsorizzare la ONG tedesca che, nei giorni scorsi, con la nave a mollo a poche miglia dalla costa italiana, ha incassato centinaia di migliaia di euro per le spese legali della capitana. La risposta di Salvini, però, non è tardata ad arrivare e, proprio tramite i social scrive: “La comunista tedesca quella che ha speronato la motovedetta della Guardia di Finanza, ha chiesto alla Procura di chiudere le mie pagine Facebook e Twitter. Non c’è limite al ridicolo. Quindi posso usare solo Instagram?”. Se la capitana dovesse spuntarla anche questa volta sul capitano il numeroso popolo social di Salvini (8.543.163 di followers tra facebook e twitter) rischierebbe di rimanere senza “guida”. Dovranno rinunciare alle foto dei cappelletti, delle fette di pane e nutella, degli arancini e, soprattutto, alle sue dirette fiume. Una pretesa, quella della capitana, che non può essere accolta. Noi siamo democratici lei, forse, un po’ meno.
Carola Rackete contro Salvini, la Meloni: "Inaccettabile attacco alla libertà dalle truppe immigrazioniste". Libero Quotidiano l'11 Luglio 2019. Per Giorgia Meloni la richiesta di Carola Rackete ai magistrati di sequestrare i profili social di Matteo Salvini è un "inaccettabile attacco alla libertà di espressione da parte delle solite truppe immigrazioniste". "L'indagata per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina", spiega la leader di Fratelli d'Italia, ha come obiettivo quello di "mettere a tacere" il ministro degli Interni italiano, con cui la Sea Watch si è scontrata duramente nei giorni dello sbarco forzato a Lampedusa. "Secondo questa gente chiunque si schieri contro l'immigrazione di massa dovrebbe essere censurato e messo nelle condizioni di non esprimere il suo pensiero - accusa la Meloni -. Episodio gravissimo che dimostra l'arroganza di chi è convinto di poter dettare legge a casa nostra. Piena solidarietà e sostegno al nostro Ministro dell'Interno. Mi auguro che le istituzioni e tutte le forze politiche avranno la decenza di prendere le distanze da questo ennesimo attacco alla nostra democrazia".
In Onda, Giorgia Meloni demolisce David Parenzo: "Balla su di me nel suo libro. Deliri". Libero Quotidiano l'11 Luglio 2019. "Ha scritto un libro che si chiama I Falsari, che è autobiografico. Prende e manipola i post, miei nello specifico. In uno mette in bocca a me ciò che ha detto lui adesso". Inizia così la demolizione di David Parenzo ad opera di Giorgia Meloni, andata in scena durante l'ultima puntata di In Onda su La7. Si parla di immigrazione e ricollocamenti, e la leader di Fratelli d'Italia sbugiarda il giornalista schieratissimo a sinistra, accusato di aver manipolato un suo post su Facebook. "Manomette un mio post e poi mi insulta. Siamo alla follia, siamo al delirio", azzanna. Topo Gigio, evidentemente stizzito e in grave difficoltà, prova a ribattere: "Non voglio usare la mia trasmissione per...". "Non si preoccupi - lo interrompe la leader di FdI -, la voglio usare io, perché considero questa diffamazione". Parenzo a quel punto invoca i magistrati, uno tra i suoi 'vizietti' preferiti. "La faccia in tribunale. Se ha dei problemi mi fa una bella querela per diffamazione e ne parliamo in tribunale". La Meloni non molla: "Io voglio parlare della sua serietà, perché lei falsifica le dichiarazioni degli altri. Lei non è completamente lucido", lo affonda. E ancora: "Uso la trasmissione per denunciare che esistono giornalisti come Parenzo che falsificano le mie dichiarazioni per poter far credere quello che vogliono". Parenzo insiste, ripete ad alta voce: "Perché allora non mi ha querelata? Perché?". E la Meloni: "Non l'ho querelata perché me ne sono accorta adesso". Di che cosa si stia parlando la Meloni lo spiega per filo e per segno: "Io faccio un post dicendo: Conte e Di Maio parlano come Renzi: "Se gli immigrati che arrivano in Italia non saranno distribuiti in Europa allora taglieremo i fondi alla Ue". E commento: ma la soluzione all'invasione dell'Italia non è far invadere l'intera Europa, l'unica soluzione è il blocco navale. Parenzo prende questo post, lo manipola, lo riscrive. Mette in bocca a me il fatto che avrei detto di voler tagliare i fondi alla Ue. Poi dice: "Minacciare di tagliare i soldi è pura follia", esattamente quello che ha proposto adesso". Una clamorosa figuraccia, per David. Infine, la Meloni ribadisce il concetto iniziale: "Io segnalo che lei ha scritto un libro che si chiama I Falsari che è autobiografico". Parenzo, tesissimo, ripete a nastro: "Non uso questa trasmissione per un fatto personale". Cala il sipario.
David Parenzo, figuraccia totale con la Meloni: il video delle scuse in cui ammette l'errore. Libero Quotidiano il 12 Luglio 2019. David Parenzo ammette l'errore con un video su Youtube. Il conduttore di In Onda ammette di aver fatto un errore nell'attribuzione di un virgolettato di Giorgia Meloni, che ha smascherato la cosa ieri in diretta su La7. La Meloni se la prende con il libro di Parenzo, I falsari. “In questo libro in cui dice che noi ci inventiamo le cose prende e manipola i post miei”, accusa l’esponente del centrodestra. “Qui c’è un post manipolato in cui Parenzo mette in bocca a me un post che dice esattamente quello che ha detto lui adesso tipo che io avrei proposto che le nazioni che non si occupano del ricollocamento non devono avere i fondi dall’Ue – denuncia - cosa che io non ho mai scritto, e poi mi insulta su una cosa che tra l’altro lui ha appena detto”. “Siamo alla follia, questa è diffamazione”, sbotta la Meloni...All'accusa, Parenzo aveva risposto: "Se pensa di aver ragione mi porti in tribunale". Ma oggi il suo tono è decisamente cambiato.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” 13 luglio 2019. Caro David, quando capirai che questo è l' articolo di un amico sarà troppo tardi. Anzi è già troppo tardi, sono io che me la sto raccontando: non sei recuperabile, perché sei passato da rabdomante e infant-prodige del giornalismo trash - ai tempi di Telelombardia, quando ti evitavo come la peste - a una funzione di improbabile e petulante maestrino del correttismo, una macchietta del trash-chic, uno scontato spregiatore di x e un infaticabile lecchino di y, un finto puro epurato dall' immagine che non sai di riflettere. Due cose ti hanno condizionato, a mio parere: una è un conformismo all' italiana di vecchia data, la seconda presto condurrà il Tg3. Ma così stiamo annoiando il lettore: prima la cronaca, il pretesto. Allora. Mercoledì sera tu e Luca Telese stavate conducendo In Onda su La7 (a proposito, ma che te sei magnato?) e l'ospite era Giorgia Meloni di Fratelli d' Italia, anzi di «Manganelli d' Italia», come dici spesso anche alla radiofonica «Zanzara» (con Cruciani) nel tuo refrain contro il razzismo e il fascismo e la Lega e i grillini eccetera, roba che ti caratterizza prevedibilmente ormai da troppo tempo; prima ancora che apri bocca, infatti, si sa già che cosa dirai o urlerai o additerai, il tutto in un casino di interruzioni e slogan e soperchierie che sono tuo marchio di fabbrica, e lo sai. È brutto da dire, ma tra le ragioni del tuo «successo» ci sono queste cose. Ma dicevamo. Giorgia Meloni ha citato un tuo libro intitolato «Falsari», uscito ad aprile scorso, e ti ha palesemente subito innervosito perché già sapevi dove andava a parare. Per farla breve: ha detto che «Falsari» è in realtà un libro autobiografico (migliore battuta della serata) e ha cercato di dimostrarlo purtroppo credibilmente. La sua versione: il 27 agosto 2018 la Meloni aveva postato su Facebook che «Conte e Di Maio parlano come Renzi: "Se gli immigrati che arrivano in Italia non saranno distribuiti in Europa, allora taglieremo i fondi alla Ue". Ma la soluzione all' invasione dell' Italia non è far invadere l' intera Europa, perché un miliardo di africani non ci stanno in Italia, come non ci stanno in Europa. Basta perdere tempo. L'unica soluzione è il blocco navale. Gli immigrati qui non ci devono arrivare». Questo il post. Parenzo, racconta la Meloni, a quanto pare l' ha preso e, nel libro, a pagina 107, ha riportato un taglia e cuci che attribuisce alla Meloni la frase che lei stessa aveva citato per criticarla. Aggiungendo, Parenzo, nel libro: «Minacciare, come fa la Meloni, di tagliare i soldi che diamo alla Ue, è pura follia». E infatti lei non l' ha detto - precisa la Meloni - perché semmai è il Pd a ripeterlo sempre. Il paradosso è che durante la serata l' aveva ripetuto anche Parenzo.
Ora: non è difficile verificare se il falso spiegato dalla Meloni sia tale (e se Parenzo sia il vero falsario) e però, fingendo di voler giudicare anche solo a pelle - conosco entrambi abbastanza bene - penso che abbiano creduto alla Meloni quasi tutti, e tu, David, sai anche questo. Ma in ogni caso è la tua reazione ad averti condannato prima di altro. Rivolto alla Meloni, hai obiettato: «Non le rispondo nel merito perché non voglio usare la mia trasmissione », la dimostrazione del falso «la faccia in tribunale la faccia in tribunale la faccia in tribunale la faccia in tribunale la faccia in tribunale la faccia in tribunale la faccia in tribunale la faccia in tribunale la faccia in tribunale la faccia in tribunale la faccia in tribunale in tribunale in tribunale in tribunale in tribunale in tribunale in tribunale». Sedici volte. In circa due minuti. David, ma che tribunale e tribunale? Ma che è? La Meloni mica ti ha accusato di averle rigato la macchina, non era mica una cosa vostra da risolvere a carte bollate: l' argomento era al centro della trasmissione e l' avevi appena piazzato tu, benché lei fosse stra-preparata ad afferrarlo dopo che tu l' avevi lanciato dal trampolino. In gioco era la buona fede o la cialtroneria di uno o dell' altra sul tema discusso in quel momento: e perché accidenti se ne dovrebbe discutere in tribunale? Ma poi: che cos' è 'sta mania del tribunale? Una volta non la pensavi così, non avevi questo vezzo ora comune - in un certo ambiente - di giudizializzare tutto, mettere nelle mani di un giudice o giudicessa (una che ha fatto i corsi con Bellomo, magari) anche la verità più dimostrabile, la propria onorabilità, dignità, professionalità. La Meloni non ti ha querelato: ringraziala, visto che di norma passiamo il tempo a lagnarci delle querele e degli attentati alla libertà d' informazione. Poi un consiglio non richiesto: torna a fare il giornalista. Torna a fare domande, semplici domande per ottenere risposte che non conosci anziché cercare, per scandalizzarti, risposte che già conosci da immolare ai tuoi pregiudizi. «Ma allora Lei è d' accordo con Serraj», «ma anche Putin ha fatto questo», più altre lezioni di geopolitica tipo «ci dovrebbero essere delle sanzioni per». Oh Parenzo, senti, forse non è troppo tardi per farti capire che a nessuno frega un cazzo di opinioni che non sono opinioni, ma posizionamenti: neanche a quell' intellighenzia (scusa il termine, non me ne viene un altro) che hai cercato per la presentazione dei tuoi libri. Mario Monti, Emma Bonino, Giuliano Ferrara, per dire. Non gliene frega un cazzo a loro. Figurati a noi. Dài retta, torna al vecchio mestiere, David, che non lo fa quasi più nessuno.
L'armatore di Mediterranea fa come Carola: querela Salvini. L'armatore della nave della Ong Mediterranea, Alessandro Metz, si scaglia contro il ministro dell'Interno: “Voglio arrivare ad un processo in cui si verifichi se io sono veramente uno scafista, un trafficante, come mi ha appellato”. Alessandra Benignetti, Lunedì 08/07/2019 su Il Giornale. Dopo la maxi multa di 65mila euro e il sequestro amministrativo del veliero Alex disposto dalla Guardia di Finanza per "l'ingresso accidentale nelle acque territoriali italiane” dell’imbarcazione della Ong Mediterranea Saving Humans, l’armatore della nave passa all’attacco e minaccia querele nei confronti del titolare del Viminale. “Il ministro Salvini vive perennemente in campagna elettorale, dove si può dire qualsiasi cosa, tanto nessuno ti chiede mai conto, bene, allora andiamo in un luogo in cui si possa verificare fino in fondo se quello che afferma è giusto o meno”, ha detto Alessandro Metz, intervistato da Radio Capital. “Voglio arrivare ad un processo in cui si verifichi se io sono veramente uno scafista, un trafficante, così come mi ha appellato”, ha minacciato l’armatore triestino dopo che le sanzioni previste dal decreto sicurezza bis hanno colpito l’imbarcazione che nei giorni scorsi aveva fatto rotta verso le coste italiane dopo aver recuperato 59 migranti al largo della Libia. “Se non lo sono – ha continuato Metz - magari Salvini diventa un finanziatore involontario di Mediterranea, perchè dovrà darci dei soldi e con quelli faremo delle nuove operazioni e magari salveremo anche delle vite". Il patron della Ong, che ha fatto sapere di voler presentare ricorso contro le sanzioni, ha poi espresso gratitudine nei confronti dei supporter dell’organizzazione: “Nonostante si parli sempre del consenso a Salvini, alla linea dura, alla Lega ed ai porti chiusi, vedi che nel momento del bisogno e di maggiore repressione c'è una risposta enorme di migliaia di persone a sostegno di invece chi ancora oggi auspica e pratica la possibilità di un Paese diverso”, ha detto lanciando un appello a fare nuove donazioni che consentano alla Ong “di tornare il prima possibile in mare". Venerdì scorso anche Alessandro Gamberini, il legale della capitana della Sea Watch, Carola Rackete, aveva annunciato un'azione legale nei confronti del ministro Salvini per gli "insulti" ricevuti dalla comandante della nave della Ong nei giorni successivi all'attracco nel porto di Lampedusa. A ribadire la volontà di querelare il capo del Viminale era stata la stessa attivista tedesca in un'intervista a Repubblica. "Sono preoccupata dai toni che usa MatteoSalvini, dal modo in cui esprime le sue idee che violano i diritti umani", aveva detto la capitana della Sea Watch 3, definita "sbruffoncella" dal leader leghista". "L'ho querelato per questo e l'ho denunciato per istigazione a delinquere", aveva ribattuto la Rackete.
Paolo Dimalio per il “Fatto quotidiano”l'8 luglio 2019. Salvini e mezza Italia la volevano in galera. Ma ora è Carola Rackete a meditare se spedire in tribunale gli italiani. La querela per il Capitano leghista è pronta. Il reato? Diffamazione e istigazione a delinquere, ha annunciato Carola. Salvini è spavaldo: "Non mi fanno paura i mafiosi, figurarsi una ricca e viziata comunista tedesca!". Come per il caso della nave Diciotti: poi il vicepremier ha scansato il processo grazie al voto dei Senatori. Tutti contro Carola. Dopo l' attracco "spericolato" al porto di Lampedusa con 40 migranti a bordo, urtando la motovedetta della Guardia di Finanza, sulla comandante tedesca si è abbattuta una tempesta d' insulti social. Salvini ha aggiunto il carico da 90, su Facebook: "fuorilegge", "delinquente", "criminale; gli epiteti ricorrenti per qualificare Carola. Lei però è solo indagata. I suoi avvocati consigliano le vie legali anche per i leoni da tastiera. Carola non ha ancora deciso, ma al momento giusto dovrà scegliere: dimenticare le offese o querelare tutti? Sui social, un fotomontaggio recita: "Dopo 14 giorni che ti prendi pisellate da 43 Mao Mao, decidi di sbarcare a Lampedusa .". Il resto, lo lasciamo alla fantasia.
Selvaggia Lucarelli, su Twitter, ha stigmatizzato il delirio: "Donne che se la ridono condividendo 'sta roba. Ho esaurito le parole". Il meme era apparso sulla bacheca Facebook di una giovane madre, cui la gogna è tornata indietro, come un boomerang, e con gli interessi: "Ti sarebbe piaciuto essere al posto di Carola, tranquilla cessa immonda che pur di non scoparti si sarebbero fatti tutti rimpatriare", si legge sul suo profilo. Oppure: "Magari ti querelino così ti passa la voglia". È lo stesso auspicio di Alessandro Milan, giornalista di Radio 24, che cinguetta su Twitter: "Spero che Carola quereli e si goda lauti guadagni".
Diffamazione online. Internet non è una galassia senza regole. L'articolo 595 del codice penale (3 commi) vale anche sul web: "Chiunque, comunicando con più persone offende l' altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro". La pena aumenta, se chi diffama descrive un fatto preciso. Un conto è l' insulto, ma la bufala è peggio. Ad esempio, sul web circola un meme su Carola: "È già stata in galera per possesso di cocaina e carte di credito rubate". Tutto falso, perciò raddoppiano galera e sanzione economica. Vale il comma 2 dell' articolo 595: "Se l'offesa consiste nell' attribuzione di un fatto determinato, la reclusione è fino a 2 anni, la multa fino a 2.065 euro". La l' offesa digitale dura più della pietra. Quindi scatta l'altra aggravante, il comma 3: "Se l' offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, la pena è della reclusione da 6 mesi a 3 anni o della multa non inferiore a 516 euro". Rischia grosso, chi scambia Facebook o Twitter per il far west. La Cassazione lo ha ribadito con la sentenza n. 24431 del 2015: diffamare via social è ancora più grave, perché gli insulti si diffondono rapidamente, senza scampo, ad una platea senza confini.
Nessuna paura. Gli internauti però non temono sanzioni. "Non se si condivide su Facebook un post di una testata giornalistica", dice Marica (nome di fantasia). Sulla sua bacheca campeggia il meme di Carola condannata per cocaina: "L' ho letto su mag24.es". Come la falsa notizia sulla patente nautica, di cui la Capitana sarebbe sprovvista. Peccato che la fonte non sia una testata giornalistica, ma un blog anonimo. Marica non crede alla storia dei profughi che rischiano la vita: "I clandestini palestrati, grassi e con cellulare e occhiali da sole fuggivano da un villaggio vacanze?". Sul suo profilo, Marica si scaglia contro il giudice Alessandra Vella, colpevole di aver scarcerato Rackete, la sera del 2 luglio. Per evitare la gogna, la toga ha subito cancellato il profilo Facebook. Ma il linciaggio è scattato, implacabile. Matteo Salvini, del resto, era stato lapidario, all' indomani della liberazione di Carola: "Mi vergogno per i magistrati. La ricca fuorilegge, la comandante criminale, la rispediamo in Germania". Gli insulti hanno travolto anche il Pd. Nicola Zingaretti, su Facebook, annuncia querele: "Ora basta. Gli attacchi sul web stanno diventando DIFFAMAZIONE ". Celebre il fotomontaggio sull' abbuffata a bordo della Sea Watch, con Graziano Delrio, Nicola Fratoianni, Matteo Orfini e Riccardo Magi a banchettare con ogni ben di Dio. Opera di un deputato leghista. "Solo uno scherzo", si è difeso su Facebook Alex Bazzaro: "Lo scopo umoristico era chiaro". Sicuro: chi non ha riso alla battuta? Prova a prendermi. L' ironia è una giustificazione in voga, perché allontana la condanna. "Vero, la satira è sacrosanta - dice l' avvocato Caterina Malavenda - ma deve essere desumibile dal messaggio e dal contesto". A volte, i diffamatori social si nascondono dietro nomi di fantasia: "Sì, ma basta risalire all'indirizzo ip e al suo titolare, per identificare l' autore: poi si può querelare". C' è sempre l'alibi dell' hacker: "Ma va dimostrato con una perizia in tribunale". Carola, il Pd e il giudice Vella possono adire le vie legali. Ma anche alcuni diffamatori sono stati bersagliati d' insulti. E se querelassero pure loro? I tribunali chiuderebbero bottega, visto l' andazzo da trivio. Molte offese, tuttavia, sono comuni: "La Cassazione ha già stabilito che cretino non è un insulto e qualche giudice ha sdoganato il termine coglione”, dice l' avvocato Malavenda. Giù con le offese allora: più si usano, meno si rischia.
· Quelli che…“Porti aperti”.
Mostrano su Facebook le case abitate da stranieri: denuncia per due di Fratelli d’Italia. Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Deputato e consigliere comunale pubblicano un video in cui mostrano i citofoni degli alloggi popolari con i nomi degli inquilini immigrati. Il blitz segnalato al Garante della privacy
«Qui abita Mohamed con la famiglia...qui due albanesi...in questa palazzina altri immigrati...»: in un video pubblicato su Facebook e in seguito rimosso due esponenti di Fratelli d’Italia di Bologna hanno effettuato una sorta di «schedatura» passando in rassegna citofoni e portoni e mostrando nomi e cognomi e indirizzi degli stranieri che occupano alloggi popolari del capoluogo emiliano. Un modo - a loro dire - di denunciare come i criteri di assegnazioni delle case pubbliche penalizzino gli italiani. Ma i due ora dovranno fare i conti con una segnalazione al Garante della privacy e possibili conseguenze legali per istigazione all’odio. Protagonisti dell’iniziativa sono stati il deputato Galeazzo Bignami e il consigliere comunale Marco Lisei, entrambi appartenenti al partito di Giorgia Meloni. Sono stati passati in rassegna diversi fabbricati di alloggi popolari a Bologna: l’inquadratura mostra i nomi sui portoni e sui campanelli d’ingresso sottolineando in molti casi come la maggioranza degli inquilini siano immigrati. Famiglie che occupano abusivamente quelle case? Che non sono in regola con il pagamento dei canoni? Il video non lo specifica, si limita a mettere in evidenza l’origine di chi vi abita per arrivare a dimostrare una «discriminazione» a danno degli italiani. E la riservatezza? «Ci diranno che stiamo violando la privacy - dice Bignami - ma non ce ne frega assolutamente nulla, perché se stai in un alloggio popolare e c’è il tuo nome sul campanello bisogna che ti metta nell’ottica che poi qualcuno può andare a vedere». L’intemerata non è passata inosservata: Cathy La Torre, avvocata bolognese e promotrice della campagna «Odiare ti costa» ha prima denunciato l’episodio su twitter e poi presentato un esposto al Garante della privacy . Si tratterebbe a suo avviso di un comportamento che viola le basilari norme della privacy (i dati sono stati diffusi senza il consenso degli interessati) ma non solo. «Sulle case e i negozi degli ebrei i nazisti affiggevano cartelli che potessero agevolarne il riconoscimento. Oggi il censimento della razza che “ruba” agli ariani si fa con telecamera» scrive La Torre. «Quelle famiglie - prosegue - abitano in quelle case legittimamente, non le hanno rubate a nessuno, sono state assegnate loro per diritto. Quale sarebbe la loro colpa? Perché sottoporli a questa violenza? Ovviamente la loro colpa è essere stranieri, essere di un’altra “razza”, essere carne da macello elettorale».
"Tutte le case a stranieri". Mostrano i nomi: denunciati esponenti FdI. Galeazzo Bignami e Marco Lisei sono stati segnalati al Garante della Privacy per aver mostrato i nomi degli assegnatari sui citofoni. E ora rischiano sanzioni. Pina Francone, Lunedì 11/11/2019 su Il Giornale. Durante una diretta Facebook, Galeazzo Bignami e Marco Lisei – rispettivamente onorevole e consigliere comunale di Bologna, per Fratelli d’Italia – hanno mostrato i citofoni di alcune case popolari alla Bolognina, leggendo i nomi degli inquilini stranieri. Questo succedeva la scorsa settimana e in seguito al loro filmato è scoppiata la polemica in città. E non solo. "Ci diranno che stiamo violando la privacy, ma non ce ne frega assolutamente nulla, perché se stai in un alloggio popolare e c’è il tuo nome sul campanello bisogna che ti metta nell’ottica che poi qualcuno può andare a vedere", le parole in diretta Fb del deputato di FdI. Bignami, insieme al compagno di partito Lisei, voleva denunciare i criteri di assegnazione degli alloggi pubblici, mostrando come il sistema attualmente in vigore penalizzi gli italiani. Nel filmato postato e poi rimosso dal noto social network, i due esponenti politici hanno ripreso le targhette con i nomi degli immigrati, leggendoli ad alta voce. Per questo, ora, sono finiti nei guai, a seguito di un esposto presentato al Garante della Privacy da parte dell’avvocato Cathy La Torre. L’attivista, denunciando l’accaduto, ha così scritto: "Sulle case e i negozi degli ebrei i nazisti affiggevano cartelli che potessero agevolarne il riconoscimento. Oggi il censimento della razza che 'ruba' agli ariani, si fa con telecamera e Facebook". La Torre, inoltre, ha aggiunto: "Poiché però non siamo (ancora) in un’Italia nazista, ma in uno Stato di Diritto retto dalla Costituzione Italiana, ricordo ai due Colleghi Avvocati e candidati che per la legge, la diffusione di nomi, cognomi indirizzo di residenza degli assegnatari degli alloggi popolari per essere lecita deve ricevere il consenso degli interessati". Nella mattinata di oggi, lunedì 11 novembre, Galeazzo Bignami – sempre tramite Facebook – ha tenuto il punto sul fatto, spiegando il senso della loro iniziativa alla Bolognina, peraltro su segnalazione di un ragazzo di colore: "Colpa del 15% di immigrati residenti che ottiene il 60% di case popolari? No, colpa di leggi e norme sbagliate che vanno cambiate e non certo selezionando sulla base del colore della pelle. Le cambieremo, quelle norme e regole, approvandone col consenso popolare di nuove e più eque, più trasparenti e condivise". Dunque, l’attacco al Partito Democratico locale e nazionale: "Il Pd mi accusa di incitamento all’odio razziale: ma come, diamo voce ad un ragazzo di colore che denuncia questo problema e siamo noi che incitiamo all’odio razziale? E voi, che lo censurate, cosa siete?". E ancora: "A noi interessa che vengano riequilibrati i criteri di assegnazione delle case popolari, ritenendo profondamente sbagliato un sistema come quello che vige in Emilia Romagna, basato su norme approvate dal PD e dai suoi alleati. Si badi bene, nessuno incolpa gli immigrati, i quali utilizzano norme e disposizioni legittime, ma che appaiono del tutto inique. La denuncia, che quindi ribadisco, non è verso di loro, ma verso le scelte compiute dalle sinistre. A queste dobbiamo porre rimedio e lo faremo tra qualche mese. Nel frattempo facciano pure esposti e denunce, anche al Garante della Privacy, ovvero all’ex parlamentare del PD Antonello Soro, stimatissimo esperto della materia. Quando denunciavamo senza mostrare nulla, dicevano che non era vero. Ora che lo abbiamo dimostrato dicono che incitiamo all’odio e violiamo la privacy, senza neanche sapere che i nomi e i cognomi dei beneficiari, come stabilito dallo stesso Garante già dal 2007, sono pubblici . Ad ogni modo spero che qualcuno voglia rispondere alla mia domanda: perché a Bologna il 60% degli alloggi popolari viene dato ogni anno a non italiani? Nell’attesa denuncerò chi in queste ore si diverte a minacciarmi di morte e cose simili". Sul caso, ora, deciderà il Garante della Privacy.
La famiglia italiana cacciata: "Se voi foste stati stranieri..." Molte case vuote nelle popolari: se gli italiani vengono allontanati, gli immigrati rimangono: la legge, per loro, non vale. Eugenia Fiore e Fabio Franchini, Giovedì 10/10/2019, su Il Giornale. "Se andiamo avanti così, qui di italiani non ne rimarrà nessuno". Siamo nel cortile di una casa popolare a due passi da Piazza Abbiategrasso, a Milano. Un grosso condominio gestito (male) da MM-Metropolitana Milanese, in stato di totale abbandono. Il palazzo cade a pezzi, ma il Comune aumenta gli affitti. I residenti si sentono presi in giro: sono esasperati dai disservizi e dall'essere trattati come cittadini invisibili. Un palazzone a "elle" abitato da italiani e stranieri, con quattro scale e una quarantina di appartamenti sfitti, vuoti. " Dov'è l’emergenza abitativa di cui parlano tanto?", si sfoga con noi un condomino. Quindi, ci si fa incontro Michela, una donna che viveva in quello stabile fino a qualche mese fa: "Ero irregolare, è vero, ma non per colpe tutte mie: vivevo qui con il mio ex marito e per anni non mi sono mai occupata di queste cose burocratiche, mi sono sempre fidato di lui, sbagliando. Ora però non è giusto che paghino i miei figli". Ci facciamo raccontare la sua storia: "Di fatto, sono stata cacciata, anche se non mi hanno fatto lo sgombero: ho lasciato l'alloggio di mia spontanea volontà, visto che l'ispettore di MM mi diceva che se non lo avessi fatto, avrebbero preso una denuncia anche i miei figli e dunque saremmo stati sgomberati. Allora ce ne siamo andati prima: non volevo pagassero colpe che non hanno". È tanta la rabbia e sono tantissime le lacrime. Poi continua: "C'è gente che è qua da anni e che non ha mai pagato l'affitto, però è rimasta e vive tuttora qui. Quando sono andata in Comune, un funzionario mi ha detto 'Signora, se fosse stata straniera…', senza finire la frase". E da quel giorno questa frase mi rimbomba in testa, da quel giorno mi sento straniera nel mio Paese. Purtroppo, mi hanno fatto sentire così…”. Ora la signora è stata segnalata e per cinque anni non può fare domanda. Lo stesso vale per i suoi figli, tutti e tre maggiorenni. Quel funzionario forse voleva proprio intendere che se fosse stata un'immigrata, con figli piccoli, allora le cose sarebbero andate diversamente. Ma può essere una colpa essere italiana con figli maggiorenni? Certo, era irregolare, ma tanti abusivi vivono ancora in quel condominio. Nel quale, peraltro, ci sono quaranta alloggi vuoti. Qualcuno da mesi, qualcun altro da anni. E da anni, per l'esattezza dal 1993, Michela ha fatto domanda insieme al marito. E così via via fino al 2012, quando una legge contro gli abusivi li ha esclusi dal diritto di avanzare richiesta. Domande sempre non accolte o respinte. Poi la separazione e Michela è rimasta sola a badare a tutto. Ha cercato lavoro e lo ha trovato, per dar da mangiare ai suoi ragazzi. Per adesso si è appoggiata dai genitori, insieme a due dei tre figli:"Mia figlia più grande, per ora, vive dai parenti del fidanzato: ha fatto richiesta per il reddito di cittadinanza, ma le è stata respinta. I servizi sociali non possono fare niente perché non ho figli minorenni, il Comune idem, perché sono stata segnalata e non ho diritto neanche ad un alloggio provvisorio. I miei figli cercano lavoro e non lo trovano…cosa dobbiamo fare?". E qui un suo amico, che abita ne palazzo, sbotta: "Le leggi italiane sono fatte alla c…, perché o valgono per tutti, o non valgono per nessuno. A noi italiani ci chiedono il 730 e il Cud e ora anche lo stato dei nostri risparmi, ma scherziamo? Ci siamo messi un nodo al collo per mettere qualcosa da parte. E gli immigrati col cavolo che portano queste documentazioni, fanno i furbi. Se hanno, per dire, una casa in Marocco, mica presentano la documentazione…". Il grido di disperazione di Michela è l'ultima fotografia di una realtà drammatica che le istituzioni fanno finta di non conoscere: "Cosa devo fare? Sono disperata. Non ho niente, niente. Dove vado? Fra un po' finirò in mezzo alla strada. Non ho più la mia vita, è un incubo e sto perdendo le forze: ci sono dei momenti in cui vorrei morire. Nessuno può immaginare quanto stia male per i miei figli: vado avanti solo per loro, perché hanno bisogno di me".
Da liberoquotidiano.it il 18 ottobre 2019. Dove sono finiti Laura Boldrini, Roberto Saviano e Gad Lerner? Se lo chiede anche Matteo Salvini, di fronte al boom di sbarchi, naufragi e stragi nel Mediterraneo. "Ora che comandano i buoni - è l'ironia amara del leader della Lega, ex ministro degli Interni - sono aumentati i morti ma sono sparite le magliette rosse e l'indignazione". Il riferimento è ai politici e intellettuali di sinistra che nel luglio 2018, quando Salvini era da poco ministro degli Interni, sfilarono in rosso in piazza e sui social per protestare contro il governo e "difendere" i migranti dalla politica dei porti chiusi. "I fatti danno ragione alla nostra politica - analizza ora Salvini -: meno partenze, meno sbarchi, meno morti. Con il governo delle poltrone sono aumentate le partenze, gli sbarchi e i cadaveri. Proviamo dolore per chi perde la vita e tanta pena per gli ipocriti che si scagliavano contro i porti chiusi e ora stanno zitti".
Da liberoquotidiano.it il 4 novembre 2019. L'Alan Kurdi è rimasta per otto giorni ferma prima di entrare in porto. E nessuno ne ha parlato. Marcello Sorgi, ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, rivela un clamoroso retroscena su quella vicenda: "Si trattava di una navetta, molto piccola per 170 persone. Vuol dire che le condizioni di vita erano praticamente impossibili. I migranti sulla Alan Kurdi non sono stati fatti sbarcare perché c'erano le elezioni regionali in Umbria". Insomma, conclude l'editorialista de La Stampa, "il governo ha pensato 'teniamola fuori e dopo le elezioni se ne parla'". E così è stato. Dopo cinque giorni dalle regionali in Umbria - che si sono tenute il 27 ottobre - il ministero dell'Interno ha quindi comunicato di aver concluso la "procedura di ricollocazione dei migranti presenti sulla Alan Kurdi, attivata sulla base del pre-accordo raggiunto nel corso del vertice di Malta". E ha quindi indicato Taranto come porto di sbarco.
Arrivano nuovi migranti e chi specula economicamente su di loro ringrazia. Il Corriere del Giorno il 3 Novembre 2019. Il Ministero dell’ Interno ha reso noto che si è conclusa la procedura di ricollocazione dei migranti presenti sulla nave, attivata sulla base del pre-accordo raggiunto nel corso del vertice di Malta. La Germania e la Francia ne accoglieranno 60, il Portogallo 5 e l’Irlanda 2. Dopo pochi giorni il porto di Taranto torna oggi a ricevere al molo San Cataldo una nuova ondata di profughi. La nave “Alan Kurdi” della Ong Sea- Eye è attraccata in banchina intorno alle 8.15 di questa mattina, con a bordo 88 migranti , soccorsi una settimana fa nelle acque libiche . Questo è il secondo sbarco al porto di Taranto dopo quello della Ocean Viking dello scorso del 16 ottobre quando arrivarono 176 migranti, tutti trasferiti presso il Cara di Bari due giorni dopo, e di cui il Viminale al momento non ha fornito alcuna notizia di ricollocamento. La città pugliese torna ad essere “place of safety”, cioè luogo sicuro di primo approdo e verrà applicato lo stesso protocollo operativo di due settimane all’ interno del porto mercantile dove è ubicato un’ Hotspot, centro di identificazione e prima accoglienza, gestito in proroga dal Comune di Taranto, e dalla locale Polizia Municipale, grazie alla massiccia presenza di Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza. Lo scorso 9 ottobre, la Prefettura di Taranto, a seguito di un bando di gara aveva aggiudicato l’Hotspot al Consorzio Sociale Hera, la cui gestione dovrebbe iniziare a gennaio 2020 , a seguito della transizione e conseguenti ricorsi, .
La decisione del Viminale sulla destinazione di Taranto della nave ONG che trasporta gli 88 profughi , le cui operazioni di accoglienza sono coordinate dalla Prefettura di Taranto e vi parteciperanno gli operatori dell’hub, Comune, Asl, Forze di polizia, Marina militare, Autorità marittima e portuale, Guardia Costiera, 118, Croce Rossa Italiana ed associazioni di volontari. Il Comune di Taranto ha reso noto che “Ci sono solo 9 minori non accompagnati e non sono bambini piccoli. La Prefettura ha l’elenco di nostre strutture, comunità educative o ex Sprar (oggi Siproimi). La scorsa volta – sbarco di Ocean Viking di Sos Mediterranee e Medici senza Frontiere il 16 ottobre con 176 migranti – nessuno è rimasto a Taranto e sono stati in Hotspot 24 ore”. Contestualmente il commissario europeo per Migrazioni, Affari Interni e Cittadinanza, Dimitris Avramopoulos, ha comunicato su Twitter di accogliere positivamente lo sbarco a Taranto e l’ulteriore dimostrazione di solidarietà di Italia, Germania, Francia, Portogallo e Irlanda, in questa soluzione coordinata. Il Viminale ha reso noto che si è conclusa la procedura di ricollocazione dei migranti presenti sulla nave, attivata sulla base del pre-accordo raggiunto nel corso del vertice di Malta. La Germania e la Francia ne accoglieranno 60, il Portogallo 5 e l’Irlanda 2. La realtà invece potrebbe rivelarsi ben diversa e proprio per controllare quanto accadrà l’ on. Rossano Sasso, deputato pugliese della Lega ha anticipato e confermato la sua presenza attraverso una nota diffusa dall’ agenzia ANSA:”Ennesimo sbarco in Puglia ancora una volta a Taranto. Apprendo dal Viminale, sempre più ministero dell’invasione, che domani mattina sbarcheranno nella mia Puglia altri 88 immigrati. Sarò al porto di Taranto per testimoniare ancora una volta il no della Lega a questa immigrazione senza regole, alla ripresa dell’invasione, alla rinnovata mangiatoia dell’accoglienza. Per la sinistra ed il M5s l’importante è riaprire i porti e continuare a distruggere la Puglia”. “Con Matteo Salvini avevamo fermato sbarchi fuorilegge e fatto chiudere centri di accoglienza dai quali spesso partivano delinquenti, spacciatori, stupratori; con il governo PD-Renzi-M5S hanno riaperto i porti agli irregolari” aggiunge Sasso “Taranto e la Puglia hanno bisogno di una politica che difenda i posti di lavoro, che difenda il diritto alla salute e non chiuda gli ospedali, di politici onesti che non barattano voti in cambio di assunzioni, ed invece assistiamo esattamente all’opposto. Per la sinistra ed il M5s – conclude il deputato pugliese della Lega – l’importante è riaprire i porti, e continuare a distruggere la Puglia”. Per la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese “non siamo di fronte ad alcuna invasione: basti pensare che nel 2019 gli arrivi sono stati circa 9.600 rispetto ai 22mila di tutto il 2018“. La ministra riconosce che a settembre c’è stato un aumento degli arrivi, “ma è riconducibile soprattutto all’aumento degli sbarchi autonomi”. Per il leader della Lega Matteo Salvini, invece “il ministro dimostra di non conoscere nemmeno i dati ufficiali affermando che gli sbarchi sono aumentati solo a settembre: sono invece cresciuti sia a settembre (2.498 contro i 947 del 2018) che a ottobre (2.015 contro i 1.007 di un anno fa), ovvero da quando c’è lei”. Openpolis fa un bilancio ad un anno dal primo dl, quello che ha eliminato la protezione umanitaria. I dinieghi della richiesta di asilo sono saliti all’80%, i rimpatri sono fermi e continua così a crescere il numero di irregolari: saranno 680mila entro il 2019 e supereranno i 750mila a gennaio del 2021 (erano 491mila nel 2017). Nel frattempo Alarm Phone ha diffuso la notizia su Twitter di un altro salvataggio effettuato a mare “tra ieri sera e stamattina, circa 200 persone in pericolo sono state salvate in acque internazionali e sono ora a bordo del mercantile Asso 30, battente bandiera italiana. La Guardia costiera è informata. Le persone sono scappate dalla Libia e devono essere portate in salvo in Europa!”.
Pure la Asso 30 sbarca in Italia: a Pozzallo altri 151 clandestini. La nave italiana fatta attraccare nel porto siciliano: i migranti sono tutti sub sahariani. Salvini attacca il governo Conte: "È complice o incapace". Luca Sablone, Domenica 03/11/2019, su Il Giornale. Altri 151 migranti pronti a sbarcare in Italia. La nave Asso 30 - che opera a supporto delle piattaforme petrolifere - è approdata a Pozzallo: dopo le manovre di attracco alla banchina di riva del porto, ora si provvederà allo sbarco delle persone. Accanto il traghetto di turisti imbarcati alla volta di Malta. "Più di 200 arrivi di immigrati in poche ore, grazie a ong e rimorchiatori. In tutto novembre 2018 avevamo contato 980 sbarchi"., ha tuonato Matteo Salvini accusando il governo di essere "complice" di chi vuole riempire il Paese di clandestini oppure "incapace" a gestire l'emergenza immigrazione. Come denunciato da Salvini, solo oggi sono sbarcati nei porti italiani più di duecento immigrati senza regolare permesso di soggiorno. Stando a quanto si apprende dalle prime informazioni disponibili, a bordo della nave "Asso 30" vi sarebbero 134 uomini, 13 donne e 4 minori: in buona parte sarebbero sub sahariani. Prontamente sono state attivate tutte le procedure di controllo medico: prima di autorizzare lo sbarco bisognerà attendere il via libera del medico delegato del porto, Vincenzo Morello. A bordo sono saliti anche operatori e forze dell'ordine. Poche ore prima, nel porto di Taranto, il governo Conte aveva autorizzato l'attracco della "Alan Kurdi", la nave dell'ong tedesca Sea Eye. A bordo era presenti altri 88 immigrati che sono stati soccorsi la settimana scorsa a largo delle coste libiche. L'allerta che ha portato all'intervento della nave "Asso 30" è scatto ieri. È stato Alarm Phone, il centralino che segnala le navi cariche di migranti che navigano nel Mar Mediterraneo. Con un tweet aveva lanciato l'avvertimento: "Tra ieri sera e stamattina (ieri mattina, ndr) 200 persone in pericolo sono state salvate in acque internazionali e sono ora a bordo del mercantile Asso 30, battente bandiera italiana". Oggi, dopo il via libera dei giallorossi all'attracco nel porto siciliano, il network telefonico ha subito esultato su Twitter: "Le persone salvate dalla Asso 30 sono arrivate a Pozzallo, porto italiano! Siamo sollevati dal fatto che abbiano rapidamente raggiunto un porto sicuro e non abbiano dovuto soffrire di uno stallo come altri prima!".
Il bluff del governo sui migranti. Mauro Indelicato su it.insideover.com il 26 novembre 2019. Sembra di rivedere la stessa situazione già riscontrata a settembre, quando il governo giallorosso si era da poco insediato e dal fronte dell’immigrazione arrivavano le maggiori insidie sotto il profilo politico. Per provare a stanare le polemiche dovute all’aumento del numero degli sbarchi, Giuseppe Conte ha iniziato a parlare di solidarietà europea, di gestione comune e di quell’approccio costruttivo divenuto mantra del suo vocabolario politico. Si è tirato fuori il concetto di ricollocazione dei migranti in Europa, è stato organizzato su spinta tedesca il vertice di Malta, da cui non è uscito nulla di concreto. Ed è da qui che occorre ripartire per spiegare come anche adesso il governo Conte II stia cercando di attuare un mero stratagemma per spegnere ogni possibile polemica sul fronte migratorio.
Inutile evocare Malta. Negli ultimi giorni è stato il ministro dell’interno Luciana Lamorgese, a proposito delle richieste di ricollocazione dei migranti sbarcati in questa settimana pervenuta da Germania e Francia, a parlare di “svolta storica” vocata alla definitiva attuazione del vertice di Malta. Quest’ultimo, come detto, è stato organizzato su iniziativa di Berlino lo scorso 23 settembre. Una mossa, quella del governo di Angela Merkel, volta ad offrire una sponda all’amico ritrovato “Giuseppi”, il quale dopo aver giurato ed essere succeduto a sé stesso ha iniziato a sventolare la bandiera dell’europeismo “costruttivo”. La Germania, in particolare, voleva dimostrare di avere seria intenzione di mettere in agenda le proposte italiane sulla ricollocazione automatica dei migranti, in tal modo ha offerto all’esecutivo giallorosso l’occasione per dire che “finalmente” Roma è ascoltata da chi comanda in Europa. Ma in realtà a La Valletta, in quel 23 settembre, è andata in scena una mera passerella che ha visto protagonisti i ministri dell’interno di Germania, Francia, Italia, Malta e Finlandia, quest’ultima invitata in qualità di presidente di turno dell’Ue. È venuto fuori un documento di cinque punti, non vincolante e né tanto meno risolutivo. In esso è stato sì previsto un meccanismo automatico di redistribuzione dei migranti, ma solo di quelli sbarcati da navi militari o delle ong. Dunque, soltanto di una parte inferiore al 10% di coloro che sono sbarcati in quel mese di settembre. Non solo: la proposta italiana di rotazione dei porti di sbarco non è passata, è stata prevista solo su base volontaria e non vincolante. In poche parole, dal vertice di Malta è uscito uno scarno documento per giunta non affatto valevole sotto un punto di vista giuridico. Si è spiegato però che le proposte di La Valletta sarebbero poi state vagliate in Lussemburgo l’8 ottobre, nel corso di un vertice con tutti i ministri dell’interno dell’Ue. Ma proprio in quella sede è stata messa la parola fine ad ogni velleità sugli obiettivi enunciati a Malta. In primis perché la stessa Germania si è tirata fuori, visto che il ministro Horst Seehofer ha dichiarato che la redistribuzione non si sarebbe applicata in caso di aumento del numero degli sbarchi. In secondo luogo perché in Europa, a parte 2 o 3 Stati, nessun governo si è mostrato interessato a ricevere il documento siglato a Malta. Un flop, quello del vertice di La Valletta, che ha messo ben in evidenza innanzitutto il bluff tedesco verso l’Italia e poi quello del governo Conte II verso gli italiani. Tirare dunque in ballo, come ha fatto il ministro Lamorgese, il cosiddetto accordo di Malta equivale a riesumare un flop targato giallorosso. Il governo sull’immigrazione è in difficoltà perché, dopo aver a malapena fatto solo parzialmente digerire ad una parte della maggioranza il rinnovo del memorandum con la Libia, deve adesso dare risposta in primis alla sinistra del Pd sulle ong. Non a caso dal Viminale oramai i via libera verso navi ong abbondano, ben tre negli ultimi giorni. Con la giustificazione però che ora in Europa ci ascoltano e che Germania e Francia stanno dando attuazione a quanto concordato a Malta. Ma la stessa Lamorgese rischia l’autogol: tirar fuori quel vertice vuol dire palesare una certa mancanza di argomentazioni volte a giustificare un’impopolare linea morbida con le ong. Sarebbe stato meglio, per il titolare del Viminale, soffermarsi unicamente sui numeri degli sbarchi di novembre, ritornati in linea con quelli del 2018 dopo due mesi di incrementi.
Nulla di storico nell’atteggiamento di Berlino e Parigi. È vero che, in occasione degli sbarchi delle navi Ocean Viking, Open Arms ed Aita Mari, Germania e Francia hanno avanzato la disponibilità a farsi carico di una quota di migranti. Ma questo non ha costituito affatto una svolta storica. Né tanto meno una positiva conseguenza delle intese raggiunte a Malta (e mai sottoscritte in ambito comunitario). Si tratta di un comportamento già avuto da Berlino e Parigi in passato, anche durante la gestione Salvini del Viminale. Quando il braccio di ferro tra governo gialloverde ed ong veniva vinto da queste ultime, si concordavano trasferimenti di quote di migranti in altri paesi europei, in testa Germania e Francia. Quello che hanno fatto i governi di Merkel e Macron, ha riguardato semplicemente una disponibilità su base volontaria di accollarsi i migranti appena sbarcati in Italia. Né più e né meno quello che è stato fatto tante volte in passato. Malta e quel vertice/passerella non c’entrano proprio nulla. Quella “maggiore consapevolezza europea” di cui, tra le altre cose, ha parlato il ministro Lamorgese durante la festa de Il Foglio è rimasta solo sulla carta.
Lamorgese manda un messaggio a Salvini: "Non c'è nessuna emergenza migranti". Il ministro dell'Interno dal palco della Festa del Foglio: "L'accordo di Malta è solo un primo passo. Sono alla ricerca di almeno altri 12 paesi aderenti. I decreti sicurezza? Li cambio". Il Foglio il 23 Novembre 2019. Non è facile tenere il tema della sicurezza lontano dal dibattito politico, resistendo alla tentazione di strumentalizzarlo nella perenne campagna elettorale che vive il nostro paese da oltre un anno. Ma Luciana Lamorgese, da tecnica navigata del ministero dell'Interno - “un'esperienza di 45 anni”, ricorda lei con orgoglio -, parlando alla Festa del Foglio di Firenze, riesce a riportare la discussione nel merito. Si parte sfatando alcuni miti, per lo più imposti dalla retorica salviniana. “In Italia non esiste un problema sicurezza - chiarisce Lamorgese - Esiste piuttosto un problema di sicurezza percepita”. Guardando ai dati e ai fatti, ricorda il ministro, “abbiamo avuto una riduzione del 7 per cento dei reati come le rapine”. “Ma conta poco”, ammette, perché la percezione della sicurezza interessa comunque da vicino tutti i cittadini. Servono risposte per le città, quindi. Ed eccole, quelle firmate Lamorgese: “Occorre particolare attenzione alle periferie, per esempio. Per questo ne stiamo parlando con le amministrazioni locali. Anche a Roma. Le forze di polizia devono agire in modo modulato rispetto al contesto in cui operano e pure i sindaci devono fare la loro parte, dall'illuminazione delle strade, alle iniziative culturali, per non fare delle periferie dei quartieri dormitorio". Sul fronte terrorismo, la vigilanza è continua, al di là della matrice politica o religiosa, dice il ministro. “Distinguerei tra terrorismo nazionale e internazionale ed eviterei di parlare di terrorismo islamico”, puntualizza. Sotto osservazione ci sono tutte le principali sigle già da tempo attenzionate: “Dagli anarcoinsurrezionalisti all'estrema destra, fino ai neonazisti. Spesso si tratta di gruppi senza nome, che restano nascosti nell'anonimato del web”. Ma è l'immigrazione, inevitabilmente, il nodo centrale del tema sicurezza. “Gli irregolari? Se le dicessi che abbiamo i nomi di tutti quelli che sono in Italia le direi una cosa non vera - ammette Lamorgese - Per anni non c'erano le procedure adatte a censire chi arrivava. Ora in Italia ci sono, come il sistema Eurodac. Ma preferirei comunque non mi imbarcarmi nel dire i numeri degli irregolari presenti nel nostro paese, che potrebbero essere smentiti”. “Posso dire - e qui il ministro manda un messaggio chiaro agli allarmisti - che da qualche anno a questa parte la situazione è sotto controllo. L'Italia è uno dei paesi che ha affrontato meglio la crisi dei migranti, che è strutturale. Servono misura e pacatezza, ma la situazione è gestibilissima". Il tema dell'immigrazione passa anche per la Libia. “Pochi giorni fa ho incontrato il ministro dell'Interno libico Fathi Bashagha per parlare del memorandum e della sua riforma. Le modifiche che abbiamo chiesto sono quelle che attengono ai centri di detenzione dei migranti. Chiediamo una chiusura di quelli libici per affidare tutto all'Onu. L'immigrazione non può essere gestita in modo disordinato. E devo dire che ho trovato disponibilità dalla parte libica”. L'altro interlocutore per affrontare il problema dell'accoglienza è l'Europa. L'accordo di Malta con i paesi più volenterosi è stato un punto di partenza, dice Lamorgese: “Certo, sarebbe semplicistico dire che tutto si risolve con ridistribuzione dei migranti. Per esempio, in queste ore nel Mediterraneo ci sono tre navi umanitarie con a bordo quasi trecento migranti da sbarcare”. L'impegno deve essere collettivo per il ministro. “Sono molto contenta dell'accordo di Malta. Basti pensare che la richiesta di suddivisione in Europa non è stata fatta solo dall'Italia - rivela il ministro - ma dai quattro paesi che hanno firmato l'intesa. In particolare, la proposta è partita dalla Germania. E finalmente questo concetto è stato fatto proprio da tutti. Qualcosa sta cambiando in Europa e c'è maggiore consapevolezza. Io da anni ho riunioni con i colleghi esteri sul tema dell'immigrazione e un tempo nessuno ne voleva sentire parlare”. Ma quanti paesi davvero aderiranno all'accordo di Malta? “L'altro giorno c'è stata una riunione con altri 15 paesi, magari non firmeranno tutti, ma io già con 12 sarei soddisfatta, anche perché ogni paese ha una sensibilità diversa”. E come possiamo convincere gli altri che non vogliono accoglierli? “Chi non partecipa deve avere delle conseguenze - dice il ministro dell'Interno - Se l'Europa è unica, se è solidale, non si può pensare che non debba avere contenuti: ecco, questi contenuti per me si basano sulla solidarietà. Non solo un'Europa economica, quindi”.
Infine, altro tema sensibile in tempo di confronto con i populisti, è quello dei contestatissimi decreti sicurezza voluti da Matteo Salvini. Qualsiasi ipotesi di modifica implica scelte politiche precise. “E' inevitabile - ammette Lamorgese - Ma intendo cambiarli tenendo conto dei rilievi presentati dal presidente della Repubblica. Ho già delle bozze di modifiche che tengono conto di quelle osservazioni. Ci sono degli aspetti, come la reiterazione del reato da parte delle navi delle ong, che vanno rivisti. Come nel caso della confisca delle navi, che è un provvedimento di particolare gravità che non può essere applicato d'emblée, non basta una semplice irregolarità ravvisata dalla Guardia costiera”.
Lamorgese attacca Salvini: “Non c'è nessuna invasione di migranti”. Le Iene l'1 novembre 2019. La neo ministra dell’Interno Lamorgese risponde al suo predecessore Matteo Salvini, ribadendo che non c’è alcun allarme invasione e che i centri di detenzione in Libia vanno svuotati. Centri come quello di Tajura, da cui Gaetano Pecoraro ci aveva raccontato storie di torture e di profughi usati come scudi umani. “Non siamo di fronte ad alcuna invasione. Basti pensare che nel 2019 gli arrivi sono stati circa 9.600 rispetto ai 22mila di tutto il 2018". La neo ministra dell’Interno Luciana Lamorgese risponde indirettamente ma in modo netto al suo predecessore Matteo Salvini, con un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica. Il tema, sempre al centro del dibattito politico, è quello dell’allarme immigrazione, cavallo di battaglia della Lega e del centrodestra. E non solo, spiega la ministra dell’Interno, non c’è alcun allarme invasione, ma le politiche di rimpatrio dell’attuale esecutivo stanno funzionando: “A ottobre sono sbarcati sul territorio italiano 379 tunisini e siamo riusciti a rimpatriarne 243, di cui 138 sbarcati nello stesso mese. In questo modo la percentuale dei rimpatriati rispetto agli sbarcati è di oltre il 60 per cento". Ma non si può parlare di emergenza immigrazione senza affrontare la questione del ruolo della Libia. E qui Luciana Lamorgese, ex prefetto di Milano, spiega di voler modificare il Memorandum con la Libia voluto nel 2017 dal governo Gentiloni: “Il governo è al lavoro per modificare i contenuti. Mi limito a dire che occorre sostenere i rimpatri volontari assistiti, quelli organizzati dall'Unhcr e dall'Oim, che hanno già consentito il rientro in patria di 25 mila migranti e vanno svuotati i centri attraverso i corridoi umanitari europei”. Delle terribili condizioni nelle quali sono “ospitati” da anni i migranti in Libia Le Iene vi hanno parlato più volte. L’ultima occasione è stata, attraverso il racconto di Gaetano Pecoraro, la vicenda del missile che ha colpito il campo profughi di Tajura (che potete rivedere nel servizio qui sopra). Le terribili immagini di quel bombardamento, nel quale sono morti in decine, ci sono arrivate attraverso i video girati dai telefonini degli stessi profughi (come potete rivedere nel servizio qui sopra). Non si sa esattamente chi abbia tirato la bomba, ma si conosce il perché. Stando a quanto raccontano i profughi infatti nell’underground, dove avvenivano le torture, c’erano dei depositi di armi, bombe e perfino carri armati. La bomba quindi, con molta probabilità, voleva distruggere proprio quel deposito di armi. Il commento di uno dei profughi intervistati ci fa ancora gelare il sangue: “Ci usavano come scudi umani”. Solo due anni prima, l’11 maggio del 2017, il centro profughi di Mineo, in Sicilia, aveva ospitato l’incontro tra una delegazione del governo italiano e le autorità libiche, per organizzare il blocco delle partenze dei migranti dalle coste del paese africano. La cosa che non è passata inosservata è la presenza, a quel tavolo ufficiale, di Abd Al-Rahman Milad, meglio conosciuto con il nome di battaglia di Bija. Secondo l’Onu il comandante Bija dovrebbe stare in galera per crimini contro i migranti. Sarebbe il boss dei trafficanti di migranti, uno che da una parte affiancherebbe con una sua milizia la guardia costiera libica ma dall’altra secondo l’Onu, gestirebbe nel bene e nel male tutto il flusso delle partenze dei profughi. Un report delle Nazioni unite lo indica come un trafficante di migranti. Strano quindi vederlo trattare con l’Italia per risolvere un problema delicato come quello dell’immigrazione dalla Libia. Le autorità di Roma sapevano chi fosse perché tanti giornali avevano parlato di lui, ma soprattutto perché in uno studio del ministero della difesa Bija era indicato come “dedito al traffico di migranti”. In un video si vede Bija che frusta alcuni migranti su un barcone. Metodi brutali utilizzati anche da altri libici in diverse situazioni e che purtroppo ci vedono ancora coinvolti, come per esempio nei tre campi profughi di Tripoli. Campi come quello di Tajura, in cui accadevano cose indicibili. “Prendevano le ragazze e le violentavano”, ci racconta uno dei migranti che è stato lì. Gaetano Pecoraro ha chiesto proprio al nuovo ministro dell’Interno Luciana Lamorgese: se l’Italia dovesse essere complice in crimini contro l’umanità, come la metteremo? “Quello lo valuteremo. Ogni giorno ha la sua pena”, è stata la laconica risposta del ministro.
Immigrazione, Luciana Lamorgese moltiplica i posti negli hot-spot: ecco perché arrivano immigrati a raffica. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 25 Ottobre 2019. Porti spalancati e hotspot sempre più grandi. Pd e 5 Stelle hanno trovato la soluzione al dramma migratorio. Altro che accordo di Malta, rotazione dell' accoglienza, redistribuzione dei richiedenti asilo, Francia e Germania pronte a fare la propria parte! Qualora anche il trattato europeo, al momento una farsa, diventasse mai qualcosa di serio, sarebbe comunque superato dall' ultimo colpo di genio di Conte, l' unico peraltro (con Di Maio) a credere che Parigi e Berlino si inguaieranno per aiutarci. Questa la prodigiosa trovata del premier: il centro di raccolta di Lampedusa trabocca di migranti? E noi lo costruiamo più grande! Proprio così: di fronte a un hotspot in cui la settimana scorsa - come evidenziato da Libero - c' erano 320 immigrati a fronte di una capienza massima di 94, il governo non ha deciso di imporre una stretta sui porti, limitando così le partenze, gli arrivi, i morti in mare, il lurido lavoro degli scafisti e gli affari delle ong. No: la soluzione migliore era quella di quintuplicare i posti a disposizione sull' isola.
INCENTIVO AGLI ARRIVI. La notizia l' ha data con naturalezza ieri alla Camera il ministro dell' Interno Lamorgese nel question time. La titolare del Viminale ha esposto il piano dell' esecutivo giallorosso in risposta all' interrogazione della deputata forzista Laura Ravetto, intervenuta domenica sul nostro giornale per denunciare la situazione del centro siciliano. Entro marzo i posti saranno 132 in più: dai 96 attuali diventeranno 228. Tra le priorità vi sarà il ripristino dell' area dedicata ai minori, inagibile da un anno e mezzo a causa di un incendio appiccato da un gruppo di ospiti gentiluomini. A lavori ultimati, poi, la struttura sarà in grado di ospitare 439 migranti. Ora: è sacrosanto che chi viene accolto trovi condizioni dignitose e che i bambini abbiano tutto ciò che è necessario. Il punto è che il governo, anziché disincentivare l' immigrazione irregolare di massa, trasformerà un centro di raccolta temporaneo in un grande villaggio. «Il tutto» sottolinea Ravetto «su un' isola di 6.500 abitanti, dove la comunità è costretta a usare il desalinizzatore. I soldi non potevano essere usati in altro modo?». L' onorevole di Forza Italia non si capacita del piano-Lamorgese: «È scandaloso! L' unico modo per risolvere il problema è rimpatriare chi non ha diritto di restare, e invece il governo vuole trasformare l' hotspot in un centro d' accoglienza. Mi rincuora sapere che mamme e bambini avranno di nuovo i loro spazi, i più piccoli vanno sempre tutelati. Però questa struttura dovrebbe servire a smistare gli stranieri che si trovano qui temporaneamente, non ad altro. Inoltre i migranti sono liberi di entrare e uscire quando vogliono, un danno enorme per un' isola che vive di turismo. Per il 90% si tratta di migranti economici, soprattutto tunisini, un' assurdità dato che l' Italia con la Tunisia ha stipulato accordi di rimpatrio ed economici».
SBARCHI IN VISTA. Sennonché Lamorgese ha tenuto a precisare: «In merito alle preoccupazioni manifestate sul sovraffollamento dell' hotspot, devo dire che il 16 ottobre erano ospitati 329 migranti, e ciò era dovuto alla circostanza eccezionale del soccorso di 172 persone che si era svolto la notte precedente». Non lo mettiamo in dubbio, e però l' eccezionalità, con questo governo, è tornata a essere normalità. Ora, ha aggiunto il ministro, nel centro di Lampedusa ci sono 48 migranti. Un numero ragionevole, se non fosse che l' annunciato maxi-ampliamento dell' hotspot oltre a rischiare di rinvigorire il business dell' immigrazione trasformerà la struttura in una bomba a orologeria. Nel frattempo Ocean Viking, la nave di Sos Mediterranée, punta a sbarcare a Lampedusa altri 104 migranti. Caustico il commento di Salvini: «Le ong ordinano e il nostro governo obbedisce». Alessandro Gonzato
Luciana Lamorgese incontra le Ong, l'indignazione della Meloni: "Fa accordi con chi viola le leggi italiane". Libero Quotidano il 25 Ottobre 2019. Luciana Lamorgese ha incontrato le Ong: "Si è tenuto questa mattina al Viminale un incontro tra il ministro dell'Interno e i rappresentanti delle Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio in mare dei migranti - fa sapere il Viminale tramite una nota -. La riunione ha rappresentato un primo passo per l'avvio di una interlocuzione diretta tra le parti. All'incontro hanno partecipato, oltre ai vertici del Ministero dell'Interno, i rappresentanti del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e del Comando generale del corpo delle Capitanerie di porto". Una notizia non gradita dall'opposizione: "Non contenta di aver triplicato gli sbarchi di immigrati in meno di due mesi - commenta Matteo Salvini -, il ministro invita al Viminale le Ong protagoniste di questi arrivi. Non ho parole. Io sto sempre dalla parte delle Forze dell'Ordine che difendono i confini, mi spiace che qualcuno invece tifi per gli altri". A fargli eco anche Giorgia Meloni: "Penso che sia abbastanza scandaloso che il ministro che dovrebbe, più di tutti, far rispettare le leggi italiane, sia lì a fare accordi, come se nulla fosse, con gente che viola le leggi italiane sistematicamente e consapevolmente - ha denunciato la leader di Fratelli d'Italia -. Penso che ci sia un problema serio se abbiamo un ministro degli Interni che fa una cosa del genere".
Immigrazione, il Dossier Idos dà ragione a Salvini: meno arrivi meno morti. I terrificanti numeri giallo-rossi. Libero Quotidiano il 25 Ottobre 2019. Sull'immigrazione anche il Centro studi e ricerche Idos dà ragione a Matteo Salvini. È stato infatti rilasciato il Dossier statistico immigrazione 2019, la cui conclusione è: meno arrivi, meno morti. Nel 2018 i morti in mare nel Mediterraneo sono stati 2.300, di cui 1.300 nella tratta italo-libica, mentre l'anno precedente se ne sono contati oltre 2.800". Non solo, con le scelte dell'allora ministro dell'Interno Marco Minniti, nel 2017 "il numero dei migranti sbarcati nel Paese era diminuito di oltre un terzo rispetto all'anno precedente". Stessa sorte nei primi mesi del 2019, con Matteo Salvini al Viminale ci sono stati "solo 7.710 casi". Con l'inevitabile conseguenza: meno morti in mare. Il Dossier si pronuncia anche sulle acquisizioni della cittadinanza italiana (nel 2018 arrivate a 112milia), smentendo ancora una volta quanto riferito dal governo giallo-rosso.
I numeri smentiscono la Ue: perché arrivano più migranti. Il commissario europeo all'immigrazione, Dimitris Avramopoulos, ha parlato di numeri in diminuzione ed emergenze terminate ma la situazione in realtà appare molto diversa. Mauro Indelicato, Venerdì 18/10/2019, su Il Giornale. Decontestualizzare i numeri vuol dire destrutturare una situazione che si sta illustrando, raccontando contestualmente soltanto mezze verità. O, per meglio dire, solo quella verità che fa più comodo. E così, ecco che il commissario europeo all’immigrazione Dimitris Avramopoulos, nel corso di una conferenza stampa è riuscito nell’impresa di mentire pur sciorinando dati effettivi: “La situazione migratoria su tutte le rotte – ha dichiarato il commissario – è tornata ai livelli pre-crisi con gli arrivi a settembre 2019 inferiori del 90% circa rispetto a settembre 2015”. Secondo Avramopoulos tutto va bene, nessuna emergenza è in atto ed oramai il peggio è passato. Anzi, secondo le sue parole, forse a questo punto non è più nemmeno il caso di pagare lautamente un membro della commissione incaricato di occuparsi di immigrazione. Ma i numeri da lui elencati, seppur veritieri, non fotografano affatto la realtà: se è vero che rispetto a 4 anni fa gli approdi lungo le coste europee dell’Europa risultano drasticamente diminuiti, a partire da questa estate 2019 sono molti i segnali che non giustificano tanto ottimismo. È un po’ come se, per nascondere le attuali difficoltà dell’economia italiana, si mettano a confronto i dati del 2019 con quelli del 1945, quando c’era la guerra. È chiaro che la situazione non può che apparire migliore, ma i contesti sono diversi e non vuol dire che oggi le cose vadano per il meglio. Una magia, quella di Avramopoulos, degna del migliore tra i prestigiatori, capace di nascondere la realtà dei fatti e mettere i numeri più sconvenienti sotto ad un tappeto. Perché in realtà, guardando ad esempio all’Italia, il numero degli approdi a settembre è allarmante: per la prima volta, dopo due anni, si è infatti registrato un aumento su base annuale degli arrivi nel nostro paese. Nel settembre del 2018, sono arrivati complessivamente 947 migranti irregolari lungo le nostre coste, mentre in quello appena trascorso 2.386. Sempre rimanendo in Italia, non veniva sforata la soglia del 2.000 migranti approdati dal mese di giugno 2018. Guardando invece al contesto complessivo del Mediterraneo centrale, l’agenzia Frontex ha registrato un aumento del 16% nel mese di settembre 2019 rispetto allo stesso periodo del 2018. E le cose non vanno certo meglio nel Mediterraneo occidentale ed in quello orientale: in Spagna, si è registrato un aumento del 12% dei flussi migratori sempre a settembre, ma questa volta su base mensile. In Grecia il governo di Atene da settimane fa presente che, a partire da luglio, gli sbarchi nell’Egeo di barconi provenienti dalla Turchia sono oramai all’ordine del giorno. Certo, nulla a che vedere con i numeri del 2015 e del 2016, ma quando si fa riferimento a quegli anni occorre sempre considerare le situazioni di emergenza occorse in quel biennio. Dalla Siria sono infatti arrivati più di mezzo milione di profughi, dalla Libia i barconi sono partiti anche in condizioni di mare mosso: inquadrare i dati attuali con quelli di quattro anni fa, appare come un’operazione intellettualmente scorretta. La situazione odierna è indubbiamente più gestibile, ma in sistemi di accoglienza provati dalle emergenze degli anni passati anche piccoli aumenti potrebbero generare altre difficoltà. A Lampedusa ne sanno qualcosa, con un hotspot tornato ad essere più volte vicino al collasso dopo i primi aumenti nel numero degli sbarchi di settembre. E da questo mese in poi, non solo in Italia ma anche negli altri paesi europei del Mediterraneo, il trend dei flussi migratori appare oramai in costante risalita.
La Germania deve ancora accogliere gli 11 migranti della Rackete. Alessandra Benignetti su it.insideover.com il 5 dicembre 2019. “Alcuni Paesi europei, tra cui Germania e Francia, hanno già manifestato la possibilità ad accogliere quote di migranti”, ha fatto sapere il Viminale dopo aver dato l’ok allo sbarco a Messina e Pozzallo dei 121 rifugiati a bordo delle navi Alan Kurdi e Ocean Viking. “L’accordo di Malta sta dando i suoi frutti”, aveva detto lunedì scorso il ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, ricordando soddisfatta come “le attività poste in essere con gli altri Paesi stanno andando bene non soltanto sui numeri che vengono dati ma anche sull’effettività della presa in carico di questi migranti”. Almeno 57 ogni mese, quelli che, secondo i dati resi noti dal ministro, verrebbero trasferiti fuori dal nostro Paese. Ma è davvero così? Gli 11 migranti dei 53 rimasti lo scorso giugno per due settimane a bordo della Sea Watch 3 capitanata da Carola Rackete, che la Germania si era impegnata a prendere in carico, ad esempio, sono ancora all’interno del Cara di Crotone. È un dossier del Fatto Quotidiano a raccontare la storia di questi profughi e di una promessa non mantenuta. Quella delle autorità di Berlino che avevano assicurato di essere pronte a prendersi cura di dieci uomini e una donna incinta, con tanto di comunicazione ufficiale arrivata dal ministero dell’Interno. Ma a distanza di sei mesi dalla Germania non si è fatto vivo nessuno. I migranti restano a Messina per due settimane, poi vengono trasferiti nel centro di Crotone dove ancora aspettano di conoscere il proprio destino. Lo stesso hanno fatto i francesi: di dodici persone sottoposte a colloquio tra quelle che erano a bordo della Sea Watch 3, ne sono state trasferite Oltralpe soltanto nove. Certo, nessuno vieta alle autorità degli altri Paesi di “scegliersi” i migranti, visto che la Convenzione di Dublino prevede accordi su base “volontaria”. Ma così, di fatto, non tutti vengono effettivamente trasferiti, come dimostrano le testimonianze raccolte dal Fatto. Le dichiarazioni fatte dai leader europei lo scorso settembre a Malta, inoltre, sono state riviste negli ultimi mesi. Il ministro dell’Interno tedesco Horst Seehofer aveva assicurato che Berlino si sarebbe fatto carico di almeno un quarto dei migranti arrivati in Italia. Salvo poi precisare che la percentuale dipenderà da quanti ne sbarcheranno effettivamente. L’Italia, secondo una fonte sentita dal Fatto Quotidiano, starebbe cercando di imporsi all’interno del framework di Malta per accelerare le procedure e cercare di andare oltre il meccanismo di Dublino, coinvolgendo i Paesi ospitanti anche nel processo di identificazione. Ma la Germania su questo avrebbe già alzato un muro. I trasferimenti e le operazioni di riconoscimento, parola di Seehofer, dovranno restare in carico al primo Paese di approdo, cioè all’Italia. C’è da dire, poi, che i rifugiati sbarcati dalle navi delle Ong che entrano in Germania dalla porta, poi escono dalla finestra visto che i cosiddetti “dublinanti” rispediti in Italia lo scorso anno dalle autorità tedesche sono stati quasi 3mila. È andata meglio nel 2019 ma, sempre secondo i dati del Fatto Quotidiano, i migranti rientrati nel nostro Paese finora sarebbero 1.126. Praticamente a giugno di quest’anno il totale dei migranti rimpatriati dall’Ue era superiore a quello di chi era approdato via mare sulle nostre coste. Nel frattempo la Lega, dopo gli sbarchi delle ultime ore, va all’attacco di Lamorgese. “Da settembre la Ocean Viking ha solcato per sette volte il Mediterraneo: è sempre approdata in Italia e solo in un caso a Malta, peraltro grazie all’allora ministro Salvini che vietò l’ingresso nelle nostre acque”, accusa Nicola Molteni, deputato leghista ed ex sottosegretario all’Interno del governo gialloverde. “L’accordo di La Valletta esiste solo nella fantasia del ministro – prosegue – chi arriva in Italia rimane in Italia, Lamorgese ormai prende ordini dalle Ong che spadroneggiano nel Mediterraneo e vengono invitate al Viminale col tappeto rosso”.
I migranti che restano in Italia. La Germania non li vuole, come afferma il suo ministro dell'Interno. Altro che redistribuzione. E oggi ne sbarcano altri 88 dalla ong Alan Kurdi. Panorama il 2 novembre 2019. “La Germania rispetterà gli impegni solo quando avrà la certezza che i migranti non costituiscano una minaccia per la sicurezza tedesca”. Parole di Horst Seehofer, il Ministro tedesco dell’Interno intervistato da un cronista di Mediaset pochi giorni fa. Parole arrivate all’interno di un servizio in cui si dimostrava con le immagini come la annunciata redistribuzione dei migranti sbarcati in queste settimane sulle coste italiane sia pura utopia. I migranti infatti in pochi giorni spariscono dai vari centri d’accoglienza, rimanendo quindi liberi e clandestini nel nostro paese, con buona pace dell’accordo di Malta. Parole quelle del ministro tedesco che dovremmo rileggere con attenzione anche tra poche ore quando attraccherà a Taranto l’ennesima nave di una Ong, la Alan Kurdi, con a bordo 88 migranti. A parole infatti di questi 88 ben 67 finiranno in Germania. Ma alla luce delle frasi del ministro tedesco e di quanto ripreso dalle telecamere Mediaset viene il sospetto che la realtà sia molto ma molto diversa. Intanto i numeri raccontano come gli sbarchi con il governo Pd-M5S continuino liberi ed indisturbati: nel bimestre settembre-ottobre 2018, all’epoca dei porti chiusi dell’ex Ministro dell’Interno Salvini gli arrivi furono 1.954. Nello stesso bimestre di quest’anno, a guida Lamorgese Pd-M5S gli arrivi sono stati 4.513 con un incremento del 230%. La morale della favola è che purtroppo nemmeno questa maggioranza amata e forse voluta a Bruxelles ha convinto l’Europa a fare la sua parte sui migranti. Siamo soli: il vertice di Malta si era chiuso con una bozza di accordo tra solo 4 paesi che poi non è stata accettata dalla maggior parte delle altre nazioni. Se poi aggiungiamo che uno dei 4 firmatari, la Germania, appunto di fatto va contro quanto firmato ecco che la situazione per noi italiani diventa a dir poco complessa. La morale? Ci stanno fregando, un altra volta.
Essex, 39 morti in un tir: l’autista incriminato per omicidio colposo. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 su Corriere.it. L’autista del camion ritrovato nell’Essex mercoledì con a bordo 39 cadaveri è stato incriminato per omicidio colposo. Lo ha riferito la polizia, precisando che il 25enne nordirlandese Maurice Robinson dovrà rispondere anche di «traffico di esseri umani, immigrazione illegale e riciclaggio di denaro». La polizia ha fatto sapere che sono «pochissimi» i documenti di identità trovati sui corpi che sono stati tutti recuperati, ma il processo di identificazione non è ancora cominciato. Le famiglie di venti vietnamiti hanno denunciato la loro scomparsa, temendo possano essere tra le vittime a bordo del camion. Tra le vittime anche Pham Thi Tra My, 26 anni: della giovane non si hanno più notizie da quando avrebbe inviato martedì dei messaggi urgenti alla madre dicendo che non riusciva a respirare. Nei messaggi strazianti diffusi dalla sua famiglia Pham scrive: «Mi dispiace mamma. Il mio viaggio all’estero non è riuscito. Mamma, ti voglio tanto bene! Muoio perché non riesco a respirare... sono di Nghen, Can Loc, Ha Tinh, Vietnam ... Mi spiace, mamma». Parlando al network televisivo americano Cnn, i familiari della ragazza hanno detto che la loro figlia era consapevole della gravità della situazione in cui si trovava insieme ai suoi compagni, quando ha inviato loro quell’ultimo messaggio. «Ho perso mia figlia e i soldi», ha dichiarato il padre, il signor Pham Van Thin, aggiungendo che i trafficanti «garantirono che avrebbero preso una rotta sicura».. Lo stesso è stato per un altro ragazzo vietnamita di cui la famiglia non ha notizie da una settimana, da quando il giovane disse loro che si sarebbe unito ad un gruppo di persone che da Parigi avrebbe poi tentato di arrivare in Gran Bretagna. Intanto, sabato, sono proseguiti gli interrogatori delle altre 4 persone arrestate. Dopo il fermo dell’autista nordirlandese del mezzo, Mo Robinson, due presunti basisti del traffico, uno uomo e una donna di 38 anni, e un 48enne nordirlandese fermato nelle ultime ore mentre cercava di imbarcarsi su un volo all’aeroporto di Stansted, la polizia irlandese ha arrestato sabato al porto di Dublino un ventenne nordirlandese.
«Mamma sto morendo, non respiro. Vi amo tanto». L’ultimo messaggio dal Tir. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 da Corriere.it. «Mi dispiace mamma. Il mio viaggio all’estero non è andato bene. Ti amo così tanto! Sto morendo perché non posso respirare»: potrebbe essere uno degli ultimi, disperati, messaggi d’addio inviati dal Tir arrivato in Gran Bretagna, dove mercoledì sono stati trovati 39 cadaveri. L’allarme è rimbalzato dal Vietnam ed è stato ripreso oggi da diversi siti inglesi, tra cui la Bbc e il Guardian online. Si basa su alcuni messaggi telefonici scritti martedì sera (orario britannica) da non si sa dove da Pham Thi Tra My, una 26enne vietnamita, a sua madre. Il fratello della ragazza riferito alla BBC che il suo viaggio nel Regno Unito è iniziato il 3 ottobre. Aveva detto alla famiglia di non contattarla perché «gli organizzatori» non le permettevano di ricevere chiamate. «È volata in Cina e vi è rimasta per un paio di giorni, poi è partita per la Francia», ha detto. «Ci ha chiamato quando ha raggiunto ogni destinazione. Il primo tentativo che ha fatto per attraversare il confine con il Regno Unito è stato il 19 ottobre, ma è stata catturata e rispedita indietro». L’ultima volta che l’ha sentita la sorella gli ha detto che stava entrando in un container e che spegneva il telefono per evitare di essere localizzata. Da allora non ha avuto più sue notizie. Fino a quegli ultimi drammatici messaggi: «Sto morendo, non riesco a respirare. Vi amo moltissimo mamma e papà. Mi dispiace, mamma». Il fratello adesso è intenzionato a capire cosa sia successo. «Mia sorella è scomparsa il 23 ottobre sulla strada dal Vietnam al Regno Unito e non siamo riusciti a contattarla. Temiamo che potesse essere in quel tir. Chiediamo alla polizia britannica di indagare perché mia sorella possa essere restituita alla famiglia». Sulla vicenda dei messaggi, e sul sospetto di eventuali legami con la tragedia del tir, il Guardian ha interpellato la stessa Essex Police, impegnata nelle indagini sui 39 morti, che per ora non è stata in grado di confermare o smentire alcunché. Secondo la polizia britannica le vittime - 31 uomini e 9 donne - sono cinesi, ma gli esami di medicina legale sono iniziati solo oggi e l’ambasciata della Cina ha fatto sapere di di non essere ancora in grado di confermare ufficialmente la nazionalità di tutti. In una nota diffusa oggi gli investigatori britannici hanno chiarito che «gli accertamenti continuano» e che «il quadro sull’identificazione (delle vittime o di una parte di esse) può ancora cambiare». Intanto altre due persone, un uomo e una donna di 38 anni, sono state arrestate in queste ore dalla Essex Police per sospetta complicità in traffico di esseri umani nell’ambito delle indagini sul ritrovamento dei cadaveri di 39 persone nel container frigorifero di un tir sbarcato nel Regno Unito dal Belgio nei giorni scorsi. I due sono residenti entrambi a Warrington, nel Cheshire (Inghilterra). Prima di loro era stato arrestato pure l’autista nordirlandese del tir, Mo Robinson, di 25 anni.
(ANSA 26 ottobre 2019) - Avrebbe pagato 30mila sterline (circa 34mila euro) la giovane vietnamita morta soffocata insieme ad altri 38 migranti in un tir nel sud dell'Inghilterra. E' quanto hanno raccontato i genitori della vittima a cui la ragazza aveva inviato un ultimo sms prima di morire, riferisce la Cnn. Le autorità britanniche stanno lavorando insieme ai colleghi vietnamiti per identificare i morti, che in un primo momento si pensava fossero tutte cinesi, ma non hanno ancora confermato la loro nazionalità. Parlando alla Cnn, i genitori della ragazza hanno raccontato dell'ultimo straziante messaggio, affermando che la figlia doveva sapere che stava per morire quando lo ha inviato. "Ho perso mia figlia e i soldi", ha detto il padre, Pham Van Thin, affermando che i trafficanti gli dissero che non sapevano ancora con quali mezzi sarebbero partiti per la Gran Bretagna. "Mi garantirono che avrebbero preso una rotta sicura", ha aggiunto. La giovane è giunta in Inghilterra passando prima per la Cina e poi la Francia, ma prima di perdere i contatti con la famiglia che ne ha poi denunciato la scomparsa.
(ANSA-AP 26 ottobre 2019) - Sarebbero venti i vietnamiti di cui le famiglie hanno denunciato la scomparsa, temendo che possano essere tra i 39 morti nel container frigorifero del camion giunto nel sud dell'Inghilterra, a Purfleet, dal Belgio. Un rappresentate della VietHome, un'organizzazione della comunità vietnamita nel Regno Unito, ha affermato di aver inviato alle autorità britanniche le foto di 20 persone che risultano scomparse. In un primo momento, gli inquirenti hanno detto che le vittime erano tutte cinesi, ma ora ammettono che la vicenda "è ancora in via di sviluppo". E proseguono oggi gli interrogatori dei 4 arrestati, tra cui l'autista del tir. Oltre alla giovane vietnamita di 26 anni che ha inviato uno straziante messaggio di addio ai genitori prima di morire soffocata nel camion, il padre di un altro ragazzo fa sapere dal Vietnam che anche suo figlio potrebbe essere tra i 39 morti. La famiglia non ha sua notizie da una settimana, da quando il giovane disse loro che si sarebbe unito ad un gruppo di persone che da Parigi avrebbe tentato di arrivare in Gran Bretagna.
Enrico Fierro per ''il Fatto Quotidiano'' il 26 ottobre 2019. Trentuno uomini e otto donne le vittime trovate dentro il Tir in Essex, vittime della tratta di esseri umani gestita dalla potentissima mafia cinese. L'Europa è la meta dei trafficanti di carne umana con base nella Repubblica popolare. Una mafia fortissima, per gli investigatori italiani la più potente tra le organizzazioni che si occupano di immigrazione illegale, ma anche la più difficile da individuare. Le difficoltà a indagare su questa rete sono enormi, a cominciare dalla lingua: il cinese è composto da un insieme di più di cento dialetti e varianti. Per continuare con la caratteristica principale delle comunità cinesi insediate sul territorio europeo, che è quella di gruppi chiusi, impermeabili alle influenze esterne, e dominati da una inviolabile omertà. Nei vari rapporti della Dia (Direzione investigativa antimafia) e della Dna (Procura nazionale antimafia), si legge che alla base del potere dei clan mafiosi cinesi c' è l' immigrazione illegale. Un business sul quale le organizzazioni lucrano due volte: sul viaggio (che comprende l' arrivo nel luogo di destinazione e la fornitura di passaporti falsi e permessi di lavoro), e sull' impiego dei clandestini nella lunga catena del tessile, della ristorazione e della prostituzione. Ed è proprio sul traffico dei passaporti, falsi o "riciclati", che si sono concentrate una serie di inchieste fatte in Italia. Destò scalpore, attacchi e proteste da parte delle autorità cinesi, il capitolo del libro Gomorra che Roberto Saviano dedicò al traffico di carne umana made in China. Quella scena del porto di Napoli e di decine di corpi "che uscivano dai container, uomini e donne. Morti. Erano i cinesi che non muoiono mai", costò irrisioni e attacchi alla scrittore napoletano. Eppure, qualche anno dopo, fu un pentito di camorra del clan Mazzarella, Alfonso, cugino del boss Franco, non a caso chiamato a dogana, a svelare il mistero. Il clan aveva il monopolio del business del rimpatrio delle salme (o delle ceneri) dei cinesi morti in Italia, 1.000 euro per ogni cadavere scomparso, perché per i vertici dell'organizzazione mafiosa cinese i documenti del morto erano oro. "Venivano utilizzati per qualcun altro", fa mettere a verbale il pentito. In una inchiesta della Procura di Milano, invece, si traccia il quadro del "riciclaggio" dei passaporti. Avveniva durante l' Expo, quando per ottenere un visto come visitatore, occorreva un passaporto e una carta di credito. Documenti regolari che l' organizzazione rastrellava per poi venderli (prezzo dai 5 ai 7.000 euro) a immigrati che volevano raggiungere in modo illegale l' Italia. Una volta utilizzato, il passaporto veniva rispedito in Cina al legittimo intestatario, la carta di credito strappata, e il cinese "irregolare" avviato al lavoro in uno dei laboratori tessili clandestini o in un ristorante. Per l' alloggio provvedevano i terminali milanesi dell' organizzazione, mettendo a disposizione un "dapò", minuscoli appartamenti di due vani dove venivano stipati fino a 20 persone. Ma questa è la parte "privilegiata" dell' immigrazione clandestina cinese in Italia e in Europa. Chi lascia le regioni povere dello Zhejiang e del Fujian, si affida a estenuanti viaggi della speranza attraverso Asia, Russia, Paesi dell' Est europeo. Sono uomini e donne costretti a pagare prezzi altissimi (intorno ai 15 mila euro) che impegnano loro stessi e i familiari rimasti in Cina, per viaggiare stipati in camion e container. Il loro destino è di finire nelle cucine di uno dei tanti ristoranti cinesi disseminati nelle nostre città, nei laboratori del falso nel Napoletano e nelle fabbriche tessili del Macrolotto di Prato. Schiavi che vivono letteralmente incatenati alle macchine, il laboratorio è la loro vita, lì dormono e mangiano, quella è la loro casa. Spesso la loro tomba, come accadde a Prato nel 2013, dove sette cittadini cinesi morirono carbonizzati in una fabbrica in fiamme. Nessuna ribellione, neppure delle ragazze ridotte a schiave sessuali nei tanti "centri massaggi", l'omertà è forte e tanta la paura dei "draghi". La mafia cinese che ormai ha messo radici profonde in Europa e in Italia. Una mafia in continua evoluzione, sottolinea l' Antimafia nei suoi rapporti, presente nel campo dell' immigrazione clandestina e dello sfruttamento della manodopera, leader nell' industria del falso e con un suo spazio nel traffico di droghe sintetiche, lo shaboo, un metanfetaminico potentissimo.
Strage dei porti aperti. Donne e bimbi annegati a Lampedusa. Più barconi partono, più morti ci sono. Alessandro Sallusti, Martedì 08/10/2019 su Il Giornale. Decine di morti il bilancio è ancora incerto e provvisorio soprattutto donne e bambini. È successo nell'ennesimo naufragio al largo di Lampedusa di un barcone carico di immigrati. Con Salvini al governo e ministro dell'Interno tutto sarebbe stato chiaro e oggi i giornali titolerebbero: «Strage dell'Italia fascioleghista», il Pd sarebbe in piazza a manifestare il suo sdegno, Saviano girerebbe per talk show a pontificare contro «quel criminale del Papeete». Oggi invece non c'è nessun «criminale» da mettere all'indice, nessuna colpa di Stato da enfatizzare. Sotto i governi di sinistra si muore e la cosa finisce lì, soprattutto tutti zitti e «basta con le strumentalizzazioni che noi siamo gente seria». Per noi invece i morti sono tutti uguali e ben sappiamo che l'Italia di ogni colore politico si è sempre prodigata per evitarli. Ma prendiamo atto che la recente (e archiviata da questo governo) politica del rigore in quanto a vittime ha dato i suoi risultati: dai cinquemila inghiottiti dal mare nel 2016, anno clou dell'accoglienza senza se e senza ma, si è passati ai circa 500 di quest'anno, anno dei «porti chiusi». La percentuale tra immigrati partiti e immigrati morti nell'attraversamento è praticamente la stessa, ma siccome la matematica non è una opinione meno partenze uguale meno morti. Che alla fine è quello che conta, almeno per chi ha a cuore le singole vite umane più delle percentuali. Ci manca la controprova, ma chissà se la sciagurata spedizione dell'altra sera sarebbe partita sapendo che dall'altra parte del mare i porti erano chiusi. Chissà se altri salperanno nelle prossime ore con il mare agitato avendo letto che ora l'Italia accoglierà tutti e che l'Europa è pronta a fare la sua parte spartendosi automaticamente gli arrivati. Cioè chissà se anche in buonafede non ci stiamo rendendo complici di stragi di donne e bambini e che in attesa di tempi migliori (per i quali occorre lavorare) deve valere la regola del meno peggio: meglio un bambino vivo in Libia che morto in mezzo al Mediterraneo. A volte anche un cinico marketing può aiutare ad evitare disgrazie come quelle dell'altra notte.
Morti di buonismo. Andrea Indini il 7 ottobre 2019 su Il Giornale. Le organizzazioni non governative hanno subito cavalcato la tragedia. Hanno detto che per evitare altre stragi di migranti bisogna mettere più navi in mare e che c’è bisogno di una presenza più massiccia di mezzi che vadano incontro ai barconi guidati dagli scafisti e traghettino i disperati fino alle coste italiane. La realtà è un’altra. E i dati che abbiamo in mano lo confermano. Tutte le persone che questa notte, a sei miglia dalla costa di Lampedusa, sono state inghiottite dalle onde agitate sono la diretta conseguenza delle politiche buoniste dei giallorossi. Era già tutto scritto, sia la ripresa degli sbarchi sia i morti in mare. Era solo questione di tempo. Chiunque avrebbe potuto prevederlo già quando la sinistra imponeva al premier incaricato Giuseppe Conte la riapertura dei porti e la revisione (se non l’abolizione) dei decreti Sicurezza voluti da Matteo Salvini. Fatto il governo e ricominciata la corsa all’accoglienza, le partenze e gli arrivi hanno subito preso a crescere in modo vorticoso. Tanto che nel giro di un mesetto sono triplicati: si è passati dai 947 migranti arrivati nel settembre del 2018 ai 2.500 di quest’anno. E solo gli ultrà dell’immigrazione, accecati dall’ideologia dell’accoglienza a tutti i costi, non avevano messo in conto che, presto o tardi, il boom di partenze avrebbe portato a nuovi naufragi e, di conseguenza, a nuovi morti. Anche qui il confronto con la cura Salvini è impietoso: al 31 agosto erano stati recuperati quattro corpi senza vita e si erano contati 839 dispersi. In tutto il 2018, invece, i morti erano stati 23 mentre i dispersi 2.277. Questa notte, in un solo naufragio, si contano almeno tredici vittime. Al momento le salme strappate al mare dai soccorritori sono tutte di donne. Alcune erano incinte. Tra i dispersi, secondo i sopravvissuti, ci sarebbero anche otto bambini e altre donne. Dei cinquanta, che si trovavano a bordo del barcone, solo 22 sono stati salvati dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza. Nonostante le condizioni meteorologiche difficili, le autorità maltesi avrebbero vietato ai propri mezzi di prestare soccorso ordinando che l’imbarcazione venisse lasciata andare alla deriva finché non avesse raggiunto le acque territoriali italiane. Uno schema già visto in passato. Eppure, per fermare questa mattanza, i talebani dell’accoglienza chiedono più mezzi in mare per riuscire ad andare a recuperare i migranti appena salpano. E c’è persino chi incolpa i giallorossi di non aver abbastanza coraggio di cancellare i decreti Sicurezza. È in atto un vero e proprio corto circuito. Le misure messe in atto da Salvini avevano quasi azzerato gli sbarchi e, di conseguenza, abbattuto il numero dei morti in mare. Pd e Cinque Stelle hanno voluto far ripartire il business dell’accoglienza e, riaprendo i porti, hanno anche preparato il terreno per nuove tragedie. Siamo così tornati indietro di due anni, quando al governo c’erano ancora i democratici, i clandestini arrivavano a decine di migliaia ogni anno e il Mediterraneo era un immenso cimitero.
Quelle anomalie riscontrate dalle prime indagini sul naufragio a Lampedusa. Il magistrato inviato dalla procura di Agrigento, Salvatore Vella, in merito al naufragio di Lampedusa parla di due principali anomalie emerse dalle indagini: una sospetta fermata del barcone in Tunisia, dopo essere partito dalla Libia, e la traversata avvenuta nonostante le condizioni meteo. Mauro Indelicato, Martedì 08/10/2019 su Il Giornale. Non è ancora sera quando Salvatore Vella, il magistrato inviato a Lampedusa dal procuratore Patronaggio, parla ai cronisti sui primi spunti arrivati dall’indagine in corso per il naufragio di ieri. Dopo una riunione tenuta all’interno della caserma della Guardia Costiera, il procuratore aggiunto partito da Agrigento alla volta dell’isola subito dopo la strage tiene a ribadire alcune indiscrezioni emerse sulla dinamica di quanto avvenuto e, soprattutto, su quella del viaggio del barcone della morte. Il mezzo che porta almeno 50 migranti verso Lampedusa, in particolare, sembra essere partito dalla Libia. Ma c’è un qualcosa di strano riscontrato nelle prime dichiarazioni rilasciate dai superstiti sentiti da Vella: “Si parla di una traversata partita dalla Libia con sosta in Tunisia – afferma il magistrato – e adesso stiamo cercando di ricostruire cosa è accaduto nell'ultimo tratto della traversata”. Uno “scalo” dunque, una fermata intermedia, un elemento questo piuttosto raro nelle rotte tradizionali dell’immigrazione. Di solito, si parte da un punto per arrivare dritti verso l’Italia, nelle indagini degli ultimi anni è piuttosto raro notare scali intermedi. Le ipotesi potrebbero essere due: un guasto all’imbarcazione, che dunque deve fermarsi in Tunisia per sperare poi di proseguire verso Lampedusa, oppure invece lo scalo a metà della traversata è un nuovo elemento distintivo delle rotte nordafricane. Del resto, a partire dal mese di settembre, contraddistinto dall’impennata degli sbarchi, si nota un’altra anomalia in qualche modo ricollegabile con quanto riscontrato dalle indagini per il naufragio di ieri: dalla Tunisia non arrivano solo tunisini, al contrario si assiste all’approdo di gente che solitamente parte dalla Libia. Proprio per questo motivo i nostri servizi di sicurezza iniziano ad indagare su un possibile spostamento delle attività dei trafficanti dalla Libia alla Tunisia, come se in qualche modo la rotta tunisina garantisse agli scafisti operanti in Tripolitania migliori garanzie. Adesso però, alla luce delle parole di Vella, potrebbe anche ipotizzarsi un “dialogo” tra chi gestisce le rotte libiche e quelle tunisine. Una vera e propria collaborazione, che porta ad organizzare un unico viaggio per chi parte dalla Libia e dalla Tunisia. Ma, sotto questo profilo, i dettagli sono ancora pochi e dunque tutto rimane nell’alveo delle ipotesi. Un’altra anomalia riscontrata è quella del viaggio partito dall’altra sponda del Mediterraneo nonostante il maltempo: “È strano che siano partiti con queste condizioni meteomarine”, afferma Salvatore Vella. Di certo gli scafisti non si fanno scrupoli, non danno ai migranti che si imbarcano nemmeno il cibo che basta per affrontare la traversata, figurarsi se si preoccupano dell’incolumità di chi paga loro migliaia di Dollari per imbarcarsi. Tuttavia quando le condizioni meteo peggiorano, negli anni si assiste sempre ad una diminuzione delle partenze dalla Libia e dalla Tunisia. In questo caso però, il barcone viene messo in acqua nonostante il mare agitato ed un vento già molto forte nelle ore in cui verosimilmente il mezzo è partito dalla Libia. Tanti quindi gli aspetti da chiarire e da decifrare, per un’inchiesta che si rivela certamente lunga. A Lampedusa intanto proseguono le ricerche dei dispersi: considerando i 22 superstiti ed i 13 corpi senza vita (tutti di donne) già recuperati, dovrebbero essere in 15 a mancare all’appello.
Fulvio Fiano per il Corriere della Sera il 16 ottobre 2019. Il vento e la pioggia che avevano contribuito ad affondare il barchino sul quale viaggiavano stipati sembravano averli condannati anche a una morte senza sepoltura, spingendo i loro corpi al largo, verso la Tunisia da dove erano partiti. E invece, quando ormai la speranza andava svanendo, i cadaveri sono stati individuati proprio lì dove, la notte tra il sei e il sette ottobre, sono scesi verso il fondo, a sessanta metri di profondità, sei miglia al largo della costa di Lampedusa. Sono dodici corpi di chi, partito carico di speranze, ha perso la vita in quel viaggio. Ma altri potrebbero essere nelle vicinanze. Tra loro, ci sarebbe anche una mamma abbracciata al figlio di pochi mesi che disperatamente venivano cercati sul molo dell' isola da una superstite (sorella della donna e zia del piccolo) in quella che sarà ricordata come «la strage delle donne». l ritrovamento è avvenuto grazie ai sommozzatori della Guardia Costiera che, passato il maltempo, hanno ripreso a esplorare i fondali grazie anche a un robot subacqueo. Sulla nave di 10 metri, secondo le testimonianze, c' erano almeno 50 persone, 22 delle quali tratte in salvo nei primi minuti seguiti al rovesciamento, gli altri condannati dal mare grosso. I tredici cadaveri portati a riva dalle navi intervenute allora erano tutti di giovani donne (una anche incinta), di Costa D' Avorio, Camerun, Guinea, Burkina Faso con l' ipotesi ancora in piedi che fossero almeno in parte destinate, lungo una nuova tratta, al mercato europeo della prostituzione. A bordo anche numerosi tunisini, a conferma della rotta battuta dagli scafisti in sostituzione di quella in acque libiche. Nel naufragio sarebbe morto anche l' uomo che governava la nave. «Ci abbiamo creduto sino alla fine. Il personale della Guardia Costiera non ha mollato un solo giorno, nonostante il carico di lavoro ordinario che continua a gravare su Lampedusa», sottolinea il procuratore aggiunto di Agrigento, Salvatore Vella, che conduce l' inchiesta con l' ipotesi di favoreggiamento dell' immigrazione clandestina, naufragio e omicidio plurimo. «I nostri militari hanno messo in campo tutta la loro professionalità e anche il loro cuore», aggiunge il pm. Nessuno dei passeggeri del barchino indossava il salvagente che sarebbe stato sufficiente a non annegare. Le operazioni di recupero delle salme partiranno nei prossimi giorni. Ma le stragi non fermano le partenze dei migranti. Centottanta persone sono state soccorse nel Canale di Sicilia, circa 35 miglia a sud ovest di Lampedusa, in area Sar maltese. Anche stavolta il soccorso è scattato prima dell' alba con una chiamata da un telefono satellitare. Un aereo dell'operazione internazionale Eunavfor med ha individuato il barcone e ha allertato la centrale operativa di Roma. La segnalazione è tata poi inoltrata alle autorità maltesi, che hanno assunto il coordinamento dell' operazione ma non hanno concesso un porto per sbarcare. L' Italia ha inviato due motovedette della Guardia Costiera e una della Guardia di Finanza giunte sul posto poco prima che il barcone affondasse. Stavolta, per fortuna, non c' era mare grosso. Altre 176 persone, salvate nei giorni scorsi dalla Ocean Viking (tra loro 4 donne incinte e 33 minori, di cui 23 non accompagnati), sbarcheranno invece oggi a Taranto.
Lampedusa, mamma e figlio morti abbracciati in fondo al mare: la scena straziante davanti ai sommozzatori. Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 su Corriere.it da Felice Cavallaro. I due corpi trovati in una barca a 60 metri di profondità davanti alle coste di Lampedusa. Sull’imbarcazione naufragata il 7 ottobre c’erano 50 persone, sono sopravvissute 22 persone. L’orrore e la pena stanno a 60 metri di profondità in un abbraccio che commuove i sommozzatori alla ricerca dei naufraghi del 7 ottobre. Una giovane donna che stringe un bimbo, forse una bimba. Accanto ad altri cadaveri. Fra i legni di un barchino sfondato, i resti di una fiancata ancora con il nome leggibile, «Abdel Kader». Un’immagine surreale con i pesci che si insinuano passando davanti alla telecamera di un robot. I corpi immobili, a differenza di vesti e capelli che seguono i flussi di correnti leggere, come in un macabro acquario. È questa nuova Pietà con una donna stretta ad una creatura senza nome che viene consegnata alla cronaca da Lampedusa in una notte segnata da nuovi arrivi. Con 172 migranti sbarcati al molo Favarolo, subito aggiunti ad altre centinaia di disperati incastrati in un centro accoglienza ormai al collasso. E ci sono ancora qui molti dei 22 scampati al disastro del 7 ottobre, la “strage delle donne”, come fu chiamata perché si ripescarono anche i corpi di 13 donne. Fra le sopravvissute echeggiò allora la voce di una giovane donna subsahariana: «Mia sorella è rimasta in fondo al mare con il suo bimbo. Salvateli...» Inevitabile che un po’ tutti abbiamo pensato a quell’angosciata invocazione davanti alle struggenti immagini registrate dal sonar della “Galatea”, la nave dell’Arpa, l’agenzia regionale per la tutela dell’ambiente da dieci giorni in ausilio ai sommozzatori del comandante Rodolfo Raiteri per il recupero di venti dispersi. Ma il collegamento fra la superstite e la donna individuata in fondo al mare non c’è. Non si tratta dello stesso nucleo familiare. Come conferma il capo della Mobile di Agrigento Giovanni Minardi: «Dopo il recupero delle 13 salme, anche la sopravvissuta che parlava di una sorella inghiottita fra le onde è stata accompagnata in camera mortuaria per eventuali riconoscimenti. E lei ha riconosciuto la sorella che stava proprio fra quei 13 corpi recuperati. Al contrario del piccolo...» Ma nessuno può ancora dire se il piccolo sia la creatura stretta dalle braccia della donna che nelle prossime ore si cercherà di riportare in superficie. Emerge un intreccio di tragedie dalle storie delle vittime e dei naufraghi salpati in quel caso dalla Libia, passati da Sfax per imbarcare un gruppo di giovani tunisini, poi tutti protagonisti del disastro ad appena sei miglia da Lampedusa. Quella notte anche uno dei giovani naufraghi, Wassim, 19 anni, provò a salvare un bimbo di otto mesi. E ce l’aveva quasi fatta, un braccio avvolto sul pancino. Ma un altro naufrago ormai sott’acqua, per tirarsi su, si aggrappò ai pantaloni del ragazzo costringendolo ad una lotta per la sopravvivenza e finendo per mollare la creatura subito ingoiata dalle onde. Che una donna sia riuscita ad afferrare la stessa creatura finendo giù pure lei e restando ancorata in quell’abbraccio ai resti della “Abdel Kader” è solo un’ipotesi. Il lavoro si concentra su complesse operazioni tenute sott’occhio dal sostituto Salvatore Vella, inviato a Lampedusa dal procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio: «Ci abbiamo creduto fino alla fine...». Il coordinamento della nave dell’Arpa con motovedette della Guardia costiera e unità della Guardia di Finanza ha dato buoni risultati mentre continua la spola per salvare altri barchini in difficoltà. Com’è accaduto lunedì con un natante zeppo di bambini infreddoliti. Uno sbarco commovente, dice il sindaco Salvatore Martello. Con decine di mamme e ragazze di Lampedusa subito impegnate in una raccolta di giocattoli, pannolini, latte, come racconta Paola La Rosa: «Dovevamo fare l’impossibile per restituire un sorriso su quei volti spaventati». Al contrario di quanto non sarà mai possibile per la creatura rimasta abbracciata nella pietà di una donna ancora laggiù.
Le foto shock dei migranti annegati davanti a Lampedusa. Al via le operazione di recupero dei corpi dei 12 migranti naufragati lo scorso 7 ottobre. Le immagini choc della Guardia Costiera sul fondale di Lampedusa. Sergio Rame, Mercoledì 16/10/2019 su Il Giornale. I resti dei dodici migranti, che nella notte tra il 6 e il 7 ottobre sono naufragati davanti alla costa dell'isola di Lampedusa, sono stati individuati questa mattina vicino al relitto del barcone finito a sessanta metri di profondità. L'orrore dell'ennesima tragedia, figlia della riapertura dei porti, rivive nelle immagini rese pubbliche dalla Guardia Costiera. Immagini drammatiche che fermano negli occhi di tutti noi la morte di queste persone. Nel video (guarda qui) si vedono chiaramenti i cadaveri sul fondale del mare: ce ne è uno con le braccia alzate verso l'alto, come a cercare invano l'aria; ce n'è un altro che è rimasto impigliato tra le cime dell'imbarcazione; un terzo, infine, ha il volto sepolto nella sabbia. I corpi dei migranti morti sono stati avvistati ieri sei miglia a sud dell'isola. I successivi rilievi con il Rov (Remotely Operated Underwater Vehicle) dei Nuclei subacquei della Guardia costiera hanno confermato il ritrovamento del relitto. Tra loro, a 60 metri di profondità, anche il cadavere della donna che stringe a sé il suo piccolo. Oggi la Guardia Costiera ha messo a disposizione tutti i nuclei sommozzatori disponibili per effettuare le complesse operazioni di recupero che sono state seguite anche dalla procura di Agrigento. Il fattore tempo si è rivelato sin dall'inizio determinante. "Non è escluso che ci siano altri cadaveri non ancora avvistati", ha spiegato ieri all'agenzia LaPresse il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella sottolineando il grande lavoro svolto dai soccorritori. "Ci abbiamo creduto fino alla fine - ha assicurato - il personale della guardia costiera di Lampedusa e il nucleo sommozzatori non hanno mollato un solo giorno, nonostante il carico di lavoro ordinario che continua a gravare su Lampedusa. I nostri militari hanno messo in campo tutta la loro professionalità e anche il loro cuore". Il numero definitivo dei cadaveri potrà essere accertato solo al termine delle ricognizioni subacquee effettuate dai Nuclei Subacquei della Guardia Costiera. In mattinata è stata effettuata un'altra ricognizione nella zona in cui è affondato il barcone, mentre i primi corpi hanno iniziato ad essere riportati sulla terraferma. Quelle immagini, come fa notare l'agenzia Adnkronos, ricordano il copricino del piccolo Aylan, il bambino di 3 anni di etnia curda-siriana ritrovato senza vita sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, dopo il naufragio del 2 settembre 2015. Nonostante questo ennesimo dramma dell'immigrazione clandestina, le partenze dal Nord Africa e gli sbarchi sulle nostre coste continuano a ritmo serrato. Giusto questa mattina ha attraccato al porto di Taranto la Ocean Viking, la nave dall’Ong francese Sos Mediterranée che opera insieme a Medici Senza Frontiere e che soltanto oggi ha fatto scendere a terra 176 immigrati. La Guardia Costiera, invece, ha soccorso un barcone in difficoltà con circa 180 clandestini a bordo in acque maltesi, 35 miglia nautiche a sud/ovest di Lampedusa. L'operazione di soccorso è scattata all'alba di martedì, subito dopo la chiamata da telefono satellitare e successivo avvistamento da parte di un mezzo aereo dell'operazione internazionale Eunavfor Med. La capitaneria ha informato l'autorità maltese che, assumendo il coordinamento dell'operazione di ricerca e soccorso, ha chiesto la collaborazione all'Italia: con due motovedette della guardia costiera e una della guardia di finanza è stato portato a termine il salvataggio.
Migranti, Ocean Viking in Porto Taranto. Volontario: «Picchiati e umiliati». Sbarcano 131 uomini, 12 donne (di cui 4 incinte) e 33 minori, 23 non accompagnati. La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Ottobre 2019. Ha attraccato al molo san Cataldo del porto di Taranto la nave Ocean Viking, di Sos Mediterranee e Medici senza frontiere, per lo sbarco dei 176 migranti soccorsi l'altro ieri in due distinte operazioni ad una quarantina di miglia dalle coste libiche. Si tratta di 131 uomini, 12 donne di cui quattro incinta, e 33 minori di cui 23 non accompagnati. La Prefettura di Taranto ha organizzato le operazioni di accoglienza e di assistenza ai profughi, in coordinamento con il Comune, il comando della Polizia locale, l’Autorità portuale, il Comando Marittimo Sud, i Vigili del Fuoco, la Asl, il 118, la Croce rossa, le Associazioni di volontariato e le forze dell’ordine. La maggior parte dei 176 migranti soccorsi nelle ultime ore al largo delle coste libiche e sbarcati oggi al porto di Taranto dalla nave Ocean Viking è stata trasferita in bus all’hotspot di Taranto per le procedure identificazione e foto-segnalamento, in attesa dello smistamento in centri di altre regioni italiane individuati dal ministero dell’Interno. I 23 minori non accompagnati e le quattro donne in stato di gravidanza troveranno temporanea sistemazione in strutture comunali in città. «Possiamo raccontare la storia di un ragazzino di 15 anni che per due anni è stato tenuto prigioniero in un centro di detenzione. Non è accompagnato. Non ci sono diritti umani rispettati, questo è abbastanza chiaro». Lo hanno rivelato Berger Jay, Juan Paolo Manuel Sanchez, e Luisa Albera del 'Project staff Medici senza Frontierè (Msf), a margine dello sbarco di 176 migranti dalla nave Ocean Viking avvenuto questa mattina al molo san Cataldo del porto di Taranto. Tra i minori arrivati c'è anche una bimba di appena dieci mesi, camerunense. I migranti sbarcati hanno vissuto momenti difficili «nei centri di detenzione - hanno evidenziato i rappresentanti di Msf - qualcuno anche per anni». Tra loro «non ci sono però malattie gravi, e le condizioni di salute sono buone». «Le persone che abbiamo soccorso nella prima imbarcazione trovata vicino alla piattaforma petrolifera - hanno aggiunto - era più di un giorno che erano in viaggio, erano alla deriva, non avevano più possibilità di utilizzare il motore e non avevano più grandi speranze di arrivare da nessuna parte». Quando «abbiamo ricevuto da parte dalla Guardia Costiera libica l’invito a portare a Tripoli le persone che avevamo soccorso - hanno puntualizzato i rappresentanti di Medici senza frontiere - abbiamo detto di no perché c'é una legge precisa che ci impedisce di portare le persone in un porto che non sia sicuro». «Quando siamo partiti da Marsiglia diretti verso la Libia, passando vicino a Lampedusa - hanno ricordato - in quel lunedì 7 ottobre che purtroppo è rimasto nella storia, c'è stato un naufragio dell’imbarcazione e le autorità italiane ci hanno chiesto di partecipare alla ricerca di eventuali sopravvissuti. È stato un grande passo per noi essere ingaggiati per una ricerca dalle autorità. Nonostante la ricerca, purtroppo, non siamo riusciti a trovare nessuno». Secondo gli esponenti dello staff di Medici senza frontiere, "in caso di soccorso e di richiesta di aiuto in mare, tutte le navi a disposizione dovrebbero essere ingaggiate nella ricerca. Si parla di vite umane ed è un diritto la vita».
PICCHIATI E UMILIATI IN ALTO MARE - Ci sono i volti sorridenti e meravigliati dei bambini, ma anche sguardi increduli e visi provati degli adulti stremati tra i 176 migranti soccorsi nelle ultime ore al largo delle coste libiche che stanno sbarcando a Taranto dalla nave Ocean Viking. La macchina dell’accoglienza predisposta dalla Prefettura si è attivata. Ndoffen Diouf, mediatore interculturale dell’associazione Babele, parlando con i giornalisti ha affermato che in base alla sua esperienza può «dire che questi disperati che arrivano sui barconi passano di mano a mano dai trafficanti di esseri umani che li rendono schiavi, e per riacquistare la libertà devono pagare un prezzo altissimo». «In alto mare - ha sottolineato - succede di tutto: vengono picchiati e umiliati e chi si ribella viene ucciso. Ma sono esseri umani, fuggono dalla guerra e dalla miseria e vengono in Europa per recuperare diritti fondamentali e sperare in una vita migliore».
TENSIONI FRA LEGA E ATTIVISTI - Momenti di tensione si sono registrati a Taranto tra i parlamentari della Lega che hanno avuto accesso all’area dello sbarco dei migranti dalla Ocean Viking, e alcune decine di manifestanti rimaste all’esterno del porto mercantile. «C'è chi, come la Lega, è pronto a speculare sulla pelle delle persone - ha detto Luca Contrario della campagna Welcome Taranto - e aveva convocato un presidio per dire che Taranto non vuole i migranti, e poi c'è la risposta di duecento attivisti che invece dimostra per l’ennesima volta che Taranto è una città accogliente, solidale, antirazzista e non tollera manifestazioni di intolleranza. Siamo una città di mare e per definizione siamo aperti. Se c'è qualcuno da cacciare è Mittal che viene qui a devastare». In presidio all’interno del molo san Cataldo anche un gruppo di assessori comunali e una delegazione di attivisti della rete #ioaccolgo, tra cui alcuni rappresenti della Cgil. «La gioia per lo sbarco in Italia - afferma un esponente dell’organizzazione sindacale - si trasforma in sorrisi per le famiglie che approdano. È il segno tangibile della ricerca di sicurezza per chi fugge da Paesi in guerra, è il segno che quello che accade nel mondo, come in Siria, a causa dell’attacco dei turchi, ci riguarda tutti. Provochiamo sorrisi, portiamo la gioia e la speranza».
PARLAMENTARI LEGA: PUGLIA NON È CAMPO PROFUGHI - «Molti cittadini ci hanno chiesto di venire a vedere cosa succede, lo faremo ogniqualvolta una nave sbarcherà sulla nostra terra, perché la Puglia non può essere il campo profughi di tutta l’Italia e l’Italia non può essere il campo profughi di tutta Europa». Lo ha detto ai giornalisti l’onorevole Rossano Sasso che guida una delegazione di deputati pugliesi della Lega, presenti al porto di Taranto per lo sbarco dalla nave Ocean Viking di 176 migranti, tra cui donne incinte e bambini, soccorsi l’altro ieri in due distinte operazioni ad una quarantina di miglia dalle coste libiche. Le operazioni non sono ancora iniziate ma dovrebbero concludersi in mattinata. Della delegazione della Lega fanno parte anche il segretario della Lega in Puglia, Luigi D’Eramo, l'europarlamentare Massimo Casanova, il senatore Roberto Marti, il deputato Anna Rita Tateo e l’onorevole Gianfranco Chiarelli. «Siamo qui - ha aggiunto Sasso - semplicemente per esprimere in maniera democratica e pacifica il nostro dissenso a una Ong francese che batte bandiera norvegese che ordina al governo italiano che vuole attraccare e il governo italiano concede il porto di Taranto». «Da oggi - ha concluso Sasso - Taranto deve sapere che potrebbe arrivare ogni giorno una barca. Quello che succede stamattina è la dimostrazione lampante che la maschera donata dalla Merkel a Conte è caduta. L’accordo di Malta non esiste, è un accordo farlocco». «Alla fine anche la beffa di vedere la bandiera tricolore issata sulla Ocean Viking, nave di una Ong francese battente bandiera norvegese». Lo afferma in una nota il deputato pugliese della Lega, Rossano Sasso, che con altri parlamentari leghisti questa mattina è in presidio al porto di Taranto dove stanno sbarcando 176 migranti. «Pochissime donne e bambini - sottolinea Sasso - 130 uomini adulti palestrati, più una ventina di minori non accompagnati alti almeno un metro e novanta, di cui non sappiamo assolutamente nulla, che non sappiamo se sono veri profughi o delinquenti, ma che intanto ci teniamo a casa nostra e a spese nostre». «Sembra di rivedere un film del passato - rileva - in cui l'Italia perde la sua sovranità e viene presa in giro da francesi e tedeschi con accordi farlocchi come quello di Malta, in cui riprende una immigrazione senza regole per la gioia di scafisti e di Coop rosse specializzate nel business dell’accoglienza». «Pd e M5s - prosegue - hanno fatto un bel regalo a Taranto ed alla Puglia. La Lega ha manifestato il suo dissenso e adesso noi chiediamo dove hanno intenzione di collocare questa gente. Se i buonisti sono tanto accoglienti sono pregati di fornire gentilmente gli indirizzi di casa loro».
ATTIVISTI: VOGLIAMO DETTAGLI DALLA PREFETTURA - La prefettura di Taranto «è poco trasparente nella gestione delle operazioni di accoglienza: vogliamo sapere dove verranno portati i minori non accompagnati». Lo afferma Enzo Pilò dell’associazione Babele e della campagna #ioaccolgo, che insieme con altri attivisti, cittadini, associazioni e sindacalisti si trova all’ingresso del porto mercantile di Taranto, in occasione dello sbarco dalla nave Ocean Viking di 176 migranti. Al sit-in, il cui simbolo è uno striscione con la scritta «Restiamo umani», partecipano alcune decine di persone, ma oltre ad alcuni assessori comunali solo una piccola delegazione è stata fatta entrare all’interno del molo san Cataldo dove avviene lo sbarco, e questa circostanza è stata oggetto di polemica. «Vogliamo avere notizie - sottolinea Pilò - su dove verranno portati i minori non accompagnati, perché in occasione degli ultimi due sbarchi sono stati collocati nel Cas per minori che avrebbe dovuto essere chiuso da due anni». «Siamo qui - ha detto Eva Santoro della Cgil - per testimoniare che c'è un’Italia che vuole continuare ad accogliere, che dice no alla politica dell’odio, della paura, della bugia, un’Italia che si sente vicina a queste persone che oggi stanno scendendo nella speranza di una vita migliore, che hanno passato dei momenti tremendi».
Dopo Lampedusa, il porto di Taranto apre le porte ai migranti. E gli "affaristi" dell'accoglienza ai migranti gioiscono! Il Corriere del Giorno il 16 Ottobre 2019. Ancora una volta a Taranto i soliti “noti” sono pronti a fare affari d’oro sulla pelle dei migranti, mentre la città affronta quotidianamente gravi problemi economici e di occupazione, che non interessano a nessuno dei politicanti locali, pensando solo alle loro clientele, “affarucci” sporchi e sprechi di denaro pubblico alle spalle della cittadinanza. I parlamentari pugliesi della Lega saranno al porto di Taranto, in occasione dello sbarco dei migranti “per contestare la politica di chi vuole i porti aperti e dire basta ad una immigrazione senza regole sulla pelle degli Italiani”. Questa mattina ha attraccato al molo san Cataldo del porto di Taranto la nave Ocean Viking, su cui navigano 176 migranti (131 uomini, 12 donne di cui 4 in stato di gravidanza e 33 minori di cui 23 non accompagnati) soccorsi al largo delle coste libiche. L‘Ocean Viking è la nave di soccorso di Sos Mediterranee e Medici Senza Frontiere, che ha messo in salvo i migranti a bordo di imbarcazioni in difficoltà in due distinte operazioni, . Dopo aver rifiutato il porto di Tripoli come “place of safety” (località di sicurezza) proposto dalle autorità libiche, la nave Ong si è diretta verso nord chiedendo il pos ad Italia e Malta. Il semaforo verde all’attracco nel porto di Taranto è stato concesso lunedì sera dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Ne ha dato notizia nella serata di ieri la Prefettura di Taranto che ha organizzato una riunione operativa presieduta dal prefetto Antonella Bellomo, alla quale hanno partecipato, oltre al Questore ed al Comandante provinciale della Guardia di finanza, e dei Carabinieri, i rappresentanti del comando della Polizia Locale, dell’Autorità portuale, del Comando Marittimo Sud, della Sanità Marittima, dei Vigili del Fuoco, della Asl, del 118, della Croce rossa e delle Associazioni di volontariato al fine di poter coordinare al meglio le attività di accoglienza e di assistenza ai profughi che sbarcheranno. “I migranti saranno ospitati presso il centro Hotspot per essere sottoposti alle procedure di identificazione e foto segnalamento – spiega la nota prefettizia – successivamente, i minori non accompagnati troveranno temporanea sistemazione in città, mentre è in programma il trasferimento degli altri cittadini in altre regioni secondo il piano di riparto che sarà predisposto dal Ministero dell’Interno“. “Taranto ha messo tutto il suo cuore per accogliere queste persone“, ha dichiarato il prefetto Bellomo al termine della riunione. Ancora una volta la città di Taranto torna ad essere interessata da un nuovo sbarco di migranti . L’Amministrazione di sinistra guidata dal sindaco Rinaldo Melucci (Pd) ha aderito alla campagna di sensibilizzazione #ioaccolgo ed oggi gli amministratori comunali della sinistra saranno presenti addirittura come “Comitato d’accoglienza”. In una nota il Comune di Taranto ha dichiarato ” Siamo la città che si vede in lontananza, quella che si scorge da lontano e racchiude in sé la speranza della salvezza, del salvataggio, dell’approdo e la nostra amministrazione si occuperà dei minori non accompagnati e delle donne in stato di gravidanza“. “Saremo tutti lì ad accoglierli perché non basta avere il Rosario in mano e votarsi al cuore immacolato di Maria se poi ci si gira dall’altra parte quando viene richiesto il nostro aiuto – prosegue il documento – . non rientra nemmeno nella nostra storia di figli dei parteni. Il populismo di questi ultimi anni ha offerto e continua ad offrire una immagine distorta dell’accoglienza e dispiace che a dar voce all’ignoranza di qualcuno siano esponenti politici che tanto si affannano nelle battaglie per una sanità di livello. Un porto sicuro dove attraccare e le cure mediche non possono essere un privilegio che spetta solo a qualcuno. Taranto sa accogliere, lo ha già dimostrato. Attenderemo l’arrivo della Ocean Viking uniti, convinti dell’importanza del ruolo rivestito dalla nostra città, considerata porto sicuro e faremo tutto ciò che ci compete per accogliere quegli sfortunati 176 esseri umani. E non solo perché ce lo impongono le leggi nazionali e sovranazionali ma perché il breve passaggio dalla nostra città di questi bambini, donne e uomini ci insegna ancora una volta che l’umanità e l’accoglienza sono principi fondanti della nostra comunità“, conclude la nota del Comune. In realtà i più felici di accogliere i migranti a Taranto saranno i “professionisti” dell’ accoglienza, cioè quegli “affaristi” senza scrupoli contigui al Pd ed alla Curia Arcivescovile, che con le loro cooperative ed associazioni sono pronti a lucrare su queste attività di accoglienza. Ecco perchè questa mattina una delegazione dei parlamentari pugliesi della Lega composta dal segretario regionale della Lega in Puglia, On. Luigi D’Eramo, l’europarlamentare Massimo Casanova, il senatore Roberto Marti, i deputati Rossano Sasso e Anna Rita Tateo saranno al porto di Taranto, in occasione dello sbarco dei migranti trasportati a bordo della Ocean Viking. “Siamo qui semplicemente per esprimere in maniera democratica e pacifica – ha dichiarato Rossano Sasso parlamentare pugliese della Lega – il nostro dissenso a una Ong francese che batte bandiera norvegese che ordina al governo italiano che vuole attraccare e il governo italiano concede il porto di Taranto, e per contestare la politica di chi vuole i porti aperti e dire basta ad una immigrazione senza regole sulla pelle degli Italiani” aggiungendo e ricordando che “solo nel mese di settembre il numero degli sbarchi voluti dal governo Pd-M5S ha superato quello degli ultimi 8 mesi, quando Matteo Salvini era ministro dell’Interno. Conte vorrebbe trasformare Taranto nella nuova Lampedusa e né il sindaco della città né il presidente Emiliano hanno detto una parola a riguardo, anzi si apprestano ad accogliere, infischiandosene dei tarantini. Da oggi Taranto deve sapere che potrebbe arrivare ogni giorno una barca. Quello che succede stamattina è la dimostrazione lampante che la maschera donata dalla Merkel a Conte è caduta. L’accordo di Malta non esiste, è un accordo farlocco” ha concluso Sasso. Anche Raffaele Fitto, co-presidente del gruppo europeo ECR-Fratelli D’Italia è intervenuto prendendo una posizione in linea con quella della Lega, affermando che “Lampedusa è ormai al collasso e il Governo Rosso-Giallo ha aperto un altro porto, quello pugliese. Siamo passati da porti chiusi a Italia aperta“. L’europarlamentare salentino ha aggiunto che il “massiccio arrivo di extracomunitari, che rimangono tutti sul nostro territorio, è la conferma di quanto avevamo già denunciato: l’Accordo di Malta è un bluff, il ministro dell’Interno Lamorgese dopo i proclami per far credere agli italiani che il problema fosse risolto con la redistribuzione tra tutti i Paesi europei, come primo atto autorizza lo sbarco di una Ong nel porto di Taranto“. Il deputato pugliese Marcello Gemmato di Fratelli d’Italia, si chiede a sua volta “a chi gioverà l’ingresso in Puglia di questi esseri umani vittime degli scafisti, per caso a coloro che dovranno gestirne l’accoglienza? Sono curioso di sapere cosa pensano a riguardo il presidente della Regione, Michele Emiliano, e la sinistra pugliese tutta”. Una cosa è certa: a Taranto ancora una vota i soliti “noti” sono pronti a fare affari d’oro sulla pelle dei migranti, mentre la città affronta quotidianamente gravi problemi economici e di occupazione, che non interessano a nessuno dei politicanti locali, pensando solo alle loro clientele, “affarucci” sporchi e sprechi di denaro pubblico alle spalle della cittadinanza.
Immigrazione, il Pd invita gli Africani in Italia, ma dimentica che il Continente Nero cresce sempre più. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 7 Ottobre 2019. Ma chi l'ha detto che i poveri debbano rimanere tali? Un fatto da tener presente quando si analizzano i modelli di "decrescita felice" grillina o quelli proposti dai terzomondisti alla Bergoglio è che le nazioni non sono mai diventate ricche dividendo il poco denaro che c' era, ma producendone di più. È successo alla Cina, dove nel giro di una generazione il governo di Pechino è passato dalle accese discussioni su come mettere una ciotola di riso su ogni tavola a pensare come competere con gli Stati Uniti per diventare la prima potenza del globo. Una rivoluzione positiva che potrebbe investire parti del mondo ancora più disastrate. Per esempio l' Africa. Intendiamoci: il Continente Nero è molto, molto lontano dall' aver risolto i suoi problemi. Però c' è speranza. Nella classifica dei Paesi che stanno crescendo più rapidamente al mondo, 6 su 10 si trovano nella cosiddetta parte sbagliata del Mediterraneo, come scopriamo leggendo i dati prodotti per quest' anno dal Fondo monetario internazionale. Un esempio: la Costa d' Avorio, che è uno dei primi Paesi esportatori di clandestini verso l' Italia, è la terza nazione che incrementa il proprio Pil più rapidamente nel pianeta. Un dato che lascia molti interrogativi aperti riguardo a certe teorie dalla sinistra italiana.
PIAGHE E SOLUZIONI. In altre parole, potrebbero aver ragione i vescovi e i leader africani che da anni dichiarano di considerare le migrazioni di massa come un problema, una piaga da estirpare piuttosto che una soluzione ai problemi della loro terra o addirittura una inevitabile conseguenza dei cambiamenti climatici come ci raccontano i portavoce delle Ong attive nel Canale di Sicilia. Gli africani saranno anche accaldati, ma a quanto pare la cosa gli sta portando fortuna. Pochi giorni fa il segretario di Stato americano Mike Pompeo, in visita in Italia, ha discusso con alcuni giornalisti del tema dei flussi dal Terzo mondo, spiegando che «l' unica soluzione è aiutarli a casa loro». Provate a uscirvene con una frase simile nello studio di un talk show sulle nostre reti e vi prenderanno per un neonazista: qualcuno potrebbe arrivare a invocare la censura dell' Ordine dei giornalisti. C' è però quella cifra: 4,5 miliardi, ovvero i soldi che il governo del Partito Democratico è arrivato a spendere per l' accoglienza nel periodo nero degli sbarchi (tre anni fa, non troppo lontano quindi). Quella somma è finita interamente nelle tasche dei filantropi che si occupano di accoglienza nel nostro Paese. Filantropi e furbi. Talmente svegli che non s' è mai sentito nessuno di loro protestare, chiedendo di spendere una frazione, non diciamo neanche la metà, di quei soldi per creare ricchezza là dove provengono i poveracci. Meglio trascinare i disperati qui. Va detto che, anche se è vero che i Paesi africani crescono rapidamente, è anche chiaro che le speranze di reddito di un abitante del Ghana (primo al mondo) non sono neanche lontanamente paragonabili a quelle di un italiano. Qui però non parliamo di gente cresciuta in Europa. Chi sbarca su un gommone a Lampedusa finisce in un centro profughi, poi spesso si ritrova per disperazione a raccogliere pomodori in Puglia o a vendere borse di pelle stra-finta sotto i portici di qualche città italiana. Non una gran pacchia.
SI RICOMINCIA. Proprio ieri il ministro dell' Interno tedesco Horst Seehofer ha spiegato che l' Europa sta per affrontare un nuovo picco di arrivi di migranti, «una nuova ondata forse anche superiore a quella del 2015». L' Italia affronta tutto ciò con un esecutivo a trazione dem che invoca la riapertura dei porti. Come andrà a finire pare ovvio. E qualcosa è già cambiato se, come ripeteva ieri Matteo Salvini, «con la Lega al governo gli sbarchi erano diminuiti del 70%, mentre ora con il governo del Tradimento e delle Poltrone gli arrivi sono triplicati». Lorenzo Mottola
Nuovi sbarchi a Lampedusa, sull'isola anche la protesta dei tunisini. Ieri 130 migranti approdati a Lampedusa, solo questa mattina ne arrivano altri 28: situazione molto critica sull'isola e nel locale centro d'accoglienza mentre intanto i tunisini iniziano a protestare contro i rimpatri. Mauro Indelicato, Giovedì 19/09/2019, su Il Giornale. Si fa sempre più critica la situazione a Lampedusa. I numeri, impietosi, confermano quanto già emerso nei giorni scorsi e cioè che l’isola rischia di essere travolta da una repentina impennata di sbarchi, autonomi e non. Il primo numero descrive appieno ancora una volta il contesto in cui si trova il locale centro d’accoglienza: a fronte di una capienza massima di 95 persone, attualmente all’interno sono ospitati 240 migranti. E dire che non si fermano le operazioni di trasferimento verso Porto Empedocle: lunedì 70 persone lasciano l’isola per raggiungere la Sicilia, ieri altre 80 vengono imbarcate nel traghetto di linea per il porto agrigentino, ma gli arrivi sono più delle partenze. Soltanto nella giornata di giovedì a Lampedusa approdano 130 persone e non si tratta della somma degli sbarchi effettuati con piccoli gommoni, come avviene fino a qualche settimana fa. Nei dintorni dell’isola, tornano a farsi vedere anche grandi imbarcazioni con decine di persone a bordo. Giovedì, per l’appunto, la Guardia di Finanza scorta fin dentro il porto un peschereccio con 108 migranti assiepati al suo interno. Poi un altro approdo, questa volta autonomo, in una delle spiagge di Lampedusa porta il conto complessivo di un’altra difficile giornata a 130. E questa notte si ha notizia di altri 28 migranti arrivati dopo le operazioni di soccorso compiute dalla Guardia di Finanza, allertata da un peschereccio che nota, ad un miglio dalla costa, la presenza di un’imbarcazione diretta verso l’imbocco del porto di Lampedusa. A bordo cittadini ivoriani e camerunensi, suddivisi 19 uomini, 8 donne ed un bambino. Molto probabilmente dunque, a giudicare dalla nazionalità dei migranti in questione, il barcone è partito qualche ora prima dalla Libia. Su Twitter intanto, Alarm Phone denuncia una presunta omissione di soccorso da parte delle autorità maltesi, visto che il barcone in questione viene notato per la prima volta in acque di competenza di La Valletta, pur se a 38 miglia da Lampedusa: “Secondo le autorità italiane, le 28 persone in difficoltà sono state salvate – si legge poi in un tweet successivo del network telefonico – Possiamo solo sottolineare ancora una volta che ritardare le operazioni di salvataggio prolunga inutilmente la sofferenza in mare e mette in pericolo la vita dei migranti!” E la giornata è solo all’inizio: si teme, da qui alle prossime ore, un’altra ondata di sbarchi con la paura di vedere ulteriormente crescere la tensione all’interno del centro di accoglienza di Lampedusa. Tutto questo, come già sottolineato ieri, sta mettendo a dura prova anche le stesse forze dell’ordine: turni massacranti, ricerca dei migranti sbarcati autonomamente, operazioni di soccorso, così come di assistenza durante il trasferimento delle persone verso Porto Empedocle, oltre ovviamente alla sorveglianza dell’hotspot. In termini di costi, lavoro e stress, sono momenti molto delicati per chi opera a Lampedusa. Ed adesso si rischia anche sotto il profilo dell’ordine pubblico: ieri sera prima protesta dei tunisini che non vogliono essere rimpatriati. Alcuni di loro inscenano una manifestazione dinnanzi la locale Chiesa di San Gerlando, al centro del paese di Lampedusa. Una protesta pacifica fino a questo momento, ripetuta anche questa mattina. Il timore però è che, nei prossimi giorni, le richieste dei tunisini possano sfociare, come già in passato, in situazioni di maggior tensione.
"Frontex non difende i confini. Così ci porta tutti i migranti". Boom di migranti nell'Egeo. L'Ue schiera l'agenzia per proteggere le frontiere. Ma la missione rischia di essere un boomerang per le operazioni di ricerca e soccorso. Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Martedì 01/10/2019, su Il Giornale. Samos, Grecia - La bandiera greca sventola insieme a quella tedesca su alcune navi attraccate al porto di Samos. Sono le imbarcazioni di Frontex, l’Agenzia Europea della Guardia di Frontiera e Costiera che nell’Egeo pattuglia il tratto di mare tra Grecia e Turchia. Un corridoio d’acqua largo pochi chilometri che ogni notte centinaia di migranti cercano di attraversare illegalmente. Quest'anno nel Paese sono arrivati oltre 40mila profughi, contro i 37mila dello stesso periodo del 2018. Le isole prese d’assalto e i campi profughi affollati sono il simbolo della nuova crisi migratoria che si sta già riversando sull’Europa. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha minacciato Bruxelles: in mancanza di una rinegoziazione dell’accordo sui migranti firmato nel 2016, il sultano si è detto pronto a riaprire le frontiere con Grecia e Bulgaria e far ripartire così il flusso verso il cuore dell’Europa. Negli hotspot di Lesbo, Samos, Leros, Kos e Chios ne sono già stipati più di 30mila in condizioni precarie. "Non c’è acqua né cibo. Siamo costretti a vivere nelle tende tra ratti e serpenti", raccontano alcuni ragazzi del Mali arrivati da pochi giorni a Samos. Per fronteggiare la crisi migratoria, negli ultimi anni l’Europa ha schierato Frontex lungo i suoi confini. Nel Mediterraneo, oltre alle missioni in Italia e Spagna, l’Agenzia europea è attiva in Grecia dal 2006 con l’operazione Poseidon: navi prestate dai governi europei, sotto il coordinamento greco, sorvegliano il tratto di mare tra Atene e Ankara. Dal 2016 il budget è salito notevolmente e l'anno scorso sono stati spesi 43,3 milioni di euro, più altri 2,7 per le attività di riammissione. Il report di Frontex sostiene che tra gli obiettivi dell'operazione Poseidon ci sia anche quello di "prevenire l'attraversamento illegale delle frontiere". Eppure ogni notte sulle cinque isole dell’Egeo arrivano centinaia di immigrati: se alcuni di loro sbarcano direttamente sulle spiagge, la maggior parte viene invece recuperata in mare proprio dalle navi dell'Agenzia europea. "A 37 chilometri da Samos, la benzina della nostra barca è finita - spiega un giovane siriano che vive ora accampato nella giunga -. Un’imbarcazione di Frontex è venuta a prenderci e ci ha accompagnato qui". L’idea che i soldi dell’Unione europea vengano spesi male si è diffusa da tempo fra commercianti e cittadini. "Frontex dovrebbe proteggere i confini, ma non lo fa", tuona un negoziante di Vathy, la cittadina più grande dell’isola. "Gli agenti lavorano poche ore al giorno, poi li vedi che bevono caffè al bar e passeggiano per i negozi. Se sorvegliassero il tratto di mare prima delle partenze, i migranti sarebbero costretti a tornare indietro, in Turchia. Ma non lo fanno". Il problema è che tra gli "obiettivi specifici" dell’Agenzia non c’è solo il controllo delle frontiere, ma anche l’attività di ricerca e soccorso. E così la difesa dei confini si trasforma spesso in un servizio di recupero degli immigrati. "Ho nuotato per circa 11 ore dalla Turchia verso l’Europa - racconta un uomo siriano di mezz’età -. Quando sono entrato nelle acque greche la polizia mi ha visto e mi ha portato subito a Samos". A dimostrare che Frontex ha accompagnato in Grecia più stranieri di quanti ne abbia bloccati, ci sono i dati del 2018. Lo scorso anno, infatti, l’Agenzia europea ha intercettato imbarcazioni nelle acque turche solo in 126 casi, prevenendo la partenza di appena 5.600 persone. Nello stesso periodo però ha partecipato a 503 operazioni di soccorso durante le quali sono stati salvati e portati sulle isole ben 19.031 stranieri: "Il 92% di tutti i migranti - si legge nel rapporto - è stato salvato da risorse cofinanziate da Frontex". E pensare che in teoria l'Agenzia potrebbe tranquillamente intercettare i clandestini, riportarli direttamente in Turchia o trasbordarli nelle imbarcazioni di Erdogan. Ma nel 2018 non l'ha mai fatto perché "non vi sono stati migranti intercettati o salvati da attività di Frontex nelle acque turche nelle Mar Egeo". Questo significa che l'Agenzia, di fatto, li intercetta solo nelle acque greche o nell'area operativa di Poseidon: a quel punto, in base all'accordo con Atene, è autorizzata a farli sbarcare sulle isole. L'operazione che dovrebbe contrastare gli arrivi illegali in Grecia, si è trasformata così in un vero e proprio boomerang. "Frontex porta tutti i migranti sulle isole - spiega con amarezza un agente di polizia di Samos -. Le navi di Francia e Germania attraccate qui da noi sono ben felici di recuperare gli immigrati. Dicono: 'Benvenuti in Europa'. E poi li lasciano da noi”.
Migranti, grillini senza rotta. Decidono tutto i democratici. Il paradosso del M5s: ha più parlamentari di tutti, però deve sempre subire. Prima la linea leghista, ora quella Pd. Francesca Angeli, Domenica 15/09/2019, su Il Giornale. Allearsi non fa bene ai Cinquestelle. Dalla Lega al Pd hanno compiuto un salto in lungo degno di Fiona May ma pur cambiando partner il risultato è lo stesso: i pentastellati vengono oscurati dall'alleato. Alla fine del film il protagonista risulta un altro, ovvero quello che, almeno in base ai numeri, avrebbe dovuto essere la spalla. Un esempio? Sul fronte immigrazione il via libera allo sbarco dei migranti dalla Ocean Viking è tutto merito (o colpa a seconda dei punti di vista) del Pd. Così come il blocco degli arrivi era tutto merito o colpa della Lega. Ed è perfettamente inutile che il ministro degli Esteri nonchè leader del partito più votato alle ultime politiche, Lugi Di Maio si affanni a spiegare che non c'è alcuna «discontinuità» rispetto alle scelte del governo precedente, che, dice Di Maio «come il Conte 2 aveva come obiettivo la redistribuzione». Il titolare della Farnesina viene smentito un secondo dopo non da un esponente dell'opposizione ma dalla persona seduta nell'ufficio accanto al suo, ovvero il viceministro degli Esteri del Pd, Marina Sereni: accogliere i profughi «è la misura della differenza tra il prima e il dopo Salvini». La continuità per Di Maio è invece la «fine della propaganda di Salvini sulla pelle di disperati in mare» per il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini. E stiamo parlando dello stesso governo. Un commento su Twitter condiviso dal segretario del Pd, Nicola Zingaretti. Ed è la stessa lettura che dell'avvenimento offre l'ex alleato Matteo Salvini, da un opposto punto di vista. «Evidentemente la promessa di Conte alla Ue era che l'Italia tornasse il campo profughi d'Europa», attacca l'ex ministro degli Interni che parla di «resa» di fronte al via libera. Il Capitano non esclude dalle critiche il premier, Giuseppe Conte, che non appena insediato dichiarò che sarebbe stato «l'avvocato del popolo». «Ora il nuovo governo sinistro riapre le porte: altro che avvocati degli italiani, qui vedo avvocati dei clandestini», commenta su Twitter il leader del Carroccio. D'altra parte M5s con l'alleanza al Pd ha di fatto accettato (non è dato sapere quanto consapevolmente) il secondo abbraccio mortale per il Movimento dopo quello consumato con la Lega. Così come era il Capitano del Carroccio a dominare la scena politica pur avendo incassato soltanto il 17 per cento dei voti contro il 33 dei pentastellati. E ora la storia si ripete. Il Pd che in Parlamento è arrivato con il 18,72 non ha mai avuto tanti ruoli chiave come in questo momento. Basta vedere i numeri. M5s con 216 deputati e 107 senatori contro i 111 deputati e 51 senatori del Pd ha il doppio di eletti rispetto ai dem eppure al governo praticamente pareggia: 10 ministri sono grillini e 9 del Pd. Su 42 tra viceministri e sottosegretari 21 sono targati M5S e 18 Pd. Ma non è soltanto una questione di quantità. Il Pd ha collezionato le poltrone che contano a cominciare da quella dell'Economia alle quali si aggiungono ruoli chiave come quello della presidenza del Parlamento Europeo ricoperta da David Sassoli e del Commissario agi Affari Economici affidato a Paolo Gentiloni, ex premier. La partita sui migranti per la Lega però non si chiude con l'ok alla Ocean Viking. Salvini esorta i sindachi leghisti a non accettare l'eventuale ridistribuzione dei profughi nei loro comuni.
Da corriere.it il 14 settembre 2019. L’Italia ha assegnato il place of safety, il porto sicuro, alla Ocean Viking, la nave di Sos Mediterranea e Medici senza frontiere con 82 migranti a bordo: si tratta di Lampedusa. Si sta valutando ora se farla entrare direttamente in porto o fare il trasporto dei migranti su motovedette della Guardia Costiera. «Siamo sollevati». È il primo commento di Medici senza Frontiere e di Mediterranea Saving Human. «I migranti saranno accolti in molti Paesi europei — commenta il ministro della Cultura e capo delegazione del Pd nel governo, Dario Franceschini —, è la fine della propaganda di Salvini sulla pelle di disperati in mare. Tornano la politica e le buone relazioni internazionali per affrontare e risolvere il problema delle migrazioni». «Eccoli, porti aperti senza limiti...», attacca l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. «Il nostro obiettivo, ma anche quello del precedente governo, era quello che anche gli altri paesi europei se ne facessero carico — commenta Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e leader del M5S —. Oggi si sono create le condizioni per questa distribuzione. Si fanno sbarcare se vengono redistribuiti. L’obiettivo per noi restano gli investimenti nei paesi di provenienza, l’accordo sui rimpatri che vanno di pari passo con la cooperazione internazionale». «Se il nuovo ministro dell’Interno Lamorgese vuole continuare sulla stessa scia dell’ex ministro Salvini, noi siamo pronti ad alzare la voce e non sarà una voce di pace. Accoglienti sì ma idioti no. La nave Ocean Viking era molto più vicina alle coste siciliane che a Lampedusa. Perché la scelta di assegnare come porto sicuro proprio Lampedusa?», accusa il sindaco di Lampedusa Salvatore Martello che commenta così la decisione delle autorità italiane di assegnare un porto sicuro alla nave Ocean Viking e di scegliere proprio Lampedusa. «Forse il ministro dell’Interno pensa che i lampedusani siano degli emeriti idioti- prosegue Martello che sta tornando sull’isola- La cosa non funziona. L’isola non può essere la soluzione di tutti i problemi. Il ministro ha sbagliato indirizzo». E ancora: «O rispetta le regole anche lei o faremo sentire la nostra voce e anche ben presto - dice - Basta, non siamo cretini». «Forse non hanno spiegato bene al ministro che 20 miglia a Nord di Linosa significa essere in Sicilia e non Lampedusa. Il porto più vicino è la Sicilia. In questo modo, invece, la nave è stata costretta a tornare indietro a Lampedusa. E poi da qui verranno spostati di nuovo verso la Sicilia. Che senso ha tutto questo? Qualcuno me lo spieghi...». Ieri la nota di Palazzo Chigi aveva parlato di «sollecita soluzione» per la Ocean Viking. E in serata Francia e Germania si erano detti ono pronti ad accogliere ognuna il 25% dei migranti che sbarcano in Italia. Si tratta di passi avanti verso la creazione di quel «meccanismo temporaneo» di ripartizione a cui sta lavorando la Commissione europea e sul quale conta il nuovo Governo Conte per gestire senza crisi gli arrivi delle navi umanitarie. Una nuova tragedia sembra essere accaduta giovedì sera, con 4 persone migranti che risultano disperse dopo essersi tuffate a 15 miglia dall’isola di Marettimo da un barchino partito dalla Tunisia. Il premier Giuseppe Conte ha ribadito oggi la sua linea. «A me - ha spiegato - non interessa la propaganda ma non transigo sulla politica di rigore nel contrasto del traffico illecito. Per il resto i problemi cercheremo di risolverli in poco tempo anziché in 20 o 30 giorni».
Il Pd smonta i decreti sicurezza: stop a multe e sequestri navi ong. Lo sbarco a Lampedusa della Ocean Viking è solo il primo passo della nuova strategia sull'immigrazione del governo giallorosso. Tre i capisaldi: niente più multe alle ong, stop al sequestro delle navi e ripartizione dei migranti tra più Paesi. Gianni Carotenuto, Domenica 15/09/2019 su Il Giornale. Lo sbarco a Lampedusa degli 82 migranti della Ocean Viking, autorizzato dal governo con la concessione alla ong di un porto sicuro, rischia di essere il primo di una lunga serie. Il governo giallo-rosso, infatti, sta lavorando a una nuova strategia sulla gestione dell'immigrazione proveniente dal mare. Strategia che passa, inevitabilmente, dalla demolizione dei due decreti sicurezza approvati dal governo precedente su input di Matteo Salvini. In attesa di modificarli in base alle indicazioni del presidente della Repubblica, il Conte-bis ha già trovato un modo per neutralizzarli. Approfittando delle maglie concesse dalle due normative, in particolare dal decreto sicurezza-bis. Come successo nel caso della Ocean Viking. Infatti, come spiega anche Repubblica, il decreto non obbliga il ministro dell'Interno a vietare l'ingresso in acque territoriali alle navi che trasportano migranti. La decisione spetta solo al capo del Viminale, Luciana Lamorgese, che infatti ha autorizzato lo sbarco dopo avere ottenuto il benestare dei colleghi europei alla redistribuzione dei migranti. Ripartizione che non è ancora automatica: il governo lavorerà per renderla tale. Anche perché, da questo punto di vista, gli alleati europei fanno spallucce. Uno studio dell'istituto Ispi ha rilevato che dei 1.359 migranti sbarcati in Italia negli ultimi 14 mesi, soltanto il 44 per cento sono stati effettivamente ricollocati. Gli altri sono rimasti nel nostro Paese. Colpa dei requisiti che gli alleati - o presunti tali - europei richiedono per accoglierli: ai migranti deve essere riconosciuto il diritto d'asilo. Altrimenti picche. E restano nel Paese di primo approdo, quindi quasi sempre una tra Italia e Malta. Che, a quel punto, devono attivarsi per rimpatriare quei soggetti che non godono di protezione umanitaria. Migranti economici difficili da mandare via. In teoria andrebbero espulsi e rimpatriati, ma molti di loro ricevono soltanto un decreto di espulsione. Difficile, anzi, impossibile che con il governo giallo-rosso le cose cambino. Al contrario, sono destinate a peggiorare. Anche perché l'idea del Pd è di incoraggiare il trasporto di migranti nel Mediterraneo. Come? Sospendendo le disposizioni del decreto sicurezza bis che prevedono multe salate per i "taxi del mare" (espressione usata da Di Maio, attualmente alleato dei dem), oltre al sequestro delle navi delle ong che entrano nelle acque territoriali italiane senza autorizzazione. Dunque, decreti sicurezza addio.
Immigrazione, da Ferragosto ad oggi c'è stata un'impennata di arrivi: dati allarmanti dal Viminale. Libero Quotidiano il 15 Settembre 2019. Matteo Salvini pare aver ragione. Sono 1.584 i migranti sbarcati in Italia da Ferragosto a oggi. Un'impennata che giunge dopo il calo dei primi sette mesi e mezzo del 2019 rispetto ai due anni precedenti (-94,17% sul 2017 e -71,48% sul 2018). Secondo i dati del ministero dell'Interno, solo a luglio e ad agosto è stata superata quota mille (rispettivamente 1.088 e 1.268). Dall'inizio di settembre, comunque, sono arrivati 718 migranti contro i 947 dello scorso anno, in percentuale meno 23%. Dall' inizio di settembre, comunque, sono arrivati 718 migranti contro i 947 dello scorso anno, in percentuale meno 23%. Un segno sempre negativo come avviene dall'inizio dell'anno, ma molto distante dal -71,48% registrato dal primo gennaio del 2019 rispetto al 2018. Una tendenza che si era già osservata fra il 5 e il 14 agosto scorsi con un limitato scarto negli arrivi (398 contro 315) nel confronto 2018-2019, nonché fra il 21 e il 30 agosto con 509 persone sbarcate a fronte delle 542 dell'anno scorso.
Immigrazione, i dati del Viminale: sbarchi diminuiti del 79,6%. Scesa anche la spesa per l'accoglienza. Libero Quotidiano il 16 Agosto 2019. Con il governo gialloverde il numero di immigrati arrivati nel nostro Paese è calato. Solo nell'ultimo anno gli sbarchi sono scesi del 79,6 per cento. A diminuire anche i rimpatri, che dal 1 agosto del 2018 al 31 luglio del 2019, hanno registrato una flessione dello 0,7 per cento mentre quelli assistiti si sono più che dimezzati. È quanto emerge dai dati di un anno di attività che il Viminale ha diffuso in occasione di Ferragosto. Il rapporto è stato illustrato dal ministro Matteo Salvini durante il comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica che si è riunito ieri a Castel Volturno, in provincia di Caserta. Gli arrivi sono infatti passati da 42.700 a 8.691. I rimpatri, invece, sono scesi da 6.909 a 6.862. Ancora più marcata è stata la diminuzione dei rimpatri volontari, passati da 1.201 a 555, con un calo del 53,8 per cento. Nel dossier si evidenzia anche la drastica riduzione dei costi del sistema d'accoglienza. Attualmente sono ospitati 105.142 migranti, il 34 per cento in meno rispetto al 2018, e dai 2,2 miliardi spesi dal 1 agosto 2017 al 31 luglio del 2018 si è passati ai 501 milioni dell'ultimo anno.
Matteo Salvini smaschera la Trenta: "Prima firmava i miei decreti, ora è Madre Teresa? Forse...". Gioco sporco. Libero Quotidiano il 15 Agosto 2019. "Si è trasformata all'improvviso in Madre Teresa di Calcutta?". È un'ironia amara, quella di Matteo Salvini. In conferenza stampa a Castelvolturno, il ministro degli Interni mette in dubbio la buona fede della collega Elisabetta Trenta. La ministra della Difesa, d'area M5s, insieme al grillino Danilo Toninelli, ministro dei Trasporti, ha deciso di non firmare il decreto di divieto di sbarco della Open Arms, dando di fatto il via libera all'ingresso nelle acque territoriali italiane. La nave della Ong spagnola, con 147 migranti a bordo, è ora davanti a Lampedusa. La scelta di rottura è stata motivata dalla Trenta con "ragioni di umanità". "Io disumano? - è la replica del leader della Lega -. La ministra Trenta ha controfirmato i miei atti fino all'altro ieri, o è diventata Madre Teresa di Calcutta o non ha capito cosa ha firmato fino all'altro giorno". Politicamente, però, il tema è ben più esteso: "I cambi di rotta dei ministri Toninelli e Trenta potrebbero fare pensare, non me, ma magari altri, che qualcuno si stia già preparando al cambio di maggioranza in atto spostandosi a sinistra", un asse M5s-Pd. "Allora si dica Ci stiamo preparando a un governo Renzi-Boldrini - aggiunge -, noi faremo le nostre valutazioni e gli italiani le loro".
Un’altra nave vicino Lampedusa, l’Ocean Viking in attesa con 356 migranti. Pubblicato domenica, 18 agosto 2019 da Corriere.it. Scrutando l’orizzonte oltre lo stallo che impedisce ai 107 profughi rimasti a bordo della Open Arms di sbarcare a Lampedusa si intravede ormai nitidamente un nuovo caso di dimensioni triple. È quello della Ocean Viking, la nave battente bandiera norvegese di Medici Senza Frontiere e Sos Mediterranée. È in navigazione nel Canale di Sicilia ed ha salvato, in quattro diversi interventi, 356 migranti che sono a bordo ormai da otto giorni. Provengono da Sudan, Mali, Etiopia, Senegal e Gambia e hanno riferito di essere partiti tutti dalla Libia. La nave ormai si sposta quasi impercettibilmente di poche miglia al giorno tra Malta e l’isola di Linosa (che è praticamente attaccata a Lampedusa). I rilevamenti Gps sulla navigazione sono praticamente minimi. È come se girasse in tondo sempre nello stesso tratto di mare. Segno che è sostanzialmente in attesa. Ma di cosa? Probabilmente di capire come andrà a finire il braccio di ferro sulla Open Arms. A differenza della nave della Ong spagnola questa è molto più grande. A bordo ci sono sufficienti scorte di viveri, i migranti non sono ammassati sul ponte e non ci sono particolari emergenze igienico-sanitarie. Ma la situazione potrebbe rapidamente mutare col passare dei giorni e dell’attesa. «È vero, al momento non abbiamo delle emergenze sanitarie o di altro tipo – riferiscono dalla Ocean Viking — ma dopo tanti giorni in mare i migranti cominciano ad essere provati, ansiosi e preoccupati per la loro sorte. Alle spalle hanno tutti storie drammatiche e non possiamo certo riconsegnarli alla Libia». Il coordinatore della missione Nicholas Romaniuk ritiene che «a queste persone andrebbe consentito di sbarcare prima possibile. Portano nel corpo e nella mente i segni evidenti di traumi terribili legati alla permanenza in Libia«. «Da giorni — riferiscono fonti di Sos Mediterranée — attendiamo l’indicazione di un porto sicuro dove attraccare. Abbiamo fatto richiesta ma ci ha risposto solo la Libia. La nostra replica è stata “no grazie, Tripoli non è affatto un porto sicuro”». Quindi puntate verso l’Italia? «Non vogliamo fare forzature, attendiamo risposte chiare in base alle norme internazionali. Speriamo che le autorità europee si mettano d’accordo”» A bordo della nave l’emergenza nei prossimi giorni potrebbe riguardare i minori. Sulla Ocean Viking ce ne sono in tutto 103, 92 dei quali sono non accompagnati. Quindi nelle stesse identiche condizioni dei 27 della Open Arms per i quali ieri il premier Giuseppe Conte ha imposto lo sbarco a Lampedusa. Tra i minori c’è persino un bambino, che viaggia con la madre, di appena un anno.
La Ocean Viking pronta all'assalto: "Fate sbarcare i 356 migranti". La ong si trova fra Malta e l'Italia. Ora chiede un porto per l'esercito di migranti che ha a bordo: "Hanno bisogno di cure". Giovanna Stella, Lunedì 19/08/2019, su Il Giornale. Mentre è in corso un duro braccio di ferro fra l'Italia e la nave Open Arms - con in mezzo la Spagna - un'altra ong è partita alla carica. La Ocean Viking, che opera per conto di Msf e di Sos Mediterranée, ha a bordo 356 migranti. Un vero e proprio "esercito" di immigrati recuperati nel Mediterraneo fra il 9 e il 12 agosto, un "esercito" che ora chiede un porto sicuro. "A dieci giorni dal primo salvataggio della Ocean Viking sappiamo che l'attesa di poter scendere sulla terraferma potrebbe durare ancora - scrive in un comunicato Luca Pigozzi, medico di Msf a bordo della Ocean Viking -. Anche se per certi versi il momento dei soccorsi è già lontano, mi sembra ieri quando ho visto le persone salire a bordo della OceanViking, completamente esauste. Prima di essere soccorse, le persone trascorrono molte ore in mare su imbarcazioni del tutto precarie, senza dormire, senza acqua né cibo. Sono disidratate, deboli, soffrono di vertigini, ipotermia, ustioni causate dal carburante o dal sole". Il medico dopo una digressione sulle condizioni di salute dei migranti e sul loro lavoro come volontari, "Oggi il nostro lavoro nella clinica di bordo si concentra sulle infezioni cutanee o delle vie respiratorie, le condizioni più comuni. Ma curiamo anche feriti di guerra - persone di nazionalità libica con schegge di granate a livello sottocutaneo - o adulti con patologie croniche come il diabete", spiega che "a oggi abbiamo effettuato 130 visite mediche e 63 medicazioni di ferite. Facciamo del nostro meglio, ma siamo consapevoli che alcuni pazienti sarebbero curati meglio a terra". E proprio su questo "meglio a terra" si appigliano pur di far sbarcare i356 migranti a bordo della nave. Probabilmente in Italia, visto che la Ocean Viking si trova fra Malta e il nostro Paese. Ma non finisce qui. Perché il comunicato del medico è piuttosto lungo. E dopo le condizioni fisiche, si passa a quelle psicolgiche. "Queste persone hanno subito e stanno subendo traumi importanti - si legge -. In molti hanno subito torture o violenze sessuali in Libia. Oggi l'attesa dello sbarco, consumata in uno spazio confinato in mezzo al mare, non può che peggiorare le loro condizioni". Poi continua con il classico discorso dei minorenni - che nella maggior parte dei casi non lo sono - per finire con il costante impegno dei volontari, "Questa è la situazione a bordo della Ocean Viking. Non abbiamo ancora un porto sicuro dove sbarcare, ma continueremo ad assistere i nostri pazienti con tutta la cura che possiamo". La lunga lettera si conclude con una sorta di rimprovero sia a Malta che all'Italia: "Il 13 agosto abbiamo richiesto a Italia e Malta di prendere il coordinamento e assegnare un porto sicuro di sbarco. Malta ha rifiutato di prendere il coordinamento, l'Italia non ha risposto. Stiamo interessando anche gli altri Stati europei nel tentativo di trovare una soluzione tempestiva che garantisca lo sbarco in un porto sicuro per tutte le persone soccorse".
Dopo la Open Arms, scoppia il caso della Ocean Viking. La Ocean Viking continua a stazionare nelle acque tra Malta e Sicilia con il suo carico di 356 migranti. Medici senza frontiere e Sos Mediterranèe: "Emergenza psicologica a bordo, chiediamo un porto sicuro per lo sbarco". Gianni Carotenuto, Mercoledì 21/08/2019 su Il Giornale. Dopo la soluzione del caso della Open Arms con il sequestro della nave ordinato dalla procura agrigentina e lo sbarco dei migranti, la "nuova" emergenza si chiama Ocean Viking. Nuova fino a un certo punto perché in realtà l'imbarcazione, gestita a quattro mani da Sos Mediterranèe e Medici senza frontiere, è ferma da 12 giorni nelle acque internazionali tra Malta e Sicilia. A bordo 356 persone, che le due ong chiedono da giorni di fare scendere al più presto. "Abbiamo a bordo 356 sopravvissuti, 356 vite che chiedono umanità. Abbiamo bisogno al più presto di un porto sicuro di sbarco", scrivono su Twitter le due associazioni. Al momento, però, nulla si muove. Su Twitter, Msf fa un appello all'Europa per "agire urgentemente, ponendo fine al blocco degli sbarchi" imposto dalle autorità maltesi e da quelle italiane. Intanto, riferiscono ancora le due Ong, a bordo cresce la tensione. I migranti si chiedono se torneranno in Libia. Proprio il porto di Tripoli era stato indicato alla Ocean Viking per porre fine al suo viaggio. Proposta rifiutata dall'equipaggio che da giorni ripete: "Non riporteremo le persone in Libia in nessuna circostanza". Già il 10 agosto, la Farnesina aveva chiesto alla Norvegia di indicare un posto per lo sbarco. "Non può in alcun modo essere attribuita alle autorità italiane la responsabilità dell’individuazione del porto di sbarco dei naufraghi soccorsi dalla nave Ocean Viking e comunque l’ingresso nelle acque territoriali italiane sarebbe considerato pregiudizievole al buon ordine e alla sicurezza dello Stato, così come previsto dal’articolo 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare", la lettera inviata dal ministero degli Esteri all'ambasciata di Oslo in Italia. Una richiesta legata al fatto che la nave Ong batte bandiera norvegese. Ma l'appello è caduto nel vuoto e la situazione si fa di giorno in giorno sempre più difficile. Tra i migranti a bordo, oltre allo scoramento, si fa largo un'"emergenza psicologica". A dirlo il dottor Luca Pigozzi, uno dei medici imbarcati sulla nave che, in un comunicato rilasciato da Msf e Sos Mediteranèe, ha parlato di persone "completamente esauste". A bordo, come detto, ci sono 356 persone di cui 103 bambini o minori sotto i 18 anni. "A oggi abbiamo effettuato 130 visite mediche e 63 medicazioni di ferite. Facciamo del nostro meglio, ma siamo consapevoli che alcuni pazienti sarebbero curati meglio a terra", ha spiegato Pigozzi. In attesa di trovare una soluzione, la Francia si è detta disponibile ad accogliere alcuni migranti della Ocean Viking. "Siamo impegnati per la Open Arms, siamo impegnati allo stesso livello per l'Ocean Viking - ha scritto su Twitter il ministro degli Interni francese, Cristophe Castaner - per garantire che possano sbarcare il più rapidamente possibile le persone che si trovano su queste barche". E ha aggiunto: "Un coordinamento è stato avviato. Ne andava del nostro onore e della nostra responsabilità collettiva. Bisogna ora trovare una soluzione rapida per Ocean Viking: delle discussioni sono in corso tra partner europei e ieri ho avuto uno scambio con il mio omologo maltese. La Francia sarà solidale e accoglierà 40 persone con necessità di protezione: un team dell'Ufficio francese di protezione dei rifugiati (Ofpra) si recherà sul posto nei prossimi giorni".
ORA CHE VA VIA SALVINI, LE ONG VANNO A MALTA! Gianluca Veneziani per Libero Quotidiano il 24 agosto 2019. Sono 356, sono giovani e forti e arriveranno in porto. Sì, ma non un porto italiano. I migranti a bordo della Ocean Viking, la nave battente bandiera norvegese e facente capo a una ong francese, ferma in acque internazionali da 14 giorni, sbarcheranno a Malta, dopo che il governo de La Valletta, col premier Joseph Muscat, ha annunciato su Twitter: «Malta trasferirà queste persone su navi militari maltesi in acque internazionali e le porterà a terra. Tutti i migranti saranno distribuiti in altri Paesi europei: Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo e Romania. Nessuno resterà a Malta». Letta così, sembra un'ennesima affermazione di Matteo Salvini, la vittoria della sua politica dei porti chiusi, anche a governo caduto. «Volere è potere. La testa dura e la linea dura danno buoni risultati. La Ocean Viking non verrà in un porto italiano», commentava ieri il ministro dell' Interno su Facebook. In verità la disponibilità di Malta a far sbarcare una nave carica di migranti e la decisione della ong di puntare su La Valletta sembrano dipendere dal mutato clima politico nel nostro Paese. A esecutivo sovranista ormai destituito, e con un Salvini di fatto depotenziato, non c' è più vera ragione di sfidarlo politicamente, di usare l' arma dell' immigrazione come strumento per mettere sotto pressione l' Italia e ricattare il suo rappresentante più in vista. Ora non ha più senso portare avanti il gioco del tutti contro Salvini, di creare un fronte unico di buoni e buonisti contro il grande cattivo di Europa. E così verosimilmente se, almeno per qualche tempo, le ong non saranno più indotte ad attaccarlo, i pm non avranno più motivo di ordinare sbarchi immediati per mettere sotto scacco il titolare del Viminale. A testimonianza di come, dietro il gioco dell'immigrazione, oltre a vergognosi interessi economici, ci siano secondi fini di governi, ong e poteri forti desiderosi di creare o meno, in base alle circostanze, ragioni di scontro politico.
NUOVO METODO. D'altronde, sebbene l'andazzo paia cambiato, anche nel caso della Ocean Viking non è stato affatto affermato il principio dello sbarco nel porto più vicino (se è per questo, i clandestini avrebbero dovuto essere riportati in Libia), né quello dello sbarco nel Paese di cui la nave batte bandiera o a cui appartiene la ong: non pretendevamo certo che la Ocean Viking arrivasse in Norvegia, ma almeno poteva essere accolta in Francia. E invece lo Stato transalpino, già due giorni fa, aveva esplicitato il suo no, sostenendo che quello francese non sarebbe stato il «porto più vicino» (in realtà non lo è mai, per qualsiasi nave arrivi dall' Africa) e che i migranti sarebbero dovuti arrivare o a Malta o in Italia. E te pareva L' aspetto interessante della vicenda, semmai, è che nei fatti, Salvini è riuscito ad affermare un nuovo metodo: chi sbarca in un Paese non deve essere accolto da quello né chiedere a esso il diritto d' asilo, ma può essere immediatamente trasferito altrove.
NODO DUBLINO. I migranti della Ocean Viking saranno infatti ricollocati in sei Paesi dell' Ue, e la sola Francia si farà carico di 150 persone. Un po' quanto accaduto già con i migranti della Open Arms che, sebbene approdati in Italia, poi verranno distribuiti tra cinque Paesi europei (proprio ieri la nave spagnola Audaz, giunta a Lampedusa, ha preso a bordo e condotto verso la Spagna 15 migranti di quelli sbarcati con la Open Arms). È la smentita sul campo, in terra e mare, del trattato di Dublino: visto che non si riesce a modificarlo nelle sedi opportune, quelle istituzionali d' Europa, lo si reinterpreta di volta in volta e caso per caso. Ma l' iniziativa, ricordiamolo, è sempre dei singoli Stati che, perché volenterosi o perché costretti dalle evidenze, decidono di farsi carico di una fetta dei migranti. Mai che questa redistribuzione venga coordinata dall' Ue, la quale si limita a un ruolo di presa d' atto e non di regia. Insomma, Salvini potrà anche cadere o restare in piedi, gli altri Paesi potranno mostrarsi più o meno disponibili ad accogliere, ma l' Europa continuerà a fare quello che ha sempre fatto. Cioè, nulla.
Open Arms, Patronaggio: «Comportamento omissivo delle autorità italiane». Francesca Spasiano il 22 Agosto 2019 su Il Dubbio. Prosegue l’indagine della procura di Agrigento. Intanto la nave Ocean Viking di Medici senza Frontiere resta ferma in mezzo al mediterraneo da quasi due settimane. A bordo: 356 persone, tra cui 103 minori. «Esasperati e in condizioni sanitarie critiche». Nel decreto di sequestro della Open Arms, il procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, descrive lo stato dei migranti a bordo della nave della Ong spagnola, riferendo le motivazioni che lo hanno spinto a disporne l’evacuazione immediata. Il magistrato parla di «comportamento omissivo» delle autorità italiane e indaga per omissione e rifiuto di atti di ufficio, al momento contro ignoti. «Il permanere della nave Open Arms alla fonda nelle immediate vicinanze del porto di Lampedusa – si legge nel decreto – protrae gli effetti del reato e può anzi cagionarne un aggravamento, atteso che il permanere dello status quo può solo aggravare gli effetti pregiudizievoli sulla salute psichica e fisica delle persone ancora a bordo, comportando rischi significativi per l’incolumità degli stessi». La Procura deve ricostruire la catena di comando per stabilire chi abbia impedito lo sbarco dei migranti sulla Open Arms. Le condizioni degli occupanti, infatti, erano già note dal 15 agosto ed emergono «nella loro immediata crudezza» dalle foto presenti in un fascicolo fotografico trasmesso lo scorso 17 agosto dalla Squadra mobile di Agrigento alla Procura, spiega Patronaggio. L’inchiesta potrebbe riguardare il Viminale, che intanto «conferma coerentemente la sua linea» di difesa degli interessi nazionali, avviando un conteso dialogo con il ministero della Difesa e il M5S che però avrebbe repentinamente cambiato linea a proposito di controllo dei confini. Nel trambusto che scuote il Paese all’indomani della crisi, l’Europa fa sapere che «gli accordi per la redistribuzione tra i cinque Paesi – Spagna, Francia, Germania, Portogallo e Lussemburgo sono confermati», e rimette la spartizione dei migranti alle autorità dei vari Stati. Ancora dalla Commissione Europa l’appello a mostrare «lo stesso spirito di solidarietà» per la Ocean Viking – la nave battente bandiera norvegese coordinata da Mfs e Sos Mediterranee – che da oltre 10 giorni è in attesa di un porto sicuro con 356 persone tratte in salvo, di cui 103 tra bambini e minori non accompagnati. «Il clima a bordo è sempre più teso», dichiara Luca Pigozzi, medico di Msf a bordo della nave. «Riuscire a trovare un posto sul ponte dove tutti possano dormire non è facile, prosegue, «nel mezzo del Mediterraneo, con i giorni che passano quasi tutti uguali, le persone stanno perdendo la cognizione del tempo». La maggioranza dei sopravvissuti salvati dalla Viking racconta di aver subito detenzione arbitraria, estorsioni e violenze in Libia e mostra i segni delle torture. Tra loro anche feriti di guerra che vengono curati nella clinica a bordo.
L’Invincibile Armata fermata dalla procura di Agrigento. Roberto Pellegrino su Il Giornale il 20 agosto 2019. Il Governo di Madrid (che per la cronaca deve ancora eleggerne in Parlamento uno nuovo in base alle legislative celebrate quattro mesi fa) aveva deciso di inviare la nave militare “l’Audace” a Lampedusa per raccogliere i cento immigrati a bordo da venti giorni sulla nave Ong Open Arms. “Dopo aver considerato diverse opzioni, il Governo spagnolo, secondo le raccomandazioni logistiche della Marina, ritiene che questa azione sia la più appropriata per risolvere l’emergenza umanitaria”, aveva annunciato la Moncloa. Tutto era pronto. La nave Audace della Fuerzas Armadas de Españasarebbe dovuta partire alle 17:00 di martedì 20 agosto dalla base navale di Rota (Cadice), Dopo aver completato gli approvvigionamenti, che includono la presenza a bordo di personale medico e psicologi per assistere i migranti durante il viaggio -, avrebbe compiuto, in sei giorni di navigazione, andata e ritorno, la sua missione, fuori dalle acque spagnole. Invece c’è stato un bel colpo di scena, perché la Procura di Agrigento ha disposto martedì sera il sequestro della nave della Ong Proactiva Open Arms di Barcellona, ferma davanti a Lampedusa. Ha disposto anche l’immediata evacuazione dei profughi a bordo, ormai meno di un centinaio tra i quali molte donne. La decisione arriva dopo la visita del procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, a bordo della nave e l’annuncio della Spagna di aver disposto l’invio di una nave militare per prendere a bordo i migranti e portarli in Spagna. L’iniziativa spagnola è ora inutile perché, appunto, i migranti saranno trasferiti a Lampedusa. Oscar Camps, presidente della Ong Proactiva pen Arms, aveva chiesto di affittare un aereo che sarebbe costato 240 euro a migrante, quindi considerato che tra, sbarcati ne sono rimasti circa 100, 24 mila euro a carico del governo spagnolo.
Open Arms, Orlando: "Provvedimenti di Salvini disumani e illegali". Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, commenta la decisione del Tar di sospendere il divieto si sbarco dei naufraghi. Roberto Chifari, Giovedì 15/08/2019, su Il Giornale. Ancora Open Arms e ancora una difesa di Orlando . Dopo la decisione del Tar del Lazio che ha disposto la sospensione del divieto di ingresso in acque italiane della nave spagnola per consentire il soccorso dei migranti è intervenuto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando che mi ha perso occasione per continuare il duello dialettico con il ministro dell’interno Matteo Salvini. "Il provvedimento del Tar che sospende il divieto di sbarco dei naufraghi salvati dalla Open Arms conferma due cose - dice il primo cittadino -. La prima è che le decisioni del Ministro Salvini sono oltre che palesemente disumane, del tutto illegali. La seconda è che per fortuna i principi e la concreta applicazione della nostra Costituzione garantiscono ancora un quadro di diritti fondamentali che i continui attacchi allo Stato di Diritto non sono riusciti ad intaccare". Non è la prima volta che il sindaco prende le difese della Ong. Ad aprile per esempio, quando la nave spagnola era al largo delle acque di Ragusa, il primo cittadino sostenne la causa della Ong spagnola. "Apprendo con piacere e soddisfazione la notizia del dissequestro della nave Open Arms e, soprattutto, delle motivazioni del provvedimento che confermano come la tutela della vita ed il soccorso degli esseri umani siano una priorità assoluta ed inderogabile. Mi auguro che un provvedimento analogo venga preso anche per la nave Iuventa, perché ogni giorno in più di blocco di queste navi e questi equipaggi è un giorno in più concesso ai trafficanti di esseri umani." Insomma da mesi va avanti in braccio di ferro che ha visto proprio il sindaco di Palermo in prima linea nella difesa dei diritti dei migranti. Nel frattempo il ministro della Difesa Elisabetta Trenta sostiene che "la mancata adesione alla decisione del giudice amministrativo potrebbe configurare la violazione di norme penali, fermo restando, in ogni caso, che in adesione al dictum iuris sarebbe stato eventualmente necessario inserire nel dispositivo del provvedimento un'esplicita disponibilità all'assistenza delle persone maggiormente bisognevoli".
Diego Fusaro, botta e risposta con Fiorella Mannoia sull'immigrazione. Lui la zittisce in quattro punti. Libero Quotidiano il 16 Agosto 2019. Botta e risposta sull'immigrazione quello avvenuto tra Diego Fusaro e Fiorella Mannoia: "Porti aperti!", dicono il padronato cosmopolita, le sinistre fucsia al suo guinzaglio e i papulisti di Bergoglio. "Fermare la tratta di esseri umani!", dice il socialista realmente umanitario" scriveva il filosofo su Twitter. Non si è fatta attendere la replica della cantante: "Sono d'accordo con te. Fermiamo la tratta, ma nel frattempo che fermano la tratta che cosa facciamo? Li facciamo morire in mare? Li rimandiamo in Libia, sapendo che fine fanno? Io non vi capisco". Poche le parole seguite di Fusaro per svergognare i falsi buonisti: "Gentile Fiorella, che fare? Semplice! (1) Non attaccare imperialisticamente l'Africa: l'inferno Libia deriva dal vile attacco 2011. (2) Punire i deportatori. (3) Liberare l'Africa dai colonialisti occidentali. (4) Capire che "porti aperti" è il motto del capitale e dei padroni".
Da La Stampa il 16 agosto 2019. La Procura della Repubblica di Agrigento ha aperto un fascicolo d'inchiesta - a carico di ignoti - per sequestro di persona sulla vicenda della Open Arms. Si tratta di un "atto consequenziale" dopo che in Procura è arrivato l'esposto formalizzato dai legali della ong spagnola. Gli avvocati hanno chiesto di procedere per sequestro di persona, violenza privata e abuso in atti d'ufficio.
La Open Arms: “L’Italia non rispetta la sentenza del Tar”. «L’Italia non rispetta la sentenza del Tar, veniamo trattati da delinquenti». La situazione non si è ancora sbloccata e il personale della Ong lancia l’ennesimo grido di aiuto. A pochi metri dalle coste di Lampedusa ci sono ancora più di 130 migranti che attendo di poter sbarcare. L'Ue definisce «insostenibile» la situazione della nave Open Arms, bloccata in mare da diversi giorni con oltre 140 migranti a bordo, e chiede «un immediato sbarco». «La situazione in cui le persone sono bloccate in mare per giorni e settimane è insostenibile. Ricordiamo ancora una volta che servono soluzioni sostenibili nel Mediterraneo affinché quelle persone possano sbarcare in modo sicuro e veloce e che possano ricevere l'assistenza di cui hanno bisogno», ha dichiarato la portavoce della Commissione, Vanessa Mock. «Non è la responsabilità di uno o di un paio di Stati membri ma di tutta l'Europa», ha aggiunto.
La relazione sulle condizioni a bordo: “Fanno i bisogni dove mangiano”. "La situazione generale vede condizioni igienico-sanitarie pessime: spazi non idonei a ospitare un così ingente numero di persone. I naufraghi vivono ammassati gli uni sugli altri, non c'è possibilità di deambulare, sono presenti solo due bagni chimici e spesso i naufraghi sono costretti a espletare i loro bisogni fisiologici nello stesso spazio in cui dormono e mangiano". E' quanto si legge nella relazione, in possesso dell'Ansa, firmata dal medico Katia Valeria Di Natale e dall'infermiere Daniele Maestrini dello staff del Corpo italiano di soccorso dell'Ordine di Malta (Cisom).
“Venti casi di scabbia”. Per lo staff Cisom salito a bordo della Open Arms tra i 147 naufraghi (95, uomini, 21 donne e 31 minori) ci sarebbero diversi casi di scabbia ma anche di cistite emorragica e altre patologie. Il medico Katia Valeria Di Natale e l'infermiere Daniele Maestrini, nel documento firmato dopo l'ispezione, scrivono che "20 migranti hanno la scabbia con sovra-infezione batterica e pustole" e a "bordo non è presente permetrina per il trattamento della parossistosi". "Numerosi - sostiene lo staff Cisom - sono i casi di cistite semplice ed emorragica resistente al trattamento antibiotico che scarseggia". Dei 13 naufragi scesi dalla Open Arms ieri, faceva parte un minore con un timpano perforato ed otite media purulenta.
Il medico a Lampedusa: “Gli sbarcati stavano bene”. "C'è qualcosa che non funziona - osserva il responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa, Francesco Cascio - perché tra i 13 migranti fatti sbarcare dalla Open Arms per motivi sanitari solo uno aveva una otite, mentre gli altri stavano bene: eppure dalla relazione dello staff Cisom (il Corpo italiano di soccorso dell'Ordine di Malta - ndr) risulta che a bordo ci sarebbero persone con diverse patologie, tra cui 20 casi di scabbia".
I Paesi che accoglieranno i migranti. Francia, Germania, Lussemburgo, Portogallo, Romania e Spagna accoglieranno i migranti a bordo della Open Arms: «Sei Paesi membri sono pronti a dimostrare solidarietà e a partecipare alla redistribuzione dei migranti a bordo della nave» della ong spagnola, ha detto Vanessa Mock, durante il briefing di mezzogiorno. La portavoce ha ricordato che «la scorsa settimana la Commissione europea è stata impegnata in contatti intensi e siamo grati per la cooperazione» da parte dei sei Paesi. L'esecutivo di Bruxelles, ha sottolineato, «è pronto a fornire coordinamento e supporto operativo sul terreno non appena ci sarà richiesto e vuole che si trovi una soluzione per lo sbarco delle persone».
Sassoli: “Emergenza umanitaria”. Anche il presidente del Parlamento europeo David Sassoli è intervenuto per chiedere un intervento urgente. «Oggi la mia segreteria è entrata in contatto con il Comandante della missione Open Arms che ci ha descritto condizioni al limite del sopportabile. La situazione è diventata drammatica». «Gli immigrati - continua - sono bloccati sulla nave da 14 giorni a 1 km dal porto di Lampedusa, cedendo ad atti di autolesionismo e perdendo la percezione della realtà. Le condizioni igieniche a bordo sono ormai precarie ed è necessario consentire immediatamente lo sbarco. Auspico- conclude David Sassoli- che le autorità italiane capiscano la gravità e l'urgenza umanitaria a bordo della nave consentendo loro di entrare in porto oggi stesso».
I giuristi contro il prefetto. Intanto un esposto relativo alla condotta del prefetto di Agrigento è stato presentato stamani alla procura della città siciliana dall'Associazione giuristi democratici. Nel documento si denuncia il mancato rispetto dell'ordinanza del Tar del Lazio sulla gestione dello sbarco e si chiede di valutare eventuali ipotesi di «violazioni commissive o omissive» di rilievo penale.
Un video inchioda Open Arms. Ha lasciato i migranti in mare? Dopo averli recuperati a 800 metri dalla costa italiana li hanno lasciati andare. Il tutto per farli salvare dalla Guardia Costiera. Michel Dessì, Mercoledì 21/08/2019, su Il Giornale. Irresponsabili. L’equipaggio della ONG spagnola Open-Arms butta in mare gli immigrati. Tra le onde impietose di Lampedusa, con il rischio di farli affogare. Dopo averli salvati a largo della Libia. L’unico modo, il più insicuro, per raggiungere l’isola. Per raggiungere l’Italia, la porta d’Europa. La terra promessa. È così che i migranti, forse su suggerimento dell’equipaggio della ONG, hanno trovato riparo. Un porto sicuro, che aspettavano ormai da 19 giorni. “Non riusciamo più a contenere la disperazione. Non riusciamo più a spiegare. Le parole mancano. Siete dei vigliacchi”. Queste le parole pronunciate da Oscar Camps, fondatore della ONG spagnola, durante l’ammutinamento programmato a bordo della nave. Proprio lui, insieme ad altri due volontari, era a bordo di quel gommone di “rescue team”. Ricerca e soccorso. Un soccorso mancato, almeno questa volta. Il gommone che si vede nel video, di solito viene utilizzato per soccorrere i migranti, e non per recuperarli, trarli in salvo, e gettarli nuovamente in mare. Le immagini parlano chiaro. Sono inequivocabili, e la dicono lunga sulla condotta delle ONG. Pronte a tutto pur di aggirare il Decreto Sicurezza voluto da Salvini. Sono stati loro, gli uomini dal “cuore grande” a mettere a rischio la vita dei migranti. La vita di persone stanche, traumatizzate, violentate, torturate. Uomini e donne senza forze. Senza le energie per affrontare le onde del Mediterraneo. Sono stati proprio loro a denunciarlo durante i giorni di stallo. Quindici i migranti che hanno deciso di fare il gesto estremo. Infilare il giubbotto salvagente e via, buttarsi dalla poppa della nave. Sotto gli occhi attenti e vigili delle telecamere che guardavano dalla costa. E a quelli inermi dell’equipaggio della nave. “Guidati dalla disperazione”, dicono sull’isola. Ma ne siamo davvero sicuri? O è stata solo una mossa politica? I dubbi sono leciti, soprattutto dopo aver assistito alla scena. Dopo averli recuperati a 800 metri dalla costa italiana li hanno lasciati andare. Senza remore. Senza pensarci due volte. Liberi. Non potevano essere loro a salvarli per la seconda volta. No. A recuperarli dovevano essere le motovedette della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza. L’unico modo per toccare terra. Per poggiare i piedi su suolo italiano. Rimanere sul gommone della ONG non avrebbe risolto il problema. Anzi, sarebbero dovuti tornare a bordo della nave. E i migranti, capito il meccanismo, ne hanno approfittato. Un gesto che ha portato sull’isola di Lampedusa il procuratore Luigi Patronaggio che, dopo una ispezione durata qualche ora a bordo della nave, ha deciso di sequestrare l’imbarcazione e far sbarcare tutti i migranti. E mentre si indaga contro ignoti per omissione e rifiuto di atti d’ufficio, nessuno si preoccupa della condotta scorretta della ONG spagnola che ha giocato sulla pelle dei migranti. Sulla pelle di uomini in cerca di libertà.
Il medico smonta Open Arms: "Tutti i migranti stavano bene". Il responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa: "C'è qualcosa che non funziona". Ma perché sono stati fatti scendere? Giovanni Giacalone, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale. I tredici immigrati sbarcati dalla Open Arms non hanno alcuna malattia, a parte uno di loro che aveva un'otite; è quanto emerge dal resoconto fatto dal responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa, Francesco Cascio. Il medico ha infatti dichiarato all'Ansa: "C'è qualcosa che non funziona, perché tra i 13 migranti fatti sbarcare dalla Open Arms per motivi sanitari solo uno aveva una otite, mentre gli altri stavano bene: eppure dalla relazione dello staff Cisom (il Corpo italiano di soccorso dell'Ordine di Malta - ndr) risulta che a bordo ci sarebbero persone con diverse patologie, tra cui 20 casi di scabbia". C'è dunque qualcosa che non torna; com'è infatti possibile che mentre Open Arms parla di ingenti patologie tra gli individui caricati sulla nave e fatti sbarcare, i medici di Lampedusa non hanno riscontrato nulla di tutto ciò? Nella relazione firmata dal medico Katia Valeria Di Natale e dall'infermiere Daniele Maestrini dello staff Cisom e in possesso dell'Ansa si legge poi quanto segue: "La situazione generale vede condizioni igienico-sanitarie pessime: spazi non idonei a ospitare un così ingente numero di persone. I naufraghi vivono ammassati gli uni sugli altri, non c'è possibilità di deambulare, sono presenti solo due bagni chimici e spesso i naufraghi sono costretti a espletare i loro bisogni fisiologici nello stesso spazio in cui dormono e mangiano". La Open Arms rendeva noto su Twitter che tre persone erano state fatte scendere dalla nave "per complicazioni mediche che richiedono cure specializzate", pressando nuovamente per far scendere "urgentemente" tutti gli immigrati imbarcati sulla nave perchè "l'umanità lo impone". Il sindaco di Lampedusa, Totò Mattarello ha dichiarato all'agenzia LaPresse "...Se c'è gente che sta male a bordo, secondo me, per il mio modo di vedere le cose da pescatore, io farei scendere tutti". Poi incalza il governo: "Se a bordo della nave Open Arms, c'è un problema di salute e la gente sta male, per quale motivo farli scendere così pochi alla volta, col contagocce. Sarà per dimostrare che qualcuno ha i muscoli, per fare vedere che siamo forti?". A questo punto però sono molti i dubbi riguardo alla reale situazione degli imbarcati. Il responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa ha detto che dei 13 naufraghi sbarcati per “motivi medici” dalla Open Arms uno aveva una otite. Gli altri stavano bene. “Siamo davanti all’ennesima presa in giro della ong spagnola su nave spagnola, quella Open Arms che per giorni ha girovagato nel Mediterraneo al solo scopo di raccogliere più persone possibili per portarle sempre e solo in Italia. In tutto questo tempo sarebbero già andati e tornati in un porto spagnolo tre volte! Queste ong invece fanno solo battaglia politica, sulla pelle degli immigrati e contro il nostro Paese. Ma io non mollo”. Lo dice il ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Open Arms, Salvini: Emergenza medica? Balle, ennesima presa in giro ong. (LaPresse il 16 agosto 2019) - Il responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa ha detto che dei 13 naufraghi sbarcati per “motivi medici” dalla Open Arms uno aveva una otite. Gli altri stavano bene. “Siamo davanti all’ennesima presa in giro della ong spagnola su nave spagnola, quella Open Arms che per giorni ha girovagato nel Mediterraneo al solo scopo di raccogliere più persone possibili per portarle sempre e solo in Italia. In tutto questo tempo sarebbero già andati e tornati in un porto spagnolo tre volte! Queste ong invece fanno solo battaglia politica, sulla pelle degli immigrati e contro il nostro Paese. Ma io non mollo”. Lo dice il ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Open Arms-Emergency: Autorizzare sbarco, in pericolo vite. (LaPresse il 16 agosto 2019) - "Da 15 giorni la nave Open Arms è in mare con 134 persone a bordo. La situazione sulla nave è drammatica: da 15 giorni donne, uomini e bambini vivono costretti in spazi ristretti nella paura e nell'incertezza di quello che succederà. Sono persone che hanno vissuto l'orrore dei campi di detenzione in Libia: torture, stupri, lavori forzati. Hanno già sopportato enormi sofferenze, non possiamo aggiungerne altre". Lo scrivono in una nota congiunta Oscar Camps fondatore di Open Arms e Gino Strada fondatore di Emergency. "Negli ultimi giorni le condizioni di salute psicofisica si sono ulteriormente aggravate con atti di autolesionismo e minacce di suicidio che rendono ingestibile la situazione e mettono in pericolo imminente di vita le persone a bordo. Bisogna agire nelle prossime ore. Chiediamo che sia immediatamente autorizzato lo sbarco a Lampedusa prima che si aggiungano altre tragedie a quelle già vissute", si legge ancora.
Open Arms, Camps: Italia ci tratta peggio dei delinquenti. (LaPresse il 16 agosto 2019) - "L'Italia ci tratta peggio dei delinquenti. Questo reclusione forzata viola le minime relative al trattameto dei detenuti adottate dal primo Congresso delle Nazioni Unite sul trattamento dei criminali". E' quanto scrive su twitter Oscar Camps, fondatore della ong Open Arms. "L'Italia non rispetta la sentenza del tribunale che afferma la necessità di assistenza immediata e urgente", aggiunge.
Orfini: Conte autorizzi sbarco Open Arms o basta letterine. (LaPresse il 16 agosto 2019) - "Il capo del governo è Conte. Se ci sono ancora persone sequestrate sulla Open Arms per un capriccio di Salvini la colpa è anche di chi non interviene per fermarlo. Presidente Conte, autorizzi immediatamente lo sbarco. Altrimenti ci risparmi le letterine indignate". Lo scrive su Facebook il deputato del Pd, Matteo Orfini.
Open Arms, Sassoli: Emergenza umanitaria, serve sbarco immediato. (LaPresse il 16 agosto 2019.) - "Oggi la mia segreteria è entrata in contatto con il Comandante della missione Open Arms che ci ha descritto condizioni al limite del sopportabile. La situazione è diventata drammatica". Lo dichiara il Presidente del Parlamento europeo David Sassoli. "Gli immigrati - continua il Presidente - sono bloccati sulla nave da 14 giorni a 1 km dal porto di Lampedusa, cedendo ad atti di autolesionismo e perdendo la percezione della realtà. Le condizioni igieniche a bordo sono ormai precarie ed è necessario consentire immediatamente lo sbarco. Auspico- conclude David Sassoli - che le autorità italiane capiscano la gravità e l'urgenza umanitaria a bordo della nave consentendo loro di entrare in porto oggi stesso".
Il leader Camps: "Preferisco Salvini". Quando il fondatore della Ong diceva: in Spagna rischio maxi multe. Fausto Biloslavo, Martedì 20/08/2019, su Il Giornale. Come mai i talebani dell'accoglienza di Open Arms trovano mille scuse per non portare i migranti in Spagna? Perché fin dall'inizio il loro obiettivo era di sbarcare in Italia. Una scelta dettata da motivi politici, legali ed economici come ha tranquillamente spiegato Oscar Camps, fondatore della Ong, all'inizio della campagna estiva. «Preferisco che la nave sia fermata da Salvini e non da Pedro Sánchez (il premier spagnolo ndr), a causa delle conseguenze economiche e legali», aveva dichiarato l'estremista umanitario. La frase fa parte di un'intervista rilasciata da Camps il 5 luglio a bordo della nave Open Arms pubblicata sul giornale on line eldiario.es. Una testata con una chiara linea di sinistra. Il giornalista freelance, Olmo Calvo, chiede al guru di Proactiva Open Arms se pensa «che la Spagna sia più repressiva dell'Italia di Salvini?». Camps osserva che la separazione dei poteri in Italia ha portato alla fine alla scarcerazione di Carola Rackete, la capitana tedesca della nave Sea watch 3 sbarcata a forza a Lampedusa. E poi aggiunge: «E' chiaro che preferisco che la nave (Open Arms ndr) sia fermata da Salvini (il ministro dell'Interno italiano ndr) e non da Pedro Sánchez (il premier spagnolo ndr), a causa delle conseguenze economiche e legali». All'inizio di luglio non era ancora stato varato il decreto sicurezza bis e le multe per le Ong che violano le norme arrivavano al massimo a 50mila euro. In ogni caso Open Arms è riuscita ad aggirare anche il nuovo decreto, che prevede sanzioni fino ad 1 milione di euro, grazie al Tar de Lazio, che le ha permesso di arrivare di fronte al porto di Lampedusa. La preoccupazione di Camps è che la Spagna gli aveva intimato il 27 giugno, con una lettera della direzione della Martina mercantile, che la nave Open Arms «non può eseguire operazioni di salvataggio». E se lo fa rischia una multa fino a 901.000 euro. Camps confidando nel nostro paese ventre molle dell'Europa, nel sistema giudiziario italiano e deciso a ingaggiare una battaglia mediatica e politica con Salvini ha continuato a puntare su Lampedusa per lo sbarco dei migranti. Per questo motivo non vuole andare in Spagna consapevole che potrebbe incorrere in grane ben più grosse. Benito Núñez Quintanilla, direttore generale della Marina mercantile, certificava, nella lettera del 27 giugno, che Open Arms «non può svolgere operazioni di salvataggio» se non «in conformità con l'autorità responsabile dell'area di ricerca e soccorso». L'Ong si è sempre rifiutata di collaborare con la Guardia costiera libica. Per i migranti ancora a bordo della sua nave non aveva ricevuto alcun via libera da altri Centri di soccorso, tantomeno quello italiano. Madrid concede ai talebani dell'accoglienza solo «operazioni di salvataggio spontanee oppure occasionali», ma Open Arms è andata a cercare appositamente i migranti al largo della Libia. In caso di violazione rischia di venire «sanzionata con multe da 300mila a 901.000 euro».
Madrid inchioda Open Arms "L'ong ha rifiutato pure Malta". Angelo Scarano per Il Giornale il 19 agosto 2019. Dopo aver offerto il porto di Algecerias e quello di Minorca, Madrid ha deciso di affondare il colpo su Open Arms. A mettere nel mirino l'ong è lo stesso governo spagnolo con il vicepremier Carmen Calvo che di fatto smaschera i piani dell'ong iberica. La Calvo infatti svela un retroscena di qualche giorno fa su le trattative tra Madrid e la Valletta per dare un porto sicuro di sbarco alla nave a Malta. A quanto pare davanti alla proposta di approdare in un porto maltese, sarebbe arrivato l'ennesimo rifiuto da parte di Open Arms: "Open Arms avrebbe potuto andare a Malta e non ha voluto, si è diretta verso l'Italia". Poi le parole del vicepremier spagnolo si fanno più chiare: "La Open Arms non ha voluto andare a Malta - ha affermato la numero due del governo di Madrid - La Spagna stava lavorando a questo, in colloqui con Malta, però hanno deciso di andare in Italia", dopo la sentenza del Tar che ha permesso l'ingresso nelle acque italiane, ma non "chiariva se" i migranti potevano "essere sbarcati". Insomma Madrid tra le righe sottolinea una sorta di piano politico da parte di Open Arms con uno scontro frontale con il governo italiano. E da Madrid, dopo la proposta di far sbarcare i migranti a Minorca, arriva un attacco (nemmeno tanto velato) all'ong: "Abbiamo offerto ogni tipo di aiuto: medico, viveri. Non capiamo la posizione della Open Arms. Abbiamo offerto il porto più vicino, non possiamo portare i nostri porti in Italia. Ci rendiamo conto della criticità della situazione per l'incertezza e la disperazione ma una volta che c'è un porto sicuro e i migranti sanno dove sbarcheranno chiunque capisce che non ci sono problemi". Parole fin troppo chiare che però vengono ignorate da Open Arms. L'ong ha prima rifiutato il porto di Algecerias perché lontano sette giorni di navigazione e subito dopo, questa mattina, ha sostanzialmente rifiutato anche l'ipotesi Minorca che dista tre giorni di navigazione da Lampedusa. L'unica soluzione su cui, a quanto pare, è disponibile a trattare Open Arms è il trasbordo dei migranti su un'altra nave. Solo dopo i migranti potranno raggiungere le coste iberiche.
LaPresse il 19 agosto 2019. - "Abbiamo offerto ogni tipo di aiuto: medico, viveri. Non capiamo la posizione della Open Arms. Abbiamo offerto il porto più vicino, non possiamo portare i nostri porti in Italia". Lo dice Carmen Calvo, vicepremier del governo spagnolo, intervistata da Cadena Ser. "Ci rendiamo conto della criticità della situazione per l'incertezza e la disperazione ma una volta che c'è un porto sicuro e i migranti sanno dove sbarcheranno chiunque capisce che non ci sono problemi", aggiunge.
Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 20 agosto 2019.Come mai i talebani dell' accoglienza di Open Arms trovano mille scuse per non portare i migranti in Spagna? Perché fin dall' inizio il loro obiettivo era di sbarcare in Italia. Una scelta dettata da motivi politici, legali ed economici come ha tranquillamente spiegato Oscar Camps, fondatore della Ong, all' inizio della campagna estiva. «Preferisco che la nave sia fermata da Salvini e non da Pedro Sánchez (il premier spagnolo ndr), a causa delle conseguenze economiche e legali», aveva dichiarato l' estremista umanitario. La frase fa parte di un' intervista rilasciata da Camps il 5 luglio a bordo della nave Open Arms pubblicata sul giornale on line eldiario.es. Una testata con una chiara linea di sinistra. Il giornalista freelance, Olmo Calvo, chiede al guru di Proactiva Open Arms se pensa «che la Spagna sia più repressiva dell' Italia di Salvini?». Camps osserva che la separazione dei poteri in Italia ha portato alla fine alla scarcerazione di Carola Rackete, la capitana tedesca della nave Sea watch 3 sbarcata a forza a Lampedusa. E poi aggiunge: «E' chiaro che preferisco che la nave (Open Arms ndr) sia fermata da Salvini (il ministro dell' Interno italiano ndr) e non da Pedro Sánchez (il premier spagnolo ndr), a causa delle conseguenze economiche e legali». All' inizio di luglio non era ancora stato varato il decreto sicurezza bis e le multe per le Ong che violano le norme arrivavano al massimo a 50mila euro. In ogni caso Open Arms è riuscita ad aggirare anche il nuovo decreto, che prevede sanzioni fino ad 1 milione di euro, grazie al Tar de Lazio, che le ha permesso di arrivare di fronte al porto di Lampedusa. La preoccupazione di Camps è che la Spagna gli aveva intimato il 27 giugno, con una lettera della direzione della Martina mercantile, che la nave Open Arms «non può eseguire operazioni di salvataggio». E se lo fa rischia una multa fino a 901.000 euro. Camps confidando nel nostro paese ventre molle dell' Europa, nel sistema giudiziario italiano e deciso a ingaggiare una battaglia mediatica e politica con Salvini ha continuato a puntare su Lampedusa per lo sbarco dei migranti. Per questo motivo non vuole andare in Spagna consapevole che potrebbe incorrere in grane ben più grosse.
Benito Núñez Quintanilla, direttore generale della Marina mercantile, certificava, nella lettera del 27 giugno, che Open Arms «non può svolgere operazioni di salvataggio» se non «in conformità con l' autorità responsabile dell' area di ricerca e soccorso». L' Ong si è sempre rifiutata di collaborare con la Guardia costiera libica. Per i migranti ancora a bordo della sua nave non aveva ricevuto alcun via libera da altri Centri di soccorso, tantomeno quello italiano. Madrid concede ai talebani dell' accoglienza solo «operazioni di salvataggio spontanee oppure occasionali», ma Open Arms è andata a cercare appositamente i migranti al largo della Libia. In caso di violazione rischia di venire «sanzionata con multe da 300mila a 901.000 euro».
Open Arms: “Miserabile chi usa i migranti per fare propaganda razzista”. Ma Salvini: “Questi ‘signori’ tengono in ostaggio gli immigrati a bordo solo per attaccare e provocare me e l’Italia”. Ieri la situazione della nave ong Open Arms si è sbloccata con lo sbarco dei minori, anche se il ministro Salvini ha parlato di concessione “suo malgrado”. Ora è la nave che prende la parola su Twitter: “Miserabile. Miserabile è chi utilizza 107 esseri umani “senza nome” e dei volontari come ostaggi per fare propaganda xenofoba e razzista. Complici, tutti quelli che lo permettono e si prendono gioco del loro dolore”, hanno scritto gli attivisti della ong. Salvini, però, ha reagito immediatamente: “Da 17 giorni, invece di andare in un porto spagnolo, questi ‘signori’ tengono in ostaggio gli immigrati a bordo (fra cui finti malati e finti minorenni) solo per attaccare e provocare me e l’Italia. Non mi fate paura, mi fate pena. Io non mollo”, ha twittato. Dopo lo sbarco dei minori, è iniziata l’ispezione a bordo disposta dalla Procura di Agrigento, che ha aperto un fascicolo contro ignori per sequestro di persona e violenza privata, per accertare le condizioni igenico-sanitarie delle 107 persone ancora a bordo. Sulla nave è salita una delegazione composta dal medico della Sanità marittima, da alcuni uomini della Squadra mobile di Agrigento e rappresentanti della Guardia costiera. La decisione è arrivata a seguito delle discordanze tra quanto affermato dal responsabile del poliambulatorio di Lampedusa, Francesco Cascio, che ha detto che i migranti fatti sbarcare per emergenza medica stanno bene, e quanto emerso dai rapporti di Emergency e del Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta, secondo cui la “situazione è ingestibile”. Per risolvere la questione erano intervenuti sia il premier Conte che i ministri pentastellati e, proprio oggi, la ministra della Difesa Elisabetta Trenta ha spiegato di essersi “attivata personalmente per risolvere la questione dei minori a bordo”. Tra di loro “ci sono due neonati di nove mesi, uno dei quali con problemi respiratori”. Dal 13 agosto, “ci siamo coordinati con il presidente Conte, il ministro Toninelli, e abbiamo coinvolto anche Salvini ma lui non ha mai risposto ai nostri messaggi”. Pur avendo firmato il decreto sicurezza bis “credo non sia sufficiente – ha detto Elisabetta Trenta -. La fermezza sui confini, la politica dei porti chiusi e dei muri, non funziona di fronte a un fenomeno come quello migratorio. Serve un maggiore coinvolgimento dell’Europa e un intervento massiccio per stabilizzare economicamente e politicamente alcune regioni dell’ Africa”. Intanto, mentre continua l’odissea della Open Arms, sulle coste di Lampedusa è sbarcata una piccola imbarcazione con 57 migranti a bordo. Gli stranieri sono riusciti ad arrivare nei pressi dell’isola di Lampione, dove sono stati intercettati da una motovedetta della Guardia di finanza. Trasbordati sulle unità di soccorso delle Fiamme gialle e della Guardia costiera, sono stati trasferiti all’hotspot di contrada Imbriacola.
Ma come stanno davvero i migranti su Open Arms? Dopo la lite tra medici disposta l’ispezione sanitaria. Pubblicato sabato, 17 agosto 2019 da Corriere.it. Saranno adesso i medici incaricati dalla procura di Agrigento ad accertare le condizioni igienico-sanitarie dei migranti presenti a bordo della nave Open Arms, ancora ferma davanti al porto di Lampedusa. Una decisione presa durante un vertice in procura e che rientra nell'ambito dell'inchiesta (al momento a carico di ignoti) per sequestro di persona e violenza privata. L’ispezione a bordo sarà utile soprattutto a chiarire definitivamente la situazione in cui versano i migranti dopo la polemica nata tra il nuovo responsabile del poliambulatorio di Lampedusa e i medici del Cisom, che hanno fornito pareri discordanti. I primi a salire sulla nave dell'Ong spagnola sono stati un medico e un infermiere del Corpo italiano di soccorso dell'ordine di Malta (Cisom): si tratta di una fondazione con finalità di assistenza e pronto soccorso alle persone in stato di necessità. Medici e volontari che grazie a protocolli d'intesa nazionali collaborano in Italia anche con la Protezione civile, i Vigili del fuoco la Marina militare e la Guardia costiera. Cisom, ad esempio, opera a bordo delle unità navali della Guardia Costiera durante gli interventi di soccorso e salvataggio nel Mar Mediterraneo. Salita a bordo dell'Open Arms la delegazione di Cisom ha certificato «l'emergenza medica». «La situazione generale vede condizioni igienico-sanitarie pessime: spazi non idonei a ospitare un così ingente numero di persone. I naufraghi vivono ammassati gli uni sugli altri, non c'è possibilità di deambulare, sono presenti solo due bagni chimici e spesso i naufraghi sono costretti a espletare i loro bisogni fisiologici nello stesso spazio in cui dormono e mangiano», si legge nella relazione firmata il giorno di Ferragosto dal medico Katia Valeria Di Natale e dall'infermiere Daniele Maestrini dello staff Cisom. Loro stessi hanno sottolineato che tra i 147 naufraghi (95, uomini, 21 donne e 31 minori), in quel momento presenti a bordo, c'erano diversi casi di scabbia ma anche di cistite emorragica e altre patologie. Tra il 15 e il 16 agosto, 13 migranti vengono autorizzati allo sbarco per motivi psicologici e perché bisognosi di soccorsi sanitari. Arrivati sull'isola vengono visitati dai medici del poliambulatorio (l'unica struttura sanitaria presente a Lampedusa). Ma è proprio subito dopo questa fase di assistenza che prende corpo la polemica. A sollevarla è il nuovo responsabile del poliambulatorio dell'isola, Francesco Cascio: «C'è qualcosa che non funziona» ha subito dichiarato. «Tra i 13 migranti fatti sbarcare dalla Open Arms per motivi sanitari solo uno aveva una otite, mentre gli altri stavano bene», aggiunge Cascio, mettendo in discussione la relazione dello staff di Cisom. Una polemica subito rilanciata dal ministro dell'Interno Salvini: «È l’ennesima presa in giro dell’Ong spagnola», il commento del ministro. La polemica monta molto velocemente. La discordanza tra i pareri dei medici è evidente. Per fare chiarezza agenti di polizia si sono recati, venerdì, nel poliambulatorio a Lampedusa per sentire proprio il responsabile Francesco Cascio. Il medico però non si trovava sull'isola, non lo era neppure al momento dell'arrivo dei migranti a Lampedusa. Sarà ascoltato probabilmente a breve o al suo rientro a Lampedusa, la prossima settimana. I migranti sono stati visitati da due medici del poliambulatorio ma Cascio assicura di essere rimasto sempre in stretto contatto con il suo staff. E che, una volta letti i referti, ha voluto rendere pubblici i suoi dubbi. Francesco Cascio ha alle spalle una lunga carriera politica. Medico igienista, classe 1963, all’età di 21 diventa consigliere comunale con la Democrazia Cristiana, nel 1994 passa a Forza Italia e viene eletto alla Camera dei deputati. Dopo due legislature a Roma, torna in Sicilia ed entra nel 2001 all'Assemblea Regionale: sarà assessore nella giunta di Salvatore Cuffaro e nel 2008 presidente dell'Ars. Eletto per la quinta volta all'Assemblea regionale, lascia Forza Italia, seguendo Angelino Alfano in Ncd. Candidato alle europee nel 2014 non viene eletto, torna in Forza Italia che nel 2018 lo candida alla Camera senza successo. Da qui il ritorno alla carriera di medico all'Asp d Palermo e nel luglio del 2019 la nomina alla guida del poliambulatorio di Lampedusa, al posto di Pietro Bartolo, in aspettativa perché eletto europarlamentare con il Pd. «Io faccio il medico, forse qualcuno pensa che non potrei farlo dal momento che ho fatto politica?...», ha commentato Cascio: «Queste polemiche sui referti medici dei migranti visitati al Poliambulatorio sono davvero fuori luogo. Un referto non può essere fazioso. Mi fido dei miei medici, i referti sono chiari. È da pazzi pensare - spiega - che io possa avere detto che i migranti visitati stanno bene solo per fare una marchetta a Salvini. La Procura mi vuole sentire? Bene. Sono abituato a esser interrogato. Quando mi chiameranno risponderò».
COME STANNO DAVVERO I PROFUGHI SULLA OPEN ARMS? Mic. All. per “il Messaggero” il 18 agosto 2019. Referti medici e dichiarazioni discordanti. La battaglia sul caso Open Arms si combatte anche a colpi di cartelle cliniche. A sciogliere i dubbi sulle condizioni di salute dei quasi 100 profughi rimasti a bordo della nave della Ong spagnola sarà la procura di Agrigento: ieri, su disposizione del procuratore capo Luigi Patronaggio e dell'aggiunto Salvatore Vella, si è svolta un'ispezione sanitaria durata fino a sera. Assieme alla Guardia costiera di Lampedusa e agli agenti della Squadra mobile di Agrigento, sull'imbarcazione sono saliti anche due medici del ministero della Salute e dell'Ufficio sanità marittima. A scatenare le polemiche, e a fornire un assist al vicepremier Matteo Salvini, sono state le dichiarazioni di Francesco Cascio, il responsabile del poliambulatorio di Lampedusa che ha sollevato dubbi sui report medici effettuati da Emergency e dallo staff Cisom, che segnalavano un'emergenza sanitaria a bordo. «Dei 13 naufraghi fatti sbarcare per motivi sanitari solo uno aveva un'otite, gli altri non avevano patologie», ha detto due giorni fa. Dichiarazioni - subito rilanciate via Twitter da Salvini - che lo hanno fatto finire al centro delle polemiche. Tanto che nei prossimi giorni Cascio verrà sentito dagli inquirenti. Del resto, anche i 27 minori scesi a terra ieri non avevano problemi di salute: «Stanno tutti bene e non hanno avuto bisogno di cure», ha detto il medico che ha ripreso servizio dopo 22 anni di attività politica tra le file di Forza Italia. Nei giorni precedenti erano stati fatti sbarcare altri nove migranti, tra cui due donne in avanzato stato di gravidanza e diversi bambini. «Una delle donne aveva un'ernia addominale e ha partorito con cesareo - spiega Open Arms - Evacuati anche un bambino di 9 mesi con difficoltà respiratorie, un uomo con tubercolosi polmonare avanzata, una donna con polmonite, una donna con problemi neurologici, un uomo con otite media resistente a tre tipi di antibiotici e un uomo con una artrite dovuta a precedenti colpi di arma da fuoco, e un uomo con una ferita chirurgica infetta». Valutazioni in gran parte contestate da Cascio, al cui fianco si è schierato l'assessore regionale alla Salute, Ruggero Razza, che ha chiesto l'acquisizione delle cartelle cliniche: «Quanto affermato dal responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa corrisponde alla verità rispetto a quanto riscontrato dai sanitari locali. Voglio disporre l'acquisizione dei certificati e delle cartelle cliniche: le prestazioni sanitarie sono erogate dalla Regione Sicilia che ha il diritto di comprendere se esiste l'ipotesi di una truffa». Alle polemiche ha risposto anche il diretto interessato: «La Procura mi vuole sentire? Bene. Sono abituato a esser interrogato e non sarebbe certo la prima volta (Cascio è stato indagato e poi prosciolto in un'inchiesta per corruzione, ndr). Spiegherò che i referti sono stati fatti dai miei medici e che mi fido ciecamente di loro». Ha aggiunto dettagli: «Sapevo che c'era una ragazza con emorragia vaginale, ma l'emoglobina era a 11,3, quasi migliore della mia». E ancora: «Salvini nel suo tweet ha fatto riferimento a dati reali». Poi ha spiegato: «Io sulla nave non ci sono stato. I medici neppure. Non l'ho certificato io ma due medici di cui uno con 40 anni di attività di Pronto soccorso. Un referto non può essere fazioso. Siamo medici e sono atti ufficiali», ha aggiunto. Intanto ieri sulla Open Arms è salito anche il direttore sanitario dell'Ospedale evangelico di Genova, Gaddo Flego, insieme a Francesco Piobbichi, senior operator di Mediterranean Hope, il Programma Rifugiati e migranti della Federazione chiese evangeliche. «Le condizioni igieniche sono al limite - ha detto Flego - nonostante i casi più gravi siano stati evacuati, permane una situazione generalizzata di sofferenza fisica e psicologica».
“LAMPEDUSA È MEGLIO DI LOURDES”. Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 22 agosto 2019. Sarà il particolare microclima dell' isola, l' effetto benefico delle sue acque o la conformazione calcarica delle sue rocce. O magari saranno l' influsso positivo della stagione estiva e le correnti d' aria calda del ciclone africano. Fatto sta che Lampedusa è diventata un luogo miracoloso, terra di fenomeni soprannaturali dove le malattie guariscono, gli acciacchi scompaiono, gravi turbe psicologiche si tramutano in voglia di vivere e ragazzini acerbi si trasformano in uomini adulti. Con queste premesse, è facile capire perché sia divenuta la meta preferita dei cosiddetti migranti, il luogo dei sogni dove uomini a bordo di navi e barconi non vedono l' ora di approdare. Tutti costoro non giungono mica da noi per invaderci, accrescere la delinquenza o toglierci il lavoro. Macché, vengono in Italia per guarire, viaggiano in Mare per sconfiggere il Male. E allora non chiamateli più migranti, profughi, clandestini. Sono solo dei pellegrini in cerca del miracolo. Non stiamo farneticando, tranquilli. Questa narrazione è perfettamente coerente con quanto accaduto alle persone a bordo della nave Open Arms. Ripetute ispezioni mediche le avevano date per malate, e malate gravemente. Avevano riscontrato in loro casi di scabbia, di cistite emorragica, di ferite di arma da fuoco, e ancora gravi alterazioni psicologiche e disturbi mentali che avevano indotto il nostro Paese a farle sbarcare prima alla spicciolata, poi tutte insieme. All' inizio era stato lo staff del Cisom (Corpo italiano di soccorso dell' Ordine di Malta) ad assicurare che i migranti presentavano «diverse patologie», da cui la necessità di farli scendere in 13 perché si curassero. Poi ieri due consulenti della Procura di Agrigento redigevano un quadro allarmante parlando di «funzioni psichiche fortemente sollecitate da condizioni emozionali estreme» e di «estensione di situazioni psicopatologiche di dissociazione nevrotica e psichica». In quelle «condizioni pessime» il pm di Agrigento Luigi Patronaggio non poteva far altro che ordinare l'immediato sbarco di tutti i migranti. Poi però, una volta toccato il suolo italiano, il miracolo. L' evento inconcepibile. La grazia divina, chissà se del nostro Dio, di Allah o di qualche santo protettore dell' immigrazione clandestina. Tutti quegli uomini, fatti sbarcare d'urgenza, improvvisamente guarivano. Anzi, si dimostravano di sana e robusta costituzione. In nessuno di loro veniva trovato alcunché di preoccupante e neppure qualche fastidio passeggero, se non fosse per un' otite facilmente curabile. E alla faccia della condizione psicologica turbata, li vedevi festeggiare in compagnia degli operatori della Open Arms, tra fischi, lazzi, abbracci e sorrisi a trentadue denti. Allegria di naufragi, l' avrebbe chiamata Ungaretti. O meglio, allegria di finti profughi e finti malati. Questo fatto inspiegabile si aggiungeva a due altri eventi prodigiosi, accaduti nei giorni precedenti. Nell'imbarcazione che avrebbe dovuto trasportare gente denutrita e affamata trovavi una donna in piena forma, addirittura sovrappeso. Miracolo!, gridavano tutti: gli smunti e gli emaciati ritrovano peso e salute, appena si avvicinano a Lampedusa. E ancora: 8 migranti minorenni, indifesi e incapaci di gestirsi da sé, improvvisamente, approdati in Italia, si scoprivano maggiorenni adulti e responsabili. Restavamo tutti stupiti, commossi, e soprattutto ammirati del fatto che le acque, il cielo e le pietre della nostra Italia abbiano tali doti provvidenziali. Ma a questo punto sarebbe il caso di sistematizzare il fenomeno e sfruttarlo a pieno. Bisognerebbe cioè organizzare dei corridoi medico-sanitari o dei percorsi religioso-spirituali che consentano a chiunque si imbarchi e arrivi in prossimità del nostro Paese di sbarazzarsi di qualsiasi acciacco, fisico e morale. Gli scafisti, anziché trafficanti di morte, risulterebbero essere missionari che accompagnano i malati sulla via della salute. E le ong, lungi dall' essere taxi del mare, si dimostrerebbero dei pronto soccorso ambulanti che avvicinano i sofferenti alle acque sante di Lampedusa. E perfino quanti sembrano lucrare sull' accoglienza apparirebbero testimoni di fede che assistono al miracolo e vogliono renderlo noto a tutti. Ecco perché è un segno divino che sia caduto questo governo. Coi porti chiusi, per quanto Salvini usasse rosari e crocifissi, le guarigioni miracolose non potevano più verificarsi. Ora, con le frontiere aperte, Lampedusa diventerà la nuova Lourdes. Invasa dai clandestini, pardon dai pellegrini.
Così Open Arms si smaschera: ecco il vero obiettivo dell'ong. La Open Arms rifiuta il porto spagnolo, invoca un' "emergenza sanitaria" non riscontrata e insiste sullo sbarco in Italia. Giovanni Giacalone, Lunedì 19/08/2019, su Il Giornale. Il premier spagnolo Pedro Sanchez apre il porto di Algeciras alla nave di Open Arms, ma l'ong rifiuta l'invito perchè "sette giorni di navigazione sono troppi"; peccato che ne hanno sprecati diciassette per cercare di entrare a tutti i costi a Lampedusa. Secca la replica del Ministro degli Interni, Matteo Salvini: "La Ong spagnola rifiuta il porto offerto dalla Spagna! Incredibile e inaccettabile, organizzano crociere turistiche e decidono loro dove sbarcare??? Io non mollo, l’Italia non è più il campo profughi d’Europa". Sono molte le cose che non tornano per quanto riguarda la vicenda della Open Arms, a partire da quella "emergenza sanitaria" poi confutata dall'ispezione eseguita sabato dal medico della Sanità marittima con gli uomini della Squadra mobile e della Guardia costiera, su input del procuratore aggiunto di Agrigento, Salvatore Vella. Gli imbarcati risultano stanchi e provati dalla lunga permanenza sulla barca ma non sono state riscontrate particolari patologie dal punto di vista medico. A questo punto sorge spontanea una domanda più che legittima: perché la Open Arms, se aveva tanto a cuore la condizione degli individui a bordo, ha optato per un braccio di ferro con l'Italia quando avrebbe potuto raggiungere subito la Spagna? Scelta tra l'altro più logica visto che la stessa ong è spagnola. Il blocco dei porti italiani era ben noto e non era certo difficile immaginare che innescare un braccio di ferro con Roma avrebbe portato a uno stallo. Per quale motivo la Ong ha dunque deciso di agire in questo modo? A ciò vanno ad aggiungersi una serie di elementi che non sono certo passati inosservati: in primis tra i 27 "minori" fatti sbarcare sono stati trovati ben 8 maggiorenni, ma vi è anche il caso dei 13 imbarcati fatti scendere per motivi sanitari, soggetti che non avevano però alcuna patologia a parte uno di loro con un'otite, come dichiarato all'Ansa dal responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa, Francesco Cascio: ""C'è qualcosa che non funziona, perché tra i 13 migranti fatti sbarcare dalla Open Arms per motivi sanitari solo uno aveva una otite, mentre gli altri stavano bene: eppure dalla relazione dello staff Cisom (il Corpo italiano di soccorso dell'Ordine di Malta - ndr) risulta che a bordo ci sarebbero persone con diverse patologie, tra cui 20 casi di scabbia". È possibile che alla Open Arms interessi creare un caso politico e far pressione sull'Italia per "rompere" il blocco? Magari per creare un precedente affinchè altre navi delle Ong possano intraprendere la medesima tattica? Interessante anche il coinvolgimento dell'attore Richard Gere, che ha dato un tocco "cinematografico" alla vicenda. Il blocco imposto da Salvini sta creando enormi problemi ai trafficanti di esseri umani che speravano in un esodo estivo pari a quelli degli anni precedenti, ma che non c'è stato. I porti chiusi sono un danno enorme per il business dell'immigrazione clandestina, un business che "rende più della droga", come già dichiarato dall' "addetto ai lavori" Salvatore Buzzi, coinvolto nell'inchiesta di "Mafia capitale". Il blocco dei porti voluto da Salvini sta inoltre creando enormi problemi a quelle ong che operano nel settore del recupero dei migranti in mare, come dimostrano i fatti.
Le accuse di Oscar all’Italia: “Complice dei trafficanti di uomini”. Roberto Pellegrino il 16 agosto 2019 su Il Giornale. Il direttore della ONG Proactiva Open Arms, Óscar Camps, ha accusato l’Italia e Malta di non voler sbarcare le 151 persone d’altro salvate. Ma ha avuto parole di biasimo anche per la Spagna per non fare nulla in questa situazione. In un’intervista alla tv radio SER, Camps ha rivelato di aver chiesto per tre volte un incontro con il premier Sánchez, ma dalla Moncloa sono arrivati soltanto “no”. “Avrei voluto prendermi un caffè con lui, ma siamo riusciti a parlare con Macron e la Merkel”, ha rivelato Camps. “Quando siamo consapevoli che il diritto marittimo internazionale è violato e lo tolleriamo, siamo complici. Se la Spagna non denuncia l’Italia nel Tribunale internazionale per il diritto del mare di Amburgo …”, ha detto Camps, che ha denunciato la passività del governo con la situazione vissuta a bordo degli Open Arms. “Penso che abbiamo politici anti-sistema. Sono le ONG che rispettano il diritto marittimo e ci sono alcuni politici che lo infrangono”, e di fronte alle accuse di collaborazione con le mafie lanciate dall’Italia contro l’organizzazione guidata da Camps, ha risposto: “Ci hanno detto tante cose … Il pubblico ministero antimafia italiano ci ha indagato per due anni, ci ha accusato di essere illegali, avere contatti con i trafficanti. Penso che sono i governi a essere complici dei veri trafficanti. Quando un governo dà soldi a un altro per impedire ai migranti di andarsene, quando ti abitui a un governo per questo e quei leader vogliono di più soldi, cosa fanno? ” Camps ha quindi fatto riferimento al flusso di denaro dall’Italia alla Libia e alla situazione caotica di quest’ultimo paese. Lo ha fatto ponendo in onda diverse domande: “Chi traffica? Chi modifica i flussi migratori? Cos’è la Libia? C’è qualche governo in Libia? C’è qualcuno che può spiegarci chi è il governo della Libia? Ci sono tre gruppi che dicono di sì. La Francia difende l’una e l’Italia un’altra “. Il regista di Open Arms ha deciso: “Parlare di noi è una cortina di fumo”.
Richard Gere ci fa (ancora) la predica: "Su Open Arms ci sono angeli". L'attore ripete di voler stare dalla parte di migranti e volontari delle ong: "Queste persone sono angeli". Andrea Riva, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale. Diviso tra barche e barconi, Richard Gere torna a fare la predica all'Italia e, in particolare, al ministro dell'Interno Matteo Salvini.
Le vacanze del buonista Gere. L'attore infatti è tornato sulla questione Open Arms e, durante un'intervista a Sky Tg24, ha detto: "Queste persone sono angeli. Persone sopravvissute alla Libia, a tragedie e a traumi anche solo per raggiungere le imbarcazioni e mettersi in mare. Sono persone straordinarie, forti, nobili. Mi piacciono molto. E poi ci sono anche i volontari che hanno rinunciato alla loro vita per aiutare gli altri. Sono persone straordinarie. Hanno bisogno del nostro sostegno, economico, emotivo e legale. Sono i migliori. Persone straordinarie, gli angeli di questa situazione. E per quanto mi riguarda io voglio stare dalla parte degli angeli". Un'opinione quanto meno di parte, quella dell'attore. Perché se da una parte è vero che tra i migranti a bordo della Open Arms ce ne sono molti che scappano dalla guerra e che pertanto hanno tutto il diritto e il dovere di essere accolti, dall'altra è altrettanto vero che molti a bordo di quella nave sono migranti economici che il nostro Paese non è in grado di accogliere. Le parole di gere faranno certamente discutere. Proprio oggi, il ministro dell'Interno lo aveva rimproverato, dicendo: "Il ricco attore viene in Italia a fare il fenomeno buonista in barca con le Ong, ho l'impressione che in America non sarebbero così tolleranti". Non da meno, Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia: "Dopo il duro lavoro che lo ha visto impegnato nella propaganda filo-migrazionista a bordo della Open Arms, ecco Richard Gere godersi il meritato riposo in un elegante motoscafo. Ma davvero questi pseudo filantropi vogliono impartire lezioni di solidarietà all'Italia?". Proprio oggi, infatti, Leggo ha diffuso la notizia che l'attore si starebbe rilassando a bordo di un'elegante nave: "Richard Gere è arrivato in porto nel pomeriggio di ieri, attorno alle 17.30, ed è stato fotografato disteso al sole a bordo di un prestigioso motoscafo Riva. Camicia azzurra e pantaloncini, l'attore indossava un berretto da baseball e occhiali da sole, ma attorniato com'era da belle donne in bikini non è riuscito a passare inosservato". Non di sole ong vive l'uomo...
Richard Gere arriva a Lampedusa per la Open Arms: «Fate sbarcare i 121 migranti». Pubblicato venerdì, 09 agosto 2019 su Corriere.it. Anche l’attore Richard Gere scende in campo per chiedere una soluzione alla crisi della Open Arms, la nave ong spagnola con 121 migranti a bordo che da otto giorni chiede un porto sicuro e che si trova da giorni fuori delle acque territoriali a Lampedusa. La star di Hollywood parteciperà oggi pomeriggio, venerdì, alle 17.30 a una conferenza stampa sull’isola siciliana a fianco di Oscar Camps, fondatore dell’organizzazione spagnola, del presidente italiano Riccardo Gatti e chef Rubio altro testimonial schieratosi a difesa dei diritti dei migranti. Tutti chiederanno che sia consentito lo sbarco dei naufraghi soccorsi a nord della Libia. La situazione a bordo della nave umanitaria si va facendo di ora in ora più difficile ma come avviane ormai da un anno a questa parte (caso Diciotti, Mediterranea, Sea Watch e altri) è cominciato il braccio di ferro con il Viminale che vuole impedire l’arrivo in Italia dei migranti sulle nave Ong. « Ottavo giorno in mare. Il sentimento che prevale è la vergogna. Vergogna per un’Europa che lascia 121 persone in mezzo al mare per otto giorni mentre un gruppo di volontari coraggiosi fa di tutto per rendere la vita a bordo tollerabile. La vera Europa sono loro, siamo noi» scrive su Twitter Oscar Camps. Salvini ribadisce il suo no all’ingresso della Open Arms in acque italiane, facendosi scudo del decreto sicurezza bis. Quest’ultimo provvedimento è stato però criticato dal presidente della repubblica Sergio Mattarella: il Colle chiede correzioni al testo approvato perché «irragionevole» e perché «permane l’obbligo di salvataggio in mare». Il ministro dell’interno chiede invece che sia la Spagna a farsi carico delle persone salvate. Nel frattempo un’altra imbarcazione umanitaria, la francese Viking ha tratto in salvo altre 30 persone alla deriva nel Mediterraneo; anche in questo caso Salvini ha già avvertito che firmerà il provvedimento per vietare l’ingresso in acque territoriali italiane, pena il sequestro della nave e una multa che potrebbe arrivare a un milione di euro.
Open Arms, anche Richard Gere si imbarca con i migranti: insieme a lui Chef Rubio. Libero Quotidiano il 9 Agosto 2019. Anche Richard Gere e Chef Rubio a Lampedusa per Open Arms. La ong ha organizzato una conferenza stampa a Lampedusa con due testimonial di eccezione uno più diverso dall'altro: l'attore e attivista statunitense Richard Gere e Chef Rubio. Mancavano solo il Mago Otelma e Malgioglio. Da otto giorni la nave della ong spagnola, con a bordo 121 migranti soccorsi nel Mediterraneo, si trova in mare senza avere la possibilità di attraccare in alcun porto. Gere, buddista e attivista, arrivato giovedì a Lampedusa, è salito a sorpresa sulla nave portando viveri. "Il giorno 1 agosto", dicono dalla ong, "abbiamo effettuato il salvataggio di 124 persone in serio pericolo di vita, che viaggiavano su due differenti imbarcazioni, entrambe alla deriva. Ora, da otto giorni, l'Open Arms si trova in mezzo al mare, senza aver ottenuto risposte positive né dai paesi costieri più vicini (Italia e Malta), né dagli altri stati membri dell'Unione Europea". Richard Gere è arrivato a Lampedusa giovedì pomeriggio e la sua presenza, così come accadde per la sua prima visita nel giugno del 2016, non è passata inosservata. Domani chiederà che la nave coi migranti a bordo sia fatta approdare. "Finalmente una buona notizia. Il cibo arriva a Open Arms e abbiamo un compagno d'equipaggio eccezionale", scrive su Twitter la stessa ong mostrando le foto dell'attore.
La "tolleranza" di Open Arms: spinte ai cronisti davanti a Gere. Una cronista viene allontanata in modo poco cortese da un membro dello staff di Open Arms. E il video finisce in rete sui social. Angelo Scarano, Domenica 11/08/2019, su Il Giornale. Sono giorni di tensione per Richard Gere. Dopo l'imbarco sulla Open Arms, l'attore di Hollywood ha messo nel mirino il nostro Paese e il ministro degli Interni Matteo Salvini. Nel corso di una conferenza stampa tenuta ieri a Lampedusa, l'attore non ha usato giri di parole: "Non ho nessun interesse politico, questa è una situazione umanitaria, quello che stiamo facendo è prenderci dura della gente. Queste Ong non lo fanno affatto per questioni politiche". Poi l'affondo: "So che in giro per il mondo ci sono tantissimi politici ignoranti e stupidi che cercano di trasformare queste situazioni in situazioni politiche, ma non è così". Richard Gere dunque predica accoglienza e "cortesia" per i migranti che in questo momento si trovano a bordo della nave a largo di Lampedusa in acque internazionali. Ma a quanto pare la "cortesia" chiesta da Gere e dai "buonisti" non trova posto tra i collaboratori umanitari. Infatti subito dopo la conferenza stampa dell'atttore, si è verificato un episodio che con il mondo del "buonismo" ha poco a che vedere. Una cronista che ha seguito Gere fino all'auto che lo attendeva per portarlo via, è stata allontanata in modo poco cortese da un collaboratore umanitario di Opena Arms. Come mostrato nel video gli uomini di Open Arms sono un po' allergici alle domande dei giornalisti e quindi reagiscono a modo loro: spintonando una cronista. Ma il momento di tensione è durato poco. Proprio Richard Gere, notando la reazione scomposta di uno dei collaboratori di Open Arms, ha voluto stringere la mano alla cronista prima di ripartire in auto. Insomma l'"ufficiale gentiluomo" non è venuto meno alle aspettative e ha così evitato una figuraccia allo staff di Open Arms che predica accoglienza, cortesia e diritti solo a senso unico.
Da Adnkronos.com l'11 agosto 2019. “Richard Gere è incredulo per l’approvazione del Decreto Sicurezza Bis: sicuramente è colpito favorevolmente dalle scelte a favore delle forze dell’ordine e contro scafisti e criminali. L’Italia le attendeva da anni. In compenso, visto che il generoso milionario annuncia la sua preoccupazione per la sorte degli immigrati della Open Arms, lo ringraziamo: potrà portare a Hollywood, col suo aereo privato, tutte le persone a bordo e mantenerle nelle sue ville. Grazie Richard!”. Lo dice il ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Da ilfattoquotidiano.it il 18 ottobre 2019. Intervista esclusiva curata da Chiara Proietti e da Gabriele Zagni per Piazzapulita (La7) all’attore americano Richard Gere. Diversi i temi toccati: dalla politica di Donald Trump alla questione migranti. Gere parla anche della sua esperienza sulla Open Arms, la nave della ong spagnola, osteggiata spesso dal leader della Lega Matteo Salvini: “Questa estate ero in Italia e un mio amico mi ha detto: ‘Hai saputo di questa nuova legge italiana che rende un crimine aiutare le ong che salvano le persone in mezzo al Mediterraneo?’. Io gli ho risposto: ‘Ma mi stai prendendo in giro?‘. In 5 minuti ho deciso di prendere un volo per Lampedusa. Ho passato una intera giornata a mettere insieme i viveri e a trovare una barca che ci portasse fino alla Open Arms”. L’attore continua: “Salvini nello scorso agosto chiese perché non prendessi i migranti e li portassi a Hollywood con il mio aereo privato. Se avessi avuto un aereo privato, l’avrei fatto con molto piacere. Ma non ce l’ho. Ho anche invitato Salvini a bordo della Open Arms in modo che si rendesse conto che si trattava di persone e non di pazzi stupratori che volevano ucciderlo o far del male alla sua famiglia o distruggere l’Italia. Sono delle persone come noi, che vogliono solo essere felice e scappare dalle sofferenze, proprio come noi. Sono fratelli e sorelle”. Commento finale sulla situazione dei curdi, su Erdogan e sulla politica estera di Trump: “Il nostro presidente si trova molto meglio coi delinquenti piuttosto che coi nostri amici. E’ molto più a suo agio coi cattivi, gente che pur di restare al potere è disposta a ogni mezzo”.
Da Il Messaggero.it l'11 agosto 2019. «Ieri abbiamo presentato alla Procura di Roma e a quella di Agrigento un esposto col quale chiediamo di verificare se questa situazione non rappresenti una fattispecie di reato. E nel caso individuare i responsabili». A dirlo è stato Riccardo Gatti, presidente Open Arms Italia, durante una conferenza stampa all'aeroporto di Lampedusa, con Oscar Camps, fondatore della Ong spagnola, Richard Gere, attore e attivista per i diritti umani e Gabriele Rubini, noto come chef Rubio. Dalla Ong hanno spiegato che a bordo c'è «un equilibrio molto precario» e i migranti da giorni in mare dopo il soccorso vivono «una situazione psicologica particolarmente grave». La Ong spagnola ferma da giorni al largo di Lampedusa con 121 migranti a bordo, nella notte ha soccorso altre 39 persone in acque internazionali. Alla conferenza è intervenuto anche l'attore americano, che ha così esordito: «A differenza di quello che dicono i politici, i governi e qualche giornale, la maggiora parte dei migranti sono cristiani. Hanno tutti toccato il mio cuore. Ho parlato con un gruppo di donne sulla nave: una nonna, con la figlia e i nipotini e la loro storia è orribile. Hanno minacciato di fare del male al resto della famiglia se la mamma dei bambini non si fosse concessa sessualmente più volte e lei si è sacrificata». «A Lampedusa sono venuto spontaneamente, nessuno mi ha chiesto di essere qui. Ero in vacanza con la mia famiglia vicino Roma quando ho sentito delll'approvazione decreto Sicurezza bis e quasi non ci potevo credere, non potevo credere che i miei amici italiani potessero tirare una fuori una cosa simile». Dopo aver saputo del via libera al decreto Sicurezza bis «ho chiamato i miei amici di Open Arms che ho conosciuto qualche tempo fa a Barcellona - ha spiegato l'attore - e mentre parlavo con loro ho deciso: in 10 minuti ho fatto i pacchi, sono saltato su una macchina e sono arrivato in aeroporto a Roma». «Amo moltissimo l'Italia, il vostro spirito, la vostra generosità, il vostro cuore, ma dopo due anni tornando qui ho avvertito che c'è qualcosa di diverso, le persone sono diventate un pò paranoiche». Gere ha poi raccontato le difficoltà incontrate per trasportare a bordo della nave della Ong le provviste raccolte. «Ho trovato una grandissima difficoltà nel trovare qualcuno che ci portasse con la barca», ha detto, spiegando che c'è «questa paranoia nell'essere di aiuto agli altri, c'è questo timore». «Alla fine abbiamo trovato una persona di sera tardi, ma la mattina quando ci siamo presentati ci ha detto 'ho cambiato ideà - ha continuato l'attore -. Qualcuno gli aveva prospettato delle ripercussioni, dicendogli di fare attenzione. Alla fine siamo riusciti a trovare un'altra barca e l'abbiamo riempiuta di provviste. Non è stato facile, ma quando siamo arrivati sulla Open Arms, queste persone, nostri fratelli e sorelle, che hanno passato dei momenti orribili, erano lì ad applaudire perché qualcuno era arrivato ad aiutare». Gere ha poi concluso: «Non sono interessato a Salvini, i politici invece di aiutare queste persone le demonizzano e questo deve finire e può finire se lo facciamo finire noi. Il mio unico interesse è aiutare questa gente. Basta». E rispondendo ai cronisti ha lanciato un appello: «Deve essere interrotta questa situazione di stallo della Open Arms, adesso. A bordo la situazione è grave, ci sono persone che vivono ammassate tra di loro e se la condizioni non è peggiore è grazie ai volontari della nave». La risposta del ministro dell'Interno, ovviamente, non s'è fatta attendere. Ha partecipato alla polemica anche la presidente di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni con un post su Facebook: «Secondo i dati ufficiali, il 90% di chi è sbarcato illegalmente in Italia negli ultimi anni è uomo e solo il 10% donna. Ma quando una star di Hollywood come Richard Gere decide di fare la sua comparsata a favore di telecamera su una nave Ong, guarda caso, spuntano per la foto moltissime donne. Perché per i nuovi schiavisti è più facile fare propaganda immigrazionista facendo vedere donne e bambini che non solo uomini adulti (come avviene di solito). Ci prendono per scemi? Open Arms e Richard Gere da quanto tempo hanno concordato questo spot?»
MARCO PREVE per la Repubblica l'11 agosto 2019. C'è chi nasce Richard Gere e c'è chi nasce Antonino Sergio Gambino. Già sarebbe sufficiente questa inoppugnabile verità a spiegare le ragioni del risentimento del secondo (ma sia ben chiaro anche di buona parte di noi maschi nati nel secolo scorso) nei confronti del primo. Ma il consigliere Gambino, esponente di punta di Fratelli d'Italia nella giunta Bucci e noto per le sue partecipazioni - con tanto di fascia tricolore – a commemorazioni di stampo neofascista con Casapound e Lealtà Azione, non ha paura del confronto con uno degli attori più celebri di Hollywood e così, invece di una sfida tra sex symbol, Gambino ha deciso di assestare un colpo mortale all'immagine dell'indimenticabile protagonista di “Ufficiale e gentiluomo”. Lo ha fatto su Facebook attaccando l'attore per la sua presenza a bordo di una delle navi delle ong che cercano di salvare i migranti nonostante gli ostacoli dei trafficanti libici da un lato e del governo gialloverde dall'altro. Scrive Gambino nel suo post: “Per fortuna Richard Gere sti sta adoperando per salvare questi poveri ragazzi deperiti torturati e derubati in fuga dai lager libici...ps: i barbieri in libia sono proprio degli aguzzini. Chissà quanti soldi si fanno pagare per fare la sfumatura...”. Nel post Gambino pubblica due foto di Gere a bordo della nave Open Arms e in una è accanto a un ragazzo il cui taglio di capelli e la cui catenina secondo Gambino non appartengono al decalogo del torturato o stuprato. Gambino risponde poi ad alcuni commenti anche critici nei suoi confronti. E va giù duro contro Richard Gere definendolo “quell'ipocrita che ha portato generi alimentari con la sua barchetta da qualche milione di euro”. In realtà l'offesa appare piuttosto gratuita anche perchè lo stesso attore ha spiegato di essere arrivato in Italia in aereo e di aver noleggiato con altri una barca – non la sua barca – per portare alla Open Arms generi alimentari e farmaci. Certo l'intera vicenda potrebbe ridursi all'ennesimo attacco dell'estrema destra al potere contro i volontari che salvano vite umane in mare, se non fosse per un particolare. Nella giunta Bucci Gambino è: “Consigliere comunale con delega alla protezione civile e valorizzazione del volontariato”. Ossia ha fra i suoi compiti istituzionali quelli di intrattenere rapporti con tutte quelle organizzazioni, onlus, associazioni e altro, che nel mondo si occupano, o perlomeno loro ci provano, di garantire agli esseri umani la sopravvivenza.
“RICHARD GERE SULLA NAVE DI OPEN ARMS? UNA GRANDE TROVATA PUBBLICITARIA". Antonio Rapisarda per “Libero quotidiano” il 12 agosto 2019. Che cosa fanno insieme la sinistra "fucsia" e i "Papulisti"? Seguono «il Vangelo secondo Soros». Per capire l' entità del "tradimento" dei post-comunisti nei confronti delle «classi subalterne» Diego Fusaro, filosofo sovranista di scuola neomarxista, traccia un parallelo sullo stato dell' arte delle due "chiese": «Quella di Bergoglio sta divendando tutto ciò contro cui Cristo combattè. Proprio come la sinistra "arcobaleno" è diventata tutto ciò contro cui Marx e Gramsci hanno lottato per tutta la vita...».
Partiamo con Richard Gere sulla nave di Open Arms, finanziata anche da George Soros. L'istantanea di Fusaro?
«Una trovata pubblicitaria straordinaria. Fatte le foto e i servizi per i rotocalchi Richard Gere potrà tornare tra i dollari che scorrono copiosi ad Hollywood e i migranti potranno finire nell' inferno del caporalato a morire sotto il sole, come vogliono i padroni del capitale e le sinistre "fucsia", quelle che chiedono i "porti aperti"».
Si è "imbarcato" nella polemica politica contro i sovranismi pure papa Bergoglio.
«Lo aveva previsto Pasolini: o la Chiesa si sarebbe scontrata con il mondo del capitale, combattendolo eroicamente, o si sarebbe piegata lasciandosene assorbire. Mentre Ratzinger era la lotta contro il capitale, la chiesa di Francesco è figlia del capitale, ha scelto questo ruolo. Ma c'è di più: abbiamo addirittura un partito, quello dei "papulisti", gli allievi di Bergoglio».
E chi sono?
«Quelli che seguono il Vangelo secondo Soros. Gesù Cristo avrebbe detto davanti ai migranti "basta deportazioni", invece i papulisti dicono "porti aperti" che è il discorso del padronato: libera circolazione delle merci o delle persone mercificate».
La "destra divina", citando Pasolini, esiste?
«Per ora non vedo destre divine. Vedo destre finanziarie e del mercato. La destra di Soros e di Rockefeller che vogliono la deregolamentazione dei mercati e vedono una sorta di appoggio fondamentale nelle sinistre che dovrebbero intitolare i loro centri sociali non a Lenin ma agli squali finanzieri».
Non è che diventato troppo nichilista?
«Io auspico un superamento di destra e sinistra. O meglio mi definiscono di sinistra nelle idee, di destra nei valori. Di sinistra lo sono per il lavoro, la comunità, per la solidarietà e la difesa dei deboli. Di destra per i valori come la nazione, la patria e Dio. Oggi sostengo, come spiego nel mio libro "Storia e coscienza del precariato. Servi e signori della globalizzazione" (Bompiani, ndr), la necessità di un populismo sovranista e socialista che non sia né nazionalista né cosmopolita ma internazionalista, cioè che coordini stati sovrani nazionali solidali e fratelli. Quell' internazionalismo che le sinistre fucsia hanno tradito vigliaccamente».
Dimenticavo. Su un'altra barca troviamo Greta e il principe Casiraghi.
«È la presa in giro per eccellenza rivolta alle plebi italiche che faticano ad arrivare a fine mese: Greta che invece va a salvare il mondo in barca a vela con Casiraghi. Sono gli "avatar" del potere che fanno sì che si creda ai finti rivoluzionari i quali in realtà hanno la funzione di conservare l' ordine».
Abbiamo un'invasione di ragazzine idoli della sinistra liberal. Come se lo spiega?
«Olga in Russia, Greta in Svezia e poi c'è Carola Rackete, quelle che io chiamo i "capitali coraggiosi". Il potere esalta i finti rivoluzionari che produce e massacra a colpi di manganellate i veri rivoluzionari come le giubbe gialle in Francia. Anche lì con l' appoggio servile delle sinistre fucsia che urlano al fascismo di fronte ai moti rivoluzionari dal basso».
Eppure la democrazia continua a fare i dispetti all' establishment: Brexit, Putin, i nazional-populisti. Gli toccherà abolirla tra un po'...
«La democrazia è già in larga parte abolita. Per me la democrazia oggi è il nome che diamo all' autogoverno dei mercati e dei ceti possidenti. Tuttavia ci sono qua e là guaiti di popoli che non si arrendono. Penso ad esempio alla gloriosa Russia di Putin. Penso a tutte le forme di stati nazionali non allineati con il nuovo ordine mondiale statunitense: penso all' Iran, alla Corea del Nord, a Cuba e alla Siria. A tutti gli Stati che resistono: che Dio li abbia in gloria».
Open Arms, ci mancava pure Antonio Banderas: anche lui si schiera a favore dell'ong. Libero Quotidiano l'11 Agosto 2019. Dopo Richard Gere, un'altra star del mondo del cinema ha deciso di scendere in campo in favore della ong spagnola Open Arms, che ha 10 giorni si trova a una trentina di miglia da Lampedusa in attesa di poter sbarcare i migranti soccorsi. Banderas ha definito "un orrore" la situazione che si è venuta a creare in Italia. L’attore e regista ha parlato della la situazione di stallo della Open Arms durante una conferenza stampa. Secondo i media spagnoli, che hanno seguito Banderas durante la presentazione di un film nella quale l'attore voluto parlare anche del clima che si è creato attorno alle ong spiegando che ciò ha "molto a che fare con quello che sta succedendo nel mondo" dove, per esempio, a capo degli Stati Uniti "c'è un signore che vuole erigere un muro".
Richard Gere fa il buonista sull'Open Arms. Ma Umberto Smaila non condivide. Umberto Smaila, uno dei volti più noti dello spettacolo Made in Italy, è sceso in campo su Twitter per dire la sua sulla presenza di Richard Gere a bordo della nave Open Arms. Ma il web non ha gradito e da sinistra arriva una pioggia di critiche. Mariangela Garofano, Lunedì 12/08/2019, su Il Giornale. In questi giorni d’agosto, dopo che Richard Gere è salito sulla ong Open Arms a largo di Lampedusa per solidarietà ai migranti, in molti hanno detto la loro in merito. Uno di questi è stato Umberto Smaila, che ha affidato a Twitter le sue perplessità sulla presenza dell’attore di Hollywood a bordo della nave: "Non capisco perché Richard #Gere americano doc, non vada ai confini col Messico ad aiutare i migranti ad espatriare, è un problema molto più grave ed impellente per i suoi connazionali!”. Come era ovvio, il tweet ha scatenato l’ira degli utenti di sinistra, che non lo hanno risparmiato da commenti al vetriolo. “Eccoci... dopo Jerry Calà un altro gatto in cerca di miracoli... un altro intellettuale di spessore ha detto la sua minchiata”, “Prima Jerry Cala, adesso Umberto Smaila... preparatevi al revival delle Pantegane della Viuzza ripescati per la prossima stagione Rai”, "Classico post da capra ignorante seguace del #SalviniTraditore". Non è la prima volta che il conduttore di "Colpo Grosso" fa sentire la sua voce riguardo alla politica italiana. Nei giorni scorsi si è schierato a fianco di Jerry Calà, dopo che l’attore aveva dichiarato durante un’intervista a Paolo Giordano de Il Giornale di essere assente dal cinema italiano “forse perché non odoro di sinistra e non invoglio i registi”. Anche in quell'occasione per il re della Capannina di Forte dei Marmi, era arrivata la gogna mediatica dei più radicali dei social, che lo avevano criticato per le sue parole. Ma nonostante i commenti negativi, in molti hanno invece difeso Smaila, commentando a favore dello showman veronese. "Si vede che il suo gadget nel Mediterraneo è più alto che al confine col Messico", scrive un utente, a cui segue un altro che si complimenta con lui: "Bravo Umberto". "Umbertone nazionale" e gli altri Gatti torneranno ancora una volta insieme nel film di Jerry Calà "Odissea nell'ospizio", in onda in autunno su Chili Tv.
“Open Arms” come il red carpet. Sfila anche Javier Bardem: “Accogliete i migranti”. Davide Ventola lunedì 12 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. Dall’Isola dei pirati dei Caraibi alle isole dei migranti del Mediterraneo. Prima Richard Gere, poi Antonio Banderas, ora Javier Bardem: cresce la solidarietà da parte delle ricche star di Hollywood per la nave Open Arms. In un videomessaggio pubblicato sulla pagina Facebook della ong spagnola, il premio Oscar spagnolo si unisce alle tante voci che chiedono di trovare al più presto una soluzione per gli attuali 151 migranti soccorsi a largo della Libia. «Faccio questo video – dice l’attore sposato con Penelope Cruz – per unirmi in maniera pubblica alla richiesta mossa da più parti al nostro presidente Pedro Sanchez che guidi come Spagna, paese di origine della Ong Open Arms, la distribuzione dei migranti a bordo nei diversi Paesi dell’Unione europea. Perché crediamo sia necessario che un Paese membro dell’Europa debba coordinare questo processo e riteniamo – ribadisce – che la Spagna sia la più adatta, perché è il Paese di origine della Ong». Open Arms, secondo l’attore, «sta facendo un lavoro straordinario e necessario per la dignità umana e per salvare la vita di persone che scappano da situazioni che noi non possiamo neanche immaginare, con l’unico obiettivo di dare un futuro ai propri figli e alle proprie famiglie. A loro va tutto il mio appoggio».
Vecchioni canta «Bella Ciao» a Ovindoli, il sindaco: «Si vergogni». Pubblicato lunedì, 12 agosto 2019 su Corriere.it. Sarebbe dovuto essere un concerto estivo come tanti, divertente e rilassante, ma quello di Roberto Vecchioni a Ovindoli si è trasformato in un caso. Sabato sera il cantautore milanese era nella città abruzzese per una performance organizzata dal comitato feste e inserito all’interno della programmazione estiva dei festeggiamenti dei Santi Patroni. Dopo aver proposto i suoi grandi successi però Vecchioni ha intonato Bella Ciao dividendo il pubblico e soprattutto il dissenso del sindaco di Ovindoli, Simone Angelosante. Esponente della Lega e consigliere regionale, Angelosante ha definito l’incursione di Vecchioni «di cattivo gusto» ed è andato oltre. «Roberto Vecchioni è stato lautamente pagato dagli Ovindolesi tramite il comitato feste (che ha lavorato benissimo e ringrazio) per venire a fare il suo spettacolo musicale», ha scritto il primo cittadino su Facebook, «Da buon comunista radical chic ha però pensato bene di fare un comizietto elettorale pro invasione di bassissimo profilo. È stato giustamente contestato dalla piazza. È come se un medico nel curare un malato gli facesse un comizio. Ha dimostrato di avere professionalità zero». E il messaggio si chiude con un «Vecchioni vergognati» scritto tutto in maiuscolo.
Vecchioni canta Bella ciao e fa comizio pro migranti (ma il pubblico lo fischia). In diversi non hanno apprezzato il fuori programma del cantautore ed è scoppiata la polemica. Il primo cittadino di Ovindoli: "Dovrebbe astenersi dal fare propaganda politica di basso livello". Aurora Vigne, Lunedì 12/08/2019, su Il Giornale. Prima l'intervento pro migranti, e poi la canzone "Bella ciao". Ma sono stati diversi a non apprezzare il fuori programma del cantautore Roberto Vecchioni e al concerto è scoppiata la polemica. È successo sabato 10 agosto, in piazza San Rocco a Ovindoli. Come riporta Il Centro, il concerto di sabato è una tappa di "Infinito Tour", che il cantautore sta tenendo nelle principali piazze italiane. Ma questa volta qualcosa è andato storto e anche tra i fan più accaniti c'è chi non ha apprezzato per niente il comizietto stile campagna elettorale di Vecchioni (che non è di certo cosa nuova). Oltre agli applausi, infatti, non sono mancati i fischi. In primo piano c'è quello del primo cittadino leghista, Simone Angelosante, che parla di un'iniziativa di "cattivo gusto". Il sindaco e consigliere regionale sottolinea che il cantante "dovrebbe astenersi dal fare propaganda politica di basso livello". "Anche perché - aggiunge - è stato molto criticato da una parte del pubblico tanto che io sono stato sommerso da messaggi". E poi conclude: "Chiunque può fare tutte le campagne elettorali che vuole, può fare tutti i commenti che vuole, ma deve dire che sta facendo campagna elettorale e che sta facendo comizi. Se invece viene per un concerto, si fa pagare – perché è stato ben pagato non dal Comune ma da un comitato – e fa campagna elettorale, vuol dire che ne va della sua professionalità". Le reazioni non hanno tardato ad arrivare e la deputata dem Stefania Pezzopane parla di "delirio di onnipotenza" della Lega che secondo lei arriva a censurare i concerti. In che modo lo avrebbe fatto? Verrebbe da chiedersi. Ma andiamo avanti. Pezzopane poi afferma che "Vecchioni è un artista e come tale parla a tutti". E poi conclude rincarando la dose: "Evidentemente gli esponenti della Lega hanno travalicato il senso del ridicolo, ma finiranno in tragedia".
Vecchioni fa un comizio pro migranti e canta ”Bella ciao”. Il web: «Vai alla festa dell’Unità». Alberto Consoli lunedì 12 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. Scoppia il putiferio ad Ovindoli sulla performance di Roberto Vecchioni. Prima l’intervento pro migranti, poi la canzone “Bella ciao” hanno innescato un cortocircuito che non è piaciuto al pubblico e non solo. Come riportato da il quotidiano locale Il Centro, la tappa di “Infinito Tour” che il cantautore sta tenendo nelle principali piazze italiane è finita male e anche tra i fan di Vecchioni la morale pro migranti, stile campagna elettorale, non è stata presa bene. Oltre agli applausi, infatti, non sono mancati i fischi.
Il sindaco: «Vecchioni fa campagna elettorale». A stigmatizzare il comizietto improvvisato dal cantautore è stato anzitutto il sindaco leghista, Simone Angelosante, che parla di un’iniziativa di “cattivo gusto”. Vecchioni «dovrebbe astenersi dal fare propaganda politica di basso livello. Anche perché – aggiunge – è stato molto criticato da una parte del pubblico tanto che io sono stato sommerso da messaggi». «Chiunque può fare tutte le campagne elettorali che vuole, può fare tutti i commenti che vuole, ma deve dire che sta facendo campagna elettorale e che sta facendo comizi. Se invece viene per un concerto, si fa pagare – perché è stato ben pagato non dal Comune ma da un comitato – e fa campagna elettorale, vuol dire che ne va della sua professionalità».
Quando Vecchioni esaltò Carola Rackete. Scoppia il caso politico. Si fionda la deputata dem Stefania Pezzopane che parla di “delirio di onnipotenza” della Lega che secondo lei arriva a censurare i concerti. Ma sul profilo Fb di Vecchioni anche tra i suoi fan non mancano le critiche corrosive di chi distingue il concerto da un comizio: “ Ridicolo….. vecchio nostalgico comunista, si mette a cantare “bella ciao” alle feste di paese, una delusione tremenda ad Ovindoli il 10/08/2019. Se vuole trasformare un concerto in un comizio, andasse alle feste dell’unità….”. Uno va ad ascoltare le canzoni non una campagna elettorale…”, scrive un altro deluso. “Lo facevo più intelligente…”, scrive un altro. Non è la prima volta che Vecchioni veicola concetti urticanti alla maggior parte delle persone su temi sensibili. Come quando paragonò Carola Rackete – che oggi confessa il retroscena politico della sua manovra – ad Antigone. Fu uo studente a scrivere una lettera e a “bacchettare” il professore.
"Sei m...", "Ascolto altro" Lorenzo Fragola insulta, Salvini risponde a tono. Il cantante contro Salvini: "M...". E il ministro replica: "Canta che ti passa". Fragola insiste: "Come dj sei forte..." Chiara Sarra, Lunedì 12/08/2019 su Il Giornale. Un tweet laconico per insultare il ministro dell'Interno e leader della Lega. Il "cinguettio" è di Lorenzo Fragola, che tra una foto al mare, un retweet su un gattino smarrito e uno sul prossimo Sanremo, non manca di dire la sua sulla politica nazionale. E lo fa con due parole: "Salvini merda", scrive il cantante che nel 2014 vinse l'ottava stagione di X Factor. Due parole che hanno suscitato l'immediata reazione di Matteo Salvini: "Non piaccio al signor Fragola? Amen", ha replicato il vicepremier leghista, "Mi consolerò ascoltando altra musica". Poi ha aggiunto un post scriptum: "Lorenzo, canta che ti passa".
Ora Carola non ha più freni: "Porterei altri migranti in Italia". La capitana della Sea Watch querela e attacca Salvini: "Pericoloso e razzista". E poi invita alla disobbedienza civile. Domenico Ferrara, Venerdì 05/07/2019, su Il Giornale. Lo Spiegel la mette in copertina titolando "Capitano Europa". Repubblica la intervista in esclusiva spiegando "che cammina nella cucina a piedi scalzi" e "che indossa un vestito finalmente colorato". Al Guardian lei dice che rifarebbe tutto, attacca naturalmente Salvini e con malcelata modestia invita a non chiamarla eroina. Benvenuti nel teatro mediatico dell'assurdo, proscenio di un elogio spropositato a Carola Rackete, comandante della Sea Watch, a oggi indagata per il reato di resistenza a pubblico ufficiale e per resistenza o violenza contro nave da guerra previsto dall'articolo 1100 del Codice della navigazione. La 31enne tedesca, che ha violato l'alt delle forze dell'ordine, che ha urtato un mezzo della Finanza, che ha disobbedito a una legge italiana, che è rimasta per due settimane ferma in mare snobbando scientemente il porto di Tripoli, quello di Tunisi e puntando verso Lampedusa, che ha aperto un precedente molto pericoloso per le azioni di navi di ong che non fanno soccorso ma recupero di migranti a ridosso delle acque libiche, lei è la nuova icona del buonismo mondiale. Ancora meglio se attacca e querela un ministro della Repubblica Italiana. Non plus ultra, se quel ministro si chiama Salvini. Per cui, fiato alle trombe. "Il suo modo di esprimersi non è rispettoso"; "Per un politico di alto livello non è appropriato"; "Salvini viola i diritti umani" (queste le dichiarazioni rese allo Spiegel). "Il tono che usa, e il modo con cui esprime le sue idee, è pericoloso", afferma invece a Repubblica, sciorinando l'equazione che piace tanto alla sinistra: la destra riporta alla luce il nazismo. E ancora: "La nostra politica è niente razzisti a bordo", quindi Salvini è un razzista. E poi, dulcis in fundo, l'istigazione all'emulazione: "Se in futuro dovessi recuperare dei naufraghi ancora una volta nella zona Search and Rescue libica, li porterò in Italia. Perché Lampedusa è il porto sicuro più vicino, lo dicono le leggi del mare”. Punto. Le coordinate non contano, le miglia nemmeno, gli altri Stati figuriamoci, recuperare i migranti contempla solo una conseguenza: portarli in Italia. È la reazione pavloviana delle regine dell'accoglienza. In barba a ogni altra regola. Sì, ma l'ordinanza del gip non ha convalidato l'arresto, potrebbe obiettare qualcuno. Vero, anche se ex magistrati e addetti ai lavori hanno su diversi quotidiani già smontato la tesi che sta alla base di quell'ordinanza. Ma non importa. Quello che conta qui è che il messaggio è passato: Carola Rackete non ha commesso alcun reato. Carola Rackete ha salvato vite umane. Carola Rackete ha potuto disobbedire all'alt, urtare la nave della Finanza, violare le leggi nazionali perché ha salvato vite umane. Carola Rackete però è ancora indagata per quello che ha fatto. Ma comunque andrà a finire, per la sinistra sarà sempre un'eroina o una martire. E ci sarà sempre una nuova Carola pronta a recuperare dei migranti e a portarli nel nostro Paese per assurgere ancora una volta a eroina o a martire.
Sea Watch 3, Carola Rackete e la vergogna sulla GdF: per lei ha deciso di farsi travolgere in mare. Libero Quotidiano il 8 Luglio 2019. Eccola - ancora - qui, l'eroina della sinistra pro-immigrazione, Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3 sfuggita agli arresti per gentile concessione della magistratura. Un'intervista alla Rackete è stata trasmessa da Agorà, su Rai 3. Si torna ovviamente a parlare dei giorni caldissimi del braccio di ferro tra Sea Watch 3 e il governo italiano. E, soprattutto, si torna a parlare della notte in cui in barba alle nostre leggi la ong ha scelto di sfondare il blocco navale. "Dopo che abbiamo capito che Salvini voleva ri-bloccare la soluzione che era in fase di sviluppo e che ci aspettava un'altra notte orribile come quella che avevamo trascorso per motivi di sicurezza, sia per i migranti sia per l'equipaggio, era chiaro che avremmo dovuto entrare nel porto", afferma la Rackete. E già qualcosa non torna: secondo lei, insomma, sarebbe stato Matteo Salvini a "spingerli" ad entrare. "Era chiaro". Insomma, era l'unica soluzione possibile (secondo lei). Ma non è finita, perché Carola aggiunge: "Abbiamo girato la barca, perché per attraccare era necessario andare in retromarcia. A quel punto ho visto che l'imbarcazione della Guardia di Finanza che aveva navigato di fianco e davanti a noi si era posizionata esattamente al centro del molo, per impedire che noi potessimo attraccare. Lo ho trovato molto frustrante perché fino a quel momento le autorità che erano state anche a bordo, a livello personale amichevoli, dicevano che potevano capire il nostro problema ma che non potevano fare nulla". Probabilmente, la Rackete lo ha trovato talmente frustrante da decidere di speronare, come poi avvenuto, quella motovedetta. E, almeno stando alle parole della Rackete, sembra quasi che la GdF si fosse messa al centro del molo quasi per farsi speronare, e non come è avvenuto per impedire l'attracco illegale di una nave illegale. Frasi, quelle della comandante di Sea Watch 3, che lasciano basiti. Così come stupisce la chiusa: "Mi ha sorpreso come la cosa sia stata gestita sul personale: si è trattato della mia persona, questo lo capisco meno". Forse, per capirlo, bastava riflettere sul fatto che fosse la comandante di una nave che ha infranto le leggi italiane, provocato governo e istituzioni, speronato motovedette della Guardia di Finanza.
I dubbi (tutti tedeschi) sul cognome di Carola. Pubblicato lunedì, 08 luglio 2019 da Elena Tebano su Corriere.it. Di tutte le domande possibili sulla comandante della Sea Watch (meglio conosciuta come la «capitana») Carola Rackete, l’edizione domenicale della Faz si pone la più inaspettata: da dove arriva il suo cognome? Che confonde i tedeschi, perché si pronuncia in modo simile a «Rakete» («razzo), cioè con l’accento sulla «a», e non come si pronuncerebbe «Rackette» (ovvero con l’accento sulla prima «e»). La pronuncia di un cognome, d’altronde, spiega il professore di Onomastica dell’Università di Lipsia Jürgen Udolph, dipende interamente dalla scelta della famiglia che lo porta. Rimane l’incognita del significato: se Müller (uno dei cognomi più diffusi in Germania) significa «colui che macina la farina», allora Rackete significa — si chiede il quotidiano ironizzando sulla portata delle azioni della comandante — «colei che esplode come un razzo»? Per niente: la prima traccia del cognome risale, come ha raccontato anche il padre di Carola, al 1632, quando i razzi non esistevano. La verità è che Rackete arriva dalla zona a Nord di Breslavia, in Polonia, ed è la germanizzazione di un cognome locale , come attestano documenti prussiani del 1833: deriva da «Rokete». «Quando sentiamo una parola da una lingua straniera, la adattiamo inconsciamente alle parole della nostra lingua» spiega Udolph. In Polonia, esistono anche le varianti Rokieta e Rokita. Quest’ultima è la parola polacca per «salice». Rackete quindi, coi razzi non c’entra niente: sarebbe piuttosto sinonimo di cognomi tedeschi come «Weidenmann» o «Weidner». Il salice, notoriamente, non esplode. Piuttosto, anche se si piega, non si spezza.
Carola Rackete dimostra che l'Italia è il mondo alla rovescia: chi non paga mai. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 7 Luglio 2019. Urge una bussola, siamo allo sbando. Solo i profughi e le navi delle Ong che vanno a prenderli fino in Libia sembrano non avere difficoltà a trovare la rotta di questo Paese dove nulla torna. Fino all' anno scorso avevamo la crescita senza occupazione, ora la crescita non c' è più ma è aumentato il numero di chi lavora; per di più, grazie al reddito di cittadinanza, sono aumentati coloro che prendono lo stipendio senza lavorare, mentre è stabile ma alta la quantità di persone che riceve la pensione senza aver versato neanche i contributi. Un sondaggio di Pagnoncelli poi, curiosamente nascosto all' interno e in basso sul Corriere della Sera, che normalmente dà ben altra collocazione alle indagini Ipsos, ci dice che il 60% degli italiani è d' accordo con la scelta del ministro Salvini di non far sbarcare i migranti, mentre la Carola è sostenuta da un più modesto 25%. In più si apprende anche che le gesta della capitana hanno fatto precipitare la fiducia dei cittadini nelle Ong: il 56% ritiene che esse agiscano per scopi economici e solo il 22% le considera mosse da intenti umanitari. Cionondimeno, assistiamo sui grandi giornali e nei dibattiti tv a un tentativo (maldestro e malriuscito ancorché martellante) di santificare la volontaria tedesca e screditare il ministro italiano. La contraddizione che ci rovina più la giornata, però, è quella delle diverse sorti di due idoli della sinistra, la succitata capitana Carola Rackete e il sindaco di Milano, Beppe Sala. Entrambi hanno guai con la giustizia. La prima per aver investito una nave militare italiana dopo aver violato le leggi sull' immigrazione del nostro Paese e ignorato sentenze e altolà che le chiedevano di non sbarcare i profughi dalla Sea Watch senza esserne autorizzata. Il secondo per aver retrodatato due nomine necessarie a far partire l' Expo, manifestazione che l' allora commissario ha preso in carico quand' era molto in ritardo ma che è riuscito a portare a uno straordinario successo, del quale il capoluogo lombardo raccoglie ancora copiosi frutti. Ebbene, la capitana è libera malgrado la maggioranza degli italiani la sogni in cella e nonostante il pm Patronaggio, non certo un filo leghista, visto che fu proprio lui a incriminare Salvini per sequestro di persona nella vicenda dei profughi della Diciotti, abbia giudicato la sua manovra violenta e non giustificata da stato di necessità. Ci dà lezioni, annuncia querela a Salvini, straparla di sé e rivendica il misfatto: «Rifarei tutto». Il sindaco invece è stato condannato a sei mesi di carcere, riconvertiti in 45mila euro di multa, malgrado il giudice gli abbia riconosciuto di aver agito per motivi di alto valore morale e sociale e la sua azione sia stata decisiva per trasformare l' Expo da annunciata figuraccia planetaria a gallina dalle uova d' oro. Una sentenza che grida vendetta e che ha reso possibile ciò che fino a due giorni fa era inimmaginabile: Salvini che si schiera con il Pd, stringe la mano a Sala e lo ringrazia per il suo operato. Come prevedibile, le due stravaganti decisioni della magistratura hanno già prodotto i loro effetti perversi. Così il leader leghista può ben dire che sono i fatti come la condanna di Sala che spiegano perché in Italia è così difficile trovare qualcuno di decente da candidare. Entrare in politica significa infatti assicurarsi un avviso di garanzia, se non una condanna, al punto che ormai sarebbe più corretto sospettare degli amministratori che non sono mai stati indagati e ritenere onesto e competente chi invece è stato iscritto nel fatal registro. Due sole sono, infatti, le possibilità per non avere guai con la giustizia: non fare nulla oppure godere di solide protezioni. Viceversa chi si adopera per la collettività e non è in combutta con nessuno, è destinato a essere incriminato. Quanto al capitolo immigrati, la scarcerazione di Carola ha scatenato la corsa delle Ong a raccattare profughi per portarli in Italia. È una missione politica, non umanitaria. Tant' è che la prima imbarcazione approdata a Lampedusa, quella che ha vinto la gara, è quella di Casarini, capitanata nientemeno che da un parlamentare di Sinistra Italiana. Trattasi di un veliero che non sfigurerebbe nel parco natanti degli Agnelli-Elkann e al quale Malta aveva aperto i porti. Ma i naviganti comunisti hanno preferito l' Italia, benché più lontana, e appena giunti nelle nostre acque nazionali hanno invocato lo stato di necessità sostenendo che a bordo sono tutti stipati e manca l' acqua, peraltro offerta dal governo nella misura di 400 litri e puntualmente rifiutata. Ormai i profughi sono i proiettili di una battaglia politica, sparati in sequenza dalle Ong contro Salvini e con il sostegno di una parte ideologizzata della magistratura. La situazione è tragica ma ha risvolti comici. I tedeschi si sono messi a darci lezioni di umanità e a spiegarci come si trattano le altre razze. Carola dice di non sentirsi tedesca bensì europea, però vuol stare ovunque, perfino in Australia, tranne che in Europa, non parla di ripartizione dei profughi tra gli Stati Ue e sta ingaggiando contro l' Italia una battaglia politica di una violenza che neppure il suo concittadino Schauble, ex terribile ministro delle Finanze della Merkel, era stato capace. E continuiamo a chiamare naufraghi persone che preleviamo in tutta sicurezza, probabilmente previa segnalazione telefonica da parte degli scafisti, nel mare libico per portarle in barca a vela qui. Pietro Senaldi
Anche Minniti sta con Carola: "Ha fatto solo ciò che doveva". L'ex ministro Pd difende la capitana della Sea Watch. E se la prende Salvini: "Inaccettabili gli attacchi alla magistratura". Alla sinistra: "Il compagno Minniti è vivo e lotta insieme a noi". Chiara Sarra, Giovedì 04/07/2019, su Il Giornale. "Carola Rackete, da comandante di una nave che svolge una funzione umanitaria, ha fatto quel che voleva e che doveva fare". Pure Marco Minniti ora difende la capitana della Sea Watch che ha forzato il blocco per far sbarcare a Lampedusa i 40 migranti che aveva a bordo. "Io credo che chi non abbia fatto il proprio dovere siano stati il governo italiano e l'Europa. Perché una questione che riguarda 42 migranti la si risolve in 5 minuti", accusa l'ex ministro e deputato Pd, "A me la retorica dei capitani non mi piace. Ogni volta che i capitani hanno guidato la storia non è finita molto bene". Il riferimento è a Matteo Salvini, che poi attacca apertamente per le critiche alla magistratura: "È inaccettabile, soprattutto perché è il ministro dell'Interno", dice a Omnibus, "Sono preoccupato. Poche ore prima aveva detto finalmente c'è un giudice. Dopo pochissime ore quel giudice non c'è più. Non si può fare che la giustizia funziona solo fa comodo. Ci vuole rispetto per l'autonomia dei magistrati". Poi si rivolge ai suoi colleghi di partito e alla sinistra tutta: "Il compagno Minniti è vivo e lotta insieme a noi. Lo dico anche a Fratoianni", dice, "Vorrei ricordare che i trattati politici tra Italia e Libia sono ancora in vigore, nessuno li ha cancellati. In Libia è in corso una drammatica guerra civile e si vuole affrontare il tema dei corridoi umanitari e dei rimpatri, se si vogliono svuotare i centri di permanenza in Libia, quella cornice normativa è utilissima".
Con Prodi nessuno pianse le stragi. Tony Damascelli Sabato 06/07/2019, su Il Giornale. Sappiamo tutti dove sia oggi Prodi Romano. Sappiamo anche dove si trovi Napolitano Giorgio. E con loro Dini Lamberto o D'Alema Massimo. Ma dove i suddetti si trovassero, nell'anno millenovecentonovantasette, giorno venerdì ventotto, del mese di marzo, quando un barcone che avrebbe potuto ospitare al massimo 9 persone, venne stracaricato di centoquarantadue migranti albanesi, in fuga da un regime ai limiti della rivoluzione, con la chiusura dello scalo di Tirana e i porti di Durazzo, Valona e Saranda, dove fossero, dunque i vari Prodi, Napolitano, Dini e altri regnanti, pochi lo sanno e rari lo ricordano. L'insieme di legnami fradici detta barca, venne speronato e affondato dalla corvetta Sibilla, nel mare davanti a Otranto. Lo scafo portava un nome difficile da pronunciarsi: Kater I Rades (Quattro della Rada, motosilurante), il capitano di quell'imbarcazione, rubata al porto di Santi Quaranta, era tale Namik Xhaferi, un uomo, non era tedesco, non era ricco ma un albanese avventuriero e filibustiere che andò contro e oltre il blocco navale e la sua sfida costò la vita a ottantatré persone, donne, uomini, infanti, travolti dal naufragio. Dopo aver ignorato l'alt della fregata Zeffiro, Namik Xhaferi si trovò a fare i conti con la Sibilla che tirò diritto, nel buio della sera. Il capitano albanese finì agli arresti, fu giudicato, condannato a quattro anni, poi ridotti a tre e dieci mesi e infine a tre e sei mesi e così pure passò in tribunale il capitano delle Sibilla, Fabrizio Laudadio, che si beccò la metà degli anni rispetto all'albanese. Prodi Romano era il primo ministro di un governo sicuramente razzista, xenofobo e fascista, che aveva iscritto al ruolo di ministro dell'Interno, ante Salvini natum, Napolitano Giorgio, in seguito nominato capo dello Stato e al foreign office, detto così perchè occupato da Dini Lambertow. Non si sa esattamente che ruolo svolgessero al tempo i vari Del Rio-Orfini-Fratoianni, comunque assenti all'appello di radio e tivvù, come i governanti appena citati, nei giorni successivi al tragico evento. Non si segnalarono passerelle a bordo, denunce in Parlamento, querele nei confronti dei ministri, raccolta di denari per aiutare il povero Xhaferi. No. Non si ha notizia, negli archivi e nella memoria, di scritte sui muri contro il Prodi o il Napolitano e nemmeno talk show per smascherare colpe. Finì tutto in mare, nella vergogna, nella miseria straziante e straziata di corpi senza vita e di figure che, invece, continuarono il loro impegno xenofobo, fascista e razzista, i porti erano aperti ma fregate e corvette pronte all'arrembaggio e allo speronamento. In verità la difesa del capitano Laudadio precisò che si era trattato di manovra al buio e non di atto delittuoso e doloso. Era, comunque, un'Italia diversa, erano uomini, quelli al governo del centrosinistra, finalmente duri e puri, l'opposizione provò a fare qualche rumore, la comunità internazionale si agitò lo spazio di un mattino. Per gli amanti delle commedie all'italiana, riporto, di seguito, una profonda e sentita dichiarazione, all'epoca, del nostro presidente del Consiglio, Prodi Romano: «La sorveglianza dell'immigrazione clandestina, attuata anche in mare, rientra nella doverosa tutela della nostra sicurezza».
Rackete delira: "L'Ue si prenda i 500 mila profughi tenuti in Libia". In un'intervista alla Bild, la comandante della Sea Watch 3 fa un appello all'Unione europea perché accolga "il mezzo milione di persone tenute in Libia", compresi i rifugiati climatici". Matteo Salvini: "Siamo alle comiche". Gianni Carotenuto, Lunedì 15/07/2019, su Il Giornale. Carola Rackete, la capitana della Sea Watch 3 indagata per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e violazione del codice della navigazione, non sembra troppo preoccupata dai suoi guai con la giustizia italiana. E in un'intervista alla Bild, fa capire quale sia la sua vera priorità: l'accoglienza che l'Unione europea dovrebbe garantire ai 500 mila immigrati reclusi nelle carceri libiche. Mezzo milione di persone a cui, secondo la 31enne comandante tedesca, dovrebbe essere l'Europa a dare un futuro. "I migranti che si trovano in Libia devono immediatamente essere trasferiti in un Paese sicuro. Ci sono mezzo milione di persone nelle mani dei contrabbandieri o nei campi profughi della Libia. Dobbiamo farli uscire" dalla Libia, ha detto Carola, sostenendo che debbano "essere immediatamente aiutati per avere un passaggio sicuro verso l'Europa". La stessa Europa che negli ultimi anni ha spesso negato il suo supporto ai Paesi dell'area mediterranea nell'accoglienza dei migranti provenienti dal continente africano. Sempre troppo pochi per la comandante della Sea Watch 3, che ha definito "in parte assurdo" il dibattito sui numeri di rifugiati in Europa. "Il numero di persone che abbiamo preso è ancora basso rispetto a quelle accolte in Libano, Giordania o in altri paesi africani. L'Ue, secondo Rackete, ha una "responsabilità storica di accettare i rifugiati che non possano più vivere nei loro Paesi". E ciò non vale solo per i 500 mila "ospiti" delle carceri e dei campi profughi della Libia. Ma anche per quelli che la capitana definisce "rifugiati climatici". "Il collasso del sistema climatico porterà a rifugiati dei cambiamenti climatici, che ovviamente dobbiamo assorbire - ha detto -. In alcuni Paesi africani la fornitura di alimenti di base è stata distrutta dai paesi industrializzati in Europa. Arriveremo a un punto in cui vi sarà una migrazione forzata da circostanze esterne come il clima. E non avremo scelta, non possiamo semplicemente dire che non vogliamo le persone". L'ennesima predica sull'accoglienza così commentata su Twitter dal ministro dell'Interno, Matteo Salvini: "Secondo la nuova eroina della sinistra, 'Salvini deve cancellare i suoi post e dobbiamo accogliere anche i rifugiati climatici'. Siamo alle comiche". E proprio Salvini è stato oggetto di precise e pesanti accuse da parte di Carola. "Io penso che non sia possibile sopportare tutto. Salvini ha diffuso falsità, io voglio che le sue menzogne siano cancellate da Facebook e Twitter. E che un giudice gli ordini: non farlo più" le parole della capitana, attesa il 18 luglio dal primo interrogatorio in procura nell'ambito delle indagini a suo carico per lo sbarco a Lampedusa del carico di migranti della Sea Watch 3, lo scorso 29 giugno.
Antonio Socci e le "frontiere aperte" dell'Espresso. Caos migranti, cosa c'è dietro il buonismo di sinistra. Libero Quotidiano il 15 Luglio 2019. "L'Espresso", il magazine di De Benedetti, distribuito con "La Repubblica", ha avuto un'ideona. Una pensata così geniale e risolutiva che ci si chiede perché mai - nella storia dell'umanità - non si sia escogitata prima. Sta nella copertina dell' ultimo numero: «Le frontiere uccidono l'unica speranza è un mondo libero dai confini». Non è meraviglioso? Non vi pare la pensata del secolo o addirittura del millennio? A ispirare questa geniale copertina è l'antropologo Michel Agier, intervistato dal settimanale (il titolo della conversazione è: «L'unica speranza per il mondo è liberare i confini»). Agier è l' autore del libro La Giungla di Calais, uno studio di quell'immensa distesa di tende e baracche che si è formata, davanti al Canale della Manica, sulla costa francese, dove nel 2016 vivevano più di 10 mila migranti. Questo intellettuale - dall'astrazione ideologica facile - sostiene «la libera circolazione delle persone», «l'ospitalità come regole giuridica» e afferma che «se oggi (le frontiere) fossero aperte avremmo una situazione molto più pacifica». E "L'Espresso" sposa questa surreale utopia facendo la copertina che si è visto. Basta rifletterci un attimo per capire cosa accadrebbe. Lo Stato d'Israele, per esempio, sparirebbe, circondato com'è dall'odio arabo e dall'estremismo islamico (tanto è vero che in questi anni, per proteggersi, ha dovuto erigere un formidabile muro in Cisgiordania). Ma la stessa cosa vale per l'Italia e per l'Europa. Basti considerare l'afflusso irregolare di centinaia di migliaia di persone degli ultimi anni: se abbattessimo davvero le frontiere e fosse possibile emigrare liberamente, a proprio arbitrio, l'Italia diventerebbe la banchina di sbarco di milioni di persone solo dall'Africa (continente di un miliardo e 200 milioni di abitanti). Con effetti devastanti non solo per l'Italia e l'Europa, ma anche per l'Africa stessa. Sarebbe il caos. La stessa cosa si può facilmente immaginare per gli Stati Uniti. Non si capisce, del resto, per quale motivo si dovrebbero abbattere le frontiere spazzando via, così, gli Stati e anche i popoli stessi con le loro identità. Agier accenna ai morti nel Mediterraneo in questi anni di immigrazione irregolare. Tuttavia nessuno ha ancora risposto al ministro dell' Interno Salvini il quale, citando i dati dell' Unhcr, ha mostrato il crollo del numero di vittime da quando si è fatta una politica di blocco delle partenze. D' altronde è facile immaginare che un sommovimento gigantesco di milioni di persone verso l' Europa, da Africa e Asia, sarebbe tanto traumatico da provocare reazioni, rivolte e guerre civili davvero tragiche per moltissimi anni.
REALISMO - Basta un minimo di realismo per rendersene conto. Ma certi intellettuali e certe aree politico-ideologiche sembrano vivere lontano dalla realtà. Ed è per questo che sia la sinistra immigrazionista che papa Bergoglio, eludono sempre la domanda: «quanti? Quanti immigrati vorreste far entrare prima di chiudere le frontiere?». Nel loro mondo immaginario c' è un Eden simile alla vecchia utopia ideologica degli anni Settanta a cui John Lennon dette voce col brano Imagine, del 1971, il quale rappresenta - come ha scritto Eugenio Capozzi nel libro Politicamente corretto - «l' inno ufficiale del pacifismo uno dei monumenti del catechismo politicamente corretto, ancora oggi imprescindibile collante emotivo e propagandistico». In quella canzonetta - tuttora celebrata - c' è già disegnato quell' Eden. Essa, osserva Capozzi, «elenca in maniera chiara quali sono i mali che bisognerebbe rimuovere per restaurare quella condizione: la religione trascendente e le Chiese ("no heaven", "No hell below us", "Above us only sky", "no religion"), le nazioni ("no countries", "Nothing to kill or die for"), la proprietà ("no possessions", "No need for greed or hunger"). In pratica, i fondamenti della modernità euro-occidentale. Con una intuizione fulminante, Lennon si sintonizzava sulla stessa lunghezza d' onda del dilagante ripudio dell' eredità dell' Occidente».
UTOPIE - Il cantante riprendeva «in pochi icastici versi tutta l' eredità delle utopie di liberazione, da Rousseau a Marx fino al terzomondismo e alla rivolta hippie: comunione dei beni, secolarizzazione integrale, sradicamento di ogni identità politica e culturale sono le chiavi per l' accesso (o meglio per il ritorno) a una naturale fratellanza».
L'esito della stagione hippy degli anni Settanta è nota ed è stato tutt' altro che paradisiaco. La sua perfetta caricatura si può trovare in Ruggero, il comico "figlio dei fiori" di Un sacco bello interpretato da Carlo Verdone, quello che si avventura nella campagna e vede che «un sacco di fiori si aprivano al mio passaggio» e «un sacco di uccelli scendevano dagli alberi per parlarmi». Con il santone che gli dice «Love, love love!», che passa la notte con lui «sotto questa frasca» e lo indirizza a «un grandissima casale bianco con una grandissima piscina dove un sacco di ragazzi di tutto il mondo stanno formando una grandissima comunità ragazzi un sacco simpatici, cileni rhodesiani, tedeschi inglesi tutta gente che aveva fatto un certo tipo di scelta: la scelta dell' amore». L'altra realizzazione, stavolta tragica, di quell' utopia "universalista" è stata il comunismo sovietico, con la guerra a tutte le identità nazionali e religiose (oltreché alla proprietà privata) e la deportazione di intere popolazioni nella prospettiva di un mondo tutto sovietizzato e - a quel punto - davvero "senza confini". Tutto profondo rosso. Senza altri colori. L'Urss non c'è più. Né gli hippy. Cambiano le ideologie e i tempi. Ma resta qualcosa di inquietante anche nelle nuove utopie ideologiche. Si ha la sensazione che dietro tutto questo "amore" per le migrazioni di massa - che viene proclamato anche negli alti organismi internazionali - si possa cogliere un' inconfessata ostilità per le nazioni e le identità, un' utopia "ecumenica" che porta all'appiattimento di ogni diversità e storia. Sarebbe un futuro inquietante, certamente tragico e non prospero. Antonio Socci
Immigrazione, le suore di clausura scrivono a Mattarella e Conte: "Pronte ad accogliere i migranti". Libero Quotidiano il 15 Luglio 2019. Ora le suore di clausura vogliono i migranti e girano la richiesta a niente di meno che il capo di Sato e il premier: "Egregio presidente Mattarella, egregio presidente Conte, siamo sorelle di alcuni monasteri di clarisse e carmelitane": non ci sono precedenti di suore di clausura (nonostante in Italia siano 62 in totale i monasteri) che abbiano scritto alle alte cariche dello Stato per prendere posizione e denunciare - come ricorda Il Corriere della Sera - i fatti di attualità. "Ai leader del mondo" di papa Francesco e dell'imam di Al-Azhar queste chiedono "che le istituzioni governative si facciano garanti della dignità" dei migranti e li "tutelino dal razzismo e da una mentalità che li considera solo un ostacolo al benessere nazionale". Così, precisano, molti monasteri si renderanno disponibili per l'accoglienza come già fanno molte Diocesi.
Dalla clausura ai porti aperti. Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 22/07/2019, su Il Giornale. Le suore di clausura, con una lettera aperta, hanno chiesto di spalancare porti, portoni e portoncini all'arrivo dei migranti. No, non è una barzelletta. Anche se gli elementi per una commedia degli equivoci e dei paradossi ci sarebbero tutti. Ma non è uno scherzo, è una delle tante inverosimili cronache estive sul dibattito che riguarda i migranti. Domenica 14 luglio Avvenire pubblica un accorato appello - firmato da numerosi gruppi di clarisse e carmelitane scalze - indirizzato al governo e al capo dello Stato. Il succo della lettera è semplice: torniamo umani, in giro c'è troppo razzismo, troppa discriminazione, non dimentichiamo le esigenze dei fratelli migranti, non chiudiamoci nelle nostre paure. E poi via con una filippica sull'esigenza di aprire le porte alla contaminazioni di altre culture e all'arrivo dei migranti. E qui, i maliziosi, potrebbero dire «da che pulpito viene la predica!» - per rimanere in tema religioso. Anche perché loro, le sorelle, vivono in conventi molto più chiusi dei salviniani porti, che poi alla fine, come dimostra Carola, sono in realtà apertissimi. Ma d'altronde fanno le suore e non sono mica le majorette del leader leghista, cos'altro avrebbero dovuto dire? Niente. Ma il quotidiano Avvenire - che ha rilanciato ieri la petizione con un editoriale - ha deciso di tirare la questione per la tonaca, montando una campagna stampa con tanto di raccolta firme tra le comunità religiose femminili e tam tam online. Anche perché - lascia sottintendere il quotidiano della Cei - dopo che Trump ha fatto arrestare i religiosi pro migranti negli Usa, non si sa mai cosa possa succedere in Italia. Da America First a Prima gli italiani il passo è breve... Una vera e propria chiamata alle armi contro il ministro dell'Interno e a favore degli sbarchi. E alla fine, anche le suore più mistiche e riflessive hanno rotto il silenzio del claustro e sono entrate nella bolgia del dibattito sguaiato pro e contro migranti. Come dicevamo all'inizio: non è una barzelletta. Purtroppo.
Omelia anti-migranti del parroco di Sora, è bufera. Pubblicato sabato, 17 agosto 2019 da Corriere.it. Un vespaio, sollevato da chi mai ci si sarebbe aspettati si scagliasse contro i migranti: un sacerdote. »Ma quali persecuzioni, quelli arrivano con catenine d’oro e cellulari» ha detto don Donato Piacentini ai suoi fedeli durante la Messa celebrata all’aperto per la festività di San Rocco, venerdì 16 agosto (nella foto, un fermo immagine dal video pubblicato da Fausta Insognata Dumano sul suo profilo Facebook). «Parole sante» per qualcuno.«Non è degno di servire Dio» hanno sottolineato altri, sorpresi dall’uscita del concittadino in abito talare. L’omelia ha diviso l’Italia. La linea di confine è tra chi approva il pensiero del parroco e il suo slancio verso «i poveri più vicini a noi», e chi lo condanna per aver dimenticato i valori della fede. In parecchi hanno promesso di disertare le sue funzioni. E c’è già chi ha scelto per lui l’etichetta di «prelato sovranista». Il video è rimbalzato sul web fino ad arrivare a monsignor Gerardo Antonazzo, vescovo di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo, che è intervenuto con un successivo discorso, richiamando proprio l’esempio sommo del Santo appena festeggiato: «Uno dei cardini fondamentali della vita di San Rocco — ha detto — è stata proprio la scelta evangelica: “Prima gli altri” era il suo insegnamento di vita, per amore di Cristo povero e sofferente». Ha ribadito così l’impegno cristiano che contempla l’accoglienza verso i migranti. La nota vescovile prende nettamente le distanze dal prelato: «La testimonianza di San Rocco incoraggia ancor più l’operato della nostra Chiesa, soprattutto attraverso la Caritas, sempre impegnata nell’accoglienza e nel servizio amorevole nei confronti delle antiche e nuove forme di povertà . Una dedizione rivolta in particolare agli immigrati giunti sul nostro territorio, in perfetta collaborazione con la Prefettura di Frosinone, le istituzioni civili locali, le associazioni di volontariato impegnate nel processo di integrazione. Scelta pastorale che non potrà mai cambiare, perché il cristiano obbedisce al Vangelo della Carità nei confronti di chiunque, senza distinzioni né esclusioni». Il messaggio è netto e circostanziato. Non ammette appello. Ma c’è già chi non esita ad alzare gli scudi per difendere il prete e la sua personale teoria delle braccia aperte. Intanto sul profilo Facebook del parroco spuntano i suoi interventi per rilanciare i post del ministro dell’Interno Matteo Salvini sull’immigrazione. Uno, di circa un anno fa, è indirizzato al profilo «Lega - Salvini Premier». Nel post il sacerdote chiede «se possibile avere un recapito cellulare personale» del leader del Carroccio per esprimere la sua «profonda solidarietà»: «Mai mollare!!!!».
Il prete anti-migranti: "Sbarcano con smartphone e catene d'oro". Durante le celebrazioni per il patrono San Rocco, il parroco di Sora (Frosinone) don Donato Piacentini ha detto che "non bisogna soccorrere le persone che hanno telefonini oppure catenine al collo. Guardiamo prima la nostra patria". Gianni Carotenuto, Sabato 17/08/2019, su Il Giornale. Nonostante i ripetuti spot pro-migranti di Papa Francesco, non tutti nella Chiesa la pensano come il pontefice.
Don Donato Piacentini. Al fronte anti-sovranista delle gerarchie ecclesiastiche non è iscritto il parroco di Sora (Frosinone), don Donato Piacentini. Convinto sostenitore di Matteo Salvini, come dimostrano i post pubblicati sul suo profilo Facebook, nella sua omelia di piazza durante le celebrazioni del patrono San Rocco il sacerdote ha preso posizione contro l'accoglienza predicata da una larga parte della Chiesa. "Non voglio essere polemico - ha detto don Piacentini - ma non bisogna andare a soccorrere sulle navi persone che hanno telefonino oppure catenine al collo e che dicono di venire dalle persecuzioni". Quindi l'appello a guardare ai problemi di casa nostra: "Guardiamoci intorno, guardiamo la nostra città, guardiamo la nostra patria", ha gridato dal pulpito il sacerdote, finendo per spaccare la piazza tra favorevoli e contrari. Nel video, che ha fatto in men che non si dica il giro del web, si sentono numerosi applausi ma anche qualche "buu" di protesta, ennesima conferma di come l'accoglienza sia tra i temi più divisivi fra i cattolici. La predica anti-clandestini di don Piacentini segue di poche ore l'omelia anti-Salvini del vescovo pro-tempore di Treviso, monsignor Gianfranco Agostino Gardin, che pur senza citare il ministro dell'Interno si era chiaramente riferito a Salvini affermando che "Qualcuno, in verità, anche ad alti livelli istituzionali, è solito ringraziare la Madonna, ma, a quanto pare, per ragioni che non sembrerebbero proprio trovare il consenso o la protezione della Vergine, almeno quella vera, quella che il Vangelo ci fa conoscere e riconoscere". Un approccio opposto a quello del parroco "sovranista" di Sora, che su Facebook non ha mai nascosto la sua stima nei confronti del segretario leghista. Il suo ultimo post, risalente al 6 agosto, è un fotomontaggio dove si vede Salvini tenere in mano un cartello con la scritta "se vuoi che continuo a fermare gli sbarchi condividi e scrivi fallo". Un messaggio che aveva suscitato commenti contrastanti, tra chi scriveva di pensarla come don Piacentini e chi invece gli dava del "povero mentecatto". Stessa cosa è successa per la sua ultima invettiva di piazza, che ha scatenato una feroce polemica a cui si è iscritto anche il consigliere pentastellato della regione Lazio, Loreto Marcelli, per il quale - come riporta Frosinone Today - "le parole di Don Donato Piacentini rappresentano una semplificazione del tema dell'immigrazione non accettabile considerato che sono pronunciate da un esponente della Chiesa e da una persona a cui non difetta l'intelligenza".
Treviso, vescovo critica Salvini durante l'omelia dell'Assunta. L'amministratore apostolico della diocesi di Treviso, cioè il vescovo pro tempore, ha punzecchiato Matteo Salvini durante l'omelia di ieri. Giuseppe Aloisi, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale. Non è costume degli ecclesiastici menzionare Matteo Salvini. Anche quando l'allusione al ministro degli Interni è sottintesa. Chi è, del resto, che "anche ad alti livelli istituzionali, è solito ringraziare la Madonna"? Il vertice del Carroccio è lo stesso esponente politico che, per monsignor Gianfranco Agostino Gardin, amministratore apostolico della diocesi di Treviso, quindi vescovo pro tempore salvo una conferma papale, non porterebbe avanti battaglie conciliabili con il cattolicesimo. Gardin, per l'esattezza, ha affermato quanto segue: "Qualcuno, in verità, anche ad alti livelli istituzionali, è solito ringraziare la Madonna, ma, a quanto pare, per ragioni che non sembrerebbero proprio trovare il consenso o la protezione della Vergine, almeno quella vera, quella che il Vangelo ci fa conoscere e riconoscere". Ieri, per la Chiesa cattolica, ricorreva la festa dell'Assunta. E il presule incaricato nel trevigiano ha deciso di affrontare anche questo tema nel corso dell'omelia, cioè della predica che viene pronunciata durante la messa. Secondo quanto riportato da la Sir, Gardin ha sottolineato pure come questo "ringraziare" finisca con il produrre "il disappunto o l’indignazione dei veri credenti". La visione del mondo di Maria, insomma, non corrisponde al pensiero e alle azioni del leader leghista. Questo, almeno, è il concetto espresso dal presule, che ha tuonato pure contro "che ignorano e addirittura schiacciano gli umili e i poveri". La punzecchiatura è abbastanza evidente: difficile avere dubbi su chi fosse il destinatario della riflessione sulla non compatibilità tra alcune istanze e la dottrina cattolica. Di certo c'è anche come Matteo Salvini occupi spesso spazio nelle considerazioni di certe consacrati.
Sora, l'omelia sovranista di don Donato durante la processione di San Rocco. Il parroco, dal pulpito, difende i diritti di anziani e disoccupati italiani. "Chi ha telefonini e catenine d'oro non conosce le persecuzioni. Pensiamo prima alla nostra Patria". La presa di distanza del vescovo Antonazzo. Angela Nicoletti il 17 agosto 2019 su Frosinone Today. Un'omelia che avrebbe dovuto essere incentrata sul dolore e che avrebbe dovuto essere un balsamo per una Sora ferita dalla perdita improvvisa, prematura e drammatica di una ragazzina, si è trasformata in un comizio politico. Monsignor Donato Piacentini, sacerdote responsabile della parrocchia di San Rocco, dal pulpito dopo la processione dedicata al Santo degli ammalati e dei bisognosi, ha chiosato "non sono sulle barche che trasportano persone che hanno telefonini o catena al collo e dice che vengono dalla persecuzioni. Ma quale persecuzioni? Guardiamoci intorno, guardiamo la nostra città, guardiamo la nostra Patria, guardiamo le persone che ci sono accanto, che hanno bisogno".
Le distanze di Marcelli. Parole che hanno strappato qualche applauso tra i fedeli presenti (a questo punto verrebbe da domandarsi che tipo di processione fosse visto che concetti come cristianità, umanità e sostegno verso il prossimo, sono stati seppelliti da parole farneticanti) ma tanto disappunto. In molti hanno abbandonato la cerimonia e sui social si è scatenata una vera guerra. A prendere le distanze anche alcuni politici presenti al momento della funzione, come il consigliere regionale del Movimento Cinque Stelle, Loreto Marcelli: "Il fenomeno migratorio è sicuramente complesso e ci costringe ad assumere decisioni particolarmente complicate. Il tema della capacità di assorbire i flussi migratori, dei limiti alla possibilità di accoglienza e quello della capacità di integrare i nuovi arrivati nelle nostre società sono questioni che interrogano in prima persona ogni decisore politico. Ciò premesso le parole di Don Donato Piacentini rappresentano una semplificazione del tema dell'immigrazione non accettabile considerato che sono pronunciate da un esponente della Chiesa e da una persona a cui non difetta l'intelligenza".
Il sostegno a Salvini. Che don Donato Piacentini avesse un'indole sovranista lo si evince dalla sua bacheca di Facebook. Non appelli alla fratellanza. Non dialogo con giovani e concittadini, ma messaggi ed inviti del leader della Lega a discriminare il prossimo. L'ultimo risale allo scorso 6 agosto quando Papa Francesco ha lanciato il nuovo messaggio di fratellanza e di richiesta di aiuto verso gli ultimi appena sbarcati a Lampedusa.
La contrarietà del Vescovo. Il vescovo Gerardo Antonazzo chiarisce la posizione della Chiesa diocesana. Nella ricorrenza della festa di San Rocco il vescovo mons. Gerardo Antonazzo ha celebrato l’eucarestia in piazza s. Rocco, in Sora, davanti ad una gremita assemblea di fedeli. Nell’omelia il pastore della Diocesi, attingendo alla ricchezza dei testi della Parola di Dio proclamata durante la liturgia, ha sottolineato come uno dei cardini fondamentali della vita di San Rocco è stata la scelta evangelica del “prima gli altri” per amore di Cristo povero e sofferente, presente negli appestati, contagiati, ammalati e moribondi che san Rocco ha abbracciato, servito, amato più di se stesso. La testimonianza di san Rocco incoraggia ancor più l’operato della nostra Chiesa, soprattutto attraverso la Caritas, sempre impegnata nell’accoglienza e nel servizio amorevole delle antiche e nuove forme di povertà. Tale accoglienza è stata rivolta in particolare agli immigrati giunti sul nostro territorio, in perfetta collaborazione con la Prefettura di Frosinone, con le Istituzioni civili locali, con le Associazioni di volontariato impegnate nel processo di integrazione. Questa è la scelta pastorale che non potrà cambiare perché il cristiano obbedisce al Vangelo della Carità nei confronti di chiunque, senza distinzioni né esclusioni. Qualunque pensiero in senso contrario espresso da chiunque non esprime la volontà della Chiesa diocesana, e si deve addebitare esclusivamente a discutibili scelte personali di ogni singolo soggetto. Nel prossimo mese di settembre il direttore della Caritas diocesana sarà presente in Turchia all’incontro internazionale delle Caritas impegnate nell’accoglienza degli immigrati.
SE NON SUORA, QUANDO? ANCHE LE MONACHE SCELGONO LA TOLLERANZA ZERO: "SULL’ACCOGLIENZA BUONISMO TANTO TRISTE QUANTO IGNORANTE". LE VARIE ONG VENGONO PARAGONATE A “BECCHINI BEN REMUNERATI”. Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 6 agosto 2019. E dire che tutto è partito da Avvenire. Il 13 luglio il quotidiano dei vescovi ha offerto «con gioia e ammirazione» ai propri lettori, come predica anti-salviniana del giorno, la lettera aperta firmata da un gruppo di suore clarisse e carmelitane e indirizzata a Sergio Mattarella e Giuseppe Conte. Le monache esprimevano «preoccupazione per il diffondersi in Italia di sentimenti di intolleranza, rifiuto e violenta discriminazione nei confronti dei migranti» e chiedevano di impegnarsi per quelli che, arrivati qui, «si vedono rifiutare ciò che è diritto di ogni uomo e ogni donna sulla terra: pace e dignità». La linea di Bergoglio e della Cei, insomma. Alla quale non sono mancate adesioni, anche perché, di questi tempi, niente è più facile che stare dalla parte del pontefice. Eppure c' è chi dice no, persino tra le suore. Bisogna leggere il blog di Aldo Maria Valli, uno dei pochi vaticanisti non allineati, per capire cosa sta succedendo davvero in certi conventi. Quell' appello non rappresenta affatto tutte le monache, e il sito di Valli è diventato il punto di riferimento delle tante che non lo condividono.
BUONISMO IGNORANTE. Per prima è uscita allo scoperto l' eremita diocesana Giovanna di Maria Madre della Divina Grazia. Secondo la tostissima suorina il testo delle consorelle «è oltremodo penoso e dimostra come il fumo di Satana sia penetrato anche dietro le grate (per chi le ha ancora) dei monasteri di clausura». Probabilmente, chiosa, «le monache che hanno partorito questa iniziativa non conoscono gli inviti che i vescovi africani continuano a fare ai migranti perché restino nei loro Paesi e non si facciano adescare da promesse di una vita facile e benestante, che non esiste». E siccome quelle suore preferiscono rifugiarsi «in un buonismo tanto triste quanto ignorante», non sanno nulla nemmeno «del traffico di esseri umani, che è una tragedia che grida vendetta al cospetto di Dio, e che vede le varie Ong in primo piano come becchini ben remunerati». È stato solo l' inizio. Dopo di lei ha polemizzato con le firmatarie dell' appello una monaca di clausura, «guerriera di Cristo Re», a nome di un gruppo di religiose: «Anche se la decisione di aprire i vostri monasteri ai migranti fosse giusta, e secondo me non lo è, perché fare in modo che tutti lo sappiano, contraddicendo uno stile di vita che ci caratterizza da sempre? Forse la clausura dei vostri monasteri è stata invasa dai mezzi di comunicazione, che vi hanno fatto perdere il contatto con la realtà?».
PRIMA GLI ITALIANI. A quel punto si sono rotti gli argini. Una carmelitana scalza ha rimproverato alle «care sorelle» di ignorare che l' immigrazione «è un fenomeno gestito dalle organizzazioni mondialiste per scristianizzare l' Italia e l' Europa». Quindi le ha invitate a esercitare la loro carità iniziando «dagli italiani poveri (e Dio sa se ve ne sono!), che sono magari persino cattolici praticanti». Una claustrale le ha accusate di «vestire i panni di sessantottine femministe che all' epoca furono contagiate dal virus dell' ideologia e si sentivano realizzate solo se urlavano la loro opinione nelle assemblee». Un' altra ha fatto notare alle consorelle «come, da persone consacrate, non siete capaci di difendervi da chi vi impone le sue idee». Nulla di cui stupirsi. Aiutarli "a casa loro", nelle missioni sparse in Africa e nel resto del Terzo mondo, portando la parola di Cristo assieme agli aiuti materiali, appartiene alla migliore tradizione della Chiesa. È durata sin quando i capitani delle imbarcazioni Ong sono stati proclamati santi e il «proselitismo» dei missionari è stato condannato da papa Bergoglio.
Migranti, l'altra voce della Chiesa. Cresce il numero di sacerdoti contro l'accoglienza per tutti i migranti, ma restano nel silenzio. Panorama ha raccolto le loro opinioni segrete. Lorenzo Bertocchi il 22 luglio 2019 su Panorama. «Moriremo di felpata prudenza». Così dice a Panorama un esponente del basso clero ben introdotto con vescovi e cardinali. Prudenza declinata a singhiozzo. Sarebbe questa la parola che ricorre quando si chiede ai vertici della Cei di esprimersi sul nodo legislativo dell’eutanasia, una questione pressante in Italia, visto che il 24 settembre la Corte costituzionale si dovrà esprimere se nel frattempo il Parlamento non batterà un colpo. Ma la stessa prudenza molla gli ormeggi quando, invece, i vescovi devono dire la loro sul fenomeno che riguarda i migranti e la loro tratta in corso sulle acque del Mediterraneo. «Il problema è che il tema migranti assume una connotazione sempre più spesso politica, sebbene ammantata di evangelismo». Così dice un altro sacerdote di una diocesi del Nord Italia, a testimonianza di uno scollamento non solo tra Chiesa e fedeli, ma anche tra alto e basso clero, tra vescovi e sacerdoti. Di questa politicizzazione parlò anche il cardinale Gerhard Müller a ridosso delle elezioni europee dello scorso maggio. «Dire, come hanno fatto il direttore di Civiltà cattolica, padre Antonio Spadaro, e il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, che Salvini non è cristiano perché è contro l’immigrazione, è stato un errore», dichiarò l’ex prefetto della Dottrina della fede al Corriere della sera. Sottocoperta c’è una Chiesa che non ci sta alle semplificazioni e agli slogan. Se in provincia di Pavia c’è un don Roberto Beretta, sacerdote a Pieve Porto Morone, che dopo aver parlato con il vescovo Corrado Sanguineti rinuncia a dir messa per Carola Rackete, la capitana della Sea-Watch 3, ci sono molti sacerdoti che prendono le distanze da questo movimentismo mediatico pro migranti coperto da istanze quasi divine. Solo che non si espongono. Chiedono di non essere citati, hanno paura di ricevere richiami, di essere puniti. «Tra il clero c’è una parte ideologizzata politicamente e che cavalca il tema migranti per una battaglia quasi partitica, questa parte è rumorosa, ma non maggioritaria. Un’altra parte si adatta cercando di barcamenarsi, e un’altra, spesso fatta di giovani sacerdoti, non comprende l’accoglienza declinata quasi come un nuovo dogma», dice ancora il prete ben introdotto. Conferme arrivano da almeno cinque diocesi italiane - da Nord a Sud - che abbiamo setacciato per questa inchiesta, sentendo diversi parroci e chiedendo qual è il clima nel loro presbiterio. «Soprattutto» risponde un prete del Centro Italia «ci sono tanti confratelli che mostrano un dissenso sull’eccesso di attenzione che viene riservato alla questione, a scapito di tanti altri problemi che riguardano la gente e che ci troviamo davanti ogni giorno. Sembra che l’unica categoria di poveri sia quella dei migranti». La questione è seria, perché il governo del fenomeno migranti non è un dogma, ma una questione laica, fatto salvo ovviamente il soccorso umanitario e il rispetto della dignità di ogni persona. Alcuni vescovi, nonostante il refrain ecclesiale martellante, hanno mostrato di articolare il problema con buon senso e secondo la dottrina sociale della Chiesa. Il vescovo di Ventimiglia-Sanremo, monsignor Antonio Suetta, in un’intervista al quotidiano Qn ha ricordato che «tra i doveri di uno Stato c’è anche quello di governare i flussi migratori con umanità, verità e senso delle proporzioni. Nell’ottica di una redistribuzione dei migranti fra i Paesi dell’Unione è comprensibile che si chieda di indirizzare le navi anche verso altri porti europei o comunque di condividere l’accoglienza con altre nazioni». Sempre Suetta ha dimostrato di guardare il problema in tutta la sua profondità. «Sono certo», ha detto al giornale bolognese, «che la Chiesa ha fatto e fa molto con grande umanità e retta intenzione. Rimane il rischio che alcune realtà “solidali” possano utilizzare il fenomeno migratorio per altri scopi: impoverire l’Africa per lasciarla alla mercé di certi potentati; favorire uno stravolgimento dell’identità europea attraverso l’approdo di masse umane disomogenee». Il riferimento all’Africa non è secondario, soprattutto se confrontato con una interpretazione del fenomeno migratorio che lo vorrebbe ineluttabile, epocale, quasi un segno di bibliche proporzioni. I vescovi di ben 16 conferenze episcopali dell’Africa occidentale, riuniti in Burkina Faso dal 13 al 20 maggio scorso, ci mostrano il problema da un altro punto di vista. «Voi [giovani]», hanno scritto, «rappresentate il presente e il futuro dell’Africa che deve lottare con tutte le sue risorse per la dignità e la felicità dei suoi figli e figlie. In questo contesto, non possiamo tacere sul fenomeno delle vostre migrazioni, in particolare verso l’Europa. I nostri cuori soffrono nel vedere le barche sovraccariche di giovani, donne e bambini che si perdono tra le onde del Mediterraneo. Certo, comprendiamo la sete di quella felicità e benessere che i vostri Paesi non vi offrono. Disoccupazione, miseria, povertà rimangono mali che umiliano. Tuttavia, non devono portarvi a sacrificare la vita lungo strade pericolose e destinazioni incerte. Non lasciatevi ingannare dalle false promesse che vi porteranno alla schiavitù e a un futuro illusorio! Con il duro lavoro e la perseveranza ce la potete fare anche in Africa e, cosa più importante, potete rendere questo continente una terra prospera». Le chiese in Africa si preoccupano da sempre di far restare i loro figli a casa. «I nostri giovani devono imparare a essere pazienti e a lavorare sodo nei loro Paesi d’origine» ha dichiarato al mensile Il Timone il cardinale nigeriano John Olorunfemi Onaiyekan, «Anche se ciò può essere difficile, sicuramente non è tanto drammatico quanto finire nel mercato degli schiavi o nelle prigioni della Libia». Peraltro, molti vescovi africani hanno più volte spiegato che il sistema di aiuti economici occidentali ha spesso ottenuto l’effetto contrario, applicandosi a Paesi in via di sviluppo con una serie di problemi interni di corruzione e con logiche di restituzione del debito che intrappolavano ulteriormente le economie locali. Inoltre, al doppio sinodo sulla famiglia celebrato in Vaticano nel 2014 e 2015, i padri africani sottolinearono come la concessione degli aiuti umanitari all’Africa viene spesso accordata dietro la promessa di promuovere politiche come quella gender, il matrimonio omosessuale o l’aborto. In tutto questo si nota che la strada da fare per «aiutarli a casa loro» è accidentata e dovrebbe richiamare l’Europa e l’Occidente a un esame di coscienza, per valutare se si fa tutto il possibile per favorire lo sviluppo dell’Africa e il diritto a non emigrare, o si promuove il fenomeno della migrazione di massa anche con il sistema di aiuti. Il cardinale guineiano Robert Sarah, prefetto al Culto divino, ha dichiarato alla rivista francese Valeurs actuelles che «tutti i migranti che arrivano in Europa sono senza un soldo, senza lavoro, senza dignità... Questo è ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può cooperare con questa nuova forma di schiavitù diventata migrazioni di massa. Se l’Occidente continua in questo modo fatale, c’è un grande rischio che, a causa della mancanza di nascite, sparisca, invaso dagli stranieri, proprio come Roma è stata invasa dai barbari». Monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, parlando con il quotidiano La Verità ha sottolineato che «i vescovi dell’Africa invitano i loro giovani a non emigrare e la dottrina sociale della Chiesa dice che esiste prima di tutto un diritto a “non emigrare” e a rimanere nella propria nazione e presso il proprio popolo. Del resto, si sa che dietro la marea migratoria si celano molti interessi anche geopolitici. Le migrazioni non sono quindi un bene in sé. Dipende se servono il bene dell’uomo o no». Il concetto riprende alcuni passaggi che il nono e il decimo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân, di cui Crepaldi è presidente, spiegano nel dettaglio: l’emigrazione non può essere in nessun modo forzata o pianificata; la comunità internazionale deve affrontare i problemi che nei Paesi di emigrazione spingono o costringono persone e famiglie ad andarsene dando il proprio contributo per la loro soluzione; e, infine, il dovere di chi emigra di verificare se non ci siano invece le possibilità per rimanere e aiutare il proprio Paese a risolvere le difficoltà. «Le politiche dell’immigrazione devono considerare i bisogni di chi chiede accoglienza» dice ancora Crepaldi.«Allo stesso tempo interrogarsi sulle reali possibilità di integrazione oltre l’assistenza immediata e di altri problemi, come per esempio combattere la criminalità organizzata che organizza gli sbarchi, disincentivare la collusione di alcune Ong, non scaricare la responsabilità sull’Italia ma favorire la collaborazione europea. La carità personale getta spesso il cuore oltre l’ostacolo, ma la politica deve regolare l’accoglienza in modo strutturale nel bene di tutti». La carità, punto imprescindibile per un cattolico che voglia definirsi tale, però richiede, dicono i sacerdoti che abbiamo interpellato, un paio di osservazioni. «Se si perdesse la connessione soprannaturale, la carità diventerebbe mera filantropia, e la Chiesa rischierebbe di trasformarsi in una pur benefica organizzazione assistenziale», scriveva in un libro del 2016 l’attuale prelato dell’Opus dei monsignor Fernando Ocáriz. In modo più diretto il vescovo emerito di Ferrara-Comacchio, monsignor Luigi Negri, ha detto che «ogni prossimo è in difficoltà, non solo qualcuno. E la prima difficoltà è che la maggior parte non conosce Cristo. Perciò il primo modo di assumersi la sfida della povertà del mondo è annunciare Gesù». Da questo punto di vista il problema dell’immigrazione e dell’integrazione incrocia il fatto dell’evangelizzazione. Un problema che comunque ha una portata laica di rilevanza fondamentale. L’allora arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, avvertiva della questione culturale da considerare nel processo di integrazione, specialmente con immigrati fedeli dell’Islam. Nessun Papa ha mai messo in dubbio il dovere sull’accoglienza da riservare allo straniero, è falso affermare il contrario ed è riduttivo tirare per la talare Benedetto XVI rispetto a Francesco. Nello stesso tempo sarebbe falso sottacere il dissenso che si avverte nella Chiesa, nella gerarchia, nei sacerdoti e nei fedeli, circa un’interpretazione del fenomeno migratorio che sembra essere assunto come una specie di nuovo dogma e segno ineluttabile dei tempi. Per molti questa finisce per essere una mera «politicizzazione» del fenomeno. Il segreto di Pulcinella di questa situazione è frutto di una scelta precisa. Papa Francesco ha voluto ridimensionare i cosiddetti principi non negoziabili, nel senso che il povero e il migrante sono ora messi allo stesso livello dell’abortito o di un Vincent Lambert, lasciato morire in Francia togliendogli cibo e acqua. Tutti vittime della cultura dello scarto. Se c’è una attenzione da riservare a tutti i bisognosi, un cardinale che chiede di restare anonimo dice che si è scelto così di non riconoscere la gerarchia propria dei cosiddetti principi non negoziabili, il primo dei quali è il diritto alla vita, senza la quale non è possibile godere di nessun altro bene. «Quelle di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II» dice a Panorama il cardinale, «non erano fissazioni morali, ma indicazioni di ciò che è fondamentale per non perdere l’umano. Mettere sullo stesso piano della difesa della vita (contro aborto e eutanasia), o addirittura far precedere, principi gerarchicamente di rango inferiore, come quello dell’emigrazione o dell’ecologia, è una scelta precisa di natura teologica e antropologica». Sottocoperta c’è una Chiesa che va controcorrente.
Don Ermanno Caccia: "Non dividiamo il popolo cristiano sui migranti". Il sacerdote, emarginato per le sue idee sul governo, torna sul dissenso interno alla Chiesa sul tema migranti. Panorama il 2 agosto 2019. Don Ermanno Caccia è un vulcano. Non perde il sorriso nel dividersi fra la parrocchia di Mortizzuolo, in provincia di Modena, che fu epicentro del terremoto in Emilia, i pellegrinaggi e il suo blog. «Bisogna portare Gesù dove passano i viandanti» spiega. Don Ermanno è amato dalla sua gente e un po’ meno dal potere curiale, che lo ha costretto alle dimissioni da direttore del giornale diocesano perché aveva parlato bene di Matteo Salvini. «Il popolo ha scelto uno fidato» aveva scritto dopo le Politiche. Una bestemmia».
Ha senso per un cattolico oggi trovarsi al bivio: o Salvini o il Papa?
«No, non ha senso né il bivio né la contrapposizione. Non mi aspetto un granché da quelli che appaiono tanto devoti. Guardo piuttosto con fiducia in direzione di coloro che tengono la testa alta e la schiena dritta. Chi ha la coscienza formata e ha solidi principi non si ferma così in superficie».
Alla base di tutto c’è la politica sui migranti. Nella sua parrocchia qual è il pensiero dominante?
«I miei concittadini dicono che è doveroso salvaguardare ogni vita umana, ma l’accoglienza e il collocamento di queste persone non possono essere gestiti da una continua emergenza palesemente strumentalizzata. La gente vede che non c’è stata la stessa tempestività per le emergenze che hanno riguardato il dopo terremoto. E tira le somme».
Perché Papa Francesco ha come cavallo di battaglia l’immigrazione?
«Che il problema di diseguaglianza sia di difficile soluzione è sotto gli occhi di tutti. Francesco, un Papa venuto da lontano, ha ben presente lo scarto che esiste tra il mondo ricco e povero. Gli appelli che giungono sulla sua scrivania lo spingono a osare, ma il problema è un altro».
Quale, don Ermanno?
«Sta tutto nella parabola della zizzania. Chi cavalca a suon di proclami questi input, queste riflessioni giuste e umanitarie, divide lo stesso popolo cristiano dal di dentro. La zizzania, si voglia o no, intreccia inesorabilmente le proprie robuste radici con quelle del grano. Per unire bisogna distinguere: dialogo, diversità e distinzione viaggiano e camminano insieme».
Perché chi ha a cuore l’identità, le tradizioni, la dottrina deve considerarsi sovranista, quindi lontano da Dio?
«Questa è una semplificazione dei parolai, vale per i dibattiti tv ma non rappresenta la realtà. Lontananza e vicinanza da Dio: personalmente mi accontenterei di un po’ di silenzio e che qualche cervello vuoto fosse visitato da un pensiero serio. Sarebbe un evento prodigioso se questa vicinanza, questo cercare Dio, chiarisse a tanta gente svagata le idee circa la vita, il senso da darle e i valori su cui impostarla».
In una lettera aperta lei ha parlato dei danni compiuti da «campioni di una fede altezzosa e ostentata». Si riferiva ai teologi tifosi della Sea Watch, sempre più distanti dai sacerdoti in trincea.
«C’è una fedeltà di facciata, rispettosa nelle forme, che sovente fa da paravento all’opportunismo e al cinismo. C’è poi una fedeltà sofferta, che qualche volta si traduce in atteggiamenti scomposti, in un tono un po’ ribelle, ma che tradisce un impegno di fondo, una vita esemplare nella sostanza. Insomma ci può essere una deferenza ostentata verso la linea dominante, un’obbedienza esibita, che maschera il disamore».
Due milioni di italiani in meno hanno dato l’otto per mille alla Chiesa cattolica. È un allarme?
«Un vecchio adagio popolare dice che chi semina vento raccoglie tempesta. Un’informazione inefficace provoca emorragie. Nella mia terra mortificata dal sisma quell’8 per mille ha permesso la ricostruzione di chiese. La nostra gente è generosa, ma noi abbiamo il dovere di restituire ciò che ci viene elargito. E di farlo sul territorio».
Papa Bergoglio e la grande fuga dall'8 per mille. Camillo Langone, Martedì 16/07/2019, su Il Giornale. Questo sembra proprio l'inizio della fine. Il netto calo dell'otto per mille alla chiesa cattolica (in sette anni due milioni di crocette in meno sulla dichiarazione dei redditi) ha un triste suono di campane a morto. Non sono più opinioni, sensazioni soggettive. Le chiese semivuote potevano essere un fatto opinabile: grazie a Dio per andare a messa non si paga biglietto e dunque non esistono numeri precisi, statistiche affidabili sulla partecipazione domenicale. Molti dicono che un tempo le chiese erano piene di fedeli ma forse sono gli stessi che lamentano la scomparsa delle mezze stagioni. Già Orazio, oltre duemila anni fa, derideva la figura del laudator temporis acti, il lodatore del tempo passato ossia, guarda caso, del tempo della propria giovinezza. Anche il rigetto del popolo sovrano nei confronti dell'ossessione immigrazionista (e dunque antileghista) di Papa Francesco si è un po' persa nel groviglio dei flussi elettorali. Però stavolta i numeri ci sono, nero su bianco, indiscutibili: il papa venuto dalla fine del mondo ha preso l'otto per mille a quota 37,04 e lo ha portato a 32,78 (o pure meno visto che i dati appena resi noti dal Dipartimento delle Finanze sono provvisori, non si capisce il motivo, addirittura per quanto riguarda l'Irpef 2016). E' un'altra fine del mondo, non geografica bensì economica: di questo passo il prossimo papa dovrà vendere i Raffaello dei Musei Vaticani per pagare lo stipendio alle guardie svizzere... E' vero che i pontefici ricevono direttamente l'obolo di San Pietro, altra cosa rispetto all'Irpef, peccato che sia in calo pure quello, e qui confesso la mia parte di colpa perché la domenica in cui si raccoglie faccio una fatica enorme a mettermi la mano in tasca, come se fossi colpito da un episodio improvviso e acutissimo di artrite. Dopo una lunga lotta fra mente e mano è già molto se riesco a estrarre un paio di monetine. Strano perché nelle domeniche normali questa particolarissima artrite non compare... Nemmeno al momento dell'otto per mille: alcuni amici allergici a Bergoglio hanno cominciato a darlo agli ortodossi, io però non ce la faccio, quelle orientali sono chiese nazionali se non nazionaliste e, pur ammirando la verticale spiritualità bizantina, non sono né greco né russo né serbo né rumeno... Quella ortodossa è la scelta elitaria, ultraminoritaria, di chi ha compulsato documenti papali trovandovi eresia anziché cristianesimo. Escludo che due milioni di renitenti all'otto per mille si siano sorbiti la contorta, gesuitica prosa della Amoris laetitia o il prolisso panteismo della Laudato sì. Per quasi tutti il rifiuto del presente pontificato non è teologico ma sociologico: per chi ormai identifica vescovi e barconi mettere la crocetta sull'otto per mille equivarrebbe al metterci una croce sopra, alla cara vecchia Italia monoculturale e monoreligiosa.
Non sono i giudici, né i sindaci né le Ong che decidono le regole sugli immigrati. Francesco Damato il 5 luglio 2019 su Il Dubbio. Il mugnaio del racconto di Brecht, alla ricerca di un giudice davvero imparziale e coraggioso, non intimidito dal prepotente di turno, in questo caso è proprio Salvini. Che, al netto delle sue esuberanze verbali, cerca giustizia, convinto di non averla ottenuta dalla magistrata di Agrigento. Non sono i giudici. Penso che non sarà la solita ‘ pratica a tutela’, peraltro in un Consiglio Superiore della Magistratura non proprio nelle migliori condizioni di credibilità per l’inquietante affare Palamara, chiamiamolo così, a poter chiudere nel solito modo indolore le polemiche sul clamoroso caso della giudice Alessandra Vella. Che ad Agrigento, forse scambiata dalla tedesca Carola Rackete per ragioni un po’ anagrafiche e un po’ culturali per lo storico giudice di Berlino immortalato da Bertold Brecht, le ha fatto praticamente vincere, almeno nell’immaginario collettivo, la partita ingaggiata contro il governo italiano, nella persona del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, sbarcando con la forza un suo carico di migranti nel porto di Lampedusa. Il mugnaio del racconto di Brecht, alla ricerca di un giudice davvero imparziale e coraggioso, non intimidito dal prepotente di turno, in questo caso è proprio Salvini. Che, al netto delle sue esuberanze verbali, cerca giustizia, convinto di non averla ottenuta dalla magistrata di Agrigento, avventuratasi secondo lui in una interpretazione della legge tanto temeraria da capovolgerla. Egli è sicuro di avere messo in sicurezza dal primo momento i migranti soccorsi dalla Rackete alleggerendone via via il carico durante il trasporto, ad ogni insorgenza di una difficoltà sanitaria o di altri rischi concreti. Il problema alla fine era diventato, per il ministro, non umanitario ma tutto politico, o strumentale: da una parte la sua volontà di distribuire tra più Paesi i migranti custoditi dalla comandante della nave battente bandiera olandese, dall’altra la volontà della comandante di scaricarli, o affidarli, tutti all’Italia, forte anche dell’intervenuto arrivo a bordo di parlamentari italiani dell’opposizione. Dei quali è francamente ingenuo, se non azzardato, sostenere che vi fossero saliti solo per quell’attività ‘ ispettiva’ conclamata, e non anche, o soprattutto, per rafforzare nella partita in corso la posizione della comandante della nave rispetto a quella del ministro, e del governo da loro contrastato a quel punto ben al di là e al di fuori del Parlamento. Fatta salva ciò che invece Salvini non vuole salvare, cioè la buona fede della giudice che ha dato torto a lui, e ai pubblici ministeri, e ragione all’indagata, liberandola dagli arresti peraltro domiciliari, e non davvero in carcere, dove forse sarebbe finito chiunque altro accusato degli stessi e molteplici reati, la signora Vella potrà difficilmente negare che il pur legittimo esercizio delle sue funzioni si è tradotto in un concorso, in una partecipazione, chiamatela come volete, alla gestione del complesso e non certamente secondario fenomeno dell’immigrazione. Uno degli effetti della scelta compiuta dalla giudice è l’incoraggiamento che potrebbero avere avvertito altre navi e altri comandanti a seguire nei soccorsi in mare l’esempio della Sea Watch 3 e della sua comandante, così visibilmente orgogliosa d’altronde del modo in cui si è chiusa la sua impresa. Non meno incoraggiati potrebbero essersi sentiti, volente o nolente la giudice di Agrigento, quei trafficanti di carne umana che mettono in acqua la loro mercanzia contando sul soccorso che potrebbero ottenere alleggerendo dei costi la loro rivoltante attività, non meno odiosa delle violenze che le loro vittime avevano appena finito di subire a terra, in Libia e altrove. A questo punto la giudice di Agrigento mi e ci consentirà di chiedere, con tutto il rispetto dovuto alle sue funzioni, in quanti debbano occuparsi della gestione dei migranti. Ne reclama giustamente il diritto e il dovere lo Stato attraverso il governo, che ne risponde al Parlamento, e i suoi organi periferici. Ne reclamano il diritto i sindaci e, più in generale, gli amministratori locali, che rivendicano le loro competenze sino a contestare le leggi dalle quali si sentono limitati, per cui si appellano alla Corte Costituzionale perché le vanifichino. Ne reclama il diritto il volontariato, laico o religioso che sia, offrendosi ad assumere l’onere dell’accoglienza senza tuttavia assumersi alcuna responsabilità, per cui è potuto accadere l’anno scorso, per esempio, che molti migranti scaricati dalla nave Diciotti a Catania siano stati accolti in case religiose per uscirne il giorno dopo e diventare clandestini, ingrossandone il fenomeno. Ogni tanto avverte la competenza dell’immigrazione, con sporadiche dichiarazioni di qualche leader, persino l’Unione Europea, che è poi la vera destinazione cui ambiscono i migranti, ma i signori di Bruxelles, Berlino, Parigi e dintorni, così solerti a contendersi e a distribuirsi le cariche comunitarie a ogni scadenza, non riescono dannatamente ad accordarsi mai su come interessarsi davvero di questi disperati, uscendo quindi da una sostanziale e odiosa indifferenza. Che non bisogna scomodare Antonio Gramsci per definire quella che è: inciviltà. In tanta confusione di competenze, vere o presunte, reali o finte, tutte comunque a responsabilità inevitabilmente non limitate ma limitatissime, la magistratura ha voluto assumere un ruolo per nulla secondario su cui ha espresso un giudizio severo un magistrato di lungo corso come Carlo Nordio. Che ha scritto di un ‘ diritto’, oltre che di una giurisprudenza, di una ‘ volatile aspirazione metafisica’, nelle cui maglie si confondono alla fine sia i criminali sia chi li combatte. È una ragione in più- direi- per reclamare ordine anche in questo campo con una riforma della Giustizia che non può diventare un pericolo, anziché un dovere o un’opportunità, solo perché reclamata dal partito che è diventato il più votato d’Italia.
Salvini, migranti e Ong nel Mediterraneo: parole (grosse) e numeri (bassi). Pubblicato sabato, 06 luglio 2019 da Claudio Del Frate su Corriere.it. C’è una guerra (verbale) in atto sui migranti; ci sono parole grosse che rimbalzano da una parte e dall’altra. Salvini accusa le ong di essere «criminali», le organizzazioni umanitarie restituiscono il messaggio al mittente nel mentre decine di naufraghi rimangono bloccati per settimane in mezzo al Mediterraneo. Poi ci sono i numeri. E i numeri sembrano dire che la virulenza delle parole non è commisurata alle dimensioni del fenomeno in atto, almeno in questo momento. Si può discutere a lungo sull’importanza del fenomeno «percepito», sull’opportunità o meno di una linea di fermezza. Resta che attualmente l’Italia e l’Europa intera sono lontane dalla situazione vissuta nella fase più acuta della crisi tra il 2015 e il 2017. E l’Italia non è nemmeno l’epicentro del fenomeno. Il sito dell’Unhcr, l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati, fotografa in tempo reale la situazione dei movimenti migratori di tutto il pianeta; il «quadrante» del Mediterraneo dice che dall’inizio del 2019 a oggi gli sbarchi in Italia sono stati 2.779. Nello stesso periodo gli arrivi via mare in Grecia sono stati 18.300 e quelli in Spagna 13.260. Soltanto Malta ha fatto i conti con un numero di migranti inferiore all’Italia (1.048) ma con una popolazione di appena 460.000 abitanti. In totale gli arrivi nell’area sono stati circa 36.000 con una stima di 666 morti. Per fare un confronto, nell’intero 2018 nei cinque paesi affacciati sul Mediterraneo (Spagna, Italia, Malta, Grecia e Cipro) gli sbarchi furono 141.472, in calo drastico rispetto agli anni precedenti. La punta massima nel 2015, con oltre un milione di arrivi. I numeri di questi giorni (i 42 della Sea Watch, le poche decine della Alex e della Alan Kurdi) impallidiscono di fronte a quelli che l’Italia dovette affrontare nei periodi più drammatici dei flussi migratori, quando gli arrivi si contavano in migliaia al giorno. Nel giugno del 2017, punto di svolta della crisi (dopo il quale scattarono gli accordi con la Libia) barconi e gommoni portarono sulle coste italiane 29.000 migranti. Su base annuale il grafico degli arrivi segna la punta più alta nel 2016 quando fu toccata quota 181.000. Attualmente la rete dell’accoglienza nazionale ospita circa 150.000 stranieri; anche in questo caso numeri più bassi ad esempio a quelli della Turchia dove sono fermi nei campi di accoglienza circa 3 milioni e mezzo di profughi. Secondo dati elaborati dall’Ispi (istituto studi politica internazionale), da anni al lavoro sul fenomeno migratorio, l’Italia accoglie 3 migranti ogni 1.000 abitanti contro i 24 della Svezia, i 12 della Germania, i 17 di Malta, i 13 dell’Austria, i 5 della Francia.
Sondaggio Pagnoncelli pro-Matteo Salvini, censura del Corriere della Sera? Come lo pubblicano. Libero Quotidiano il 6 Luglio 2019. Sabato, giornata di sondaggi sul Corriere della Sera. I sondaggi, naturalmente, di Nando Pagnoncelli. Oggi il presidente di Ipsos rilevava come gli italiani siano per la linea della fermezza contro le ong. Al centro il caso Sea Watch 3, Carola Rackete e le politiche di Matteo Salvini (nel giorno in cui poi sarebbero deflagrati anche i casi Mediterranea e Sea Eye). E cosa pensino gli italiani dell'intera vicenda è piuttosto chiaro. Quando viene chiesto se condividono la linea del ministro dell'Interno nell'impedire gli sbarchi delle ong, il 34% risponde "molto", il 25% "abbastanza", l'11% "poco", il 18% "per nulla" mentre il restante 12% dice che "non sa, non indica". Dunque, il 59% è d'accordo con Salvini: una grande vittoria per il ministro dell'Interno. Ma vi è poi un secondo dato, pesantissimo, sempre sulle ong. Al campione viene chiesto un parere sulle suddette, e si scopre che il 56% degli italiani le considera "organizzazioni che agiscono solo per scopi economici", mentre appena il 22% afferma di ritenere che sono "mosse da intenti umanitari". Insomma, una nettissima minoranza crede a quella che le ong ci vendono come loro "missione". E ancora, Pagnoncelli certifica come la fiducia nelle organizzazioni non-profitsia crollata dall'80% del 2019 al 39% di oggi. Fin qui i dati. Ma c'è qualcosa che non torna. Chi legge il Corsera e chi compulsa i sondaggi di Pagnoncelli sa bene come a queste rilevazioni spesso e volentieri, dal quotidiano di Via Solferino, venga dedicata una intera pagina. Non in questo caso: il sondaggio è infatti relegato a quello che in gergo giornalistico si chiama "taglio basso". E, ancor più peculiare, non ci sono - o quasi - neppure le grandi, chiare e limpide tabelle che usualmente corredano i sondaggi di Pagnoncelli. Sparite. Fa capolino soltanto una tabellina che riporta le cifre relative alle opinioni sulle politiche di Salvini. Del crollo della fiducia nelle organizzazioni no-profit e del fatto che in pochissimi credano alla "missione" delle ong non se ne dà traccia tabellare. Fatto irrituale, fatto strano. E a pensare male si può ipotizzare che cifre così nette, così favorevoli a quel che sostiene il cattivone Salvini, il Corsera abbia preferito non metterle troppo in evidenza. O non metterle proprio, punto.
Da adnkronos il 7 luglio 2019. "Le chiedo di riconsiderare la sua posizione di rifiutare l'apertura dei porti italiani". E' un passaggio della lettera, a cui l'Adnkronos ha avuto accesso, che il ministro dell'Interno tedesco Horst Seehofer ha inviato al ministro dell'Interno Matteo Salvini. "Conosco bene e riconosco gli sforzi compiuti dal governo italiano e il grande contributo che il popolo italiano ha apportato per contribuire alla soluzione della situazione dei migranti e al miglioramento della situazione umanitaria nel Mediterraneo. L'Italia ha più volte beneficiato della solidarietà degli Stati membri europei in passato". "La Germania e l'Italia, in quanto Stati membri fondatori dell'Unione europea, devono riuscire a trovare risposte europee alla sfida della situazione migratoria nel Mediterraneo" si legge. Il ministro dell'Interno tedesco si appella quindi "ai nostri condivisi valori cristiani". Per Seehofer, "non deve fare alcuna differenza quale organizzazione" compia il salvataggio di migranti nel Mediterraneo, non conta "sotto quale bandiera stia navigando" un'imbarcazione o "se l'equipaggio di una nave o un'Ong provenga dalla Germania, dall'Italia o da un altro paese membro" dell'Ue.
Ora la Germania sfida Salvini: "Cambiate linea e aprite i porti". In Germania infiamma la polemica contro le espulsioni dei migranti irregolari. Ma il governo Merkel fa la morale all'Italia: "Tenete conto dei valori cristiani". Andrea Indini, Sabato 06/07/2019, su Il Giornale. È ancora una volta da Berlino che si alzano le più feroci critiche all'Italia. Alla richiesta di una presa di responsabilità, il ministro dell'Interno tedesco Horst Seehofer ha replicato a Matteo Salvini a "cambiare linea" sull'immigrazione e a "riaprire i porti" italiane alle navi delle ong cariche di clandestini. Di queste almeno un paio (la Sea Watch e la Sea Eye) hanno sede in Germania e dovrebbe essere la Germania stessa a farsene carico e a prendere provvedimenti quando infrangono le leggi internazionali come nel caso della capitana Carola Rackete. Ma Angela Merkel ha sempre nicchiato, preferendo piuttosto fare la ramanzina al nostro governo per blocca gli ingressi illegali. Nella lettera inviata ieri a Seehofer (qui il documento integrale), Salvini invitava il governo tedesco a prendere in carico la navigazione della "Alan Kurdi", la nave della Sea Eye che da ieri sera sta puntando verso il porto di Lampedusa. D'altra parte il quadro normativo in vigore prevede che lo Stato di bandiera sia responsabile delle operazioni in mare e dell'individuazione di un approdo per la nave. "Qualsiasi eventuale deterioramento della situazione a bordo - faceva notare il vice premier leghista - non potrà non ricadere nell'esclusiva responsabilità dello Stato di bandiera e del Comandante e dell'equipaggio della Alan Kurdi". A Berlino, però, si sono voltati dall'altra parte facendo finta di non vedere la gravità della situazione. E, se da una parte si sono detti disponibili a farsi carico di parte dei disperati recuperati dall'ong tedesca, dall'altra sono tornati ad attaccare duramente il governo italiano e in particolar modo l'inquilino del Viminale. Pur riconoscendo "gli sforzi compiuti dal governo italiano" nella "soluzione della situazione dei migranti" e nel "miglioramento della situazione umanitaria nel Mediterraneo", nella lettera, a cui l'agenzia Adnkronos ha avuto accesso, Seehofer ha prima rinfacciato a Salvini di aver beneficiato, "in passato", della "solidarietà degli Stati membri europei", poi gli ha suggerito di tener conto dei "nostri condivisi valori cristiani". Per il ministro dell'Interno tedesco, "non deve fare alcuna differenza quale organizzazione" compia il salvataggio di migranti nel Mediterraneo, non conta "sotto quale bandiera stia navigando" un'imbarcazione o "se l'equipaggio di una nave o una ong provenga dalla Germania, dall'Italia o da un altro paese membro" dell'Union europea. Peccato che, quando la polizia tedesca metta le mani sui "dublinanti", gli extracomunitari che secondo le regole europee devono rientrare nei Paesi di primo approdo, li rispedisce in fretta e furia in Italia. Nel 2018 ce ne ha rimandati indietro quasi 3mila, mentre quest'anno siamo già a 857. Tuttavia, mentre i suoi ministri continuano a fare la predica al nostro Paese, la Merkel deve tenere a bada le critiche del Paese per la gestione dei migranti in Germania. E non solo per i "dublinanti" rispediti in Italia "storditi e sedati" a bordo dei voli charter. Nelle ultime ore sono finiti nel mirino anche i "centri di ancoraggio", una delle novità di Seehofer che è sempre stato apertamente ostile alla "politica delle porte aperte" della cancelliera. Previsti dal contratto di coalizione dell'alleanza di governo, i centri attivi sono attualmente sette e si trovano tutti in Baviera, ma a detta del titolare dell'Interno dovrebbero diventare un modello per tutta la Germania: il progetto è di realizzarne almeno quaranta. Il loro compito è accorciare il più possibile i tempi di espulsione dei migranti, facendo ripartire il prima possibile chi non ha ottenuto il diritto d'asilo. Eppure, quando si tratta dell'Italia, Seehofer in prima linea a invitare Salvini a "riaprire i porti italiani". Per il governo Merkel, la Germania e l'Italia dovrebbero "riuscire a trovare risposte europee alla sfida della situazione migratoria nel Mediterraneo". Ma fino qui Berlino non ha mai fatto la propria parte. Quando si tratta di ripedirceli indietro, sono velocissimi a chiudere le pratiche. Per questo all'assurda richiesta di Seehofer, Salvini ha risposto con un secco "assolutamente no" e lo ha invitatato a "ritirare la bandiera tedesca a navi che aiutano trafficanti e scafisti" e a "rimpatriare i loro cittadini che ignorano le leggi italiane". Fino ad allora parlare di collaborazione per risolvere l'emergenza migranti, rischia di essere fuorviante.
Flaminia Bussotti per “il Messaggero” il 7 luglio 2019. Da Saulo a Paolo: la conversione di Horst Seehofer. Per una volta il lupo si fa agnellino e il ministro degli interni tedesco, super falco finora sulla migrazione, ha invocato ieri i valori cristiani e chiesto a Mattero Salvini di aprire i porti. Finora aveva unicamente fama di falco. Sotto la sua egida sono passate al Bundestag una serie di leggi restrittive su accoglienza, asilo, espulsioni e difesa confini. E vivo è ancora il ricordo del suo scontro con la cancelliera Angela Merkel sulla politica dell'accoglienza nell'anno di crisi 2015. Adesso, dopo che tutti i politici in Germania hanno spezzato una lancia in favore di Carola Rackete, la capitana tedesca della Sea Watch 3, incluso il presidente Frank-Walter Steinmeier, anche Seehofer si è eretto a paladino dell'accoglienza. Quattro giorni dopo la Sea Watch, due nuove navi cariche di migranti sono a Lampedusa. Venerdì Salvini ha scritto a Seehofer invitandolo a incaricarsi della nave tedesca, la Alan Kurdi dell'ong di Ratisbona Sea Eye. Seehofer, cattolico, della Csu bavarese, gli ha risposto ieri con un'altra lettera chiedendogli di cambiare politica e aprire i porti. «Non si può accettare che navi con persone salvate a bordo girino per settimane nel Mediterraneo perché non trovano un porto», «le rivolgo un pressante appello a rivedere la sua posizione di non voler aprire i porti italiani». Invocando la responsabilità europea e «i nostri comuni valori cristiani», Seehofer dice che non si possono fare differenze sulle singole organizzazioni, da dove venga l'equipaggio o quale bandiera battano. «Assolutamente no», la risposta di Salvini. Piuttosto, ha detto, «chiediamo al governo Merkel di ritirare la bandiera tedesca a navi che aiutano trafficanti e scafisti, e di rimpatriare i loro cittadini che ignorano le leggi italiane». La Alan Kurdi tedesca, con 65 migranti a bordo, era in attesa ieri davanti a Lampedusa, fuori delle acque territoriali italiane, di poter sbarcare i profughi. La Alex, dell'ong italiana Mediterranea Saving Humans, ha invece ignorato il divieto e attraccato a Lampedusa. Anche nel caso di queste due navi, come spesso in passato, la Germania si è offerta di accogliere alcuni dei profughi nel quadro di una soluzione europea. Seehofer ha scritto già venerdì mattina alla Commissione Ue chiedendole di coordinare. La Germania respinge il principio secondo cui lo stato della bandiera della nave dovrebbe farsi carico del caso e Seehofer insiste su un meccanismo di ripartizione in Europa. «Chi salva vite umane ottempera a un diritto umanitario», ha detto un portavoce del suo ministero, il governo infatti ha già accolto quest'anno 228 persone, più di tutti nell'Ue. A fronte di quelli salvati in mare e accolti, Seehofer procede però col pugno duro su rimpatri e espulsioni. Giorni fa è emerso che centinaia di migranti entrati illegalmente in Germania in base agli accordi di Dublino (i dublinanti) sono stati rispediti in Italia: oltre 700 fra gennaio e maggio. In parte imbarcati su voli charter con la forza e addirittura sedati. Le procedure di ricollocamento europee sono lente e possono durare mesi e anche più perché prevedono le registrazioni e a volte anche le pratiche, ancora più laboriose, per l'asilo. Nel frattempo i migranti dovrebbero rimanere in Italia. L'uscita buonista di Seehofer è in sintonia con l'opinione pubblica in generale molto sensibile sul tema (ieri in migliaia hanno dimostrato in sostegno delle ong). Lo Spiegel dedica la copertina a Carola, che se la prende pure con il governo tedesco: nessuno voleva aiutare, «si sono rimpallati la patata bollente». La critica non è piaciuta a Horst. Anche in Germania c'è aria di campagna elettorale con la Spd tentata di uscire dalla coalizione con la Merkel. E il 16 si vota per la nomina di Ursula von der Leyen alla Commissione Ue. Spd e Verdi non la voteranno: fare la voce grossa contro Salvini potrebbe risultare gradito agli alleati di governo Spd.
L'Osservatore Romano: "In caso di povertà non esistono acque territoriali". L'Osservatore Romano, giornale edito dalla Santa Sede, ha definito i negoziati sui migranti uno "spettacolo umiliante". Critiche dirette anche alla Ue. Giuseppe Aloisi, Sabato 06/07/2019, su Il Giornale. L'Osservatore Romano, il quotidiano edito dalla Santa Sede, ha preso una posizione nitida sulla gestione dei fenomeni migratori, che è peraltro in linea con la pastorale sui migranti e sulle periferie economico-esitenziali di papa Francesco: "Quando si tratta della povertà e della disuguaglianza non vale il limite delle acque territoriali o della zona Sar di competenza", si legge in un articolo odierno, com'è stato riportato pure dall'agenzia Adnkronos. Insomma, le politiche del rigore, che prevedono forti restrizioni in materia d'accoglienza non sembrano trovare troppa condivisione sull'altra sponda del Tevere, dove si continua a predicare in favore dell'inclusione, del multiculturalismo e dei porti aperti. Ma forse questa verrà interpretata come una semplificazione. Proseguendo nella lettura, infatti, viene specificato come il "porre le domande sbagliate" non costituisca un atteggiamento utile "neppure per distinguere posizioni e orientamenti, soprattutto quando viene costruita una polarizzazione che si vorrebbe risolutiva perché immediatamente sovrapponibile a uno scontato giudizio morale". Lo scontro, in parole povere, sembra contribuire a spostare l'attenzione dal focus più urgente, che per L'Osservatore Romano, il "quotidiano del Vaticano" che da dicembre scorso è diretto dal professor Andrea Monda, riguarda invece la domanda di speranza di coloro che cercano un futuro migliore sulle nostre coste. Viene segnalato, tuttavia, come il ruolo esercitato dall'Unione europea non abbia prodotto risultati efficaci: "Non si tratta, con tutta evidenza, di decidere cosa fare quando un mezzo improvvisato si trova in mezzo al mare stipato di uomini, donne e bambini", viene premesso. Poi arriva la critica sul mancato intervento risolutivo degli enti sovranazionali: "Questo è diventato un problema prima di tutto per colpa dell'Unione europea, incapace di dimostrarsi all'altezza dei valori sui quali è stata fondata e di modificare norme che lasciano nelle mani di pochi il cerino di questa responsabilità". Il caso di Sea Watch 3 non viene rimarcato in modo diretto, ma i "negoziati" che ne sono seguiti, anche temporalmente, sì: trattasi, per il pezzo in questione, di uno "spettacolo umiliante". Le istanze sovraniste troverebbero terreno fertile proprio in questi aspetti procedurali. Bisognerebbe dunque dare vita a meccanismi in grado di occuparsi di "regolamentazione", "controlli" ed "eventualmente soglie". Questo, viene premesso, nel caso in cui le posizioni dei cosiddetti populisti trovassero in fin dei conti corrispondenza politica. Pure perché "gli sbarchi continueranno". La parte finale della riflessione, del resto, è stata riservata anche al futuro statistico delle migrazioni: "Perché non dovrebbero partire?", ci si domanda. Viene evidenziato inoltre come i migranti non optino per la "via della violenza". La sintesi del ragionamento presentato da L'Osservatore Romano sembra questa: districare i nodi attorno alla gestione dei fenomeni migratori spetta all'Europa. Chi si imbarca sta solo tentando "di entrare nel mondo dei ricchi".
"Fermi le navi coi clandestini". Ed è tensione Viminale-Difesa. Salvini bacchetta la Trenta: "I confini vanno difesi". L'irritazione della Difesa: "Abbiamo offerto supporto, non l'avete voluto". Ma il Viminale insiste: "Le navi vanno bloccate". Andrea Indini, Sabato 06/07/2019, su Il Giornale. Più che la forzatura di un blocco, quella della Alex, la nave della ong Mediterranea Saving Humans con a bordo una quarantina di immigrati, è sembrata una passerella. È riuscita a "forzare" il divieto del Viminale arrivando ad attraccare a Lampedusa scortata dalle motovedette della Guardia costiera (video). Nel giro di pochi giorni è la seconda imbarcazione che entra illegalmente in quel porto. Matteo Salvini, che continua a combattere personalmente ogni braccio di ferro contro qualsiasi ong voglia venire in Italia a scaricare clandestini, non nasconde la propria irritazione nei confronti dei vertici militari e li accusa di non aver difeso i confini. Tornano così a galla i mai ricuciti dissapori con il ministro che presiede la difesa del Paese: Elisabetta Trenta. Mentre l'assalto di Carola Rackete al porto di Lampedusa ha ulteriormente minato i rapporti con la Germania, il blitz dell'ong fondata da Luca Casarini rischia di far riemergere i vecchi attriti tra il ministero della Difesa e il Viminale. Salvini non ha digerito che la Alex sia riuscita ad arrivare a Lampedusa indisturbata. Mentre entrava in porto erano presenti delle navi della Guardia costiera che non hanno mosso un dito per fermarne l'avanzata. E questo, il vice premier leghista non può proprio tollerarlo. Lo ha ammesso lui stesso in serata durante una diretta su Facebook. "I confini via mare sono come quelli via terra", ha commentato. Nei prossimi giorni chiederò alla Trenta di aiutarlo "in questa battaglia di civiltà e di legalità". Il ché significa anche ragionare sulla presenza delle navi militari italiane che sono presenti nel Mar Mediterraneo. Intanto, però, ha domandato ai vertici delle forze armate italiane "se la difesa dei confini è ancora un diritto-dovere da parte delle istituzioni o se i confini italiani sono diventati un 'di più'". Salvini sa bene che, in qualità di ministro dell'Interno, può "solo" indicare un porto sicuro e bloccare uno sbarco non autorizzato. Le forze armate in mare non dipendono da lui, sono in capo al dicastero della Difesa. "Se servono da scorta per le navi fuorilegge - ha commentato - domandiamoci sull'utilizzo di queste unità (militari, ndr)". La critica del vice premier leghista non poteva cadere nel vuoto senza fare rumore. E così dal dicastero guidato dalla Trenta hanno subito fatto trapelare che nei giorni scorsi stato offerto supporto al Viminale ma che il Viminale lo ha respinto, "in più di una occasione". "Questi sono i fatti", hanno tenuto a rimarcare fonti vicine al dossier. Una puntualizzazione che non scalfisce gli uomini di Salvini che ricordano alla Trenta che il supporto delle unità navali militari italiane serve a "bloccare le navi che vogliono portare i clandestini in Italia e non per aiutarle nel trasporto". Alla replica del ministero dell'Interno, la Difesa ha fatto seguire un'ulteriore velina per ribadire che il supporto offerto riguardava proprio il trasporto alla Valletta dei migranti che si trovavano a bordo della Alex. "Se il Viminale avesse accettato, i migranti sarebbero già a Malta - hanno fatto trapelare le stesse fonti - è un mistero anche per noi il rifiuto espresso dal Viminale... forse al Viminale non sanno come funzionano le cose- hanno, poi, continuato - non sanno che gli Stati maggiori si relazionano con tutte le articolazioni dello Stato, incluso il Viminale stesso". I toni sono più duri del solito. E rischiano di preparare un ulteriore scontro già nelle prossime ore. "Esigiamo rispetto per i nostri militari", hanno chiesto dalla Difesa. Ma Salvini è determinato ad andare fino in fondo pur di vincere la battaglia contro le onge l'immigrazione clandestina.
Ong, Salvini ai vertici militari: "Dovete difendere i confini". Il ministro dell'Interno ribadisce il divieto di sbarco alla nave Alex: "È un attacco al governo italiano". E denuncia: "Sono operazioni pianificate". Sergio Rame, Sabato 06/07/2019, su Il Giornale. Per Matteo Salvini è "una battaglia di civiltà e legalità". Ed è pronto a combatterla fino in fodo. Ma, dopo che anche la ong "Mediterranea Saving Humans" ha forzato il blocco portando la nave "Alex" nel porto di Lampedusa, sente la necessità di non essere lasciato "da solo" a combattere. Da qui l'appello al ministro della Difesa Elisabetta Trenta e ai vertici militari di difendere tutti i confini. "È in atto un attacco al governo italiano e al Ministero dell'Interno perché vedono che gli italiani sono sempre più con noi", denuncia il vice premier leghista in una diretta Facebook (guarda il video). Mentre la ong dei centri sociali già parla di sequestro di persona, Salvini tira dritto. I porti sono chiusi e restano chiusi. Per questo non ha autorizzato lo sbarco dalla nave "Alex" dopo che il capomissione, l'onorevole Erasmo Palazzotto alla sua seconda legislatura con Liberi e Uguali, ha deciso di forzare il divieto e attraccare al porto di Lampedusa. Lo "stato di necessità" addotto dall'equipaggio è stato presto smontato dal Viminale che nelle scorse ore ha sempre avuto sotto controllo la situazione ed è più volte intervenuto per ottemperare a tutte le richieste che gli venivano avanzate dallo staff dell'imbarcazione. Addirittura, come rivela lo stesso ministro dell'Interno, hanno rifiutato il secondo rifornimento di acqua spiegando che "non c'era spazio" a sufficienza e poi oggi sono entrati in porto dicendo che "non avevano acqua". Tutta l'operazione condotta dalla Alex, una barca "da crociera" che la ong affitta sborsando 8mila euro la settimana, è costellata da innumerevoli contraddizioni che si possono spiegare solo se si tiene presente l'intento prettamente politico dell'assalto al porto di Lampedusa. Nelle prossime ore Salvini porterà sul tavolo del governo la presenza di navi militari italiane nel Mediterraneo. Durante la diretta Facebook di questa sera già fa notare che la difesa dei confini è un diritto-dovere da parte delle istituzioni. Ma vuole sapere dai vertici delle forze armate e della Guardia di Finanza se anche per loro è così. "O se i confini italiani sono diventati un 'di più'". Per il leader leghista i confini via mare vanno, infatti, difesi esattamente come quelli via terra. "Io posso indicare un porto sicuro e bloccare uno sbarco non autorizzato, ma le forze armate in mare non dipendono da me", lamenta in evidente polemica sia con il caso di oggi sia con il recente sfondamento della Sea Watch 3. "Se servono da scorta per le navi fuorilegge domandiamoci sull'utilizzo di queste unità (militari, ndr)". Per Salvini quelle delle ong sono operazioni pianificate. Dietro ci sono persone note che muovono i fili: "speculatori miliardari alla George Soros" che "vogliono cancellare popoli, radici, culture e tradizioni e vogliono nuovi schiavi". "Se qualcuno pensa di farmi mollare hanno trovato un testone", mette in chiaro in diretta sui social ammettendo di essere "sconcertato" dalle "complicità che emergono da questo traffico di essere umani, palesemente organizzati". Come denunciato oggi dalla stessa Guardia costiera libica, si tratta di recuperi scelti "in data precisa" e "in un momento preciso". È anche il caso della nave Alex a cui il governo maltese aveva dato la possibilità di attraccare alla Valletta. Ma l'equipaggio si è rifiutato di obbedire all'ordine. "Dentro la nave ci sono parlamentari di sinistra, giornalisti di sinistra", fa notare il leader leghista ricordando che "chi tifa per i fuorilegge fa male all'Italia" e sostiene quei miliardari, mascherati da filantropi, che progettano queste "operazioni di invasione del Continente europeo".
Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 7 luglio 2019. «Dove sono finiti i 5 Stelle?». Spariti tutti. Matteo Salvini, infuriato e impegnato in una manovra di speronamento virtuale contro le navi Alex di Mediterranea e Alan Kurdi, battente bandiera tedesca, a un certo punto si è guardato intorno (sui social e nelle agenzie) e ha constatato che non c' era nessuno. Che si era fatto il vuoto intorno. Il sospetto, anche qualcosa di più, è che i 5 Stelle abbiano deciso di far finta di nulla, visti anche i conflitti interni, e di lasciargli la patata bollente. Non che gli dispiaccia del tutto, perché il suo gradimento si impenna quando la lotta si fa dura, quando può collegarsi in live indignati e postare foto imperative, come quella di ieri: «Non autorizzo nessuno sbarco!». Ma nel gioco quotidiano del riposizionamento - ogni giorno un po' più a destra, un po' più populista, un po' più allarmistico - Salvini chiede, anzi esige, che il Movimento non si tiri indietro: «Mi aspetto una condivisione nei fatti della mia battaglia da parte dei 5 Stelle - dice ai suoi - È evidente che le ong stanno alzando l' asticella anche per rompere i grillini e sabotare il decreto sicurezza bis. Io sono pronto a inasprirlo. Voglio vedere cosa faranno loro». Da giorni si vocifera di sorprese. Si parla di un emendamento - a firma Simona Suriano e Yana Ehm - che consentirebbe gli sbarchi. Ma i 5 Stelle si sono affrettati a smentire, spiegando che quel testo non era passato dal filtro politico: «Ora ci è arrivato ed è stato cestinato». Ma le sensibilità, da Roberto Fico in giù, sono tante, e non è esclusa qualche sorpresa. Non dai vertici, se è vero che Di Maio, per non farsi scavalcare, talvolta supera Salvini. Sulle navi delle ong, per esempio, c' è un emendamento a firma Anna Macina, che prevede la confisca in caso di ingresso illegale. Ma Salvini ha intenzione di alzare il tiro a vasto raggio: «Mi aspetto dagli amici 5 Stelle un sostegno anche sulla giustizia, per far rispettare le leggi e non farle interpretare da qualche magistrato». Lui, che si definisce «un ministro che ha le palle», ora chiede agli altri di estrarle. E per questo attacca i ministri della Difesa e delle Finanze. Salvini si rivolge a Elisabetta Trenta, chiedendole supporto per la Marina, che non dipende da lui e così apre un botta e risposta a distanza. Perché fonti della Difesa replicano a muso duro: «Da 48 ore abbiamo offerto supporto al Viminale per fornire le imbarcazioni e trasportare i migranti a Malta. È un mistero, perché il Viminale non ci ha mai risposto. Non hanno voluto il nostro aiuto nonostante abbiamo subito dato la disponibilità a mettere le navi a disposizione affidando la gestione della vicenda al capo di gabinetto che ha parlato direttamente con il prefetto Matteo Piantedosi». Per tutto il giorno, dopo un blitz a Coldiretti, Salvini è rimasto in famiglia (nella diretta su Facebook si vedeva la foto della figlia), in costante contatto con il Viminale. Irritato da quelle che considera «provocazioni» delle ong. Nell' incertezza sulla sorte della nave Alex, ha preso in considerazione l' ipotesi che fosse la Guardia di Finanza a dover verificare irregolarità della nave, con la conseguenza del sequestro e della discesa a terra dei migranti. O, in alternativa, di lasciare a Mediterranea l' onere di sbarcare, senza l' identificazione. Con le accuse pronte di favoreggiamento dell' immigrazione clandestina per l' equipaggio e di ingresso illegale per i migranti. Interpretazioni e cavilli, per dar sostanza al suo «Non autorizzo nessuno sbarco!». Ma la strategia, in fondo, rimane quella dello scontro. E del tenere il centro del campo di battaglia: «Questa non è solo una violazione delle norme, è un attacco al popolo e al Viminale». Poi aggiunge: «Ogni tanto mi sento un po' solo, politicamente». Una solitudine cercata, rivendicata e poi recriminata, per incrementare l' effetto mediatico. Vittimismo che si accoppia alla ricerca del «colpevole»: che sia Soros, che «finanzia l' invasione del continente europeo», il ministro Giovanni Tria (con citazione del figlio volontario nelle ong), il ministro 5 Stelle Trenta o la Germania. A sua difesa, Salvini cita Giovanni Falcone. E Oriana Fallaci, con una frase che si può leggere in vari modi: «Chi tace è complice».
Trenta: «Avvisai Matteo sulle ong, non mi ha ascoltata. Invierò le navi». Pubblicato domenica, 07 luglio 2019 da Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. È arrabbiata e non lo nasconde. Ma la ministra della Difesa Elisabetta Trenta è soprattutto rammaricata «perché quanto che sta accadendo in questi giorni si sarebbe potuto evitare. Lo avevo detto a Matteo Salvini: senza la missione Sophia torneranno le ong. Non ha voluto ascoltare e adesso si lamenta». Non è la prima volta che i due esponenti del governo gialloverde arrivano allo scontro. Non è la prima volta che lei lo smentisce, carte alla mano, e rispedisce al mittente gli attacchi. Due giorni fa — furioso perché il veliero Alex di Mediterranea aveva aggirato il blocco ed era arrivato nel porto di Lampedusa con 43 migranti a bordo — il titolare del Viminale ha chiesto provocatoriamente se «il ruolo delle navi militari italiane sia di far rispettare le leggi e i confini, o se servono da scorta per la navi fuorilegge». Trenta l’ha preso come l’ennesimo affronto ai soldati e reagisce con durezza: «È sorprendente che ora torni ad attaccare i militari dopo che siamo stati noi a chiedere al Viminale se volevano supporto per il trasbordo dei migranti a Malta, visto che nessuno veniva a prenderseli». Da almeno una settimana alla Difesa si stanno pianificando «misure di sorveglianza speciale contro i trafficanti nei pressi delle coste italiane», l’ultima riunione c’è stata sabato sera. «Indipendentemente dal caso migranti e delle ong — chiarisce Trenta — l’emergenza da affrontare è quanto sta accadendo in Libia perché la situazione è peggiorata sensibilmente e ho dato mandato allo Stato Maggiore di pianificare vari scenari. Se la crisi dovesse degenerare, l’Italia non può farsi trovare impreparata». L’obiettivo è chiaro: «Prevenire ogni sviluppo per tenere in sicurezza il nostro Paese». Nei mesi scorsi Salvini aveva pubblicamente annunciato che l’Italia sarebbe uscita dalla missione europea Sophia, che prevedeva l’impiego delle navi militari per pattugliare il Mediterraneo, da lui ritenuta «inutile e dannosa». Al comando c’è un generale italiano e questa presa di posizione alla fine ha portato la Ue a decretarne la sospensione. Una scelta che ha però indebolito l’attività di vigilanza, adesso affidata soltanto agli aerei, come dimostra l’aumento degli «sbarchi fantasma». E così ora si è deciso di schierare un nuovo dispositivo. Ecco perché la ministra respinge al mittente l’affondo di Salvini: «La Marina continua ad assicurare i tradizionali compiti istituzionali di difesa dei confini marittimi, di salvaguardia degli interessi nazionali e di sicurezza della nostra comunità. Abbiamo “Mare Sicuro”, che arriva fino alle acque davanti le coste libiche. Abbiamo quattro navi già schierate, compresa Nave Caprera in porto a Tripoli per l’assistenza tecnica alla Guardia costiera libica. Ma l’operazione prevede fino a un massimo di sei unità, cinque mezzi aerei e un contingente di 754 persone». Quindi si procede. Sottolineando che proprio l’intervento della Difesa poteva essere risolutivo per chiudere il «caso Mediterranea». Il riferimento è a quanto accaduto venerdì scorso quando Malta aveva concesso il permesso di sbarco e il veliero Alex ha atteso in alto mare l’arrivo delle motovedette che avrebbero dovuto accompagnare il viaggio verso La Valletta, ma nessuno è arrivato e ha deciso di fare rotta verso Lampedusa. Ora Trenta svela i dettagli: «Il generale Pietro Serino, il mio capo di gabinetto, ha chiamato il prefetto Matteo Piantedosi offrendo il supporto delle navi militari. Abbiamo chiarito che con le nostre navi potevamo occuparci del trasbordo immediato dei migranti a Malta, quindi per portarli lontano dalle nostre coste visto che anche pubblicamente le autorità de La Valletta si erano dette pronte ad accoglierli. Eravamo a disposizione per il massimo sostegno, ci è stato detto che non serviva. Siamo rimasti a disposizione, pronti. Ma da quel momento non è più arrivata alcuna richiesta del Viminale. Salvini ha fatto una diretta social, ma istituzionalmente solo silenzio». Trenta non lo dice, ma l’accordo con il premier maltese Joseph Muscat era stato raggiunto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che aveva poi sollecitato tutti i ministri a collaborare. «Il nostro spirito — chiarisce la ministra — è sempre di massima cooperazione. Non ho motivo di dubitare di Salvini, se ha ritenuto così avrà avuto i suoi buoni motivi. A questo punto trovo però inopportuno che attacchi sempre i militari. L’ho già detto varie volte e lo ribadisco: serve rispetto». Mentre lo ripete pensa anche a quanto accaduto dieci giorni fa proprio a Lampedusa, quando la capitana di Sea Watch Carola Rackete ha forzato il blocco ed è entrata in porto: «Non mi interessano i nomi o altro, se violi leggi dello Stato italiano ci sono delle conseguenze. E poiché ha messo in pericolo anche la vita dei nostri ufficiali della Guardia di finanza, è stato uno spettacolo che non approvo».
Alex, Matteo Salvini accusa Elisabetta Trenta: il sospetto, gioco sporco per favorire le ong. Libero Quotidiano il 7 Luglio 2019. Per il caso della ong Mediterranea e Alex, tensione alle stelle tra Matteo Salvinie il ministro dell'Economia, Elisabetta Trenta, accusata dal collega agli Interni di averlo lasciato solo. Un'accusa alla quale hanno replicato a stretto giro fonti della Difesa, citate da Il Messaggero. Queste affermano che nelle ultime 48 ore a Salvini è stato assicurato supporto, così come sarebbero state date indicazioni per scortare Alex fino a Malta, come chiesto dal vicepremier leghista. Le stesse fonti affermano che ci sarebbero mail e comunicazioni a provarlo e che Salvini avrebbe rifiutato l'aiuto. "Ha respinto il nostro aiuto, in più di un'occasione. Questi sono i fatti". Presa di posizione sospetta, quella del ministero della Difesa, alla luce dei precedenti. Si pensi per esempio quando, lo scorso aprile, Salvini aveva inviato una circolare in cui vietava l'ingresso in porto della Mare Jonio anche ai vertici militari. Un'invasione di campo dovuta alla volontà di assicurarsi che dalla Trenta non arrivassero "assist" alle ong; invasione di campo che scatenò il ministro della difesa che aveva parlato di "ingerenza senza precedenti".
Elisabetta Trenta come Laura Boldrini su ong e immigrati: pronta a tutto contro Matteo Salvini. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 9 Luglio 2019. Non la si può che definire una mossa politicamente suicida. Per combattere l' immigrazione clandestina il ministro pentastellato della Difesa Elisabetta Trenta vuole adottare la linea di Laura Boldrini. La grillina, in risposta al collega dell' Interno Matteo Salvini che già mesi fa aveva annunciato che l' Italia sarebbe uscita dalla missione navale europea Sophia, ha dichiarato che «quanto sta accadendo nel Mediterraneo si sarebbe potuto evitare». «Lo avevo detto a Salvini: senza Sophia torneranno le Ong». Sophia, lo ricordiamo, sembrava che a fine marzo dovesse terminare, poi è stata prorogata di 6 mesi ma confinata al solo pattugliamento aereo del mare. Il capo del Viminale ha risposto piccato: «Il lunedì mattina mi alzo contento, altri un po' nervosetti, problemi loro. Sophia, con tutto il rispetto, recuperò decine di migliaia di immigrati e li portò tutti in Italia, perché questo prevedevano le regole della missione. Ditemi se il contrasto dell' immigrazione clandestina si fa in questo modo». Dicevamo che la Trenta ha fatto sua la strategia, chiamiamola così, dell' ex presidente della Camera, che ieri ha detto: «Per me Sophia va ripresa. Magari le regole d' ingaggio si ridiscutono, ma non si può sguarnire il Mediterraneo». Peccato che le regole d' ingaggio (figuriamoci comunque se la paladina dell' accoglienza le ridiscuterebbe) furono decise quando lei ricopriva il ruolo di terza carica dello Stato. La Boldrini ha anche parlato del caso della costosissima barca a vela dei centri sociali, "Alex", che ieri è stata confiscata dalla Finanza dopo la notifica di uno sconfinamento in acque territoriali precedente all' approdo illegale a Lampedusa: «Un' imbarcazione che può trasportare 18 membri di equipaggio non poteva fare 100 miglia con 80 persone, non era in grado di navigare». E allora perché i responsabili della nave hanno caricato in fretta e furia tutti i migranti strappandoli alla guardia costiera libica? L'imbarcazione della Ong italiana Mediterranea era anche in grado di navigare (in caso contrario ha messo deliberatamente a rischio la vita dei passeggeri) se prima di fare irruzione a Lampedusa ha ignorato porti più vicini. Ma la Boldrini ha avuto anche l' ardire di aggiungere: «Ci sono interessi per creare una crisi internazionale e a non trovare un accordo sui soccorsi. Salvini, anche quando si prospettano soluzioni non le prende in considerazione, la tira lunga perché gli fa comodo».
LA "SOLUZIONE". I risultati della "soluzione" adottata 4 anni fa dai Dem, invece, hanno prodotto i seguenti numeri forniti dal Viminale: Sophia tra il 2017 e il 2018 ha portato in Italia 18.390 richiedenti asilo. Il comitato per l' ordine e la sicurezza ha disposto l' uso delle navi della Marina e della Finanza per controllare le partenze dei migranti e a difesa dei nostri porti. Salvini ieri è tornato a polemizzare coi giudici: «Vedremo se finirà a tarallucci e vino o se chi ha infranto le leggi italiane verrà punito». In serata Salvini ha aggiunto che i magistrati hanno elementi che metterebbero in relazione Ong e scafisti: «Qualcuno dalla Libia chiama Roma per dire "siamo qui, dove ci vediamo?"». Di Maio ha provato a sfotterlo: «Sui migranti Salvini si sente solo? Gli mandiamo un peluche». Neppure il tempo di far sbarcare a Malta i 65 migranti raccolti giovedì da un gommone in acque Sar libiche che la Alan Kurdi si è diretta nuovamente al largo di Tripoli.
LA MINACCIA SPAGNOLA. La nave della Ong tedesca Sea Eye ha comunicato di aver ricevuto una segnalazione da un altro gommone. OpenArms invece, la nave della Ong spagnola, ha ricominciato a girare al largo di Tripoli. Il governo di Madrid, secondo quanto ha riferito il quotidiano El Diario, avrebbe paventato multe fino a 900 euro in caso di prosecuzione dell' attività al di fuori delle acque di ricerca e soccorso spagnole, l' unica consentita. Alessandro Gonzato
Ong, Elisabetta Trenta e l'asse con Ursula von der Leyen: "No ai porti chiusi, aiutare in mare ogni persona". Libero Quotidiano l'11 Luglio 2019. "Il blocco dei porti da parte delle navi della Marina per frenare l'immigrazione? Nessuno me lo ha chiesto" ha riferito il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta appena uscita dal vertice sull'immigrazione. Appuntamento, questo, tanto caro a Matteo Salvini, perché al centro del dibattito c'era proprio il decreto Sicurezza bis e, in particolare, la questione dei porti chiusi. L'incontro, avvenuto mercoledì 10 luglio, non ha portato nelle tasche del vicepremier grandi soddisfazioni. Nel primo giorno di votazioni - chiarisce Il Giornale - il numero degli emendamenti presentati è stato dimezzato: su 547 ne sono stati dichiarati inammissibili 260. Ma i leghisti sono stati attaccati alle spalle anche dagli alleati di governo, che hanno tentato di appellarsi al principio di non respingimento contenuto nella Convenzione di Ginevra. Non solo, perché i 5 Stelle hanno anche chiesto al ministro di non limitare l'ingresso o il transito delle navi e di escludere dai divieti le "navi impegnate in attività di soccorso", come le tanto controverse Ong: "Gli emendamenti depositati a firma Sarli-Gallo sono da considerarsi a titolo personale poiché non in linea con la posizione espressa dal M5s. Si ricorda che il M5s ha espresso il suo favore all'aumento delle sanzioni e proposto un emendamento per la confisca immediata delle imbarcazioni che violano le leggi dello Stato. Dobbiamo mettere un punto a chi sfrutta i migranti per farsi pubblicità" hanno puntualizzato. Contemporaneamente è intervenuta sul tema migranti anche la candidata alla presidenza della Commissione, Ursula von der Leyen, che ha detto: "È importante aiutare in mare ogni persona che si ritrova su imbarcazioni di fortuna e per questo è necessario ridare vita alla missione Sophia. Lo so che alcuni Stati membri costieri si sentono soli. Una riforma di Dublino è una prossima tappa a cui dobbiamo pensare insieme. I paesi costiere non devono affrontare il problema da soli". Dopo la momentanea sconfitta, la Lega è pronta a ripresentare gli emendamenti giudicati inammissibili, durante l'esame del decreto Sicurezza bis da parte dell'Aula della Camera. Esame previsto da calendario per lunedì 15 luglio, ma che potrebbe essere rinviato a mercoledì 17, come annuncia il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Giuseppe Brescia (M5s).
Matteo Salvini, lo sproloquio del grillino: "Si sente Maradona ma...", e via di insulti. Libero Quotidiano il 7 Luglio 2019. Scontro nella maggioranza. Alle critiche del vicepremier Matteo Salvini, che si è lamentato di essere stato lasciato da solo a gestire la crisi delle navi delle Ong, è arrivata la risposta del sottosegretario agli esteri Manlio Di Stefano (M5s): "Nel tentativo di nascondere l'evidenza, ieri qualcuno è arrivato ad attaccare direttamente i propri colleghi di governo inciampando in una gaffe dietro l'altra”, scrive oggi su Facebook. Poi l’affondo: "Se vuoi fare tutto da solo e non passi mai la palla, se tieni lo sguardo fisso a terra senza accorgerti mai dei tuoi compagni, in porta non ci arrivi mai. Se ti senti Maradona e poi giochi come un Higuain fuori forma è un serio problema, perché di mezzo c'è il Paese. Non si può dire che è sempre colpa degli altri". Di Stefano, nel suo post, sottolinea: “Nelle ultime 48 ore abbiamo assistito alla fiera dell'ipocrisia. Tutto il mondo concentrato sui 54 migranti della Mediterranea, mentre nella notte ne erano già sbarcati più di 70 a Lampedusa con piccole imbarcazioni. Di fronte a un'emergenza tale le parole non bastano e i nodi vengono tutti al pettine. Ci si aspetterebbe dai colleghi di governo, soprattutto, un po' di rispetto. E invece per qualcuno l'orgoglio sembra essere più forte di qualsiasi altra cosa. Più forte della verità stessa". “Si è chiesto l'intervento della Marina in acque italiane, ma è la Guardia di Finanza a svolgere le funzioni di polizia del mare", aggiunge Di Stefano, "dunque il Ministero dell'Economia, non la Difesa. Ci si è lamentati di non aver ricevuto alcun sostegno, ma è stato il Viminale a rifiutare la proposta della Difesa di trasbordare i migranti a Malta e su questo ci aspettiamo delle spiegazioni”.
Spadafora attacca Salvini: "Insulti sessisti contro Carola". Il ministro: "Si dimetta". Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle pari opportunità, Vincenzo Spadafora, si scaglia contro il ministro dell'Interno, Matteo Salvini: "Odio maschilista contro Carola". L'ira della Lega: "Si scusi o si dimetta". Alessandra Benignetti, Martedì 09/07/2019, su Il Giornale. È un attacco a tutto tondo al ministro dell’Interno Matteo Salvini l’intervista concessa a Repubblica dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle Pari opportunità, Vincenzo Spadafora. Dagli insulti a Carola Rackete, alla condizione delle donne migranti, fino alle carte d’identità con scritto padre e madre che discriminano gli omosessuali, è un continuo j’accuse contro il vicepremier leghista e gli alleati di governo.
L'attacco a Salvini: "Da lui odio maschilista contro Carola". Dopo lo scontro con la ministra della Difesa in quota pentastellata, gli attacchi sul Blog delle Stelle e i paragoni calcistici del sottosegretario Manlio Di Stefano, non si placa l’offensiva grillina contro il leader della Lega. “L'Italia vive una pericolosa deriva sessista, come facciamo a contrastare la violenza sulle donne, se gli insulti alle donne arrivano proprio dalla politica, anzi dai suoi esponenti più importanti?”, provoca il fedelissimo di Luigi Di Maio con un chiaro riferimento. Quello agli “attacchi verbali" del vicepremier alla capitana della Sea Watch 3. “L'ha definita criminale, pirata, sbruffoncella”, continua Spadafora. “Parole, quelle di Salvini – prosegue il sottosegretario - che hanno aperto la scia dell'odio maschilista contro Carola, con insulti dilagati per giorni e giorni sui social”. Poi c’è la “tragedia delle donne migranti” che secondo l’esponente grillino porta "la firma della Lega". “Il decreto sicurezza peggiorerà ancora di più la loro condizione di vulnerabilità, il ministero dell'Interno le sta lasciando senza più supporti", denuncia nel giorno della presentazione del primo censimento nazionale dei centri antiviolenza. E tra le vittime del clima di ostilità, per il sottosegretario, non ci sarebbero solo le donne ma anche gli omosessuali. “Ero a Palermo, con una coppia di papà che stavano registrando all'anagrafe la loro bambina, l'ufficiale di stato civile ha allargato le braccia dicendo: 'Non ci possiamo fare niente, lo spazio è quello, uno di voi due verrà definito madre per legge'", racconta criticando una delle prime misure volute dal ministro dell’Interno.
L'ira della Lega: "Scuse o dimissioni". Le parole del sottosegretario hanno scatenato un putiferio. Dal fronte leghista il coro è unanime: “Si scusi o si dimetta”. "Si può anche dissentire dal pensiero di un membro del Governo di cui si fa parte, ma c'è modo e modo e a tutto, comunque, c'è sempre un limite”, tuona il capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari. E a chiedere un passo indietro del sottosegretario è lo stesso titolare del Viminale: "Cosa sta a fare al governo con un pericoloso razzista e maschilista? Se pensa che sono così brutto e cattivo, fossi in lui mi dimetterei e farei altro, ci sono delle Ong che lo aspettano".
Le reazioni politiche: "Vile strumentalizzare il tema della violenza di genere". “Vile” strumentalizzare “il dramma della violenza per attaccare Salvini” secondo la ministra per gli Affari Regionali e le Autonomie, Erika Stefani. Dello stesso parere anche la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della commissione di inchiesta parlamentare per il Femminicidio, che chiede di non cercare visibilità “sulla pelle delle donne”. Di intervista “delirante” parla, infine, Giorgia Meloni, che ha espresso solidarietà al ministro Salvini per le "gravissime parole pronunciate dall’alleato di governo”.
Cancellata la conferenza stampa sui centri anti-violenza. Intanto, forse proprio per le nuove tensioni scatenate nella maggioranza dalle parole del sottosegretario grillino, è stata cancellata la cabina di regia per l’attuazione del piano sulla violenza contro le donne e la conferenza stampa di presentazione del primo censimento nazionale dei centri anti-violenza. L’incontro, al quale Spadafora avrebbe dovuto partecipare assieme al ministro per la Pubblica Amministrazione, Giulia Buongiorno, è stato annullato per “motivi personali” e sarà riconvocato a breve, ha chiarito in una nota proprio il sottosegretario. “Il cinismo di Spadafora è incredibile, su Repubblica attacca le regioni e i centri antiviolenza negando di non aver dato i fondi per loro previsti e oggi che tutti attendevano la cabina di regia per discutere finalmente del piano anti-violenza Spadafora annulla tutto perché non solo non ha idee ma con la sua intervista ha fatto arrabbiare la Lega e Salvini”, ha commentato la presidente dei deputati di Forza Italia, Maria Stella Gelmini. “Siamo davvero allo sbando”, chiosa la parlamentare azzurra, che evidenzia come “a pagarne le spese siano i cittadini, in questo caso le donne vittime di violenza che meriterebbero una sensibilità diversa”.
Di Maio: "Quanto casino per un'intervista". A spegnere l'incendio nel primo pomeriggio arrivano le dichiarazioni del leader del M5S, Luigi Di Maio, che interviene sulla questione cercando di smorzare i toni, blindando però, di fatto, la poltrona di Spadafora. "Quanto casino per un'intervista, ma è possibile che ora debba diventare il problema di questo Paese?", minimizza il vicepremier grillino mettendo l'accento sui "risultati" raggiunti sinora dall'alleanza giallo-verde: "Sono già partiti quasi tutti gli appalti, il 96%, dei 400 milioni stanziati per i Comuni, questi sono temi di cui deve parlare il governo e che ci rendono orgogliosi". "Lavoriamo e andiamo avanti", è l'appello di Di Maio per ricompattare la maggioranza.
Salvini contro Spadafora (M5S): «Io maschilista? Fossi in lui mi dimetterei». Pubblicato martedì, 09 luglio 2019 da Corriere.it. Alta tensione nel governo dopo un’intervista del sottosegretario M5S alle pari opportunità, Vincenzo Spadafora, a Repubblica. Nel colloquio, Spadafora denunciava la «pericolosa deriva sessista» che starebbe vivendo il nostro Paese. «Come facciamo a contrastare la violenza sulle donne, se gli insulti alle donne arrivano proprio dalla politica, anzi dai suoi esponenti più importanti?», ha detto il sottosegretario in occasione della presentazione del primo censimento nazionale dei centri antiviolenza. Per Spadafora, un esempio di insulti contro le donne sono «gli attacchi verbali del vicepremier alla capitana Carola» definita «criminale, pirata, sbruffoncella. Parole, quelle di Salvini, che hanno aperto la scia dell’odio maschilista contro Carola, con insulti dilagati per giorni e giorni sui social». Durissima la replica della ministra leghista Erika Stefani: «È vile usare il dramma delle donne per attaccare Salvini. Andrebbe ripensato l’incarico di Spadafora», il suo commento. E non si è fatto attendere quello del vicepremier, in conferenza stampa al Cara di Mineo: «Cosa sta a fare Spadafora al governo con un pericoloso maschilista? Se pensa che io sia così brutto e cattivo, fossi in lui mi dimetterei e farei altro, ci sono delle Ong che lo aspettano», ha detto Salvini. Dimissioni invocate anche dai capigruppo al Senato e alla Camera, Massimiliano Romeo e Massimo Molinari. Il ministro dell’Interno ha poi aggiunto: «Per me il governo dura altri 4 anni, spero, certo se ogni giorno c’è un sottosegretario del Movimento 5 stelle che si alza la “spara”, diventa impegnativo... Lavorassero, se invece hanno voglia di fare polemica io son qua a fare il mio lavoro e vado a fare un giro nel centro liberato», ha detto riferendosi al centro di Mineo, definitivamente svuotato. Per i centri antiviolenza di genere, Spadafora ha anche fatto il punto sugli interventi e ha anticipato: «Abbiamo messo in campo più fondi, quest’anno 37 milioni di euro». Ha però aggiunto che «vogliamo essere sicuri che vengano rispettati i requisiti previsti dall’intesa che proprio i centri hanno firmato con il governo». E per i controlli ci sarà anche «una task force di ispettori». Conseguenza della tenzone, è saltata la cabina di regia per l’attuazione del piano sulla violenza contro le donne e la successiva conferenza stampa che era prevista per oggi con Giulia Bongiorno. L’annullamento è stato comunicato da Spadafora che ha addotto «motivi personali». «A breve, il sottosegretario annuncerà le date di riconvocazione di entrambe, considerato il rilievo strategico del sostegno ai centri anti violenza e a tutte le iniziative legate alle Pari Opportunità», ha scritto in una nota.
TE LO DO IO IL SESSISMO. Carmelo Caruso per il Giornale il 10 luglio 2019. Ferisce una donna la parola «sbruffoncella» o ci indigna ancora tutti «la vecchia p» che Beppe Grillo rivolse a Rita Levi Montalcini? Ed è sgradevolissimo essere costretti a ricordare l' oltraggio di Massimo Felice De Rosa, deputato del M5s, che, in aula, coprì le colleghe del Pd con questa sporcizia: «Siete qui perché brave solo a fare i pom». Convinto di trovare nel sessismo «il lato debole» di Matteo Salvini, il sottosegretario alle Pari Opportunità del M5s, Vincenzo Spadafora, ha rilasciato ieri a La Repubblica l' intervista più maldestra dell' estate, un vero sfogo da Tartufo: «Parole come quelle di Salvini hanno aperto la scia all' odio maschilista contro Carola». Ingiustificabili e intollerabili, va innanzitutto detto che gli insulti finora filmati e rivolti alla Rackete, appena sbarcata a Lampedusa, sono stati rivendicati da un uomo che si è prontamente dichiarato «elettore del M5s». Non si discute dunque l' urgenza di rispetto e di decoro nei confronti dell' altro sesso, ma va messa in discussione l' autorevolezza della cattedra. Lo scorso novembre, sul blog ufficiale del M5s, è stata infatti consentita la pubblicazione di ogni tipo di oscenità contro la deputata di Forza Italia, Matilde Siracusano, perché, scriveva un utente evidentemente sfuggito alla sensibilità di Spadafora, «senza offendere la categoria delle prostitute, c' è chi lo fa per soldi, ma questa p lo fa per lei». La colpa della Siracusano era di aver aspramente criticato il decreto anticorruzione a firma del M5s e aver alzato il tono in aula. Per i cecchini digitali del M5s avrebbe così «indirettamente gridato al mondo quanto desidera farsi sfon». A esercitarsi nel M5s in indecenza era stato per primo proprio Grillo che, in occasione delle Europee del 2014, lanciò la sua campagna elettorale paragonando le candidate avversarie a «quattro veline» «e la loro scelta è una presa per il culo ma tinta di rosa». In verità, Grillo, si era già distinto per garbo anche con le sue stesse donne. Di Federica Salsi, consigliera M5s di Bologna ed espulsa, disse che la televisione era «per lei il punto G». A Spadafora sarà evidentemente fuggito dai ricordi il referendum promosso intorno a Laura Boldrini, ancora una volta da Grillo, arbitro di maniere, e che ha favorito un concorso di ignobili risposte: «Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?». Alla domanda rispose Claudio Messora, ex capo della comunicazione del M5s: «Cara Laura anche se noi del blog fossimo dei potenziali stupratori tu non corri nessun rischio». Era lo stesso Messora che, in un post, rivelò che tipo di fantasie avesse: «Ho fatto una cosetta a tre con la Carfagna, la Gelmini e la Prestigiacomo». Per arginare minacce e sconcezze che prosperavano sul blog di Grillo, la vicepresidente della Camera, Mara Carfagna, è stata costretta, in passato, a rivolgersi alla magistratura. Ma le attenzioni di Grillo si sono concentrate anche a sinistra. Contro Maria Elena Boschi, il fondatore, lanciò l' hashtag #boschidovesei e per infiammare gli incappucciati condivise il commento «la Boschi è in tangenziale con la Pina», dove per Pina si intendeva l' altra deputata del Pd, Pina Picierno, mentre tangenziale era parola figurata. In questo speciale campionato ha giocato anche il senatore Nicola Morra che, agli attivisti, con relativa foto, chiese se la Boschi sarebbe stata ricordata più «per le forme o le riforme». Nel Lazio, il consigliere Davide Barillari ha pensato di fare opposizione a Zingaretti intimandogli di smettere di «fare la donniciola che piagnucola». E forse il commento più spiacevole rimane quello di una donna del M5s a Giorgia Meloni che quotidianamente è oggetto di odio trasversale. Si tratta di Roberta Lombardi del M5s che della Meloni, candidata e futura madre, disse: «Strumentalizza la gravidanza». Mai come oggi è quindi tanto indispensabile il testo di Filippo Maria Battaglia, Stai zitta e va' in cucina (Bollati Boringhieri). Racconta di quanto il maschilismo sia un ritardo italiano, un nodo autentico, e non lo sgambetto di Spadafora a Salvini. Ieri, è invece tornato a essere l' argomento per una zuffa fra soli uomini.
La debolezza di Matteo Salvini è donna. Dopo mesi di “bacioni” agli oppositori maschi, appena si palesa un avversario in gonnella sbrocca. E l’unica volta che chiede le dimissioni di un 5 Stelle non è per Tav, Flat Tax o Autonomie, ma per le accuse di sessismo di Spadafora. Lucia Annunziata su L'Huffington Post il 09/07/2019. Definitivamente, le donne fanno perdere la testa a Matteo Salvini. Reazione non sorprendente in un uomo, se si tratta di amore. In questo caso si parla invece di tutt’altro. Dopo mesi al Governo infatti il vigoroso (e per favore non prendete questo aggettivo come un doppio senso) vicepremier, che ha girato ripetutamente tutta Italia e ritorno, e ha incrociato Facebook live, foto e dichiarazioni con la metà della popolazione maschile di suoi avversari, usando come arma letale l’ironia dei “bacioni”, appena si è palesato un avversario politico in gonnella ha sbroccato. Certo non era un avversario da poco – era nientemeno una tedesca (ahi!), che esercitava il ruolo del Capitano, cioè lo stesso che dall’epoca di Schettino solo Salvini è riuscito a riscattare. Sfida non da poco, insomma. Ma la reazione è stata davvero innovativa nel suo linguaggio. Archiviato il bacione e le ironie, è passato a “pirata”, “criminale”, per finire in quell’appassionato vaffa che rimarrà nella nostra memoria come la sintesi di questa vicenda: “Questa sbruffoncellami ha rotto le palle”, una frase che ha il sapore dei postriboli dei porti intorno al mondo. È stato interessante, al momento, ascoltare quello strappo nella tela del discorso pubblico del vicepremier. Tenendo conto della galanteria dell’uomo, dei mazzi di fiori promessi a giornaliste, e delle multiple glorificate attività da papà di una figlia femmina, la volgarità è sembrata un inciampo, o forse (proviamo a dirlo alla Morisi?) solo un po’ di sana rottura con la correttezza politica. Una cosa che lo avvicinerebbe al popolo, secondo gli schemi della attuale propaganda politica. Cose insomma che Salvini fa per ottenere consenso. Alla fine però Carola era una, immaginiamoci dunque cosa deve essere scattato nella sua testa quando sul suo tavolo ministeriale gliene sono arrivate 33 mila. Tante sarebbero le donne italiane in fuga dalla violenza, secondo il primo censimento nazionale dei centri antiviolenza, per i quali il Governo avrebbe dovuto oggi annunciare un programma di assistenza economica, per iniziativa di Vincenzo Spadafora, sottosegretario pentastellato alla presidenza del Consiglio con delega alle Pari Opportunità, e della ministra della Giustizia, in area Lega, Giulia Bongiorno. Tutte e 33mila sono cadute sul tavolo del vicepremier quando Spadafora ha avuto una idea balzana per tempi come questi: annunciare l’appuntamento dicendo una verità: “ L’Italia vive una pericolosa deriva sessista. Come facciamo a contrastare la violenza sulle donne, se gli insulti alle donne arrivano proprio dalla politica, anzi dai suoi esponenti più importanti?”; e tanto per essere chiaro ha parlato proprio di Carola e del vicepremier: “L’ha definita criminale, pirata, sbruffoncella. Parole, quelle di Salvini, che hanno aperto la scia dell’odio maschilista contro la Capitana, con insulti dilagati per giorni e giorni sui social”. Ora, sarà perché l’intervista di Spadafora è stata data a un giornale, La Repubblica, che fa storcere il naso al leghista, o sarà perché, diamine, essere chiamato in causa per 33 mila donne è un po’ tanto, certo è che il vicepremier ha di nuovo perso la testa – e neanche la presenza dell’unica donna in ruolo pubblico che Salvini ammira, Giulia Bongiorno, lo ha trattenuto. Per cui, dopo aver risposto nei mesi scorsi con buffetti a schiaffoni dei 5 stelle, e dopo aver predicato la calma in risposta alle critiche di colleghi ministri su temi molto più divisivi come la Tav, i porti chiusi, il Sud o l’Autonomia, ecco che per Spadafora sgancia l’atomica chiedendone le dimissioni: “Cosa sta a fare il sottosegretario? Sta al Governo con un pericoloso razzista e maschilista? Fossi in lui mi dimetterei”... “Non ritenendomi un razzista e un maschilista non ho nulla da rispondere a scemate del genere . Se mi ritiene così brutto si dimetta e faccia altro nella vita. Ci sono delle ong che lo aspettano”. Insomma, nessuno si permetta di difendere una donna. In termini di governo, pare questo finora l’unico punto su cui il Capitano traccia la sua linea rossa. La sua zona demilitarizzata. Ora è in corso il solito blablaismo con cui questo Governo consuma i suoi inutili giorni. I leghisti come un solo uomo, e con il rinforzo di qualche donna, hanno sposato subito la posizione dell’amato leader. I pentastellati si sono, al solito, spaccati, come sempre più spesso succede quando parla Salvini, fra silenzi e tentativi di calmare le acque. A fine giornata il copione ha preso la solita piega, con la solita conferenza stampa in cui Salvini ha derubricato il tutto al solito incidente di percorso e ritirato la sua richiesta di dimissioni del sottosegretario Spatafora. Peccato. Ci sarebbe piaciuto sentire la motivazione ufficiale per le dimissioni: sarebbero state “per aver accusato il vicepremier di sessuofobia”? E peccato perché stavolta il percorso non può davvero chiudersi qui. Dalla rappacificazione finale viene infatti espulsa la ragione stessa della querelle: le donne. Spatafora ha detto una verità pesante per il Governo: ha puntato l’attenzione sulle responsabilità dei discorsi pubblici dei suoi uomini. Si può fare un’efficace lotta a difesa delle donne, dei loro dirititi, della loro forza pubblica, oltre che della loro debolezza come vittime, se l’uomo più forte dell’Esecutivo apre la porta all’odio sessista? Ricordiamo qui, ancora una volta, che dal fiume di parole di Matteo Salvini in questi mesi mai è emersa una difesa, netta, pulita, indiscutibile, della necessità di porre limiti al linguaggio sguaiato dell’odio. Non lo ha fatto nel caso di donne con ruolo politico, come Laura Boldrini, e non lo ha fatto in momenti cruciali del dibattito pubblico. Quando Carola Rackete scendeva dalla nave le veniva urlato “ti devono stuprare i tuoi amici neri”. Ancora oggi mi domando se non sia parte del ruolo del Ministro dell’Interno porre un limite alle pratiche di violenza pubblica verbale, a pratiche di aggressione a un genere, a un individuo, a una comunità. Non è forse parte del Ministero dell’Interno evitare la creazione di un clima di non conflittualità sociale? Così come nella polemica odierna: solo perché Lega e 5 stelle hanno bisogno di continuare a governare insieme, possiamo chiudere come un incidente le critiche emerse? Archiviando quello di Spadafora a “un’intervista” come ha fatto Di Maio, ad esempio, si mette da parte anche la ragione delle critiche, cioè il diritto delle donne ad essere non umiliate. Le 33 mila in fuga dalla violenza, di violenza ne hanno incontrata un’altra.
Le donne, dicevamo, fanno perdere la testa a Salvini. Per precisione, si tratta solo delle donne che non la pensano come lui, o che non condividono il suo modello di partecipazione. Di sicuro nelle sue rabbiose reazioni ribolle un modello straordinariamente burbero, impaziente, dominante dell’Io dell’uomo. In questa sottile, ma enorme sfasatura rispetto al reale, si cela una grande debolezza di questo leader.
Matteo Salvini, la Chirico e la verità su sessismo, Carola Rackete e Spadafora: "Il più virile nel M5s..." Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano l'11 Luglio 2019. E giustamente, dopo razzista, fascista e nazista, mancava solo l'epiteto di sessista per il Gran Cattivone Matteo Salvini. Non avendo più argomenti politici né voti per contrastarlo, ormai gli avversari la buttano sull'insulto gratuito, sul marchio d'infamia, sulla delegittimazione a priori e a prescindere. L'esercizio si fa ancor più vile se a praticarlo è un alleato (teorico) del ministro dell'Interno, come il grillino Vincenzo Spadafora, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che l'altro giorno, intervistato dal Repubblica, ha definito Salvini «un sessista» per le sue frasi rivolte a Carola, la capitana della Sea Watch. Frasi in cui una «femminista atipica», per sua stessa definizione, come Annalisa Chirico, firma deIl Foglio e presidente di Fino a prova contraria, intravede semmai la conferma del femminismo salviniano.
Attaccare Salvini è ormai lo sport nazionale più praticato?
«Direi proprio di sì ma non c'è da fare le vittime. Il vicepremier ha le spalle larghe e dubito che gli insulti di Spadafora costituiscano per lui un rovello interiore. Salvini è un superfemminista. Crede nella parità tra uomo e donna al punto che tratta le donne alla pari, nel bene e nel male. Chiamando Carola "sbruffoncella" l'ha elevata a interlocutrice politica, insomma le ha fatto un regalo».
Se Salvini dà a Carola della «pirata» e della «sbruffoncella» è un sessista, mentre se Carola dà a Salvini del «razzista» nessuno ha da obiettare alcunché. C'è qualcosa che non torna.
«Io mi batterei se qualcuno volesse impedire a Carola di apostrofare come crede il ministro dell'Interno il quale, dal canto suo, ha il sacrosanto diritto di chiamarla sbruffoncella. D'altronde, Salvini avrebbe usato espressioni identiche contro qualsiasi capitano di una nave straniera che si fosse diretto verso le nostre coste violando le leggi nazionali, infischiandosene degli alt ripetuti delle autorità italiane e mettendo a repentaglio la vita di cinque militari. Salvini avrebbe detto le stesse cose anche se Carola si fosse chiamata Carlo o Marco».
Lei sostiene che con quelle parole Salvini, anziché discriminarla, le ha messo una medaglia al petto.
«Esatto, il ministro, affrontandola a muso duro, ha compiuto un atto squisitamente femminista, le ha riconosciuto una dignità politica, l' ha trattata veramente alla pari. Le donne non hanno bisogno di trattamenti speciali o corsie preferenziali, non siamo mica figlie di un dio minore. Sappiamo essere dolcissime e stronzissime, glielo assicuro. Ci sono perfino donne, alcune siedono in Parlamento, che usano termini volgari come e più degli uomini. Per questo non mi preoccupa il linguaggio di Salvini, il suo essere un po' trucibaldo, mi inquieta piuttosto chi come Spadafora vuole censurare le parole per censurare il pensiero. Ci vogliono asserviti alla dittatura del politicamente corretto».
Il sessismo contro le donne è un finto problema?
«Io ritengo che chi è ossessionato dal sessismo dovrebbe praticare più sesso, per distrarsi, altrimenti non si spiega perché il sesso sia diventato per taluni quasi un' ossessione. Per carità, ognuno ha le proprie perversioni ma non si può continuare a proporre l'immagine della donna eterna vittima, bisognosa di protezione. Ormai ogni governo s'inventa una legge anti-violenza, qualche scarpetta rossa, per mostrare le stimmate del femminilmente corretto. Sia chiaro, la violenza fa schifo, sempre, e va combattuta, ma il fenomeno, per fortuna, riguarda una esigua minoranza. Le priorità delle donne italiane sono altre: guadagnare l' indipendenza economica per godere della propria indipendenza privata, uscire dall'odioso aut aut tra lavoro e maternità. Il governo si occupi di questo, anziché esercitare propaganda a buon mercato».
L'immagine di Salvini machista è un falso mito?
«Salvini è un maschio, non un macho. È l'uomo apprezzato dalle masse e dalle massaie, è il pater familias che riporta legge e ordine. Rappresenta la mascolinità in un'epoca di confusione dei sessi; incarna il principio di autorità in una società deresponsabilizzata; è il campione della difesa della patria che è una parola bellissima e non appartiene ai fascisti. La patria è il luogo dove riposano le ossa dei padri».
Chi lo insulta lo fa perché non sa più come contrastarlo politicamente?
«Io trovo ridicolo che proprio i grillini vogliano impartire lezioni di bon ton verso le donne: sono privi di autorevolezza in materia, se non altro per il florilegio di insulti scagliati contro il gentil sesso da Grillo&Co. La verità è che Di Maio e Spadafora sono nervosetti: nel giro di un anno hanno dimezzato i consensi e incassano qualunque cosa per restare incollati alle poltrone. Se si andasse a votare, dovrebbero introdurre la deroga al limite dei due mandati per potersi ricandidare».
Se Salvini è il politico più maschio, esiste un suo corrispettivo nei 5 Stelle?
«Direi che questo governo non spicca per gli elevati tassi di testosterone. Conte e Di Maio avranno mille difetti ma tra questi il machismo non è contemplato. Forse, in casa pentastellata, il più virile di tutti resta Paola Taverna». Gianluca Veneziani
"Così infetta la nostra società": Boldrini al veleno su Salvini. L'ex presidente della Camera Boldrini passa agli insulti: "La violenza verbale di Salvini ha messo in ginocchio l'Italia". Chiara Sarra, Martedì 09/07/2019 su Il Giornale. Se Vincenzo Spadafora non si fa nessuno scrupolo a dare del "sessista" all'alleato di governo, Laura Boldrini sembra non aspettasse altro per rintuzzare la polemica e tornare a insultare Matteo Salvini. Che l'ex presidente della Camera - dopo il caso della "bambola gonfiabile" che aveva tenuto banco sui giornali nell'estate di tre anni fa - prenda "positivamente atto" delle parole del sottosegretario non sorprende. Ma poi rincara la dose e incolpa il vicepremier di una "emergenza odio" che "infetta la società". "È stato Salvini ad avviare la politica dell’odio che ruota attorno alla ricerca del capro espiatorio", dice la deputata di Leu a l'Huffington Post, "Una volta se la prende con i migranti, un’altra con le istituzioni europee, un’altra volta ancora con chi lavora nei centri di accoglienza. Addirittura è arrivato a prendere di mira il vincitore di Sanremo. Tutto questo infetta la società". Per la Boldrini il vero male dell'Italia è addirittura la propaganda di Salvini che "ha messo in ginocchio" il Paese: "Ma quale emergenza migranti? Qui da noi la vera emergenza è l’emigrazione, la fuga dei nostri giovani che formiamo e poi regaliamo al resto del mondo", sostiene, "Per non parlare dell’iniquità fiscale e della questione ambientale, assente dal dibattito pubblico. Se questo è un governo…". Ma ne ha pure per lo stesso Spadafora, reo di essere "un po’ Alice nel Paese delle Meraviglie: era nota a tutti la violenza verbale di Salvini": "Non dimentichiamoci le bambole gonfiabili, oppure le ragazze che lo hanno attaccato esposte nelle sue pagine Facebook o Twitter", dice, "Ecco perché mi appare poco credibile la posizione di Spadafora. A questo punto deve tirare le somme: vuole restare fedele ai suoi princìpi oppure desidera continuare l’esperienza di governo con chi ha un’opinione opposte alla sua?'".
Busta con proiettile per Salvini. "È colpa dell'odio della sinistra". Ancora minacce di morte contro Salvini: nella busta il colpo avvolto nella stagnola. Il ministro: "Le parole di odio di certa sinistra convincono certe menti malate". Sergio Rame, Giovedì 11/07/2019, su Il Giornale. È il risultato della continua campagna d'odio contro Matteo Salvini. Dopo gli attacchi alle sedi leghiste, ai blitz dei centri sociali per bloccare gli interventi pubblici e gli slogan violenti che vengono ripetuti ad ogni manifestazione anti governativa, è arrivata anche una busta con all'interno un proiettile. Si tratta del colpo di una calibro 22, avvolto nella carta stagnola e inviato al ministro dell'Interno. "Oltre 100 minacce di violenza e di morte contro di me da quando sono ministro". Quando lo avvertono della busta, Salvini scuote la testa e constata l'ennesima minaccia di morte nei suoi confronti. Quando ieri, al centro meccanografico di Poste Italiane di Sesto Fiorentino, è stato intercettato il plico anonimo, è stata fatta immediatamente intervenire una squadra di artificieri dell'Arma dei Carabinieri. Sulla busta era stato scritto, con lettere ritagliate probabilmente da un giornale, al "ministro Duce Matteo Salvini". E sotto l'indirizzo: "Camera, Roma". Niente di più. Al suo interno, invece, i militari hanno trovato un proiettile calibro 22 che era stato avvolto nella carta stagnola. "Evidentemente le parole di odio di certa sinistra convincono certe menti malate, ma sicuramente non mi fanno paura - garantisce il ministro dell'Interno - anzi, mi danno ancora più forza e voglia di combattere criminali di ogni genere". Dopo essere stata allertata dal centro meccanografico di Poste Italiane di Sesto Fiorentino, la squadra di artificieri dell'Arma dei Carabinieri ha subito ispezionato il plico per verificarne il contenuto e analizzarlo accuratamente. La Polizia di Stato ha già avviato le indagini per riuscire a risalire al mittente.
Matteo Salvini, minacce dall'ex terrorista rosso: "Una volta i proiettili li consegnavamo di persona". Libero Quotidiano l'11 Luglio 2019. Enrico Galmozzi, ex terrorista nonché fondatore dell'organizzazione armata di estrema sinistra denominata Prima Linea, minaccia Matteo Salvini su Facebook. "I proiettili in busta non mi fermeranno. Giù la testa coglione. Non fare il cinema che ti va di culo: una volta invece di spedirli li consegnavamo di persona...". Il riferimento è a dir poco disgustoso. Il ministro dell'Interno ha infatti ricevuto questa mattina, giovedì 11 luglio, l'ennesima busta con all'interno un proiettile. "Oltre 100 minacce di violenza e di morte contro di me da quando sono ministro. Evidentemente le parole di odio di certa sinistra convincono certe menti malate, ma sicuramente non mi fanno paura. Anzi, mi danno ancora più forza e voglia di combattere criminali di ogni genere" aveva commentato il vicepremier. Eppure c'è chi fa di peggio, proprio come quel Galmozzi finito alla ribalta per le peggio atrocità e che di questi tempi non solo si diverte ad insultare il leader della Lega, ma anche a sbeffeggiare le vittime del terrorismo rosso. "Il personaggio Cesare Battisti è stato costruito dalla stampa che non solo ne ha fatto un mostro sotto il profilo criminale, ma ne ha costruito anche una immagine antipatica. Dal momento che nessuno di coloro che ne parlano lo hanno mai conosciuto personalmente (io stesso non lo vedo da 35 anni, non so come sia adesso ma ne conservo un ricordo fraterno) l'antipatia deriva dalle descrizioni delle sue frequentazioni vip e radical chic o dai suoi bagni alla spiaggia di Copacabana e via cazzeggiando. Ora, a parte che un po' di anni di galera (sette) in giro per il mondo se li è fatti, anche in prigioni nelle quali coloro che ne parlano non resisterebbero una settimana, vi assicuro che i suoi 35 anni di latitanza non sono stati tutti rose e fiori...". Scriveva così su Facebook Galmozzi elogiando un altro criminale ben noto e mandando su tutte le furie i familiari delle vittime del terrorismo, che come ricordano "possono parlare sempre di ex terroristi, ma non di ex vittime". I loro cari, infatti, non torneranno più.
SPADAFORA, VADA FORA. Maurizio Belpietro per “la Verità” il 10 luglio 2019. Contro Salvini ne dicono di tutti i colori. L'accusa più sentita è di essere un razzista dei peggiori, seguita a ruota da quell' altra imputazione dello stesso stampo, ossia di voler imporre all' Italia una dittatura di tipo fascista. C' è poi l' insinuazione più grave, ovvero di avere in animo di far affogare tutti gli immigrati, come se fosse responsabilità del ministro dell' Interno ogni naufragio con vittime. Tuttavia, fino a oggi non avevamo ancora letto nulla a proposito dei crimini contro le donne, ossia minacce, molestie e femminicidi. A colmare la lacuna ci ha pensato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il grillino Vincenzo Spadafora, il quale ieri, in un' intervista a Repubblica, se ne è uscito con le seguenti frasi: «L' Italia vive una pericolosa deriva sessista. Come facciamo a contrastare la violenza sulle donne, se gli insulti alle donne arrivano proprio dalla politica, anzi dai suoi esponenti più importanti?». Una risposta che deve aver mandato in sollucchero la giornalista che gli poneva le domande, la quale quindi ha incalzato il responsabile delle Pari opportunità, invitandolo a fare qualche esempio di questo nuovo tipo di misoginia. E quello, non trovando di meglio, che ha detto? Ecco l'arguta replica del politico a 5 stelle con ufficio a Palazzo Chigi. «Gli attacchi verbali del vicepremier alla capitana Carola. L'ha definita criminale, pirata, sbruffoncella. Parole, quelle di Salvini, che hanno aperto la scia all' odio maschilista contro Carola, con insulti dilaganti per giorni e giorni sui social». Non contento di aver preso le difese di una signorina che volontariamente ha violato una legge fatta dal governo di cui egli stesso fa parte, Spadafora si è poi spinto più in là, cioè a parlare di donne immigrate, prendendone le difese: «Sono vittime fra le vittime. E il decreto sicurezza peggiorerà ancora di più la loro condizione di vulnerabilità. Il ministero dell' Interno le sta lasciando senza più supporti, siamo di fronte a una tragedia che ha la firma della Lega». A questo punto, probabilmente, vi starete chiedendo se il sottosegretario intervistato da Repubblica faccia davvero parte dell' esecutivo guidato da Giuseppe Conte e non sia invece un signore lasciato in eredità, assieme all' arredamento e ai guai, dai governi precedenti del Pd. Siamo in grado di confermarvi che colui che ha concesso l'intervista al quotidiano fondato da Eugenio Scalfari fa parte della maggioranza pentaleghista ed è stato eletto in quota grillina. E tuttavia, Spadafora dice cose che lo fanno apparire un marziano. Anzi, a dire il vero, sembrerebbe più un onorevole del Pd o di Sinistra italiana, visto che prende le difese della Capitana e attacca il decreto Sicurezza allo scopo di difendere i migranti. In passato il sottosegretario si era impegnato per far togliere - riuscendovi - il patrocinio della presidenza del Consiglio al Forum delle famiglie, ritenendo che il dibattito a Verona fosse retrogrado solo perché metteva al centro della discussione le famiglie composte da maschio e femmina. E anche ieri, nel colloquio con la giornalista del quotidiano caro alla sinistra, Spadafora ha dato prova di avere un concetto un po' allargato di famiglia. Infatti, alla sollecitazione della cronista che lo invitava a parlare del mondo Lgbt e delle carte d'identità con scritto padre e madre, la risposta del sottosegretario non si è fatta attendere: «Un'assurdità. Su questo il mio pensiero è noto. Ero a Palermo, con una coppia di papà che stavano registrando all' anagrafe la loro bambina. L'ufficiale di stato civile ha allargato le braccia dicendo: non ci possiamo fare niente, lo spazio è quello, uno di voi due verrà definito madre per legge». Dopo aver letto con stupore l' intervista, Salvini ha invitato Spadafora a dimettersi e a unirsi alle Ong, cosa che certamente non dovrebbe dispiacergli, visto che nel 2009 plaudeva alle parole di Laura Boldrini sui migranti, condannando i respingimenti. Ma più che per le accuse al ministro dell' Interno e il sostegno alla Capitana, il sottosegretario dovrebbe scollarsi dalla poltrona per un altro motivo che a noi pare più grave di ciò che abbiamo raccontato finora. Infatti, mentre su Repubblica l'onorevole grillino dà prova di scandalizzarsi per le carte d' identità con scritto padre e madre, quasi che esserlo sia da considerarsi offensivo, non apre bocca sull' inchiesta di Bibbiano, dove decine di bambini sono stati sottratti ai legittimi genitori per essere dati in affido ad altre coppie, alcune delle quali omosessuali. In questo caso i minori non avevano pari opportunità? Non dovevano essere protetti? A quanto pare per Spadafora le cose gravi di cui occuparsi sono solo la Capitana, le donne immigrate e la carta d' identità con scritto padre e madre. Ma allora, forse, è davvero ora che traslochi dai banchi della maggioranza a quelli dell' opposizione. Se seguirà il consiglio vedrà che si troverà certo più a suo agio, visto che Bibbiano è un caso tutto nato e cresciuto a sinistra.
Mediterranea, gli sfoghi di Salvini sul figlio di Tria: "A bordo anche lui". Domenica, 7 luglio 2019 Affari italiani. "La nave Mediterranea è quella che aveva a bordo il signor Casarini, dei centri sociali del Nord-Est, se non ricordo male c'era anche il figlio del ministro dell'Economia. Poi, per carità, ognuno passa il tempo dove meglio crede e con le compagnie che più gradisce". Nel suo attacco alla ong Mediterranea, ai “miliardari finanziatori alla George Soros” al Ministero della Difesa, il ministro dell’Interno e a quello dell’Economia, Matteo Salvini ricorda come per la ong lavori anche Stefano Tria, 38 anni figlio del numero uno del Tesoro Giovanni, a bordo ad marzo della Mediterranea, la barca a vela che ha supportato la Mare Jonio, nave umanitaria che lo scorso è approdata (il 19 marzo) a Lampedusa con 48 migranti soccorsi. Stefano Tria fa parte del circuito degli skipper che si alternano nelle varie missioni di Mediterranea sulla barca a vela che appoggia la stessa Mare Jonio. Una partecipazione, aveva fatto sapere la stessa ong, nata da un normale invio della propria candidatura al sito. Non è la prima volta, ricorda il Corriere della Sera, che i figli, con le loro attività politiche e non solo, mettono in imbarazzo padri celebri e impegnati in politica. E’ successo con Veronica Padoan, figlia del ministro Giancarlo, impegnata a lottare nelle piazze per i diritti degli sfruttati dal caporalato. Ma anche con Giuliana, figlia di Ignazio Visco, nel movimento di estrema sinistra della Capitale. "Se le colpe dei padri non ricadono sui figli, le colpe dei figli non devono ricadere sui padri. Ognuno passa il tempo come vuole...se mio figlio andasse in giro per barconi lo riporterei a casa per l'orecchio, ma ognuno fa come vuole", era stata la critica di Salvini sempre su Stefano Tria in occasione del precedente salvataggio della Mare Jonio.
Gli sbarchi sono calati del 93%. Ma il M5s vuole riaprire i porti. Salvini in conferenza stampa presenta i numeri relativi agli sbarchi in questo 2019: "Il 93% in meno rispetto all'anno scorso". Secondo il leader della Lega, si tratta del successo della sua strategia dei porti chiusi. Scrive Mauro Indelicato, Mercoledì 24/04/2019, su Il Giornale. La questione migranti si inserisce all’interno del clima che oramai appare da campagna elettorale vera e propria, in vista delle elezioni europee. Ed ancora una volta l’accoppiata gialloverde al governo appare su due fronti se non contrapposti, quanto meno distanti. Lo spunto viene dai dati elencati in conferenza stampa nelle scorse ore dal ministro dell’interno, Matteo Salvini. Se fino ad oggi il Viminale guidato dal segretario leghista può vantare i dati di un 2018 contraddistinto da un calo degli sbarchi dell’80%, inizia a delinearsi uno score altrettanto positivo per questo 2019. In particolare, secondo il ministero gli sbarchi in questo anno sono complessivamente 666, registrando un calo del 93% rispetto all’anno precedente. "Nello stesso periodo del 2018 – afferma un visibilmente soddisfatto Salvini – gli sbarchi sono stati 8930, c’è quindi un calo ancora più netto". Nella sala stampa del Viminale, l’aria è quella classica ci chi sa che, dati alla mano, può togliersi qualche sassolino dalla scarpa: Salvini non lo dice apertamente, ma lascia intendere che il numero così drasticamente calato degli sbarchi lo attribuisce alla strategia della chiusura dei porti alle navi Ong. Un argomento, uno dei tanti per la verità, che nelle settimane appena trascorse è occasione di scontro interno al governo: il Movimento Cinque Stelle infatti, con in testa il vicepremier Di Maio, mettono in discussione la strategia voluta da Salvini. Tutto nasce dal caos in Libia e dalla prospettiva di un’impennata degli sbarchi a causa della guerra in corso nei dintorni di Tripoli: “Se dal nord Africa dovesse esserci un esodo – tuona il leader politico del Movimento Cinque Stelle nei giorni scorsi – I porti non possono restare chiusi. Questa è solo una misura occasionale”. Una posizione non soltanto personale, visto che a fargli eco è anche il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, anch’egli grillino: “Se dalla Libia le partenze aumenteranno – afferma il titolare del dicastero – Allora la politica dei porti chiusi non basta più”. Un disaccordo figlio più della campagna elettorale che delle reali preoccupazioni circa la situazione libica, specie perché da quando è in corso la battaglia per Tripoli non si registra alcuna impennata degli sbarchi. Di Maio, che vede il Movimento scendere nei sondaggi, ha necessità in vista delle europee di intercettare il voto di sinistra. Un modo, secondo il ragionamento dei grillini che approvano questa scelta, per bloccare l’emorragia di consensi e convincere gli indecisi dell’elettorato di sinistra a dare fiducia ad un movimento presentato adesso come unico argine alla crescita di Salvini. Ecco perché, rispetto a questa estate quando l’esecutivo appare compatto sulla scelta dei porti chiusi voluta dal ministro dell’interno, Di Maio ed il Movimento cambiano idea e sembrano voler mettere in discussione il pugno duro promesso da Salvini. Dal canto suo, il leader della Lega già nei giorni scorsi afferma di proseguire con la linea dei porti chiusi: “Decido io”, taglia corto a chi gli chiede un’opinione sulle esternazioni di Luigi Di Maio, nonché di un altro ministro in quota M5S, Elisabetta Trenta. Oggi, con la conferenza stampa al Viminale, l’occasione dunque per dimostrare che l’operato dell’esecutivo sul tema dell’immigrazione si rivela vincente: “Adesso lavoreremo per espellere gli irregolari – afferma inoltre Salvini – Ce ne sono 90.000 in Italia, una cifra importante ma minore rispetto a quanto mi aspettavo”.
"Gli stranieri turbano la mia pace". E il parroco cambia canonica. Il parroco, stanco e con qualche acciacco, ha chiesto ospitalità ed aiuto alla canonica di Camposampietro: “Viavai di stranieri che chiedono con insistenza aiuti m’impediscono serenità e pace. Non tutti si accontentano”, scrive Federico Garau, Martedì 26/02/2019, su Il Giornale. Sfinito per le pressanti richieste da parte degli extracomunitari che si affollano fuori dalla porta della sua canonica, il parroco della chiesa di Santa Maria Assunta di Rustega (Padova) don Marco Scattolon, decide di cambiare aria. È lo stesso prete a rivelare sulle pagine de “Il Gazzettino” le motivazioni della sua scelta. Da sempre in prima linea nel sostegno agli extracomunitari, don Marco due anni fa si era addirittura proposto di ospitare in casa un magrebino di 33 anni che doveva scontare gli arresti domiciliari. Tuttavia il nordafricano, incriminato per spaccio di sostanze stupefacenti, aveva reso invivibile la quotidianità del parroco. Continue ed insistite le richieste di denaro da parte dello straniero, che in breve tempo era diventato completamente ingestibile, obbligando Don Marco a rinunciare all’impegno preso. La notizia della sua benevolenza nei confronti dei migranti si era diffusa a macchia d’olio nella provincia di Padova, tanto che la canonica era divenuta meta di pellegrinaggio da parte di stranieri in cerca di aiuti e denaro. “Il viavai di stranieri che chiedono con insistenza aiuti m’impediscono serenità e pace nei momenti di una possibile quiete”, lamenta il prete. “Non tutti sono educati e sanno accontentarsi di quanto si può dare loro”. Don Marco, d’altronde, ha 73 anni e qualche acciacco, per cui la situazione è diventata complessa da affrontare quotidianamente. “Da un po’di tempo anch’io mi trovo con stanchezze e malesseri vari.”, riferisce il parroco. “Sono perciò arrivato alla decisione di spostarmi per i pasti e la quiete notturna e un po’ pomeridiana alla canonica di Camposampiero. Don Claudio mi accoglie volentieri”.
Papa Francesco demolito da Ratzinger sull'immigrazione: il documento svelato da Alessandro Meluzzi, scrive il 21 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Un tweet in cui, nel giorno di Pasqua, Papa Francesco non viene neppure nominato. Ma il riferimento è evidente, in modo lampante. Il tweet è quello consegnato alla rete da Alessandro Meluzzi, le cui posizioni sono assai differenti rispetto a quelle del Pontefice. E nel cinguettio si vedono Papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E vengono riportate due loro frasi. Quella del primo: "Il diritto primario dell'uomo è vivere nella propria patria". Del secondo: "Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare". Due prese di posizione distanti anni luce da quelle di Papa Francesco, sostenitore dell'immigrazione e della possibilità di circolare ovunque si voglia. Insomma, il riferimento e la critica di Meluzzi sono evidenti.
Il Papa a Pasqua: «Dolore per lo Sri Lanka ma Dio non abbandona chi soffre». Pubblicato domenica, 21 aprile 2019 da Corriere.it. « Cristo vive e rimane con noi. Egli mostra la luce del suo volto di Risorto e non abbandona quanti sono nella prova, nel dolore e nel lutto». A mezzogiorno, davanti ad una piazza colma di settantamila fedeli, Francesco si affaccia alla loggia centrale di San Pietro per il tradizionale messaggio Urbi et Orbi, alla città e al mondo, nel giorno di Pasqua. Sono passate poche ore dagli attentati in tre chiese e altrettanti hotel in Sri Lanka. Dopo il messaggio e la benedizione, il Papa prende di nuovo la parola: «Ho appreso con tristezza e dolore la notizia dei gravi attentati che proprio oggi, giorno di Pasqua, hanno portato lutto e dolore nello Sri Lanka. Desidero manifestare la mia affettuosa vicinanza alle comunità cristiana, colpita mentre era raccolta in preghiera, e a tutte le vittime di così crudele violenza. Affido al Signore quanti sono così tragicamente scomparsi e prego per i feriti e per tutti coloro che soffrono a causa di questo drammatico evento». Francesco lo ha detto nel suo messaggio: «Davanti alle tante sofferenze del nostro tempo, il Signore della vita non ci trovi freddi e indifferenti. Faccia di noi dei costruttori di ponti, non di muri». Il Papa ripercorre le troppe situazioni di dolore del pianeta, a cominciare dalla Siria: «Cristo il Vivente, sia speranza per l’amato popolo siriano, vittima di un perdurante conflitto che rischia di trovarci sempre più rassegnati e perfino indifferenti. È invece il momento di rinnovare l’impegno per una soluzione politica che risponda alle giuste aspirazioni di libertà, pace e giustizia, affronti la crisi umanitaria e favorisca il rientro sicuro degli sfollati, nonché di quanti si sono rifugiati nei Paesi limitrofi, specialmente in Libano e in Giordania». Il pensiero di Bergoglio si rivolge a tutta la regione: «La Pasqua ci porta a tenere lo sguardo sul Medio Oriente, lacerato da continue divisioni e tensioni. I cristiani nella regione non manchino di testimoniare con paziente perseveranza il Signore risorto e la vittoria della vita sulla morte. Un particolare pensiero rivolgo alla popolazione dello Yemen, specialmente ai bambini, stremati dalla fame e dalla guerra. La luce pasquale illumini tutti i governanti e i popoli del Medio Oriente, a cominciare da israeliani e palestinesi, e li sproni ad alleviare tante sofferenze e a perseguire un futuro di pace e di stabilità». E ancora, «le armi cessino di insanguinare la Libia, dove persone inermi hanno ripreso a morire in queste ultime settimane e molte famiglie sono costrette a lasciare le proprie case», alza lo sguardo il Papa: «Esorto le parti interessate a scegliere il dialogo piuttosto che la sopraffazione, evitando che si riaprano le ferite di un decennio di conflitti ed instabilità politica». Francesco invoca la pace per «tutto l’amato continente africano, ancora disseminato di tensioni sociali, conflitti e talvolta da violenti estremismi che lasciano insicurezza, distruzione e morte, specialmente in Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria e Camerun». In particolare si sofferma sul Sudan «che sta attraversando un momento di incertezza politica e dove auspico che tutte le istanze possano trovare voce e ciascuno adoperarsi per consentire al Paese di trovare la libertà, lo sviluppo e il benessere a cui da lungo tempo aspira», e sul Sud Sudan, i cui leader si sono di recente incontrati in Vaticano per cercare un accordo dopo cinque anni di guerra civile: «Possa aprirsi una nuova pagina della storia del Paese, nella quale tutte le componenti politiche, sociali e religiose s’impegnino attivamente per il bene comune e la riconciliazione della Nazione».
In questa Pasqua, prosegue Francesco, «trovi conforto la popolazione delle regioni orientali dell’Ucraina, che continua a soffrire per il conflitto ancora in corso. Il Signore incoraggi le iniziative umanitarie e quelle volte a perseguire una pace duratura». Il Papa si rivolge poi a chi, nel continente americano, «subisce le conseguenze di difficili situazioni politiche ed economiche». In particolare, pensa «al popolo venezuelano, a tanta gente priva delle condizioni minime per condurre una vita degna e sicura, a causa di una crisi che perdura e si approfondisce» e prega: «Il Signore doni a quanti hanno responsabilità politiche di adoperarsi per porre fine alle ingiustizie sociali, agli abusi e alle violenze e di compiere passi concreti che consentano di sanare le divisioni e offrire alla popolazione gli aiuti di cui necessita». Infine, «il Signore risorto illumini gli sforzi che si stanno compiendo in Nicaragua per trovare al più presto una soluzione pacifica e negoziata a beneficio di tutti i nicaraguensi». Ma la preghiera del pontefice è universale: «Cristo, che ci dona la sua pace, faccia cessare il fragore delle armi tanto nei contesti di guerra che nelle nostre città, e ispiri i leader delle Nazioni affinché si adoperino per porre fine alla corsa agli armamenti e alla preoccupante diffusione delle armi, specie nei Paesi economicamente più avanzati. Il Risorto, che ha spalancato le porte del sepolcro, apra i nostri cuori alle necessità dei bisognosi, degli indifesi, dei poveri, dei disoccupati, degli emarginati, di chi bussa alla nostra porta in cerca di pane, di un rifugio e del riconoscimento della sua dignità».
Un migrante morto sull'altare: la Pasqua choc a Palermo. L'immagine forte di un migrante morto in mare appare nell'altare di Casa Professa, la chiesa gesuitica di Palermo, scrive Roberto Chifari, Sabato 20/04/2019, su Il Giornale. Chi è entrato nella splendida chiesa del Gesù, meglio nota come Casa Professa a Palermo, ha visto quell'opera che tanto fa discutere da qualche giorno. Da quando giovedì scorso è stata svelata in occasione della Settimana Santa. Un migrante morto in mare, con la testa affondata nell'acqua, le braccia penzoloni e il corpo senza vita. Un immagine che stride con la Pasqua ma che vuole essere un messaggio, destinato a tutti. "Vogliamo smuovere le coscienze su tematiche attuali - spiega padre Walter Bottaccio, gesuita rettore della chiesa di Casa Professa a Palermo -. In realtà, quello che attraversiamo è un momento molto particolare: stiamo addormentando le nostre coscienze. Non sono i migranti che ci tolgono il lavoro, anzi i famosi 35 euro non vanno ai migranti ma a coloro che lavorano nel terzo settore. La verità è che non sappiamo più discernere cosa è buono da cosa è male e non ci rendiamo conto che salvare persone in mare non è un atto cristiano, è prima di tutto un atto umano". L'opera è stata realizzata dall'artista Vincenzo Maniscalco ed è stata installata nell'altare della chiesa. Ma non è la prima opera sul tema dei migranti che viene installata a Palermo. Nel 2017, è stato organizzato il primo presepe per i migranti nella chiesa dell'Olivella, sempre a Palermo. In quel caso, il presepe allestito all'interno di una vecchia barca era stato dedicato all’accoglienza dei migranti e al ricordo di Aylan Kurdi, il piccolo profugo siriano di 3 anni trovato morto sulla spiaggia di Bodrum il 2 settembre 2015. L'obiettivo dell'istallazione era coniugare il tema degli sbarchi con l'integrazione. E proprio sull'integrazione e sull'aiuto a chi si ritrova ai margini della società è nata diversi anni fa, la missione Speranza e Carità di Biagio Conte, il missionario laico che a Palermo ha creato la Cittadella del povero. Fratel Biagio si è recato sotto il porticato di piazzale Ungheria per portare un vaso di fiori nel punto dove è stato ucciso lo scorso novembre il clochard Aldo, morto a causa delle botte riportate per una rapina di appena 25 euro. "Un augurio prezioso di una Pasqua di pace e di speranza", ha detto Fratel Biagio, che ha voluto lanciare il proprio appello: "alla Santa Chiesa, a tutti i popoli della terra, alle istituzioni, alle Forze dell'ordine, alle associazioni, ai comunicatori sociali, a tutti i cittadini e a tutte le persone di buona volontà, affinché possiamo sostenere, aiutare i più poveri, i senza tetto, i disoccupati, gli immigrati, gli ammalati, i disabili e i carcerati". Un gesto, quello di portare i fiori ad un uomo morto in strada, per dedicare ad Aldo una preghiera e perché cose così orribili non si ripetano più. "In questo cammino appena concluso ho portato ovunque un profondo messaggio di pace e di speranza. Ho attraversato Francia, Spagna, Portogallo, Marocco (dal 9 ottobre al 14 aprile), ho visto tanta sofferenza, tanto disagio per i giovani, che mi preoccupano perché sono esposti a tanti pericoli. Stiamo attenti, c'è una forte disumanizzazione. È doveroso ritornare a Dio e al nostro prossimo. Operiamo per un umanesimo più veritiero e più giusto. Ricchi e poveri insieme per costruire un mondo migliore".
La Pasqua politicizzata dei vescovi: tutti i sermoni sui migranti. Migranti e accoglienza al centro delle omelie e degli auguri di Pasqua di tanti vescovi italiani. Così la Chiesa indirizza i fedeli in vista delle europee, scrive Giuseppe Aloisi, Sabato 20/04/2019, su Il Giornale. Quella dei vescovi italiani è una Pasqua politicizzata. Non siamo dinanzi a un'innovazione così recente, ma le omelie, le riflessioni e le preghiere composte per queste festività si differenziano tra loro tranne per un aspetto: il continuo richiamo all'accoglienza dei migranti. Per papa Francesco la situazione di coloro che cercano di raggiungere le coste europee è una delle "croci" del nostro tempo. Lo abbiamo ascoltato ieri durante la Via crucis del Colosseo. Prima del Santo Padre era stato il vertice dei presuli dell'Ue a lanciare un monito contro il populismo. Mons. Hollerich, lussemburghese come Juncker, ha parlato di "gioco infame". Gli ecclesiastici del Belpaese colpiscono in maniera meno dura. Le loro opinioni, per quanto mai scomposte, risuonano all'interno delle nostre chiese e non possono che essere recepite come indicazioni imperative da chi ascolta: un cattolico non può uscire dalla dicotomia dell'accogliere o del non accogliere. La scelta presentata è una sola. Il vescovo Fernando Filograna, incaricato a Nardò - Gallipoli, ha citato la competizione elettorale del prossimo 26 maggio. Ha detto - in sintesi, come si apprende dalla Sir - quello che sostiene pure il pontefice argentino, cioè che l'Europa necessita di un "contributo di ognuno" in modo tale da rappresentare un "luogo di convivenza civile, rispetto e accoglienza". L'agenzia citata riporta un lungo elenco di dichiarazioni che, per buona parte, sono orientate a contrassegnare la medesima traccia dottrinale. Scopriamo così che per il cardinal Montenegro, che è pure l'arcivescovo di Agrigento, in giro c'è "qualche profeta", che "cavalcando l’onda della paura, afferma che il problema sono i poveri-cristi che vengono dai sud del mondo”. Qualcuno fa eccezione e cita questioni di altra tipologia, ma la perdita dell'identità cristiana da parte del Vecchio continente, la crisi culturale della civiltà cristiano - occidentale, nelle "prediche" di tanti consacrati, sembra scomparsa. Sui radar è stato perso ogni segnale. Bisogna allora tornare indietro di qualche giorno e rileggere le diciotto pagine di Joseph Ratzinger oppure buttare un occhio sulle tante interviste rilasciate in queste settimane dal cardinal Robert Sarah per reperire un canovaccio cui noi europei eravamo abituati: quello contro il relativismo laicista e preoccupato per la diffusione del fondamentalismo islamico. La sciorinatura delle posizioni può proseguire con mons. Pietro Maria Fragnelli, vescovo di Trapani: "Pensiamo ai fratelli e alle sorelle che muoiono nel Mediterraneo: il loro silenzio - ha specificato, come si apprende sempre sulla Sir - è assordante, e mette sotto accusa la nostra capacità di accogliere, il nostro modello di sviluppo". Noi occidentali, insomma, sembriamo gli unici colpevoli. E ancora mons. Giuseppe Piemontese, che è il vescovo di Terni: per il rito della lavanda dei piedi ha scelto dodici migranti originari dell'Africa. La Chiesa cattolica italiana, in vista delle elezioni europee per il rinnovo del Parlamento continentale, non sembra avere alcun dubbio sul tipo di comunicazione da proporre.
Papa Francesco, la durissima accusa di Antonio Socci: cosa ha "scordato" nella settimana di Pasqua, scrive il 20 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Ma almeno nella Settimana Santa potrebbero parlarci di Gesù Cristo? O chiediamo troppo al Vaticano e a Bergoglio? Non so se oltretevere ci siano ancora cattolici (a parte Benedetto XVI e pochi altri), ma in fin dei conti la ragion d' essere della Chiesa è solo questa e la gente comune ha un desiderio infinito di ascoltare uomini di Dio che parlano di Gesù, del senso della vita e dell'eternità. Per discettare di clima e ambiente c'è già Greta Thunberg con i suoi seguaci, non c' è bisogno di Bergoglio che, se ci credesse, metterebbe in guardia dalle fiamme dell' Inferno più che dal riscaldamento globale. Possibile che nella Chiesa sia stata completamente spazzata via la Passione di Cristo che si consegna al massacro per amore nostro, che "si svenerà per voi" come recita un antico canto polifonico, e che risorge, sconfiggendo il male e la morte, aprendo così agli uomini la vita eterna? Quante volte sentite Bergoglio parlare di resurrezione, di eternità, di Inferno, Purgatorio e Paradiso? Da quando è iniziata la sua stravagante epoca sudamericana (alla messa d' inaugurazione parlò di ambiente), Gesù è diventato il Grande Misconosciuto, ma ancora di più il silenzio assoluto ha riguardato la vita eterna e il mistero di Dio. Gesù viene ancora, saltuariamente, rammentato, ma solo come pretesto per parlare di migranti. A Natale ci hanno raccontato che Gesù era migrante (anche se non è affatto vero), così - invece della nascita del Figlio di Dio - sono stati celebrati i barconi.
PRETESTO. Nella Settimana Santa ecco di nuovo il pretesto della Passione di Cristo per parlare - come al solito - di migranti. Il card. Bassetti, bergogliano presidente della Cei, perfino nella liturgia del giovedì santo ha voluto ripetere le solite baggianate farlocche («I migranti non sono un problema, sono una risorsa»). Nella Via Crucis del Colosseo, quella con la presenza di Bergoglio, c'informa Repubblica, le diverse «meditazioni contestano porti chiusi e lager dei migranti». È chiaro che nella Passione di Cristo è compreso tutto il dolore degli uomini, ma anzitutto, almeno di Venerdì Santo, si dovrebbe parlare di lui, perché per parlare di migranti Bergoglio usa già gli altri 364 giorni dell'anno. Se poi vogliamo proprio parlare di atrocità ci sarebbero le sofferenze dei cristiani perseguitati che però il Vaticano di Bergoglio non ama considerare perché i persecutori sono spesso i regimi dei "fratelli" islamici o quelli comunisti come la Cina che Bergoglio vuole compiacere ad ogni costo (gli ha praticamente consegnato la Chiesa cinese). Oppure ci sarebbe da parlare dell'attacco alla vita, a cominciare da quella dei "non nati" (molti milioni ogni anno), ma questo non è un tema politicamente corretto, quindi il Vaticano se ne guarda. D'altronde la questione migranti è del tutto fuori tempo, perché oggi - chi ha a cuore la loro vita - dovrebbe solo rallegrarsi per la fine delle stragi in mare. Tuttavia non lo fa per non riconoscere i meriti del ministro dell' Interno. La Chiesa africana considera una sciagura la partenza di tante energie giovani verso l' Europa. Come ha spiegato il card. Robert Sarah, africano: «La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa. Se l' Occidente continua per questa via funesta esiste un grande rischio - a causa della denatalità - che esso scompaia, invaso dagli stranieri, come Roma fu invasa dai barbari. Parlo da africano. Il mio paese è in maggioranza musulmano. Credo di sapere di cosa parlo». Il cardinale ha anche aggiunto: «Come un albero, ciascuno ha il suo suolo, il suo ambiente in cui può crescere perfettamente. Meglio aiutare le persone a realizzarsi nelle loro culture piuttosto che incoraggiarle a venire in un' Europa in piena decadenza. È una falsa esegesi quella che utilizza la Parola di Dio per valorizzare la migrazione. Dio non ha mai voluto questi strappi». Proprio il card. Sarah, grande uomo di Dio, ha spiegato mille volte che la più grande carità verso gli uomini è donare loro Dio, l' annuncio cristiano, ed è questo il compito della Chiesa. Ma la chiesa progressista ha accantonato Dio e si occupa solo di politica, schiacciata sui temi della Sinistra. Bergoglio è in campagna elettorale permanente. Sui giornali clericali sono spariti i "principi non negoziabili" e la politica "progressista" dilaga. Il giovedì santo, sulla prima pagina di Avvenire, giornale della Cei, campeggiava una grande pubblicità dell' ultimo libro del gesuita padre Bartolomeo Sorge (è tornato anche lui in questo revival degli anni Settanta). S'intitola: "Perché il populismo fa male al popolo". Capito? Mica spiega che il laicismo o il relativismo fanno male al popolo, mica ci mette in guardia dal politically correct, mica tuona contro l' islamismo o contro il comunismo (c' è ancora, nella Cina che sta conquistando il mondo). No, il pericolo pubblico è rappresentato dal fantomatico "populismo". Sono ancora fermi alla copertina di Famiglia cristiana con Salvini nei panni del diavolo. La cancellazione di Dio dalla scena pubblica, di cui ha drammaticamente parlato Benedetto XVI nel suo ultimo intervento, sta avvenendo anzitutto ad opera di coloro che - per mestiere, se non per missione - dovrebbero parlare al mondo di Cristo e dell' eternità.
LE PAROLE DI BENEDETTO. Lo ha detto con dolore lo stesso papa Benedetto: «Anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio Dio è divenuto fatto privato di una minoranza». Eppure gli uomini hanno uno struggente bisogno di ritrovare il senso della vita, di vedere una salvezza e guardano alla Chiesa come nei giorni scorsi, commossi, durante l' incendio della grande cattedrale di Notre Dame.
C'è fame e sete di Dio, ma chi dovrebbe sfamare e dissetare l' umanità è tarantolato dalla politica, dal fanatismo ambientalista e migrazionista e ha dimenticato Dio. Eppure nulla come il volto di Cristo arriva al cuore. Come scriveva George Bernanos: «Verrà un giorno in cui gli uomini non potranno pronunciare il nome di Gesù senza piangere». Siamo molto vicini a quel giorno. Antonio Socci
Se Bergoglio tacesse e il Papa parlasse…, scrive Domenica, 21 aprile 2019 Nino Spirlì su Il Giornale. È la notte della Resurrezione. Dovrei pregare, riflettere, riconciliarmi. Ma ho un gran peso sull’anima. Un macigno che soffoca ogni Ave, Pater e Gloria. Un masso che ha rotto il sentiero verso Dio. Un cono di silenzio nel canto dell’Alleluia. Quasi una bestemmia, per un umile pellegrino in faticoso cammino, quale sono io. La mia Fede bambina e innocente è continuamente schiaffeggiata, confusa, stressata da questa maniacale ansia di chi indossa la veste bianca di umanizzare fino allo spasimo la Carne Divina dell’Agnello. Se avessi voluto seguire un guru, un filosofo, un capopopolo, non avrei consegnato la mia vita al Mysterium Fidei, a Dio, a Gesù, alla Sua Santa e Immacolata Madre: avrei cercato fra i vecchi libri del liceo e mi sarei inebriato delle eleganti pagine scritte da Platone. Il mio adorato compagno di gioventù. L’amico a cui mi affidavo quando, bollente e rivoluzionario, volevo capire cosa significasse accettare la Legge a costo della vita…Ma non voglio un compagno di passeggiata, né un maestro di vita. Non mi basta più! Ora che L’ho trovato, dopo anni di dolori profondi e gioie fugaci, voglio poter riposare nel cuore di Dio. E non permetto ad un vecchio signore, che indossa, spesso sciattamente, un trasparente grembiule bianco sopra ad evidenti abiti da pensionato, di annichilire il Mistero e trattarlo come fosse una rivendicazione sindacale. In questi giorni, chi veste di bianco dovrebbe riflettere su quanti morti stia consegnando il popolo di Cristo a crudeli assassini che, legittimati dalla confusione della Chiesa, si credono giustizieri e non abominevoli e diabolici boia! Sembra che ammazzare i Cristiani, metaforicamente o realmente, sia quasi permesso, dovuto. Mentre il ricollocamento di delinquenti, clandestini e mignotte sia diventato il nuovo sacramento. No! Questo peso sulla mia Fede non glielo perdono. Questo malanimo che mi trasmette, mi procura, ogni giorno, non glielo posso proprio perdonare. Questo pianto di rabbia che mi sgorga dalle viscere ad ogni comizio travestito da omelia, lo dovrà pur scontare, il signor Bergoglio. Perché non è da Papa che parla, ma da attivista di periferia disagiata. Da assistente sociale di favela. Il Papato è altro. E il rispetto della scelta dello Spirito Santo ce lo deve, il prete di strada venuto dalla fine del mondo…… il vitello d’oro 2.0 è l’imbarbarimento della predicazione, la dimenticanza della liturgia, l’annacquamento del messaggio evangelico, del rigore paolino e petrino… martiri per niente, ormai. Ci pensi, Bergoglio. E Viva il Papa!
“Aprire i porti? Apri le cosce”. Emma Marrone, il leghista e gli hater, scrivono il 22 febbraio 2019 Le Iene. Massimiliano Galli, consigliere comunale della Lega umbro, lascia un violento commento sessista sotto la frase di Emma Marrone: “Aprite i porti”. Noi abbiamo messo la cantante faccia a faccia con uno dei suoi hater sul web e lei non le ha di certo mandate a dire! La nostra Alice Martinelli è andata da Massimiliano Galli per dargli la possibilità di scusarsi, ma non siamo stati molto graditi. Clicca qui per il servizio completo. “Faresti bene ad aprire le tue cosce facendoti pagare per esempio”. Con questa offesa sessista il consigliere comunale leghista di Amelia (Terni), Massimiliano Galli, attacca la cantante Emma Marrone. Il commento è apparso su Facebook sotto il link di una notizia sulla frase che Emma ha urlato durante un concerto: “Aprite i porti!”, in riferimento alle politiche sui migranti. La Lega si è dissociata dal commento e ha annunciato l’espulsione del consigliere dal partito. Non è la prima volta che Emma Marrone ha a che fare con commenti violenti e sessisti sul web. Anche se forse è la prima volta che riceve un insulto così violento da parte di un politico. “Io leggo tutto perché gestisco i miei profili da sola”, ha detto Emma alla nostra Mary Sarnataro nel suo faccia a faccia con l’hater dell’8 ottobre 2017, che potete vedere qui sopra. Abbiamo fatto incontrare la cantate con uno dei leoni da tastiera che riempiono le sue pagine social di insulti, dopo avergliene letti alcuni. “Emma Marrone sei una cagna maledetta”, “sei una troia”. Anche in questo caso i commenti di stampo sessista si sprecavano. “Ho capito che rispondere non risolve il problema”, dice Emma. Che però di certo non le manda a dire: a un hater che la ha scritto “E che schiaffi puttana”, risponde che “questo non la prende da quando è nato”. Non sappiamo cosa risponderebbe in un faccia a faccia con il consigliere della Lega, ma a giudicare da quello che ha detto nel confronto con chi l’ha chiamata “cagna”, possiamo stare tranquilli che gli darebbe una bella lezione di vita. Infatti, quando il leone da tastiera le fa notare che lei è un personaggio pubblico, Emma risponde: “Io non sono un personaggio pubblico, sono una donna”.
"I porti? Apri le gambe...". Ma il consigliere leghista: "Niente scuse ad Emma Marrone". Massimiliano Galli, il consigliere comunale leghista di Amelia che aveva insultato Emma Marrone non chiede scusa alla cantante: "Lei nei concerti canta sempre a gambe aperte...", scrive Pina Francone, Martedì 26/02/2019, su Il Giornale. "Non devo scusarmi con nessuno, è stata una strumentalizzazione. Era un'iperbole. E comunque a ogni azione c'è una reazione. Il mio non è un insulto. Lei ne ha ricevuti migliaia ma hanno preso il mio che non era un insulto per colpire la Lega". Parole di Massimiliano Galli, il consigliere della Lega – che è stato espulso dal partito per la sua infelice uscita su Emma Marrone – non chiede scusa. E intervistato via etere, da La Zanzara su Radio 24, spiega la sua posizione commentando la frase della discordia: "Faresti bene ad aprire le tue cosce facendoti pagare per esempio". "Se l’avesse fatta un consigliere comunale di un partito che non conta niente, non sarebbe accaduto nulla", ha aggiunto. E ancora: "Lei nei concerti quando canta sta sempre con le cosce aperte, si fa vedere con le cosce aperte…". Infine, Galli chiosa così: "Chi dice aprite i porti è un'istigazione all’immigrazione clandestina, è una decisione del governo…".
PiazzaPulita, Nicola Zingaretti kamikaze sugli immigrati: "Porti aperti", mira al 4%? Scrive il 19 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Tra gli ospiti di PiazzaPulita, il talk-show del giovedì sera su La7 condotto da Corrado Formigli, ecco spuntare Nicola Zingaretti, il segretario di un Pd che dopo i botti post-primarie sta letteralmente crollando nei sondaggi, settimana dopo settimana, tornando assai vicino alla quota di consensi racimolata alle elezioni politiche del 2018. E per comprendere le ragioni di una simile flessione è sufficiente ascoltare le proposte di Zingaretti in tema di immigrazione. Si parlava di Matteo Salvini, della sua linea dei porti chiusi e ancor più chiusi in questi giorni, quella della crisi libica e dell'emergenza migratoria che potrebbe comportare. Bene, Zingaretti da par suo insiste sul "coraggio di dire porti aperti". E ancora, il segretario del Pd aggiunge: "Avrò il coraggio di dare all'Italia una legge che regoli l'immigrazione, abolendo la Bossi-Fini". Nulla da eccepire sul coraggio: Zingaretti ne ha da vendere, insistendo in un momento come questo su un punto impopolare come pochi. Quanto altro perderà nei sondaggi dopo questa presa di posizione?
Antonio Polito per il “Corriere della sera” 18 aprile 2019. È strano: in una Repubblica a lungo dominata dai cattolici e dai comunisti, questo è il primo intervento contro la povertà (in realtà aveva cominciato il governo Gentiloni, ma troppo tardi, a fine legislatura, e troppo poco, due soli miliardi). C' è da chiedersi perché. Forse per un pregiudizio. La maggioranza degli italiani sospetta sempre che i poveri siano finti, perché veri evasori o semplici fannulloni. Per la sinistra, alla povertà doveva pensarci il lavoro. Per i cattolici, doveva pensarci la famiglia. La tradizione politica italiana non ha così mai elaborato una cultura del Welfare universale, di tipo nordico, che stende una rete sotto la quale nessun cittadino può cadere. Perfino i Cinque Stelle, inventori e promotori della misura, a un certo punto hanno vacillato, e sotto la pressione del partito del Nord e del Pil, contrario all' assistenza, hanno tentato di torcere il progetto: da reddito di cittadinanza a sussidio di disoccupazione. Ma il ritardo dei centri dell' impiego e la realtà sociale descritta dalle domande, così concentrate nelle regioni del Sud, hanno fatto ammettere allo stesso presidente dell' Inps Tridico che l' obiettivo di sottrarre persone alla povertà conta di più che avviarle al lavoro: «Il primo obiettivo è propedeutico al secondo». Su questo ha ragione. L' inclusione sociale è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per l' ingresso nel mondo del lavoro. È molto più difficile per chi non ha un' auto, un televisore, il riscaldamento o un pasto ricco di proteine, trovare lavoro. Ma ci sono povertà anche più moderne e più subdole. L' isolamento, una separazione, una malattia cronica, l' analfabetismo di ritorno. La sinistra, sindacato compreso, non ha capito l' importanza di stendere questa rete. Abbagliata dalla new economy e dalla speranza taumaturgica nell' arrivo dell' euro, ha creduto che il problema sociale si potesse risolvere con l' istruzione, «Education, education, education», era lo slogan di Blair, tanto citato da noi. L' economia della conoscenza avrebbe fatto il miracolo, eguaglianza delle opportunità per tutti. Non l' ha fatto. Ma quel che è peggio è che in questi vent' anni, oltre al lavoro, non è arrivata neanche l' education. Alla fine ha prevalso il corporativismo, e le poche risorse sono state destinate a difendere lo status quo. Quando la destra era al governo, proteggeva partite Iva e commercianti; quando c' era la sinistra, statali e lavoratori dipendenti. Tutti ceti «garantiti», con un lavoro e un reddito, come i destinatari degli 80 euro di Renzi. E invece proprio l' epocale trasformazione dei lavori in corso, la transizione verso sharing e la gig economy , e da ultima la doppia recessione che ha stroncato l' Italia, richiedevano e giustificavano un intervento pubblico a sostegno dei perdenti della nuova competizione sociale. I forgotten men , che il populismo ha raccolto dietro le sue bandiere, sempre sul punto di diventare un lumpenproletariat pronto ad ogni avventura, sono la sanzione della storia a una sinistra che ha dimenticato il disagio sociale. Per ragioni opposte ma speculari, anche l' intervento del governo che parte tra qualche giorno può però rivelarsi improduttivo. Per ora è solo una erogazione di denaro. È difficile che 520 euro medi a famiglia mettano fine alla povertà, se la intendiamo nei termini in cui l' abbiamo descritta. Ancor di meno lo faranno con le famiglie dai due figli in su, le più penalizzate dal sistema escogitato dal governo, che tende a privilegiare i single per salvare la cifra feticcio dei 780 euro sbandierata in campagna elettorale. Istruzione, cultura, salute, non solo non vengono assicurate dal reddito di cittadinanza, ma potrebbero addirittura impoverirsi se le risorse usate dal governo (8 miliardi) fossero sottratte a un moderno sistema di Welfare. A Napoli ci sono più infartuati, più obesi, più diabetici, che nel resto d' Italia. Questa è povertà che il reddito non cura. L' inclusione sociale non è una card ricaricabile. Soprattutto non lo è per i minori, il cuore del problema della coesione sociale. Di più: affianco ai poveri disoccupati ci sono i poveri che lavorano, i working poor , che guadagnano poco più o poco meno del reddito di cittadinanza, e che rischiano così di essere incentivati a una nuova forma di esclusione sociale: vivere di assistenza. Salvare chi sta cadendo non è solo un dovere morale, è anche un affare per la società. Non può prosperare un Paese con molti poveri e pochi occupati. Ma immettere nel circuito virtuoso del lavoro chi è ai margini della società richiede una politica sociale, della formazione e dell' istruzione, di cui questa maggioranza non ha finora mostrato di avere neppure un' idea. Passate le europee, e incassato il dividendo politico, c' è speranza di parlarne?
Da Libero Quotidiano il 15 aprile 2019. Federico Rampini (giornalista di sinistra), ospite di Massimo Gramellini a Le parole della settimana su Rai 3 attacca il Pd in diretta, lasciando esterrefatti gli ospiti in studio. Rampini infatti boccia completamente la politica pro-immigrati della sua parte politica: "Pur di fare opposizione al governo la sinistra è diventata il partito dello straniero. Applaudono il presidente francese Emmanuel Macron prendendo per buono il suo europeismo quando sulla Libia sta facendo delle porcherie difendendo solo i suoi interessi e applaudono Juncker". Una critica feroce la sua che fa impallidire Gad Lerner: "Guardare la sua faccia in studio", commenta Giorgia Meloni su Twitter, "è tutta un programma. Da non perdere".
LE ALTRE RAMPINATE SULLA SINISTRA:
PARLA ANCHE DEL SUCCESSO DI CASAPOUND NELLE PERIFIERIE: ''NON È CHE È TORNATO IL FASCISMO, È CHE CERTI MOVIMENTI SONO GLI UNICI CHE DIFENDONO I PENULTIMI, OVVERO GLI ITALIANI POVERI''.
''LA SINISTRA RADICALE E LE DESTRE PUTINIANE HANNO SEMPRE DESIDERATO CHE L'AMERICA SMETTESSE DI IMPICCIARSI DEI FATTI DEL MONDO. ORA L'ISOLAZIONISTA TRUMP ESAUDISCE IL DESIDERIO: VIA DALLA SIRIA, PACE COI TALEBANI, ZERO INTERVENTI IN VENEZUELA E LIBIA. VI LAMENTATE? QUEL CHE VIENE DOPO LA "QUASI" PAX AMERICANA È IL TRIONFO DEL CAOS'' - GLI USA ORMAI SONO INDIPENDENTI PER GAS E PETROLIO. PER QUESTO TRIPOLI PUO' PURE BRUCIARE".
''NON VEDO UN FUTURO PER LA SINISTRA ITALIANA SE SI OSTINERÀ A ESSERE IL PARTITO DEI MERCATI FINANZIARI E DEI GOVERNI STRANIERI, IN NOME DI UN EUROPEISMO BEFFATO PROPRIO DA TEDESCHI E FRANCESI. BASTA RACCONTARCI CHE SIAMO MORALMENTE SUPERIORI E CHE LÀ FUORI CI ASSEDIA UN'ORDA FASCISTA. È SUPERFICIALITÀ, MALAFEDE, IGNORANZA DELLA STORIA…''
Antonio Socci, la confessione di Federico Rampini sulla sinistra: "I veri fascisti siamo noi", scrive il 31 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. «Debuttai come giornalista (in nero e senza un contratto di lavoro, proprio come si usa oggi) nel 1977 alla Città futura. Era il giornale della Federazione giovanile comunista italiana». Così impietosamente Federico Rampini - oggi firma di punta di Repubblica - ricorda il suo esordio professionale nel suo ultimo libro, "La notte della sinistra", dove affonda il coltello nelle contraddizioni, nelle ipocrisie e negli errori della sua parte politica, che elenca: «dall' immigrazione alla vecchia retorica europeista ed esterofila, dal globalismo ingenuo alla collusione con le élite del denaro e della tecnologia». Il libro di Rampini in pratica demolisce la Sinistra. L' autore invita anzitutto a smetterla di «raccontarci che siamo moralmente superiori e che là fuori ci assedia un' orda fascista». Invita anche a smetterla «di infliggere ai più giovani delle lezioni di superficialità, malafede, ignoranza della storia. Si parla ormai a vanvera di fascismo, lo si descrive in agguato dietro ogni angolo di strada, studiando pochissimo quel che fu davvero... Si spande la retorica di una nuova Resistenza, insultando la memoria di quella vera (o ignorandone le contraddizioni, gli errori, le tragedie)». Poi l' autore ricorda le orribili assemblee studentesche degli anni Settanta, dove «gli estremisti, decidevano chi aveva diritto di parola e chi no. "Fascisti", urlavano a chiunque non la pensasse come loro. L' élite di quel momento (giovani borghesi, figli di papà, più i loro ispiratori e cattivi maestri tra gli intellettuali di moda) era una Santa Inquisizione che sottoponeva gli altri a severi esami di purezza morale, di intransigenza sui valori».
FILASTROCCHE. Attualmente sembra si sia disinvoltamente cambiato tutto, ma «nel politically correct di oggi sono cambiate solo le apparenze, il linguaggio, le mode. Tra i guru progressisti ora vengono cooptate le star di Hollywood e gli influencer dei social, purché pronuncino le filastrocche giuste sul cambiamento climatico o sugli immigrati. Non importa che abbiano conti in banca milionari, i media di sinistra venerano queste celebrity. Mentre si trattano con disgusto quei bifolchi delle periferie che osano dubitare dei benefici promessi dal globalismo». Le parole d' ordine e gli slogan dell' attuale Sinistra vengono demoliti con chirurgica precisione. I sovran-populisti sono accusati di alimentare la paura? «Da quando in qua» si chiede Rampini «la paura è una cosa di destra, anticamera del fascismo? Deve vergognarsi chi teme di diventare più povero? Chi patisce l' insicurezza di un quartiere abbandonato dallo Stato?». E le parole identità, patria, interesse nazionale? Rampini sconsolato scrive: «dobbiamo smetterla di regalare il valore-Nazione ai sovranisti...». A loro - dice - «abbiamo lasciato» la parola Italia: «certi progressisti» si commuovono per le grandi cause come «Europa, Mediterraneo, Umanità» mentre ritengono la nazione «un eufemismo per non dire fascismo». Solo che la liberal-democrazia è nata proprio «dentro lo Stato-nazione» e Mazzini e Garibaldi «erano padri nobili della sinistra», la quale peraltro ha «venerato tanti leader del Terzo Mondo - da Gandhi a Ho Chi Minh a Fidel Castro - che erano prima di tutto dei patrioti». La Sinistra nostrana si entusiasma solo per il sovranismo altrui. Rampini osserva: «non si conquistano voti presentandosi come "il partito dello straniero". Negli ultimi tempi in Italia il mondo progressista ha sistematicamente simpatizzato con Macron quando attaccava Salvini e con Juncker quando criticava il governo Conte». Così si conferma «il sospetto che la sinistra sia establishment, e pronta a svendere gli interessi nazionali. Ed è un' illusione anche scambiare Macron per un europeista: è un tradizionale nazionalista francese, che dell' Europa si serve finché gli è utile, ma per piegarla ai propri interessi». Su Juncker poi Rampini è durissimo ricordando che faceva parte del governo del Lussemburgo quando adottava certe politiche fiscali, cioè offriva «privilegi fiscali alle multinazionali di tutto il mondo: uno dei principali meccanismi di impoverimento del ceto medio e delle classi lavoratrici di tutto l' Occidente».
ERRORE GRAVE. Secondo Rampini «uno che ha governato il Lussemburgo» non dovrebbe essere «promosso» a dirigere la Commissione europea. L' autore trova incredibile che «opinionisti di sinistra abbiano tifato per Juncker». E poi si chiede: «Perché solo gli italiani dovrebbero vergognarsi di avere cara la propria nazione? Definirsi europeisti in chiave antinazionale, il vezzo attuale della nostra sinistra, è un errore grave: a Bruxelles né i tedeschi né i francesi dimenticano mai per un solo attimo di difendere con determinazione gli interessi del proprio paese». Il primo capitolo del libro s' intitola "Dalla parte dei deboli solo se stranieri". La fissazione delle élite progressiste per gli immigrati (che sono utilissimi a un certo capitalismo per abbattere retribuzioni e protezioni sociali) va di pari passo con la dimenticanza della stessa Sinistra per i nostri poveri e il nostro ceto medio impoverito. Qui l' analisi di Rampini si fa spietata per moltissime pagine. E fa capire perché il popolo e i lavoratori hanno divorziato dalla Sinistra e questa è diventata il partito delle élite e dei quartieri-bene: «L' Uomo di Davos ha plagiato la sinistra, i cui governanti si sono alleati proprio con quelle élite». La conclusione di Rampini è questa: «non vedo un futuro per la sinistra italiana se si ostinerà a essere il partito dei mercati finanziari e dei governi stranieri, in nome di un europeismo beffato proprio da tedeschi e francesi». Antonio Socci
I saputelli, scrive Alessandro Gnocchi, Il Giornale 13 aprile 2019. No, incredibile. Prima la sinistra ci ha fatto una testa così con Berlusconi cattivo, Salvini cattivo, l’allarme populismo, l’allarme sovranismo; e poi viva i competenti, l’Unione europea, l’euro e Matteo Renzi. Adesso torna sui suoi passi e con la stessa sicumera ci dice che l’Europa non è così buona, l’euro non è il paradiso, il sovranismo non è sbagliato se inteso come patriottismo, i competenti curano i propri affari e Matteo Renzi è stato una sciagura per la sinistra, diventata la cameriera del sistema economico «neoliberista», considerato diabolico dai post comunisti. Federico Rampini, cresciuto con Enrico Berlinguer, scopre all’improvviso un fatto di cui tutti si erano accorti all’incirca nel 1989: la sinistra non ha uno straccio di idea sul futuro. Si è rifugiata nel culto delle minoranze e dei diritti, dimenticandosi di tutto il resto, cioè dei problemi della maggioranza degli italiani. Secondo Rampini, firma di Repubblica, il Partito democratico è diventato il partito dello spread che tifa per l’Europa «a prescindere», anche quando è governata dai campioni della pirateria fiscale. Chi lo avrebbe mai detto? Beh, Augusto Del Noce aveva previsto all’inizio degli anni Sessanta la trasformazione del Pci in una sorta di partito radicale di massa; il sociologo (di sinistra) Christophe Guilluy ha realizzato circa vent’anni fa studi cruciali sul cambiamento dei partiti di sinistra, francesi o italiani poco cambia, e del loro elettorato, sempre più borghese e cosmopolita. Ma ora che queste cose ce le dice Rampini nel suo La notte della sinistra (Mondadori) siamo tutti più tranquilli. Federico Fubini, dalle colonne del Corriere della Sera, è sempre stato un sostenitore a spada tratta del progetto europeo contro i trogloditi del sovranismo e del populismo. Ora ci viene a dire che l’Europa è bella ma non bellissima e che noi italiani dobbiamo essere orgogliosi di quello che siamo e non rinunciare alla nostra identità. Chi l’avrebbe mai detto? Beh, Ida Magli aveva letto e criticato i trattati europei in diretta, alcune decine di anni fa. Ma ora che ce lo dice Fubini nel suo Per amor proprio (Longanesi) siamo tutti più tranquilli. L’autore sostiene che l’Europa deve marciare unita per resistere alla pressione di forze imperiali come la Cina. Tra trent’anni ci dirà quello che fior di storici scrivono oggi: l’Unione europea ha una dimensione politica imperiale ma con una stranezza. Al posto dell’imperatore c’è una moneta, l’euro. Infine la ciliegina sulla torta. Sta per uscire un libro che non ha paura di sferzare i poteri forti, le élite che, ignorando il pueblo, hanno causato la deriva populista. Chi è dunque questo visionario autore che arriva neanche trent’anni dopo le opere fondamentali di Christopher Lasch? Ferruccio de Bortoli, l’ex direttore del Corriere della Sera, del tutto estraneo alle élite, notoriamente escluso dal mondo del potere. Meno male che ha scritto Ci salveremo, in uscita per Garzanti. Ci vediamo tra quarant’anni per i saggi di sinistra che ci spiegheranno i danni dell’immigrazione incontrollata e la rabbia dei perdenti della globalizzazione.
“Macchè fascismo!, ormai gli Italiani non li difende più nessuno”, scrive ilgiornaleoff. il 15 aprile 2019. ilgiornale.it/2019/04/15. “La sinistra è diventata la sinistra del Fondo Monetario Internazionale e delle agenzie di rating“. “La sinistra ha smesso da tempo di occuparsi dei penultimi, italiani poveri […] e è diventata il partito dello straniero. Applaude a tutto quello che fa Emmanuel Macron prendendo per buona la favola del Presidente europeista che sta facendo in Libia delle porcherie contro l’interesse dell’Italia […]. Ho visto politici ed esponenti di sinistra applaudire a tutte le bacchettate che arrivano da un personaggio come Jean Claude Junker, che esorta l’Italia a rimanere ingabbiata nelle politiche di bilancio dell’austerity europea […]; così facendo la sinistra diventa il partito che sta sempre per gli stranieri e getta via il suo patrimonio di critica all’austerity, è una cosa inaccettabile“. E’ la notte della sinistrasecondo Federico Rampini, inviato storico di Repubblica che, ospite di Massimo Gramellini a Le parole della settimana su Rai 3, non le manda a dire alla sinistra italiana. E a proposito di CasaPound: “Non è che è tornato il fascismo, è che certi movimenti sono gli unici che difendono i penultimi, ovvero gli italiani poveri“. Un Federico Rampini quasi “trumpiano” suona il requeim della sinistra, con un Gad Lerner, anche lui ospite di Gramellini, di sale…
Milano, la marcia antirazzista è una festa per 250mila persone. Sala: "Un'altra Italia è possibile". Musica, balli, slogan e carri, anche uno delle Ong a forma di barcone e quello contro la legge Pillon: successo della manifestazione contro tutte le discriminazioni. Il sindaco: "Siamo a uno spartiacque". Salvini: "Io non cambio idea, il messaggio al governo lo hanno dato gli elettori", scrivono Zita Dazzi, Sandro De Riccardis, Alessia Gallione e Giulia Gotelli il 02 marzo 2019 su La Repubblica. Un fiume di persone colorato e allegro. Una partecipazione straordinaria. Poco dopo la partenza del corteo antirazzista di Milano, c'è già un numero: "Siamo 200mila", aggiornato a distanza di due ore con un "oltre 250mila". Lo dice Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche sociali in prima linea nell'organizzazione. E in effetti la coda della marcia non fa in tempo a muoversi per l'inizio della manifestazione che la testa è già in Duomo, a un paio di chilometri di distanza: la piazza è subito piena e la folla canta "Bella ciao". Tanti, tanti bambini. E un dragone cinese, in rappresentanza della numerosa comunità cinese.
Sfila "l'altra Italia". Felice il sindaco Beppe Sala, che vede nella giornata un segnale di un prima e un dopo: "E' un momento di grande cambiamento per il Paese, è questa la nostra visione dell'Italia. Uno spartiacque per la società. Uno spartiacque tra apertura e chiusura, tra qualche sogno autarchico, che si manifesta nell'idea di trasmettere solo canzoni italiane alla radio, e una visione internazionale. Non lasciate la politica solo ai politici - raccomanda - da Milano può ripartire un'idea diversa dell'Italia". Tanti i volti della politica che non sono voluti mancare all'appuntamento e sfilano nel lungo serpentone accompagnato da una decina di carri musicali, fra cui quello dedicato alla legge Pillon e all’omofobia (dei Sentinelli) e quello a forma di barcone di volonari e sostenitori delle ong Mediterranea, Open Arms e Sea Watch.
Salvini: "Io non cambio idea". In tanti dicono che da qui la sinistra può ripartire. Il ministro dell'Interno Matteo Salvini - destinatario con l'intero esecutivo dei messaggi che da qui partono - fa sentire la sua voce a sera, per dire che "il messaggio al governo lo hanno dato gli Italiani con il voto rinnovando la fiducia a me, alla Lega e al governo di mese in mese e di elezione in elezione". Salvini commenta al Tg Lombardia: "Bene le manifestazioni pacifiche ma io non cambio idea e vado avanti per il bene degli Italiani: in Italia si arriva solo col permesso, lotta dura a scafisti, trafficanti, mafiosi e sfruttatori".
La manifestazione. Partita alle 14 in via Palestro angolo corso Venezia per arrivare in Duomo, è subito un successo (anche oltre le aspettative) la lunghissima passeggiata nel centro della città, accompagnata dalla musica, dai colori, dai balli e dalle speranze centinaia di migliaia di persone. Più che una manifestazione tradizionale, quello di oggi è un grande evento con un afro street party finale in piazza Duomo del dj italo nigeriano Simon Samaki Osagie, l’inventore dell’ultima moda britannica in fatto di flash mob musicali a tema politico, venuto appositamente da Londra. "People-prima le persone", contro tutte le discriminazioni, sfida apertamente il governo sui diritti, sul rispetto, perché - per usare sempre le parole di Sala qui si materializza "un'altra visione del mondo". L'idea è stata lanciata in autunno da sei sigle del terzo settore (Insieme Senza Muri, Anpi, Acli, Sentinelli, Mamme per la pelle e Action Aid).
Le adesioni. Pullman e delegazioni da tutta Italia e numeri da record, 1.200 fra enti e associazioni presenti con striscioni loro, 40mila adesioni solo su Facebook, 700 Comuni aderenti, 20 presenti in piazza anche con il gonfalone e gli assessori, fra questi quello di Riace. Tanti i politici, leader nazionali e segretari generali di sigle come Cgil, Cisl, Uil, Arci, Emergency, Amnesty International, Medici senza frontiere. Tutti uniti in nome della tolleranza e del rispetto dei diritti delle persone e delle minoranze, in un ventaglio larghissimo che va dai migranti all’universo Lgbt, dai disabili alle donne.
2 marzo, tutto sulla marcia dei diritti di Milano: con Bisio, Vecchioni e le Ong al ritmo di "People have the power" di Zita Dazzi.
In strada 200mila persone.
Obiettivo dichiarato era quello di uguagliare quel traguardo del 20 maggio del 2017 che portò in piazza sempre a Milano 100mila persone e di superare i 50mila arrivati in piazza del Popolo a Roma per il raduno #primaglitaliani del leader leghista Matteo Salvini. Ma la risposta di Milano anche stavolta c'è stata: "Siamo 200mila! - twitta Majorino a un'ora dalla partenza - corteo allegro, festoso e tranquillo, di tutti i colori". Poi dal palco di piazza Duomo, l'aggiornamento contabile che fa esultare i presenti: oltre 250mila. Nessun comizio finale e discorsi paludati, tutto si conclude al tramonto, al suono dell’inno "People have the power" di Patty Smith. E il potere di Milano, ancora una volta, è stato quello di portare in strada la voce di chi chiede un altro approccio alle tematiche dell'immigrazione, delle persone omosessuali, dei disabili, della società che cambia "restando umana".
"Da questa piazza va ricostruita la sinistra". "Abbiamo bisogno delle persone e di tornare alle persone", dice Nicola Zingaretti, candidato alle primarie del Pd, al corteo con lo sfidante Maurizio Martina, che su Twitter scrive: "Oggi e domani. Per la primavera democratica #primalepersone", postando un'immagine dei due insieme. "Da qui, da manifestazioni come questa, va anche ricostruita la sinistra. Questo governo non garantisce lavoro, sviluppo e benessere ma distribuisce tanto odio, rancore e divisione. L'Italia non può essere questo", spiega Zingaretti. La lezione è stata compresa da tutti. "Il Pd unito è indispensabile per battere i seminatori d'odio in questo Paese, quelli che pensano che si costruisca il futuro dell'Italia sul rancore - aggiunge Martina - questa piazza ci chiede unità e apertura e noi non dobbiamo assolutamente deluderla". In corteo la giunta e i consiglieri comunali, l’ex sindaco Giuliano Pisapia, il governatore della Toscana Enrico Rossi. A Milano anche Gino Strada di Emergency e Carla Nespolo, presidente dell'Anpi. "Non è una piazza per mandare un messaggio Salvini - sottolinea il segretario generale della Cgil Maurizio Landini - ma al paese che chiede di partecipare e di cambiare le politiche economiche. Questo è un governo che fa politiche sbagliate e non sta combattendo le disuguaglianze. Questa piazza va oltre la sinistra, chiede l'unità sociale per riconoscere il lavoro come fondamento del Paese". "Qui invece c'è vita, speranza e voglia di andare avanti", le parole di Laura Boldrini, ex presidente della Camera. Per Nicola Fratoianni, quella di Milano, è "una manifestazione straordinaria", con "centinaia di migliaia di persone che si ribellano insieme all'onda nera che vuole sommergere l'italia, al razzismo dilagante". Perché, aggiunge il deputato radicale di +Europa Riccardo Magi, "c'è un'Italia che si sente meno sicura proprio a causa di misure come il decreto sicurezza: aumentano le discriminazioni e vengono ulteriormente affossate le politiche per l'accoglienza e l'inclusione. Essere qui è un dovere".
Le mamme adottive. Ma al di là delle dichiarazioni dei politici, esiste e si fa sentire per le vie del centro della città la vita vera: i nuovi italiani, le famiglie, di tutti i colori. Adriana Pumpo, del direttivo dell'associazione "Mamme per la pelle", nata il 30 novembre del 2018 dopo una lettera aperta scritta da una mamma adottiva al ministro dell'Interno Matteo Salvini, racconta l'emozione della giornata. "Per noi era fondamentale essere qui - dice - perché il clima si è inasprito e sono molti gli episodi di razzismo soprattutto da parte di adulti nei confronti di bambini. E' una gioia enorme che tante persone condividano il nostro spirito". Uno spirito che riempie il cuore di Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità che assiste i migranti: "Oggi Milano dimostra che l'accoglienza non è un seme di coesione sociale che contagia positivamente tutta la società". "L'Italia non è e non è destinata a diventare un Paese razzista", assicura Luigi Manconi, direttore dell'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della presidenza del Consiglio dei ministri, non nascondendo però i pericoli. "I razzisti esistono, gli atti di intolleranza crescono, così come l'ostilità verso gli stranieri da parte di strati popolari provati e mortificati dalla crisi economico sociale: una intolleranza - spiega - spesso assecondata e addirittura incentivata da settori della classe politica". Milano dimostra che una luce splende. "Nella società italiana è presente una forte disponibilità alla convivenza pacifica con i 5 milioni e 200mila stranieri regolari e con i 900mila minori presenti nelle nostre scuole. E' ancora sotterranea e fatica a emergere, ma bisogna sostenere questo rifiuto dell'intolleranza".
I volti dello spettacolo. Decine di volti del mondo dello spettacolo e della cultura: fra loro, Malika Ayane, Silvio Soldini, Giobbe Covatta, Claudio Bisio, Luca Bigazzi, Amelia Monti, Lella Costa. Ma il grosso, sono i cittadini, giovani e anziani, single e famiglie. C'è anche Ornella Vanoni: "Perché tutto questo odio? - chiede - Spero che questa piazza abbia un senso, siamo qui per dire che non siamo razzisti. Una città importante come Milano deve diventare multietnica come lo sono Parigi e New York". Flash mob finale sulle note di "People have the power" di Patty Smith, una grande catena umana e mani a formare migliaia di cuori che si alzano al cielo.
Marcia antirazzista, Claudio Bisio in piazza: "Orgoglioso della mia città, qui parte migliore del Paese", scrivono Andrea Lattanzi e Antonio Nasso il 2 marzo 2019 su Repubblica Tv. "Questa è l'Italia che mi piace, sono molto orgoglioso della mia città. Una manifestazione bellissima e pacifica". Come annunciato anche il comico e attore Claudio Bisio è sceso in piazza per 'People-Prima le persone' a Milano. "Siamo qui per dimostrare che non c'è da aver paura di nessuno - spiega - perché noi italiani siamo molto meglio di come spesso veniamo descritti".
Corteo a Milano, Claudio Bisio all'attacco di Matteo Salvini: in piazza contro il governo, scrive il 2 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Questa è l'Italia che mi piace prima di tutto la gente, c'è un po di paura ma siamo qui per dimostrare che non c'è da avere paura di nessuno". Lo ha detto Claudio Bisio durante People, la marcia a Milano contro le politiche del governo. La manifestazione di sinistra era capitanata, ovviamente, da Laura Boldrini. A Sanremo, Bisio si era lamentato che i vertici della Rai per le presunte pressioni riguardo i contenuti degli interventi. Non si poteva parlare di politica e la cosa ha infastidito il comico, che infatti durante tutto il Festival è apparso decisamente poco a proprio agio.
Laura Boldrini alla marcia pro-immigrati: "Matteo Salvini vive d'odio, non voglio rovinarmi la giornata", scrive il 2 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Matteo Salvini? Oggi non vorrei rovinarmi la giornata, questa piazza merita il meglio, consiglio a chi vive di odio di provare a vivere d'altro, chi è abituato ad aizzare il peggio delle persone si perde molto nella vita. Invito Salvini". Laura Boldrini, oggi 2 marzo in piazza a Milano alla marcia pro-immigrati "People, prima le persone", non perde occasione per attaccare il leader della Lega: "E' una bellissima giornata: c'è tanta gente in piazza. Gente allegra, che non odia perché l'odio fa male e chi odia ha paura di tutto. Qui invece c'è vita, speranza e voglia di andare avanti". L'ex presidente della Camera a chi le chiede poi come secondo lei Salvini vedrebbe questa piazza risponde: "C'è un'Italia che ama essere aperta".
La Milano antirazzista scende in piazza: “Siamo 200mila per un’Italia diversa…”. Il sindaco Sala apre il corteo People. La Lega: “State coi clandestini contro gli italiani”, scrive il 2 marzo 2019 Il Dubbio. “Voi oggi siete una poderosa testimonianza politica che l’Italia non è il Paese che viene descritto e da qui, da Milano, può ripartire un’idea diversa di italia”. E’ il grazie che il sindaco di Milano Giuseppe Sala, megafono alla bocca, ha rivolto alle oltre 200mila persone che hanno partecipato a People, la manifestazione antirazzista che ha sfilato tra le vie della città del Duomo: “Non posso fare a meno di dire grazie – ha continuato Sala – perché la politica si fa in tanti modi, ma non lasciatela solo ai politici. Fatela voi”. Eco del pubblico: “Siamo tutti antifascisti”, gridato anche dallo speaker. Insomma, l’Italia antisalviniana sfila in una delle roccaforti storiche della Lega, e lo fa in massa. “Siamo 200 mila”, hanno infatti annunciato gli organizzatori dal carro musicale che apriva il corteo “People – prima le persone”. Obiettivo dichiarato dagli organizzatori, tra i quali ci sono Arci, Acli e i sindacati Cgil Cisl e Uil, era quello di superare i 100 mila partecipanti della manifestazione milanese “Insieme senza muri” del 20 maggio 2017. Obiettivo raggiunto e superato, dunque. “Questa piazza non è per mandare un messaggio a Salvini ma al Paese”, ha poi spiegato il segretario della Cgil Maurizio Landini. “C’è un Paese che chiede di partecipare e di cambiare le politiche economiche – prosegue – Questo è un governo che fa politiche sbagliate e non sta combattendo le disuguaglianze che ci sono. Cgil, Cisl e Uil ci sono, per un’idea di solidarietà e di lotta alle disuguaglianze sociali. Per cambiare il Paese c’è bisogno di coinvolgere le persone, non si può farlo senza la maggioranza delle persone che lavorano. C’è bisogno di unire e non di dividere”. Quella milanese, secondo Landini, “è una piazza che va oltre la sinistra e chiede l’unità sociale per riconoscere il lavoro come fondamento del Paese”. Gelo della Lega: “La cosiddetta marcia della tolleranza altro non è che uno strumentale attacco al Governo. Sala e il Pd anziché coi clandestini, dovrebbero essere tolleranti con quei commercianti milanesi e quei lavoratori penalizzati dall’Area B e con tutte quelle famiglie italiane del centro e delle periferie che soffrono e non sanno come andare avanti”, dice il commissario della Lega di Milano e vice capogruppo alla Camera dei Deputati, Fabrizio Cecchetti.
Grillo attacca la manifestazione di Milano: "Razzismo falso problema, fenomeno mediatico". Il fondatore del M5s sul suo blog prende di mira anche le primarie dei "frou frou piddini", scrive il 3 marzo 2019 La Repubblica. "Un falso problema", un fenomeno "esclusivamente mediatico". Beppe Grillo rompe il suo silenzio sull'attualità politica e prende di petto la manifestazione di ieri a Milano: "250.000 persone hanno manifestato contro il razzismo, un razzismo esclusivamente mediatico", attacca dal suo Blog il cofondatore del M5s. "Ma Sala - riprende - lo definisce momento spartiacque... ed ha ragione. Chiunque abbia un minimo di buon senso non vede alcun razzismo - incalza Grillo - ma soltanto un crescente egoismo sociale". "Ma allora - domanda - cosa sta succedendo? Sembra che il paese non voglia confrontarsi con i suoi 'veri fantasmi'. Se fosse una manifestazione contro l'egoismo, contro il mors tua vita mea, ne sarei felice. Ancora di più, se fosse una manifestazione contro la mafiosità, i favori e le caste... ma - è la stoccata del Garante M5s - stiamo soltanto sognando". "Il paese sceglie falsi problemi - continua Grillo nel suo post - piuttosto che decidere di sostenere i suoi milioni di poveri preferisce disquisire di miliardi per bucare una montagna ed altre questioni che non esistono. Piuttosto che cacciare i mafiosi della politica offre a quella stessa vecchia politica alibi per rifarsi l'ennesimo lifting. Terreno di coltura ideale per i frou frou piddini e berlusconiani: cabaret invece che lotta. Persi nelle nebbie delle primarie si ritrovano nel vuoto nulla impannocchiato in fronzoli", conclude citando un verso dai Sonetti di Shakespeare.
"Macché rischio razzismo. È solo propaganda che fa crescere Salvini", scrive Luigi Mascheroni, Domenica 03/03/2019, su Il Giornale. La marcia contro il razzismo ieri ha avuto grande successo. Ma davvero in Italia esiste un pericolo razzista? Davvero dietro la richiesta di legalità e le paure per flussi migratori fuori controllo c’è un’ondata xenofoba? Attento osservatore della politica italiana e figlio dell’unica terra immune dal razzismo, la Sicilia («Il razzismo è una malattia per popoli biondi»), Pietrangelo Buttafuoco ha una sua idea sulla manifestazione di Milano.
Quale?
«Si chiama “attenzione indotta”. È quel fenomeno per cui dal momento in cui tu decidi di comprare una Vespa, vedi Vespe dappertutto. E se vuoi cambiare casa, vedi “Vendesi” dappertutto. Si studia in psicologia. In politica, attraverso raffinati meccanismi della propaganda - e attenzione: speculari, cioè usati sia da chi cavalca la paura dell’altro sia da chi denuncia il razzismo - significa portare l’interesse delle persone su una cosa che succede da sempre, a cui però nessuno fino ad allora ha dato un senso particolare».
E che adesso diventa ghiotto materiale politico.
«È da trent’anni, o di più, che la gente muore nel Mediterraneo. Io me li ricordo da ragazzo, sulle spiagge della Sicilia, i pescherecci spiaggiati con le scritte in arabo. Ma nessuno diceva nulla. A parte Andrea Camilleri. A proposito: lui la storia di Montalbano e i migranti l’ha scritta tre anni fa, poi adesso va in onda sulla Rai e arriva la macchina della propaganda antirazzista a scatenare la polemica. Ma leggi Davide Enia, Appunti per un naufragio, e vedi da quanto tempo la gente muore nel mare di Lampedusa... Ma allora non c’erano i Saviano, i Veronesi, gli Albinati a scriverci sopra articoli e libri, non c’erano i collegamenti di Che tempo che fa...»
E perché oggi sì?
«Perché c’è Salvini al governo. Prima non c’era un nemico cui dare la responsabilità di tutto ciò. È un marketing irresistibile: chi non anela all’aureola della bontà? Il kulturkampf antirazzista ormai ha preso il posto dell’antimafia declamatoria. Non avendo altro modo per sconfiggere la Dc, a un certo punto se ne fece la centrale di Cosa Nostra. Volendo sbrigarsi a spegnere Salvini lo si laurea razzista, ovvero quanto di più abietto possa esserci. È una scorciatoia della dialettica. Si chiama criminalizzazione».
Ma esiste o no il pericolo di razzismo?
«Ma gli insulti, le scritte, il malessere per chi non fa parte della tua comunità ci sono sempre stati in contesti - come dire? - “colorati”. Oggi succede coi migranti africani. Fino agli anni ’70 coi terroni. Eppure allora non vedevo i grandi giornali puntare il dito, scandalizzati, contro chi metteva nei locali di Torino i cartelli “Qui i meridionali non entrano”. Abbiamo fatto sempre finta di niente. Ma ora che il nemico è imbattibile, elettoralmente, bisogna demonizzarlo».
A Milano in prima fila c’erano i candidati alla segreteria del Pd, Sala, la Boldrini, Landini...
«Viene da pensare che siano pagati da Salvini. Più usano questo meccanismo della propaganda anti-razzista, più la Lega cresce nei consensi. E però c’è da ridere: pensa un po’ tutti papaveri di Forza Italia ormai campioni del politicamente coretto che avrebbero voluto esserci e non possono...».
Questa è una tua malizia. Resta il fatto che Salvini ricompatta una Sinistra altrimenti spaccata su tutto.
«Evocano l’incubo razzismo per potere applicare l’equazione Salvini uguale nazista. Ma solo perché non hanno altri argomenti forti».
Alle elezioni Europee i numeri della marcia di ieri si tradurranno in voti?
«Non credo. La sfilata di ieri a Milano è ancora una volta la vetrina della minoranza egemone che perpetua la propria sfida alla maggioranza silenziosa attraverso la criminalizzazione dell’avversario».
Chi ha sfilato è convinto di essere dalla parte giusta.
«Ma certo. Loro è come se ti dicessero: “Tu, Salvini... Tu, che voti lega... vincerai anche le elezioni, sarai anche al governo, ma sei un nazista”. Serve a squalificare l’avversario politico e a intimorire l’opinione pubblica. E a sentirsi, appunto, dalla parte giusta».
E tu, da che parte stai?
«Vedi, tra i Buttafuoco, ce ne sono di colorati. Noi siamo di sangue misto, siamo meticci, oltretutto la Sicilia è a un pelo dall’Africa, dai Balcani e dall’Asia e pensa come possa confondersi la cicogna. Tutto quello che oggi finisce in prima pagina - scritte, insulti, urti e rutti- per noi è stato da sempre all’ordine del giorno. Tutto vissuto con la santa pazienza e il buon senso. Forse perché al Viminale non c’era Salvini, prima? Quando capitava a noi, tutto ciò, era pax in multicolor?».
Non siamo tutti sulla stessa barca! Scrive il 3 marzo 2019 Luigi Iannone su Il Giornale. No! Non ci siamo proprio, care e cari Laura Boldrini, Ornella Vanoni, Giuliano Pisapia, Roberto Vecchioni, Claudio Bisio, Amelia Monti, Malika Ayane, Giobbe Covatta, Lella Costa e tutto il Circo Barnum, che insieme a tanti milanesi (più o meno ingenui) vi siete ritrovati in piazza per la manifestazione antirazzista, ostentando lo slogan: «Siamo tutti sulla stessa barca». No, cari tutti… siete dei mentitori perché qualunque mieloso e suggestivo proposito possiate portare avanti, non siamo sulla stessa barca! E cerco di spiegarvelo in maniera diretta, seppur molto sintetica.
Chi vive nei centri storici delle città e non nelle periferie degradate, non è “sulla stessa barca” con gli altri.
Chi non fa lavori “comuni” e, quindi, non riesce (o non vuole) comprendere che si stanno demolendo i diritti dei lavoratori per via di questa rincorsa verso il peggio che obbliga alla ricerca di mano d’opera a basso costo, non è “sulla nostra stessa barca”.
E chi non capisce che questa corsa al ribasso dei salari danneggia essenzialmente le fasce di lavoratori meno professionalizzati e quindi più esposti (e di conseguenza più poveri) non è “sulla nostra stessa barca”.
Chi non vede (o non vuole vedere) che la popolazione straniera residente continua a crescere, anche se di lavoro ce n’è sempre meno, non è “sulla nostra stessa barca”.
Chi non considera il fatto che, insieme a tanti poveri cristi, arrivino tanti delinquenti e criminali, non è “sulla nostra stessa barca”.
Chi crede che, nonostante una infinita crisi economica, sia possibile continuare a spendere per un’accoglienza tramutasi in assistenzialismo perpetuo a carico dello Stato, perciò togliendo risorse a famiglie italiane nelle stesse condizioni, non è “sulla nostra stessa barca”.
Chi non capisce che, non potendo accoglierli tutti, vi sarà una parte non irrisoria di immigrati che troverà strade alternative, e sarà arruolata dalle nostre organizzazioni criminali (Mafia, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona), non è “sulla nostra stessa barca”.
Chi non afferra il concetto che molti di questi immigrati aspirino all’accoglienza ma non all’integrazione, non è “sulla nostra stessa barca”.
Chi fa finta di illudersi che a costoro (non a tutti, ovviamente!) nulla importi della laicità dello Stato, dei diritti delle donne e dei minori, non è “sulla nostra stessa barca”.
Chi non avverte il pericolo che vi sia una diversa sensibilità sull’esigenza di isolare violenza e terrorismo, non è “sulla nostra stessa barca”.
Chi non vede le dimensioni dell’ulteriore impoverimento dei Paesi di provenienza causata da questa fuga in massa, non è “sulla nostra stessa barca”.
Chi fa finta di credere che i flussi migratori non siano incoraggiati da un pensiero globalista di stampo neo liberista (e quindi da multinazionali e organizzazioni varie) ma alimentati spontaneamente solo dalla disperazione e dalla povertà, non è “sulla nostra stessa barca”.
Chi è un apolide, che non ha a cuore l’identità della propria nazione, e quindi non viene turbato da continue e persistenti iniezioni di multiculturalismo, e che non ha interesse nel contrastare ogni fenomeno che porti alla destrutturazione e all’indebolimento delle identità comunitarie, non è “sulla nostra stessa barca”.
Infine… chi prende il taxi e mai un bus o la metro, non può capire cosa significhi stare su un barcone. Al massimo, su uno yacht!
PiazzaPulita, Paragone scatenato contro Corrado Formigli: "Guardatelo in faccia quando parla di immigrati", scrive il 3 marzo 2019 Libero Quotidiano. Ancora scontro tra Gianluigi Paragone e Corrado Formigli dopo la lite in diretta di qualche settimana fa a PiazzaPulita. Il nuovo attacco arriva dal senatore grillino, che punta il dito contro il conduttore de La7 per l'atteggiamento che ha tenuto nell'ultima puntata del programma, quando Luigi Marattin del Pd ha attaccato reddito di cittadinanza e reddito di inclusione. Marattin aveva bollato come "stock di poveri" la platea interessata dai provvedimenti, Formigli per inciso lo aveva anche ripreso, seppur con il sorriso sulle labbra. E Paragone, ora, attacca: "Formigli prendendola sullo spiritoso una riflessione dovrebbe farla, quando si parla degli immigrati si fa scuro in volto, quando invece parla di stock di poveri sorride e dice un’espressione un po’ fredda. Questo è il linguaggio usato da un politico di primo piano del Pd, partito che dice di richiamarsi a valori socialisti". E lo scontro continua...
L’insopportabile vizietto della sinistra di giudicare, scrive Daniele Capezzone il 4 marzo 2019 su Nicola Porro. L’ha detto Claudio Bisio ma – non gli dispiaccia – avrebbe potuto dirlo qualunque altro dei vipponi di sinistra o presenti fisicamente sabato alla manifestazione di Milano o ritualmente intervistati per commentarla: “Qui c’era la parte migliore del Paese”. Ecco, il vizietto è sempre lo stesso: dare le pagelle a tutti gli altri, anziché ascoltarli. Disprezzare chi la pensa diversamente, invece che provare a capirne le ragioni. Porsi su un piano antropologicamente e moralmente superiore, su una cattedra dalla quale giudicare e ammonire. Questo atteggiamento – inutile ribadirlo, in un’ottica liberale – è sbagliato sempre: ma lo è ancora di più, come accade a questa insopportabile sinistra italiana, se si è minoranza: allora, a maggior ragione, dovrebbe scattare lo stimolo a interrogarsi sui propri errori, a rendersi disponibili a cambiare tono e linguaggio, a essere – per una volta – umili. E invece no: costoro insistono a pretendere di rilasciare (e soprattutto di ritirare) patenti di civiltà. Spiace dirlo, ma a questi intellettuali il popolo non piace. Temo che molti non sappiano neppure chi sia stato il gigante che sto per evocare, ma Sergio Ricossa, molti anni fa, lasciò a verbale un’osservazione chirurgica, da conservare e incorniciare: “Gli intellettuali di sinistra amano il popolo come astrazione, lo detestano probabilmente come insieme di persone vive e cioè rumorose, sudate, invadenti, volgari. Il popolo vivo sembra sopportabile solo se lo si guarda dall’alto di un palco ben isolato ed elevato”. È ancora così. Daniele Capezzone, 3 marzo 2019
Corteo o sfilata? "Moda migranti" nella Milano chic. Quando capita un'altra occasione così social(ista)? Archiviata la settimana della moda, cioè la celeberrima e chicchissima Mfw, Milano fashion week, alla Milano dei salotti bene non poteva sfuggire un red carpet (proprio red, nel senso di rosso) così succulento, scrive Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 04/03/2019, su Il Giornale. La settimana della moda migranti milanese aperta sabato con la sfilata/corteo dell'accoglienza del salotto è la festa dei soliti radical chic. «Siamo l'Italia migliore», si sentiva ripetere qua e là, ieri a Milano, tra i capannelli di gente tanto compiaciuta di farsi vedere in piazza. Via con i selfoni dietro le bandiere delle varie associazioni, e quando capita un'altra occasione così social(ista)? Archiviata la settimana della moda, cioè la celeberrima e chicchissima Mfw, Milano fashion week, alla Milano dei salotti bene non poteva sfuggire un red carpet (proprio red, nel senso di rosso) così succulento. È la Mrcw, la Milano radical chic week. Così sotto l'hashtag primalepersone è sfilata la passerella dei sedicenti ottimati, cioè quelli che fingono di stare dalla parte degli ultimi perché pensano di essere i migliori e quindi manifestare per i poveri è un vezzo a cui non sanno rinunciare. Una pochette vistosa e voluttuosa da imbucare nella tasca della giacca in velluto. Un gesto di regale liberalità, un lavacro in cui sciacquare tutte le proprie ipocrisie. Amano il loro prossimo, purché la pensi esattamente come loro e gli stia a una certa distanza. Puntualmente però si dimenticano, snobbano o sputacchiano, quelli che stanno in mezzo tra gli ottimati e i disgraziati. Cioè la maggioranza. Cioè gli italiani. Perché gli italiani per loro sono un po' troppo italiani, hanno troppi casini, devono addirittura sporcarsi le mani nel tentativo di sbarcare il lunario. Sono così volgarmente indaffarati nel tentativo di mettere insieme il pranzo con la cena che non hanno tempo di firmare petizioni per il Saharawi o per il Venezuela (ovviamente di Maduro). Così ieri da una parte c'era la riserva indiana dei vecchi arnesi dei centri sociali, quelli che pensano ancora che fumarsi un cannone in centro città e boicottare le docce sia un atto rivoluzionario. Anarchici in disarmo, con i ciuffi bianchi di capelli che gli spuntano tra un dreadlock e l'altro. Rivoluzionari senza rivoluzione, antirazzisti in mancanza di razzisti, antifascisti in assenza di camicie nere, che si eccitano a cantare Bella Ciao sotto la Madonnina con quasi 80 anni di ritardo. E poi la Milano con il cuore, quella che pensa che l'altra Milano - quella che non fa sit in e non va in giro con le biciclette con la targa «no oil» - scarseggi di cervello, ma che non si accorge quanto dalle loro parti scarseggino gli attributi. Che ha approfittato per abbandonare i propri salotti (rigorosamente foderati di buone e politicamente corrette letture) per scendere in piazza e, riflettendosi nei propri simili come in un gigantesco specchio, potersi dire: quanto siamo buoni e giusti, noi sì che siamo l'Italia migliore. Che poi sono quelli con quattro dogsitter (ovviamente neri e rigorosamente in nero) che fanno pascolare il loro cane a Brera imbozzolato in tre fili di cachemire. E #primalepersone, piuttosto che #primaiquadrupedi, forse dovrebbe essere un monito per loro stessi. Sono quelli che non vedono il pericolo immigrazione, semplicemente perché non vedono l'immigrazione. Non la incontrano, non la toccano, non la vivono. Gli unici flussi migratori nella loro vita li hanno visti scorrere su National Geographic. D'altronde i centri di accoglienza non li aprono mica nel quadrilatero della moda. Ed è facile e bello fare gli «accoglienti» con la sicurezza degli altri. #primalepersone, sempre, a patto che siano di sinistra. Altrimenti meglio un chihuahua col trench. Merita più diritti. Hasta l'ipocrisia siempre.
"No pago affitto". Scherzano a carnevale sui migranti. E la sinistra s'indigna. A Formello (Roma) il carro di carnevale sugli sbarchi e sui migranti. Critico il Pd: "Disgustoso". Ma il sindaco: "Nessuno si è scandalizzato in piazza anzi tutti si sono divertiti", scrive Bartolo Dall'Orto, Lunedì 04/03/2019, su Il Giornale. Ci sono due manifestazioni che si sono svolte ieri. Da una parte la carnevalata buonista, che nelle intenzioni dei promotori doveva essre la risposta dell'"Italia migliore" alle politiche migratorie del governo; dall'altra una normale sfilata di carnevale, dove qualcuno ha avuto l'ardire di scherzare un po' sui migranti ed è stato subito sommerso dalle polemiche. Siamo a Formello, cittadina alle porte di Roma (dove ha sede il centro sportivo della Lazio). Tra i carri presenti alla sfilata l'attenzione si è concentrata su uno abbastanza particolare: un barcone in mezzo alle onde (tutto di carta e plastica, ovviamente) carico di (finti) migranti. A trainarla un'auto con alcuni cartelli che richiamavano (simpaticamente) alle richieste fatte nel corso degli anni dai migranti ospitati nei centri di accoglienza: "No pago affitto", "Vogliamo il wi-fi", "porti aperti" e via dicendo. Il tutto sormontato da tre bandiere italiane e con una sorta di sosia di Matteo Renzi ad accompagnare il barcone. Le critiche al carro carnevalesco sono arrivate sui social, polemiche subito riportate da Repubblica. "Lo definirei 'il carro della vergogna' - attacca la presidente di Legambiente di Formello, Maria Teresa Altorio - Ormai sta dilagando nel comune sentire l'incitamento all'odio, alla paura e alla divisione". Sulla stessa linea anche Bruno Astorre, Segretario PD Lazio: "Usare una festa popolare, di gioia, divertimento puro per irridere, offendere chi arriva in Italia dopo aver superato sacrifici incredibili e a rischio della vita è becero, e una vera istigazione al razzismo - dice - Lo pseudo carro di carnevale di Formello non solo non fa sorridere, ma è uno schiaffo a tutti non solo agli immigrati. Il coinvolgimento di bambini aggrava una rappresentazione davvero disgustosa che ci porta indietro di decenni. Mi auguro che ci si renda conto dell’errore commesso e si trovi il modo per chiedere scusa non agli immigrati, ma al senso di civiltà e umanità che dovrebbe essere centrale per ognuno di noi". A difesa della sfilata si è però schierato Gianfilippo Santi, sindaco di Formello: "Non era neppure un carro vero - dice - Nessuno si è scandalizzato in piazza anzi tutti si sono divertiti. Chi solleva accuse di razzismo lo fa solo per attaccarmi politicamente perché dopo 25 anni ora c'è una giunta diversa non più di sinistra. Io sono un sindaco centrista di una lista civica". Nessun contenuto discriminatorio, dunque, né pessimo gusto. "È solo un'accusa strumentale - ripete il primo cittadino - Anche lo scorso anno sono stato contestato per in carro sul Vesuvio e i napoletani. No non penso di dover chiedere scusa a nessuno".
Invece per la sinistra va bene…
Il carro tedesco insulta Salvini "Allatta il razzismo, è mafioso". Un carro di Carnevale piuttosto offensivo per il ministro degli Interni ha trovato il suo posto nelle sfilate per le strade di Dusseldorf, scrive Luca Romano, Lunedì 4/03/2019 su Il Giornale. Matteo Salvini che "allatta" il Nazionalismo e Razzismo. Un carro di Carnevale piuttosto offensivo per il ministro degli Interni ha trovato il suo posto nelle sfilate per le strade di Dusseldorf. Lo stesso titolare del Viminale ha postato la foto del carro su Facebook commentandola con un sorriso accompagnato da una didascalia: "Carnevale di Dusseldorf". Insomma il ministro finisce nel mirino anche in Germania. Di fatto Salvini viene visto come il simbolo di una politica che fa crescere nel nostro Paese il razzismo e il sentimento del nazionalismo. Sui social il carro carnevalesco è stato "boicottato" con commenti duri da parte degli elettori della Lega. Salvini, sul carro, ha in mano due bandiere col tricolore italiano con la scritta "brutta Italia". Infine al centro del petto di Salvini c'è un cuore con la scritta "Mafia". Non è certo la rpima volta che i tedeschi mettono nel mirino l'Italia usando stereotipi come quelli della Mafia. Ora dalle copertine dello Spiegel si passa direttamente alle "carnevalate" per strada.
L'happening antirazzista, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 03/03/2019, su Il Giornale. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala porta in piazza oltre centomila persone per dire no al razzismo e si candida, più che a guidare il fronte pro immigrati, a guidare il Pd, cosa che per la sinistra non sarebbe poi così male. Centomila persone in piazza a Milano fanno sicuramente un certo effetto, non lo neghiamo, se non fosse che manca il nemico. A sinistra non vogliono capirlo, ma l'Italia non è razzista e così ripetono lo stesso errore di sempre: «Contro i fascisti e contro i razzisti». Ma dove sono 'sti «fascisti»? Se intendono gli aderenti a CasaPound e Forza Nuova, messi insieme fanno lo 0,8 dei consensi elettorali, un po' pochino per scomodare folle oceaniche e lanciare allarmi come se la casa stesse bruciando (per tenere a bada le teste calde basta un buon controllo di polizia). Se Sala e amici si riferiscono pure a quei cretini che scrivono sui muri minacce razziste o insultano per strada e sui social uomini e donne di colore, le percentuali si riducono ulteriormente. E poi diciamolo, non è che a sinistra - tra centri sociali e nostalgici del comunismo e odiatori seriali - i cretini manchino. Se invece si intende, come probabile, che razzista è questo governo, e in particolare Matteo Salvini, allora dovrebbero spiegarci che cosa il ministro dell'Interno abbia fatto di diverso da quello che (senza riuscirci) voleva fare il governo di sinistra: bloccare le partenze, limitare gli arrivi, dividere tra tutti i Paesi europei chi in un modo o nell'altro riesce a mettere piede in Italia. La sinistra infatti, come noto, ha perso le elezioni non perché ha pensato tutto questo, semplicemente perché non è riuscita a metterlo in pratica con successo. Il fatto che quest'anno siano sbarcati sulle nostre coste poco più di duecento immigrati contro gli oltre cinquemila dello scorso anno è un fatto che mette a tacere tutti, l'unico atto di questo governo molto apprezzato anche dal popolo della sinistra che di accoglienza senza regole ne ha piene le tasche esattamente come i presunti fascisti e razzisti. Per il sindaco Sala sarà stato anche un successo, ma la manifestazione di ieri è stata un grande happening, non una proposta né un'alternativa politica. Vedere Sala sfilare insieme alla Boldrini e al neosegretario della Cgil Maurizio Landini crea solo confusione e ambiguità. Siamo alle solite: dov'è, se mai potrà esserci, la nuova sinistra che si candida a guidare il Paese e a risolvere i suoi problemi senza continuamente e solamente dare la caccia ai fantasmi del fascismo e del razzismo?
AgCom, tv buonista per legge: il decalogo per difendere gli immigrati, conduttori a rischio multa, scrive il 21 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Dall’Agcom, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sta per arrivare il decalogo per le emittenti radio-televisive contro il reato d’odio. Il regolamento entrerà in vigore il prossimo giugno e prevede che le radio e le tv assicurino il più rigoroso rispetto verso gli individui a rischio discriminazione. Chiaro insomma il riferimento ai migranti. I fornitori dei programmi di informazione e intrattenimento rischiano sanzioni che vanno da 10 a 250 mila euro nel caso in cui ospiti o conduttori dovessero ledere la dignità dei "soggetti deboli" incorrendo in forme di hate speech. La delibera n.25/19 dell’Agcom si ispira ai principi di correttezza, lealtà e correttezza dell’informazione. Infatti, anche tenendo conto dei codici di deontologia giornalistica, le emittenti dovranno osservare una serie di limiti. Per le trasmissioni radio o tv in diretta, direttori, registi, conduttori e giornalisti dovranno assicurare i criteri di correttezza del linguaggio e del comportamento dei partecipanti, soprattutto quando sono ospiti rappresentanti politici e istituzionali. Sono bandite, dunque, le volgarità, i pregiudizi e le allusioni lesive della dignità umana. Ma non finisce qui, perché il regolamento riguarda anche la condotta del pubblico ospite in studio e quella dei telespettatori spesso chiamati a interagire con sms o post sui social. Spesso, infatti, durante la diretta sono udibili fischi o applausi inappropriati o messaggi da casa in sovra-impressione pregnanti di offese. In questi casi sarà compito del giornalista o del conduttore riportare il programma entro i binari della correttezza e contrastare la discriminazione delle espressioni razziali. L’autorità, tra l’altro, verificherà l’osservanza dei principi o di eventuali violazioni in caso di dibattito su una notizia che possa riguardare i soggetti a rischio discriminazione quando in studio o in collegamento ci saranno i loro rappresentanti.
Ecco il numero di cellulare che decide chi sbarca in Italia. E' il numero di Alarm Phone, noto ai migranti, che riceve le richieste di soccorso ed è in contatto con le navi delle ong, scrive Fausto Biloslavo il 13 febbraio 2019 su Panorama. 033 4 86517161 è il numero del centralino dei migranti attivato dagli «estremisti dell’accoglienza», che si può chiamare per dare l’allarme su qualsiasi gommone partito dalla Libia per farlo recuperare. Si chiama Alarm phone ed è un numero di emergenza di una rete di attivisti convinti che bisogna «abbattere i confini della fortezza Europa» per fare entrare tutti, sia veri profughi di guerra che migranti economici. «Alarm phone vuole sostituirsi ai centri di soccorso riconosciuti dei singoli Stati» spiega a Panorama un alto ufficiale italiano da anni in prima linea contro il traffico di esseri umani via mare dalla Libia. «Non ho idea se sanno che a telefonare possono essere pure gli scafisti o i trafficanti, ma non rifiutano la chiamata di nessuno. E le autorità competenti dovrebbero scavare più a fondo». Nel 2018 il centralino ha risposto a 666 chiamate dai barconi. I 47 migranti di Sea Watch 3, la cui vicenda si è appena conclusa dopo aver scatenato un caso europeo, sono gli ultimi individuati in mezzo al mare grazie ad Alarm phone. «Il 19 gennaio siamo stati allertati da un natante in difficoltà al largo della Libia» spiega un comunicato del centralino. «Dopo un po’ (i migranti) erano in grado di inviarci le coordinate Gps così siamo riusciti a localizzarli». Qualcuno a bordo del gommone doveva avere un telefono satellitare Thuraya, che di solito viene consegnato allo scafista. I telefonini non hanno campo a 30 miglia dalla costa. Quando finisce il credito del «Thuraya» è lo stesso centralino dei migranti a ricaricarlo on line. «Se al telefono ci fosse lo scafista sarebbe un reato» osserva la fonte di Panorama. Nell’emergenza Sea Watch 3, Alarm phone ha pure attivato Moonbird un piccolo aereo di ricognizione dei Piloti umanitari svizzeri, che continuano a fare base a Malta. È stato il velivolo a indirizzare Sea Watch 3 al gommone dei 47 naufraghi per condurli verso l’Italia. Sul sito del centralino si legge che quelli che rispondono alle chiamate sono in gran parte «volontari già attivi per anni in reti come Welcome Europe, Borderline Europe, Noborder Marocco e Watch The Med». La prima ha uno slogan che non lascia dubbi: «Libertà di movimento (…) per rifugiati e migranti che vengono in Europa». Borderline Europe che dice di sé: «Offre resistenza civile contro le politiche migratorie europee dal 2007». Alarm phone dà anche contatti per assistenza legale, sanitaria, economica ai nuovi arrivati in tutti i Paesi europei. In Italia si va dagli ambulatori di Emergency all’Associazione Interculturale Arci «Todo Cambia» di Milano fino ai Centri anti-razzismo. Il centralino, nato nel 2014, conta su un centinaio di attivisti che rispondono a un numero francese, ma in realtà sono collegati via Skype soprattutto dalla Germania, da altri Paesi e da Chicago. All’inizio Alarm phone era una cosa sola con Whatch The Med, definita «organizzazione sorella». Il centralino ha preso spunto da personaggi del nostro paese come il sacerdote eritreo don Mussie Zerai, finito sotto indagine per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dalla procura di Trapani e Nawal Soufi, soprannominata «Lady Sos», che si sono sempre vantati di avere aiutato via telefono migliaia di persone a sbarcare in Italia. Fra gli operatori che rispondono alle chiamate ad Alarm phone ci sono anche un afghano, un curdo, un eritreo e altri che sono arrivati via mare. I centralinisti sono guidati da Marion Bayerm, un’attivista di 38 anni, che vive ad Hanau, in Germania, e «ha preso parte fin da adolescente ai movimenti antirazzisti». Gli attivisti al telefono giurano di sostenersi con donazioni private, ma «l’organizzazione sorella», Watch the Med, si è sviluppata grazie a una campagna fondi che ha coinvolto anche l’Arci in Italia. Il 20 gennaio, l’ennesimo caso in cui Alarm phone è rimasta coinvolta: un gommone al largo della Libia, che sembrava dovesse affondare da un momento all’altro. In realtà, la foto scattata da un aereo militare della missione navale europea Sophia - e che pubblichiamo qui sopra - dimostra che il natante non stava «imbarcando acqua» come denunciato da Alarm phone. Il centralino dei migranti era in contatto con un satellitare Thuraya nella mani di un africano con un pesante giubbotto rosso, al timone del gommone. Il sospetto scafista è stato segnalato da Sophia alla polizia italiana. Alla fine i 100 migranti a bordo sono stati riportati in Libia da un mercantile. «Non collaboriamo con i trafficanti» si è difeso Maurice Stierl, dalla Germania, a nome di Alarm phone. «Sul gommone non abbiamo parlato sempre con lo stesso uomo, ma anche con una donna e altre persone» spiega il portavoce e ricercatore dell’Università inglese di Warwick. Sul portale di Alarm phone, tuttavia, i trafficanti non vengono condannati in modo esplicito. Il centralino dei migranti puntualizza in che modo «si relaziona con i cosiddetti trafficanti di persone». Ecco che dà questa motivazione: «I trafficanti di esseri umani esistono solo a causa e fino a quando esistono regimi di frontiera che impediscono ai rifugiati e ai migranti di entrare legalmente nei Paesi e li costringe invece su rotte segrete, costose e pericolose». In pratica è colpa dell’Europa. Non a caso il numero di Alarm phone viene disseminato non solo in rete, ma con distribuzione di volantini anche in Africa e Turchia, punti di partenza dei gommoni. E per il 2019 il centralino dei migranti è pronto a dare battaglia assieme alle navi delle Ong superstiti (da 12 del 2017 a tre). La nuova alleanza si chiamerà United4 Med e i tedeschi di Sea Watch hanno stilato un manifesto di lotta e di sbarchi: «La nostra è una chiamata all’azione per le città europee, i sindaci, i cittadini, le società, i movimenti, le organizzazioni e chiunque creda nella missione».
Migranti, la lezione degli albanesi. Nel 1991 la vicenda della Vlora e dei 20mila profughi rinchiusi allo stadio di Bari. Ma nessuno processò il Governo di allora, scrive Maurizio Belpietro l'11 febbraio 2019 su Panorama. Nessuno lo ricorda più, ma bastano le collezioni dei giornali dell’epoca a rinfrescare la memoria. Accadde all’inizio di agosto del 1991, quando a Palazzo Chigi c’era ancora Giulio Andreotti. Al suo fianco, come vicepremier, sedeva Claudio Martelli, il braccio destro di Bettino Craxi, mentre alla guida del ministero dell’Interno provvedeva Vincenzo Scotti, un democristiano di lungo corso che è ancora sulla breccia, anche se non più in politica. Degli Esteri si occupava Gianni De Michelis e l’Immigrazione invece era presidiata da Margherita Boniver, un’altra craxiana di ferro. L’Unione Sovietica era crollata da un paio di anni, un collasso che aveva travolto tutti i regimi comunisti dell’Europa dell’Est. Tutti, tranne uno: quello instaurato da Enver Hoxha a Tirana. Nonostante la sua morte, avvenuta nel 1985, il Partito del Lavoro da lui fondato continuava a tenere in scacco il Paese con il pugno di ferro. Ma all’inizio del 1991 cominciarono i primi segni di cedimento: la crisi economica aveva fiaccato la lunga dittatura comunista. L’Albania, che per anni era stata isolata dal resto del mondo e dalla quale fuggire era impossibile, stava implodendo e gli albanesi scappavano, alcuni per fame, altri inseguendo la libertà. La meta più desiderata era l’Italia e il 7 agosto una folla di migliaia di persone disperate prese d’assalto un bastimento appena giunto da Cuba con un carico di zucchero: il Vlora. In poco tempo la nave, che era attraccata a Durazzo, fu svuotata delle casse giunte dall’Avana e più di 20 mila persone salirono a bordo, costringendo il comandante, Halim Milaqi, a salpare per l’Italia. Il mercantile fece rotta verso Brindisi, ma una volta giunto in prossimità del porto fu costretto a dirigersi altrove, perché la prefettura negò l’attracco. Il Vlora allora puntò verso Bari, dove le autorità, una volta avvisate, disposero delle pilotine all’ingresso del porto per bloccare la nave e rispedirla a Durazzo. Milaqi, che era circondato da uomini armati (tra quelli che avevano preso d’assalto la nave c’erano anche avanzi di galera scappati dalle prigioni del regime) e temeva una rivolta, a questo puntò forzò il blocco, dicendo di avere persone ferite a bordo. Il mercantile fu fatto attraccare nel punto più lontano della città, nella speranza di tenere sotto controllo la situazione e di rimandarlo indietro il più in fretta possibile. Ma il piano fu travolto dalla realtà, perché nonostante lo schieramento di poliziotti, carabinieri e perfino di qualche reparto dell’esercito, gli albanesi cercarono vie di fuga per raggiungere la città. In breve si stabilì di trasferire una parte delle persone nello stadio della Vittoria e di rinchiuderle lì. Già, perché per evitare che i profughi si disperdessero, fu deciso di serrare i cancelli di ferro. Per otto giorni migliaia di albanesi rimasero dentro quell’inferno, con acqua e cibo lanciati dall’alto, per mezzo di un’autoscala dei vigili del fuoco, perché la distribuzione dei viveri ai cancelli non consentiva di raggiungere tutti. Nel frattempo, i profughi rimasti sul molo venivano imbarcati a forza sul traghetto Tiziano, mentre altri furono trasferiti all’aeroporto di Palese e caricati su C-130 dell’Aeronautica. Una volta rispediti a casa quelli rimasti al porto, il capo della polizia Arturo Parisi si incaricò di trattare con gli albanesi rinchiusi nello stadio, promettendo loro che sarebbero stati trasferiti in altre città italiane. In realtà anche loro furono caricati sui traghetti e sugli aerei e riportati a Tirana. Vi chiedete perché abbia perso tempo a rievocare una storia sepolta nella memoria di quasi trent’anni fa? Perché all’epoca a nessuna Procura venne in mente di aprire un fascicolo a carico del ministro dell’Interno o del governo in carica per sequestro di persona. E dire che in quel caso di sequestro si trattò davvero e per di più con l’uso dello stadio che - come è noto - dopo il golpe di Pinochet in Cile, quando è impiegato a scopo di ordine pubblico evoca i peggiori regimi. Ma nel 1991 a nessun giudice passò per la testa di mettere sul banco degli imputati Andreotti, Martelli, Scotti, De Michelis, la Boniver o Parisi. Né si alzò qualche costituzionalista a dire che il governo aveva violato la Costituzione e che la legge impone di soccorrere tutti quelli che pretendono di sbarcare sulle nostre coste. Eppure gli albanesi fuggivano dalla miseria e da un regime vero, forse più feroce di quelli da cui scappavano i profughi della Diciotti per cui Matteo Salvini è finito nei guai. Altri tempi direte voi. Sì, soprattutto altri mezzi di lotta politica. Il Pci (anzi il Pds, perché pochi mesi prima il Partito comunista si era sciolto nel Partito dei democratici di sinistra) se ne stette zitto e rinunciò a mettere in mezzo i giudici. Forse lo fece per la vergogna di quei compagni che fuggivano da un regime comunista che li aveva affamati. Ma ora a sinistra non c’è più nessuno che si vergogni. E infatti vanno in Procura a denunciare Salvini.
Se l’università diventa il santuario dei clandestini, scrive Marco Gervasoni il 7 febbraio 2019 su Nicola Porro. Mentre Matteo Salvini si appresta ad un processo politico per le sue azioni contro l’immigrazione clandestina, dalle Università italiane sale un fermento che di questo sistema fa l’elogio, compresi schiavisti e venditori di uomini, trasformandole in santuari dei clandestini. E il nemico è ovviamente sempre lui, il ministro dell’interno, il principale responsabile di una politica che, con scarsa fantasia ma con molta ignoranza, viene chiamata «fascista».
Qualcuno mi dirà: «ma Gervasoni, ormai tu sei un vecchio reazionario, gli studenti sono sovversivi e rivoluzionari sempre ovunque e in ogni tempo: come si diceva nella Vienna belle Epoque, chi non è rivoluzionario prima dei venticinque anni è un poco di buono». Sarei disposto ad accogliere il rilievo se l’agitazione «antifascista», e in realtà immigrazionista, venisse soprattutto dagli studenti. Purtroppo però, le teste che vedo agitarsi nel culto del migrante e delle frontiere aperte sono più spesso calve, canute o, nel caso delle signore, trattate dal maquillage di ottime tinture di parrucchiere. Il caso più eclatante è quello del Rettore di Palermo, Fabrizio Micari, già candidato sfortunatissimo del Pd alle regionali, che ha iscritto nel suo ateneo un immigrato in attesa del responso della domanda di asilo, quindi irregolare; decisione ovviamente sbandierata come un gesto di civiltà rispetto all’orribile governo deportazionista. Sappiamo poi di lezioni trasformate dai docenti in comizi, o per meglio dire, in prediche a senso unico, seguite da inviti a mobilitarsi, a scendere in piazza, a firmare appelli contro il «razzismo» del governo; che circolano in alcuni casi anche nelle mailing list di Dipartimento, di solito occupate a render conto di seminari e di convegni. Ora il professore che diventa agit prop (e questo vale per qualsiasi causa) commette un triplice fallo: contro l’etica, contro la scienza e contro la politica. Contro l’etica, perché la sua posizione di superiorità rispetto a studenti non interessati alla «battaglia» oppure proprio ostili, gli consente facilmente di manipolarli. Contro la scienza, perché, come scriveva nel 1918 Max Weber in una celebre conferenza, in cui esortava a lasciare la politica fuori dalla cattedra, il compito di un «abile maestro è insegnare ai propri allievi a rendersi conto dei fatti imbarazzanti per la sua stessa opinione di partito». È questo, insomma, lo spirito critico: non inveire contro Salvini o Toninelli. Ma si fa infine anche un cattivo servizio alla politica, di cui ai giovani si restituisce l’immagine di un’attività ideologizzata, violenta, in cui chi non la pensa come te è un nemico da abbattere. Abbiamo visto tante volte nel passato queste scene svolgersi in atenei prestigiosi, trasformati negli anni Settanta in scuole reclutamento del terrorismo. Ma questa non è una buona ragione perché ciò accada ancora. Inoltre allora la protesta nasceva dagli studenti, e solo poi trovava l’appoggio e la condiscendenza (speso vile) di molti docenti. Qui invece sono questi ultimi che si mobilitano. Attenzione, non è un retaggio del passato: è un tentativo di portare anche in Italia la guerra identitaria che sta degradando le facoltà umanistiche e di scienze sociali degli atenei Usa e Uk. Attraverso il culto del migrante e delle frontiere aperte le nuove guardie rosse del multiculturalismo cercano di abbattere la cultura occidentale, la religione (ovviamente solo quella cristiana ed ebraica), il passato «colonialistico e imperialistico», il «dominio fallocratico» del maschio, fino alla «dittatura del genere sessuale». In quei paesi siamo ormai alla caccia alle streghe, cioè a coloro che non condividono o che vogliono studiare in modo critico. Evitiamo che lo strumentale elogio del «migrante» trasformi anche gli atenei italiani in campi di battaglia e in collezioni di cervelli all’ammasso. Marco Gervasoni, 7 febbraio 2019
Criminalità organizzata e scafisti. La (vera) eredità dei porti aperti, scrive il 30 gennaio 2019 Giovanni Giacalone si Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Il traffico di esseri umani è un business colossale “che rende più della droga” dichiarava a suo tempo Salvatore Buzzi, il “ras delle cooperative”, attualmente in carcere in seguito all’inchiesta “Mafia Capitale”. Un business milionario, come sanno bene i trafficanti che possono esultare ogni qualvolta un barcone fatto salpare dalla Libia o dalla Tunisia riesce a raggiungere le coste italiane, magari dopo un intervento della nave dell’ong di turno e con epilogo accompagnato dagli slogan di qualche politico oltranzista dei “porti aperti”. Lo “sbarco” in Italia (o in qualsiasi altro Paese europeo) non è altro che l’ultima fase di un meccanismo criminale che coinvolge più attori nel continente africano, come illustra anche un'”overview” della Nato Strategic Direction Hub-South dal titolo “Illicit Trafficking in North Africa and Sahel”, pubblicato nella primavera del 2018, dove si può leggere che “il traffico di esseri umani è un’importante fonte di profitto per organizzazioni criminali, gruppi terroristici, milizie e alcune tribù”. Il rapporto mette poi in evidenza come la Libia sia il punto di convergenza delle rotte africane orientali, centrali e occidentali dove confluiscono gli immigrati per poi salpare dalle coste alla volta dell’Europa. Il traffico di esseri umani è dunque un complesso meccanismo transnazionale particolarmente redditizio ma non necessariamente fine a se stesso in quanto svolge un ruolo di primo piano nell’alimentare attività criminali anche sull’altra sponda del Mediterraneo, in territorio italiano, attività come ad esempio il traffico di stupefacenti, la prostituzione, gli illeciti nella gestione di cooperative inserite nel business della gestione dei migranti, il lavoro nero.
La mafia nigeriana in Italia. Nella notte tra domenica e lunedì un’operazione coordinata dalla Procura Distrettuale Antimafia assieme alla squadra mobile di Catania portava all’arresto di 19 individui legati all’organizzazione criminale nigeriana “Vikings” che faceva base presso il Cara di Mineo; i reati contestati sono associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, detenzione, trasporto e cessione di sostanza stupefacente del tipo cocaina e marijuana. L’organizzazione aveva imposto la propria egemonia sul territorio, scontrandosi con altri gruppi nigeriani rivali, con l’obiettivo di conservare il predominio all’interno del centro di accoglienza. Nella mattinata di lunedì il ministro dell’Interno Matteo Salvini ribadiva la necessità di chiudere anche gli altri grandi centri entro la fine dell’anno in quanto “più sono grandi e più è facile delinquere”. Sul caso è intervenuto anche il procuratore Carmelo Zuccaro, già noto per l’inchiesta per presunte connessioni tra scafisti e Ong, che ha definito il Cara di Mineo “un errore che paghiamo in termini di controllo della legalità”. La lunga mano della mafia nigeriana va però ben oltre i centri di detenzione con attività nell’ambito della prostituzione, l’immigrazione clandestina, la gestione della manodopera per la raccolta nei campi, il traffico di stupefacenti, le truffe telematiche e il racket dell’elemosina. A inizio gennaio una maxi-inchiesta su flussi di denaro, transitati tramite money transfer e Paypal, provenienti dai traffici di stupefacenti gestiti in Europa dalla mafia nigeriana portava gli agenti dell’Fbi fino a Castel Volturno; secondo quanto emerso dall’inchiesta, il denaro veniva utilizzato per finanziare la tratta di esseri umani, pagando scafisti e accompagnatori e corrompendo funzionari. “Merce” di particolare valore risultavano essere le ragazze che una volta giunte in Italia, venivano avviate alla prostituzione. La criminalità organizzata nigeriana si è insediata da anni in Italia ed opera in grandi città come Genova, Torino, Milano, Padova, Bologna, Roma, Catania, Palermo ma con forte presenza in Campania, in particolare nella zona di Castel Volturno, dove è riuscita a radicarsi e a creare una zona franca dal quale operare indisturbata.
Le “zone grigie” e gli irregolari. Gli immigrati irregolari possono essere utilissima manodopera per quelle organizzazioni criminali che si occupano di attività che vanno dal lavoro nero nei campi del Meridione alla vendita al dettaglio di sostanze stupefacenti nelle varie piazze di spaccio italiane. Singoli individui e piccoli gruppi in cerca di stupefacenti da poter vendere, come avviene ad esempio a Milano fuori della Stazione Centrale dove uno spacciatore gambiano arrivò addirittura a dichiarare la propria attività davanti alle telecamere assieme ad alcune altre affermazioni tra cui “Italia tanta mafia, tanta robacce”. Chissà cosa intendeva dire? Ieri invece ad Agrigento un blitz dei Carabinieri portava all’arresto di uno spacciatore di 19 anni della Guinea ospite in una comunità di accoglienza; l’operazione è scattata dopo che nei giorni precedenti tra gli agrigentini era dilagato l’allarme per lo spaccio di stupefacenti in mano agli immigrati nel centro storico. Una domanda sorge a questo punto spontanea: questi individui irregolari sono la manodopera di chi? Quali sono i clan criminali che si occupano di rifornirli? Una cosa è certa, è molto più facile far “smerciare la roba” a un esercito di individui senza documenti e con nulla da perdere, dei fantasmi pronti a tutto per pochi spiccioli. Vi è poi il racket dell’elemosina, ben documentato a Milano da Tullio Trapasso, presidente del Comitato Anti-Racket e Anti-Abusivismo: anche in questo caso dietro tale attività c’è l’ombra della criminalità organizzata nigeriana, ma forse vale la pena andare oltre per cercare di capire quali accordi vi siano dietro quel racket e se i clan nigeriani paghino a loro volta qualcun altro per poter usufruire dello spazio.
Il business dell’accoglienza tra Campania, Calabria e Sicilia. Nel maggio del 2017 un’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, denominata “Jonny”, portava all’arresto di 68 persone tra cui Leonardo Sacco, presidente della sezione Calabria e Basilicata della Confraternita Misericordia e anche il parroco del paese, don Edoardo Scordio, storico fondatore della Misericordia, entrambi accusati di associazione mafiosa. I due avevano messo in piedi un business milionario per la gestione del Cara di Isola Capo Rizzuto, uno dei più grandi d’Europa, spartito tra le varie famiglie della ndrangheta nella zona, tutto “grazie” ai migranti stipati nel Cara. Un affare talmente ghiotto che vi era persino il sospetto che l’apertura del Cara di dodici anni prima potesse aver contribuito a una specie di pace tra clan. Il generale del Ros, Giuseppe Governale, durante la conferenza stampa aveva definito il centro di accoglienza e la Misericordia “il bancomat della Ndrangheta”, mentre il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto aveva illustrato che su 100 milioni, 32 erano andati alla cosa Arena mentre il prete, in un solo anno, aveva percepito ben 150mila euro. Lo scorso dicembre invece, su richiesta delle procure di Gela e Catania, venivano arrestate dodici persone con l’accusa di associazione a delinquere, frode nelle pubbliche forniture e caporalato, reati commessi nella gestione di centri per richiedenti asilo. Sequestrate anche otto tra società cooperative e associazioni operanti nel settore. Pochi mesi prima, a luglio, la Procura di Trapani sgominava un business illegale legato alla gestione in provincia di alcuni centri di accoglienza per immigrati. Nove gli arrestati tra cui l’ex deputato regionale dell’Udc, l’alcamese Norino Fratello; le accuse vanno dall’intestazione fittizia di beni alla bancarotta fraudolenta. Un mese prima a Benevento finiva invece in manette Paolo Di Donato, al vertice del consorzio “Maleventum” e conosciuto come “il re dei rifugiati”; assieme a Di Donato venivano arrestate altre quattro persone e altre 36 indagate. Le indagini della Digos di Benevento, diretta dal vice questore Giovanna Salerno, avevano portato alla luce un sistema criminale che lucrava sulle assegnazioni pilotate dei migranti, sul sovraffollamento dei centri, sulla falsa attestazione di presenze degli ospiti, con la connivenza di alcuni pubblici dipendenti.
La politica dei “porti chiusi” dà i suoi frutti. Come recentemente illustrato da Gianandrea Gaiani, nell’anno appena conclusosi sono sbarcati sulle nostre coste 23.370 migranti, l’80,42% in meno rispetto al 2017 (quando furono 119.369) e l’87,12% in meno rispetto al 2016 (181.436). Decremento ancora più considerevole se si prende in considerazione il solo numero di quelli provenienti dalla Libia: 12.977 dal 1° gennaio al 31 dicembre, l’87,90% in meno rispetto al 2017 e il 92,85% in meno rispetto al 2016. Un successo ammesso anche dall’agenzia Ue per le frontiere Frontex che nel 2018 ha registrato “solo” 150mila immigrati illegali nel Mediterraneo (il livello più basso degli ultimi 5 anni con un – 92% rispetto al 2015) che per lo più hanno raggiunto la Grecia dalla vicinissima Turchia e la Spagna attraverso la rotta marocchina. Tutto ciò a danno delle organizzazioni criminali africane che non riescono più a far arrivare la propria “merce” a destinazione. Il meccanismo del traffico di esseri umani è oramai ampiamente documentato e comprovato in tutte le sue sfaccettature, dalla fase iniziale “africana” fino a quella finale sulle coste italiane. Un meccanismo che, come già visto, va a sua volta ad alimentare tutta una serie di attività criminali in territorio italiano e non può che essere così, perché quando il flusso di arrivi è fuori controllo e non vi sono filtri adeguati le conseguenze non possono che essere devastanti. Ebbene, la politica dei porti aperti va ad alimentare tutto ciò e i trafficanti ringraziano chi la sostiene.
Evviva! Gli “accoglienti” hanno fregato tutti. Ancora, scrive l'1 febbraio 2019 Cristiano Puglisi su Il Giornale. Evviva! Evviva! Sono sbarcati! Finalmente, dopo giorni di asfissiante e martellante propaganda, il Governo ha ceduto! I ragazzi della Sea Watch hanno messo piede sulla terraferma, a Catania. “Finito il calvario”, ha subito twittato la ONG. Un calvario devastante a giudicare dalle immagini pervenute dal porto della città etnea… Un calvario che parla di tagli di capelli all’ultimo grido, modello calciatore, smartphone ultimo modello d’ordinanza e felpe firmate da noti marchi di abbigliamento sportivo. La tipica divisa dei sofferenti, dei profughi di guerra… Peccato che, nei Paesi d’origine di questi migranti, la guerra, probabilmente, non c’è. E, molto più probabilmente, quelli non sono profughi, ma giovani cui l’Europa e le ONG hanno venduto (a caro prezzo e senza spiegare loro i rischi del viaggio) il “sogno” della terra promessa. Un atteggiamento recentemente denunciato anche dal presidente dell’Unione Africana, Paul Kagame, che ha chiesto al vecchio continente di smetterla di propagandare l’Eden. Ma che volete che sia, in fondo. Sono dettagli. Una nave per metà olandese e per metà tedesca che, in un lasso di tempo in cui avrebbe potuto tranquillamente far rotta sul porto di Rotterdam (12 giorni), se ne sta nel Mediterraneo attendendo il permesso ad attraccare. Anzi, costringendo i propri ospiti, come ha giustamente rilevato il ministro Toninelli, a un viaggio di 200 miglia con il mare in tempesta pur di arrivare sulle coste italiane… Coste sulle quali, ad accoglierli, hanno trovato il solito tripudio festante di imbecilli: gli anti-italiani per professione, gli “accoglienti”, quelli che ritengono che lo stivale d’Europa, con le sue ridotte dimensioni, debba ospitare tutto il continente africano, se necessario. Ma accoglierlo per poi fare cosa? Di ieri è la notizia del suicidio di un 25enne nigeriano cui è stato negato il permesso di soggiorno. Perché poi è questa la realtà. L’interesse ossessivo-compulsivo per i migranti si ferma, per gli “accoglienti”, al momento dello sbarco. O tutt’al più, al momento in cui lo Stato versa i contributi per il loro mantenimento in terra italica. Ciò che avviene dopo non importa. Chi se li ricorda, ad esempio, i 50 migranti della “Diciotti” spariti subito dopo l’attracco? Nessuno. L’importante è gridare all’ “accoglienza”, trastullarsi in un momentaneo orgasmo buonista, senza riflettere, senza pensare. Anzi, magari difendendo lo sfruttamento coloniale, come avvenuto con alcuni volti noti del “politically correct” con il caso del franco CFA, controsenso dei controsensi. Ma per la sinistra liberal, omologata sempre e comunque, per la sinistra infighettata della “società civile”, quella che sul Venezuela sta con Trump (nemico di Macron) contro il socialista Maduro e a favore di un tizio di estrema destra che neppure si sa chi sia e poi sui gilet gialli sta con Macron (nemico di Trump) contro i ceti popolari francesi, il controsenso è legge di natura. Per questa sinistra, madrina di un’orribile weltanschauung tutta borghese a metà tra la Bocconi e Jovanotti, tra la Littizzetto e Cottarelli, tra i comunicati stampa della NATO e i sermoni di don Biancalani, è naturale soprattutto difendere il forte contro il debole, per poi piangere lacrimevolmente sul latte versato. Si sa, bisogna stare con i potenti perché, “è il mercato bellezza”, ma poi bisogna salvare la faccia. Come fanno, del resto, i “vip”, come fanno quelli di Hollywood, i cantanti e i calciatori. Due frasi buttate lì, la raccolta fondi per una ONLUS e via, si torna tra tartine e aperitivi eleganti a fregarsene del mondo. Così fa la “gente che piace”. E gli allocchi, come sempre, ci sono cascati.
Sbarchi, le 10 verità taciute dai buonisti, scrive il 31 gennaio 2019 Andrea Indini su "Il Giornale". In questi giorni è tornato centrale il caso della Diciotti, la nave della Guardia Costiera a cui lo scorso agosto Matteo Salvini aveva impedito lo sbarco nel porto di Catania per evitare che l’Italia dovesse farsi carico di altri immigrati (177 per l’esattezza) arrivati dalla Libia. Nonostante la procura guidata da Carmelo Zuccaro avesse disposto il non luogo a procedere, contro il vicepremier leghista si è accanito il tribunale dei ministri che lo vuole processare a tutti i costi. A dare l’autorizzazione dovrà essere la Giunta per l’immunità, intanto però la sinistra lo ha già condannato per “sequestro di persona”. Quello che i buonisti non vogliono vedere, per convenienza, è che lo sbarco di agosto della Diciotti, come quello della Sea Watch 3 di oggi, è solo il terminale di una infinita concatenazione di mancanze e colpe che, con la politica dei porti chiusi, Salvini sta provando a interrompere una volta per tutte. Proviamo a metterle in fila per cercare di fare chiarezza su quanto sta accadendo:
Le partenze dalla Libia sono sì l’inizio delle navigazione verso il Vecchio Continente, ma sono anche la fine di una traversata (più o meno lunga) attraverso Paesi africani altamente instabili. In alcuni di essi operano eserciti europei (tra questi c’è anche quello francese) che lasciano passare i clandestini, sapendo che il loro obiettivo sono i porti libici per arrivare in Italia;
dalle coste del Nord Africa partono imbarcazioni che i trafficanti di uomini riempiono oltre i limiti di capienza. L’obiettivo è proprio cercare l’incidente per chiedere l’intervento di Ong e navi della missione europea. In molti casi, però, l’sos viene lanciato quando non ci sono ancora problemi, proprio per farsi “rimorchiare” fino a un porto europeo;
le regole su cui operano le Ong non sono affatto chiare: si barcamenano tra la legalità e l’illegalità perché sanno che nessuno ha veramente il coraggio di bloccarle. E, per questo riescono ad arrivare a recuperare gli immigrati fin davanti alle coste libiche;
le navi delle Ong non collaborano con la Libia e, in alcuni casi, si intromettono pure nei soccorsi per “sottrarre” i migranti alla Marina libica;
l’operato delle Ong arricchisce i trafficanti di uomini che hanno smesso di impiegare grosse imbarcazioni e hanno preso a mettere in mare barconi fatiscenti e con poca benzina. Tanto sanno che vengono recuperati nel giro di breve;
prima di arrivare in Italia, le navi delle Ong passano vicino a porti sicuri, come quelli tunisini e maltesi, che vengono volutamente ignorati;
la Sea Watch 3 batte bandiera olandese ma l’organizzazione non governativa a cui appartiene è tedesca. Eppure i 47 migranti recuperati due settimane fa non sono stati portati né in Germania né in Olanda. Accade sempre così: nessuna Ong che opera nel Mar Mediterraneo è italiana, ma cercano tutte di attraccare in uno dei nostri porti;
stando agli ultimi dati pubblicati a dicembre dal Viminale, l’82% dei migranti, che sbarcano in Italia, non ha diritto all’accoglienza, eppure non può essere respinto in mare. Una volta messo piede nel nostro Paese, inizia una trafila infinita per arrivare (quando possibile) all’espulsione;
la redistribuzione di chi ha diritto allo status di rifugiato è un bluff: nonostante gli accordi con l’Unione europea, nessuno stato membro rispetta le quote pattuite e i migranti restano in Italia e in Grecia;
politicamente l’Italia è stata lasciata da sola a gestire l’emergenza immigrazione. I precedenti governi targati Pd hanno barattato la flessibilità economica in cambio di un’accoglienza indiscriminata, pur essendo a conoscenza della difficoltà di ricollocare i migranti e di espellere i clandestini. Non a caso si sono inventati i permessi umanitari. Finché la bolla non è scoppiata. Chi nasconde queste dieci verità e punta il dito contro chi vuole spazzare via questa filiera del malaffare, non vuole regolamentare l’immigrazione ma cavalcarla per un proprio tornaconto. Che può essere economico o politico.
Migranti, Luttwak duro: "Chi arriva su un barcone non deve sbarcare…" Il politologo statunitense sposa la linea di Matteo Salvini: "La Sea Watch non è italiana e non ha diritto di entrare in un porto italiano senza autorizzazione del governo", scrive Franco Grilli, Giovedì 31/01/2019, su "Il Giornale". "C'è una legge: la Sea Watch ha l’obbligo di salvare chiunque si trovi in acqua ma non è italiana e quindi non ha diritto di entrare in un porto italiano senza autorizzazione dell’Italia". Edward Luttwak non ha dubbi e sposa in pieno la linea dura del ministro dell'Interno Matteo Salvini. "La Sea Watch batte bandiera olandese, doveva sbarcare in Olanda perché è semplicemente un pezzo di Olanda che naviga in Mare. E poi i Paesi Bassi non sono lontani, non è come andare in Alaska o in Giappone", le sue parole a Radio 24, ospite de La Zanzara. Dunque, il politologo spiegato: "Non è questione di essere carini, simpatici, compassionevoli, cristiani, dolci, ma di applicare la legge. Altrimenti si vive in balia di chi fa la voce grossa…". Ecco perché, secondo il professore, l'Italia dovrebbe fare come fa l'Australia: "Lì chi arriva in barca non può arrivare, non può sbarcare. Non si può arrivare con la barca, non puoi mai essere ammesso. Vieni subito deportato". Infine, Luttwak bastona le Organizzazioni non governative e anche Gino Strada. "Quella delle Ong è gente che non vuole andare a lavorare; qualche volta salvano altre volta no, altre volte vanno a spasso a mangiare il pesce in qualche trattoria". E sul fondatore di Emergency affonda il colpo: "In Italia ci sono persone che sono in estrema povertà e disagio, e estremo pericolo, ma non è mai andato da loro è andato in Afghanistan. Se tu vai a Palmi o a Canicattini o a Voghera, la stampa non ti segue, devi andare in Afghanistan, in Calabria non è chic".
Migranti, il numero dei morti nel Mediterraneo dal 2015 al 2018. Anno per anno ecco quanti migranti sono morti tentando di arrivare in Italia. I numeri confermano. Con i porti chiusi calano i decessi, scrive il 31 gennaio 2019 Panorama. La vicenda dei 47 migranti da giorni fermi davanti a Siracusa a bordo della Sea Watch ha riportato d'attualità la questione dolorosa e spinosa dei clandestini morti nel Mar Mediterraneo. "Meno ne partono, meno ne muoiono" è il motto al riguardo del Ministro dell'Interno, Matteo Salvini che rischi il processo proprio per aver chiuso il porto italiano e lo sbarco di 177 migranti della nave Diciotti. Questi i numeri ufficiali del numero di morti e dei cadaveri recuperati anno per anno.
2014. In un anno in cui gli arrivi sulle nostre coste sfiorarono quota 300 mila i morti furono 3538 (dati Unhcr).
2015. I morti, in quell'anno, di piena emergenza, furono 3771. Al Governo c'era Matteo Renzi che aveva aperto i porti e collaborava attivamente con le navi delle Ong. I corpi recuperati dai soccorritori furono 296.
2016. Fu l'anno peggiore, per quanto riguarda il numero delle vittime. La politica dell'accoglienza del Governo di allora e particolari situazioni politiche in Libia portarono centinaia e migliaia di persone a tentare lo sbarco in Italia dall'Africa. Il bilancio fu drammatico: 5096 furono i morti e poco meno di 400 i cadaveri recuperati.
2017. All'epoca del Governo Gentiloni le partenze dei barconi di migranti e disperati non si fermò ma certe decisioni del Ministro dell'Interno, Marco Minniti, ne limitò l'ondata. Immediatamente il numero dei morti si ridusse, in maniera sensibile, passando da 5000 a 3139, una cifra comunque che fa pensare ad una vera e propria strage. I corpi restituiti e recuperati dal mare furono 210.
2018. Cambia il Governo ed il neo Ministro Salvini chiude i porti italiani. Soprattutto nell'ultimo semestre, con la chiusura dei porti si registra un deciso calo degli arrivi e dei morti (dati Unhcr, fino al 6 novembre 2018). I morti sarebbero 2023 con un calo del 35% rispetto all'anno precedente.
Famiglia Cristiana a Grillo: "Dicevi accogliamoli tutti". Adesso Famiglia Cristiana mette nel mirino Beppe Grillo. Il garante del Movimento Cinque Stelle è finito nella bufera per un cortocircuito sulle sue posizioni sull'immigrazione, scrive Luca Romano, Giovedì 24/01/2019, su "Il Giornale". Adesso Famiglia Cristiana mette nel mirino Beppe Grillo. Il garante del Movimento Cinque Stelle è finito nella bufera per un cortocircuito sulle sue posizioni sull'immigrazione. Di fatto, come sottolinea il settimanale, qualche anno fa le posizioni di Beppe erano piuttosto morbide sui migranti: "Il futuro non sarà migliore se ci difenderemo alzando steccati o prendendo impronte, ma se saremo capaci di integrazione e di condivisione. Questo il vero progresso, non quello che ci fa diventare sempre più meschini, chiusi o impauriti", scriveva nel 2004. E adesso Famiglia Cristiana ironizza proprio su quelle parole: "Parole sante, verrebbe da dire". Un messaggio chiaro per il Movimento Cinque Stelle. Grillo sosteneva anche il diritto alle migrazioni e la necessità di più migranti in Italia: "Dobbiamo solo ringraziare il cielo che anche i migranti sembrano aver perso, come noi, la memoria della storia: invece di venire a regolare i conti di secoli di crimini e rapine, vengono in Europa per cercare lavoro e pagano le nostre pensioni al posto dei figli che non facciamo". Poi il repentino cambio di rotta, come sottolinea ilCorriere, con il lancio del VaffaDay definendo la "necessità di immigrazione" come una "balla bipartisan, condivisa da destra e sinistra. Da destra per calmierare il mercato del lavoro, da sinistra per motivi elettoralistici". E dopo aver ricordato queste parole Famiglia Cristiana lancia un messaggio chiaro all'ex leader del Movimento: "Caro Beppe, non tradire i valori in cui credevi. Dovresti sederti con i dirigenti del Movimento e dire: ragazzi, cambiamo strada". Lo farà?
Perché la Germania si è ritirata dalla missione Sophia proprio ora, scrive il 23 gennaio 2019 Mauro Indelicato su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Non forse una coincidenza ma, molto più probabilmente, una conseguenza: l’uscita della Germania dalla missione Sophia viene annunciata proprio nel giorno in cui ad Aquisgrana Angela Merkel firma con Macron il nuovo trattato di cooperazione tra Parigi e Berlino. Risalta subito agli occhi come, nel giro di poche ore, dopo la cerimonia svolta nella storica città tedesca simbolo della vicinanza tra i due paesi, la Germania annunci l’addio alla missione Sophia. Un saluto che, a livello tecnico, potrebbe anche implicare poche conseguenze ma che, sotto il profilo politico, ha non poca importanza.
La “coppia” perfetta al cuore dell’Europa. Del resto su “Limes” si punta l’attenzione sulla terminologia utilizzata da parte francese per suggellare l’accordo: si parla, in particolare, di “coppia”. Un termine solitamente utilizzato per indicare un rapporto stretto tra due persone e che, in ambito mediatico, al momento viene usato dai francesi unicamente con riferimento alla Germania. Una coppia, quella franco – tedesca, che si spalleggia e che aspira ad essere complice nel cuore di un’Europa fiacca e tramortita. La Francia, ad esempio, già sostiene l’idea tedesca di un posto permanente al consiglio di sicurezza dell’Onu per Berlino. Un appoggio importante, una mossa altamente significativa: i seggi permanenti sono riservati ai cinque vincitori della seconda guerra mondiale, un ordine che da allora mai è stato intaccato. Che Parigi sostenga in tal senso le posizioni di Berlino, che andrebbero per la prima volta a scalfire la carta fondamentale delle Nazioni Unite, sembra proprio un favore che la Francia potrebbe realizzare solo in caso di conclamate nozze. E così vale per le altre posizioni diplomatiche della coppia d’Europa. La Germania, che mai ha visto di buon grado l’esborso di soldi e l’impiego di mezzi per pattugliare il Mediterraneo, oggi può tranquillamente affermare di uscire dalla missione Sophia. Fino a ieri da Berlino non arrivava un segnale in questa direzione, soltanto per timori di evidenziare una spaccatura diplomatica interna all’Ue. Ma adesso Francia e Germania si spalleggiano, si coprono e si sostengono a vicenda e tutto si può fare. Sembrerebbe quasi romantico come livore quello tra Parigi e Berlino, se non fosse che di mezzo ci sono svariati interessi internazionali, compresi quelli delicati del nostro paese.
Un segnale all’Italia? Ed è proprio al nostro paese che potrebbe essere rivolto il gesto dell’uscita della Germania dalla missione Sophia. Quest’ultima viene concepita in sede europea nel maggio 2015, in una delle fasi cruciali dell’emergenza immigrazione. Promotrice è l’Ue, con il rappresentante della politica estera Federica Mogherini: si cerca di dare, all’epoca, un segnale a Roma circa l’impegno comunitario nel contrasto all’immigrazione ed agli sbarchi lungo le coste italiane. Una missione che prevede per l’appunto l’impegno congiunto di diversi paesi europei, tra cui la Germania per l’appunto, nel pattugliare il Mediterraneo. Oggi però, con il trattato di Aquisgrana, quel mondo di appena quattro anni fa sembra superato. Davanti la diplomazia europea, si piazza quella della coppia europea per eccellenza. E questo messaggio deve essere ben recapitato ad una recriminante Italia, che con i governi di Parigi e Berlino al momento non va proprio molto d’accordo. Dunque la Germania si tira fuori da Sophia, la Francia copre politicamente la ritirata. E l’Italia, dal canto suo, non può far altro che prenderne atto.
Rischi dell’immigrazione di massa. Ecco perché l’Europa può saltare, scrive Roberto Vivaldelli il 4 febbraio 2019 su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Accresce le tensioni sociali, fomenta le disuguaglianze, ed è alimentata da una rete affaristica criminale che di “umano” non ha nulla. Ma per i progressisti, sempre più incapaci di leggere la realtà, l’immigrazione di massa verso l’Europa è un fenomeno inarrestabile ed ineluttabile, e chi si oppone nella migliore delle ipotesi viene etichettato come “razzista” e nelle peggiori come “inumano”- quando la questione è squisitamente politica. Come spiega, per esempio, il professor Sergio Romano nel suo Atlante delle crisi mondiali (Rizzoli, 2018) parlando di immigrazione “là dove esistono desideri di massa, nascono organizzazioni che cercano di trarne vantaggio. Vi è ormai da parecchi anni un mercato dell’esodo che si è andato progressivamente allargando sino a creare una sorta di mafia transfrontaliera sempre più potente e meglio organizzata”. Questi nuovi mercanti di schiavi, nota l’ex ambasciatore, “sono crudeli, spietati e vendono il loro servizio a caro prezzo perché possono garantire ai loro malaugurati clienti che i Paesi occidentali, benché contrari all’immigrazione clandestina, faranno del loro meglio per strapparli alla morte nell’ultima fase del viaggio. I governi hanno quindi due buone ragioni per mettere fine a questo fenomeno. Devono evitare l’impatto politico delle migrazioni sulle loro società nazionali e devono stroncare una rete affaristica e disumana”. Una verità scomoda che gli autoproclamati “umanitari” hanno deliberatamente ignorato e che continuano a snobbare, minimizzando i numeri e le conseguenze sociali devastanti che un’immigrazione senza controllo ha sua una comunità, soprattutto sulle fasce più deboli. Eppure, se parliamo di dati, l’Italia – il 12% della popolazione europea – ha accolto nel 2017 il 70% dei migranti arrivati in Europa via mare, la maggior parte dei quali irregolari. E poi ci si stupisce che gli italiani siano stufi?
Un’operazione di marketing: rendere l’immigrazione di massa presentabile. Le migrazioni di massa sono state rese possibili grazie anche all’aiuto di George Soros. Un’operazione di marketing geniale quella del finanziere e della sua immensa rete filantropica, se si pensa che chiunque osi criticare o mettere in discussione le iniziative pro-immigrazione delle speculatore naturalizzato americano viene immediatamente tacciato di “complottismo” o, peggio ancora, di “antisemitismo” date le origini ebraiche di Soros – critica pelosa se si pensa che uno dei maggiori avversari del finanziere è il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (secondo Dc Leaks, Soros avrebbe finanziato con milioni di dollari l’ong progressista The New Israel Fund, ostile alle politiche del governo israeliano).
Quanto al “complottismo”, fu lo stesso finanziere, in un’intervista rilasciata al Wall Street Journala dire: “Ho deciso di destinare 500 milioni di dollari per investimenti che rispondano alle esigenze di migranti, rifugiati e comunità ospitanti”, annunciò dalle pagine dell’illustre quotidiano americano. Per non parlare di altre iniziative a sostegno dei rifugiati in collaborazione con importanti istituti finanziari. Milioni di dollari donati per perseguire il sogno di una “società aperta”, senza confini, in un mondo dove le nazioni sono un lontano ricordo. Già, ma a quale costo e a vantaggio di chi?
L’incapacità delle élite europee nel gestire il fenomeno migratorio. Al di là di Soros, la fortuna dei populisti è nata là dove le élite politiche europee si sono rivelate totalmente incapaci e inadeguate a gestire e contenere il fenomeno dell’immigrazione. Come ha spiegato Niall Ferguson, storico scozzese che si divide fra Stanford e Harvard, intervistato nei giorni scorsi da Federico Fubini sul Corriere della Sera, “credo che le istituzioni europee non siano in grado di affrontarlo. Sono state disegnate per circostanze completamente diverse, la difesa dei confini davvero non era la priorità. Non credo siano capaci di decisioni che siano sia legittime che efficaci”. Un’incapacità che, secondo il professore, avrà un impatto politico devastante sull’Europa. In queste circostanze, sottolinea Ferguson, “il percorso dell’integrazione europea è probabilmente terminato. La sola vera domanda riguarda la velocità della disintegrazione”. Eppure, non era difficile arrivare alla conclusione che l’immigrazione di massa, oltre ad accrescere le tensioni sociali, contribuisce ad aumentare le disuguaglianze. Secondo James Wickhman, direttore del think-tank Tasc, “coloro che oggi chiedono i confini aperti – l’ingresso incontrollato di lavoratori non qualificati verso l’Unione europea – stanno contribuendo affinché la struttura occupazionale sia sempre più polarizzata: sempre più lavoratori pagati poco, maggiore disuguaglianza sociale ed economica”.
Nella "rossa" Emilia Romagna i soldi per i disabili ai migranti. Il caso in Emilia Romagna, dove circa la metà delle risorse destinate ai portatori di handicap è finita in favore dei richiedenti asilo, scrive Franco Grilli, Mercoledì 30/01/2019, su Il Giornale. Nell'Emilia Romagna del dem Stefano Bonaccini circa la metà delle risorse regionali destinate al lavoro delle fasce deboli, portatori di handicap in primis, è finita in favore dei migranti. Insomma, i tirocini finanziati con soldi pubblici (fondi regionali ed europei) "riservati" ai disabili, ex carcerati, soggetti dipendenti da droghe o alcool, giovani in situazioni di grave difficoltà familiare (e via dicendo) sono stati assegnati agli immigrati. Certo, non tutti, ma in buona, buonissima parte: nella regione, nel 2018, ben 1.758 sui 3.631 attivati hanno coinvolto richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale o umanitaria. Ecco, praticamente il 50%. Come riportato anche da La Verità, "circa la metà dei percorsi di avviamento e inserimento al lavoro dedicati alle fasce deboli finiscono per riguardare i sedicenti profughi". E ancora: "A Bologna 386 tirocini su 638 sono andati a richiedenti asilo e solo 97 a persone a cui spettavano in base alla legge sulla disabilità […] A Ferrara su 365 percorsi avviati 169 sono stati dedicati agli immigrati sbarcati sulle nostre coste, mentre solo 140 sono andati ai disabili. Più o meno come a Parma dove i sedicenti profughi hanno occupato 217 posti su 496 disponibili". Mentre Imola Oggi scrive: "Nella provincia di Forlì-Cesena, su 428 tirocini di tipologia C, attivati nel 2018 dalla Regione, ben 229 (circa il 53%) hanno coinvolto richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale o umanitaria, mentre solo 57 sono stati riservati a persone svantaggiate e 142 a persone con disabilità". Invece, a Reggio Emilia il 69% dei tirocini formativi dedicati ai portatori di handicap e alle persone in difficoltà, sono stati assegnati ai richiedenti asilo. "Invece di pensare agli italiani in difficoltà, le amministrazioni Pd preferiscono pensare ai sedicenti profughi. E questa volta ad essere danneggiati sono addirittura i disabili" la dura denuncia del consigliere leghista Gabriele Delmonte, che insieme al collega di partito Daniele Marchetti ha sollevato la spinosa questione.
"Sciopero alla rovescia": lezioni pro migranti in 50 scuole. Sono quasi 50 gli istituti scolastici che hanno aderito allo "sciopero alla rovescia" proposto dagli insegnanti di un liceo romano per parlare di immigrazione, scrive Francesco Curridori, Mercoledì 30/01/2019, su "Il Giornale". Quando c'è da fare propaganda pro migranti, i docenti non si tirano indietro. Sono quasi 50 gli istituti scolastici che hanno aderito allo "sciopero alla rovescia" proposto tre giorni fa dagli insegnanti di un liceo romano, l'Amaldi di Tor Bella Monaca. Nell'appello i promotori, "preoccupati e scossi" per la chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto e per il nuovo caso 'Sea Watch' , avevano chiesto"a tutta la comunità scolastica di dare un segnale di preoccupazione e riflessione trasformando le prime due ore di lezione di mercoledì 30 (cioè di oggi, ndr) in uno sciopero alla rovescia: fermare la didattica per ragionare e riflettere insieme agli studenti di quanto sta accadendo, leggere i giornali, apprendere e commentare il dibattito di queste tragiche giornate". In estrema sintesi: fare propaganda pro immigrazione. "Si può continuare nella nostra routine didattica di fronte a quanto sta accadendo?", era la domanda retorica su cui si poggiava l'appello dei docenti del liceo Amaldi che si concludeva così: "Ognuno lo faccia come vuole, ma fermiamoci a riflettere per rompere l’indifferenza e la rassegnazione. La scuola è anche soprattutto questo". Si penserà che l'iniziativa avrà avuto un successo strepitoso? E, invece, no. L'Ansaparla di "quasi 50 istituti, la maggior parte a Roma e Provincia" aderenti, oltre a qualche professore di Milano, Napoli, Parma e Catanzaro.
Il cibo gettato nell'immondizia: il video shock al centro migranti. De Priamo (FdI) posta su Fb due video che svelano gli sprechi dello Sprar di via Pallavicini. Nell'immondizia sacchi di cibo ancora intonso. Andrea Indini, Giovedì 13/06/2019, su Il Giornale. Non è la prima volta che assistiamo scene del genere. Il cibo destinato a sfamare gli immigrati ospiti di in un centro di accoglienza buttato per strada, in mezzo alla pattumiera. Avanzi ancora incellofanati e intonsi. L'ultimo spreco del business dell'accoglienza arriva da Roma. Alcuni video postati da Andrea De Priamo, capogruppo di Fratelli d'Italia in Campidoglio, svelano il contenuto di decine di sacchi grigi della spazzatura ammassati a ridosso della struttura di via Pallavicini, nel IX Municipio della Capitale. "È possibile che non si riesca ad inviare un quantitativo giusto di cibo e se ne debba sprecare così tanto?", si chiede De Priamo annunciando un'interrogazione urgente al sindaco Virginia Raggi. In un sacco ci sono decine di piatti in plastica, ancora chiusi ermeticamente con la pellicola trasparente. Al loro interno quella che sembra una bistecca impanata con il contorno di patate al forno (guarda il video). Il video denuncia, di cui è venuto in possesso De Priamo, è ripreso in prima persona: una mano coperta dal guanto rompe uno per uno i sacchi che sono stati messi davanti allo Sprar (Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) di via Pallavicini e ne rivela il contenuto. Quello che emerge è uno spreco allucinante. Ci sono porzioni (abbondanti) di pasta di ogni tipo al sugo o in bianco, piatti di risotto, secondi di carne e di pesce. "Possibile che non si riesca ad inviare un quantitativo giusto di cibo e se ne debba sprecare così tanto? - si chiede il capogruppo di Fratelli d'Italia su Facebook - è questa la etica solidale, il tutto viene gestito con superficialità o peggio con spregiudicato cinismo?". Il secondo video, invece, riprende il cibo che è stato buttato all'interno dei cassonetti della spazzatura. Anche qui le immagini danno l'idea di uno spreco senza senso. Ci sono sacchi di carta stracolmi di pane (guarda il video). Ogni pagnotta è ancora protetta dal proprio sacchetto di plastica. "È una vergogna", sbotta De Priamo che ora intende presentare un'interrogazione urgente alla Raggi e chiedere immediato riscontro dell'accaduto "ad ogni livello istituzionale". "I soldi degli italiani, in aiuto ai centri d'accoglienza - spiega al Messaggero - non solo ingrossano il circuito dello spreco alimentare ma soprattutto fanno riflettere sulla gestione delle risorse a loro destinate". È la riprova che la decisione del ministro dell'Interno Matteo Salvini di tagliare i fondi per l'accoglienza va nella giusta direzione e che le proteste di cooperative rosse e associazioni cattoliche hanno un sapore squisitamente politico. Per gli ultrà dell'immigrazione sono, infatti, "pochi" i 21 euro fissati dal Viminale per ogni straniero ospitato. Ma gli sprechi mostrati in questi due video mostrano l'esatto contrario. Quello di via Pallavicini non è un caso isolato. Nel 2014 avevano fatto scalpore le fotografie scattate nel Centro di primo soccorso e accoglienza di Pozzallo: cassonetti della spazzatura stracolmi di decine e decine di portate di cibo ancora avvolte nel cellophan. Le stesse immagini che oggi vediamo a Roma, nello Sprar di via Pallavicini. Su quello spreco avevano indagano anche i carabinieri della Compagnia di Modica e c'erano state non poche polemiche per le parole di una grillina che aveva spiegato che i pasti venivano buttati via perché "gli immigrati non digeriscono la pasta". L'anno scorso, poi, un altro scandalo era scoppiato al centro di accoglienza di Castelvetrano. Sulle confezioni buttate via era ancora presente l'etichetta con il numero dello straniero a cui era destinato il pasto e che evidentemente non lo aveva consumato.
La storia si ripete: aiuti umanitari gettati in campagna tra Trepuzzi e Squinzano, scrive il 29 Gennaio 2019 trnews.it. Era l’11 ottobre del 2016 quando vi abbiamo mostrato bustoni interi di generi alimentari, cosidetti “aiuti umanitari”, abilmente occultati tra l’erba alta e dietro i muretti a secco. Oggi torniamo su una stradina di campagna che collega il comune di Trepuzzi a quello di Squinzano. La zona è diversa ma la situazione è la stessa.
Si conclude qui, sul ciglio della strada, ancora una volta, la corsa alla beneficienza. Qualcuno ha infatti scelto di disfarsi di interi pacchi di biscotti, prodotti alimentari per l’infanzia, riso, latte e buste di pan grattato ancora intatte. I sacchetti, sparsi qua e là, si confondono tra materiale di risulta abbandonato, mobilia, altra spazzatura e non finisce qui. Ci sono tanti, tantissimi, capi di abbigliamento. Senza pudore, alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, gli aiuti umanitari dell’Unione Europea gettati un pò ovunque fanno di questa porzione di macchia mediterranea una sorta di minimarket a cielo aperto. E mentre le mense Caritas faticano a mettere una toppa all’emergenza povertà, qui qualcuno ha forse smesso di apprezzare quello che qualcun altro prega di poter avere.
Scatoloni di aiuti alimentari europei tra i rifiuti. Chili di farina e riso con la dicitura stampata sulla confezione sono stati rinvenuti accanto ai cassonetti in via Mestre a Pordenone, scrive messaggeroveneto.gelocal.it il 30 dicembre 2018. Scatoloni di aiuti alimentari con il marchio dell’Unione europea nascosti in sacchi neri e gettati fra i rifiuti. Li ha trovati ieri mattina Augusta Brusadin, volontaria dell’associazione San Vincenzo de Paoli accanto ai cassonetti per la raccolta differenziata in via Mestre. C’erano confezioni di biscotti, scatoloni con dieci chilogrammi di riso tondo per minestre, perfettamente integri nella busta di plastica sottovuoto e con data di scadenza nel 2020, chili e chili di farina, prodotti a lunga conservazione come polpa di pomodoro, fagioli, tonno. Gli scatoloni di cartone e le confezioni di prodotti alimentari recavano la dicitura: “Aiuto Ue- Fead- prodotto non commerciabile”, con marchio dell’Unione europea. Nessun dubbio, dunque, che si trattasse di aiuti umanitari, peraltro integri e non scaduti. Ma a chi erano destinati? Quello che resta da capire è come mai, invece di trovarsi nelle dispense dei bisognosi, siano stati gettati fra i rifiuti. I prodotti sono arrivati ai beneficiari e sono stati gettati via da loro perché sgraditi o per qualche altra ragione? Oppure non sono mai arrivati a destinazione per un disguido nella consegna? Fra l’altro chi si è disfatto dei generi alimentari non ha avuto cura nemmeno di separare i rifiuti, gettandoli tutti in un sacco nero alla rinfusa, insieme con giocattoli per bambini, una crema per il corpo e altre cianfrusaglie. Dopo un paio d’ore ieri mattina sono sparite tutte le confezioni dei biscotti. Evidentemente qualche persona veramente bisognosa li ha raccolti per poterli mangiare. Il ritrovamento ha suscitato indignazione: tanto cibo destinato agli indigenti è andato sprecato, quando invece sono tante famiglie che non hanno soldi per un pasto. Impensabile un riutilizzo: anche se le confezioni sono sigillate, i prodotti alimentari sono rimasti a contatto con gli altri rifiuti e per giunta esposti alle intemperie e ad altre fonti di contaminazione.
Aiuti umanitari gettati nel fosso. Trovati sul margine della strada alcuni pacchi alimentari destinati agli indigenti, scrive il 3 Dicembre 2018 notiziaoggivercelli.it. Aiuti umanitari gettati via e ritrovati al bordo della strada: un gesto vergognoso a Trino.
Aiuti umanitari nel fosso. Prodotti umanitari donati dall’Unione europea, gettati in un fosso ai margini della strada. La denuncia arriva da Nicola Bruno, che quasi tutti i giorni percorre diversi km a piedi nelle vicine colline del Monferrato. «Si tratta di alimenti non commerciali – commenta Nicola -, destinati a poveri e famiglie indigenti. Tutto materiale alimentare, come riso e vari tipi di pasta, non scaduto, buttato ai margini della strada che porta a Camino. Perché! Perché tutto questo?
Uno schiaffo alla povertà. «Al mio rientro a casa, mi sono recato nella caserma dei Carabinieri a fare una regolare denuncia. Ogni anno l’Ue fornisce a grandi associazioni caritatevoli come la Caritas, il Banco Alimentare o la Croce Rossa Italiana, alimenti a lunga conservazione non commerciabili e destinati esclusivamente a chi ne ha bisogno, da distribuire nelle strutture per poveri, nelle case famiglia o nei centri accoglienza. E non per essere buttati. Considerando le effettive difficoltà economiche in cui versano moltissime famiglie, ho fatto fatica a credere che ciò fosse possibile. Pensare che ogni giorno nel mondo 8.000 bambini muoiono di fame».
Rintracciare i destinatari. Abbiamo chiesto un commento al sindaco Daniele Pane. «Con alcuni strumenti altamente tecnologici -ha spiegato il sindaco-, provvederemo ad individuare chi commette questi gesti. Verranno puniti, ovviamente non con una multa, ma troveremo altre formule. È qualcosa di vergognoso. Mi spiace per tutti quelli che invece si trovano in una reale situazione d’emergenza e danno il giusto valore alle cose».
L’ennesimo harakiri della sinistra: gli pseudo sindaci che protestano contro Salvini, scrive il 9 gennaio 2019 Andrea Pasini su Il Giornale. Continua il poema Eroicomico della sinistra: venti coraggiosi sindaci contro il despota Salvini. Il dittatore verde-giallo-nero-razzista-nazista-autoritario (ecc ecc) impone addirittura di occuparsi prima degli autoctoni (i famigerati Italiani) quando il loro dovere più intimo li chiamerebbe a spendere tempo, energie e denaro per i loro adorati immigrati. Così, probabilmente, si sentono questi venti primi cittadini nell’esibire il loro atto di ribellione alla calda (e desideratissima) luce delle telecamere, si sa mai che qualche voto lo si riesca a tirar su anche in questa maniera in questi tempi bui. D’altronde cos’altro vogliono gli italiani? Si accontentassero della disoccupazione giovanile altissima, delle liste di attesa a sette, otto, nove mesi negli ospedali, del costo della vita che aumenta e del debito pubblico. La sinistra sembra ormai essere tanto vicino alle esigenze del paese reale quanto lo potevano essere i nobili a Versailles negli anni immediatamente precedenti al 1789. Rimane solo un manipolo di pochi masochisti deciso a concedere il suo favore e voto ad una sinistra che non fa altro che coprirsi di ridicolo mentre la maggioranza degli elettori, anche di vecchia data, ha deciso, in un atto di amor proprio (e di questo li ringraziamo), di abbandonare il vecchio schieramento ormai ben avviato sulla via dell’autodistruzione. Il sentore comune dei cittadini è ormai quello della mal-sopportazione per tutta questa pletora di extra-comunitari e clandestini impegnati giorno e notte a bivaccare per le città di tutta la Penisola, importunando passanti e turisti con questue lacrimose alla meglio, aggressive alla peggio. Ragazzi senza identità che non sono europei e non sono neppure a pieno titolo rappresentanti delle loro rispettive culture, e proprio per questo spesso portati a scegliere la via della radicalizzazione violenta. Queste persone poi, influenzate da una certa propaganda commerciale, fatta di serie tv canzoni e film, che dipinge una vita fatta di soldi facili e criminalità con le accattivanti tonalità del fascino, si organizzando in bande (retaggio delle loro culture tribali) e si immettono nel violento e già troppo affollato mondo del crimine (organizzato e non). Come se non bastassero i gravi danni che infliggono al tessuto sociale, i contribuenti sono chiamati ad aprire il portafoglio (che per i bottegai, i padri che rimangono senza lavoro e le mamme è sempre e inesorabilmente CHIUSO) per finanziare lo stato sociale, che in teoria sarebbe del Popolo Italiano, a beneficio degli ultimi arrivati (non invitati): sanità, prigioni, scuole e forze dell’ordine per loro e la loro, sempre numerosa, prole. Tutti questi servizi molto spesso vengono forniti dalle solite coop rosse o di amici di amici o dei cugini alimentando la ben nota mangiatoia ospitata da casa Italia, come sempre più spesso le indagini e le inchieste dimostrano. Da quanto detto si ricavano due verità: Alla sinistra degli immigrati come esseri umani interessa solo per l’uso propagandistico che ne possono fare e per sostenere con i soldi di Stato le cooperative rosse che gestiscono proprio vitto e alloggio dei migranti guadagnando un sacco di euro. Un’ altra immigrazione selezionata, aderente ai nostri requisiti e bisogni e limitata è possibile, per cui si proceda ad una riforma coraggiosa che detti la linea per l’Italia e magari anche per l’Europa per gli anni a venire. Se c’è una persona nel panorama politico italiano che ha la leadership e il carisma necessario per portare avanti questa battaglia, questa persona è Matteo Salvini.
Dopo la rivolta dei sindaci si agitano i dissidenti del Movimento 5Stelle. Alcuni parlamentari e amministratori del Movimento 5Stelle non hanno nascosto la loro contrarietà al decreto sicurezza, scrive Francesco Lo Dico il 5 gennaio 2019 su "Il Dubbio". La rivolta dei sindaci contro il decreto sicurezza rinfocola il dissenso dei ribelli a Cinque Stelle, che già si erano opposti strenuamente alla stretta del Viminale alla Camera e al Senato. Le vecchie ferite tornano a sanguinare in mattinata, quando Matteo Mantero, uno dei senatori stellati di recente “assolto” dai probiviri dopo il no al decreto Salvini, ribadisce la propria ferma contrarietà al provvedimento. «Ecco quello che si ottiene emanando un decreto incostituzionale e stupido a solo scopo propagandistico, che auspicabilmente sarà smontato dalla Consulta: creare illegalità dove non c’era, ridurre l’integrazione peggiorando le condizioni di vita di italiani e stranieri, far fare bella figura ai sindaci del Pd che hanno contribuito a creare il falso problema dell’immigrazione e ora passano per i paladini dell’integrazione», è l’affondo di Mantero. Che riassume con parole affilate il pensiero di molti stellati per niente sorpresi dagli effetti collaterali provocati dal decreto sicurezza, denunciati a suo tempo da chi, come l’espulso Gregorio De Falco, aveva vanamente tentato di emendarlo al Senato. «La prossima volta – ammonisce Mantero proviamo ad ascoltare i nostri sindaci, come quelli di Roma e Torino ad esempio, che avevano esposto in maniera chiara e non strumentale come stanno facendo Orlando & C. le problematiche che avrebbe causato questo decreto». Il riferimento a due sindaci Cinque Stelle come Chiara Appendino e Virginia Raggi, non è affatto casuale. «Rischiamo di trovarci con un gruppo di immigrati, ex richiedenti asilo, a spasso senza alcuna tutela e sostegno», tuona il primo cittadino grillino di Carrara, Francesco De Pasquale. «Il decreto sicurezza è tutt’altro che una buona legge — contrattacca il grillino Nogarin da Livorno —. Ci sono aspetti che non mi convincono da un punto di vista politico ed etico e altri che ritengo difficilmente applicabili». Due dichiarazioni che sono la cartina di tornasole di un disagio incontenibile verso l’alleato leghista, che mette in forte imbarazzo i vertici del Movimento. «Se c’è qualche membro della maggioranza a disagio – è l’avvertimento che lancia il vicepremier Di Maio da Alleghe – si deve ricordare che fa parte di una maggioranza che quel decreto lo ha votato, di un governo che lo sta applicando, che lo sosteniamo e che chi prende parte in questo momento a questa boutade prende parte a una boutade politica per far sentire un po’ di sinistra chi con la sinistra non ha più nulla a che fare». Il rimprovero del leader 5 Stelle è chiaro: chi si ribella, fa il gioco delle opposizioni. Ma da quest’orecchio i dissidenti non ci sentono. Tanto che più tardi, tocca a Paola Nugnes, senatrice il cui processo è pendente presso i probiviri del Movimento, rimettere le dita nella piaga. «Il decreto Salvini una ferita che si riapre? Direi piuttosto una ferita che non si è mai chiusa», è il colpo di sciabola della storica attivista del meetup napoletano vicina a Roberto Fico. Che ricorda ai vertici del Movimento, proprio come Mantero, di aver avvisato a suo tempo dei pericoli insiti nel decreto sicurezza. E replica a Di Maio che non si tratta di farsi strumentalizzare da qualche parte politica, perché «le posizioni delle amministrazioni contrarie al decreto sono tra l’altro alquanto trasversali». Il problema vero, continua Nugnes, è che i sindaci si trovano a dover fronteggiare conseguenze gravi, «non solo per i migranti che sono in attesa di un rinnovo di permesso umanitario o che avendone fatto domanda ora se le vedono negate, ma anche per gli stessi cittadini italiani, per i quali aumenterà la percezione di insicurezza, con l’aumento calcolato e certo di nuovi irregolari sul territorio nazionale. Gente che è già qui tra noi, ma che non potrà essere iscritta all’anagrafe, che non avrà documenti regolari, che non potrà iscriversi al sistema sanitario nazionale per curarsi, né accedere ad un lavoro regolare e quindi ad un regolare contratto di fitto, e che sarà costretta in alloggi di fortuna, novelli fantasmi costretti a vagare nel mare scuro dell’illegalità delle nostre città». Nonostante il tentativo di placare il dissenso interno di Luigi Di Maio, i senatori dissidenti non sembrano aver alcuna intenzione di abbassare la testa. Quello del decreto sicurezza è un problema «serio e reale e non basterà espellere tutti i senatori che hanno optato per una resistenza civile a questo obbrobrio per cancellarne le criticità», è la chiosa dell’altra senatrice ribelle Elena Fattori, anche lei in attesa del giudizio dei probiviri. La maggioranza potrebbe perdere altri pezzi al Senato, dopo la nuova ondata di dissensi? «La posizione di Nugnes e Fattori non cambia – fa sapere lo staff a Cinque Stelle – le loro dichiarazioni non rendono più o meno vicina la loro espulsione di quanto non lo fosse ieri. I procedimenti aperti nei loro confronti hanno a che fare con i loro voti in dissenso sul decreto sicurezza». E tuttavia lo spettro delle espulsioni torna a vagheggiare a Montecitorio, dove si era vociferato dell’imminente addio, poi smentito della parlamentare M5s Gloria Vizzini, una dei 18 deputati che inviò una mail al capogruppo alla Camera Francesco D’Uva lamentando il poco confronto proprio sul dl Sicurezza. La verità è che la partita in corso è più ampia di quanto non indichi il dissenso interno. E punta ai vertici del governo, dove le aperture ai sindaci del premier Conte hanno molto irritato Matteo Salvini, determinato a proteggere il decreto sicurezza dai «sindaci traditori». Da qui al giudizio della Consulta, le vecchie ferite continueranno intanto a sanguinare.
Tra Salvini e i sindaci ribelli è guerra aperta sui migranti. Si allarga il fronte dei sindaci “disobbedienti: oltre a Palermo, Napoli, Parma, Bari e Firenze, ora anche Milano, scrive Giulia Merlo il 4 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Continua il braccio di ferro tra il sindaci e il governo, tra i quali tenta di mediare Palazzo Chigi. «Se l’Anci desidera un incontro per segnalare eventuali difficoltà applicative collegate alla legge sull’immigrazione e sulla sicurezza, ben venga la richiesta di un incontro con il Governo, al quale anche il Presidente del Consiglio è disposto a partecipare insieme al Ministro dell’Interno», si legge in una nota. «Inaccettabili, invece, sono le posizioni degli Amministratori locali che hanno pubblicamente dichiarato che non intendono applicare una legge dello Stato», continua la Presidenza del Consiglio, pur aprendo uno spiraglio di dialogo. Anche perché il fronte dei “disobbedienti” si allarga: oltre a Palermo, Napoli, Parma, Bari e Firenze, anche Milano si aggiunge alla lista di chi chiede di rivedere il decreto.
Oggetto del contendere: il decreto Sicurezza. Il testo- bandiera della Lega approvato nelle scorse settimane contiene alcune norme in materia di immigrazione che – secondo i sindaci – sono incostituzionali e mettono in pericolo l’ordine pubblico delle città. Per questo, Orlando a fatto sapere di aver dato ordine all’ufficio Anagrafe di Palermo di continuare ad accettare le richieste dei migranti, in modo da permettere loro di venire registrati e dunque non essere considerati irregolari e di accedere ad alcuni basilari servizi sociali. Inoltre, ha «dato incarico al capo ufficio legale del Comune di adire davanti al giudice civile per sottoporre la questione del Dl Sicurezza», questo perchè «non posso andare direttamente alla Corte costituzionale, quindi mi rivolgo direttamente al giudice civile. Chiederò un’azione sulla conformità della norma», con l’obiettivo di arrivare a giudizio davanti alla Corte Costituzionale.
Il diretto interessato, Salvini, ha immediatamente reagito via social: «Col Pd caos e clandestini, con la Lega ordine e rispetto. Certi sindaci rimpiangono i bei tempi andati sull’immigrazione, ma anche per loro è finita la pacchia». E poi conclude: «Se c’è qualche sindaco che non è d’accordo, si dimetta. Ragazzi siamo in democrazia e governano gli italiani». Il vicepremier leghista trova sostegno anche nel suo omologo pentastellato, Luigi Di Maio (di solito silente sulle questioni che riguardano il Viminale), il quale è intervenuto duramente contro i sindaci, liquidando la protesta come «campagna elettorale» di primi cittadini «che si devono sentire un po’ di sinistra facendo questa roba. Ma se vuoi sentirti di sinistra metti mano ai diritti sociali di questo paese, quelli che invece la sinistra ha distrutto in questi anni». Ad avvalorare la tesi dei sindaci anti- decreto, però, c’è anche una stima degli esperti dell’Ispi (Istituto studi di politica internazionale): secondo i dati, la restrizione dei permessi per protezione umanitaria porterebbe nel giro di due anni a un incremento degli immigrati irregolari in Italia di 130.000 unità.
I “DISOBBEDIENTI”. Il fronte caldo, però, si allarga. La presa di posizione di Leoluca Orlando è stata sposata nei giorni scorsi da Luigi De Magistris a Napoli, Dario Nardella a Firenze, Federico Pizzarotti a Parma e Antonio Decaro a Bari, a cui ieri si sono aggiunte altre città. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, ha commentato: «La legge produce irregolarità e insicurezza», «con un forte aumento dei dinieghi e del numero di stranieri che resteranno sul territorio da irregolari, condannati a vivere di espedienti. Tutto questo porterà a una crescita dei reati e dell’insicurezza nelle città. Solo l’integrazione basata sul lavoro può garantire un’esistenza dignitosa agli immigrati e maggiore sicurezza». E da Napoli, De Magistris ha replicato duramente a Salvini, riferendosi anche al suo rifiuto di fare attraccare in un porto italiano la nave ong Sea Watch 3: ««Salvini ha commesso una condotta apertamente violatrice della Costituzione su cui ha giurato, quindi il traditore è lui e lui si dovrebbe dimettere» Milano, invece, tenta di mediare. «Ministro Salvini, ci ascolti e riveda il decreto sicurezza, così non va», scrive il sindaco Giuseppe Sala, che non commenta la scelta di Orlando ma insiste sulla necessità di rivedere il decreto.
I “GOVERNISTI”. I sindaci della Lega fanno fronte comune con Matteo Salvini e puntano a una «verifica» sull’atteggiamento dell’Anci. «Come sindaci ci troviamo quotidianamente ad affrontare problemi legati al degrado della città e alla sicurezza. Ma lo facciamo spesso ad armi spuntate. Il decreto Salvini è la risposta concreta alla nostra richiesta di aiuto», ha detto il sindaco di Vicenza, Francesco Rucco. Dello stesso avviso, il sindaco leghista di Treviso, Mario Conte, che ha definito la presa di posizione di Orlando «una mancanza di rispetto sia nei confronti della Corte Costituzionale». Il sindaco di centrodestra di Pisa, Michele Conti, ha definito il dibattito «da campagna elettorale». La fronda anti- Anci conta molti sindaci di centrodestra, tra cui quelli di Verona, Novara, Ascoli, Terni, Arezzo, Grosseto, Chieti, L’Aquila: «Caro presidente – scrivono a Decaro – ti chiediamo di farti garante affinché l’associazione non venga usata strumentalmente su queste questioni».
Quando i sindaci di sinistra invocavano sicurezza. Da Sala a Gori, Nardella e De Luca, quanti amministratori dem chiedevano aiuto ai prefetti, scrive Carmelo Caruso, Domenica 06/01/2019, su "Il Giornale". Non accettano il decreto Sicurezza ma è in nome della sicurezza che, da amministratori, hanno disputato con i prefetti e minacciato di chiudere le loro porte. Prima di passare alla disobbedienza civile, teorizzata a Palermo da Leoluca Orlando, numerosi sono stati i sindaci e i governatori di sinistra che hanno sfidato lo Stato e parlato di città al collasso di fronte all'emergenza migranti. Prima di raccogliere la protesta che viene dai sindaci per farne una formale richiesta di parere alla Consulta, era il governatore della Toscana Enrico Rossi, nel 2015, a spiegare ai suoi compagni di partito, troppe volte superficiali nell'affrontare questi temi, che «bisogna essere umani, ma si deve avere umanità anche nei confronti di chi accoglie. È una rappresentazione sbagliata pensare che l'immigrazione sia una camminata dolce come ha creduto molte volte la sinistra». E non era Salvini, che si sa ha una precisa idea della patria, ma era ancora Rossi a dire che «l'identità minacciata è una cosa seria». Non c'è dubbio che in questi anni siano stati i sindaci e i governatori, loro che sentono la fatica dell'amministrare, ad aver preteso una svolta. A invocare un cambio di metodo, attraverso una lettera a La Repubblica, era stato nel 2016 il sindaco di Milano, Beppe Sala, non a caso prudente nell'assecondare la disobbedienza. Scriveva Sala: «L'accoglienza non continui a pesare come un macigno sempre più pesante sulle spalle della città» e aggiungeva che «il governo, soprattutto un governo di sinistra, deve provvedere a una nuova e efficace politica di integrazione, pianificata». Era la stessa opinione del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, che riconosceva: «L'emergenza sta esplodendo». Ed era sempre il 2016 quando, in un momento difficilissimo per la propria città, il sindaco di Firenze, Dario Nardella, si era rivolto al prefetto chiedendo l'immediata (immediata!) sospensione degli arrivi: «La Toscana ha una presenza di richiedenti asilo del 12 per cento superiore alle quote dovute. Le chiedo di sollecitare il ministro affinché non invii ulteriori richiedenti asilo». Tra i sindaci del Pd che hanno chiesto in maniera disperata aiuto al governo c'era anche Giuseppe Falcomatà che guida la città di Reggio Calabria, da sempre la più solidale ma anche la più stremata, al punto da costringerlo a dichiarare: «È dura andare avanti a questo ritmo. Noi, finora, non ci siamo mai tirati indietro. Reggio ha aperto le sue braccia ma oggi siamo arrivati al punto di non poterla più garantire l'accoglienza». Nessuno è riuscito tuttavia a superare il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che a settembre, in un intervento alla festa dell'Unità di Ravenna, ha avvertito: «Ci sono bande di nigeriani che hanno occupato militarmente i territori. Quando parliamo di sicurezza, parliamo di gente che ha paura e io scelgo i miei figli, se devo decidere tra la serenità di vita della mia famiglia e una bandiera di partito».
Colpo basso dei governatori di sinistra: ecco i ricorsi contro il dl Salvini. La sinistra insiste: dopo i sindaci ribelli, Toscana e Piemonte portano il decreto di fronte alla Corte Costituzionale. Ci pensano anche il Lazio e l'Umbria, scrive Claudio Cartaldo, Sabato 05/01/2019, su "Il Giornale". Dopo i sindaci, i governatori. Non si ferma la crociata della sinistra contro il dl Salvini. I politici contrari al decreto sulla sicurezza le stanno pensando tutte per mettere i bastoni tra le ruote alle norme inserite dal governo gialloverde. E così, dopo la decisione di Orlando di sospenderne l'applicazione, ora è la Toscana a presentare un ricorso alla Corte Costituzionale. Il testo è pronto e la deliberà sarà approvata lunedì. Lo stesso, peraltro, potrebbe fare anche il Piemonte guidato da Sergio Chiamparino, l'Umbria e il Lazio. Secondo il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, i sindaci "fanno bene a ribellarsi ad una legge disumana che mette sulla strada, allo sbando, decine di migliaia di persone che così diventano facile preda dello sfruttamento brutale e della criminalità organizzata, aumentando l'insicurezza". In attesa delle eventuali decisioni della Corte Suprema - spiega Rossi - "lo scorso 22 dicembre, infatti, io e la mia Giunta abbiamo approvato una proposta di legge (che sarà votata dal prossimo Consiglio regionale e per la quale abbiamo già previsto in bilancio 2 milioni di finanziamento ) che tutela i diritti della persona umana, a prescindere dalla cittadinanza: diritti per tutti, non solo per i cittadini italiani, ad essere curati, ad avere una dimora, un'alimentazione adeguata e ad avere un'istruzione". Un modo per opporsi alla legge nazionale che, a detta del governatore, "viola i diritti fondamentali della persona umana". Secondo i calcoli della regione Toscana, sarebbero 5mila le persone che per gli effetti del dl Salvini "sarebbero costrette all'illegalità". Dl Sicurezza, l'armata buonista tira dritto. E scoppia la guerra tra sindaci. La rivolta della sinistra al decreto Sicurezza spacca le città. Palermo e Firenze tirano dritte. Udine, Cascina e Trieste sono con Salvini, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 03/01/2019, su "Il Giornale". L'Italia si divide e i sindaci si schierano. La guerra tra primi cittadini infiamma il dibattito politico con il decreto sicurezza sullo sfondo. Motivo del contendere, le norme volute da Salvini, approvate dal Consiglio dei ministri, votate dal Parlamento e promulgate dal presidente della Repubblica. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, dopo aver sospeso l'applicazione del dl, ha incassato l'appoggio di altre amministrazioni di sinistra. Dario Nardella, Luigi De Magistris, Nicola Zingaretti, Mimmo Lucano e i sindaci di Pescara, Fiumicino e Reggio Calabria si sono detti "vicini" alla disobbedienza (in)civile di Orlando. Il caso ha scatenato clamore mediatico in giorni poveri di notizie e sul carro sono saliti pure Federico Pizzarotti (Parma) e Beppe Sala ("Salvini riveda il decreto sicurezza"), mentre Di Maio l'ha bollata come "campagna elettorale" e il ministro dell'Interno è stato costretto a ricordare loro che una legge promulgata da Mattarella non può essere disattesa. "È gravissimo - ha detto - ne risponderanno penalmente, legalmente e civilmente". Chiaro. Anche diversi costituzionalisti, ben lungi dall'essere "leghisti", hanno bocciato l'armata buonista con la fascia Tricolore. "I Comuni sono tenuti a uniformarsi alle leggi", fa notare il presidente emerito della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli. Gli fa eco Giovanni Maria Flick: "Non spetta al sindaco decidere di sospendere l'applicazione di una legge se la ritiene incostituzionale". Orlando, però, non sembra disposto a fare passi indietro. "Non arretro, non c'è motivo di arretrare, io ho assunto una posizione che non è né di protesta, né di disubbidienza, né di obiezione di coscienza", rivendica. E per contrastare quello che definisce "un attentato alla sicurezza del nostro Paese" è pronto a sottoporre il provvedimento "all'esame di una autorità giudiziaria". Solo attraverso un giudice ordinario o amministrativo, infatti, il dl potrà finire di fronte alla Corte Costituzionale e eventualmente essere dichiarato incostituzionale. La strada è lunga e lastricata di ostacoli, intanto però il sasso è stato lanciato e la guerra santa a Salvini iniziata: "Non faremo niente di illegale - giura Nardella, che valuta il ricorso - però abbiamo già pronta un'azione per sterilizzare in ogni modo gli effetti nefasti di questo decreto". Come ogni conflitto che si rispetti, a ogni azione ostile corrisponde una reazione. Al fianco del Viminale si sono subito schierati i sindaci di centrodestra. Ha messo l'elmetto il primo cittadino di Trieste, Roberto Dipiazza, che definisce "preoccupante" il fatto che "un rappresentante delle Istituzioni (Orlando, ndr) voglia uscire dal sistema democratico". Si dichiara "sorpresa" dai "colleghi" pure Susanna Ceccardi (Cascina), che punzecchia il capo-rivolta palermitano. E si schierano a favore del dl anche Sara Casanova (Lodi), Roberto Di Stefano (Sesto San Giovanni), Francesco Rucco (Vicenza) e Pietro Fontanini, il sindaco di Udine, città che "garantirà piena applicazione al decreto Sicurezza". "Con il decreto Salvini abbiamo finalmente strumenti in più per mantenere la sicurezza dei nostri cittadini - dice il primo cittadino di Arona, Alberto Gusmeroli - Qui abbiamo applicato numerosi Daspo di allontanamento, tra cui quello per un questuante che veniva a chiedere l'elemosina prima in Mercedes e poi con auto nuova fiammante". Il conflitto è aperto.
Quella lobby dei Comuni rossi che cerca di uscire dall'ombra con la guerra santa anti Lega. La finta solidarietà degli amministratori in cerca di riflettori: «Basta col giogo padano», scrive Carmelo Caruso, giovedì 03/01/2019, su "Il Giornale". Usano Matteo Salvini per ingigantirsi come faceva Braccio di Ferro con gli spinaci. Non pensate, dunque, che sia la disobbedienza civile del sociologo Danilo Dolci o quella nobile della tradizione radicale. Nella volontà annunciata ieri dai sindaci di Palermo e di Firenze di ammutinarsi di fronte al decreto Sicurezza del ministro dell'Interno, c'è infatti la solidarietà pelosa che serve a ritrovare un nuovo e personalissimo protagonismo politico. Scomparsi dal dibattito e superati dalla promessa di reddito di cittadinanza a Cinque stelle, a sinistra sono tornati ad agitarsi i campioni ammaccati del populismo, i candidati alle primarie del Pd che in Salvini cercano una resurrezione. A Roma, il governatore Nicola Zingaretti ha dichiarato che «bisogna impegnarsi contro l'odio e contro le norme scritte solo per fare propaganda». A Napoli, interagiscono il governatore Vincenzo De Luca e il sindaco Luigi de Magistris, arcinemici da sempre ma amici per opportunità e per liberare il centro Italia dal giogo padano. A Bari, non arretra Michele Emiliano che è sempre in continua crisi di identità: è stato eletto con il Pd ma ha gettato la tessera del Pd e non si è dimesso da magistrato. A Palermo, come detto, l'ultimo caudillo a preparare la controffensiva è Leoluca Orlando, un antico e consumatissimo leader che è riuscito a servirsi del pensiero gesuitico di padre Ennio Pintacuda, a cavalcare il giustizialismo di Antonio Di Pietro, a salvarsi dalla rottamazione di Matteo Renzi, a esibire l'antimafia come patente morale. Ai funzionari del suo comune, Orlando ha ordinato infatti di recalcitrare contro il governo con tanto di nota ufficiale che già dal primo verbo è un comando che sfida un altro comando: «Impartisco la disposizione di sospendere, per gli stranieri eventualmente coinvolti dalla controversa applicazione della legge, qualunque procedura». Ebbene, a cominciare dall'impartisco c'è tutto il carattere di Orlando che somiglia più di quanto si immagini a quello di Salvini a cui disobbedisce. Come si vede, è a destra (e su Salvini) che si stanno celebrando le primarie della sinistra; è a sinistra che si fanno le prove di sedizione non contro un ministro ma contro una legge di Stato. Con un'incoronazione napoleoneggiante, lo scorso 3 dicembre, de Magistris si è autointronato perché - ha spiegato ai colleghi che lo ascoltavano mentre straparlava di deriva fascista - «il M5s ha tradito. L'inizio del nostro progetto è essere l'anti Salvini». A Firenze, l'impalpabile sindaco Dario Nardella, più volte ammonito da Matteo Renzi, per i suoi scarsi risultati e che è riuscito a multare il direttore degli Uffizi, un uomo che fa lode all'Italia anche nella sua Germania, ha riscoperto, grazie a Salvini, la tempra che aveva smarrito: «Firenze non si piegherà al ricatto contenuto nel decreto Sicurezza». E per fare un nuovo salto in Sicilia, all'Ars si sta addirittura pensando, su proposta del suo presidente Gianfranco Miccichè, di formare una speciale commissione sul fenomeno dei migranti. Insomma, Salvini è riuscito anche in questo: ha compattato la sinistra, il Nord e il Sud, democratici e para democratici e li ha fatti arrivare sino all'estremo paradosso. Ieri, a leggere le note di sindaci e governatori del Pd, non sembrava di abitare in Italia ma di vivere in un territorio occupato. Non sembrava di ascoltare parole di sinistra ma di leggere vecchi comunicati della Lega secessionista.
Dl sicurezza, sindaco Pd smonta i ribelli: "Legge va rispettata sempre". La presidente di Anci Veneto, Maria Rosa Pavanello, entra a gamba tesa sulla rivolta dei sindaci contro il Dl sicurezza, scrive Agostino Corneli, Giovedì, 03/01/2019, su "Il Giornale". Maria Rosa Pavanello, presidente di Anci Veneto, sindaco di Mirano e iscritta al Pd dalla sua fondazione, si schiera contro i sindaci ribelli che non vogliono applicare il Dl Sicurezza. "Un sindaco è tenuto ad applicare e a far rispettare la legge anche quando non la condivide. E questo un elemento che sta alla base del ruolo di sindaco e che è alla base dell'architettura democratica ed istituzionale del nostro Paese. Il decreto sicurezza è una legge dello Stato e, quindi, i sindaci devono rispettarla. Naturalmente questo non significa che non si possano manifestare critiche o giudizi negativi, ma la legge lo ripeto va rispettata. E il nostro ruolo che ce lo impone e non potrebbe essere diversamente". Pavanello ha poi affermato che: "Il confronto e non la disobbedienza è alla base della dialettica democratica per questo condivido le parole del presidente Decaro che ha invitato alla costituzione di un tavolo per cercare con il dialogo di trovare delle eventuali soluzioni condivise e correttivi al decreto". Per la presidente dell'Anci Veneto, il problema non deve essere affrontato come una battaglia politica, ma bisogna guardare all'interesse dei Comuni e dei sindaci che ogni giorno si trovano a dover fronteggiare la gestione dei migranti e della sicurezza. "In passato i sindaci sono stati lasciati soli nella gestione dell'emergenza immigrazione che non era di loro competenza, ma che purtroppo è stata scaricata senza mezze misure sui Comuni e di conseguenza sui territori e sulle comunità con il rischio concreto di tensioni sociali", ha detto la Pavanello. Parole che arrivano come una doccia gelata nei confronti della sollevazione dei sindaci e che riaffermano un principio di diritto imprescindibile: la legge va applicata. Un concetto già ricordato anche da illustri costituzionalisti e che dovrebbe essere sempre tenuto presente da chi è a capo non di una lista o di un partito ma di una pubblica amministrazione.
I costituzionalisti contro i sindaci ribelli: "Rispettate il decreto Salvini". Cesare Mirabelli, presidente emerito della Consulta, boccia l'asse dei sindaci che vogliono boicottare il decreto sicurezza: "Non possono sollevare questioni di legittimità costituzionale". D'accordo anche il collega Giovanni Maria Flick, scrive Gianni Carotenuto, Giovedì, 03/01/2019, su "Il Giornale". La mancata applicazione del decreto Salvini, nella parte che riguarda i migranti, annunciata dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando e dai colleghi di Napoli e Firenze, Luigi De Magistris e Dario Nardella, "è un atto politico. I Comuni sono tenuti a uniformarsi alle leggi". A dirlo è il presidente emerito della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli che, interpellato da Adnkronos, smonta l'asse degli amministratori locali contro la norma prevista dal decreto sicurezza che vieta la possibilità di concedere la residenza a chi è in possesso di un permesso di soggiorno. "La pubblica amministrazione - spiega Mirabelli - non può sollevare questioni di legittimità costituzionale ed è tenuto a uniformarsi alla legge, a meno che non sia liberticida, che potrebbe essere un caso eccezionale, una rottura dell'ordinamento democratico. Bisogna vedere se si tratta di norme rispetto alle quali è prevista un'attività del Comune che ha carattere di discrezionalità, che la legge impone e che il sindaco ritiene di disapplicare. Non può essere una contestazione generale". "Se ci sono atti che la legge prevede per i Comuni il sindaco non può disapplicarla. Se la disapplica, e in ipotesi interviene il prefetto o un'altra autorità, sorge un contenzioso e allora potrebbe essere sollevata una questione di legittimità costituzionale. Al momento - chiarisce l'ex presidente della Consulta Mirabelli - è un atto politico". Parole dal contenuto inequivocabile confermate poi da un altro ex presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, in un'intervista a Radio Anch'io, su Radio 1: "Non spetta al sindaco decidere di sospendere l'applicazione di una legge se la ritiene incostituzionale ma ricorrere all'autorità giudiziaria per chiedere che ne verifichi l'applicabilità e nel caso l'autorità giudiziaria ne investe la Corte costituzionale". Non solo Mirabelli e Flick, anche i sindaci di diverse città italiane prendono le distanze dall'iniziativa di Orlando, De Magistris e Nardella. A salire sulle barricate, assicurando l'applicazione delle misure previste dal decreto Salvini, sono stati i primi cittadini di città come Udine e Novara. "Il Comune di Udine garantirà piena applicazione al decreto sicurezza varato dal Governo e approvato dal Parlamento. La lotta all'illegalità promossa dal ministro Salvini troverà dunque nella città che ho l'onore di rappresentare una solida alleata, nell'esclusivo interesse di tutti quei cittadini, anche non italiani, che rispettano la legge e le nostre tradizioni", ha dichiarato il sindaco di Udine, Pietro Fontanini. Altrettanto chiaro il primo cittadino di Novara, Alessandro Canelli: "il decreto Salvini è uno strumento fondamentale per il controllo del territorio e per la sicurezza dei cittadini. Spiace che alcuni sindaci, forse più per motivi ideologici, abbiano annunciato di non voler applicare una legge dello Stato votata dal Parlamento. Forse hanno nostalgia dell’epoca dell’immigrazione senza controlli, ma con la loro scelta arrecano un danno anche ai loro stessi cittadini".
Casellati: "I sindaci ribelli rispettino le leggi. Altrimenti è anarchia". In un'intervista al Corriere della Sera, la presidente del Senato avverte i sindaci che non intendono applicare il decreto Salvini: "Passerebbe un messaggio devastante per le istituzioni e per i cittadini. Sarebbe l'anarchia", scrive Gianni Carotenuto, Domenica 06/01/2019, su "Il Giornale". Se i sindaci (ribelli, nda) si mettessero a non rispettare le leggi, passerebbe "un messaggio devastante per le istituzioni e i cittadini. Sarebbe l'anarchia". A dirlo, in un'intervista al Corriere della Sera, la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Quando "si contesta una norma ci sono forme e sedi appropriate", ha aggiunto Casellati facendo riferimento alla Corte costituzionale, che, "nella sua assoluta e insindacabile autonomia", a giorni sarà chiamata anche a valutare l'ammissibilità del conflitto tra poteri sollevato dal Partito democratico per il caos e le forzature cui è stata sottoposta la legge di bilancio in Aula. Tra i temi affrontati dalla presidente del Senato nell'intervista di oggi al Corriere della Sera, il più importante è quello relativo alla decisione - annunciata da alcuni sindaci - di boicottare il decreto Salvini. Dopo l'annuncio del primo cittadino di Palermo, Leoluca Orlando, diversi amministratori locali hanno espresso la loro contrarietà all'applicazione della norma del decreto sicurezza che impedisce il rilascio del permesso di soggiorno ai richiedenti asilo. Con il passare delle ore, il fronte antigovernativo è diventato sempre più ampio. L'ultimo in ordine di tempo a iscriversi al gruppo dei sindaci ribelli è stato il sindaco M5s di Carrara, Francesco De Pasquale. Nonostante il parere negativo di eminenti costituzionalisti ("Rispettate il decreto"), non sembrano voler mollare. Ma ora, al coro delle voci contrarie rispetto alla disobbedienza civile annunciata da Orlando, De Magistris, Nardella e tutti gli altri, si è aggiunta una figura autorevole come Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che, in linea con la presa di posizione di Forza Italia ("I sindaci rispettino le leggi"), afferma che i sindaci "devono rispettare le leggi", altrimenti "sarebbe l'anarchia". Ci sono "sedi e forme appropriate" per "contestare una norma", ha puntualizzato la presidente di Palazzo Madama che, nell'intervista al Corriere della Sera, ha affrontato anche altri temi. Su tutti l'iter della legge di bilancio a cui il presidente Mattarella ha dedicato una parte del suo discorso di fine anno: "Il percorso della manovra è stato travagliato e io stessa mi sono trovata a invitare governo e maggioranza a un più rigoroso rispetto del processo legislativo". Ma "l'esercizio provvisorio" avrebbe scatenato la "reazione dei mercati" e "l'aumento dello spread". Tuttavia - ha precisato la presidente del Senato - non si può "ragionare" esclusivamente sulla "prospettiva del rigore": il 2019 sarà "l'anno della ripresa". Un richiamo anche alla questione dei vitalizi e delle cosiddette pensioni d'oro. "Tutti siamo chiamati a dare segnali di razionalizzazione e ottimizzazione delle risorse pubbliche. Le differenze possono essere sul come ottenere i risparmi, tenendo ben presente sia le ragioni dell'equità sia quelle della legittimità dei provvedimenti".
Orlando: «Disobbedisco!» Il sindaco di Palermo contro Salvini. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, congela le norme sui migranti del decreto sicurezza, scrive Giulia Merlo il 3 gennaio 2019, su "Il Dubbio". Matteo Salvini ha trovato il primo avversario del 2019. Il guanto di sfida al ministro dell’Interno, proprio sul ddl Sicurezza che è stato il suo decreto- bandiera, arriva da Palazzo delle Aquile: il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha impartito «disposizione di sospendere, per gli stranieri eventualmente coinvolti dalla controversa applicazione della legge, qualunque procedura che possa intaccare i diritti fondamentali della persona con particolare, ma non esclusivo, riferimento alle procedure di iscrizione della residenza anagrafica». In sostanza, Orlando punta a congelare gli effetti del decreto nella parte che riguarda i migranti e, per farlo, ha inviato una circolare al servizio anagrafe per «approfondire tutti i profili giuridici anagrafici» che derivano dall’applicazione delle norme. E, in attesa dell’approfondimento, a Palermo si applicheranno le precedenti regole per quanto riguarda la possibilità di iscriversi all’anagrafe e, quindi, di accedere a una serie di servizi sociali. Immediata è arrivata, via social, la replica di Salvini: «Con tutti i problemi che ci sono a Palermo, il sindaco sinistro pensa a fare “disobbedienza” sugli immigrati». La battuta è pane per i denti del sindaco, che replica immediatamente: «Il nostro non è un atto di disobbedienza civile nè di obiezione di coscienza, ma la semplice applicazione dei diritti costituzionali. Smettiamola di dire che chi applica i diritti umani è eversivo», aggiungendo però di non aver intenzione di dibattere ulteriormente con il ministro dell’Interno: «Giochiamo due partite diverse su due campi diversi, lui gioca a cricket e io a volley. Non ho nessun motivo di replicare». Schermaglie a parte, la tesi di Orlando è tutta politica: «Il governo ha buttato la maschera. Siamo davanti a una palese violazione dei diritti umani e a un provvedimento disumano e criminogeno, che, eliminando la protezione umanitaria, trasforma i legali in illegali. Ci sono migliaia, centinaia di migliaia di persone che oggi risiedono legalmente in Italia, pagano le tasse, versano contributi all’Inps e fra qualche settimana o mese saranno senza documenti. Questo significa incentivare la criminalità, non combatterla o prevenirla». Parole durissime contro il governo: la breccia aperta dal sindaco di Palermo mette in moto anche le altre città italiane. Il primo a prendere posizione in favore di Orlando è il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, che ha rivendicato di aver da subito «schierato la mia città dalla parte dei diritti. Noi applichiamo le leggi ordinarie solo se rispettano la Costituzione repubblicana. Ci muoviamo in questa direzione anche per il sistema Sprar». Lo stesso ribadisce anche il sindaco di Riace, Mimmo Lucano, che ha commentato: «Bisogna disobbedire perché è un decreto contro i diritti umani e la dignità degli esseri umani. Non è una novità: io l’ho già fatto e mi trovo in queste condizioni». Anche il sindaco di Firenze, Dario Nardella, sposa la linea di Orlando: «Firenze non si piegherà al ricatto contenuto nel decreto sicurezza che espelle migranti richiedenti asilo e senza rimpatriarli li getta in mezzo alle strade». Dal Lazio, anche il presidente della regione, Nicola Zingaretti, sposa la battaglia del fondatore della Rete: «Mi sento vicino al sindaco Orlando, al suo impegno contro l’odio e capisco la sua fatica per porre rimedio a norme confuse scritte solo per l’ossessione di fare propaganda e che spesso producono caos, più diffidenza e insicurezza per tutti. Tutto sulle spalle dei territori e degli amministratori locali». Preoccupazioni, queste, condivise anche dall’ex grillino sindaco di Parma, Federico Pizzarotti: «Da subito abbiamo segnalato che questo decreto, per come è scritto, crea solo problemi, difficoltà nell’avere documenti e quindi nell’inserirsi in un percorso regolare, anche per avere un lavoro. Cercheremo di capire come si muovono gli altri Comuni, certo non basta una lettera di un sindaco per modificare il funzionamento dell’anagrafe». E proprio questa sembra essere la prospettiva dell’iniziativa del sindaco di Palermo che, pur ribadendo di «non voler essere un modello», ha annunciato che invierà «una copia del testo all’Anci nazionale e ai sindaci più interessati dalla vicenda dell’immigrazione». Così, il primo intoppo al “governo del cambiamento” potrebbe arrivare dalla mobilitazione dei comuni.
Palermo, capitale dell'accoglienza: la grande lezione della Sicilia a tutta l'Italia. Nei quartieri più poveri volontari e Comune integrano 25 mila stranieri, Ballarò rivive con Moltivolti e con i commercianti bengalesi che denunciano gli estortori della mafia. Un modello alternativo. E ora Orlando annuncia la sospensione del decreto Salvini, scrive Carmine Fotia il 2 gennaio 2019 su "L'Espresso". Rimbalzano nei vicoli stretti di una pavimentazione resa scivolosa dagli umori del mercato le urla dei venditori: pane e panelle, pani c’a meusa, crocchè, fritturiedda, sfincioni, purpi, sfrigolano le stigghiole e gli odori delle verdure, i colori della frutta si mischiano con l’odore delle spezie, del kebab, del cous-cous. Bastano naso e palato per capire che straordinario miscuglio sia diventato Ballarò, il quartiere del mercato in pieno centro storico di Palermo. Poi, quando cala la sera, i negozi ancora aperti degli immigrati danno vita e luce al quartiere. Ecco la barberia di Salim, che viene dal Benin, dove mentre dentro la minuscola bottega lui ti aggiusta barba e capelli accompagnato da musica africana e altri ragazzi ballano, seduti ai tavolini esterni immigrati e palermitani sorseggiano birre e spinelli. Sarà tutto legale? Non lo so e francamente m’importa poco: «L’esclusione sociale non ha colore, qui il tema della legalità è complicato per tutti: al mercato non sono soltanto gli immigrati a essere fuori dalle regole della Ue», spiega Claudio Arestivo, uno dei fondatori di Moltivolti, ristorante multietnico, centro sociale, fucina culturale e gastronomica con la sua cucina “siculo-africana”, dove a pranzo puoi mangiare un cous-cous afgano e involtini palermitani e la sera assistere a un affollatissimo concerto di musica dei Balcani.
«Qui a Ballarò», continua Claudio, «abbiamo un 35 per cento di migranti, e siamo un Laboratorio Sociale». «Hanno fatto un po’ come a Riace», spiega Gianmauro Costa, giornalista e scrittore, che nel suo prossimo romanzo in uscita per Sellerio farà agire proprio a Ballarò, alle prese con la Black Axe, la nuova mafia nigeriana, la sua nuova eroina, la poliziotta Angela Mazzola, «i migranti hanno preso vecchie case fatiscenti e le hanno rifatte con le loro mani». Dice il presidente del Municipio, Massimo Castiglia: «Ti sei mai chiesto perché la Vucciria è un mercato morto mentre Ballarò è vivo? Perché la gente che vive qui, in primo luogo gli immigrati, fa la spesa al mercato, lì, no. Per fare vivere un mercato non basta chi viene a fare la foto, serve chi viene a fare la spesa». «Più che la Vucciria, in qualche modo santificata ma ingabbiata nell’irripetibile quadro di Guttuso, è Ballarò, nella sua tumultuosa vitalità, a rappresentare oggi meglio l’identità di Palermo», dice la scrittrice Evelina Santangelo che, insieme a Gian Mauro Costa e il suo rinato cinema Rouge et Noir, anima la sezione palermitana della scuola di scrittura Holden. «Gli immigrati hanno fatto rivivere un quartiere: a giugno sono venuti i Reali d’Olanda, e docenti dell’università di Cardiff. Caro Salvini, invece di cavalcare le paure che possono sdoganare la violenza pur di semplificare e ottenere consenso perché non vieni a vedere come funziona a Ballarò?», lancia la sua sfida il minisindaco di Ballarò. Guai però, ammonisce il Sindaco Leoluca Orlando, a individuare nuovi modelli perché Riace insegna che innalzare nuovi modelli può rendere più facile colpirli. Tuttavia da Ballarò una pratica alternativa emerge, dice Castiglia «nel senso che qui c’è un forte privato-sociale organizzato e le strutture sono messe in rete costruendo un presidio di contrasto alla povertà che non riguarda solo i migranti. E poi le istituzioni sono vicine: la gente magari si incazza ma viene comunque in Municipio».
Sceso a Palermo (nel sud si dice così: “scendi” quando arrivi, “sali” quando te ne vai) nei giorni del vertice sulla Libia il cui scopo (fallito) era normalizzare quel Paese per impedire i flussi migratori verso l’Italia ripenso a queste parole di Aldous Huxley - umanista, pacifista, maestro della letteratura distopica, scritte nell’introduzione a una nuova edizione dell’Inchiesta su Palermo di Danilo Dolci pubblicata da Einaudi nel 1956: «Senza carità, la conoscenza tende a mancare di umanità; senza conoscenza, la carità è destinata sin troppo spesso all’impotenza», mentre scopro una città controcorrente rispetto al delirio securitario, che per bocca del suo sindaco Leoluca Orlando (che magari i nuovi potenti italiani neri gialli e verdi considerano un criminale ma che in Germania viene premiato da Wim Wenders proprio grazie alle sue idee sull’accoglienza) propone addirittura l’abolizione del permesso di soggiorno, scopro che dalla semina di Danilo Dolci, il sociologo del nord che negli anni ’50 scelse di raccontare la spaventosa povertà di Palermo e della Sicilia Occidentale filtrando numeri e dati attraverso la sua esperienza umana di condivisione della vita e delle sofferenze di quel popolo, oltre mezzo secolo dopo, sono nati bellissimi fiori: Fra’ Mauro ai Danisinni; Alessandra, Roberta, Fausto, Massimo, Claudio a Ballarò. E ve ne sono tanti altri e altre allo Zen, all’Albergheria, alla Zisa, in mezzo al mare. Nessuno di loro è un santo (almeno finora), non tutti sono religiosi, non sono soltanto assistenti sociali, non sono militanti politici tradizionali, sono quasi tutti palermitani e non agiscono semplicemente per “solidarietà” verso i nuovi poveri del ventunesimo secolo, i migranti in fuga dalla guerra, dalla tortura, dalla fame, gli stessi fantasmi dai quali fuggivano i poveri della Palermo degli anni ’50 con i quali condivideva la vita Danilo Dolci. «È che i razzisti fanno una vita di merda», dice Alessandra Sciurba, precaria universitaria, una delle promotrici del Progetto Mediterranea che ha messo in mare la Mare Jonio, coordinatrice del Progetto Harraga (vuol dire ragazzi che bruciano) dedicato ai ragazzi migranti, che cela dietro un sorriso dolcissimo i poteri di una Supergirl che è insieme lavoratrice, mamma, assistente sociale, attivista, comunicatrice. E loro, invece, a Ballarò, alla Zisa, allo Zen, ai Danisinni, fanno quel che fanno perché, come dice Fausto Melluso, sferzante e ironico, giovane avvocato, delegato alle migrazioni dell’Arci di Palermo e responsabile del Circolo Arci “Porco Rosso” vogliono “una vita felice” non dominata dalla ferocia delle giugulari gonfie. È l’idea di una mitezza che è compassione e comprensione di un mondo nuovo che non può essere fermato né dalle ruspe, né dai muri, quella compresenza di carità e conoscenza, come scriveva Huxley, che qualcuno chiama sprezzantemente buonismo e che dovremmo invece riconoscere come un nuovo umanesimo che ci liberi da un futuro cupo che oggi possiamo forse raccontare solo con la distopia: «Forse solo raccontando i fantasmi possiamo raccontare la realtà», dice Evelina Santangelo, che ha scritto di migranti neri e di emigrati siciliani, il cui ultimo romanzo uscito per Einaudi, “Da un Altro Mondo”, è dedicato all’onda nera che attraversa l’Europa. Sono pazzi loro, è pazzo il sindaco, che scommettono sull’apertura, sulle radici proiettate nel futuro di una città che ha conosciuto invasioni, dominazioni, stratificazioni che ne costituiscono l’identità polimorfa nella lingua, nell’eredità genetica, nel cibo? «Prendi l’arancina - a Palermo rigorosamente tonda e femminile mentre nella Sicilia orientale diventa piramidale e maschile - è cibo palermitano senza dubbio, ma nasce dalla tradizione araba di mischiare il riso con un ripieno», spiega Danilo Li Muli, pubblicitario e imprenditore, figlio dell’eccellente disegnatore e grafico palermitano Gianni, che ha aperto una catena di street food palermitano e l’ha chiamata Kepalle, in onore a sua maestà l’arancina “tradendo” però l’ortodossia che la vuole solo al burro o al ragù e riempendola di delizie varie. Danilo ha subito intimidazioni pesanti che ha denunciato, ma non per aver tradito l’ortodossia dell’arancina, ma perché non paga il pizzo. A due passi da uno dei suoi negozi in via Maqueda, pieno centro storico, anche un gruppo di commercianti bengalesi di Ballarò si è rivolto all’Associazione Addio Pizzo per denunciare gli estortori mafiosi. Dunque la contaminazione riguarda anche le buone pratiche e allora i pazzi sono loro, o sono gli altri, i signori del governo che cavalcano paure e seminano odio? «A Palermo non abbiamo piante autoctone, le nostre piante, i nostri alberi sono “migranti” che risiedono a Palermo», dice il primo di questi pazzi, “u Sinnacollanno”. «Il futuro è nei nomi di Google (o un altro colosso digitale) e Ahmed (o un altro nome di migrante): il primo esprime la connessione virtuale, il secondo la connessione umana. La sfida di Palermo è dimostrare che l’innovazione e la relazione umana se stanno insieme producono futuro». Mentre la città assisteva con distacco e senza alcun entusiasmo al vertice blindato dei politici di governo, rinchiusi nell’Acquario di Villa Igiea, l’Hotel più lussuoso di Palermo, insieme ai signori della guerra che imprigionano, torturano, uccidono è proprio a Ballarò che ho trovato le storie terribili di chi fugge dai lager libici, come questa: «Da mesi non riesco a dormire, faccio sogni cattivi, mi spavento e temo che mi possa succedere qualcosa», racconta S. E. che ha 19 anni e viene dal Gambia, «i pensieri mi affollano la mente e non se ne vanno mai. Giorno e notte penso a quanto visto durante il viaggio dal Gambia all’Europa. La mia mente è affollata da immagini di gente morta. Rivedo i cadaveri in acqua. Ero in Libia a Sabratha, assieme a 150 persone che aspettavano di imbarcarsi sui gommoni… sul mare galleggiavano i corpi putrefatti e mangiati dai pesci di decine di persone. I libici mi hanno costretto a seppellire quei cadaveri. Erano irriconoscibili, puzzavano. Ricordo ancora quel mare e quella spiaggia della morte e mentre scavavo a terra la paura mi faceva tremare i denti e le mie gambe erano tese come il legno. Penso sempre a quei cadaveri e ai loro visi irriconoscibili e mangiati dai pesci». Secondo i dati forniti da Salvatore Avallano, coordinatore di Medu (Medicina per i diritti umani) in una delle sessioni del controvertice sulla Libia che si è svolto proprio a Ballarò, l’85 per cento dei migranti che arrivano dalla Libia hanno subito torture e violenze di vario tipo delle quali al vertice nessuno ha chiesto conto. A Moltivolti, Roberta Lo Bianco - coordinatrice Unità Migrazioni del Cesie, tutrice volontaria di due minori - ha portato a pranzo un gruppo di ragazzi per festeggiare la conclusione del loro corso di formazione, ma nessuno di loro ha voglia di festeggiare, le loro espressioni sono turbate e preoccupate: «Sono qui da sei mesi, ora sono tutti maggiorenni, ma alcuni di loro sono arrivati da minorenni», racconta Roberta, «facciamo corsi di orientamento socioculturale, per spiegare loro come funziona in Italia: la sanità, il lavoro, i diritti che spetterebbero loro. Sono richiedenti asilo che hanno avuto la protezione umanitaria. Ora rischiano di diventare irregolari e non possono pensare a nessun lavoro perché non sanno cosa succederà di loro. Io per questo sono molto arrabbiata». Alessandra Sciurba racconta la storia di B.: «Aveva solo 16 anni quando ha raggiunto la Sicilia. Non sapeva né leggere né scrivere, ma ha imparato in Italia: l’italiano è stata la prima lingua che ha scritto. Ha conseguito la licenza media, e adesso è iscritto alla scuola superiore, presso un istituto alberghiero. Oggi B., essendo stato escluso dalla possibilità di accoglienza presso gli Sprar, che il decreto sicurezza lascia aperta solo per i titolari di protezione internazionale e per i minori, e avendo appena compiuto 18 anni, si è ritrovato a vivere per strada, non riuscendo più a frequentare la scuola». Tutto il lavoro fatto finora, 240 ragazzi che hanno partecipato ai laboratori, 85 tirocini lavorativi, rischia di non servire a nulla. Per loro si apre un limbo di sei mesi che produrrà grande disagio psicologico e poi dovranno affrontare esami molto difficili: «Il sistema che hanno creato», conclude Alessandra, «è patogeno, perché ora si perdono anche quel minimo di garanzie che c’erano prima». I pazzi di Palermo (non è un’offesa, semmai la rivelazione di una strana qualità che Roberto Alajmo ha mirabilmente raccontato nel suo “Repertorio dei pazzi della città di Palermo”) sono anche i “proprietari” della Nave Jonio, l’unica nave delle Ong a navigare nel Mediterraneo. «Ma l’hai vista? Sembra la barca di Popeye», sorride Alessandra Sciurba, «l’abbiamo trovata grazie alla gente di mare, che è bella gente. Noi siamo solo persone normali che a un certo punto hanno pensato che in mezzo al Mediterraneo stavamo annegando tutti. Nessuno dovrebbe stare in mezzo al mare. Io non penso che la vita umana debba essere calcolata come un numero. Per questo pratichiamo l’obbedienza civile e la disobbedienza morale, mettendo in gioco anche le nostre fragilità». «La nave ci è costata 700 mila euro. Abbiamo trovato una banca di pazzi che ce li ha anticipati e stiamo raccogliendo i fondi con il crowdfunding», spiega Claudio Arestivo. «Perché l’ho fatto? Per questa semplice ragione: i miei fratelli, i miei cugini, insieme a una marea di persone, sono andati via da Palermo, mentre io ho difeso il mio diritto a restare. Non posso pensare che il ragazzo ghanese che lavora in cucina non abbia gli stessi diritti dei miei fratelli e dei miei cugini. Io voglio poter dire ai miei figli che in un tempo in cui accadevano cose brutte noi abbiamo reagito». A ridosso della cattedrale di Palermo, dentro il corso dell’antico fiume Papireto, lungo il cammino arabo-normanno, a poche centinaia di metri da dove sorgeva il quartiere Cortile Cascino, dove negli anni Cinquanta visse Danilo Dolci e dove nel 1962 girarono un bellissimo documentario i cineasti inglesi Robert M. Young e Michele Roem, c’è la borgata Danisinni. Il nome è di derivazione araba e indica una delle sorgenti, “Ayu’abi Sa Idin” (la fonte di Abu Said), che alimentava il Papiro che qui cresceva rigoglioso e, racconta la leggenda, proprio attraverso la grotta di Danisinni, riceveva le acque del Nilo. Oppure, secondo una radicata tradizione popolare, prese il nome da una bella principessa figlia del walì Abu Said. Borgata di povertà assoluta, vicoli stretti, piccole vecchie case malandate, edifici diroccati, sta risorgendo anche grazie al lavoro dei frati Cappuccini di Fra Mauro, una sorta di Massimo Cacciari più giovane con il saio e i sandali. Ci arrivo alle 11 di una domenica di sole accecante. Sui muri e persino sui bidoni dell’immondizia murales e graffiti. La cappella della chiesa dove Fra Mauro celebra i battesimi è piena, sicché molti seguono la cerimonia da una piccola cappella attigua dove è montato uno schermo. Mentre mostra con orgoglio la Fattoria sociale dove accanto agli orti pascolano oche, somari e galline, Fra Mauro racconta: «Qui vivono famiglie molto povere (circa 2.000 persone) ma con grande capacità di resilienza. Ci sono molti immigrati, in prevalenza marocchini che vivono di espedienti. Qui la rigenerazione urbana nasce dalla rigenerazione del tessuto umano insieme al tessuto ambientale. Per riscattare l’esclusione sociale servono passione e cultura, non solo risorse. Abbiamo avviato progetti di turismo sociale, sfruttando la nostra collocazione al centro del camminamento arabo-normanno tra Palazzo Reale e il castello della Zisa. Abbiamo appena stipulato un accordo con Airbnb che prevede la possibilità di poter affittare ai turisti, e già funziona l’accordo con un’associazione che si chiama Sicilscatta: un percorso fotografico che si conclude con un pranzo cucinato dalle famiglie della borgata che usano i prodotti della nostra Fattoria Sociale». L’accoglienza, qui non è qualcosa che viene dall’esterno, è connaturata alla vita reale: «È rimasto un senso di comunità», racconta Fra Mauro, «chi cucina condividendo con chi ha meno non fa differenza tra palermitani e immigrati. L’unica alternativa alla xenofobia è la riscoperta dell’umanità: se ascolti l’altro, se lo vedi nella sua concreta dimensione umana lo accetti, se alzi un muro non lo vedi. Il nostro popolo vive un sentimento empatico perché chi è povero, chi vive la fatica quotidiana del vivere si apre alla relazione con l’altro». Mi accorgo con lo stupore del vecchio cronista che ha battuto questi marciapiedi raccontando la violenza mafiosa che finora di mafia non ho parlato. Mentre è lunghissimo l’elenco di tutte le iniziative culturali che accompagnano la Palermo capitale della cultura 2018. È forse il cambiamento più grande di una città che, dice Evelina Santangelo, «si definiva contro, come antimafiosa e che ora può rivelare una sua identità positiva». Tutto ciò è reso possibile da un’azione del Comune che è economica (circa 35 milioni di spesa per il sociale e 8 per i migranti) ma che soprattutto fa leva su questa nuova identità per attrarre capitali e iniziative private. «Palermo», spiega Orlando mentre mi fa visitare i Cantieri della Zisa, dove vivono una quantità di attività private sostenute dal Comune ma autofinanziate che danno lavoro a circa 400 persone, «è la città che è cambiata di più negli ultimi quarant’anni: da capitale della mafia con il primo cittadino che era insieme sindaco e capo della mafia, a capitale della cultura con un sindaco che è lo stesso che per primo ha cacciato la mafia fuori dal palazzo della città. Liberarsi da quella legge del sangue che è la base del razzismo e della xenofobia, è una grande operazione culturale che spezza la cultura mafiosa, che è cultura del sangue». Qualche numero per rendere l’idea del melting pot palermitano: a Palermo risiedono 25 mila stranieri, provenienti da 128 Paesi diversi, rappresentati da una Consulta delle Culture di 21 eletti che eleggono a loro volto un presidente che li rappresenta in consiglio comunale. «Di questo cambiamento culturale dobbiamo ringraziare soprattutto i migranti», afferma il sindaco, «Palermo, città migrante, per cento anni ha rifiutato i migranti: le uniche migranti erano distinte signore tedesche, rumene, austriache, francesi che avevano cura di noi bambini della Palermo aristocratica. Oggi Palermo grazie all’arrivo e all’accoglienza dei migranti ha recuperato la propria armonia perduta: davanti alle moschee passeggiano musulmani, la comunità ebraica realizza una sinagoga e, qua e là, a decine sorgono templi hindu e buddisti. Oggi grazie alla presenza di migliaia di cosiddetti migranti, i palermitani scoprono il valore dell’essere persona e difendono i diritti umani, i loro diritti umani. Una ragazza disabile in sedia a rotelle, palermitana, mi ha detto: “Grazie Sindaco, da quando accogliamo i migranti io mi sento più eguale, più normale, meno diversa”. E se cominciassimo a puntare in alto? Ad accettare che i migranti ci aiutino a recuperare il ruolo del merito? Non più a chi appartieni? Ma finalmente chi sei? Chi hai deciso di essere, cosa sai fare? Don Pino Puglisi, il mio carissimo amico Pino, non combatteva la mafia con le armi e con le denunce, chiedeva venisse rispettato il diritto dei bambini del quartiere di avere una scuola, una scuola degna di questo nome e non più una scuola collocata in appartamenti di proprietà di mafiosi lautamente ricompensati con canoni di affitto gonfiati. A Palermo difendiamo l’unica razza: quella umana. Non ci sono migranti a Palermo: chi vive a Palermo è palermitano. E chi distingue gli esseri umani secondo le razze prepara Dachau e Auschwitz».
Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.
Quei cazzotti a Falcone. Due o tre cose che bisognerebbe sapere sul rapporto tra Falcone e Leoluca Orlando, scrive Anna Germoni su Panorama. L’ennesimo cazzotto a Giovanni Falcone. Nemmeno di fronte alla morte, si fermano gli attacchi e le polemiche. Si specula, si distorce, si spiega il suo nome per una manciata di voti. Perché non parlare di programmi, di piattaforme, di riforme, di contenuti del suo movimento? No, il leader di Rivoluzione Civile, Antonio Ingroia, non si arresta di fronte a nulla. Eppure di motivi per stare in silenzio ce ne sarebbero: come lo scontro Orlando-Falcone, che culminò con l’ennesimo calvario del giudice di doversi difendere davanti al Csm. E Leoluca Orlando è anche uno dei primi firmatari di quel movimento di Ingroia. E allora diventa imbarazzante, non ricordare la storia. Nell’agosto del 1989 inizia a collaborare con i magistrati il mafioso Giuseppe Pellegritti, fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe Fava rivelando al magistrato Libero Mancuso di essere a conoscenza, di fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Mancuso informa subito Falcone, il quale interroga il pentito il 17 agosto. Il giudice si muove rapidamente e il 21 agosto parte una richiesta istruttoria dalla Procura di Palermo. Negli atti depositati, Falcone spiega che il pentito non sta dicendo la verità. Il giorno dopo, Pellegritti viene interrogato dalla Corte d’Assise d’Appello nel carcere di Alessandria, dove conferma il teorema su Lima mandante dell’omicidio Mattarella. Il 4 ottobre, Falcone dopo due mesi di indagini, appurando la sua totale inaffidabilità, firma un mandato di cattura per "calunnia continuata" contro Pellegritti. È una reazione dura ma necessaria. Subito si scatena la canea contro Giovanni Falcone. La versione corrente è che il magistrato vuole proteggere Andreotti e Lima, cioè il potere. Leoluca Orlando Cascio dichiara guerra a Falcone. E proprio da una puntata della trasmissione Sarmarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre, il 24 maggio 1990 il sindaco di Palermo lancia un’accusa gravissima: il pool ha una serie di omicidi eccellenti a Palermo e li tiene «chiusi dentro il cassetto». A questa denuncia si associano gli uomini del movimento La Rete: Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e Nando Dalla Chiesa. In particolare si fa riferimento a una serie di documenti, otto scatole sigillate negli uffici giudiziari e a un armadio pieno di carte, lasciato da Rocco Chinnici. Galasso, Mancuso e Orlando fanno esposto al Csm, l’11 settembre 1991. L’avvocato Giuseppe Zupo, avvocato di parte civile della famiglia Costa, recapita, sempre al civico del Palazzo dei Marescialli, due memorie, proprio su questi otto pacchi, sottolineando “il mancato esame… e di doveri trascurati”. Falcone ormai è sotto tiro. E anche i giornali intraprendono una battaglia di fuoco tra di loro. La Repubblica, del 20 maggio 1990, titola un’intervista di Silvana Mazzocchi a Falcone, con I nomi, altrimenti stia zitto…, dove il giudice replica:” Se il sindaco sa qualcosa faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma tutta la responsabilità di quello che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati…”. Il sindaco di Palermo ribatte attraverso L’Unità del 14 agosto 1991, a firma di Saverio Lodato, Indagate sui politici, i nomi ci sono. Per un anno Leoluca Orlando Cascio, come un martello pneumatico, bombarda Falcone con le stesse accuse. Lo fa con ogni mezzo: interviste su giornali, tv e conferenze stampa. Intercede anche Cossiga, ma il sindaco di Palermo non si placa. Il capo dello Stato allora il 16 agosto 1991 scrive una lettera al Guardasigilli Claudio Martelli e ne manda copia al presidente del Consiglio e al ministro dell’Interno affinché sulla “già nota teoria di Orlando”, “venga aperta un’inchiesta affidata all’autorità giudiziaria al di fuori della Sicilia”. (Leoluca Orlando Cascio, recentemente ha dichiarato di non pentirsi della polemica con Falcone e che “oggi dichiarerebbe le stesse cose”). Il Csm, dopo l’intervento di Cossiga, l’esposto di Galasso, Mancuso, Orlando e dell’avvocato Zupo, convoca Falcone. Ormai non si contano più le sue audizioni dentro al Palazzo dei Marescialli. E’ il 15 ottobre 1991 quando depone davanti al Csm, in un’udienza riservata. Ecco che cosa Falcone dichiara nel verbale (il n. 61): «Se c’è stata preoccupazione, da parte nostra, è stata proprio quella di non confondere le indagini della magistratura nella guerra santa alla mafia… Adesso non si parla di prove nel cassetto perché i cassetti sono stati svuotati. Essere costretto a scrivere all’Unità che non è certo carino scrivere – dopo che si presenta questo memoriale - Falcone preferì insabbiare tutto. Quando nel corso di una polemica vivacissima fra Orlando e altri, una giornalista mi chiese che cosa pensassi di Orlando, io ho detto “ma cosa vuole che possa rispondere di un amico”, ecco, dopo poche ore, tornato in sede, ho appreso quell’attacco riguardante le prove nei cassetti. Se vogliamo dirlo questo mandato di cattura non è piaciuto, perché dimostrava e dimostra che cosa? Che nonostante la presenza di un sindaco come Orlando la situazione degli appalti continuava a essere la stessa e Ciancimino continuava ad imperare, sottobanco, in queste vicende. Difatti sono stati arrestati non solo Ciancimino, ma anche Romolo Vaselli, e Romolo Vaselli è il factotum di Vito Ciancimino per quanto attiene alle attività imprenditoriali. Devo dire che, probabilmente, Orlando e i suoi amici hanno preso come un inammissibile affronto alla gestione dell’attività amministrativa del comune un mandato di cattura che, in realtà, si riferiva a una vicenda che riguardava episodi di corruzione molto seri, molto gravi, riguardanti la gestione del comune di Palermo…la Cosi e la Sico (due imprese romane n.d.r.) durante la gestione Orlando… quegli stessi appalti che le imprese di Ciancimino si sono assicurati durante la gestione Orlando. La Cosi e la Sico, due imprese, che erano Cozzani e Silvestri che si trovavano a Palermo con tutte le attrezzature, materiale e con il personale umano di Romolo Vaselli, che è un istituzione a Palermo, il conte Vaselli”. Poi Falcone si sfoga: «Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo…Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è per adesso a Palermo». Questo diceva Falcone. Dopo la sua morte fu Ilda Boccassini, senza tanti giri di parole, a denunciare: “Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento”.
Quando Leoluca Orlando (e l’antimafia) infangavano Giovanni Falcone, scrive Filippo Facci il 20 maggio 2012 su Il Post. Un ricordo controcorrente del magistrato ucciso 26 anni fa. Ci sono molti modi per ricordare Giovanni Falcone. Noi abbiamo scelto quello che Filippo Facci, cronista che da anni fa un efficace controcanto al giustizialismo, scrisse 6 anni fa sulla querelle tra Leoluca Orlando, ‘paladino della legalità’, la trasmissione di Michele Santoro e lo stesso Falcone. Una storia rimasta sottotraccia per molti, troppi anni.
È la storia, questa, di un tradimento orribile da raccontare proprio nei giorni in cui Leoluca Orlando potrebbe diventare sindaco di Palermo per la terza volta, e che sono gli stessi giorni nei quali si celebra il ventennale della morte di Giovanni Falcone. Difatti «Orlando era un amico», racconta oggi Maria Falcone, sorella di Giovanni. «Erano stati amici, avevano pure fatto un viaggio insieme in Russia… Orlando viene ricordato soprattutto per quel periodo che in molti chiamarono Primavera di Palermo, ma anche per lo scontro durissimo che ebbe con Giovanni e che fu un duro colpo, distruttivo per l’antimafia in generale». Uno scontro che va raccontato bene, al di là della dignitosa discrezione adottata da Maria Falcone in Giovanni Falcone, un eroe solo da lei scritto di recente per Rizzoli. Siamo nei tardi anni Ottanta. Leoluca Orlando, tuonando contro gli andreottiani, era diventato sindaco nel 1985 e aveva inaugurato la citata Primavera di Palermo che auspicava un gioco di sponda tra procura e istituzioni. Però, a un certo punto, dopo che il 16 dicembre 1987 la Corte d’assise di Palermo aveva comminato 19 ergastoli nel cosiddetto «maxiprocesso», qualcosa cambiò. Tutti si attendevano che il nuovo consigliere istruttore di Palermo dovesse essere lui, Falcone: ma il Csm, il 19 gennaio 1988, scelse Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità. E a Falcone cominciarono a voltare le spalle in tanti. Con Orlando, tuttavia, vi fu un episodio scatenante: «Orlando ce l’aveva con Falcone», ha ricordato l’ex ministro Claudio Martelli ad Annozero, nel 2009, «perché aveva riarrestato l’ex sindaco Vito Ciancimino con l’accusa di essere tornato a fare affari e appalti a Palermo con sindaco Leoluca Orlando, questo l’ha raccontato Falcone al Csm per filo e per segno». Il fatto è vero: fu lo stesso Falcone, in conferenza stampa, a spiegare che Ciancimino era accusato di essere il manovratore di alcuni appalti col Comune sino al 1988: si trova persino su YouTube. Quando Falcone accettò l’invito di dirigere gli Affari penali al ministero della Giustizia, poi, la gragnuola delle accuse non poté che aumentare. Fu durante una puntata di Samarcanda del maggio 1990, in particolare, che Orlando scagliò le sue accuse peggiori: Falcone – disse – ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti. Per l’esattezza il riferimento era a otto scatole lasciate da Rocco Chinnici e a un armadio pieno di carte. Le trasmissioni condotte da Michele Santoro erano dedicate a una serie di omicidi di mafia, e «io sono convinto», tuonò Orlando, «che dentro i cassetti del Palazzo di Giustizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza su quei delitti». L’accusa verrà ripetuta a ritornello anche da molti uomini del movimento di Orlando, tra i quali Carmine Mancuso e Alfredo Galasso. Divertente, o quasi, che tra gli accusati di vicinanza andreottiana – oltre a Falcone – figurava anche il suo collega Roberto Scarpinato, cioè colui che pochi anni dopo istruirà proprio il processo per mafia contro Andreotti. È di quei giorni, comunque, uno slogan di Orlando che fece epoca: «Il sospetto è l’anticamera della verità». Falcone rispose a mezzo stampa: «È un modo di far politica che noi rifiutiamo… Se Orlando sa qualcosa faccia i nomi e i cognomi, citi i fatti, si assuma la responsabilità di quel che ha detto, altrimenti taccia. Non è vero che le inchieste sono a un punto morto. È vero il contrario: ci sono stati sviluppi corposi, con imputati e accertamenti». Ma Orlando era un carroarmato: «Diede inizio», scriverà Maria, a una vera e propria campagna denigratoria contro mio fratello, sfruttando le proprie risorse per lanciare accuse attraverso i media». Così aveva già fatto nell’estate del 1989, quando il pentito Giuseppe Pellegriti accusò il democristiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti palermitani: Falcone fiutò subito la calunnia ma Orlando si convinse che il giudice volesse proteggere Lima e Andreotti. «Seguirono mesi di lunghe dichiarazioni e illazioni da parte di Orlando, che voleva diventare l’unico paladino antimafia», ha scritto ancora Maria Falcone. Del fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, vicino a Palermo, torneremo a scrivere nei prossimi giorni. Per ora appuntiamoci soltanto quanto scrisse il comunista Gerardo Chiaromonte, defunto presidente della Commissione Antimafia: «I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità». Orlando era instancabile. Tornò alla carica il 14 agosto 1991, quando rilasciò un’intervista su l‘Unità poi titolata «Indagate sui politici, i nomi ci sono»: «Sono migliaia e migliaia i nomi, gli episodi a conferma dei rapporti tra mafia e politica. Ma quella verità non entra neppure nei dibattimenti, viene sistematicamente stralciata, depositata, e neppure rischia di diventare verità processuale… Si è fatto veramente tutto, da parte di tutti, per individuare responsabilità di politici come Lima e Gunnella, ma anche meno noti come Drago, il capo degli andreottiani di Catania, Pietro Pizzo, socialista e senatore di Marsala, o Turi Lombardo? E quante inchieste si sono fermate non appena sono emersi i nomi di Andreotti, Martelli e De Michelis?». Orlando citò espressamente, tra i presunti insabbiatori, «la Procura di Palermo» e implicitamente Falcone. Per il resto, tutte le accuse risulteranno lanciate a casaccio. Poco tempo dopo, il 26 settembre 1991, al Maurizio Costanzo Show, ad attaccare Falcone fu il sodale di Orlando, Alfredo Galasso. Lo stesso Galasso assieme a Carmine Mancuso e a Leoluca Orlando, l’11 settembre precedente, aveva fatto un esposto al Csm che sarà il colpo finale: si chiedevano spiegazioni sull’insabbiamento delle indagini sui delitti Reina, Mattarella, La Torre, Insalaco e Bonsignore e anche sui rapporti tra Salvo Lima e Stefano Bontate e sulla loggia massonica Diaz e poi appunto sulle famose carte nei cassetti. Così, dopo circa un mese, il 15 ottobre, Falcone dovette vergognosamente discolparsi davanti al Csm. Non ebbe certo problemi a farlo, ma fu preso dallo sconforto: «Non si può andare avanti in questa maniera, è un linciaggio morale continuo… Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo». Racconterà Francesco Cossiga nel 2008, in un’intervista al Corriere della Sera: «Quel giorno lui uscì dal Csm e venne da me piangendo. Voleva andar via». Anche della strage di Capaci torneremo a raccontare. Ora restiamo a Orlando, e a quando il 23 maggio 1992, a macerie fumanti, da ex amico e traditore si riaffaccerà sul proscenio come se nulla fosse stato. Il quotidiano la Repubblica gli diede una mano: «A mezzanotte e un quarto una sirena squarcia il silenzio irreale del Palazzo di Giustizia di Palermo. Arriva Antonio Di Pietro da Milano, il giudice delle tangenti, il Falcone del Nord… Con lui ci sono Nando Dalla Chiesa, Carmine Mancuso e Leoluca Orlando». Cioè parte degli accoltellatori, quelli dell’esposto al Csm. Proprio loro. Partirà da quel giorno un macabro carnevale di sfruttamento politico, editoriale, giudiziario e «culturale» dell’icona di un uomo che ne avrebbe avuto soltanto orrore. Il 25 gennaio 1993, intervenendo telefonicamente a Mixer su Raidue, Maria Falcone disse a Leoluca Orlando: «Hai infangato il nome, la dignità e l’onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato. Hai approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario». Il 18 luglio 2008, intervistato da KlausCondicio, Orlando l’ha messa così: «C’è stata una difficoltà di comprensione con Giovanni Falcone». Una difficoltà di comprensione. E poi: «Ma ridirei esattamente le stesse cose… Ho avuto insulti ai quali non ho mai replicato, perché credo che sia anche questa una forma di rispetto per le battaglie che io ho fatto… (pausa, poi aggiunge) … e che Giovanni Falcone meglio di me ha fatto, perché trascinare una storia straordinaria come quella di Falcone dentro una polemica politica, francamente, è cosa di basso conio». E lui non l’avrebbe mai fatto. Filippo Facci
Leoluca Orlando, l’araba fenice della politica italiana. Chi è il sindaco di Palermo che ha sfidato il ministro Salvini e il suo decreto Sicurezza, scrive Paolo Delgado il 4 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Claudio Martelli, all’epoca, nei tardi anni 80 del secolo scorso, ministro della Giustizia e delfino di Bettino Craxi, lo chiamava sempre e solo “Leoluca Orlando Cascio”, per segnalare presunti rapporti di suo padre, l’avvocato Salvatore Orlando Cascio, con le cosche siciliane. Per Martelli il democristiano Leoluca, sindaco di Palermo dal 1985 al 1990, gran fustigatore di politici in particolare del suo stesso partito oppure degli alleati socialisti, era la vera “bestia nera”, un moralista finto che adoperava la retorica antimafia per farsi pubblicità, e allo stesso modo sembrava pensarla l’allora capo dello Stato, Francesco Cossiga. Ragazzo di buona famiglia, con una rarissima malformazione fisica, la sindrome di Katagener, per cui ha il cuore a destra e il fegato a sinistra, quattro casi in tutto il mondo, Leoluca, avvocato come il padre, si era formato all’estero, in Germania e nel Regno unito. Poi, al ritorno, nei primissimi anni 80 aveva scelto la politica nella Dc, diventando subito consigliere del presidente della Regione Piersanti Mattarella. Mattarella, anche lui figlio degenere di un politico sospetto di collusioni con Cosa nostra nonché fratello dell’attuale capo dello Stato, era la Dc dal volto pulito, antagonista diretto di quell’altro pezzo di scudocrociato che nell’isola di pulito aveva ben poco: quello del sindaco democristiano e picciotto corleonese Vito Ciancimino, dell’onnipotente proconsole Salvo Lima e quindi anche di Giulio Andreotti. Quando Mattarella fu ammazzato da Cosa nostra, il rampollo democristiano si ingraziò il partito accusando di fronte ai giudici gli interi vertici dello scudocrociato siculo di essere responsabili dell’omicidio. Eletto consigliere comunale nel 1985 si ritrovò sindaco pochi mesi dopo e prese di mira subito gli andreottiani all’interno del partito e i craxiani all’esterno. La maggioranza che supportava la sua giunta era spuria e singolare, molto diversa, nonostante la presenza della Dc, da quella che reggeva il Paese negli anni del cosiddetto Caf, il triumvirato Craxi- Andreotti- Forlani. Tra i cinque partiti che sostenevano il sindaco c’erano i Verdi ma non i socialisti, né i repubblicani. Poi, nell’ 89, arrivò pure il Pci, per la prima volta in una maggioranza a Palermo. Per il divo Giulio fu troppo. Orlando fu costretto alle dimissioni nel gennaio 1990. Non che nei percorsi del sindaco legato da quel momento all’immagine, e anche un po’ alla mitologia, della “primavera di Palermo” fosse tutto rose e fiori. Come sindaco non mancavano le critiche ma soprattutto Orlando fece un clamoroso passo falso accusando Giovanni Falcone di complicità con i politici che proteggevano Cosa nostra. Una brutta storia, iniziata quando nel luglio 1989 Giuseppe Pellegritti, mafioso, si pentì promettendo rivelazioni di portata nucleare sugli omicidi Mattarella e La Torre, esponente del Pci, ammazzato come Mattarella, e per motivi identici. L’uomo d’onore accusava senza mezzi termini Lima di aver ordinato l’uccisione di Mattarella. Falcone approfondì, indagò, arrivò alla conclusione che le rivelazioni di Pellegritti non avevano elementi a sostegno: lo accusò di falsa testimonianza e calunnia continuata. Orlando, con tutto il movimento che aveva nel frattempo fondato, La Rete, partì lancia in resta. Nel corso di uno di quei processi mediatici di piazza che Michele Santoro animava allora nella sua trasmissione Samarcanda accusò Falcone di tenere “chiusi nei cassetti” documenti esplosivi lasciati dal giudice Rocco Chinnici, il fondatore del pool antimafia anche lui assassinato dai killer di Totò Riina. Non si fermò lì, Orlando. Per due anni martellò con le sue accuse, il caso diventò una tempesta nazionale. Intervenne il presidente Cossiga e il Csm convocò e “interrogò” a lungo il magistrato che più di ogni altro aveva inflitto un colpo quasi mortale a Cosa nostra. E’ possibile, forse probabile, che quell’isolamento abbia se non altro aiutato don Totò a decidere di farla finita con Falcone a Capaci. Ironia della storia, proprio l’uccisione di Falcone riportò Orlando sulla poltrona di sindaco per la seconda volta. A Palermo, in quei giorni, successe il finimondo. Istrionico, Leoluca partecipò a una quasi occupazione del comune e si sedette simbolicamente sulla poltrona dalla quale lo avevano sloggiato. Nel novembre del 1993, dopo essere stato prima deputato regionale e poi nazionale eletto con le liste della sua Rete, dopo essere stato tra i pochissimi politici a opporsi alla cancellazione del proporzionale nello storico referendum dell’aprile 1993, tornò primo cittadino nelle prime elezioni dirette del sindaco. Di cariche Orlando non se ne è mai fatte mancare. Da sindaco si fece eleggere nel 1994 europarlamentare. Nel 2000, già al secondo mandato consecutivo, rassegnò le dimissioni per candidarsi alla presidenza della Regione. Fu sconfitto proprio da uno di quegli ex democristiani della vecchia scuola, Totò Cuffaro, contro i quali si era scagliato nei già lontani anni 80. Nel frattempo La Rete si era sciolta. Il sindaco di Palermo per eccellenza era finito nella Margherita, tornando alle origini, alla sinistra Dc, salvo venir messo alla porta da Rutelli dopo aver sostenuto nel 2006 la candidatura di Rita Borsellino alla presidenza della Regione in contrasto con il candidato sostenuto dalla Margherita Latteri. L’ingresso nell’Italia dei Valori di Di Pietro, a quel punto, era un passaggio quasi obbligato. Diventò subito “portavoce” di quel partito nel suo effimero momento di successo sfruttando però la postazione per candidarsi di nuovo e con successo, nel 2012, a sindaco di Palermo. Attualmente Leoluca è al quinto mandato come sindaco di Palermo e rappresenta, a modo suo, un modello. Più volte sparito dalla grande scena nazionale, è sempre risorto, come un’araba fenice della politica, rifugiandosi nella sua città, dove esercita da oltre trent’anni un ruolo centralissimo e incontrastato. E la sua parabola insieme locale e nazionale non pare affatto vicina a declinare.
Per attaccare Salvini, il giornale "rosso" si inventa pure una frase di Hitler. Left ha creato un'immagine sui social paragonando Salvini a Hitler. Il motivo? Una frase del vice premier "Chi aiuta i clandestini, odia gli italiani" paragonata a una identica del Fuhrer. Peccato che quella frase non esiste..., scrive Agostino Corneli, Domenica 06/01/2019 su "Il Giornale". Matteo Salvini è ancora al centro delle attenzioni di Left, giornale che si dichiara di sinistra. Questa volta, la rivista ha pubblicato sui social un'immagine (ormai diventata virale) dove si mettono a confronto Salvini e Adolf Hitler partendo da una frase del primo (''Chi aiuta i clandestini, odia gli italiani'') e che secondo Left è molto simile a una frase che avrebbe detto il dittatore tedesco (''Chi aiuta gli ebrei, odia i tedeschi''). L'attacco non è una novità per la sinistra: ma quello che è interessante è quello che ha scritto Il Dolomiti: la frase di Hitler, infatti, è introvabile. Questo non significa che Hitler non possa averla detta da qualche parte. Ma nei testi del leader nazionalsocialista non si trova. Come afferma la testata: "Il nostro Anansi (alias Stefano Bannò) che tra un concerto e l'altro, in questi anni, ha trovato il tempo di ottenere una laurea triennale in lettere classiche (con tesi in storia del cristianesimo) e una magistrale in Filologia e Critica Letteraria (oltre oggi a svolgere un dottorato in ''Le forme del testo'' sempre al Dipartimento di Lettere dell’Università di Trento) ha scritto al giornale di sinistra chiedendo se esistessero fonti su quella citata frase di Hitler e la risposta di Left è parsa davvero incredibile: ''Il mein kampf, l'olocausto, le leggi razziali, una quindicina di anni di nazismo possono bastare?'". E di fronte alla nuova richiesta del blogger, la risposta di Left è ancora più assurda: "È stata estrapolata dalla Storia''. Insomma, la frase incriminata non si trova in nessun testo di Hitler, ma in compenso, l'immagine di Salvini paragonato al dittatore tedesco continua a circolare sui social network. Evidentemente, per attaccare il ministro dell'Interno, vale anche inventarsi frasi di personaggi storici. Tanto che la risposta del "giornale di sinistra" è ancora più comica: "Voi che ne pensate, i nipotini del Furher (sic) ci quereleranno per diffamazione? Per aver messo in bocca a Hitler una frase razzista e antisemita?''. Una risposta che appare ancora più assurda se si pensa che è proprio quella rivista ad accusare gli altri di mistificare la realtà.
La sinistra si adegui: gli italiani di immigrati non vogliono più saperne. Si chiama democrazia, scrive Cristiano Puglisi su Il Giornale il 4 gennaio 2019. Il dibattito che in queste ore sta avvolgendo il Decreto Sicurezza è francamente stucchevole e ridicolo. Lo dicono i costituzionalisti, lo dice la legge. Il decreto va rispettato e fatto rispettare e i sindaci che non lo applicheranno dovranno essere eventualmente puniti con gli strumenti che le norme prevedono. Punto. Non ci sono storie. Osceno il comportamento di certa stampa che parla di “sindaci contro il Governo”, come se tutti i primi cittadini d’Italia stessero sollevando criticità di natura tecnica sul provvedimento del Ministero dell’Interno… Poi basta leggere i nomi (Orlando, De Magistris, Nardella) e tutto si chiarisce: ma quali sindaci, i personaggi coinvolti sono prima di tutto esponenti del PD e delle sinistre, cioè di una parte politica agonizzante e punita dagli elettori a marzo dello scorso anno. E che, se continua così, lo sarà senza dubbio anche il prossimo mese di maggio…Sbagliato, sbagliatissimo anche il comportamento del premier Conte, che ha aperto a un confronto con il presidente dell’ANCI Decaro. Perché Decaro, appunto, non parla a nome dell’Associazione nazionale dei comuni d’Italia, alla guida della quale, nel 2016, è stato eletto da una maggioranza di amministratori di sinistra (non si faccia finta di non saperlo, per favore), ma del suo partito, cioè il Partito democratico, formazione che sogna, insieme a un manipolo di veri e propri eversori (come altro definirli…), di fregarsene delle leggi dello Stato e delle norme che reggono la democrazia. Ma le leggi sono leggi e in un regime democratico-rappresentativo, essendo queste il frutto di una maggioranza parlamentare espressione della volontà popolare, si rispettano. Così come si dovrebbero rispettare se il popolo votasse in massa per una maggioranza che intendesse approvare lo ius soli. O le adozioni gay. Purtroppo per i professionisti della mistificazione di sinistra, però, gli italiani oggi la pensano diversamente. E meno male. Se ne facciano una ragione quindi. Sarà razzista, sarà xenofobo, sarà quello che pare a loro, ma di immigrati, cioè di nuovi poveri che possono solo incrementare le situazioni di degrado, gli italiani, che non arrivano a fine mese, che non hanno lavoro, che vivono nell’insicurezza, che già sono pieni di imbecilli a casa propria (vedi alla voce ultras, centri sociali, dementi che infilano petardi negli orifizi di bestie indifese, eccetera) non ne vogliono più sapere. Questa è democrazia. Si adeguino.
· Quelli che…porte girevoli.
La Germania lancia l’allarme: migranti respinti rientrano in Europa. Andrea Massardo su it.insideover.com il 2 dicembre 2019. I flussi migratori degli ultimi anni hanno messo il sistema di accoglienza europeo sotto continuo stress. Non sono stati soltanto gli Stati di confine, come l’Italia, la Spagna e la Grecia a subire il colpo, ma anche Paesi interni come la Germania e la Svezia. Mentre gli organismi di accoglienza e le forze dell’ordine spendono le loro forze per permettere al maggior numero di persone idonee di ottenere i regolari permessi, il loro lavoro viene ostacolato da un fenomeno che costringe ad aumentare il numero dei controlli: il rientro dei migranti che, dichiarati non idonei, cercano di reintrodursi nel Paese. Secondo il rapporto di Welt am Sonntag, nel solo ultimo anno e indagando sul solo Stato tedesco, il numero di rientri irregolari per tentare nuovamente la domanda d’asilo è stato superiore alle 28mila unità senza considerare il numero di tutti coloro che hanno cercato di rendersi invisibili alle forze dell’ordine, tentando la permanenza da completi irregolari.
La situazione in Germania. La Germania è storicamente una delle mete più ambite dai migranti, in particolar modo di quelli provenienti dal Medio Oriente, dalla Turchia e dall’Africa settentrionale. Per via delle migliori condizioni di vita e della più alta remunerazione è considerata al pari di un Paese idilliaco agli occhi di chi cerca di emigrarvi. In realtà però le cose stanno diversamente. Con il rischio della caduta in recessione tecnica e col generale rallentamento dei propri mercati, anche la Germania non è stata in grado di accogliere e smaltire i flussi di immigrazione degli ultimi anni. Ciò ha portato necessariamente ad un vaglio più accurato , con il conseguente respingimento di un numero più elevato di domande d’asilo: nell’interesse stesso degli emigrati che non sarebbero stati in grado di condurre una vita adeguata e regolare nel Paese. Tuttavia ed in seguito all’aumento dei rifiuti dei permessi di soggiorno, il numero di immigrati respinti che si presentano una seconda volta con differente nominativo è cresciuto, così come aumentano gli espulsi che non hanno mai lasciato il Paese, preferendo la macchia. In questa situazione le normali procedure di identificazione delle persone, della sicurezza degli abitanti della Germania e la garanzia del rispetto della legge divengono molto più difficili da perseguire. A destare particolare scalpore, come riportato sullo Spiegel Online, è stato il caso di Ibrahim Miri, fermato dopo aver depositato nuovamente la domanda di asilo a seguito di un’espulsione. Il cittadino libanese aveva già ottenuto oltre dieci condanne per reati che vanno dal traffico di droga alla rapina, passando per il furto e l’appropriazione indebita. Questo fatto ha spinto l’esponente del Csu, Andrea Lindholz, a presentare una proposta di legge che permettesse alle forze dell’ordine di trattenere sino all’esamina della nuova domanda il richiedente asilo che precedentemente avesse ottenuto già un rifiuto. Proposta che verrà però valutata dal Bundestag solo nei prossimi mesi.
La situazione italiana. Anche in Italia il fenomeno si è molto sviluppato a seguito dei processi migratori degli ultimi anni. Specularmente alla Germania, i cittadini stranieri che si vedono rifiutato il permesso di asilo faticano a lasciare il territorio italiano e, comunque, non in direzione del proprio Paese d’origine. Questo fenomeno ha contribuito in particolar modo all’aumento della criminalità organizzata, anche in virtù dell’impossibilità per l’individuo di potersi trovare regolarmente una collocazione lavorativa. Il rispetto della legge ed i relativi controlli divengono però complicati in questa giungla identificativa. Le forze dell’ordine devono infatti districarsi tra regolari in attesa della risposta ed irregolari che non hanno fatto una nuova domanda vivendo nell’ombra, oppure la hanno presentata dichiarando un altro nome e riprendendo l’iter dall’inizio. Il sistema dell’accoglienza però non è in grado di gestire una condizione del genere, con i danni del fenomeno che si riversano direttamente sulla popolazione con l’aumento della criminalità generica. Tuttavia, bisogna sottolineare come la mancanza di un apparato efficiente di rimpatrio degli espulsi abbia giocato un ruolo chiave nel suo sviluppo; punto sul quale l’esecutivo ha molto lavoro da svolgere nel prossimo futuro. In caso contrario, pensare di poter gestire l’accoglienza in un modo che si riveli utile alla società è una speranza semplicemente utopica.
· Disagio ideologico.
Disagio ideologico. Augusto Bassi su Il Giornale il 16 settembre 2019. Quando si verifica un atto di barbarie che coinvolge qualche esotico convitato, il gretto sovranista in genere tuona: “Se solo certe brutalità si riversassero provvidenzialmente sulle corna degli accoglioni!”. Malauguratamente, la dissonanza cognitiva che affligge queste buonanime attiva processi di rielaborazione tali da far prendere con filosofia anche una mazza chiodata sui denti, pur di non guardare negli occhi la propria devastante imbecillità. E così è stato. Qualche giorno fa, il garrulo e vegeto Manaf, 24enne originario del Togo, si è reso protagonista del pestaggio di due donne nel sottopasso della stazione di Lecco. Il video – che sconsiglio ai più impressionabili – lascia “turbati”. La vittima della seconda tranvata si chiama Elena, 56 anni, ed è un medico neurologo. Finita all’ospedale con una vertebra incrinata, la signora ha avuto la forza d’animo e la presenza di spirito – straordinarie, viste le circostanze – di essere immediatamente precettiva sulle pagine multimediali del Corriere della Sera: «Il disagio psichico non conosce le razze; niente discriminazioni». Ora, al di là dell’excusatio non petita – benché sia facile immaginare il lubrico approccio dell’inviato – si apprezza in filigrana tutta la cancerosa consistenza del disagio ideologico. Di cui possono soffrire persino i medici neurologi. Benché espresso con una dotta locuzione da “competenti”, anche un gretto sovranista arriva vagamente a comprendere che cosa sia il disagio psichico e come possa colpire chiunque, incurante di razze e culture. Solo intercetta, con i metodi sbrigativi dell’empiria, tanto la significativa coincidenza fra disagi psichici e gente di provenienza esotica, quanto la bonaria faciloneria con cui si maneggiano tali disturbi proprio quando colpiscono il “povero negro”. Manaf non era arrivato con i barconi, certo; viveva in Italia da tanti anni. Ma da tanti anni era problematico. Mostrava segni evidenti di aggressività e sbalzi d’umore – come ricorda Bruno Corti, coordinatore della comunità dove era stato accolto. Eppure era libero di pascolare in giro, gratificandosi l’uzzolo di sbatacchiare a terra come un polpo su uno scoglio finanche un medico neurologo donna. Medico neurologo donna che, malmenato con piglio poco femminista dall’energumeno, non ha sentito l’esigenza logico-razionale di chiedersi e chiedere al Corriere della Sera come mai questo squilibrato fosse libero di circolare e di prenderla a randellate… quanto piuttosto quella emotivo-ideologica di rassicurare le proprie convinzioni, riaffermando la Weltanschauung di regime – che le produce – con balsamiche parole di equanimità. Poche ore dopo, a Torino, l’attrice Gloria Cuminetti veniva presa a cazzotti senza motivo da un “passante”. Il passante – come xenofobicamente notato da ogni gretto sovranista – era marocchino. L’assalitore è stato fermato in via Cecchi dai militari del Nucleo Radiomobile, chiamati da alcuni testimoni. All’uomo è stata diagnosticata un’agitazione psicomotoria e un abuso di cannabinoidi. Il disagio ideologico, anche in questo caso, non potrà fare a meno di rimarcare come l’agitazione psicomotoria e l’abuso di cannabinoidi non siano patrimonio esclusivo dei marocchini. E noi gretti sovranisti converremo. L’implacabile app della stampa certificata che in tempo reale annuncia urbi et orbi di aggressioni razziste da parte di fascio-leghisti, attestando derive xenofobe nel nostro Paese, ha parecchie difficoltà di connessione quando le violenze sono perpetrate da africani contro italiani. Il titolo di Repubblica è, a tal proposito, un capolavoro di inettitudine manipolatoria: «L’attrice Gloria Cuminetti aggredita per strada da un balordo. E gli haters si scatenano contro di lei». Se vuoi stigmatizzare l’odio dei “razzisti”, devi segnalare che il balordo è un africano; perché se celi che il balordo è africano, non rendi comprensibile il razzismo che vorresti stigmatizzare, pirla! Pur con la dappocaggine di prammatica, in questo caso il corto circuito si risolve dunque prendendo di mira gli “haters”, che avranno canzonato la sventurata Cuminetti per le sue posizioni accoglientiste, dirottando la sfera emotiva dall’odio persecutore del marocchino a quello satirico dei commentatori. Purtuttavia, siamo ancora determinati a consolare i tarati buonoidi, osando persino oltre: da ora in avanti andremo infatti a trovare tutti i disagiati ideologici che saranno vittime di esotiche aggressioni direttamente nei loro letti di dolore, approdando in quelle isole di tolleranza con una barca a basso impatto ambientale – magari l’Ong Malizia II di Pierre Casiraghi – carica di squisiti sentimenti e di altro disagio psichico africano da accudire. Perché il disagio ideologico conosce le razze e noi non vogliamo discriminare al posto suo.
Il migrante la pesta, l'attrice lo giustifica: "Non ha mai ricevuto amore". Gloria Cuminetti era stata colpita al volto da un immigrato marocchino di 34 anni. Da lei parole di comprensione: "Credo che anche questa persona abbia subito delle ingiustizie nella vita, e non abbia ricevuto amore". Francesca Bernasconi, Martedì 17/09/2019, su Il Giornale. Gloria Cuminetti, l'attrice colpita con un pugno da un immigrato irregolare, mentre passeggiava per le vie di Torino, ha deciso di porgere l'altra guancia al suo aggressore. E lo fa rivolgendogli parole pietose e quasi comprensione. "Credo che anche questa persona abbia subito delle ingiustizie nella vita, e non abbia ricevuto amore", ha detto l'attrice in un'intervista al Corriere della Sera. Parole che rischiano di suonare come una giustificazione verso un atto che non può essere considerato altro se non violenza gratuita. "Mi sono chiesta perché vomitasse questa rabbia addosso alle persone e quali fantasmi avesse dentro. Ho avuto una sensazione di ingiustizia forte da subito, per lui: se hai ricevuto amore, dai amore, se non lo hai ricevuto, invece, vai in giro a picchiare la gente", dice ancora la Cuminetti, che non sembra provare rancora verso il marocchino 34enne, che l'ha aggredita, solamente perché ha avuto la sfortuna di incrociarlo per strada. Nessuna rabbia, contro l'uomo che le ha fatto perdere i sensi. Anzi, specifica che il fatto che il suo aggressore parlasse arabo non dovrebbe dare "adito a polemiche razziste e sterili, perché odio il chiacchiericcio da bar alla Salvini". Un atteggiamento, quello della Cuminetti, che suscita sicuramente ammirazione, ma che rischia di passare per quello di chi giustifica atti violenti, nascondendoli dietro alla mancanza di amore e facendo passare l'aggressore da carnefice a vittima. Sembra quasi, come scrive Libero, lo stesso principio di chi non denuncia la violenza domestica, addossandosi la colpa delle percosse e giustificandole con la mancanza di amore, comprensione e accoglienza. Ma non è così: un'aggressione, di qualsiasi natura, non potrà mai essere giustificata dalla sofferenza o dalla mancanza di attenzione.
La cronaca smaschera le ipocrisie degli immigrazionisti. Alessandro Gnocchi, 18 settembre 2019 su Nicola Porro. Si fa presto a dire: porti aperti. Meno semplice è spiegare quale sorte attenda gli immigrati che sbarcano sul nostro territorio. Infatti nessuno se ne cura, tra coloro che si stracciano le vesti affinché possano attraccare in Italia tutte le navi Ong che ne fanno richiesta. Ieri alla stazione di Milano uno yemenita di 23 anni ha aggredito un militare con un paio di forbici, gridando “Allah Akbar”. Immobilizzato e condotto in questura, il ragazzo ha raccontato una storia a suo modo (negativo) esemplare. Sbarca in Italia, prosegue per la Germania, viene identificato come fondamentalista, sulla base del Trattato di Dublino è rispedito in Italia. Già instabile di suo (afferma di sentire delle voci), viene travolto da islamismo e disperazione. Dice di non aver mangiato per tre giorni, di aver dormito per strada, di non poterne più. Uccidere un militare in nome di Allah gli sembrava una sorta di riscatto. Meglio ancora se nell’azione avesse trovato la morte. Ieri è venuta a galla una seconda vicenda gravissima. Il caporalato non esiste solo nei campi o nei cantieri ma anche per le strade delle nostre città. Avete presente i rider, i ragazzi che consegnano il cibo nelle nostre case sfrecciando in mezzo al traffico in bicicletta. Bene, anzi: malissimo, molti di loro sono clandestini che “comprano” il lavoro da chi ha i documenti in regola. Per svolgere regolarmente il lavoro, occorre accreditarsi con una App che poi genera i codici necessari per sapere dove recarsi e a chi consegnare. Niente App, niente lavoro. Ma la App si può avere solo con i documenti in regola. I clandestini dunque la comprano per cifre esorbitanti, riducendosi a schiavi. Tra l’altro, svolgono un mestiere pericoloso. Se hanno un incidente però devono tacere, altrimenti vengono identificati. Ecco, gli immigrazionisti dovrebbero forse tenere conto di queste storie di “normale” sfruttamento. Non basta essere buoni e spalancare le porte. Bisogna anche essere realistici: se questo è quello che abbiamo da offrire, forse sarebbe meglio controllare l’immigrazione…Alessandro Gnocchi, 18 settembre 2019
Il migrante che ha pugnalato il militare è arrivato in Italia con un corridoio umanitario. L'aggressore del militare davanti alla stazione centrale di Milano era già stato segnalato dall'antiterrorismo tedesco. Angelo Federici, Giovedì 19/09/2019, su Il Giornale. Fathe Mahamad, l'aggressore yemenita che lo scorso martedì ha colpito con delle forbici un militare, Matteo Toia, in stazione centrale a Milano, sarebbe un simpatizzante dello Stato islamico, anche se lui continua a proclamarsi innocente ("Non sono un terrorista). Sono scappato dallo Yemen perché c'era la guerra", ha detto ieri il giovane al pm Alberto Nobili). E a dirlo non sono tanto gli indizi raccolti in questi - l'urlo Allah Akbar (esclamazione in uso in tutto il mondo musulmano e che non sempre ha a che fare con il terrorismo), le immagini e i video di guerra trovati nel suo telefonino - quanto l'antiterrorismo tedesco che, lo scorso 8 agosto, aveva allertato le nostre forze di polizia, indicando Mahamad come una persona "con simpatie per lo Stato islamico e che ha partecipato a scontri armati in Yemen". Lo riporta Il Corriere. Condivisa l'informazione, il Dipartimento centrale della polizia di prevenzione italiana aveva chiesto a tutte le questure l'obbligo di "comunicare con ogni consentita urgenza elementi informativi di dettaglio". Ovvero: bisognava segnalare qualsiasi dettaglio sulla presenza e i movimenti di Mahamad in maniera tempestiva, per evitare atti terroristici sul nostro suolo. Eppure - nota Il Corriere - quell'allerta non è mai stata inserita nello Sdi, "l'archivio delle forze di polizia", impedendo così l'arresto del presunto terrorista. Solamente 12 ore prima dell'attacco, infatti, Mahamad era stato fermato e fotosegnalato, sempre in stazione centrale, dopo che era saltato su una pensilina, pronunciando frasi deliranti e inveendo contro i passanti. La procura di Milano, però, fa sapere che quella tedesca sarebbe stata una "segnalazione generica e inconsistente". Chi è Fathe Mahamad, l'aggressore del militare in stazione centrale. Fathe Mahamad, 23 anni e di origine yemenita. È lui che lo scorso 17 settembre ha provato ad uccidere un militare colpendolo con delle forbici. Dopo esser fuggito dal suo Paese, dove avrebbe combattuto tra le fila dello Stato islamico, il presunto terrorista è fuggito in Libia e da qui sarebbe giunto in Italia. Ma ecco una prima anomalia in questa storia. Mahamad non sarebbe entrato nel nostro Paese con un barcone, ma con un volo di Stato nel 2017 (Il Giorno) attraverso un corridoio umanitario (Il Corriere). Da Roma, il richiedente asilo si sarebbe poi spostato a Bergamo e da qui in Germania (a Francoforte e a Monaco di Baviera) dove ha condotto, come molti aspiranti jihadisti, una doppia vita (vendeva abiti da donna e, allo stesso tempo) spacciava il khat, un alcaloide devastante. In Germania Mahamad avrebbe conosciuto persone vicine al terrorismo islamico e ne sarebbe rimasto affascinato. Il 12 luglio di quest'anno Mahamad torna in Italia, vivendo per un po' in un centro d'accoglienza a Mantova, da dove è scappato perché non riusciva a convivere con gli altri migranti ("parlavano tutti quanti inglese"). Il resto è (tragica) storia.
Ferisce un soldato: «Stanco di questa vita». Dalla Germania: «Simpatie islamiste». Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 da Corriere.it. «Ero stanco di questa vita, l’unico modo per farla finita era con questo gesto, volevo essere ucciso per raggiungere il paradiso di Allah». Così Mahamad Fathe, il 23enne yemenita che martedì ha ferito alla gola e alla schiena con delle forbici un militare alla stazione Centrale di Milano, ha spiegato, sentito dal pm Alberto Nobili e dai carabinieri, l’aggressione seguita poi dal grido di «Allah akbar». La richiesta di convalida dell’arresto e di custodia cautelare in carcere per le accuse di tentato omicidio aggravato dalle finalità terroristiche (non attentato con finalità terroristiche, come comunicato ieri) e di violenza a pubblico ufficiale inoltrata all’ufficio gip. Da fonti inquirenti viene precisato che la segnalazione alle autorità italiane da parte di quelle tedesche (il 23enne fu espulso e rimandato in Italia a luglio) era generica, incompleta e parlava di «simpatie islamiste», non di legami con l’Isis o di indagini. Gli inquirenti sono convinti che si sia trattato di un’azione solitaria di un uomo disperato che cercava il martirio.
Mahamad era segnalato come terrorista Ma poi ha ottenuto il permesso di soggiorno. Pubblicato giovedì, 19 settembre 2019 su Corriere.it da Andrea Galli e Cesare Giuzzi. L’8 agosto il Viminale ha girato alle questure l’allerta della polizia tedesca. A Mantova, il 23 agosto, la questura ha però firmato il permesso per motivi umanitari. Per due mesi e sette giorni, dall’espulsione il 12 luglio dalla Germania su un volo Monaco di Baviera-Malpensa all’attacco di martedì mattina, il terrorista Fathe Mahamad non soltanto ha vissuto in Italia da incensurato, ma ha anche ottenuto un permesso di soggiorno temporaneo di protezione internazionale. Un documento rilasciato il 23 agosto dalla questura di Mantova. La stessa che, con largo anticipo (l’8 di agosto, due settimane prima), aveva ricevuto una nota riservata del ministero dell’Interno che iniziava così: «Le autorità tedesche hanno comunicato — in ambito di collaborazione internazionale — che il cittadino yemenita in oggetto sarebbe stato indicato come persona “con simpatie per lo Stato Islamico e che ha partecipato a scontri armati in Yemen”». In Germania, Mahamad aveva vissuto tra Francoforte e Monaco prima vendendo abiti da donna, poi come spacciatore (e consumatore) di khat. In mezzo una accertata frequentazione di soggetti del radicalismo islamico. Motivo per il quale, sia pur in ritardo (a inizio agosto) rispetto all’espulsione di Fathe, la polizia tedesca, tramite il canale Interpol, aveva comunicato all’Italia la pericolosità dello yemenita. Secondo la classica procedura, quel messaggio è arrivato prima a Roma. Poi il successivo passaggio ha visto il dispaccio veicolato a tutte le questure e ai comandi dei carabinieri d’Italia. Una segnalazione senza informazioni aggiuntive come numeri di cellulare e indirizzi utili a un immediato rintraccio, ma con l’indicazione della pericolosità. La procedura prevedeva l’inserimento dell’alert (da parte della Direzione centrale della polizia di prevenzione) nella banca dati delle forze dell’ordine. In questo modo, durante un eventuale controllo in strada, sarebbe apparso subito l’obbligo di avvertire l’Antiterrorismo. Nella nota inviata dal Viminale si fa riferimento anche all’obbligo di «comunicare con ogni consentita urgenza elementi informativi di dettaglio sullo straniero in argomento». Nello Sdi, però, non c’è traccia di quell’allerta. Gli inquirenti milanesi hanno definito «nebulosa» la nota arrivata dalla Germania. Però resta da capire cosa sia stato fatto per cercare di rintracciare lo yemenita. L’uomo, nell’interrogatorio davanti ai carabinieri dei Ros e al pm Alberto Nobili, ha ammesso di aver attaccato con la speranza di essere ucciso. Ma le sue parole sono state a tratti deliranti: «Ho sentito delle voci, ho perso la testa. Mi sono svegliato, ho fumato una canna e ho preso le forbici. Allah Akbar? Forse l’ho gridato, ma non ero cosciente». Le indagini stanno cercando di ricostruire anche l’arrivo in Italia di Mahamad con un volo militare durante i soccorsi umanitari con la Libia. Il 23enne ha detto di essere partito dallo Yemen, poi, dopo aver trascorso parte del tempo in Egitto, l’arrivo in Libia. «Sono stato detenuto in diverse carceri libiche prima di arrivare a Tripoli». Qui il 23enne è entrato in contatto con una Ong che gli ha permesso di entrare nell’elenco dei migranti salvati dai corridoi umanitari. Forse per il suo passato di detenuto perseguitato, anche se non si sa per quale motivo (e da chi) sia stato incarcerato. Ma perché Mahamad era in Libia durante gli anni più sanguinosi della guerra? Per cercare di arrivare in Europa con un barcone o per combattere al fianco di Isis? Per ora gli investigatori non hanno trovato riscontri sul suo passato da miliziano. Una volta a Roma, lo yemenita si era spostato prima a Bergamo e poi in Germania dove contava su appoggi logistici ed economici. Qui il suo nome sarebbe emerso durante alcune intercettazioni telefoniche della polizia tedesca. Il 12 luglio, Mahamad è stato imbarcato su un volo per Malpensa: ha chiesto asilo in Italia e le regole di Dublino impongono che l’iter venga completato a Roma.
Mahamad non parla: offerte di lavoro all’uomo che l’ha disarmato. Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. Quattro schede telefoniche, due italiane e due tedesche. La ricevuta di una ricarica trovata nel suo vecchio alloggio nella comunità dell’ex hotel California di Ostiglia, nel Mantovano. E una pendrive dove, secondo le sue stesse ammissioni, Fathe Mahamad conservava video di combattimenti e massacri di civili nello Yemen. Tutto questo materiale costituirà il punto di partenza del fascicolo bis che il coordinatore del pool Antiterrorismo Alberto Nobili si accinge ad affidare al pm Enrico Pavone, con l’obiettivo di indagare sugli eventuali legami con il terrorismo internazionale del 23enne arrestato martedì. Una nuova inchiesta che è quasi un atto dovuto dopo la (tardiva) scoperta di una nota riservata della polizia tedesca che, seppure in maniera «generica», aveva segnalato Mahamad come «simpatizzante dello Stato islamico ed ex combattente nello Yemen». Il fascicolo sarà iscritto per l’articolo 270 bis «associazione con finalità di terrorismo», la stessa aggravante che il gip Natalia Imarisio ha contestato al 23enne con la convalida dell’arresto per tentato omicidio e la conferma del carcere. Mahamad non ha neppure partecipato all’udienza, senza lasciare la sua cella di San Vittore. Quanto al suo attacco contro il militare, il giudice ha parlato di «una azione studiata da giorni». Ovvero da quanto ha dormito per quattro notti nei giardini della Centrale. Un’esistenza senza cibo né soldi, che lo avrebbe portato a maturare l’idea di realizzare un’«azione eclatante» per trovare la via del martirio «nel paradiso di Allah».Martedì, a disarmarlo è stato un disoccupato di 52 anni, Samba Diagne. Già giovedì, sono arrivate tre proposte di lavoro. Le aziende che lo hanno contattato attraverso il Corriere, che ha ospitato l’intervista a Samba, hanno chiesto l’anonimato evitando una facile pubblicità. Il senegalese è stato nuovamente sentito dai carabinieri, qualora gli fossero venuti in mente ulteriori elementi utili alle indagini. Non ne ha forniti: del resto passava di lì per caso, e in precedenza non aveva mai visto Mahamad. Un uomo, quest’ultimo, sul quali restano profondi misteri. A cominciare dalla partenza per l’Italia, in Libia, usufruendo di un corridoio umanitario e di un volo di Stato. L’inchiesta bis, affidata agli esperti del Ros di Milano guidato dal tenente colonnello Andrea Leo, dovrà ricostruire il periodo in Nordafrica di Mahamad, e l’anno e mezzo in Germania, prima a Francoforte poi a Monaco. Il 23enne ha raccontato di essere stato rinchiuso a lungo in carcere, in Libia, ma non con quale imputazione. Nella documentazione presentata alle questure di Bergamo e Mantova per ottenere la protezione internazionale, Mahamad ha raccontato che è fuggito dallo Yemen in preda alla guerra civile. Per questo avrebbe «salvato» i video di combattimenti e massacri di civili sulla pendrive che i carabinieri hanno trovato nel suo marsupio, insieme a uno spazzolino, al dentifricio, al cellulare, al caricabatterie e alle quattro sim card. Su queste schede, soprattutto su quelle tedesche, sono in corso gli accertamenti dell’Antiterrorismo. Dai tabulati potrebbero emergere eventuali contatti internazionali. Nei prossimi giorni sarà disposta dai pm la copia forense della pendrive e dello smartphone. Gli inquirenti stanno accertando omissioni o negligenze del Dipartimento centrale di polizia di prevenzione, riguardo al mancato inserimento dell’alert inviato dai tedeschi nell’archivio delle forze di polizia.
Bus dirottato, il legale dei ragazzi: “Chiederemo i danni alle istituzioni”. Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 da Corriere.it. «Ci aspettiamo giustizia, secondo noi sono responsabili anche coloro che hanno messo il mezzo in mano a quest’uomo, per questo chiederemo la citazione come responsabili civili della società Autoguidovie e del Ministero della pubblica istruzione». Lo ha detto l’avvocato Antonino Ennio Andronico, legale di parte civile delle famiglie di Adam El Hamami, di Ramy Shehata e di altri dei 50 ragazzini presi in ostaggio su un bus incendiato da Ousseynou Sy. Il legale lo ha spiegato prima dell’inizio della prima udienza del processo a Milano a carico del 47enne senegalese accusato, nell’inchiesta dei pm Alberto Nobili e Luca Poniz, di strage aggravata dalle finalità terroristiche, sequestro di persona aggravato, incendio, resistenza e lesioni ai danni di 17 bambini, non solo per ferite ma anche per traumi da «stress» e psichici da «violenza emotiva». L’avvocato delle famiglie dei ragazzini ha chiarito che «si è trattato di un atto terroristico nei confronti di cittadini inermi. È difficile che i bambini dimentichino - ha aggiunto - anche se si cerca di farlo».
La richiesta di citazione come responsabili civili del Ministero e della società che gestiva il servizio bus, se verrà accolta dai giudici, farà entrare le due parti nel processo per un eventuale riconoscimento di danni per le famiglie. Secondo quanto accertato dalle indagini, Sy avrebbe voluto fare una strage sulla pista dell’aeroporto di Linate, per condizionare la politica in materia di immigrazione e «intimidire la popolazione». Tra gli accertamenti svolti in questi mesi, i pm considerano decisivo il video «proclama» di 37 minuti, che Sy mise sul suo canale privato di Youtube. «Viva il panafricanesimo, combattiamo i governi corrotti e critichiamo la politica europea che sfrutta l’Africa», diceva nel video. Nelle immagini il senegalese, che era da 15 anni in Italia e da 10 anni lavorava regolarmente e ha due figli, lanciava, in pratica, un «proclama». Nel frattempo, Adam e Ramy, i due ragazzini che scongiurarono la strage sul bus, hanno ottenuto la cittadinanza italiana.
· Quelli che …I partigiani delle ONG.
Il "patto di Malta" ora è un flop Solo 3 Stati accettano migranti. La Lamorgese deve fare i conti con il fallimento del pre-accordo in Lussemburgo. Solo tre Paesi hanno si sono uniti all'accordo di Malta. Angelo Scarano, Martedì 08/10/2019, su Il Giornale. L'accordo di Malta si avvia verso un binario morto. Ancora una volta l'Europa si volta dall'altra parte. Nel vertice dei ministri dell'Interno in Lussemburgo si è delineato un vero e proprio flop per il patto che dovrebbe definire la redistribuzione dei migranti che arrivano in Europa (e soprattutto in Italia). Ad affossare l'intesa sono state le parole del ministro degli Interni tedesco, Horst Seehofer: "Se i migranti da salvare aumentano – afferma il ministro Horst Seehofer – Allora posso annunciare domani che il meccanismo di emergenza si ferma". Un'affermazione pesantissima che va a ridimensionare di gran lunga l'accordo di Malta. Ma a spiegare meglio il flop di questo patto sono i numeri. Solo quattro Paesi oltre a Italia, Francia, Germania e Malta hanno accettato di aderire alle nuove ricollocazioni dei migranti che, ricordiamo, sono su base volontaria. "Per adesso sono tre o quattro i paesi Ue che» hanno aderito al meccanismo di Malta in tema di gestione dei migrant, tra questi Lussemburgo, e Irlanda. Questi sono i paesi che hanno dato già ora la disponibilità, ma dobbiamo operare perché l’accordo abbia una valenza su altri paesi", ha affermato il ministro degli Interni Lamorgese. "Non c’è un numero minimo per iniziare", ha aggiunto. Dal Viminale dunque c'è moderato ottimismo sulla possibile efficacia di un accordo di questo tipo. Sono ben lontani i toni dell'annuncio dell'accordo di qualche settimana fa. E la Lamorgese ha incassato il colpo della Germania dando uno sguardo alle cifre degli sbarchi. Cifre che per il momento sono figlie del decreto Sicurezza messo sul campo dall'ex ministro Salvini, ma che di fatto potrebbero lievitare con la politica dei porti aperti del governo giallorosso: "Adesso siamo a numeri che sono abbastanza limitati e, quindi, possiamo ancora ragionare". La sensazione è che questo accordo possa presto rivelarsi un bluff dell'Europa per fingere di dare una mano all'Italia sull'accoglienza per poi lasciare i migranti a casa nostra in nome del trattato di Dublino. Le opposizioni sono già sul piede di guerra e la capogruppo di Forza Italia al Senato, Anna Maria Bernini, riassume bene quanto sia debole il patto di Malta: "La ministra Lamorgese, al termine del Consiglio Ue a Lussemburgo, ha detto che oggi non darà i numeri sui Paesi che hanno aderito all’intesa di Malta, ma poi ha ammesso che a dire sì sono stati solo tre o quattro Stati. Altro che svolta storica: l’Italia è andata incontro all’ennesimo fallimento sulla redistribuzione dei migranti. Il governo smetta dunque di dare i numeri propagandando successi inventati".
Marco Bresolin per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. L'intesa europea sul patto di Malta «resta ancora molto lontana» e di conseguenza il meccanismo per la redistribuzione dei migranti salvati nel Mediterraneo non può partire. Il ministro Luciana Lamorgese prova a esibire ottimismo e, al termine del suo primo Consiglio Ue a Lussemburgo, considera ancora possibile una svolta entro la fine dell' anno. Ma la strada è tutta in salita per due ragioni molto semplici. Primo: i Paesi disposti ad accogliere i richiedenti asilo non si vedono. Secondo: c' è un forte allarme per la ripresa degli arrivi in Grecia. Il focus dell' attenzione si è dunque spostato sulla rotta orientale, anche in vista di una possibile crisi al confine tra Turchia e Siria. Il confronto di ieri tra i ministri dell' Interno dei Ventotto ha visto emergere le resistenze di molti governi. Al momento non c' è nessuna adesione ufficiale al patto di Malta. Lussemburgo, Portogallo e Irlanda si sono detti disponibili a entrare nel meccanismo, ma lo stesso ministro lussemburghese Jean Asselborn mette le mani avanti: «I pochi Paesi che sin qui hanno aderito non sono abbastanza». Quanti ne servono? «Almeno la metà» dice il ministro, spostando l' asticella a quota 13-14. La francese Amélie De Montchalin si è spinta a dire che «dieci Paesi potrebbero aderire». Nel suo conteggio include anche la Finlandia (che però resta alla finestra), la Slovenia (che contesta alcuni punti del testo) e la Svezia (che ieri si è chiamata fuori: «Abbiamo già fatto più della maggior parte degli altri Paesi» ha detto il ministro Mikael Damberg). Durante il week-end Francia e Germania, firmatarie dell' accordo con Malta e Italia, hanno lanciato una vera e propria caccia ai volenterosi. Ma il lavoro diplomatico non ha portato i risultati sperati. Per convincere i riluttanti, il tedesco Horst Seehofer ha assicurato che il meccanismo redistributivo riguarderà «centinaia di richiedenti asilo» e che se questi diventano «migliaia, allora si ferma». Il che sarebbe un controsenso se si pensa che lo schema è pensato proprio per alleviare la pressione sui Paesi in prima linea. Durante la sua visita in Danimarca, Sergio Mattarella ha parlato della questione con la premier Mette Frederiksen, ma Copenhagen ha ribadito la sua indisponibilità perché contraria alla redistribuzione. «Quello dei migranti è un problema che esiste e che bisogna governare - ha replicato il Presidente della Repubblica -, non si può far finta di rimuoverlo». Il pranzo di ieri è durato tre ore e mezza, ma gran parte della discussione se l' è presta la situazione in Grecia: «Ci sono tutti i segnali di una nuova crisi migratoria» ha avvertito il ministro di Atene, Georgios Koumoutsakos, che con i colleghi di Bulgaria e Cipro ha presentato un documento in cui si chiede maggiore attenzione per la rotta orientale. Nel solo mese di settembre sono sbarcati 11.500 migranti in Grecia, più di quelli arrivati in Italia e a Malta nell' intero 2019.
Ecco l'ultima mossa delle ong: ora preparano il "piano sbarchi". Nelle stesse ore in cui si svolge il vertice in Lussemburgo, le Ong lanciano le proprie controproposte sulla questione riguardante i migranti e provano a sedersi al tavolo per decidere le sorti di questa tematica. Mauro Indelicato, Mercoledì 09/10/2019, su Il Giornale. Il vertice in Lussemburgo è ancora in corso quando dalla Spagna arriva una nota dell’Ong Open Arms, con la quale oltre a criticare un accordo che in realtà difficilmente oggi vedrà la luce, quello cioè nato dal foglietto con cinque punti redatto a Malta, vengono lanciate alcune controproposte. Secondo Open Arms, la quale risulta in linea con le altre organizzazioni, la fragile intesa trovata il 23 settembre a La Valletta è da riscrivere e presenta dei punti molto lacunosi: “Insieme alle altre Ong che operano nel Mediterraneo Centrale – si legge nella nota di Open Arms – Abbiamo preparato un documento che analizza l'accordo nelle sue parti più controverse e che formuli proposte per noi imprescindibili per affrontare un tema complesso come quello dei flussi migratori verso l'Europa, sia via mare che via terra”. In poche parole, le Ong vogliono dire la propria e sedersi al tavolo decisionale da dove poi dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) uscire i documenti ufficiali in materia. E la prima controproposta delle organizzazioni, riportata da Open Arms, riguarda i corridoi umanitari: “Siamo convinti – si legge ancora nella nota – che per porre fine al traffico di esseri umani e alle morti ad esso legate non si possa che passare da alcune scelte irrimandabili: la prima è la creazione di canali di ingresso legali o corridoi umanitari, gestiti dagli stati membri dell'Unione Europea, che assicuri a chi fugge da guerre e persecuzioni di poter trovare rifugio senza mettere ulteriormente a rischio la propria vita.”Dunque, occorre secondo le Ong istituire un corridoio ufficiale in grado di far entrare in Europa i migranti senza la criminale intermediazione dei trafficanti. Al di là del merito della proposta, la sua attuazione ad oggi appare molto difficile visto che in sede europea è molto lontano anche un accordo sulla redistribuzione. La seconda proposta invece, riguarda la fine di ogni accordo sulla Libia: “Si tratta di un paese in guerra – si legge nella nota di Open Arms – che non può garantire il rispetto dei diritti umani e della vita delle persone in fuga”. Altro punto è invece la missione Sophia che, secondo le Ong, deve essere prolungata fino al 2020 e che deve “mettere in campo assetti navali oltre che aerei per affrontare in modo adeguato l'emergenza umanitaria che sta trasformando il Mediterraneo in un vero e proprio cimitero”, come è possibile leggere nella nota di Open Arms. Proposte quindi che prendono la strada dell’ideologia spesso propagandata dalle Ong, ossia quella di un’accoglienza che riduca ai minimi termini il ruolo delle frontiere e del controllo di esse, con un’Europa che deve farsi carico tramite corridoi ufficiali delle necessità di chi preme per entrare nel vecchio continente. Controproposte, quelle delle Ong, che rischiano di rimanere solo sulla carta nel momento in cui è la stessa proposta ufficiale in discussione in Lussemburgo ad apparire lontana dall’entrata in vigore. Di certo, desta scalpore sotto il profilo politico la volontà delle organizzazioni che operano nel Mediterraneo centrale di sedersi al tavolo ed essere riconosciute dunque come interlocutori. Una novità che potrebbe rappresentare, sempre da un punto di vista politico, un importante precedente.
Carola Rackete ospite da Fazio scatena l'ira di Salvini e Meloni. I due leader si sono scagliati contro Fazio che domani ospiterà la capitana Rackete: "Ma esattamente cosa vi hanno fatto gli italiani per essere presi in giro così?" Giorgia Baroncini, Sabato 23/11/2019 su Il Giornale. "Abbiamo il piacere e l'onore di annunciare la presenza di Carola Rackete domenica a Che Tempo Che Fa domenica alle 21 su Rai2". E dopo l'annuncio di Fabio Fazio, si sono scatenate le polemiche. A tuonare contro l'ospitata della capitana Rackete in Rai sono stati Matteo Salvini e Giorgia Meloni che non hanno perso tempo per attaccare trasmissione e conduttore. "Trasporta in Italia immigrati clandestini, di cui tre presunti torturatori libici, viola i nostri confini e sperona una motovedetta della Guardia di Finanza. Risultato? Carola Rackete ospite d'onore in Rai da Fazio", ha scritto furiosa su Twitter la leader di Fratelli d'Italia. Giorgia Meloni, indignata, ha poi attaccato il programma di Rai2: "Ma esattamente cosa vi hanno fatto gli italiani per essere presi in giro così?". E in pochi minuti il post ha ricevuto centinaia di commenti. "E noi italiani dobbiamo pagare il canone Rai a questa gente?", "La dignità della nostra bandiera, della nostra Repubblica calpestate da una tedesca ricca e strafottente", "Vergogna", hanno scritto gli utenti alcuni dei quali hanno anche invitato "a buttare fuori Fazio dalla Rai". "La presenza di Carola Rackete al programma di Fazio è inaccettabile. Presenteremo un quesito in commissione di Vigilanza Rai per chiarire la presenza della ex capitana della Sea Watch e se i soldi dei contribuenti sono stati utilizzati per garantire la presenza di Rackete", ha dichiarato il deputato FdI Federico Mollicone, commissario di Vigilanza Rai, promettendo battaglia. Parole di condanna sono arrivate anche da Matteo Salvini, in "guerra" da mesi con la Rackete. La comandante della Sea Watch 3, infatti, in estate sfidò il divieto dall'ex ministro dell'Interno e fece sbarcare a Lampedusa i migranti salvati in mare. Poi si rese responsabile dello speronamento di una motovedetta della Guardia di Finanza. Così sono iniziate le numerose minacce di denuncia e le querele tra il leader della Lega e la capitana. "Accolta in tivù con tutti gli onori, a spese degli italiani, una che dovrebbe stare in galera. Roba da matti. Lasciamo la tedesca speronatrice di navi militari alla sinistra e al governo clandestino", ha scritto il leghista sul suo profilo Facebook. Così, domenica 24 novembre, Carola Rackete sarò ospite per la prima volta in uno studio televisivo in Italia. A prendere le sue difese, tra gli altri, Nicola Fratoianni. "Due noti esponenti dell'estrema destra che dalla mattina fino a notte fonda occupano ogni spazio tv possibile (Salvini e Meloni per chi non l'avesse capito), oggi se la prendono con Fazio e la Rai colpevoli di ospitare Carola Rackete e di fare informazione. Stiano sereni perché il Minculpop è stato soppresso il 3 luglio 1944, e anche se loro ne hanno nostalgia non verrà ricostituito", ha commentato il segretario di Sinistra Italiana.
Rackete ospite di Fazio, Salvini ironico: "Momento di grande tv". Dopo aver criticato l'ospitata della Rackete su Rai2, Matteo Salvini attacca il conduttore: "Domani mi perderò Fazio. Carola invitata con rimborsi pubblici". Giorgia Baroncini, Sabato 23/11/2019, su Il Giornale. Continua a far discutere l'ospitata di Carola Rackete a Che Tempo Che Fa, il programma di Rai2 condotto da Fazio. "Abbiamo il piacere e l'onore di annunciare la presenza di Carola Rackete domenica a Che Tempo Che Fa domenica alle 21 su Rai2", aveva annunciato Fabio Fazio scatenando non poche le polemiche. E dopo le parole di indignazione arrivate dalla leader di Fratelli d'Italia e dalla stessa Lega, ecco che Matteo Salvini torna sull'argomento per criticare, questa volta, il conduttore della Rai. "Domani mi perderò in tv Fabio Fazio che invita Roberto Saviano e Carola Rackete, sarà un momento di grande televisione", ha affermato ironico il leghista da Perugia dove si trova per ringraziare gli elettori dopo la vittoria alle elezioni regionali dello scorso 27 ottobre. "Invitare con rimborsi pubblici una che ha speronato una motovedetta italiana può accadere solo in Italia, dovrebbe stare in galera", ha tuonato Salvini. Poi sui profilo Facebook del leghista, è comparso un nuovo post. "L'eccitato Fazio avrà il 'piacere e l’onore' di ospitare a vostre spese la signorina Carola. Nota bene: se non speronate navi militari italiane non fatevi nemmeno avanti, nessun invito...!", ha scritto Salvini facendo riferimento a quanto successo in estate: lo scorso giugno la capitana della Sea Watch Rackete non solo sfidò il divieto dall'ex ministro dell'Interno facendo sbarcare a Lampedusa i migranti salvati in mare, ma si rese anche responsabile dello speronamento di una motovedetta della Guardia di Finanza. Matteo Salvini aveva già condannato l'ospitata della capitana su Rai2 con un post su Facebook nel pomeriggio. "Accolta in tivù con tutti gli onori, a spese degli italiani, una che dovrebbe stare in galera. Roba da matti. Lasciamo la tedesca speronatrice di navi militari alla sinistra e al governo clandestino", aveva scritto indignato il leghista. Ora la stoccata a Fabio Fazio con il quale si era già scontrato in diverse occasioni negli ultimi anni. Anche da Giorgia Meloni sono arrivate parole di condanna: "Trasporta in Italia immigrati clandestini, di cui tre presunti torturatori libici, viola i nostri confini e sperona una motovedetta della Guardia di Finanza. Risultato? Carola Rackete ospite d'onore in Rai da Fazio. Ma esattamente cosa vi hanno fatto gli italiani per essere presi in giro così?". Insomma, sull'ospitata della capitana della Sea Watch ora è scontro aperto.
Nicola Porro contro Fabio Fazio: "Ecco le domande che non farà a Carola Rackete a Che tempo che fa". Libero Quotidiano il 23 Novembre 2019. Per la prima volta in uno studio televisivo italiano, ecco Carola Rackete. In quale studio? Presto detto e facile immaginarlo: quello di Fabio Fazio, a Che tempo che fa su Rai 2, domenica 24 novembre. Già, la pasdaran anti-Salvini non poteva che finire in quella trasmissione. Cresce l'attesa, e a contribuire ad alimentarla - oltre a Giorgia Meloni - ci si mette anche Nicola Porro. La firma de Il Giornale, infatti, rilancia sul suo sito personale un articolo di Alessandro Rico, in cui vengono suggerite a Fabio Fazio alcune potenziali domande per l'ex comandante di Sea Watch. Eccole: perché ha tentato di speronare la Guardia di Finanza? La vita di chi serve lo Stato italiano vale meno della disobbedienza civile? E Nicola Porro s'interroga, retorico: "Chissà se Fabio Fazio riuscirà a porre questa e altre domande a Carola Rackete". La risposta ve la possiamo anticipare, come da titolo dell'articolo di Rico: no.
Il comizio della Rackete sulla tv di Stato: ecco le domande che Fazio non le ha fatto. Dalla presunta richiesta del ministero dell'Interno di Berlino di registrare i migranti in Italia alle ragioni che l'hanno spinta a speronare la motovedetta dei finanzieri: ecco tutte le domande scomode che Fazio non ha fatto a Carola Rackete. Alessandra Benignetti, Lunedì 25/11/2019, su Il Giornale. Lunghi applausi su Rai 2 per Carola Rackete, la capitana della Sea Watch 3 indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ospite ieri a Che Tempo che Fa. Ma più che un’intervista quella di Fabio Fazio alla capitana finita in manette per aver speronato una motovedetta della Guardia di Finanza, è stata una celebrazione. Non un dialogo ma un monologo della giovane attivista, che ha parlato dell’emergenza migranti che prosegue nel Mediterraneo. Anche se, da quando lei è andata via, accusa, i “riflettori si sono spenti”. Per questo è tornata in Italia, dice. “Per sollevare la questione”. Dov’è finita “l’umanità”, si domanda la trentenne di Preetz. Di fronte alla lezione della capitana, Fazio non può far altro che alzarsi in piedi e applaudire la ragazza che ha sfidato le leggi del nostro Paese forzando il blocco dei militari per far sbarcare 40 migranti nel porto di Lampedusa. Fra loro, ricorda provocatoriamente Giorgia Meloni su Twitter, c’erano anche tre presunti torturatori. Ma il conduttore di Che Tempo che Fa ha preferito non ricordarlo alla Rackete, che così ha potuto fare la morale al nostro Paese senza contraddittorio. Il tutto grazie al canone pagato dai cittadini. La standing ovation finale ha sugellato la riabilitazione dell’attivista tedesca, ospite da Fazio assieme a Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch Italia e a Muhamad Diaoune, rifugiato senegalese che gioca a calcio nella Sant’Ambroeus di Milano. Non una parola, neppure sulla discussa frase che la Rackete disse alla tv tedesca Zdf, a proposito dell'insistenza del ministro dell’Interno tedesco, Horst Seehofer, perché i profughi a bordo della Sea Watch 3 "fossero registrati in Italia”. Oppure del perché le frontiere tedesche, al contrario di quelle italiane siano blindate, come pure i porti francesi. Altro che accoglienza: i servizi segreti interni di Berlino ormai da un po’ respingono quasi sistematicamente le domande d’asilo presentate dai migranti che vengono soccorsi nel canale di Sicilia e che sbarcano in Italia o a Malta. Gli stessi soccorsi dalla Ong di Carola. Si glissa anche sul tema dell'immigrazione clandestina, sui crimini dei trafficanti di uomini in passato accusati da certe procure di una pericolosa connivenza con le Ong. Ma Fazio preferisce mantenersi sul vago e limitarsi a chiedere alla capitana se è contenta di esser tornata in Italia. Si parla di umanità, ma Carola avrà pensato alle conseguenze del suo gesto quando ha deciso di usare la forza e investire la nave delle Fiamme Gialle che presidiava la banchina? Avrebbe potuto ammazzarli quegli agenti, scrive la leader di Fratelli d’Italia su Twitter. Anche Matteo Salvini sui social batte sullo stesso punto. “Sulla tv pubblica, pagata da tutti, è andata in onda, accolta con tutti gli onori, una che se ne è infischiata delle nostre leggi e ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza rischiando di ammazzare gli occupanti”, cinguetta il leader leghista. Poteva essere un’occasione per fare chiarezza su tanti aspetti di quella vicenda, ma ad andare in scena è stata una canonizzazione della ragazzina ribelle che continua a dividere l’opinione pubblica. Non a caso ad ascoltarla c’erano 3 milioni di persone e 330mila sono stati i commenti lasciati dagli utenti sui social. Il comizio della capitana si conclude con un appello: quello per i migranti che scappano dalle catastrofi legate ai cambiamenti climatici. “Bisogna fare qualcosa per loro”, dice ai telespettatori. E lei sembra di nuovo pronta a mettersi in gioco.
Carola Rackete da Fazio: «Dov'è finita la nostra umanità se non rispettiamo nemmeno le leggi internazionali?» Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 da Corriere.it. Le prime parole di Carola Rackete — la capitana della Sea Watch 3 che a luglio ha fatto sbarcare a Lampedusa 53 migranti salvati a largo della Libia — a Che tempo che fa sono una riflessione sulla risonanza mediatica del fenomeno migratorio : «Ci sono ancora persone disperate che cercano di scappare dalla Libia e quando arrivano qui la loro vita non è facile, però l’attenzione dei media sembra scomparsa». Rackete è ospite di Fabio Fazio insieme a Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch Italia, e Muhamad Diaoune, giovane senegalese e calciatore della Sant’Ambroeus F.C. di Milano, squadra di richiedenti asilo e rifugiati. La capitana tedesca ha poi parlato della nave Sea Watch («è ancora bloccata qui anche se il tribunale l’ha rilasciata») e ha ringraziato la società civile italiana per la solidarietà ricevuta quest’estate. «Il fatto che l’Europa sia un continente in pace e non possa accettare neppure poche persone è qualcosa che mi sciocca tantissimo», ha aggiunto, «dove è finita la nostra umanità se non possiamo neppure attenerci a leggi che sono state raggiunte a livello internazionale?». Rispondendo alle domande di Fazio, la capitana ha spiegato anche di essere «preoccupata per il futuro»: «Quando penso ai cambiamenti climatici mi preoccupo, abbiamo bisogno di tante persone per spingere verso il cambiamento, non basta una persona sola, io ho fatto una piccola cosa ma poi serve il sostegno di tanti». «Siamo a un bivio», ha poi aggiunto, «dobbiamo consumare meno: abbiamo risorse limitate, dobbiamo chiederci come possiamo condividere le cose in modo che tutti abbiano a sufficienza. Le due questioni, povertà e cambiamento climatico, hanno punti di connessione». La presenza di Rackete a Che tempo che fa aveva sollevato polemiche prima ancora che andasse in onda. A un comizio a Rimini, il leader della Lega aveva già criticato la presenza su Rai 2 della capitana 31enne della nave Sea Watch 3 dicendo: «Stasera sulla televisione pubblica pagata dagli italiani c’è ospite una signorina che ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza per far sbarcare i migranti». L’ex ministro dell’Interno aveva poi scritto su Facebook: «Lasciamo la tedesca speronatrice di navi militari alla sinistra e al governo clandestino. Noi stiamo con l’Italia e con Oriana, e non molliamo!». La scelta di Fazio era stata giudicata negativamente anche da Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia. In difesa della decisione del presentatore, invece, si sono schierati esponenti del Pd, di Italia Viva e di Sinistra Italiana-Leu. In particolare, il presidente dei senatori Pd Andrea Marcucci ha twittato: «Vorrei ricordare a Salvini ed alla Meloni che Carola Rackete non è una pericolosa terrorista, ma la giovane comandante di una imbarcazione che ha portato in salvo 53 vite umane». La 31enne tedesca era stata arrestata il 29 giugno scorso a Lampedusa con l’accusa di aver forzato il blocco della Guardia di Finanza per portare a terra i migranti che aveva a bordo, salvati in acque libiche. L’arresto non è stato convalidato perché, secondo la valutazione della gip, Rackete ha agito in presenza di uno «stato di necessità». La capitana della Sea Watch 3 in questi giorni è in Italia per la prima volta da luglio. Nei giorni scorsi ha partecipato a un incontro pubblico a Milano.
Carola fa la passerella da Fazio: "L'Europa non accetta i migranti". La passerella di Carola in tv: "Disumani, accogliamo queste persone". Ma dimentica che arrivano in Europa illegalmente. Serena Pizzi, Domenica 24/11/2019 su Il Giornale. L'ospitata tanto attesa da Fabio Fazio e dalla sinistra è arrivata: Carola Rackete si fa intervistare a Che tempo che fa. Dopo essersene tornata in Germania per qualche tempo, l'eroina dei radical chic è volata in Italia. Precisamente nello studio di Fazio. E per la prima volta si è fatta intervistare in uno studio televisivo italiano. Ma prima della tanto attesa intervista, subito dopo il tg, le luci in studio si sono accese e hanno illuminato la figura di Tiziano Ferro. Il cantante, da giorni nell'occhio del ciclone per una "rissa" social con Fedez, ha recitato un breve monologo incentrato sull'importanza della parola. Un monologo preparatorio all'ospite d'onore Carola Rackete. Tiziano Ferro dice al pubblico in studio e a casa che "le parole hanno un peso, ma non lo ricordiamo e questo si nasconde dietro i messaggi di bullismo. Le parole hanno un peso, ne ribadisco la pericolosità. Ed è necessario esserne consapevoli quando le si scagliano contro l'animo di una adolescente troppo fragile per poter decidere o scegliere". E via con una raffica di insulti - ovviamente da condannare - ma utilizzati per impressionare. "Grasso, puttana, nano, disadattato, frocio, criminale, negro, vecchia, terrona, raccomandato, pezzente, ritardato, troia, fallito, anoressica, cornuto, handicappato, frigida, mongoloide", urla. E dopo le parolacce, con lo sguardo serissimo, il cantante arriva al nocciolo del discorso: l'odio. E di questi tempi se ne parla (unilateralmente) tantissimo. "L'apoplgia dell'odio non è un reato che va dovrebbe poter cadere in prescrizione. Ma in questo Paese una legge contro l'odio non c'è. Quindi, bulli e odiatori italiani, tranquilli, siete liberi. Io intanto aspetto tempi, nei quali magari le parole avranno un peso". Finita la ramanzina, prende e se ne va. Arriva così il turno di Carola Rackete che entra in studio accompagnata da Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch Italia, e Muhamad Diaoune, giovane senegalese e calciatore della Sant’Ambroeus F.C. di Milano, squadra di richiedenti asilo e rifugiati. Prima di tirare fuori le quattro (finte) domande nascoste nel cassetto, Fazio ringrazia "la capitana" e mostra "per chi non se lo ricordasse, che cosa ti è successo". E chi se lo è scordato? Ovviamente, nel trasmettere il filmato, Fazio si "dimentica" di citare quando Carola ha speronato una motovedetta della Guardia costiera. Ma assolutamente non dimentica di segnare con precisione tutte le date della sua "impresa". Così, inizia l'intervista non troppo brillante alla capitana e ai suoi due compagni. "Sei felice di essere tornata in Italia?", domanda il conduttore. "Effetivamente sono contenta di essere in Italia - dice la capitana della Sea Watch 3 -. Dopo tutta l'attenzione che era concentrata su di me, i media non hanno parlato di questo tema. Però la situazione nel Mediterraneo continua e ci sono ancora oggi persone disperate che scappano dalla Libia e vogliono essere salvate. Sono tornata in Italia per sollevare questa questione". Ma Carola non è soddisfatta di come vengono gestiti i flussi migratori, anche perché "la nostra nave è ancora bloccata". La parola, poi, passa Muhamad. Dice di non voler raccontare quello accaduto in Libia, ma dà qualche informazione del suo viaggio e con il volto sorridente annuncia che "mi hanno accettato la protezione internazionale". Partono scrocianti applausi e la parola passa a Giorgia Linardi. La portavoce della Sea Watch punta alla pancia perché "quando noi parliamo di migranti non parliamo di collettività, ma di persone con una speranza di futuro. Non sono numeri. Sea Watch è ferma da 140 giorni. Questo signfica non essere in mare. Ferma per il dl Sicurezza bis, non possiamo operare". Prima frecciatina a Matteo Salvini. Ma l'ospite d'onore - senza nulla togliere a nessuno - è Carola e quindi la parola spetta a lei. La Rackete, infatti, è infastidita da qualcosa. "Come cittadina europea sono cresciuta con la fiducia nei governi - spiega in diretta tv -. Ora la situazione è cambiata tantissimo. Oggi quando fai una richiesta in base alle leggi marittime internazionali, invii informazioni alle autorità e telefoni, non ricevi risposta o addirittura ricevi una risposta negativa, che rifiuta di attenersi al diritto internazionale. Io sopno cittadina europea con passaporto tedesco e posso andare dove voglio, queste persone no. Questo mi fa riflettere sulla grandissima disuguaglianza che esiste su questo Pianeta (Carola dimentica che queste persone entrano illegalmente in Europa, ndr). Il fatto che l'Europa sia un continente in pace e non possa accettare un po' di persone è qualcosa che mi fa male in qualità di cittadina europea. Viene da chiedersi dove sia finita la nostra umanità se non possiamo neppure attenerci alle leggi che sono state raggiunte a livello internazionale". E il pubblico applaude. E Fazio le lascia dire tutto quello che vuole. Non puntualizza su mezza riga o parola. Non ricorda il suo speronamento che sarebbe potuto finire in tragedia. Niente, Fazio esalta Carola e gli immigrati che arrivano in Europa clandestinamente. E dopo una tirata d'orecchie all'Europa, la capitana si butta sul cambiamento climatico e di come sia collegato al fenomeno dell'immigrazione. Carola dice che bisogna fare qualcosa "per queste persone", cerca di andare a toccare l'anima del telespettatore e ricorda che i migranti hanno bisogno di aiuto: "Sono stata messa sotto i riflettori, ma non posso fare tutto da sola". Così la paladina degli immigrati conclude la sua passerella da Fazio. Ma prima di lasciare la tv pubblica, fa una piccola promozione del suo libro alla faccia degli italiani che pagano per vedere questo.
L'applauso in piedi di Fazio: il gesto per osannare Carola. Fazio ha lasciato campo libero alla Rackete. Quello della capitana di Sea Watch è stato un monologo pro-accoglienza. Silenzio sullo speronamento alla Gdf. Angelo Scarano, Lunedì 25/11/2019, su Il Giornale. Fabio Fazio continua la sua "propaganda" buonista. Il conduttore di Che tempo che fa probabilmente ieri sera ha toccato il picco della sua strategia pro-accoglienza (in salsa anti-Salvini) declinata sul servizio pubblico. Quella andata in onda ieri sera non è stata un'intervista. È stato un monologo di Carola Rackete. La clip che ha "narrato" le gesta della capitana della Sea Watch tre ha ovviamente calmierato tutte le infrazioni di quella notte in cui con una manovra spericolata ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza. Poi è iniziato il "peana" intonato da Fazio in onore della Rackete. La capitana ha ribadito le sue ricette per la gestione dei flussi che ovviamente hanno un comune denominatore: l'accoglienza dei migranti in Europa con l'aiuto delle ong. Fazio per tutta l'intervista non ha mai ricordato alla Rackete le conseguenze del suo gesto e anche i gui giudiziari che ha affrontato per la violazioni delle leggi dello Stato. L'entrata in porto a Lampedusa è diventata una sorta di "passeggiata" senza ricordare i rischi della sua manovra. Ma del tappeto rosso per la Rackete non bisogna certo stupirsi. difficilmente ci si aspettava una critica da parte di Fazio contro le gesta della Rackete. Il tutto è stato poi rafforzato dal racconto di un migrante che ha parlato del suo viaggio durante un anno per raggiungere l'Italia dall'Africa. Ma c'è un gesto che più di ogni altro ha stupito il pubblico da casa. O meglio quella parte di pubblico (non sono pochi) che non la pensa come la Rackete o come la Linardi, la portavoce di Sea Watch Italia, presente (pure lei) in studio. Proprio quando l'intervista alla Rackete era conclusa, il conduttore ha deciso di alzarsi in piedi e di applaudire gli ospiti mentre si trovavano ancora accomodati sulle poltrone di Che tempo che fa. Un gesto questo che nello spettacolo e non solo ha il sapore di tributo, di standing ovation che si riserva ad esempio ai grandi artisti oppure a personalità che per il loro impegno civile hanno servito lo Stato. Ebbene nessuno degli ospiti presenti in studio avrebbe meritato certo un tributo del genere. Fazio, col suo gesto, ha poi trascinato anche una parte del pubblico in studio ad applaudire in piedi la capitana di una nave che ha speronato la Gdf. Sia chiaro, nel linguaggio televisivo gli applauso fanno parte della funzione scenica di uno spettacolo, ma in piedi forse è stato un po' troppo...
Fazio canta "Alla Fiera dell'Est". E spuntano sardine, gatti e cani. Il noto conduttore di “Che Tempo che Fa” si esibisce in una personalissima versione de “Alla Fiera dell'Est”, dove inserisce sardine, gatti e cani. Il popolo del web lo massacra e scoppia la polemica. Federico Garau, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Fabio Fazio si riscopre cantante e sulla propria pagina Twitter si esibisce in una versione personalizzata della nota “Alla Fiera dell'Est”, un brano di Angelo Branduardi. A fornire l'occasione il movimento ormai dilagante delle "sardine", un tema di grandissimo interesse per tutti coloro che da tempo si affannano per contrastare il leader della Lega Matteo Salvini. Anche il controverso conduttore di "Che Tempo che Fa" non ha dunque potuto esimersi dal dire la sua, rilasciando quindi un post che ha subito destato l'attenzione del popolo dei social. L'esibizione è stata postata proprio sulla pagina di "Che Tempo che Fa", con un titolo che non dà adito a dubbi: "Alla fiera dell’est 2.0". Una versione assai diversa dall'originale quella intonata da Fabio Fazio, che tira in ballo sardine, gatti e addirittura un cane. "Alla fiera dell'Est per due soldi una sardina mio padre comprò", esordisce il conduttore."E venne il gatto che si mangiò la sardina che al mercato mio padre comprò. Alla fiera dell'Est per due soldi una sardina mio padre comprò". Dopo l'allusione alle sardine scese in piazza contro Salvini ed al gatto della Lega, la canzone prosegue con quella che, forse, vorrebbe essere una profezia. "Ma la canzone continua", aggiunge sorridendo. "E venne il cane, che morse il gatto, che si mangiò la sardina, che al mercato mio padre comprò". Chissà che cosa avrà mai voluto dire Fabio Fazio. Chi sarà questo cane? Dopo aver ospitato in trasmissione Carola Rakete, indiscussa eroina della sinistra, adesso il conduttore Rai torna a far parlare di sé. Non solo ovazioni, ma anche parecchie polemiche per questa sua ultima uscita. Sotto il suo post su Twitter i commenti sono tantissimi e per la maggior parte negativi. Si va da un laconico "vergognati" e "traditore", a veri e propri attacchi. "Sei patetico! Stai continuamente facendo politica con la TV degli italiani. Stai istituzionalizzando una discriminante pericolosa nei confronti di pacifici e onesti cittadini che non condividono il vostro pensiero. Portati tutte le Carole e baciale il culo ma non offenderci”, afferma duramente un utente. “Spregevole, viscido, vomitevole”, commenta un altro. “La sardina viene utilizzata come esca, costa poco e non è intelligente”, spiega qualcuno. E ancora: “Uno spettacolo giornalistico indegno pure per una di quelle emittenti locali che in palinsesto hanno giusto solo le televendite. Con rispetto per le televendite ovviamente. E per le emittenti locali”, e “Con tutti i soldi che ti freghi dovresti evitare di apparire più scemo di quanto dimostri. Trovatevi un lavoro serio tu e la scimmietta”.
Gad Lerner in estasi per Carola Rackete a Che tempo che fa: "Grazie Fabio Fazio, ecco la vera Italia". Libero Quotidiano il 25 Novembre 2019. Tra chi è andato in visibilio per l'ospitata di Carola Rackete a Che tempo che fa su Rai 2, ovviamente spicca Gad Lerner. A lui lo spettacolo è piaciuto. Ha gradito come l'ex comandante Sea Watch nonché speronatrice di finanzieri abbia bacchettato, rimproverato, sculacciato l'Italia (proprio come si fece beffa delle nostre leggi). E Lerner ha espresso tutto il suo apprezzamento su Twitter, rilanciando un estratto della trasmissione, in cui il migrante Muhamad Diaoune raccontava la sua esperienza. In calce, il commento: "Grazie Fabio Fazio e Che tempo che fa per questa testimonianza. La campagna di disinformazione e denigrazione contro le ong non riuscirà mai a incarognire per intero un Paese come l'Italia", ha concluso il giornalista.
Che tempo che fa, Carola Rackete da Fabio Fazio dà lezioni di umanità: "L'Europa prenda i migranti". Libero Quotidiano il 24 Novembre 2019. Carola Rackete, ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa, su Rai due, avverte che "ci sono ancora persone che combattono, anche se i riflettori dei media si sono spenti". L'ex comandante della Sea Watch, che ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza per far sbarcare i migranti dice che "come cittadina europea sono sempre cresciuta con la fiducia nei governi". "Adesso la situazione è cambiata tantissimo. Oggi quando fai una richiesta in base alle leggi marittime internazionali, invii informazioni alle autorità e telefoni, non ricevi risposta o addirittura ricevi una risposta negativa, che rifiuta di attenersi al diritto internazionale". E questo "mi fa riflettere sulla grandissima disuguaglianza che esiste su questo pianeta. Il fatto che l'Europa sia un continente in pace e non possa accettare neppure poche persone è qualcosa", sottolinea, "che mi fa male in qualità di cittadina europea". "Viene da chiedersi dove sia finita la nostra umanità". Da Fazio, ovviamente, nessuna domanda sullo speronamento. Nessuna domanda "difficile".
Maria Giovanna Maglie su Carola Rackete a Che tempo che fa: "Come ci è entrata in Rai?", corrosiva. Libero Quotidiano il 25 Novembre 2019. Occhi puntati sull'ospitata di Carola Rackete a Che tempo che fa. La comandante e speronatrice di finanzieri accolta come un'eroina da Fabio Fazio su Rai 2. In prima serata, la reprimenda all'Italia e a chi osa pensarla diversamente da lei - o da loro - sul tema delle ong e dell'immigrazione. E tra i molti tweet piovuti contro l'ospitata dell'ex comandante della Sea Watch, spicca la scelta di Maria Giovanna Maglie. Ovviamente e da sempre molto critica nei confronti della ragazza tedesca e anche di Fabio Fazio, la giornalista sceglie di non usare parole sue, ma retwitta un cinguettio dell'account Dorian Gray. Un tweet che condensa l'attacco sia alla ragazza sia a Viale Mazzini. Cinguettio corrosivo: "Carola Rackete entrerà negli studi Rai sfondando i cancelli con l'auto oppure dal retro, da un portone sicuro?". E chi ha orecchie per intendere, intenda.
Carola Rackete a Che tempo che fa, Salvini e Meloni contro Fabio Fazio: pesantissimi attacchi incrociati. Libero Quotidiano il 25 Novembre 2019. Uno spettacolo a tratti un poco inquietante, quello di Carola Rackete ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa. Nello studio di Rai 2 ecco l'ex comandante di Sea Watch, la speronatrice di finanzieri, la ragazza che delle leggi italiane se ne frega. Il punto è che non viene incalzata, ma trattata come un'eroina. La paladina della sinistra abbracciata da Fazio, da tutta quell'Italia disposta a tollerare tutto pur di dar contro a Matteo Salvini, Giorgia Meloni e un mondo politico che coltiva idee differenti. Il tutto su un canale della Rai, del servizio pubblico. Un'intervista inginocchiata che ha scatenato veementi reazioni politiche. Un diluvio di tweet, commenti favorevoli o indignati, prese di posizione, puntualizzazioni. Tra queste, ovviamente, quelle dei già citati Salvini e Meloni. Il primo, su Twitter, picchia duro: "Giusto tenere agli atti, per la serie il mondo al contrario: sulla tv pubblica, pagata da tutti, è andata in onda, accolta con tutti gli onori, una che se ne è infischiata delle nostre leggi e ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza rischiando di ammazzare occupanti". In calce al Tweet, un meme con la foto della Rackete e la scritta: "La speronatrice da Fazio, accolta come un'eroina! Vergognosi!". Dunque le parole della Meloni, altrettanto dure, la quale elenca le domande che Fabio Fazio "non farà" alla tedesca: "Il ministro tedesco le ha detto di sbarcare tutti in Italia? La Francia ha negato i suoi porti? Sa che ha sbarcato anche tre presunti torturatori? Voleva ammazzare gli agenti della Guardia di Finanza?". Domande che, ovviamente, restano senza risposta.
Nel liceo che dice no ai porti chiusi la prima "aula delle migrazioni". Il liceo romano Pilo Albertelli, nello storico rione multietnico della Capitale, inaugura la prima aula delle migrazioni. Il progetto è stato realizzato grazie ai fondi messi a disposizione da Miur e Mibact per sensibilizzare all'accoglienza. Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Giovedì 03/10/2019, su Il Giornale. Nel cuore dell’Esquilino, il rione più multietnico del centro storico, c’è un liceo classico, il Pilo Albertelli, dove l’immigrazione è diventata materia di studio, con tanto di aula dedicata. È intitolata “ai caduti del Mediterraneo”. Al suo interno spicca una teca che custodisce l’opera realizzata da un’alunna all’uncinetto: un gommone carico di migranti che fa rotta sulle nostre coste. Una della tante carrette del mare che in queste settimane hanno preso a riaffollare le acque del Mediterraneo con il lasciapassare del governo giallorosso. Alle pareti, invece, due pannelli raffigurano le rotte migratorie dell’età antica e di quella contemporanea. A spiegarci la genesi dell’iniziativa è la preside Antonietta Corea, che si è occupata personalmente di dipingere sulle pareti un motivo che ricorda le onde del mare e le dune del deserto. “Il progetto originario – ci racconta – è nato due anni fa dal connubio tra l’editore Laterza e il Miur e ha portato alla realizzazione di un fumetto”. L’idea di integrare l’offerta formativa con il tema della migrazioni si è ampliata nel corso del tempo, anche grazie alla nuova tranche di fondi – circa 50mila euro – erogata dall’allora governo Gentiloni. “Era un sogno che avevo nel cassetto da parecchio tempo, anche perché si tratta di un fenomeno che spesso viene banalizzato”, spiega la dirigente scolastica. “Per questo abbiamo deciso di apporre anche una targa che ricordi tutti quelli che hanno trovato la morte per cercare la vita”. Lo spazio che sarà inaugurato oggi è aperto, tanto agli studenti dell’Albertelli quanto a esterni e curiosi. “Io non sono una politica – dice la Corea – ma credo fermamente che la conoscenza di questi fenomeni possa fornire ai nostri studenti, che un domani saranno politici, sociologi e occuperanno posti di rilevo, gli strumenti che li aiuteranno a essere consapevoli delle scelte che dovranno prendere”. La curatrice dell’iniziativa, la professoressa e archeologa Michela Nocita, ci racconta che l’approccio alla nuova materia è diacronico. “Essendo uno liceo classico – spiega – ho pensato di usare il confronto con la storia antica per far comprendere ai ragazzi come i flussi migratori non siano fenomeni emergenziali ma di lunga durata”. Lo studio delle migrazioni sarà oggetto di lezione in orario scolastico e di attività extra curriculari. Ma come l’hanno presa i genitori? “Bene – assicura la professoressa – questo è un liceo immerso in un contesto multietnico”. “Anche se – aggiunge – di studenti stranieri nei licei ce ne sono ancora pochi, a differenza delle scuole medie dove le percentuali iniziano a salire”. L’argomento verrà indagato a partire dalle fonti classiche sino a quelle attuali, con la lettura dei giornali e la consultazione di siti e database come Open Migration: “Confrontando dati antichi e moderni abbiamo fatto delle scoperte interessanti, ad esempio che nella Roma augustea c’erano già un milione di abitanti con tante comunità straniere, una situazione identica a quella che osserviamo oggi, con le dovute proporzioni”. “Noi lavoriamo sull’aspetto culturale, quello che non ci piace è la discriminazione, non è con un muro o con un porto chiuso che si può risolvere la situazione – ragiona Nocita – ma accogliendo”. “Non ci interessano i numeri – aggiunge – ma le storie di chi parte”. Gli alunni sono d’accordo con lei. “Se una persona vuole lasciare il suo Paese – racconta Luca – non vedo cosa ci sia di male”. C’è bisogno, sostengono i ragazzi, di affrontare le migrazioni al di là degli slogan. “Si è fatta tanta campagna politica sull’immigrazione senza informare adeguatamente le persone sulle dinamiche che ci sono dietro”, sostiene un altro alunno. Ma di fronte alle sfide e ai rischi che l’accoglienza indiscriminata impone, nessuno ha in tasca la ricetta. “Difficile dire quali siano le soluzioni – ci rispondono gli studenti – ma sicuramente non si possono chiudere le porte a migranti e rifugiati”.
E Lerner sale già sul barcone: "Dobbiamo far pace con Ong". Dopo la proposta di Di Maio che parla di trattenere in Libia i migranti, sotto l'egida dell'Onu, da sinistra gli intellettuali si scaldano e Gad Lerner invita il Conte bis a "fare pace con se stesso", oltre che con le ong. Mauro Indelicato, Venerdì 27/09/2019, su Il Giornale. Nemmeno il tempo di mettere nero su bianco la proposta, che già da quello stesso settore culturale ed intellettuale da cui ad agosto arriva la spinta maggiore per la formazione del nuovo governo giallorosso, piovono critiche per il “povero” (in questo caso) Luigi Di Maio. Il ministro degli Esteri è reo di aver proposto una ricollocazione in Libia dei migranti intercettati dalla Guardia Costiera del paese nordafricano, dando all’Oim ed all’Unhcr, due agenzie delle Nazioni Unite, la gestione dei campi profughi nei dintorni di Tripoli. Più in generale, il leader politico del Movimento Cinque Stelle è fautore di una politica volta ad azzerare gli sbarchi, per sua stessa ammissione. A differenza di un Giuseppe Conte sorridente quando si tratta di commentare gli esiti della passerella (perché solo di questo si è trattato) tenuta a Malta in occasione del summit tra i ministri dell’interno, Di Maio sull’incontro di La Valletta è tra i pochi della maggioranza a tenere un profilo molto più cauto: “Buon primo passo – dichiara il titolare degli Esteri – Ma il vero problema si risolve azzerando gli sbarchi”. Certo, fa anche un po’ parte del gioco delle parti tra lui e Conte: il presidente del consiglio per il momento ha tutti i riflettori puntati e si prende ben volentieri la scena, Di Maio non vuol apparire troppo “periferico” all’interno del nuovo esecutivo e quindi non può mostrare totale appiattimento con le posizioni del premier. Il leader politico del Movimento Cinque Stelle cerca quindi di prendersi un proprio spazio nell’esecutivo giallorosso, magari quello di chi sull’immigrazione, a differenza del Pd, non vuole cancellare del tutto l’azione politica dell’ex ministro ed ex alleato Matteo Salvini. Da qui quindi la linea di Di Maio, volta a non puntare tutto sull’Europa e sulla speranza, già peraltro ampiamente disattesa, di una solidarietà che arrivi dai paesi comunitari. E questo però, agli occhi di una certa sinistra che stringe solidarietà con Carola Rackete in occasione del caso Sea Watch a luglio, non può essere accettabile. Lo si intuisce dalle parole di Gad Lerner, giornalista tra i più rappresentativi delle posizioni pro Ong, il quale punta il dito contro Di Maio e chiede al governo un’ulteriore svolta in fatti di gestione dell’immigrazione. Giuseppe Conte forse spera che, con l’ingresso in ben due occasioni della Ocean Viking, la nave cioè dell’Ong Sos Mediterranée, possa acquietare ed accontentare non solo e non tanto il Pd, quanto per l’appunto quella parte vicina culturalmente all’ideologia delle stesse Ong. Così non è: secondo Gad Lerner, che scrive un editoriale in merito su Repubblica, il “Conte bis deve mettersi d’accordo con se stesso”. Una frase che suona come un monito per Di Maio e per la sua proposta di ospitare i migranti direttamente in Libia, proposta peraltro non nuova visto che nel 2017 viene portata alla ribalta del dibattito politico da Marco Minniti, ministro dell’interno di un governo targato Partito Democratico. Ma in effetti già all’epoca Minniti viene dipinto come l’uomo più a “destra” del Pd, in pochi tra chi appartiene all’ambiente culturale affine alle Ong, di cui fa parte Lerner, gli perdonano proprio il codice delle Ong. Una norma quella che equivale al primo vero stop delle attività delle organizzazioni non governative, dopo la constatazione che nel giugno 2017 il numero dei migranti approdati supera quota 23.000 (la stessa raggiunta sommando tutti i mesi del 2018). In poche parole, essere sorridenti all’Europa ed aprire i porti di Lampedusa e Messina alla Ocean Viking non basta. Dalle parole di Gad Lerner, esce fuori la convinzione da parte di questo settore culturale della sinistra che invece il Conte II deve fare di più, deve fare una “pace con le Ong”, per usare le stesse parole del giornalista. “Capisco l’imbarazzo di chi si era marchiato d’infamia etichettando come “taxi del mare” coloro che salvano degli esseri umani – si legge ancora nell’editoriale di Lerner – Ma non si può continuare a tenere il piede in due staffe”. Che poi è anche vero: Conte prova a dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, Di Maio prova a passare per quello che non vuole smontare la linea di Salvini mentre fa gli accordi con il Pd, entrambi del resto sanno che piegarsi alla linea pro Ong politicamente è un suicidio. Ma secondo Gad Lerner, al pari dell’ambiente culturale di cui è uno dei rappresentanti, quanto fatto in questo primo mese non basta: occorre spalancare porte e porti e, in poche parole, Giuseppe Conte e Di Maio prima ancora che i presunti passaggi di grillini verso la Lega devono temere, per la loro maggioranza, la pressione di chi ad agosto tifa per un accordo tra M5S e Pd.
Gad Lerner esulta: "Milano ricca grazie ai migranti". Il post scatena la furia degli utenti. Libero Quotidiano il 27 Settembre 2019. "Ma che coincidenza: Milano è la provincia con più residenti stranieri (470.273 cioè il 14,5% degli abitanti) e contemporaneamente dà il maggior contributo al Pil, con reddito pro capite fra i più alti. Sicuri che l'immigrazione fa male?". Gad Lerner commenta su Twitter il rapporto sull'immigrazione (2018-2019) di Caritas e Migrantes. Ma questo al giornalista non basta e così decide di in un'analisi che gli utenti della Rete trovano piuttosto discutibile: "Milano dava il maggiore contributo al PIL italiano (in proporzione anche nel 1880 o nel 1900 o nel 1930 o nel 1960..... (forse anche ai tempi di Napoleone…) Non ha cominciato a industrializzarsi quando sono arrivati magrebini, nigeriani e pakistani", scrive uno. Mentre c'è addirittura chi chiede una spiegazione più approfondita: "Di questo 14% che contribuisce al Pil, quanti sono maghrebini o centrafricani e quanti giapponesi, cinesi, tedeschi, francesi, americani? Ah Gad, ma falla finita va!". E poi ancora: "Se mettiamo tutti i migranti in Calabria il Pil non cresce, non c’è industria e non c’è commercio. La provincia di Milano da sempre è quella che da il maggior contributo al Pil anche quando non c’erano migranti. Io non ho niente contro i migranti ma la sua è informazione faziosa".
Soldi, amici e propaganda: le Ong sono un'arma di Francia e Germania. I legami delle Ong che gestiscono Ocean Viking, Sea Watch e, un tempo, Aquarius, dimostrano che dietro queste organizzazioni ci sia qualcosa di più dell'umanitarismo. Agostino Corneli, Martedì 24/09/2019, su Il Giornale. C'è un filo conduttore che lega le Ong, l'Italia e la crisi di governo che ha portato al ribaltone di Giuseppe Conte. L'asse franco-tedesco e, in particolare, la Francia. Perché queste "entità umanitarie", in questi anni, sono diventate più di semplici organizzazioni: sono armi. Armi in grado non solo di modificare la politica migratoria di un continente, come dimostrato dagli accordi di Malta e dall'impatto sulle elezioni nazionali ed europee, ma anche in grado di avvantaggiare un Paese rispetto a un altro. E a Parigi, inutile negarlo, le connessioni tra Ong e Stato sono parecchie così come è impossibile negare il loro peso nella nostra pollitica. Come racconta La Verità, Ocean Viking, gestita da Sos Mediterraneée e Medici e senza frontiere, è un caso a dir poco emblematico. Perché queste due organizzazioni hanno degli indiscutibili legami con la politica francese a tal punto sa non poter considerare enti estranei alla strategia d'Oltralpe. Sos Mediterranée ha ricevuto fondi dal comune di Parigi: ben centomila euro per salvare migranti nel Mediterraneo. E la stessa capitale francese aveva elargito fondi pubblici già nel 2016 (25mila euro) e nel 2018 (30mila euro). Soldi dello Stato quindi, pubblici, e che sono entrati a far parte del "tesoro" con cui l'organizzazione recupera migranti tra Libia, Malta e Italia e impone sbarchi nonostante le leggi più severe di un governo. E visto che la stessa gestiva quella nave Aquarius che, nel 2018, mise alla prova l'allora governo gialloverde e il ministro dell'Interno Matteo Salvini, tutto fa pensare che queste entità abbiano un ruolo nella politica europea. E soprattutto nel fare gli interessi del centrosinistra francese (che le finanzia, pubblicamente, e le incoraggia politicamente a proseguire nel loro lavoro nel mare antistante la Libia). Del resto i legami politici sono ben noti. Sos Mediterranée prende soldi pubblici, mentre Medici senza frontiere è stata fondata, tra gli altri, da una vecchia conoscenza di Emmnauel Macron: Bernard Kouchner. Un uomo per tutte le stagioni che ha avuto anche un passato come ministro di François Mitterrand per poi passare brevemente anche con François Fillon. Amicizie che contano, quindi. E se a questo legame con Parigi si sommano le strane connessioni della Sea Watch con gli interessi tedeschi, qualcosa non torna. O meglio, qualcosa torna, ma non piacerà alle anime belle che credono nell'assoluta innocenza delle organizzazioni che recuperano migranti. Quando la nave Sea Watch 3 sfondava il blocco a Lampedusa mettendo in pericolo i nostri militari, la "Capitana" Carola Rackete, osannata da gran parte della sinistra, rivelò a distanza di qualche giorno che fu lo stesso ministro dell'Interno Horst Seehofer a chiederle di "far registrare e portare tutti i clandestini a Lampedusa". Lo ammise candidamente in un'intervista alla ti tedesca Zdf. E, come spiegato da ilGiornale.it, "la presenza dei due giornalisti della Ard aveva spinto Maaßen a ipotizzare un diretto coinvolgimento del governo tedesco nelle operazioni di 'salvataggio' della Sea Watch". Una verità confermata dallo stesso ex capo dei servizi tedeschi a InsideOver, in un'intervista in cui confermò che "alcuni Paesi europei sono segretamente soddisfatti della destabilizzazione". E queste organizzazioni destabilizzano: questo ormai è chiaro.
Ecco tutti i buchi dell'intesa sui migranti. L'accordo raggiunto a Malta sa di beffa per l'Italia e di bluff franco-tedesco: ecco perché è impossibile essere soddisfatti degli esiti del vertice di ieri. Mauro Indelicato, Martedì 24/09/2019, su Il Giornale. Il vertice di Malta dona responsi ben prevedibili e pronosticabili alla vigilia: ci si aspetta il bluff, e bluff è stato, ci si aspetta l’ostentazione di ottimismo da parte dei partecipanti al summit e, anche da questo punto di vista, non si notano sorprese. Del resto, il summit maltese parte su iniziativa della Germania, il cui governo ha fretta di dare risposte sia all’interno che all’esterno del paese. Da un lato infatti Angela Merkel, su pressing soprattutto del suo ministro dell’interno Horst Seehofer, vuole dare dimostrazione ai tedeschi di lavorare per risolvere il problema dell’immigrazione e frenare l’emorragia di voti che virano sempre più partiti di destra, Afd in primis. Dall’altro lato, Berlino vuole offrire al nuovo governo “amico” italiano una sponda politica prima che l’emergenza immigrazione di queste settimane possa mettere in difficoltà Giuseppe Conte. Un’iniziativa politica quindi volta a dare solo segnali politici e mediatici e nulla più: il finale del vertice di Malta è scritto già nella stessa natura del summit, è a monte che l'incontro di ieri appare destinato a non lanciare nulla di concreto. Esaminando i cinque punti stilati nel documento finale, redatto al termine dell’incontro dei ministri dell’interno di Italia, Malta, Germania, Francia e Finlandia, ben si notano falle e discrepanze che fanno già intuire come l’attuale status quo sia destinato a non essere scalfito. In primis, questo emerge dal punto relativo alle redistribuzione. Certo, si nota una differenza non da poco rispetto al sistema oggi in atto e figlio del trattato di Dublino del 1991, che riguarda l’automatismo nella redistribuzione dei migranti. Fino ad oggi la ripartizione avviene sempre invece solo su base volontaria. Ma esso varrà per quei paesi che, il prossimo 8 ottobre, nel corso del vertice in Lussemburgo aderiranno alla bozza della proposta redatta ieri a Malta. Per adesso si parla di 10 od al massimo 12 paesi, non di più. Fuori il blocco di Visegrad, al pari di altri governi poco interessati alla redistribuzione sia per motivi politici che geografici. E non sembra agitare più di tanto gli animi l’idea di sanzioni per chi non aderisce, anche perché a Malta di strumenti sanzionatori se ne parla poco o nulla. Fonti diplomatiche suggeriscono che, probabilmente, nel vertice in Lussemburgo potrebbe essere inserita una clausola volta a penalizzare, in sede di approvazione dei bilanci comunitari, quei governi che non accettano di partecipare alla redistribuzione dei migranti. Poi c’è il terzo punto dell’accordo di ieri che sembra ancor di più suonare come una beffa (annunciata) per l’Italia, il quale tratta del meccanismo della rotazione dei porti. È questo il nodo su cui si regge la proposta di Roma, anche perché il vero primo superamento del sistema nato dall’accordo di Dublino sta proprio sulla scelta del porto di approdo. L’accordo stilato quasi 30 anni fa nella capitale irlandese, prevede che sia il paese dove avviene lo sbarco a sobbarcarsi tutti gli oneri relativi al soccorso ed all’accoglienza. Un sistema che penalizza enormemente l’Italia e che, in attesa di una modifica strutturale, può essere “scavalcato” con il principio della rotazione dei porti: far sbarcare cioè le navi con i migranti a bordo ogni volta in un paese diverso. Il principio della rotazione dei porti viene in effetti approvato a Malta, ma l’accordo prevede su questo punto un meccanismo basato sulla mera volontarietà. Nessun vincolo e nessuno automatismo dunque, per l’Italia sembra quindi cambiare poco o nulla. Tornando al “nuovo” meccanismo della redistribuzione, qui il bluff appare molto più evidente. La Francia nei giorni scorsi esce allo scoperto: sì ad un ricollocamento automatico, ma solo per chi ha diritto d’asilo. Una posizione su cui la Germania chiede a Parigi un ridimensionamento. E così a Malta esce fuori che, in effetti, la redistribuzione deve riguardare tutti, anche i cosiddetti “migranti economici”. Questo discorso vale però solo, come già spiegato ieri, per le navi delle Ong o per quelle militari. Oltre a rappresentare un regalo in primis alle organizzazioni non governative, a cui viene riconosciuta peraltro l’equiparazione ai corpi militari in fatto di salvataggio, questa clausola annulla il compromesso strappato alla Francia e lascia gran parte dei problemi all'Italia. Infatti, specialmente nell’ultimo anno gran parte degli sbarchi avviene tramite approdi autonomi con barconi che arrivano quasi indisturbati nelle spiagge di Lampedusa, della Sicilia, della Sardegna e della Calabria. In proporzione, il numero dei migranti arrivati tramite le navi delle Ong o dopo i salvataggi effettuati dalle navi militari, è molto basso. Questo vuol dire che Francia e Germania, assieme ai paesi Ue che sottoscriveranno l’accordo in Lussemburgo, accoglieranno una fetta molto minima di coloro che arrivano in Italia. Lo status quo è destinato a perdurare. Nel gioco delle parti tutto interno al governo italiano, Conte è colui che esprime la massima soddisfazione, parlando di svolta e di necessità di dialogo con l’Ue. Al contrario, Di Maio interpreta invece la parte di chi fiuta aria di bluff, parlando solo di un “primo passo” e dell’esigenza di bloccare a monte le partenze. Ad ogni modo, il teatrino sull’immigrazione si dà appuntamento adesso sul palcoscenico lussemburghese dove si terrà la riunione dei ministri dell’interno.
PORTI, QUOTE, RIMPATRI: ECCO COSA PUÒ CAMBIARE CON LA FIRMA DEL NUOVO PATTO EUROPEO PER I MIGRANTI.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 24 settembre 2019. È soddisfatta la ministra Luciana Lamorgese quando arriva sulla terrazza del Forte Sant'Angelo a La Valletta, e non lo nasconde. Perché l'Europa che vuole isolare populisti e sovranisti, oggi ha teso la mano al nostro Paese e lei può rivendicare il risultato di un'intesa sui migranti che certamente dovrà trovare un consenso più ampio, ma, come dice subito, «rappresenta un passo decisivo. Perché vuole dire che l'Italia non è più sola, noi e Malta da oggi siamo considerati la porta d' Europa». I baci e gli abbracci con il commissario uscente Dimitri Avramopoulos, ma soprattutto con i colleghi francese Christophe Castaner e tedesco Horst Seehofer sono l'immagine della pace ritrovata, la collaborazione per gestire arrivi e rimpatri. La bozza preparata anche con Malta e Finlandia, che prevede una condivisione dell'accoglienza dei richiedenti asilo che arrivano a bordo delle navi seguendo una ripartizione automatica per quote prefissate, è già stata inviata a tutti i partner europei e sarà discussa nel consiglio fissato per l' 8 ottobre in Lussemburgo. Maggiore sarà il numero dei partecipanti, minore quello di stranieri ai quali provvedere. In queste due settimane si tratterà anche a livello bilaterale e si accoglieranno suggerimenti in modo da arrivare con una base di accordo che possa trovare la massima condivisione, dando per scontato il no del blocco di Visegrád. Seehofer è esplicito: «Il meccanismo di emergenza aprirà la strada alla revisione della politica comune europea d'asilo. Senza questo accordo, la revisione di Dublino non sarebbe mai possibile». Castaner esulta: «Un accordo importante, salveremo vite umane», dice. E sembra sfidare l' ex titolare del Viminale Matteo Salvini con il quale i rapporti sono sempre stati pessimi. Infatti appena due ore dopo la chiusura della riunione, il leader della Lega va all' attacco con una diretta Facebook, mentre da New York il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si congratula per l' intesa, ma subito dopo avverte: «La redistribuzione non è la soluzione al fenomeno migratorio, la risposta sono i rimpatri, sui quali a breve ci saranno novità, e il blocco delle partenze, per il quale è necessario stabilizzare la Libia». Salvini è durissimo. «L' accordo per l' Italia è una solenne fregatura - sostiene - . Il 90% dei migranti sono sbarcati con barchini. I porti rimangono quelli italiani e al massimo quelli maltesi. Nel Mediterraneo ci sarà pieno di navi delle ong. Ennesimo esempio di "sola", direbbero a Roma». Prima di lasciare Malta il messaggio della ministra Lamorgese è diretto a Tripoli per confermare che l' Italia non abbandonerà il governo di Serraj, nonostante le ong continuino a chiedere che venga sospesa ogni collaborazione. «Gli accordi con la Libia li teniamo - dice - stiamo operando bene con la Guardia costiera, che fa un gran lavoro».
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 24 settembre 2019. Redistribuzione preventiva e automatica dei migranti: è questo il punto chiave dell'intesa tra i «volenterosi» che potrebbe davvero cambiare la gestione dei flussi migratori. Si tratta della richiesta principale presentata dal presidente del consiglio Giuseppe Conte e dalla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese, frutto anche delle trattative bilaterali condotte nell' ultima settimana. Ma adesso bisognerà verificare quanti Stati europei aderiranno a questo progetto che Italia, Malta, Francia e Germania hanno messo a punto e condiviso con la Finlandia, presidente di turno dell' Unione. Se saranno confermati i calcoli fatti qui a La Valletta su almeno dieci Paesi pronti a firmare, allora si potrà dire che il sistema è effettivamente cambiato, perché ad essere scardinato sarà il principio che - in base al trattato di Dublino - obbliga il Paese di primo ingresso a farsi carico degli stranieri fino alla decisione sulla richiesta di asilo. Portogallo, Irlanda, Lussemburgo, Grecia e Spagna avrebbero manifestato appoggio, altri potrebbero dare il consenso, anche per non rischiare di ottenere una riduzione dei contributi economici. Attualmente i migranti che arrivano in Italia a bordo delle navi delle Ong e delle motovedette di Guardia di Finanza e della Guardia Costiera vengono registrati negli hotspot e in caso di richiesta di asilo attendono l'esito nei centri di accoglienza. Durante la permanenza di Matteo Salvini al Viminale l'Ue ha accettato di occuparsi della distribuzione degli stranieri tra alcuni Stati pur di far revocare i divieti di ingresso nei porti. Si decideva però analizzando caso per caso. Se passerà l'accordo saranno stabilite quote fisse a seconda del numero di Paesi partecipanti (tra il 10 e il 25 per cento) e la distribuzione scatterà in maniera automatica. Quindi dopo l'approdo i migranti saranno registrati in Italia ma entro quattro settimane dovranno essere trasferiti altrove. Al momento si applica sempre il trattato di Dublino e dunque l' onere dell' accoglienza, ma soprattutto dei rimpatri, rimane in carico al Paese di sbarco, dunque Italia e Malta. Questo vuol dire che sono i due governi a dover negoziare la riammissione con i Paesi di provenienza dei migranti. Si tratta di una procedura lunga e complessa. L'Italia può contare su accordi con Tunisia, Egitto, Gambia, Nigeria e sulla collaborazione del Marocco, ma questo impone una serie di concessioni e comunque le cifre dei rimpatriati sono molto esigue rispetto al numero di chi arriva. Per avere un' idea basti dire che Tunisi accetta due charter a settimana da 40 persone, complessivamente ogni anno si riesce a far tornare a casa non più di 5 mila persone. Nell'intesa raggiunta ieri a La Valletta è invece previsto che sia lo Stato di destinazione a gestire la sistemazione dei richiedenti asilo e - in caso venga negata l' istanza per il riconoscimento dello status di profugo - anche le pratiche per il rimpatrio. Si tratta di una novità importante perché questo convincerà gli Stati europei a impegnarsi per chiudere accordi con i Paesi di provenienza dei migranti e obbligherà la Commissione Ue a farsi garante di queste trattative. Le norme sul soccorso in mare e le convenzioni internazionali prevedono lo sbarco nel porto sicuro più vicino. Quando le navi prendono a bordo i migranti al largo della Libia, l'approdo più vicino sarebbe proprio in quel Paese ma poiché non viene ritenuto «sicuro», le imbarcazioni si rivolgono a Malta e Italia. Nella nuova intesa si cercherà invece di stabilire una rotazione che, su base volontaria, consentirà di mandare le navi nei porti di altri Stati, ad esempio Francia e Spagna.
Marco Conti e Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 24 settembre 2019. Se persino Matteo Salvini cerca di prendersi i meriti dell'intesa raggiunta ieri a Malta dal suo successore («sono stato io sollevare il problema»), è il segnale che stavolta l'Europa fa sul serio. Al punto che persino il sovranista, dopo aver debitamente tentato di ridimensionare l'accordo, è costretto a prendere atto che qualcosa si è mosso. Su ciò che però il ministro degli Esteri Luigi Di Maio definisce «un primo passo», restano ancora alcune incognite che potrebbero essere definite nella riunione dei ministri dell'Interno prevista in Lussemburgo e nella riunione dei ministri degli Esteri dell'Unione. Incognite e ostacoli dovuti innanzitutto dal numero dei Paesi europei che decideranno di aderire. Le ipotesi parlano di 10-12. Dalla Finlandia al Lussemburgo, dal Portogallo all'Olanda, ma bisognerà aspettare l'8 ottobre, giorno in cui si terrà il vertice dei ministri dell'Interno, per capire in concreto come verrà accolto da tutti. La linea ribadita a Malta è quella di trovare una formula per punire quei paesi che diranno no anche se nel testo non si fa riferimento a sanzioni. L'ipotesi più probabile è quello di inserire la mancata adesione al meccanismo delle quote al criterio della condizionabilità. Ovvero in sede di discussione del bilancio europeo e distribuzione dei fondi strutturali, potrebbe essere inserito un requisito che li condiziona al rispetto delle intese raggiunte e della adesione ai principi comunitari. In questo modo non solo le quote dei migranti diventeranno requisito, ma anche il rispetto, per esempio, dei principi dello stato di diritto per cui i governi sovranisti di Polonia e Ungheria sono sotto procedura. Problemi in vista per i paesi di Visegrad, in testa l'Ungheria del sovranista Orban, che dall'Europa riceve miliardi di euro salvo tirarsi fuori dai meccanismi di solidarietà. «Il nostro obiettivo ambizioso è di ampliare il più possibile il numero dei paesi disposti ad accogliere. La bozza va nella giusta direzione e abbiamo sciolto nodi politici complicati» dice il ministro Lamorgese facendo capire chiaramente che ci vorrà comunque tempo: «Ogni giorno ha la sua pena e questo è un buon giorno». Altro tema che resta fuori dall'intesa sono gli arrivi sui barchini fantasma scoperti ieri anche dall'ex ministro Salvini che per mesi si è occupato solo delle navi delle Ong. Nell'accordo non sono citati anche se stanno diventando per l'Italia una vera e propria emergenza, visti i numeri di questi ultimi mesi. L'Italia conta di bloccare le partenze su mini imbarcazioni, alzando il livello dei controlli sulle coste libiche. Ma non sarà facile anche se l'arrivo del brutto tempo è destinato a rallentare le partenze. Sui rimpatri il ministro Di Maio ha promesso «novità» a breve anche se il rischio è una riedizione della fallimentare strategia di relocation del 2015, che non ha mai funzionato. L'Italia spinge per accordi europei di rimpatrio che Bruxelles dovrebbe inserire in tutte le intese con i Paesi del Nord Africa interessati ad avere rapporti economici con l'Unione. Ammorbidito anche il meccanismo della rotazione volontaria dei porti che rischia di partire con il piede sbagliato: Spagna e Grecia stanno già accogliendo un elevato numero di migranti. Più di quanti ne abbia ricevuti l'Italia nel corso del 2018: a Madrid 65.301 persone, ad Atene 32.501, nel nostro Paese 23.370. Insomma, potrebbero semplicemente dirsi indisponibili ad appoggiare Italia, a meno di non rientrare anche loro nella ridistribuzione europea. E ancora: va definito chi si occuperà concretamente di queste ricollocazioni. L'Italia pretende che sia Frontex, o in qualche altro modo l'Ue, a pagare per un meccanismo d'altronde controllato da Bruxelles. Ma ieri questo aspetto non sembra essere stato trattato. Appuntamento a Lussemburgo.
Migranti, Riccardo Molinari: "Cosa c'è dietro l'accordo di Malta". Complotto contro Salvini per il Conte-bis. Libero Quotidiano il 24 Settembre 2019. Il patto di Malta sulla redistribuzione dei migranti potrebbe essere "la solita presa in giro". Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, intervistato dalla Stampa smorza subito gli entusiasmi del premier Giuseppe Conte e del ministro degli Interni Luciana Lamorgese ricordando come non sia "la prima volta che al dunque ci voltano le spalle. La Francia, ad esempio, gli accordi non li ha mai rispettati: non si sono presi né i migranti economici né quelli regolari, cioè identificati come richiedenti asilo. Come dice Salvini, il ministro Lamorgese ha sottoscritto una solenne fregatura". Sul tavolo, ci sono i numeri: "Quando era ministro dell' Interno Salvini, le partenze e gli arrivi dei migranti erano diminuiti del 90%. A settembre del 2019 con questo governo sono raddoppiati rispetto allo scorso anno". Il problema ora è il messaggio che arriva ai trafficanti: "I porti in Italia sono di nuovo aperti. I migranti posso ricominciare a partire in massa perché adesso è possibile redistribuire". Ma senza modifica del Trattato di Dublino, ricorda Molinari, "l'accordo è scritto sull'acqua perché è su base volontaria. E noi, come Malta, saremo sempre il Paese di primo approdo. Tutto quello che abbiamo fatto con il decreto sicurezza e in Libia verrà vanificato". Conte ha festeggiato sostenendo di aver ottenuto di più in un'ora a malta che in un anno di Salvini al Viminale. "Se si è arrivati a questo accordo di Malta è perché Salvini ha ingaggiato in passato un braccio di ferro con Francia e Germania e con la stessa Malta - rivendica il capogruppo leghista -. È pure chiaro che c' è dell' altro, ovvero che le cancellerie europee hanno tutto l' interesse a legittimare il Conte bis visto che lo hanno voluto loro. Ma ripeto: senza i porti chiusi di Salvini non ci sarebbe questa intesa di carta a Malta".
Alessandro Sallusti, la verità sul patto sugli immigrati: "Adesso festa". La tragica verità su scafisti e Ong. Libero Quotidiano il 24 Settembre 2019. "Un topolino particolarmente insidioso in grado di riaprire il grande business dell'immigrazione clandestina". Il direttore del Giornale Alessandro Sallusti non ha dubbi: il patto di Malta sbandierato dal premier Giuseppe Conte come una grande vittoria (suddivisione degli immigrati che sbarcano nei porti italiani su base volontaria) lascia fuori "il 90% degli sbarchi", quelli "fai da te" aiutati dagli scafisti. "Non faranno che aspettare i soccorsi al largo della Libia e poi, una volta trasbordati, si troveranno automaticamente al sicuro, sia fisicamente che legalmente, indipendentemente dal fatto che essi siano profughi politici o economici", spiega Sallusti. Risultato: "Più ripartizioni ma, in prospettiva, molti più arrivi, il che si presume porterà a un saldo di fatto invariato o addirittura peggiorativo in termini di accoglienza". A preoccupare il direttore è però soprattutto il "segnale" mandato ai disperati: "Chi parte ed è in difficoltà sarà aiutato e diventerà di fatto cittadino europeo. I trafficanti per un verso e le Ong per un altro si apprestano a festeggiare: torna il lavoro a tempo pieno senza più vincoli o limiti, tornano gli affari".
Immigrazione, il capo della Guardia costiera libica accusa: "Il ritorno delle Ong favorisce le partenze". Libero Quotidiano il 23 Settembre 2019. "L'aumento delle partenze dalla Libia è da molto tempo correlato alla presenza delle navi delle ong. E qualcosa di simile sta accadendo anche in questo settembre". Così il colonnello Masoud Ibrahim Abdelsamad, capo del Centro di coordinamento della guardia costiera libica, in un'intervista al Quotidiano Nazionale. Inoltre, il colonnello si dice un sostenitore del cosiddetto "effetto traino" delle ong nell'ambito dell'immigrazione: ovvero, semplice da capire, le ong favorirebbe l'aumento del numero di partenze. Proprio sull'effetto traino, il colonnello Abdelsamad si è voluto concentrare maggiormente nella sua spiegazione riguardo all'aumento degli sbarchi registrati nel mese di settembre e che il ricercatore del "think tank" Ispi Matteo Villa avrebbe smentito: "Quando ci sono navi ong a largo, che sono un chiaro target dei barconi dei migranti, noi ne blocchiamo moltissimi. Grossomodo uno su due, forse di più. Senza di noi, il fattore attrazione sarebbe molto più evidente. Tenga anche presente che la grande maggioranza di quelli che vengono raccolti dalle navi delle ong, parte solo perché ci sono loro". Abdelsamad ha spiegato anche il modus operandi degli scafisti e come le ong, loro malgrado, contribuiscono al loro disegno: "I migranti salgono su gommoni e barconi che non riuscirebbero mai, dico mai a raggiungere l'Italia. Sono natanti malmessi, in grado di fare poche decine di miglia al massimo. I trafficanti sono 'smart', usano internet, siti che mostrano il traffico marino, sanno bene quando c'è una nave ong al limite delle acque territoriali. E la usano, mandandogli barconi. È un meccanismo molto semplice e dal loro punto di vista, funziona benissimo". La possibilità che, con l'addio di Matteo Salvini al ministero degli Interni, gli scafisti stiano approfittando del fatto che il nuovo Governo sia favorevole all'apertura dei porti e alla revisione del dl Sicurezza bis non è tutta da scartare. E non solo: anche i flussi dalla Tunisia, secondo il colonnello, influirebbero sull'aumento degli sbarchi: "Mi pare ragionevole che, dato che stiamo intercettando molti barconi in partenza dalla Libia, le organizzazioni che gestiscono il traffico lo abbiano in parte spostato in Tunisia. Del resto, non si rassegnano, cercano sempre alternative".
Migranti, arriva l'eurobidone: "Rotazione dei porti volontaria". La Lamorgese a Malta per chiedere più solidarietà all'Europa. Ma strappa solo promesse da sottoporre agli altri Paesi. Chiara Sarra, Lunedì 23/09/2019 su Il Giornale. Un documento comune in 5 punti firmato da quattro ministri dell'Interno che l'8 ottobre sarà sottoposto all'intera Unione europea. Ma, nonostante il premier Giuseppe Conte assicuri di non voler "arretrare di un millimetro" nelle sue richieste per gestire i flussi migratori, arriva il primo "schiaffo" all'Italia. Al minivertice a La Valletta - a cui hanno partecipato Italia, Malta, Germania e Francia - è stata infatti bocciata la proposta italiana di instaurare una rotazione dei porti automatica per far sì che non fossero solo Italia e Malta ad accogliere le navi cariche di migranti. Il meccanismo sarà soltanto su base volontaria. Passa invece la redistribuzione "su base obbligatoria" (e in massimo 4 settiman) a cui avevano già aperto Angela Merkel e Emmanuel Macron nelle scorse settimane promettendo di farsi carico del 25% ciascuno dei migranti soccorsi nel Mediterraneo. Una volta ridistribuiti, i migranti in questione non saranno più a carico del Paese dove sono arrivati inizialmente ma solo del Paese di accoglienza, e questo vale anche per le operazioni di rimpatrio del non avente diritto. "Siamo partiti con il piede giusto", ha detto il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese partendo di "progetto ambizioso" e di ricollocazione "in tempi molto rapidi", "Da oggi l'Italia non è più sola". Ma nell'accordo si parla chiaramente di un "progetto pilota" che dovrà ora essere sottoposto agli altri Paesi. E soprattutto resta da sciogliere il nodo dei migranti economici, quelli cioè che si spostano pur non avendo diritto all'asilo. L'Italia vorrebbe che anche questa tipologia rientrasse nelle quote da redistribuire (a differenza di quello che accade ora), ma è difficile che questo venga accettato dagli altri Stati - Germania e Francia in testa -, da sempre pronti ad accogliere solo i veri rifugiati. Inoltre si specifica che l'intesa riguarda solo i migranti "salvati in mare dalle Ong o da navi militari o di altro tipo", mentre quelli che arrivano con "i barchini restano da noi". Esulta da New York pure Giuseppe Conte. "Siamo molto cauti, ma potrebbe anche esserci una rotazione dei porti", ha assicurato prima di partecipare all'Assemblea Onu, "Lavoriamo a un più efficace meccanismo di rimpatri. Chi non ha diritto deve essere riportato nella terra di origine".
Migranti, quel regalo alle Ong nell'accordo firmato a Malta. Ecco la sopresa che arriva da Malta per l'Italia: nel documento redatto oggi a margine del summit, una postilla sancisce che il meccanismo della redistribuzione vale solo per i migranti salvati dalle navi delle Ong o dalle navi militari. Mauro Indelicato, Lunedì 23/09/2019, su Il Giornale. Il bluff in terra maltese è servito. Già più volte, alla vigilia del vertice tenuto oggi a La Valletta, si sottolinea il rischio palese per l’Italia di tornare a mani vuote. Un rischio divenuto concreto e reale dopo la pubblicazione dei cinque punti chiave discussi tra i ministri dell’interno di Malta, Italia, Germania, Francia e Finlandia (con Helsinki presente in qualità di presidente di turno dell’Ue). E questo nonostante l’ottimismo ostentato da parte del nostro titolare dell’interno, ossia Luciana Lamorgese, nonché dello stesso premier Giuseppe Conte che segue l’evolversi del summit da New York mentre partecipa all’assemblea Onu. In primo luogo, per l’Italia la sconfitta di natura politica la si nota al terzo dei cinque punti che compongono il documento finale del vertice maltese, ossia quello che riguarda il meccanismo della rotazione dei porti di sbarco. Roma nei giorni scorsi insiste per una rotazione obbligatoria, invece l’accordo prevede una modalità valevole solo su base volontaria. Si tratta di un dettaglio destinato a non far cambiare l’attuale status quo. Ma è soprattutto la postilla finale a questo accordo che suona di beffa per il nostro paese. Infatti, come si legge sul Corriere della Sera, i ministri dell’interno presenti al summit concordano per l’applicazione del principio di distribuzione “solo i migranti salvati da navi ong o militari”. Considerando che in Italia, solo nel 2019, solo una piccola parte arriva tramite i mezzi delle Ong o a seguito del soccorso delle navi militari, il summit maltese rischia (come prevedibile) di non attuare alcun cambiamento alla situazione attuale. Come descritto nei giorni scorsi ad esempio, in questo mese di settembre l’impennata degli sbarchi in territorio italiano si deve soprattutto agli approdi autonomi registrati a Lampedusa od in altre parti del sud Italia, a partire dalle coste crotonesi. Almeno l’80% dei nuovi arrivi si verifica grazie al fenomeno degli sbarchi fantasma. Su questi migranti non si andrebbero ad applicare i principi, già peraltro blandi, previsti dall’accordo stipulato nelle scorse ore a Malta. La redistribuzione, in termini numerici, si applicherebbe soltanto a qualche gruppo arrivato tramite le navi delle Ong. Nel caso specifico di questo mese di settembre, i paesi Ue si farebbero carico solo delle persone a bordo della Ocean Viking o di altri piccoli gruppi messi in salvo dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza. La famosa promessa francese e tedesca di prendersi carico di almeno il 25% dei migranti che arrivano in Italia, andrebbe ad essere applicata a quella minima percentuale di migranti che non approda in modo autonomo nel nostro paese. Ma non solo: il principio secondo cui la redistribuzione varrebbe solo per chi viene salvato dalle navi Ong o dalle navi militari, sembra un enorme favore proprio alle organizzazioni non governative. I ministri riuniti oggi a La Valletta, sembrano in questa maniera dare carta bianca alle varie Ong. Anche in questo caso, la promessa dei giorni precedenti non è affatto applicata o applicabile. Appena venerdì il ministro dell’interno tedesco ammonisce che “non è possibile trasformare le navi Ong in un servizio di pendolari tra Africa ed Italia”. La postilla a margine dell’accordo sottoscritto oggi, per il quale si esulta in Italia ed in Europa, va nella direzione esattamente opposta: le Ong avranno maggior interesse nel recuperare migranti a largo della Libia e non solo. In attesa del vertice dei ministri dell’Ue dell’8 ottobre prossimo, fissato in Lussemburgo, l’eurobidone di cui parla nei giorni scorsi Fausto Biloslavo sembra pronto per essere lanciato in faccia all’Italia. O, per meglio dire, agli italiani. Perché il governo Conte II, che ha tutto l’interesse a mostrare un’Europa collaborativa, sa già alla vigilia che il vertice di Malta è solo mero specchietto per le allodole.
La proposta del Pd siciliano: "Un euro alle ong per ogni tessera". Antonio Rubino, portavoce di New Deal, il movimento degli scissionisti siciliani del Pd, chiede che il tesseramento dei nuovi iscritti avvenga solo online. "E che per ogni tessera venga devoluto un euro alle ong che salvano persone in mare". Gianni Carotenuto, Lunedì 23/09/2019, su Il Giornale. Meno tessere, più iscritti veri. È il grido di battaglia con cui il deputato del Pd, Fausto Raciti, ha annunciato insieme ad Antonio Rubino e Giovanni Cafeo la nascita dell'associazione New Deal con l'obiettivo dichiarato di "ricostruire il Partito democratico siciliano in modo chiaro e trasparente". "Vogliamo essere la barca corsara che attraversa tutto il centro sinistra colmando la disgregazione a cui stiamo assistendo, anche perchè non siamo tra quelli che considerano chi ha lasciato il Pd un avversario o un nemico da abbattere", le parole di Raciti in occasione della presentazione del movimento, al teatro Massimo di Palermo. D'accordo anche il collega dem Rubino, che ha chiesto di farla finita "con i pacchetti di tessere. Abbiamo bisogno di un partito di iscritti veri. Il Pd siciliano va ricostruito in modo chiaro e trasparente, per questo chiediamo al commissario un tesseramento esclusivamente online". New Deal, questo il nome dell'associazione, si concretizzerà in nove iniziative a livello territoriale in Sicilia "per stimolare - ha precisato Rubino - una vera e propria ricostruzione di un partito che non esiste più". Non tanto una scissione di stampo renziano, quindi, quanto una presa di distanza dai metodi poco trasparenti che i dem, in Sicilia, tendono a utilizzare per catturare nuovi consensi in vista delle elezioni, anche quelle interne al partito, ovvero le primarie che tanto hanno fatto discutere negli ultimi anni per il rischio di "inquinare" il voto. "Bisogna cambiare", l'urlo disperato di Rubino. Che ha fatto una proposta choc: "Il Pd non può funzionare come una società per azioni in mano ad un gruppo di deputati, deve ritornare a messaggi forti. Per questo - ha spiegato Rubino - proponiamo che un euro per ogni tessera venga devoluto alle Ong che salvano la gente in mare: un modo per dire loro grazie per quello che hanno fatto in questi mesi difficili".
· Quelli che…contro Lampedusa.
Laura Ravetto, immigrati: "Lampedusa è al collasso per colpa della sinistra buonista". Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 20 Ottobre 2019. Lampedusa è un paradiso rovinato dalla Sinistra. La politica finto-buonista dei porti spalancati ha trasformato l' isola in un magazzino di essere umani, con tutto ciò che ne consegue. Esageriamo? Niente affatto. Come altro definire un centro di raccolta, in gergo tecnico "hotspot", che sulla carta dovrebbe ospitare 94 migranti - già molti, troppi - e in cui invece ne sono stipati 320? Mentre Matteo Salvini sedeva al Viminale, la situazione, pur complicata, era rientrata nei livelli di guardia. Ora siamo punto e a capo. Lampedusa conta 6.500 abitanti, gente accogliente che si è sempre fatta in quattro per aiutare i richiedenti asilo, chi con cibo, chi con vestiti puliti e giocattoli per i bambini. I governi delle anime belle che si sono succeduti negli ultimi anni ne hanno approfittato. Lampedusa è diventata l' emblema del fallimento dei progressisti, con la dissennata complicità dell'Unione Europea. «La mia prima preoccupazione», dice a Libero il deputato di Forza Italia Laura Ravetto, per due giorni in visita sull' isola col Comitato parlamentare Schengen, «è stata quella di sapere quanti minori c' erano: 15, secondo gli operatori della struttura. Tra questi, e l' ho vista coi miei occhi, una bambina di 4 settimane e altre piccolissime. A quel punto ho domandato dove fosse la sezione dedicata ai bimbi: mi hanno spiegato che è ancora inagibile a causa di un incendio doloso appiccato da alcuni immigrati». Da quel rogo è passato un anno e mezzo. «Vi pare possibile che non sia ancora stato ripristinato lo spazio? Gli operatori mi hanno spiegato che è colpa delle lungaggini burocratiche, e questa cosa mi fa saltare i nervi. Ho presentato un' interrogazione parlamentare al ministro dell' Interno», continua Ravetto. «O risolvono subito la situazione e viene riportato il numero degli ospiti alla normalità, o proporrò la chiusura dell' hotspot, prima di tutto a tutela degli immigrati: ho visto mamme e figli costretti a passare le giornate in una stanzetta angusta e piuttosto sporca, è inaccettabile».
RIMPATRI A RILENTO. Gran parte dei migranti presenti a Lampedusa sono tunisini, seguono pachistani e bengalesi. «Ma scusate», sbotta la Ravetto, «con la Tunisia abbiamo stipulato accordi per i rimpatri, e lo stesso ha fatto anche l' Europa! Oltretutto l' Italia ha anche firmato accordi commerciali con la Tunisia per favorirne lo sviluppo interno: parliamo di gente che non scappa da nessuna guerra, ci stanno prendendo in giro. Di Maio, il ministro degli Esteri, non ha nulla da dire? Le Forze dell' ordine, che svolgono un grande lavoro, mi hanno detto che proprio i tunisini sono i primi a presentare la domanda di richiesta d' asilo. È chiaro che sono ben informati sulle procedure: sanno perfettamente che la domanda verrà rigettata, ma facendo ricorso riescono a rimanere qui un paio d' anni». Ravetto ha depositato pure una proposta di legge per il ripristino della commissione d' indagine sugli hotspot, i centri d' accoglienza e di rimpatrio: «L' avevamo creata nella scorsa legislatura. Aveva poteri equivalenti alla magistratura e poteva indagare sullo stato delle strutture e su come venivano spesi i soldi. È poi urgente che l' Europa cambi drasticamente l' approccio: si deve passare dal porto sicuro più vicino, al porto più sicuro e basta, altrimenti continueranno ad arrivare tutti in Italia». Intanto a Lampedusa l' hotspot scoppia, c' è il rischio di nuove rivolte e il numero delle forze dell' ordine è insufficiente. Alla Sinistra va bene così. Alessandro Gonzato
Maria Berlinguer per “la Stampa” il 17 agosto 2019. La situazione è sempre più fuori controllo tra i 134 "prigionieri" che da sedici notti sono a bordo della Open Arms. Ogni evacuazione singola rischia di alzare la tensione tra le persone provate dalla fatica e dal terrore del mare che li circonda. «Perché loro sì e noi no?». Ieri per la prima volta Riccardo Gatti e i volontari della Ong sono saliti a bordo per chiedere a ciascuno cosa volesse da terra. Piccoli generi di conforto da acquistare nei negozi dell' isola per alleviare lo stress e abbassare la rabbia e la disperazione che iniziano a serpeggiare: saponi, lamette, schiuma da barba. Anche qualche pasto diverso dall' ordinario, come una pizza o dei dolci. I migranti, dopo essere riusciti a scappare dall' inferno dei lager libici, non capiscono infatti perché ora non possono scendere a terra. Costretti ancora a vedere solo il mare che tutti odiano. Lampedusa è lì ma appare lontanissima. Immersa in una estate ferragostana da tutto esaurito, non sembra minimamente interessata al dramma che si consuma al largo delle sue spiagge. Alle 19,30 la guardia di finanza fa scendere quattro tunisini. «Sono migranti della Open Arms?» chiede una turista incuriosita. «No, sono diportisti», assicura un marinaio. Probabile una via di mezzo. I quattro tunisini sarebbe stati tratti in salvo da una piccola imbarcazione e si sarebbero dichiarati «pescatori». Loro possono scendere a terra. Tutto regolare. Non è così per i naufraghi delle Ong. Alla guerra sulla pelle dei 134 profughi si aggiunge un nuovo capitolo. L' allarme lanciato dai medici di Emergency e di Cisom che parlano di 20 casi di scabbia e di condizioni igieniche sanitarie pessime. Risponde il titolare dell' ambulatorio di Lampedusa Francesco Cascio, il successore di Bartolo: «Le tredici persone sbarcate non avevano alcuna patologia», assicura. Parole che fanno esultare Matteo Salvini che parla di «ennesima presa in giro delle ong spagnola». Qui però gira voce che Cascio sia vicino alla Lega, forse prossimo a lanciarsi in politica. Del resto per Cascio sarebbe un ritorno di fiamma, prima di fare il medico a tempo pieno è stato parlamentare di Forza Italia e poi presidente dell' Ars. «Io faccio il medico forse qualcuno pensa che non posso farlo perché ho fatto politica?», ribatte. Per il resto nulla apparentemente si muove. La Guardia Costiera ha scritto al Viminale chiarendo che possono essere sbarcati senza indugio. Ma Matteo Salvini continua a fare muro. Qualcosa si spera possa cambiare per i 29 minori a bordo, dei quali uno solo è accompagnato. La procura di Palermo ha fissato dei tutori. Il clima che circonda l' operazione di salvataggio non è dei migliori. Una spia è la contestazione subita ieri sera sul molo dal fondatore di Open Arms Oscar Camps e da Riccardo Gatti da parte di un gruppo di lampedusani. «Ma perché continuate a portarli qui? Non li vogliamo. Portateli altrove». E ancora: «Questi guadagnano 5.000 euro al mese - grida un altro - e noi moriamo di fame». «Siete voi a insistere per portarli qui - dice un' altra persona - perché non li portate in Spagna o in Francia?». Suonano lontane le parole pronunciate a Sky Tg24 da Richard Gere. « Queste persone sono angeli. Persone sopravvissute alla Libia - dice l' attore americano in un video appello - a tragedie e a traumi anche solo per raggiungere le imbarcazioni e mettersi in mare. Sono persone straordinarie, forti, nobili. Mi piacciono molto. E poi ci sono anche i volontari che hanno rinunciato alla loro vita per aiutare gli altri. Sono persone straordinarie. Hanno bisogno del nostro sostegno, economico, emotivo e legale. Sono i migliori. Persone straordinarie, gli angeli di questa situazione. E per quanto mi riguarda io voglio stare dalla parte degli angeli». Nella notte si diffonde la voce che i migranti potrebbero sbarcare presto, prestissimo. Forse già stamattina.
Chef Rubio contro gli abitanti di Lampedusa: «Con i migranti fanno soldi a palate». Pubblicato venerdì, 16 agosto 2019 da Francesca Ronchin su Corriere.it. «Lampedusa, prima del 3 ottobre 2013 in quanti c’erano venuti a fare gli aperitivi e i bagnetti? Prima del “problema migranti” in quanti la cagavano? Pochi». La sferrata di Chef Rubio contro i lampedusani, responsabili a suo dire «di fare soldi a palate (in nero) grazie alla pubblicità che i migranti fanno all’isola», la lancia il 4 agosto con un post su Instagram. La polemica però si innesca dopo le giornate a bordo di Open Arms, dopo la conferenza stampa con Gere e dopo la 5a notte del sit in silenzioso davanti alla Chiesa a chiedere lo sbarco dei migranti. La causa della Ong sembra trovare poco sostegno sull’isola. A parte i ragazzi di Mediterranen Hope, il progetto delle Chiese Evangeliche, gli attivisti di Forum Lampedusa solidale e qualche turista curioso, sul sagrato della Chiesa, i lampedusani si contano sulle dita di una mano. Le parole di Rubio sono incandescenti: «State mandando a fondo un’isola che pensate essere vostra ma che è semplicemente se stessa», e infiammano a loro volta quelle degli abitanti come salvogiardina 12: «Tornate a casa tua», «di Lampedusa non sai niente», e poi alearuta89: «il volontariato e l’umanità sono altre cose, non è business o favoreggiamento agli scafisti. Il popolo di Lampedusa ha sempre regalato vestiti, cibo, acque e tanto altro». Il riferimento è a quel 2011 quando, sulla scia della primavera araba, le onde riversarono sulle strade di Lampedusa migliaia di tunisini che cercavano la stazione dei treni. Per l’isola, in quell’anno maledetto non vi fu nessuna buona pubblicità, tra giugno e luglio il calo di presenze fu dell’80% rispetto all’anno prima. Poi però, a giudicare dai dati dell’aeroporto, i migranti non hanno mai fatto male al turismo che da 177mila passeggeri del 2014 passa a cifre record di quasi 250mila presenze nel 2017. Per lo chef però, i lampedusani non sarebbero responsabili solo di far cassa e girarsi dall’altra parte quando serve, ma di «rinchiudere i migranti in uno hot spot lager per sadismo, per ricordargli lo status di sgraditi ospiti li costringete a uscire ed entrare da buchi ricavati dalle reti». In effetti, i migranti sull’isola quasi non si vedono in una sorta di tacito accordo con gli imprenditori del settore turistico che va avanti già dai tempi di Giusi Nicolini quando gli sbarchi erano 30 volte più di oggi. Qualche migrante lo vedi il sabato sera vicino al Municipio in Via Vittorio Emanuele o alla Chiesa perché lì il wifi prende bene. Gli abitanti di Lampedusa però, con il centro hanno poco a che fare a partire dal sindaco Toto Martello che lamenta di non venire informato su nulla, nemmeno sugli arrivi. La gestione è in mano a cooperative esterne che cambiano ogni anno. L’ultima, Badia Grande di Trapani, è subentrata alla RTI Nuova Service di Palermo proprio lo scorso 2 agosto. «Con il decreto sicurezza e il minor numero di arrivi - spiega l’ex dirigente Iolanda Aiello - avrei dovuto lavorare part time e non era conveniente». Tra i pochi ad averci messo piede, c’è lo stesso Richard Gere che nel 2016 ne elogiò il clima di accoglienza e ordine. Nello stesso momento però, il collettivo lampedusano Askavusa pubblicava sul web foto che documentavano una situazione di degrado e abbandono. Se rispetto ad allora le condizioni siano migliorate, neanche Martello lo sa. «Sarebbe meglio non propagandare notizie false - scrive a Rubio manuzzella75 - agli “isolati” di quell’avamposto non devi fare nessuna lezione…sono solo stanchi». La stanchezza di vip e passerelle che «si occupano solo dei migranti» si respira nell’aria. I problemi a Lampedusa sono tanti a partire da quelli di salute, un’esposizione continua a 8 radar e un record di tumori maschili sull’Intera Sicilia. Rosy, ha un’azienda agricola proprio vicina all’hot spot. Dice che i migranti le hanno ammazzato almeno 5 cani, che la sera escono dai buchi della rete del centro e si infilano sotto i cespugli per qualche ora di libertà a bere e fumare. Ci mostra il degrado. Ci sono materassi, coperte e cartoni di vino ovunque. L’esasperazione si tocca con mano. Forse non è vero che Lampedusa è diversa dal resto d’Italia. Forse quella posizione geografica che per l’isola sembra un destino, non basta a trasformare l’accoglienza in una missione quotidiana. Secondo Antonino Taranto dell’associazione archivio storico Lampedusa, a parte casi di crisi in cui tutti aiutano o quando il pescatore che veda un uomo in mare lo salva anche a costo di venire accusato di favoreggiamento, in tutta l’isola sono poco più di due i casi in cui i migranti sono rimasti con contratto di lavoro o in affidamento. Un atteggiamento realista con cui ha cercato di sedare la polemica Giacomo Sferlazzo, portavoce di Askavusa, critico verso le ONG per le politiche neoliberiste di cui si farebbero tramite, ma da sempre aperto ai migranti. «Il nero» ha detto Sferlazzo contro Rubio «non è certo prerogativa di Lampedusa, le brave persone ci sono anche qui». Al tempo stesso però, la stoccata arriva anche ai suoi compaesani perché, dice, «l’immagine dell’isola dell’accoglienza ha fatto comodo a molti ma purtroppo non è reale. Lampedusa ha una serie di problemi irrisolti» scrive in un lungo post «ma non è forse colpa nostra se questi problemi rimangono tali? Vogliamo parlare della militarizzazione dell’isola? Della nettezza urbana? Della produzione di energia elettrica? Sono tutti settori inquinati da poteri torbidi che da anni succhiano l’anima all’isola grazie alla collaborazione di parte della popolazione». Alla fine della chiacchierata, Sferlazzo ha invitato Rubio a firmare la petizione promossa da molte mamme lampedusane per avere un pediatra in pianta stabile sull’isola. Hanno discusso a lungo, ma alla fine Chef Rubio ha firmato.
· Quelli che…Porte Chiuse.
Migranti, il governo libico emette decreto per neutralizzare le Ong. Ecco il testo: “Autorizzazione preventiva al soccorso, polizia a bordo e sequestro per chi non obbedisce, i naufraghi mai in Libia”. Alessandra Ziniti il 29 ottobre 2019. Il decreto, emesso dal Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico, porta la data del 14 settembre e ha come oggetto “il trattamento speciale delle organizzazioni internazionali e non governative nella zona libica di ricerca e salvataggio marittimo”. E’ stato inviato anche in Italia ed è un grottesco quanto pericoloso tentativo di ostacolare ancor di più l’operato delle navi umanitarie ma soprattutto di aggredirle con operazioni di polizia con la minaccia di condurle e sequestrarle nei porti libici. Un decreto che, alla vigilia della scadenza del patto tra Italia e Malta, desta ulteriori preoccupazioni anche perché alle Ong, che continuano ad operare in zona Sar libica, non è mai stato sottoposto. Ma è già , almeno sulla carta operativo. E, per assurdo che sembri, prevede che i naufraghi salvati non possano essere portati in Libia.Il decreto, che Repubblica ha consultato tradotto dall’ufficio immigrazione Arci, consta di 19 articoli ed esordisce così: “Si applicano le disposizioni del presente regolamento a tutte le organizzazioni governative e non governative impegnate nella ricerca e salvataggio marittimo”. Alle Ong “interessate a collaborare nella ricerca e salvataggio marittimo” è imposto di presentare una preventiva domanda di autorizzazione alle autorità libiche a cui sono obbligate “ a fornire periodicamente tutte le informazioni necessarie, anche tecniche – relative al loro intervento.Ed ecco le condizioni che vengono imposte alle navi umanitarie: “lavorare sotto il principio di collaborazione e supporto, non bloccare le operazioni di ricerca e salvataggio marittimo esercitato dalle autorità autorizzate dentro l’area e lasciare la precedenza d’intervento”. “Le Ong si limitano all’esecuzione delle istruzioni del centro e si impegnano a informarlo preventivamente su qualsiasi iniziativa anche se è considerata necessaria e urgente”.E poi gli articoli che più preoccupano le Ong perché preludono ad un intervento di tipo poliziesco e autorizzano la Guardia costiera libica a salire a bordo delle navi. “Il personale del dispositivo è autorizzato a salire a bordo delle unità marittime ad ogni richiesta e per tutto il tempo valutato necessario, per motivi legali e di sicurezza, senza compromettere l’attività umana e professionale di competenza del paese di cui la nave porta la bandiera”. L’articolo 12 è il più contraddittorio perché a fronte di una rivendicazione di coordinamento assoluto degli interventi di soccorso nella sua zona Sar, prescrive che “i naufraghi salvati dalle organizzazioni non vengono rimandati nello stato libico tranne nei rari casi eccezionali e di emergenza”. La Libia invece vuole “le barche e i motori usati”. Alle Ong è richiesto di “non mandare alcuna comunicazione o segnale di luce per facilitare l’arrivo d’imbarcazioni clandestine verso di loro.Infine le sanzioni: “ tutte le navi che violano le disposizioni del presente regolamento verranno condotte al porto libico più vicino e sequestrate. E non verrà più concessa alcuna autorizzazione”. “Il "codice Minniti libico" per le Ong è, come quello dell’ex Ministro italiano, un atto che punta ad ostacolare e criminalizzare i salvataggi in mare - commenta Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci -Per di più è illegittimo, essendo stato emanato non da uno stato sovrano, ma da una delle parti in causa nella guerra civile in atto. Le ragioni che dovrebbero spingere verso la chiusura degli accordi con la Libia sono tali ed evidenti che chi si rifiuterà di farlo si renderà complice di questi criminali.Il "codice Minniti libico" conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, le ragioni che ci spingono a chiedere la cancellazione degli accordi con la Libia e l’azzeramento del Memorandun. Per cambiare pagina si ponga fine a questa follia e si metta subito in campo un piano straordinario di evacuazione delle persone detenute.”
Parlamento europeo: l'aula dice no a una risoluzione pro Ong grazie all'astensione del M5S. Il Pd vota a favore. Il testo presentato in aula ha spaccato la maggioranza: a favore la sinistra, contro il Ppe e i sovranisti. E così è diventato determinante il voto grillino: i 5S irritati per il no ad alcuni emendamenti. La Repubblica il 24 ottobre 2019. Il Parlamento europeo boccia per due soli voti, 300 no contro 298 sì, una risoluzione che preveda di apire i porti del Mediterraneo alle Ong che fanno operazioni di ricerca e salvataggio dei migranti. Voto che ha immediate effetti nella vita politica italiana perché il no è passato grazie all'astensione del Movimento Cinque Stelle, mentre il Pd ha votato a favore. Con immediate polemiche a Roma, dove esultano Matteo Salvini, Fratelli d'Italia e Forza Italia. "Come avevamo detto, in Europa il Movimento 5 Stelle è e resta ago della bilancia. Sul tema immigrazione le parole non bastano più. L'italia non può farsi carico da sola di un problema che riguarda tutta l'Ue", commenta invece Luigi Di Maio. La risoluzione a prima firma di Juan Fernando Lopez Aguilar, (a nome della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni) invitava i paesi membri a mantenere i porti aperti alle navi Ong. I grillini avevano presentato degli emendamenti che però gli altri gruppi che sostenevano il testo non hanno approvato. A spiegare la posizione del Movimento pentastellato è Laura Ferrara, europarlamentare 5 Stelle, che spiega: "Un'occasione persa. La risoluzione poteva trasformarsi nella presa di posizione forte che l'Italia e l'Europa aspettano da anni. Avevamo presentato degli emendamenti che restituivano concretezza e ambizione a un testo altrimenti vago e polarizzato. Questi emendamenti non hanno trovato il sostegno della maggioranza, da qui la nostra astensione". "Il Parlamento europeo - aggiunge l'eurodeputata grillina - deve dare segnali politici forti e chiari, senza dividersi in messaggi polarizzati che non giovano a nessuno né apportano soluzioni a un fenomeno che attende da troppo tempo una risposta politica comune europea". Ferrara ha poi spiegato che il Movimento 5 Stelle ha presentato un emendamento sul testo cofirmato da M5S, Verdi e S&D nella parte relativa all'apertura dei porti in cui "chiedevamo il rispetto delle leggi internazionali e di altre leggi applicabili". Contraria alla posizione assunta dal Movimento 5 Stelle Loredana De Petris, presidente del gruppo Misto, che su Twitter scrive: "L'astensione del M5S in Europarlamento, che ha portato alla bocciatura della risoluzione sulle Ong per il soccorso in mare, è incomprensibile e comunque grave. Per chi salva vite umane i porti devono essere aperti". Anche il capogruppo dem al Senato Andrea Marcucci afferma: "L'astensione del M5S oggi alla risoluzione sui migranti poi bocciata dal Parlamento europeo, segnala un problema rilevantissimo. Non credo che sia possibile costruire un'alleanza con un movimento che ha una posizione sostanzialmente molto simile a Salvini su una questione determinante come quella dei salvataggi e dei soccorsi nel Mediterraneo". Di contro, gioiscono le forze del centrodestra, unite a Strasburgo nel dire no al provvedimento che puntava a vincolare gli stati membri a mantenere i porti aperti: "Grazie ai voti decisivi di Forza Italia, il Parlamento europeo ha respinto l'assurda risoluzione sui migranti che equiparava il ruolo delle forze dell'ordine a quello delle organizzazioni non governative nelle operazioni di soccorso nel Mar Mediterraneo" afferma in una nota Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia a Montecitorio. "Si sono spaccati, invece, i partiti che in Italia sostengono l'esecutivo Conte II - commenta - il Movimento 5 Stelle si è astenuto, mentre gli europarlamentari del Partito democratico hanno votato, insieme al loro gruppo Socialisti e democratici, a favore. Qual è, dunque, la posizione del governo italiano su questo importante e delicato tema?". Naturalmente gioisce Salvini: "Attenzione, ogni tanto dall'Europa una buona notizia! Schiaffo alla maggioranza delle Poltrone Macron-Pd-5Stelle-Renzi. Bocciata al Parlamento europeo una risoluzione per spalancare i porti alle Ong", twitta il leader leghista. "Vittoria della Lega e dell'Italia: non perdoniamo chi infrange le nostre leggi, vuole riempirci di clandestini e ha messo a rischio la vita dei nostri finanzieri come fatto da Carola Rackete", scrive Salvini.
Marco Bresolin per “la Stampa” il 25 ottobre 2019. La questione dei salvataggi nel Mediterraneo spacca la «coalizione Ursula» a Strasburgo, dove si cementa una maggioranza formata da Ppe, conservatori e sovranisti. Ma soprattutto alimenta nuove tensioni nella coalizione di governo in Italia: Pd e Italia Viva accusano il M5S di essere «in continuità con la Lega» sul tema dei migranti. E tra i dem si alza la voce chi, come Matteo Orfini, si oppone alla creazione di un campo riformista (copyright Dario Franceschini) con i grillini: «Aprite gli occhi» avverte i compagni di partito l'ex presidente. Critiche rispedite al mittente dai Cinque Stelle, che ribaltano le accuse sui colleghi del Pd. In tutto questo, Matteo Salvini osserva soddisfatto dalla riva del fiume. «A Strasburgo c'è stata una grande vittoria della Lega». Il pomo della discordia è una risoluzione votata ieri dall' Europarlamento: il testo difendeva le attività di salvataggio in mare e chiedeva a tutti gli Stati di aprire i porti alle navi delle Ong. Un atto non giuridicamente vincolante, ma estremamente significativo dal punto di vista politico. Il risultato è che l' emiciclo si è diviso nettamente in due: centro-destra contrario, centro-sinistra a favore. La risoluzione è stata respinta per due soli voti (290 contro 288). Decisivi per la bocciatura i parlamentari grillini che hanno deciso di astenersi. Sconsolato l'eurodeputato Pietro Bartolo, eletto con il Pd: «È incredibile. Ci occupiamo di salvare le bestie, ma non gli esseri umani - si sfoga il medico di Lampedusa uscendo dall' Aula -. L'altro giorno abbiamo deciso di difendere le api, oggi abbiamo deciso di non salvare gli esseri umani». Diametralmente opposto il parere di Forza Italia, Lega e Fratelli d' Italia. «Abbiamo evitato una risoluzione che chiedeva di garantire porti sempre aperti per le navi delle Ong» aggiunge il forzista Antonio Tajani. La questione dei porti chiusi è stata il vero detonatore che ha fatto saltare la risoluzione, nella quale si chiedeva anche di svuotare i centri per migranti in Libia e di aprire i corridoi umanitari. Il testo approvato dalla commissione Libe (sostenuto da liberali, socialdemocratici, verdi e sinistra) invitava «tutti gli Stati membri a mantenere i loro porti aperti alle navi delle Ong». Il M5S aveva presentato un emendamento per aggiungere un paio di «condizioni», come il rispetto delle «convenzioni internazionali e di altre norme applicabili». Una formulazione ambigua che serviva a richiamare le leggi nazionali (come il decreto Salvini) e dunque a mettere paletti. Verdi e socialdemocratici, convinti dai grillini a sostenere quegli emendamenti, davano invece una lettura meno restrittiva. Per sgombrare il campo dagli equivoci, gli ecologisti e i socialisti (gruppo di cui fa parte il Pd) hanno votato a favore di un emendamento dei liberali molto chiaro: porti aperti alle navi Ong per far sbarcare i migranti salvati. L'approvazione di questo emendamento ha però fatto decadere quello voluto dai grillini, che hanno così deciso di non votare a favore del testo finale. «Troppo vago e polarizzato» secondo Laura Ferrara (M5S). Secondo Andrea Marcucci (capogruppo dei senatori Pd), il comportamento dei Cinque Stelle pone un «problema rilevantissimo». Da Strasburgo gli ha subito replicato Ignazio Corrao (M5S), che ha scaricato la responsabilità sugli eurodeputati dem: colpevoli - a suo dire - di aver sostenuto l'emendamento dei liberali e di aver così provocato l'astensione dei grillini. «Ma ti rendi conto di quello che avete fatto? - gli ha risposto su Twitter il dem Pierfrancesco Majorino -. A volte siete incomprensibili». Intanto la nave Ocean Viking, con a bordo 104 persone, è da cinque giorni al largo di Linosa in attesa che le venga assegnato un porto in cui attraccare.
Le mille contraddizioni di Melilla. Lorenzo Degrassi su it.insideover.com il 14 agosto 2019. A Melilla vi si arriva in aereo, da Malaga, aeroporto dal quale partono quotidianamente quattro voli per la città “corpus separatum” della Peninsula, oppure via mare dai porti di Cadice e Malaga. Quasi 300 chilometri che per certi versi valgono un viaggio indietro nel tempo di almeno trent’anni, quando le tensioni fra l’Europa civilizzata e quella facente parte del Patto di Varsavia la si misurava anche dall’altezza dei fili spinati e delle torrette di guardia. E a Melilla l’aria di confine fra due mondi la si respira fin dall’uscita dall’aeroporto. Perché Melilla è “Il Confine”, una città-riccio arroccata su se stessa, alienata dal proprio retroterra. Victoria, insegnante di 36 anni, ci spiega com’è vivere nell’epoca dell’Europa comune attorniata da 12 chilometri di filo spinato. “Per chi proviene dal ‘Continente’, dove i confini non esistono praticamente più, la nostra condizione può sembrare fuori dal tempo, ma questo è il prezzo che dobbiamo pagare per rimanere spagnoli e quindi europei. Ci siamo abituati, d’altronde la bassa fiscalità in questo ci aiuta molto”. Un confine che per gli abitanti di Melilla è relativamente semplice da attraversare, mentre lo è molto meno per chi vuole fare il percorso inverso. Capita periodicamente, infatti, che il governo marocchino chiuda le proprie tre dogane con l’enclave di Melilla, tre realtà che scandiscono la vita di questa gente di frontiera. La scorsa estate, l’ultimo episodio in ordine di tempo, quando il governo di Rabat decise in via unilaterale la chiusura dei confini con la Spagna. Tre mesi senza che potesse passare neanche un sacco di farina e la fila dei camion fermi ai posti di blocco e, contemporaneamente, impennata dei tentativi di attraversamenti della striscia confinaria. “L’intento è chiaro – ci viene in aiuto Ignacio, per tutti Nacho, melillense di nascita e malagueño di adozione per motivi di lavoro – quasi quanto le conseguenze che un atto del genere provoca a livello economico. Sia per noi che per gli abitanti delle due città attigue (Nador e Beni Ensar) significa uno stallo economico spaventoso”. Questa chiusura saltuaria e senza preavviso della frontiera si interseca con il contrasto del flusso migratorio messo in opera dal governo marocchino. “L’obiettivo di Rabat – continua Nacho – è solo quello di ottenere finanziamenti europei per contrastare alla radice la tratta di migranti”. Finanziamenti arrivati dall’Unione europea (il cosiddetto “compromiso” che meglio non potrebbero rendere l’idea della transazione) grazie allo sblocco avvenuto a ottobre di ben 140 milioni di euro a favore del Marocco. I controlli in realtà ci sono prosegue Nacho – anche se non metodici – ogni tanto qualche pattuglia dell’esercito marocchino s’imbatte in qualche carovana di profughi, li carica sulle camionette, li porta nell’interno e li abbandona nei posti più impervi, con le conseguenze che si possono immaginare. Una Melilla che, malgrado i ripetuti tentativi da parte della Nazione Madre di mantenere attrattiva la città autonoma grazie alla sua zona franca, si sta progressivamente “marocchinizzando”. La componente spagnola è ormai ridotta a una minoranza e rappresenta ora non più del 35% della popolazione. La Melilla dei paradossi fa la spola fra il passato dalle tinte “nero – franchiste” e quelle attuali “nero – Isis” e rende possibile che nella stessa città vi possano convivere minareti arabi e una statua dedicata alla Falange franchista (unico caso in tutta la Spagna), una città che grida all’Europa la sua condizione di anima fuori dal tempo. A questo paradosso però segue un compromesso, ossia l’ospitalità offerta da alcuni melillensi di etnia marocchina a chi, fra i tanti immigrati, è disposto ad ingrossare le fila degli integralisti salafiti che crescono anche in questo angolo di Europa in Africa, come scoperto recentemente da un reportage della tv spagnola Antena 3. Abitano nel cosiddetto quartiere chiamato “La Cañada de la Muerte” che, al pari di quello de “La Princesa” di Ceuta, è un rione composto esclusivamente da musulmani, dov’è difficile accedervi anche per la stessa polizia. Proviamo ad avvicinarci a questo quartiere, ma la semplice vista della macchina fotografica fa aizzare le antenne a qualcuno. Proviamo a fare qualche foto e poco dopo una pietra ci rimbalza a pochi centimetri facendoci desistere. “I musulmani di qui vedono quello che succede in Spagna e nel resto d’Europa – ci spiega sempre il nostro interlocutore – come una provocazione nei loro confronti. Molta gente ha familiari o amici detenuti in qualche carcere per terrorismo, fattore che non ha fatto altro che aumentare la distanza fra componente araba e cristiana. La gente è stufa dei cristiani perché secondo loro siamo noi a rendere loro la vita impossibile – ci viene detto – solo perché le forze dell’ordine si permettono di chiedere loro, di tanto in tanto, i documenti”. Una radicalizzazione fra musulmani e cristiani che potrebbe esplodere da un momento all’altro. “Al momento stanno vincendo loro – conclude rassegnato Nacho – grazie alla progressiva denatalità da parte della componente spagnola che si sposta sempre di più verso le più attrattive città della ‘Peninsula’”. Al contrario, per chi proviene dal vicino Rif, una delle zone più povere del Marocco, la condizione di vita di una città come Melilla corrisponde a un salto di qualità che non ha pari. Una vittoria fatta di tanti piccoli passi e che potrebbe fungere da “progetto pilota” di quanto potrebbe accadere in Europa nei decenni a venire.
Pugno duro di Berlino sui migranti (ma da noi pretende i porti aperti). Berlino annuncia che intensificherà i controlli anti-immigrazione a tutti i propri confini per fermare i migranti che vogliono tentare di entrare in Germania illegalmente. Aurora Vigne, mercoledì 06/11/2019 su Il Giornale. La Germania annuncia (di nuovo) il pugno duro sui migranti che cercano di attraversare il confine. La polizia federale tedesca ha infatti ricevuto ordine di effettuare più controlli ai confini per fermare i clandestini che vogliono tentare di entrare nel Paese violando le regole sull'immigrazione. Ad annunciare la chiusura delle frontiere è il ministro dell'Interno, Horst Seehofer: "La polizia federale condurrà controlli flessibili a tutte le frontiere tedesche", ha detto. La notizia arriva proprio dopo che il Conte Bis ha riaperto i porti, innescando di nuovo le partenze verso le coste italiane. Ma soprattutto, la mossa di Berlino conferma la fregatura dell'accordo di Malta sulla redistribuzione degli immigrati (leggi qui). Proprio in queste ore, infatti, il quotidiano tedesco Berliner Sonntagsblatt fa sapere che l'Ufficio federale per la protezione della Costituzione (Bfv, ossia i servizi segreti interni tedeschi) respinge sempre più richieste di asilo avanzate dai migranti sbarcati in Italia e a Malta dopo essere stati soccorsi nel Mediterraneo centrale. Tra aprile e ottobre scorso, su 323 profughi interrogati dal BfV nei centri di accoglienza in Italia e a Malta, 47 casi hanno sollevato problemi di sicurezza che hanno portato alla bocciatura della richiesta di asilo. Se si fa poi un confronto tra marzo 2018 e l'aprile scorso, gli interrogatori sono stati 324, con appena 10 casi in cui sono emerse questioni di sicurezza che hanno condotto al respingimento della domanda di protezione internazionale. Il BfV svolge indagini preliminari sui richiedenti asilo al fine di valutare la sussistenza di possibili rischi di spionaggio o estremismo nel quadro dell'autorizzazione di sicurezza, "obbligatoria, prerequisito per l'avvio di una procedura di protezione internazionale", controlli che a quanto si apprende per una questione di sicurezza finiscono molto spesso in respingimenti. Per Roberto Calderoli, vice presidente del Senato, la stretta ai controlli sui confini tedeschi "significa una sospensione del trattato di Schengen". L'esponente leghista ricorda poi che la Francia ha da tempo ripristinato i controlli alle frontiere e proprio in questi giorni ha annunciato nuove misure restrittive. "Dunque Parigi e Berlino possono chiudere i propri confini per fermare i clandestini ma se a farlo, fino a qualche mese fa, era l’Italia con il ministro Salvini partivano subito le critiche e ci definivano inumani? Alla faccia della coerenza, due pesi e due misure a seconda della convenienza", attacca Calderoli. "Così adesso tutti hanno le frontiere blindate, Austria, Slovenia, la Svizzera extraUE, tutti… tranne l’Italia del porte aperte e dei porti aperti". Il leader della Lega, Matteo Salvini, sempre commentando la stretta sull'immigrazione di Francia e Germania, attacca il governo giallorosso: "Complimenti al governo sbarchi, tasse e manette! In meno di tre mesi di porti aperti ha moltiplicato gli arrivi. Ora si fa umiliare da Parigi e Berlino". E poi si chiede: "Conte-Di Maio-Renzi sono complici o incapaci?"
Migranti: la Germania chiude in confini. E noi? Da una parte la "bozza" di accordo di Malta sull'accoglienza; dall'altra la vita reale con i paesi europei che chiudono le frontiere. Tranne noi. Panorama l'1 ottobre 2019. Frontiera della Germania blindata per non far entrare i "clandestini". Così Berlino annuncia che intensificherà i controlli anti-immigrazione illegale a tutti i propri confini. Dopo che il ministro dell'Interno tedesco, Seehofer l'aveva anticipato con un messaggio sul web, un portavoce del dicastero conferma una "veloce" attuazione di controlli a campione non solo alla già monitorata frontiera austriaca, ma anche sulle altre con flussi illegali, senza però fornire dettagli. Questo il testo della notizia diffusa dall'agenzia Ansa (non la "bestia" di Salvini...) ieri sera emntre tutti eravamo concentrati su Palazzo Chigi dove si stava definendo la Manovra economica 2019. Parole chiare, come da linguaggio appunto di agenzia e che non si possono interpretare o nascondere. Sono semplicemente fatti: la Germania "blinda" i confini ai migranti. Ci saranno più controlli di Polizia etc etc etc. Ma come? E' l'accordo di Malta? Un "accordo storico" lo aveva definito il Premier Conte... E le promesse di aiuto dall'Europa? "Non sarete più soli..." hanno ripetuto settimana scorsa proprio come diversi anni fa da Bruxelles. Appunto, parole. Anzi, verrebbe da dire "supercazzole" a cui manca l'epico "...come fosse Antani" di Tognazzi...Perché poi i fatti raccontano un'altra verità. Già la Francia ci rispedisce con la forza, anzi la violenza, i migranti che da Ventimiglia provano ad arrivare in Costa Azzurra. Con la Gendarmeria che si permette pure di sconfinare nel territorio italiano per le loro azioni di "riaccompagnamento forzato". La Germania adesso farà altrettanto e, lo ricordiamo per chi lo avesse dimenticato, per agevolare i rimpatri non si disdegna qualche bella dose di sedativo ai migranti per rendere le operazioni di carico meno complesse. Questi sono i fatti. Chi ci fa la morale sull'accoglienza e promette aiuti blinda i confini. E noi, polli, gli crediamo pure e riapriamo i porti. Un Governo serio ha il coraggio delle proprie scelte ed azioni. Salvini per un anno e passa ha detto chiaro e tondo stop a navi e schiavisti. Giusto? Sbagliato? Non sappiamo. Ma quella era la linea, dichiarata, promessa, portata avanti con mille difficoltà. Conte, il Pd, il M5S, dicano chiaramente che l'Italia accoglie chiunque. Senza scuse, senza nascondersi dietro a promesse di un'Europa che sui migranti ci sta prendendo in giro per l'ennesima volta.
Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 7 novembre 2019. Quote per i migranti econonomici (con l' obiettivo di attirare i professionisti che mancano a certi settori) e l' aspirazione ad accogliere 500mila studenti stranieri entro il 2027 (quasi il doppio di quelli attuali). Ma al tempo stesso, lotta contro gli illegali, limitando l' assistenza sanitaria che viene loro concessa. «Al tempo stesso» è una formula tipica del frasario macroniano, la volontà (un po' democristiana) di combinare gli opposti, di dare un colpo al cerchio e uno alla botte (una politica né di destra, né di sinistra). Ieri il premier Edouard Philippe ha dovuto applicare quel principio all' immigrazione. Il Governo ha presentato venti misure per trovare «un giusto equilibrio», ha detto il primo ministro, tra apertura e repressione: «Vogliamo riprendere il controllo della nostra politica migratoria». A dire il vero, di quote in Francia aveva sempre parlato la destra (Nicolas Sarkozy, che poi non era riuscito a metterle in pratica) e anche le altre misure fanno pensare a quello schieramento, almeno secondo i parametri di una vecchia politica. Chiaramente Emmanuel Macron non vuole lasciare questo terreno di gioco a Marine Le Pen. Una delle nuove misure è la limitazione dell' assistenza sanitaria ai richiedenti asilo e ai clandestini, che ogni anno costa alla Francia più di un miliardo. Secondo il Governo, ci sarebbero tanti abusi. Nella classifica delle nazionalità che domandano lo status di rifugiato, si piazzano al secondo posto i georgiani e al terzo gli albanesi, poi scartati perché provengono da democrazie. Lo farebbero solo per beneficiare temporaneamente in Francia di cure di buon livello e gratuite. Finora l' accesso alla copertura sanitaria universale scattava subito. Ieri, invece, Philippe ha annunciato che si dovranno attendere tre mesi, a parte le cure urgenti (e poi, nei primi 9 mesi di copertura, saranno esclusi interventi come quello alla cataratta e le protesi ad anche e ginocchi). Dopo l'eventuale rifiutato dell'asilo politico, oggi sono concessi 12 mesi supplementari di copertura, ormai ridotti a sei. Ieri accanto al premier, Christophe Castaner, ministro degli Interni, ha annunciato anche la creazione di tre nuovi centri di identificazione ed espulsione dei clandestini, a Lione, Bordeaux e Orléans. Castaner ha promesso 16.000 posti in più per i rifugiati, ma anche lo sgombero - entro fine anno - degli accampamenti nella zona Nord di Parigi. Quanto al ricongiungimento familiare, sarà mantenuto ma le frodi verrano sanzionate con il pugno duro, vedi i padri di nazionalità francese o con regolare permesso di soggiorno che riconoscono minori solo per dare loro la possibilità di venire in Francia. A «compensare» tutto questo ci saranno le quote, con cifre precise, per quantificare chi potrà immigrare regolarmente in Francia, se avrà le capacità professionali richieste nei settori a corto di manodopera locale. Parigi sposa il sistema anglosassone, ben radicato negli Usa ma anche in Canada e in Australia. Le quote per professione (e non per nazionalità) saranno fissate una volta all' anno, a partire dal 2020. Ma ieri la ministra della Giustizia, Nicolle Belloubet, ha fatto subito polemica. «Non ho mai pensato - ha detto - che le quote fossero la risposta ai problemi dell' immigrazione. Dove le hanno applicate, non hanno mai funzionato».
Da corriere.it il 7 novembre 2019. La polizia parigina ha sgomberato stamattina due accampamenti improvvisati dove vivevano oltre 1.600 migranti. Gli sgomberi sono avvenuti in una zona a nord della capitale francese e nel sobborgo di Saint Denis. L’operazione è avvenuta dopo che ieri il ministro dell’Interno Christophe Castaner aveva promesso di rimuovere entro fine dell’anno tutti i campi improvvisati sorti a Parigi. La polizia parigina su Twitter ha riferito che nell’operazione sono stati sgomberati in tutto 1.606 persone. I migranti, riporta Franceinfo, sono temporaneamente stati trasferiti all’interno di alcune palestre. Il vicesindaco di Parigi, Dominique Versini, ha riferito sempre a Franceinfo che centinaia di migranti che vivevano nei due campi improvvisati si sono dileguati prima dello sgombero, per non essere identificati. Si è trattato del 59esimo sgombero effettuato a partire dal 2015. Da quando il grande accampamento improvvisato che sorgeva a Calais è stato sgomberato nel 2016, migliaia di migranti si sono trasferiti nelle zone a nord della capitale. Alcuni di questi migranti, circa il 15-20 per cento, ha spiegato Versini, sono rifugiati che, nonostante abbiano ottenuto il diritto d’asilo, non sono stati in grado di trovare un alloggio regolare.
Migranti, la “riforma” sovranista di Macron. Fulvio Scaglione su it.insideover.com il 10 novembre 2019. “Non credo alla politica delle quote, perché non si riesce mai a farle rispettare. Se domani decidessimo di avere un certo numero limitato di immigrati dal Mali o dal Senegal, oppure di macellai e di esperti di informatica, scopriremmo in fretta che si tratta di un meccanismo impossibile pilotare”. Chi l’ha detto? Emmanuel Macron, nel 2017, durante la campagna elettorale che l’avrebbe portato all’Eliseo. Allora Macron si batteva con grinta contro quello che dieci anni prima era stato un cavallo di battaglia di Nicolas Sarkozy e che in quelle settimane era uno dei temi preferiti di Francois Fillon, suo principale rivale nella corsa alla presidenza. Ma si sa, la propaganda è una cosa, i fatti tutt’un’altra. Così Macron, mentre accettava col contagocce i richiedenti asilo, cambiava anche parere sui flussi migratori. Fino alla clamorosa intervista rilasciata a fine settembre, in cui, all’ombra del principio “la Francia non può accogliere tutti” e del lamento sull’Europa che non collabora, il Presidente annunciava una riforma del sistema di accoglienza dei migranti. Insomma, Macron ha addotto le ragioni di quei “sovranisti” e “nazionalisti” che tanto disprezza quando… non sono lui. Il progetto, comunque, è stato appena illustrato. E ovviamente, più che di una riforma si tratta di una controriforma, accolta a palle incatenate dalle associazioni che si occupano di accoglienza dei migranti. Essa prevede limiti più stretti agli ingressi per ragioni mediche e di cura (il diritto all’assistenza sanitaria sarà riconosciuto solo dopo tre mesi dall’arrivo) e ai ricongiungimenti familiari, oltre che uno scrutinio più accurato delle richieste di protezione umanitaria e politica, con il conseguente aumento delle espulsioni e dei rimpatrii (nel 2018 il 10% rispetto alle richieste) per coloro che fossero giudicati privi delle qualifiche giuste per ottenere tale protezione. Ma a far discutere è soprattutto il sistema delle quote che, stando alle parole di Muriel Pénicaud, la ministra del Lavoro che lo ha presentato, si ispira ai modelli varati dall’Australia e dal Canada. In sintesi, si tratta di questo: ogni anno verrebbero concessi tra 30 e 35mila permessi d’ingresso a lavoratori stranieri di categorie ben precise, quelle cioè che una speciale commissione governativa giudicherà più utili o necessarie all’economia francese, sulla base di un aggiornamento in tempo reale dei posti di lavoro vacanti a cui contribuiranno i dati forniti da sindacati, regioni e uffici di collocamento. Il personale straniero così reclutato potrà avere le qualifiche più diverse, dall’ingegnere al lavapiatti, saranno le richieste del mercato del lavoro a decidere. La nazionalità del migrante non avrà alcuna importanza ma il visto sarà in ogni caso concesso solo per un periodo di tempo limitato e solo in relazione allo specifico lavoro richiesto. Cambia qualcosa anche per gli eventuali datori di lavoro. Oggi, quando assumono uno straniero, devono spiegare perché e giustificare il fatto di non aver assunto un francese. Domani, all’interno dei 30-35mila lavoratori stranieri che formeranno la quota annuale di immigrati economici, i datori di lavoro potranno assumere chi vorranno, senza ostacoli di alcun genere. Nella sostanza, il “la Francia non può accogliere tutti” di Macron si tradurrà in meno permessi per ragioni umanitarie e in un numero limitato e controllato di ingressi per ragioni economiche. Che saranno però quelle della Francia e non quelle dei migranti. Il presidente francese replica a suo modo la strategia di Angela Merkel, che nel 2015 provò a far entrare in Germania i profughi siriani (e solo quelli) col chiaro intento di procurare all’economia tedesca, in ansia anche per il costante calo demografico, forze fresche e ben qualificate dal punto di vista professionale. È una strategia comprensibile, di fronte alle falle che sembrano affondare sia la strategia dei “porti aperti” (l’accoglienza universale è impossibile da gestire) sia quella dei “porti chiusi” (che restano chiusi fino a un certo punto). E si può capire perché certi leader europei, di fronte alle difficoltà economiche interne (in Francia, pare, ogni anno manca il personale giusto per coprire 150 mila posti di lavoro), provino ad arruolare forza lavoro selezionata e a basso costo nelle masse che si affollano alle nostre frontiere. Anche questa strategia, però, ha i suoi rischi. Il più evidente è che, nel medio periodo, finisca con l’impoverire ulteriormente le società e le economie dei Paesi di partenza dei migranti. Paesi che perderebbero così, a nostro favore, le risorse umane migliori. Il che non farebbe che incentivare il desiderio di migrare verso l’Europa. Molti in Francia sostengono che Macron si sia deciso a questa “stretta” dopo le proteste dei gilet gialli e per cominciare a preparare le elezioni presidenziali del 2022, con la prevedibile sfida di Marine Le Pen, che lo ha sorpassato nelle recenti elezioni europee. Ma il primo vero test arriverà assai prima, tra pochi mesi, con una tornata di elezioni amministrative che serviranno, non c’è dubbio, anche da termometro politico generale.
"Trattati a favore della Francia". Così l'Italia si becca i migranti. Il muro francese a Ventimiglia sorretto dagli accordi Ue: da Chambery a Dublino, così ci rimette solo l'Italia. Giuseppe De Lorenzo e Costanza Tosi, Mercoledì 24/07/2019, su Il Giornale. Quando gli immigrati arrivano in Italia, nessuno può impedirgli di entrare. Le porte sono aperte. Quando, invece, cercano di fuggire dal nostro Paese per andare altrove, nessuno li fa passare.
Le porte d’Europa sono chiuse. Tra Ventimiglia e Mentone, sulla linea che separa il territorio italiano da quello francese, i migranti in cerca di fortuna in altri paesi dell’Unione vengono respinti dalla polizia d’Oltralpe senza che Roma possa opporre resistenza. A punire il Belpaese, spiega il deputato della Lega Flavio di Muro, ci sono "trattati internazionali inefficaci, a favore della Francia e talvolta punitivi nei confronti dell'Italia". Si tratta di tre accordi in particolare: quelli di Schengen, Chambery e Dublino III. Tutti abilmente sfruttati da Parigi per rimandarci indietro gli stranieri.
Il trattato di Chambery. Partiamo da Chambery. Il trattato bilaterale tra Italia e Francia risale al 1997, quando al governo c'era Prodi e al ministero dell'Interno un certo Giorgio Napolitano. L'accordo definisce la collaborazione tra polizie di frontiera nella gestione dei confini, in particolare nella lotta all'immigrazione clandestina. Tutto in regola, per carità: gli immigrati irregolari provenienti dal Belpaese e fermati in Francia devono essere rimandati oltre confine. Lo dice il testo. Anche noi, ovviamente, potremmo fare lo stesso. Solo che il flusso oggi va da Roma a Parigi e non il contrario. E così l'Italia si ritrova in una posizione decisamente scomoda: da una parte è obiettivo di sbarco di tutti barconi che partono da Sud; dall'altra, si ritrova un vero e proprio tampone a Nord a causa delle frontiere barricate dai francesi. Bisognerebbe ridiscutere l'accordo, ma per ora non se ne è mai parlato.
Il trattato di Dublino. L'altra spina nel fianco del Belpaese è il trattato di Dublino. Se Chambery riguarda gli immigrati irregolari, Dublino regola i movimenti in Europa di chi ha fatto richiesta d'asilo in uno Stato Ue. "Quando è accertato (...) che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro - si legge nelle carte - questo è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale". Tradotto: i migranti sbarcati in Sicilia e registrati dall'Italia, se provano ad arrivare a Parigi, possono essere rispediti dai francesi nel Belpaese in ottemperanza alle norme di Dublino III.
Un'altra fregatura. Ecco perché Matteo Salvini, durante il vertice a Helsinki, ha sostenuto il no dell’Italia al principio del porto più vicino per l’approdo dei migranti. Francia e Germania insistono per ribadire che le persone salvate nel Mediterraneo vanno fatte scendere a Malta o Lampedusa, col rischio è che - alla fine - a farsi carico di tutti gli immigrati sia sempre lo Stato di primo approdo. Ovvero Roma o La Valletta. Il timore del Viminale, che ha disertato il vertice di Parigi, è che nuovi accordi mal fatti finiscano col confermare l'Italia come "campo profughi dell'Europa". Il pericolo esiste e Ventimiglia ne è la dimostrazione.
Il trattato di Schengen. L'Eliseo, come detto, si trova nella comoda posizione di poter respingere legalmente verso l'Italia sia clandestini che richiedenti asilo. Per farlo, però, deve però beccarli al confine. Un problema che ha risolto da quando, nel 2015, ha sospeso il trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone in Europa. La sospensione è (più o meno) regolare, se si esclude che ormai la Francia ha superato il limite massimo dei due anni: come spiega l’articolo 25 del codice, è nelle facoltà di un Paese "in caso di minaccia grave per l'ordine pubblico o la sicurezza interna" annullare temporaneamente Schengen. Il fatto è che, superata la minaccia terroristica, la mossa francese ha finito col regolare soprattutto i flussi migratori. Gli ultimi dati disponibili, infatti, dicono che nel 2017 su 86.320 "rèfus d’entrèe" notificati ai migranti al confine, solo in 20 sono stati espulsi perché ritenuti una "minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza". Tutti gli altri erano normali migranti. "L'obiettivo originale era la sicurezza della Patria - denuncia l'associazione Anafé nel suo ultimo rapporto - ma la volontà dello Stato sembra, invece, una 'lotta contro l’immigrazione'".
Mettendo insieme Chambery, Dublino e la sospensione di Schengen, Parigi ha eretto così una sorta di muro invisibile al confine (sorretto dalla legalità dei trattati). Nel silenzio assordante dell'Europa, attenta solo a criticare l'Italia.
La Francia regala soldi all'ong che porta i migranti in Italia. Parigi ha staccato un maxi assegno da 100mila euro per Sos Mediterranée. Ma i porti di Macron restano (sempre) chiusi. Angelo Scarano, Venerdì 12/07/2019, su Il Giornale. Parigi sfida l'Italia in due mosse. Il Comune della capitale francese ha infatti conferito la cittadinanza onoraria a Carola Rackete dopo le sue manovre nel porto di Lampedusa al comando di una nave con 42 migranti a bordo e ha anche aperto il portafoglio per sovvenzionare nuove missioni per i salvataggi in mare di Sos Mediterranée. Infatti il Consiglio di Parigi ha votato "un contributo d’urgenza di 100 mila euro a Sos Mediterranèe per una nuova campagna di salvataggi in mare" che avvengono in quel tratto di mare che separa l'Italia dalla Libia. Una mossa che di fatto potrebbe far ripartire le operazioni della ong. Una iniziativa, quella del Comune di Parigi, che cozza un po' con le politiche (quelle vere) messe sul campo dalla Francia nella gestione dei flussi migratori. Macron ama serrare i porti ma fingere di predicare accoglienza, la Gendarmeria è impegnata costantemente al confine con Ventimiglia nei respingimenti e una ragazza italiana è stata arrestata qualche anno fa per aver portato in Francia un gruppo di migranti con un furgone. Eppure adesso viene staccato un assegno da 100mila euro per rimettere in mare un'altra nave che probabilmente al primo salvataggio chiederà di poter attraccare in Italia. Dure le critiche nel mondo politico italiano per questa scelta del Consiglio parigino: "Leggo esterrefatto che il Comune di Parigi ha deciso di destinare 100mila euro a SOS Mediterrnee per contribuire al recupero di clandestini nel Mediterraneo. Lo stesso comune plaude a questa organizzazione e a Sea Watch. Dopo di che i clandestini vengono presi e non portati a Parigi, che finanzia queste attività di sostegno ai trafficanti di persone, ma in Italia. Propongo che fin d'ora tutti quelli che verranno presi da queste organizzazioni non governative, finanziate dal comune di Parigi, vengano dirottati immediatamente verso Parigi o quantomeno verso la Francia. Questi signori fanno i demagoghi a spese degli altri Paesi. Finanziano chi aiuta la tratta delle persone e scaricano i clandestini sull'Italia. Vergogna per il comune di Parigi che si comporta in questa maniera illegale e temeraria". Insomma dopo la cittadinanza onoraria a una ragazza che sperona le motovedette della Guardia di Finanza, i francesi mettono benzina nel serbatoio delle ong che costantemente sfidano il nostro governo e soprattutto le nostre leggi.
Chiara Sarra per il Giornale il 13 luglio 2019. Adesso la Francia celebra Carola Rackete: prima il portavoce del governo Macron aveva attaccato l'Italia che non aveva aperto i porti alla Sea Watch 3, ora il Comune di Parigi ha dato la cittadinanza onoraria alla capitana tedesca che è entrata con la forza nel porto di Lampedusa per far sbarcare i migranti recuperati davanti alle coste della Libia. Ma prima di passare 17 giorni al largo delle coste italiane, la comandante aveva provato a chiedere altri porti di sbarco - dopo aver rifiutato di portare i naufraghi a Tripoli che pure aveva dato autorizzazione all'attracco -. Come già raccontato qualche giorno fa, a raccontarlo è la stessa Rackete, intervistata dal giornale francese Le Nouvel Observateur. Ma rivelato anche in due mail inviate al Mccr di Roma che coordina i soccorsi nel Mediterraneo. I messaggi risalgono alle 19,07 del 24 giugno e alle 22,57 del 25 (leggi qui). Qualche giorno prima - quindi - della decisione di "sfondare" il blocco imposto dall'Italia. "Ho inviato numerose richieste di POS a Malta e alla Francia e ho provato a coinvolgere gli Stati di bandiera nel coordinamento del POS. Finora nessun risultato", scrive la comandante della Sea Watch 3 nella prima email. "Le nostre richieste di POS inoltrate a Malta sono state declinate, quelle inviate alla Francia rimaste senza risposta". Nelle comunicazioni la Rackete denunciava le difficili condizioni a bordo della nave e chiedeva di poter sbarcare i migranti. Nel frattempo - e mentre la Francia continuava a ignorare le richieste di aiuto - il governo italiano aveva già autorizzato malati e minori non accompagnati a scendere dalla nave per essere presi in cura. "Ipocrisia francese: premiano la comandante tedesca Carola Rackete come fosse un’eroina, ma proprio Parigi non aveva risposto alle sue richieste di aiuto", commenta Matteo Salvini, "I francesi si schierano con una ong che fa politica in Italia e con una persona che ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza mettendo a rischio la vita dei militari italiani, come il più facinoroso dei gilet gialli".
Ora la capitana smonta Macron: "Non voglio le vostre medaglie". Pia Klemp ha spiegato le ragioni del suo gesto: "Mi volete dare una medaglia per delle azioni che contrastate all'interno delle vostre mura". Aurora Vigne, Mercoledì 21/08/2019 su Il Giornale. Pia Klemp, l'ex capitana della Sea Watch 3 e collega di Carola Rackete ha rifiutato la medaglia onoraria con cui il sindaco socialista di Parigi, Anne Hidalgo, aveva deciso di premiarla per le sue azioni nel Mediterraneo. In una lettera al primo cittadino della Ville Lumière, la Klemp ha spiegato le ragioni del suo gesto. "Mi volete dare una medaglia per delle azioni che contrastate all'interno delle vostre mura. Sono sicuro che non vi sorprenderete se rifiuto questa medaglia". La capitana si riferisce alle azioni della polizia francese che, scrive la donna, "ruba le coperte alle persone costrette a vivere per strada". Fatti come questi non sono di certo nuovi e rimbalzano spesso sulle cronache oltralpe. Inoltre, denuncia sempre la capitana, le autorità francesi reprimono le manifestazioni e accusano di crimini le persone che difendono i diritti dei migranti e dei richiedenti asilo. Di episodi come questi abbiamo parlato anche noi sul Giornale.it. Come si può vedere dal reportage, infatti, non sono mancati episodi in cui le autorità francesi hanno respinto illegalmente dei migranti minori, "spedendoli" in Italia. "Non abbiamo bisogno di medaglie. Non abbiamo bisogno di poteri che decidano chi è un 'eroe' e chi è una persona 'illegale'. Siamo tutti uguali. Quello di cui abbiamo bisogno è di libertà e di diritti. È tempo di denunciare onori ipocriti e colmare il vuoto con la giustizia sociale", chiude l'ex capitana smontando l'ipocrisia della Francia sulla questione migranti.
Così la Francia falsifica i documenti per mandare i migranti in Italia. Tre turiste detenute in Francia per un mese, non avevano prenotato l'hotel. Macron fa la morale all'Italia, ma all'aeroporto di Parigi arrestano i viaggiatori transitanti che non hanno prenotato un albergo. Giovanni Giacalone, Giovedì 22/08/2019, su Il Giornale. Emannuel Macron fa la morale all'Italia sulla gestione degli immigrati e sui "porti chiusi", ma quanto emerge da Oltralpe è a dir poco agghiacciante: tre turiste latino-americane fanno scalo aereo a Parigi e vengono arrestate, umiliate, detenute per più di venti giorni e poi lasciate in mezzo alla strada. La loro colpa? Non aver prenotato un hotel per la notte di transito all'aeroporto di Parigi, prima di prendere le rispettive coincidenze per Svizzera e Spagna. Le tre donne coinvolte nel brutto fatto sono due cittadine colombiane e una venezuelana, rispettivamente Jennifer, Liliana e Wilma, tutte fermate dagli agenti della sicurezza all'aeroporto di Parigi "Charles de Gaulle" e rinchiuse nella famigerata area denominata "Zapi 3", dove vengono inviati tutti coloro che non hanno requisiti come il visto, il passaporto, la prenotazione di un hotel in Francia, un'assicurazione medica e il biglietto di ritorno. Centri di reclusione temporanea gestiti dalla polizia di frontiera o dalla dogana (DCPAF). Insomma, se manca uno di questi elementi, le autorità possono ipotizzare che il viaggiatore sia un clandestino e hanno dunque il diritto di rinchiuderlo in un'area dove, secondo ong come la Anafe, vengono violati i diritti umani dei viaggiatori che diventano veri e propri detenuti. In effetti il racconto delle tre donne è a dir poco inquietante, come narra Liliana: “Dal momento in cui entri lì ti senti prigioniera. Ti sequestrano il cellulare e tutte le tue cose. Ti danno la roba del bagno, un sapone, una tessera telefonica per comunicare con i tuoi parenti”. E ancora: "Ci hanno messo in una cella, ci hanno ammanettati, intimiditi, ci hanno costretto a spogliarci, persino intimamente e nel frattempo la polizia ci derideva". Finalmente l'11 agosto le tre donne venivano rilasciate, dopo quasi un mese di detenzione e senza aver ricevuto alcun tipo di aiuto o supporto dalle autorità francesi. “Ci hanno buttate in strada dicendoci di andare a recuperare i nostri documenti alla prefettura di polizia di Bobigny. Non sapevamo che fosse dall’altra parte della città. Abbiamo camminato molto. Eravamo senza soldi e io mi sentivo molto male…” spiega Jennifer, a cui cinque anni fà veniva diagnosticato un cancro e alla quale i suoi genitori, con molti sacrifici, le avevano regalato un viaggio a Madrid. Wilma invece stava transitando a Parigi per andare a visitare suo figlio malato in Svizzera. Una storia assurda che vede tre turiste trattate come criminali, detenute, umiliate e tutto ciò per non essere state a conoscenza dell'obbligo di prenotare un hotel, requisito a quanto pare indispensabile per chi transita in un aeroporto francese. Insomma, attenzione a tutti i quei viaggiatori che hanno intenzione di far scalo in Francia.
Così il buonista Macron tratta i migranti: rinchiusi senza cibo né acqua. Parigi predica accoglienza, ma respinge i migranti. Le accuse di abusi: "Ci fanno dormire in terra, senza letti né coperte". Giuseppe De Lorenzo e Costanza Tosi, Mercoledì 17/07/2019, su Il Giornale. La camionetta con i simboli della polizia francese, la sirena e i lampeggianti resta parcheggiata alla stazione. Dopo aver rastrellato il treno, gli agenti hanno caricato il migrante su un altro mezzo senza le insegne di riconoscimento. È anonimo, quasi a nascondere qualcosa. Il nove posti della casa Renault sfreccia lungo le strade di Mentone, costeggia il lungomare e si dirige verso gli uffici della polizia di frontiera. Sono le 22 circa. L’immigrato non potrà essere respinto prima di domani mattina. È il destino dei clandestini che cercano di andare in Francia dopo le 19: vengono catturati, portati via, rinchiusi e stipati in un container senza cibo né acqua dalla polizia dell’accogliente Macron. Di filippiche all’Italia sull’immigrazione la Francia ne ha fatte molte. Troppe, a giudicare da come si comporta al confine. Ieri l’Ong Mèdecins du Monde ha denunciato alla procura di Nizza i comportamenti della gendarmerie tra Mentone e Ventimiglia. Si parla di “detenzioni arbitrarie”, immigrati abbandonati in locali di "15 metri quadri senza mobili", di "servizi igienici inutilizzabili" e continue violazioni dei diritti delle persone. Abusi veri e propri che alcuni migranti hanno raccontato in esclusiva al Giornale.it. Dopo aver seguito il furgoncino francese che porta i clandestini nei container-cella, aspettiamo la mattina per seguire i respingimenti immediati dalla Francia all’Italia. Gli stranieri catturati la sera prima vengono svegliati intorno alle 7, poi inizia la trafila burocratica. Intorno alle 9 gli agenti li costringono ad oltrepassare a piedi il ponte che divide il Belpaese dai cugini d’Oltralpe. Sono stanchi. Arrabbiati. Disorientati. "Stanotte sono stato in quel container - ci spiega Amid - mi hanno fatto dormire per terra, sul pavimento". Tredici lunghe ore di attesa, senza diritti. "Non ci hanno dato né cibo né acqua. Per bere c’era solo un bicchiere". E basta. Il bungalow "è freddo d’inverno e caldo d’estate". La porta è chiusa a chiave. Sul retro alcune finestre affacciano sulla Costa Azzurra, ma i migranti sono imprigionati da una lastra di ferro dagli spuntoni acuminati. Non possono scappare. Le "detenzioni arbitrarie nei locali della polizia di frontiera francese" ci vengono confermate anche da diversi volontari di associazioni umanitarie che si occupano di immigrazione al confine franco-italiano. “Le condizioni in cui vengono tenuti sono degradanti - spiega una fonte - non hanno acqua, cibo, letti o coperte. Non gli viene neppure dato modo di essere visitati da un dottore o di avere un traduttore". Le accuse prendono corpo dalle testimonianze dei diretti interessati. Donne e bambini vengono fatti dormire insieme agli uomini e in stato di completo degrado. Non mancano episodi di violenza verbale da parte dei poliziotti. “Sono dei figli di puttana - racconta un ragazzo algerino - Mi hanno chiesto se parlavo francese e quando ho risposto di ‘no’ si sono rivolti a me in arabo. Mi hanno detto: Fuck your mother". Ibrahim ne è certo: "I francesi sono dei razzisti, sono dei razzisti". Lo ripete due volte. Secondo la fondazione francese Anafè che opera per dare sostegno legale ai migranti, l’unico obiettivo della gendarmerie è quello di rispedire i migranti in Italia nel più breve tempo possibile. Adieu. Nel suo ultimo rapporto di osservazione, intitolato “Persona non grata”, cita anche la Commissione nazionale dei diritti dell’uomo, secondo cui “le garanzie durante la procedura di non ammissione non sono rispettate” e i migranti "non possono esercitare i propri diritti". "Secondo il Consiglio di Stato - spiega Emilie Pesselier, di Anafè - è legale detenere una persona solo meno di 4 ore. In realtà, per i migranti la detenzione dura molto di più". Gli stranieri restano nei container "tutta la notte", per 12 o 13 ore, in moduli di metallo molto piccoli e "dove non c’è riciclo d’aria, non ci sono sedie, non ci sono letti o coperte". Le persone "vengono messe lì a decine, senza distinzioni di età né di sesso". Un inferno nei fatti, benedetto dalle belle parole di Macron. Che predica accoglienza senza metterla in pratica.
Francia, migranti chiusi nel 'bunker': "Ci fanno dormire per terra". Tra Ventimiglia e Mentone i respingimenti di Macron in Italia. Le accuse alla Francia per la gestione degli irregolari al confine. Giuseppe De Lorenzo e Costanza Tosi, Giovedì 18/07/2019 su Il Giornale. Il Re è nudo. O forse dovremmo dire il Napoleone dei giorni nostri. Emmanuel Macron e le sue politiche migratorie finiscono (di nuovo) nel mirino per la gestione dei rimpatri al confine con l'Italia.
Dal rapporto del CGLPL sulla visita a Mentone (2017). La polizia d'Oltralpe ferma i migranti, controlla i documenti di chi prova ad entrare illegalmente e li rispedisce nel Belpaese. Ma non sempre lo fa trattandoli coi guanti bianchi. Con la scusa del terrorismo, dal 2015 Parigi ha sospeso gli accordi di Schengen per pattugliare le frontiere, superando (e non di poco) il limite dei due anni imposto dai trattati. La gendarmerie blocca tutte le auto alla caccia di passeur e batte a tappeto i treni provenienti dal Belpaese. Può farlo, per carità. I richiedenti asilo sono disciplinati dal regolamento di Dublino, ma per i clandestini valgono gli accordi tecnici di Chambéry sulla riammissione. E così a Mentone i migranti, o presunti tali, vengono fermati, caricati su un furgone anonimo e trasferiti al confine. E da qui rimpatriati in fretta e furia in Italia. Dai tempi della crisi migratoria a Ventimiglia le cose sono cambiate parecchio. Ora il flusso si è ridotto notevolmente, senza però spegnersi mai. Abdel è tra i superstiti della sfida. Si nasconde dietro un vagone sui binari "morti" della stazione di Ventimiglia: "Ho provato a passare stamattina, mi hanno rimandato indietro a piedi. Ora sono stanco". In passato i migranti tentavano la via mare, al confine basso di Ponte San Ludovico, oppure i sentieri delle montagne. Oggi la maggior parte di loro sale su un treno diretto a Mentone. "Si nascondono anche nei locali elettrici di cui hanno le chiavi", sussurra al Giornale.it un agente italiano. Alla stazione di Menton-Garavan, la prima in Francia, la polizia ferma la locomotiva, sale sui vagoni e controlla i documenti a chi è sospettato di non essere in regola. "Se non hai il passaporto o il permesso di soggiorno ti fanno scendere", spiega sconfortato un migrante. Poi vieni caricato su un furgone e portato a Ponte San Luigi, il confine alto tra Mentone e Ventimiglia. Se non sono passate le 19, si provvede subito al respingimento. Altrimenti i migranti vengono chiusi in dei container in attesa cheil giorno successivo riaprano gli uffici italiani. "Ho passato la notte lì dentro - ci racconta un irregolare - ho dormito per terra. Non ci hanno dato cibo e per bere c'era solo un bicchiere" (guarda qui il video). Quei "bunker", come li definisce un agente, sono un tabù. Nemmeno la polizia italiana può entrare. "Non abbiamo una foto per degli interni perché ci rifiutano l’ingresso", dice Emilie Pesselier dell'associazione Anafé. Esistono però rapporti ufficiali e dettagliati con tanto di immagini (guarda qui). E non sono una cartolina di cui Macron può andare fiero.
A visitare nel 2017 le stanze della Polizia di Frontiera (PAF) a Mentone è il Revisore generale dei luoghi di privazione della libertà. Nella sua relazione evidenziava come uomini passassero la notte in "condizioni indegne", stipati in "quattro moduli senza mobili e con i pavimenti sporchi, pieni di spazzatura, cartoni e alcune coperte usate". Le foto, in fondo, lo dimostrano ampiamente (guarda qui). Nel marzo del 2018, poi, un eurodeputato, un senatore e un consigliere regionale francesi organizzano una visita alla stazione di polizia a Ponte San Luigi. "I migranti - si legge nel rapporto - vengono (…) tenuti a forza in locali divisi in due compartimenti. Nel primo blocco ci sono prefabbricati vuoti con interni in metallo senza mobili o riscaldamento disposti in un cortile recintato. (...) Il secondo blocco contiene una piccola stanza chiusa a chiave e situata nell’edificio vicino alla reception del PAF. Ci sono panche, servizi igienici e una cannella per l’acqua". Oggi, spiega Emilie, "i locali sono sostanzialmente gli stessi". Qualcosa è cambiato, certo. Lo sostiene pure la polizia italiana: "Adesso il box è tutto coperto" e la rete metallica è stata sostituita da un tetto "in plexiglass". Ma la situazione resta molto critica. "C'è solo il nudo pavimento con i cartoni per terra - spiega un operatore a taccuino chiuso -. E il cesso chimico, da quanto ci riferiscono, è in condizioni pietose". In questi locali di "15metri quadri", ancora oggi vengono raggruppate "una media di 20-30 persone per notte". Con meno di un metro quadro a testa per vivere.
Il "muro" anti-stranieri di Macron. Così caccia i migranti in Italia. Parigi considera "inaccettabile" il comportamento di Salvini su porti chiusi e migranti, ma poi barrica la Francia. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 19/07/2019, su Il Giornale. La stazione di Ventimiglia è la casa di molti migranti. Mangiano e dormono per strada o sui sassi tra le rotaie. Sono a centinaia gli immigrati che, ogni giorno, arrivati dalla rotta del Mediterraneo o da quella balcanica marciano compatti fino a Ventimiglia, per provare a valicare il confine e dirigersi dall’altra parte d’Europa. Non è facile. Superare la prima stazione "straniera" e proseguire per la terra promessa è ormai diventata un’impresa. Non appena il treno si ferma, a Mentone, la polizia francese sale a bordo a caccia di migranti sospetti. Inizia a cercare chi, su quel treno, non ci può stare. L’obiettivo dei gendarmi sono sempre loro, gli immigrati senza passaporto. In base "ai tratti somatici" gli agenti iniziano a fare il controllo dei documenti, poi li trascinano sulla banchina e il loro viaggio termina lì. Loro lo sanno. Sanno che, una volta beccati, verranno rispediti subito in Italia. La Francia in un solo anno ne ha mandati indietro 18.125. Quasi tutti provenienti da Nigeria, Mali, Costa d’Avorio, Guinea e Algeria. Numeri che si sommano ai migranti espulsi per via del Trattato di Dublino e riaccompagnati a Bardonecchia e in aereo da Germania, Austria e Olanda. "Quando sono stato preso sul treno mi hanno portato alla polizia di frontiera italiana. Da lì sono dovuto riscendere a Ventimiglia, a piedi, sono tre-quattro ore", ci racconta Samir, sdraiato a terra sulle rotaie all'ombra di un vagone. Come lui, tutti gli altri. I van della polizia francese li portano a Ponte San Luigi, confine alto della frontiera franco-italiana. Il ponte divide i due Stati e, da li, ogni giorno, in fila indiana e con la testa bassa, gli stranieri tornano da dove sono venuti. In Italia. "La prossima volta proverò a passare dalle montagne", ci confessa Hamid. La perseveranza transalpina rischia di riaprire la via dei sentieri, come il "passo della morte". "Ogni giorno respingono circa 50 persone - rivela un agente italiano che opera alla frontiera - Con questa scusa dei confini chiusi, chiunque trovano in Francia lo rimandano in Italia. Si stanno ripulendo il Paese con lo scudo delle frontiere chiuse". Per i respingimenti regolari, sarebbe necessario rispettare alcune procedure che permettano di verificare la situazione del singolo individuo. Ma come certificano le associazioni che operano al confine, "le garanzie durante la procedura di riammissione non sono rispettate e gli interessati non possono esercitare i propri diritti". E pensare che Sibeth Ndiaye, portavoce del governo francese, nei giorni scorsi ha pure fatto la morale al ministro dell'Interno e, dopo il caso della Sea Watch 3, ha definito "inaccettabile" il comportamento di Matteo Salvini sulle politiche migratorie. "È da ipocriti detto da loro - attacca il deputato leghista Flavio Di Muro -, che dal 2015 tengono un invisibile muro qui sul confine di Ventimiglia" e che non hanno neanche risposto alla richiesta di porto sicuro avanzata dalla capitana Carola Rackete. Da quando Parigi ha ripristinato i controlli alla frontiera sospendendo Schengen, si è formata una muraglia di gendarmi che non lascia scampo e rimbalza i migranti in Italia. Eppure Macron ci fa la morale suoi porti chiusi, proprio lui che "inscatola" i migranti nei container.
La Francia falsifica i documenti per rimandare i migranti in Italia. Le accuse choc a Parigi: "Sui fogli nomi e storie inventate". Respinti anche migranti trovati a Marsiglia: "Si stanno ripulendo la Francia". Giuseppe De Lorenzo e Costanza Tosi, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale Le procedure sono procedure. E se un Paese amico fa la cose per bene, non ci sarebbe motivo di dubitarne. Tuttavia i saggi sanno che in politica fidarsi è bene, ma non farlo è pure meglio. Anche se di mezzo c'è la Francia. Già, perché a quanto pare pur di respingere quanti più migranti possibili in Italia, i nostri cugini non si fanno problemi ad aggirare le norme o a taroccare i documenti. Dal lontano 2015 Parigi gestisce una sorta di "muro invisibile" al confine tra Ventimiglia e Mentone. Solo negli ultimi dodici mesi ha rispedito nel Belpaese qualcosa come 18.125 immigrati. E ogni giorno continua a mettere in atto riammissioni e respingimenti facendo leva sulla sospensione dell'accordo di Schengen prorogata (nel silenzio dell'Ue) ben oltre il limite dei due anni. Niente di assurdo, per carità. Anzi: la Francia fa quello che - a giudicare dalle elezioni - anche gli italiani desiderano. Ovvero sbarrare i luoghi d'ingresso ai clandestini. Solo che mentre i "porti chiusi" di Salvini indignano l'Europa intera, nessuno s'infiamma per le saracinesche calate da Macron o per i trucchetti della polizia d’Oltralpe. Vediamo cosa accade. Quando Parigi trova un irregolare alla frontiera può "respingerlo" in Italia. Si tratta di una procedura molto rapida: i gendarmi pizzicano i clandestini sui treni e li portano a Ponte San Luigi. Qui li trattengono in container senza cibo né acqua, gli danno un foglio chiamato refus d'entré e poi li rimandano indietro. Tutto nella norma. O quasi. L'obiettivo della polizia francese, infatti, è quello di cacciare oltre confine i migranti prima possibile. E per riuscirci svolgono le pratiche in maniera più che sbrigativa, a volte calpestando i diritti degli stranieri. Facciamo qualche esempio. Per identificare gli immigrati si basano su un paio di domande su nome, cognome ed età senza approfondire le indagini. E se fosse un profugo? Se fosse in fuga dalla guerra? Pace. E ancora: i refus d'entré dovrebbero essere firmati dagli agenti specificando nome e grado, ma in quasi tutti i documenti appaiono solo scarabocchi e poco più. Infine, molti migranti hanno denunciato l'impossibilità di presentare richiesta di asilo: i poliziotti li ignorerebbero, evitando così di doversi far carico della domanda di protezione. Bel vantaggio. "Alla maggior parte delle persone - spiega Emilie Pesselier, di Anafè - viene solo consegnato il refus d’entre e vengono rimandati in Italia". Di aneddoti su espedienti poco ortodossi ne esistono a bizzeffe. Capita pure che fermino gli stranieri ben oltre la frontiera e, violando gli accordi, provino a rispedirli a Ventimiglia. Le norme affermano che per giustificare il respingimento debbano beccare il clandestino al confine e presentare una "prova" della sua provenienza dall’Italia. Cosa fanno invece i transalpini? "A volte prendono un biglietto del treno Venitimiglia-Metone e lo danno in mano al migrante", ci rivela un poliziotto italiano impegnato al confine. Poi ovviamente i nostri agenti domandano loro se sono davvero stati presi sul convoglio (come scritto sui documenti francesi) e "rispondono che erano già a Marsiglia". Cioè a tre ore d'auto dalla frontiera. Un piccolo trucco con cui "si stanno ripulendo la Francia". A discapito del Belpaese. L’inventiva francese non ha limiti. "Quando ci presentano i documenti - aggiunge il poliziotto- Sui fogli scrivono nome, cognome, data di nascita e provenienza del migrante. Ma spesso li compilano loro stessi". Sui refus d'entré gli agenti nostrani trovano "nomi o storie inventate” e "minori che diventano maggiorenni” per magia. L'artificio dei finti over 18 è stato per lungo tempo motivo di scontro: "Su quelli palesemente minori dicono: 'Ha dichiarato di essere maggiorenne'. Ma poi quando verifichiamo le impronte digitali scopriamo che non ha 18 anni". A quel punto la polizia li riporta in Francia e i gendarmi "fanno gli stupidi". "Ci dicono: 'Ah, scusami, non me ne ero accorto". Insomma, "ci provano". Secondo il regolamento di Dublino, i minori non accompagnati non potrebbero essere respinti. E così per evitare di farsene carico, nel tempo Parigi ne ha inventate di ogni: alcuni sono stati rimessi direttamente sul treno per Ventimiglia senza passare dagli uffici, altri sono stati "affidati" ad altri migranti maggiorenni anche se non erano parenti. E si sono verificate pure modifiche arbitrarie alle date di nascita pur di farli risultare maggiorenni. "Diverse missioni di osservazione - si legge nel rapporto di Anafé - hanno trovato prove del fatto che il cambio della data di nascita sarebbe avvenuta allo scopo di ingannare la polizia italiana". Non proprio quella che si può definire "correttezza istituzionale". Perché respingere i clandestini sarà pure un diritto. Ma taroccare le carte no.
Migranti, un poliziotto rivela: "Così la Francia raggira l'Italia". Il caso-migranti sulle violazioni francesi a Ventimiglia: "Se lo facessimo noi ci arresterebbero". Giuseppe De Lorenzo e Costanza Tosi, Lunedì 22/07/2019, su Il Giornale. "Se facessimo noi cose del genere ci arresterebbero". Loro, invece, "ci provano" senza farsi grossi problemi. A parlare in anonimato (ascolta qui) è un agente italiano impegnato al fronte di Ventimiglia. La situazione al confine è "migliorata", ma ancora critica. Dopo l'emergenza di qualche anno fa "il flusso è un po' diminuito" e anche "i controlli della polizia francese”, impegnata coi gilet gialli a Parigi. Ma la gendarmerie continua a cacciare indietro gli immigrati, a volte cercando di ingannare la polizia italiana. I ritornelli, in fondo, non cambiano mai. E l'attività frontaliera dei galletti sembra proprio un disco rotto fatto di gestioni allegre delle procedure di riammissione. Come noto Parigi dal 2015 ha sospeso l'accordo di Schengen, ripristinando i controlli in ingresso e superando il limite di due anni imposto dai trattati Ue. Se i gendarmi beccano al confine un clandestino (o presunto tale) lo rimbalzano in Italia. "Esistono due pratiche - ci spiega il poliziotto - il respingimento e la riammissione". Quest'ultima è "una trafila lunghissima”, mentre il respingimento è molto più rapido e avviene proprio alla frontiera. Per farlo i francesi devono presentare alcuni documenti: "Ai migranti chiedono nome, cognome, data di nascita e da dove viene". Poi scrivono tutto su un certificato, chiamato refus d'entré, e li rispediscono oltre il Ponte San Luigi verso gli uffici italiani (che se ne fanno carico). "Spesso però i fogli li compilano loro stessi (i poliziotti francesi, ndr) perché ci troviamo nomi inventati, minori che diventano maggiorenni. Si inventano anche l'età". Il "trucco" si ripete in continuazione. Se agli agenti italiani arriva un ragazzo palesemente minorenne, i transalpini tirano fuori la scusa del "ha dichiarato di essere maggiorenne". Poi però dalle impronte digitali si scopre che ha meno di 18 anni e allora viene rimandato a Mentone. Basta andare a Ponte San Luigi per osservare il rimpallo: due agenti italiani accompagnano un ragazzo verso gli uffici francesi, entrano e dopo qualche istante tornano indietro da soli. Colti con le mani nella marmellata, i gendarmi si arrampicano sugli specchi: "Ci dicono: 'Scusami, non me ne ero accorto'. I francesi fanno molto gli stupidi". Insomma, "ci provano". Senza contare che in passato se "gli mandavi indietro un minore" magari "te lo riportavano in uno dei gruppi" di immigrati respinti poco dopo. Nemmeno fosse un ping pong. In fondo il Belpaese ha sempre avuto "la tendenza a chiudere un occhio". O, meglio, "si è sempre abbassato i pantaloni". E Parigi ne ha approfittato. Nell'ultimo anno il ministro Salvini ha più volte sollevato il problema, accusando direttamente i cugini d'Oltralpe. Ma spesso, dice il poliziotto, una volta scemato il caso mediatico "tutto torna come prima". Come adesso. Capita infatti che i cugini provino a scaricare nel Belpaese pure gli stranieri catturati ben oltre la frontiera. "Si inventano le storie. A volte prendono un biglietto del treno Venitimiglia-Metone e lo danno in mano al migrante. Poi noi gli facciamo le interviste e nostro interprete chiede: 'Ma ti hanno preso qui come scritto nel foglio?' E lui risponde che invece era già a Marsiglia". Noi potremmo contestare il respingimento, ma è difficile. "Dandogli il biglietto e la dichiarazione, noi non possiamo fare praticamente nulla. Anche se lo sappiamo".
E così Parigi persevera nel tenere il suo muro invisibile e a rinchiudere i migranti in container senza cibo né acqua, infischiandosene di essere accusata di falsificare i documenti pur di riportare a Roma gli immigrati. "La media di questi giorni è di 50 al giorno", spiega l'agente. A noi invece capita di portarne oltre confine 2-3 al dì. Non più. E nonostante i numeri risicati, i gendarmi non la prendono bene: "Quando noi dobbiamo mandare indietro un migrante, ci fanno aspettare un'ora anche se abbiamo fornito tutti i documenti idonei. Lo fanno per capriccio, finché non li ricatti di non prendere più i loro respingimenti e allora la situazione magicamente si sblocca". Tutto sommato, i numeri dicono che a loro non conviene bloccare la macchina. Ma che la polizia nostrana debba arrivare a "ricattare" i colleghi d'Oltralpe la dice lunga sulla situazione a Ventimiglia. E sul rispetto francese per l'Italia.
Migranti, l'accusa shock a Parigi: "La polizia francese è razzista". La Francia elogia Carola e fa la morale all'Italia. Ma al confine fa di peggio. Le accuse: "Così mi hanno insultato". Giuseppe De Lorenzo e Costanza Tosi, Martedì 23/07/2019 su Il Giornale. "Quando la polizia francese ha capito che sono algerino ha iniziato a insultarmi in arabo". Hamid è un migrante, uno dei tanti che incontriamo a metà del ponte che divide la Francia dal Belpaese. È stato fermato sul treno che da Ventimiglia porta a Mentone e costretto dopo mezz'ora a tornare da dove era venuto. In Italia. I gendarmi hanno solo dato un'occhiata ai documenti, hanno compilato in pochi minuti un foglio per il respingimento e poi l'hanno invitato a ripassare il confine nel minor tempo possibile. Le richieste di Hamid sono state stroncate da insulti: "Mi hanno detto Fuck your mother. Sono dei razzisti". Le parole del giovane migrante aprono un'altra crepa nel castello buonista di Macron. Sono il racconto di una Francia "razzista" alla frontiera ma che predica le porte aperte a Parigi. Che immagina il Belpaese come porto sicuro d'Europa. Che dall'Eliseo invia bordate contro le politiche di Salvini ("comportamento inaccettabile", ebbe a dire la portavoce del governo) e poi a Ventimiglia usa il pugno duro. Se non di ferro. Una Francia che premia la capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete, che finanzia le Ong in rotta verso le coste della Libia e poi barrica i confini terrestri con l'Italia. Un comportamento quantomeno ambiguo. La ditta Macron&co, che nell'ultimo anno ha respinto ben 18.125 migranti, è infatti accusata non solo di rinchiuderli nei container senza cibo né acqua o di falsificare i documenti per la riammissione in Italia. Ma anche di mettere in atto pratiche poco rispettose e al limite del "razzismo", in particolare durante le procedure di pattugliamento alla prima stazione dopo la frontiera. "I passeggeri vengono suddivisi e selezionati in base a segni esterni, come colore della pelle, 'odore', abbigliamento - si legge sul rapporto dell'associazione Anafè - Si tratta di logiche discriminatorie e di pratiche di controllo sulla base dell'apparenza". Dalle testimonianze raccolte emerge il particolare modus operandi dei gendarmi a Mentone: "Chiedono i documenti soltanto a persone con tratti fisici che possano far pensare che siano originari dei paesi africani o del medio oriente". Interrogata dalla Commissione Nazionale dei Diritti dell’Uomo, la polizia di frontiera ha dichiarato di controllare sempre tutti i passeggeri del treno. Tuttavia, membri delle associazioni che operano al confine e che ogni giorno diventano testimoni oculari del blocco frontaliero antimmigrati, giurano di non essere mai stati sottoposti a tali verifiche. In questa ricerca dell'immigrato, i francesi a volte inciampano in clamorosi errori. A pagarne le conseguenze sono persone in regola con la legge e con la sola sfortuna di sembrare migranti. Tra loro anche Daren. Lo incontriamo una mattina a Ponte San Luigi mentre cammina, a passo svelto, verso la polizia di frontiera italiana. "Mi hanno fatto dormire là dentro - ci spiega indicando il bunker - mi hanno preso sul treno, ma io non volevo andare in Francia. Vivo a Ventimiglia con la mia famiglia stavo solo andando a fare un concerto. Sono un cantante". Daren ha provato a spiegare le sue ragioni alla polizia francese, ma non è stato ascoltato. Le cronache e le testimonianze dicono che i francesi non trattano certo i migranti con i guanti bianchi. Ne è la prova Abed, che ci rivela di essere stato fatto scendere dal treno e portato alla frontiera solo perché a un poliziotto il suo passaporto sembrava falso. "Lì hanno controllato i documenti e mi hanno detto che è tutto ok", sussurra. Direte: si saranno scusati per l'equivoco e l'avranno riportato alla stazione. E invece no. Gli hanno solo indicato (malamente) la via e per poi rispedirlo indietro a piedi. E tanti saluti alla decantata bontà di Macron.
Ventimiglia, i francesi blindano il valico: «Rimandano indietro i migranti». Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 sa Corriere.it da Marco Imarisio. A Ventimiglia solo a settembre 420 respingimenti: i migranti non vogliono stare in Italia, e arrivano dalla rotta balcanica. Alla frontiera alta sembra che sia scoppiata la guerra. Intorno alle due casupole del valico di confine con la Francia lungo la statale Aurelia sono schierati otto blindati e una cinquantina di gendarmi, muniti di sguardo duro e mitragliatrici spianate. Era stata un’estate tranquilla, persino in questo lembo estremo d’Italia che quattro anni fa divenne uno dei simboli europei del dramma dell’immigrazione, con centinaia di profughi senza nome e senza niente accampati sugli scogli dei Balzi rossi, che tentavano di passare dall’altra parte, verso Mentone, a nuoto oppure tentando la via stretta e pericolosa delle montagne che sovrastano il mare. Ancora negli ultimi giorni d’agosto, il vecchio posto di blocco che separa i due Stati era popolato solo da qualche agente che faceva passare le famiglie di rientro dalle vacanze. Invece, alle 18 di quello che dovrebbe essere un normale martedì di settembre, prima e oltre le sbarre appare uno schieramento imponente, con i blindati messi di traverso a sbarrare qualunque deviazione sul piazzale, auto «civili» perquisite con modi bruschi, controlli molto più stretti del solito, che comunicano una certa ansia, comunque una sensazione di urgenza. L’apparenza non inganna, per una volta. La spiegazione è nei numeri raccolti dai volontari delle associazioni Keshanya e Diaconia, che lavorano a stretto contatto con la Caritas e, in una accezione diversa, con la Gendarmerie. Nel senso che controllano 24 ore al giorno il valico che tutti qui chiamano la «frontiera alta», per differenziarla da quella «bassa» sulla provinciale della Valle Roya che dalla Francia conduce a Cuneo. I respingimenti dei migranti verso l’Italia da parte delle forze dell’ordine francesi non sono mai cessati del tutto, nonostante le proteste delle organizzazioni umanitarie e talvolta anche del nostro governo. L’estate è sempre la stagione più intensa. A luglio ed agosto erano state contate poco più di 150 persone al mese, ben sopra la media annuale. Ma nella prima settimana di settembre, il numero si è impennato fino a diventare abnorme, 420 migranti prima trattenuti e poi rilasciati in strada. Rispediti oltre confine, da noi, con le consuete cattive maniere sempre denunciate dalle associazioni non governative. Nella seconda settimana, 8-15 settembre, la tendenza si è ancora più accentuata, 60-70 persone ogni giorno. «Non è questione di predicare bene e razzolare male, perché è dal giugno 2015, da quando ci fu la prima emergenza, che i francesi razzolano male. Quindi la novità è solo nel dato statistico». La premessa di Maurizio Marmo, che da nove anni dirige la Caritas di Ventimiglia introduce la domanda che i suoi volontari si sono posti per primi. Perché questo aumento così improvviso di respingimenti? Serena Regazzoni, responsabile dell’area immigrazione, ha trovato una risposta sorprendente raccogliendo le testimonianze dei migranti appena espulsi dalla Francia. Sono persone provenienti dal Corno d’Africa e dal Marocco, dalla Tunisia. Ma per arrivare da noi «hanno fatto il giro dall’altra parte», come ci confermano anche due dei tanti ragazzi marocchini nascosti tra le rocce in attesa di riprovare il passaggio della frontiera una volta calato il buio. Sono passati per la rotta balcanica, conferma Serena che non ha una spiegazione per questo maggiore afflusso attraverso la via più inusuale per chi proviene dai Paesi affacciati sul Mediterraneo. L’unica apparente certezza è che il termine italiano di questo viaggio non è più il valico piemontese di Bardonecchia, molto più sorvegliato e difficile da passare dopo la mezza crisi diplomatica dello scorso autunno con la Francia causata dagli sconfinamenti dei gendarmi. I migranti che si presentano al mattino per ricevere un pasto sanno che rimane questa la frontiera più porosa. Arrivano fino all’ingresso del campo della Croce Rossa sul fiume Roya, parlano con gli addetti, sempre restando fuori. L’entrata comporterebbe la rilevazione delle loro impronte digitali, che certificherebbe l’Italia come Paese di primo ingresso. Loro cercano la Francia, invece. Alla Caritas di Ventimiglia restano solo le persone più vulnerabili, con problemi psichici o fisici. Gli altri rimangono nascosti sulle montagne e lungo il fiume che attraversa la città, evitando i luoghi affollati, perché dai racconti di chi li ha preceduti hanno imparato che da questa parte della frontiera l’importante è non farsi vedere, non dare nell’occhio. E così può continuare questo continuo rimpallo da un Paese all’altro di esseri umani che nessuno vuole.
Ecco tutti i trucchi francesi per rifilarci i migranti minori. La Francia dovrebbe farsene carico. Ma li rimanda in Italia. Ecco gli stratagemmi di chi accusa le politiche italiane. Giuseppe De Lorenzo e Costanza Tosi, Giovedì 25/07/2019, su Il Giornale. Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. Sicuramente anche Macron conoscerà uno dei detti più famosi della terra, non ne dubitiamo. Tuttavia a Ventimiglia deve essersi dimenticato di metterlo in pratica. Sono anni, infatti, che Parigi è accusata di respingere in Italia anche migranti minorenni, nonostante la legge impedisca di farlo. Beccati una volta, ci si sarebbe aspettati un cambio di passo. E invece la Francia continua nel suo "diabolico perseverare". Ignorando regole e rispetto per il Belpaese. Di racconti e rapporti indignati sui respingimenti dei "minori non accompagnati" ce ne sono a bizzeffe. Un anno fa, un minorenne a InsideOver.com aveva raccontato come, per quattro volte di fila, insieme al "fratellino di 15 anni" avesse tentato di "attraversare il confine". I gendarmi però li avevano sempre fermati e rispediti al mittente. Un anno dopo, nulla è cambiato (o quasi). "Quando sono andato a Mentone - ci dice un ragazzo - ho dichiarato di avere 17 anni, avevo il mio certificato. Ma mi hanno rimandato indietro". Abdel non è l'unico. Ancora oggi i migranti non vengono creduti quando dichiarano di avere 15 o 16 anni e le associazioni denunciano casi in cui, nonostante "l'esistenza di documenti attestanti la minore età", i fogli vengono "lacerati dalle forze dell'ordine francesi". E gettati al vento. "Non dovrebbero respingerli", lamenta Karim, seduto sulle rotaie alla stazione. "Chi non ha 18 anni ha il diritto di andare in Francia. Eppure li fanno tornare. È successo a molti miei amici". E pensare che in questi mesi Parigi ha messo nel mirino le politiche migratorie italiane, i porti chiusi di Salvini, il blocco delle imbarcazioni Ong in mare e via dicendo. "In quelle navi ci sono persone, donne incinte, bambini. Io penso che la linea del governo italiano sia vomitevole", ebbe a dire Gabriel Attal, portavoce di EnMarche!. E più o meno lo stesso ha ripetuto l'attuale portavoce del governo, Sibeth Ndiaye, durante la crisi con Sea Watch, definendo "inaccettabile" il comportamento di Conte&co. Parigi, allora, dovrebbe forse segnarsi un altro aformisma: "Chi è senza peccato, scagli la prima pietra". Già, perché le pratiche messe in opera al confine per cacciare i minorenni non sono certo da santi del Paradiso. Tutt’altro. Di sicuro non tengono conto, come richiede la Convenzione internazionale sul Diritti del bambino, del superiore interesse del minore. Anzi. Per le associazioni dimostrano una totale "mancanza di rispetto per i diritti" degli Msna. E sopratutto sono pensate appositamente per ingannare l’Italia, costringendola a riprendere immigrati che dovrebbero rimanere in Francia. A mettere in fila le "tecniche" ideate dalla polizia francese per rimbalzare gli under 18 verso Ventimiglia è l'associazione Anafé in un lungo rapporto redatto a gennaio del 2019. All'interno vi si trova ogni sorta di stratagemma: dal respingimento immediato in treno, fino alla falsificazione dei documenti. "Ogni giorno minori non accompagnati venivano respinti direttamente in treno", spiega Emilie Passelier, di Anafé. Il trucco funziona così: i migranti arrivano in Francia dall'Italia e i gendarmi li fanno scendere alla stazione di Mentone. Secondo le norme Ue (Dublino III), dovrebbero identificarli e, se minorenni, farsene carico. E invece la polizia d'Oltralpe che fa? Invece di portarli negli uffici, li carica subito su un treno contrario diretto a Ventimiglia. Con tanti saluti alle procedure. "Questa tecnica - spiega Pesselier - ha lo scopo di evitare i controlli della polizia italiana, che altrimenti rifiuterebbe il rimpatrio del minore". È capitato anche che i gendarmi mettessero in atto un altro "artificio" al limite della legalità. Quando ferma un guppo di immigrati con alcuni minorenni, la polizia francese cerca di "mascherare la natura di minore non accompagnato formalizzando" uno degli immigrati maggiorenni come responsabile legale per i più piccoli. Tu viaggi col minorenne? Ne sei responsabile. Anche se non sei un parenti e magari l’hai conosciuto 10 minuti prima sul vagone. Dopo le condanne del Tribunale amministrativo di Nizza, queste "pratiche" si sono via via ridotte. Ma il cambiamento "è stato accompagnato da nuovi modi di fare le cose". Come quello di taroccare i documenti pur di "imbrogliare la polizia italiana". A confermarlo è un agente in prima linea al fronte di Ventimiglia (ascolta qui): "Si inventano i nomi e le età. Alcuni sono palesemente minori, ma i gendarmi ci dicono: 'No no, ha dichiarato di essere maggiorenne'". Poi il rilievo dattiloscopico svela il bluff francese e loro "fanno gli stupidi". "Iniziano a dire: 'Scusami, non me ne ero accorto'". Ma è una presa in giro. "In passato, quando ne rimpatriavano tanti, noi gli rimandavamo gli under 18 e loro li rimettevano con documenti falsi in un successivo gruppo di migranti che respingevano". Insomma, ci provavano di nuovo. Come se fosse un gioco e non il rapporto tra due Stati sovrani. Non è un caso se ieri Salvini si è nuovamente scagliato contro Macron e quella Francia che sembra considerare l'Italia "una sua colonia". "Non siamo dame di compagnia di nessuno - ha detto - Lezioni di generosità e di democrazia da Macron non ne prendo dopo quello che è successo a Ventimiglia". Forse, allora, a questa Francia che "persevera nell'errore" è necessario ricordare un altro, fondamentale, insegnamento: "Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello, e non t'accorgi della trave che è nel tuo?".
Sempre più tedeschi si armano: "Colpa delle politiche migratorie". Il boom di acquisti di pistole registrato in Germania ha subito indotto AfD a biasimare la Merkel per le sue “scelte irresponsabili” in ambito migratorio. Gerry Freda, Mercoledì 04/09/2019, su Il Giornale. In Germania è stata appena pubblicata una ricerca che evidenzia il “livello record” di acquisti di armi da fuoco da parte dei cittadini teutonici. Alla base di tale forte esigenza di armarsi vi sarebbe, a detta degli esperti, un “profondo senso di insicurezza” aggravato dalle “ondate migratorie” promosse dalla cancelliera Merkel a partire dal 2015. I dati forniti ultimamente dal quotidiano Rheinische Post stabiliscono appunto che, nel 2018, ben 640mila Tedeschi si sarebbero dotati di porto d’armi e di una pistola, una cifra corrispondente “quasi al triplo” di quella accertata nel 2014, ossia un anno prima dell’esplosione della crisi migratoria nell’Ue. Sull’onda dell’impennata di acquisti di armi avvenuta nel 2018, il numero complessivo di strumenti per la difesa personale presenti oggi in tutta la Germania sarebbe cresciuto fino a raggiungere la soglia delle 5,4 milioni di unità. La messa in evidenza della correlazione tra l’esigenza individuale di armarsi e il senso di insicurezza aggravato dall’immigrazione di massa è stata effettuata dagli autori della ricerca grazie alla consulenza fornita loro dal Gewerkschaft der Polizei (GdP), uno dei principali sindacati della polizia federale. I vertici di tale organizzazione hanno infatti aiutato gli analisti a comprendere il significato dei recenti dati sulla vendita di pistole in Germania, affermando che la popolazione avrebbe ormai acquisito una “radicale diffidenza” verso le istituzioni, considerate “poco determinate” a difendere i confini e la comunità dalle “infiltrazioni esterne”. La paura e lo scoramento dei cittadini sarebbero stati quindi acuiti, dal 2014 a oggi, dai numerosi casi di cronaca in cui sono risultati coinvolti degli stranieri, come gli incidenti accaduti a Colonia il 31 dicembre 2015 e a Chemnitz nell’agosto del 2018. A detta del Gdp, sempre più Tedeschi riterrebbero “imprescindibile” munirsi di strumenti per l’autodifesa, in quanto il Paese sarebbe ancora in balia della “minaccia” rappresentata dall’immigrazione incontrollata, bollata dai cittadini come una conseguenza diretta delle politiche dell’accoglienza varate dalla Merkel quattro anni fa. Il sindacato di polizia ha infine rivelato ai ricercatori che la soluzione avanzata da un numero crescente di connazionali della cancelliera al fine di arrestare la “corsa alle armi” consisterebbe nella “chiusura dei confini nazionali”. La recente inchiesta del Rheinische Post, incentrata sui dati relativi al boom di acquisti di pistole e sulle spiegazioni fornite dai vertici sindacali delle forze dell’ordine, ha immediatamente infiammato il dibattito politico a Berlino, con i sovranisti di AfD che hanno accusato il governo di avere fatto “piombare nel terrore” la popolazione. I deputati del partito anti-establishment hanno appunto tacciato la Merkel di avere finora sviluppato politiche “suicide” in ambito migratorio, che avrebbero indotto i Tedeschi a “non sentirsi più padroni in casa loro” e a considerarsi “abbandonati” da delle autorità intente a “coccolare i clandestini”.
Insulti, pugni, calci ai migranti. Bufera sugli agenti in Germania. Un video mostra due agenti di sicurezza mentre picchiano un migrante all'interno di un centro di accoglienza. Angelo Scarano, Venerdì 09/08/2019, su Il Giornale. Bufera in Germania per un video che mostra due guardie private addette alla sicurezza di un centro di accoglienza mentre picchiano due migranti. L'episodio si è consumato nel centro per i rifugiati di Halberstadt, nella regione della Sassonia-Anhalt. Le immagini di un video pubblicato su YouTube lo scorso 14 aprile, mostrano due persone che indossano una uniforme mentre prendono a calci e pugni un migrante. Gli addetti alla sicurezza, come mostrano le immagini, senza motivi precisi, fanno degli sgambetti al migrante e lo colpiscono nel cortile mentre si trova a terra. La polizia tedesca ha immediatamente aperto una inchiesta con l'accusa di lesioni. Quattro agenti sono subito stati sospesi dal servizio. In questo momento gli inquirenti stanno lavorando anche per rintracciare l'autore del video che finora resta sconosciuto. Nel video è possibile vedere due migranti che litigano tra loro. Poi, una volta raggiunti dagli agenti, uno dei due viene però picchiato pesantemente. Il ministro dell’Interno della Sassonia-Anhalt Holger Stahlknecht (Cdu) ha definito le immagini di notevole rilevanza penale: "Ci sono cose che non vanno bene. Punto". A quanto pare ci sono precdenti e questo non sarebbe il primo caso di maltrattamenti sui migranti. Nella stessa struttura ci sarebbero stati casi simili. Nella città di Halberstadt sono presenti circa mille profughi che vengono sorvegliati da una decina di agenti di sicurezza per ogni turno di controllo. Solo qualche giorno fa invece era finita nella bufera Forntex, l'agenzia europea per il controllo dei confini con l'accusa di aver maltrattato i migranti soprattutto in Ungheria, Grecia e Bulgaria. Tra le accuse rivolte a Frontex c'è anche quella che riguarda l'inerzia del suo personale davanti a migranti storditi e legati nel durante i voli per le espulsioni. Adesso il caso tedesco accende ulteriormente i fari sui trattamenti riservati ai profughi da parte di chi spesso fa la morale all'Italia per la scelta dei porti chiusi.
Immigrazione, il trucco della Germania per spedirli tutti in Italia: le finte ricerche dei fuggitivi. Libero Quotidiano il 25 Luglio 2019. Il ministro dell'Interno tedesco, Horst Seehofer, riserba critiche a volontà contro l'Italia e contro la linea sostenuta dal governo gialloverde. Eppure sembra che Berlino si sia "dimenticata" dei trucchetti utilizzati per raggirare le regole e spedire i "dublinanti" nel nostro Paese. A raccontare i comportamenti non proprio limpidi dell'entourage della Merkel è Repubblica, quotidiano insomma insospettabile quando si parla di immigrazione. Repubblica riporta la testimonianza di un migrante che ha fatto la spola tra Germania e Italia: "Picchiavano e davano tranquillanti. Ho visto un gambiano che si era ribellato, scortato da quindici poliziotti e due medici. Era un uomo grande e grosso, arrabbiatissimo. Dopo un po' era un agnellino, senza forze". Moleto, questo il suo nome, è stato poi mandato in Italia con un volo. Qui ha assistito alla lite tra gli agenti italiani e quelli tedeschi, terminata con il ritorno dell'immigrato in Germania. Metodi poco "urbani" per un paese che ci fa la reprimenda, e la fa soprattutto a Salvini. Metodi confermati anche da altri testimoni. Queste persone, infatti, raccontano di una finzione tipica tedesca: quella di prolungare, da parte delle autorità, le finte ricerche di migranti classificati come "fuggitivi" pur sapendo benissimo dove si trovano e chi dà loro asilo, come ad esempio le parrocchie. Con questo trucco viene ignorata la residenza del migrante e gli viene negata la possibilità di chiedere asilo in Germania e dunque si spalancano le porte per il respingimento in Italia dopo l'eventuale "cattura".
"Dietro Carola c'è la mano dei tedeschi". L'accusa shock dell'ex capo dei servizi. A bordo della Sea Watch, a fianco della Rackete, c'era la tv di Stato tedesca. I dubbi sui finanziamenti alla Ong. E l'ex capo degli 007 tedeschi accusa la Merkel. Andrea Indini, Martedì 30/07/2019, su Il Giornale. Chi c'è veramente dietro l'operazione fuorilegge condotta dal comandante Carola Rackete al timone della Sea Watch3? Difficile avere la certezza, ma in Germania iniziano ad essere sollevati diversi dubbi che puntano direttamente alla tivù di Stato tedesca e di conseguenza ad Angela Merkel. Una tesi che inizialmente ha trovato spazio su un sito di contro informazione vicino all'estrema destra, il Journalistenwatch.com, ma che ieri è stata avvalorata anche dall'ex capo dei servizi segreti Hans-Georg Maaßen, rimosso un anno fa dopo che aveva sbugiardato la cancelliera sul video fatto trapelare per denunciare la "caccia allo straniero" dopo l'omicidio di Chemnitz. Le accuse sono state tirate fuori la scorsa settimana quando il sito Journalistenwatch ha scritto che l'intera vicenda della Sea Watch 3 (l'incursione al largo della Libia, fino all'arrivo a Lampedusa e al blitz contro le motovedette della Guardia di Finanza italiana) sarebbe "una geniale opera di propaganda" dell'emittente televisiva pubblica tedesca Ard, "probabilmente con l'intento di provocare un confronto con le autorità italiane a ogni costo". A bordo dell'imbarcazione, messa in mare dall'ong tedesca Sea Watch, erano infatti due giornalisti che hanno filmato e raccontato per la rubrica Panorama tutto il viaggio nel Mediterraneo, il salvataggio dei migranti, l'ingresso nel porto di Lampedusa in violazione del decreto Sicurezza bis e l'arresto della Rackete.
"Se questa notizia fosse corretta, Panorama non sarebbe una trasmissione occidentale", ha commentato su Twitter Maaßen che dal 2012 al 2018 è stato direttore dei servizi segreti interni tedeschi. Nel messaggio, poi rimosso, si fa riferimento ai media della Germania occidentale che, prima della caduta del muro di Berlino, venivano considerati dalla Repubblica democratica tedesca l'unica fonte di informazioni affidabile. Già molto vicino al ministro dell'Interno tedesco, Horst Seehofer, a settembre del 2018 era stato destituito dall'incarico di presidente del BfV con l'accusa di aver svelato informazioni riservate ad Alternative für Deutschland (AfD) venendo così meno all'obbligo di imparzialità. Per la sua indubbia esperienza era stato comunque nominato sottosegretario all'Interno con delega per la sicurezza, ma lo scorso novembre era stato messo a riposo ancor prima di assumere l'incarico dopo che aveva denunciato la presenza di elementi eversivi all'interno della SpD, partito che dal 14 marzo 2018 fa parte della Große Koalition con la Cdu della Merkel.
Ora Maaßen è fuori dai giochi di palazzo ma, come fa notare anche il Fatto Quotidiano, ha sicuramente ancora buone fonti all'interno della struttura di intelligence tedesca. E, mentre i siti di contro informazione accusano la tv pubblica di aver in qualche modo finanziato l'ultima missione della Sea Watch, l'ex capo dei servizi tedeschi fa un passo indietro ma, come rivela il Guardian, sostiene comunque che l'intera operazione sia stata pianificata a tavolino per mettere in difficoltà il ministro dell'Interno Matteo Salvini causando un incidente che facesse ripartire il dibattito sulla chiusura dei porti italiani. Nei giorni scorsi Giorgia Meloni ha subito chiesto di fare chiarezza su "queste sorprendenti dichiarazioni" sollecitando la convocazione dell'ex capo dei servizi tedeschi al Parlamento europeo per "raccontare la sua versione dei fatti" su una vicenda in cui Berlino ha avuto un ruolo poco chiaro.
L’ex capo dei servizi segreti tedeschi: “C’è la Merkel dietro Carola. È un piano contro l’Italia”. Laura Ferrari domenica 28 luglio 2019 su Il Secolo d'Italia. «Clamorosa notizia sulla Sea Watch di Carola Rackete. L’ex capo dei servizi segreti tedeschi, Hans-Georg Maassen sostiene che l’operazione della Sea Watch conclusasi con lo speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza, sia stata una iniziativa pianificata e messa in piedi dalla tv pubblica tedesca Ard, quindi di fatto dal governo Merkel. Obiettivo: forzare l’apertura dei porti italiani e causare un incidente che facesse ripartire la propaganda immigrazionista. Fratelli d’Italia chiede chiarezza su queste sorprendenti dichiarazioni. Come primo passo chiederemo la convocazione di Maassen al Parlamento europeo perché possa raccontare la sua versione dei fatti». Così Giorgia Meloni, sui Social, postando l’articolo del quotidiano britannico The Guardian, che ha ricostruito la vicenda. Massen ha condiviso su Twitter, un articolo del blog di controinformazione Journalistenwatch, critico con le politiche della Merkel, che sostiene come l’operazione Sea-Watch 3, in realtà sia stata finanziata dalla tv di Stato tedesca, per screditare il governo italiano e forzare la mano a Salvini. L’articolo era accompagnato dal commento: “Se questo articolo fosse vero, vorrebbe dire che la tv di Stato tedesca è censurata come ai tempi della Germania comunista dell’Est”. Successivamente, l’ex capo dei servizi segreti ha cancellato il tweet. A precisa domanda, ha risposto che il suo account è gestito personalmente da lui e che il profilo non è gli è stato hackerato. Insomma, un messaggio agli utenti del web. Chi vuol capire capisca. Secondo Maassen, che ovviamente ha ancora buone fonti all’interno della struttura di intelligence, la vicenda della Sea Watch e di Carola Rackete è stata una sceneggiata messa in piedi dalla tv pubblica Ard: quindi dal governo Merkel. Hans-Georg Maassen è stato rimosso un anno fa dalla guida dei «servizi segreti» tedeschi, l’Ufficio federale per la Protezione della Costituzione, dalla Merkel, dopo un suo intervento in cui contraddiceva la stessa Cancelliera su un episodio di «caccia al migrante» a Chemnitz, avvenuto dopo l’omicidio di un tedesco di origine cubana, che aveva difeso la fidanzata dal tentato stupro di alcuni richiedenti asilo. Da tempo l’ex capo dei servizi segreti ha dichiarato guerra all’informazione di regime, nel nome del politicamente corretto.
Carola Rackete: "Il governo tedesco mi ordinò di portare i migranti in Italia". La presenza dei giornalisti della tv di Stato sulla Sea Watch 3 e i sospetti dell'ex capo dei servizi tedeschi. Ora arriva la conferma della capitana: dietro l'operazione dell'ong un disegno per destabilizzare il nostro governo. Andrea Indini, Domenica 11/08/2019, su Il Giornale. Quando, per primo, il sito di contro informazione Journalistenwatch.com aveva svelato i legami tra l'ong Sea Watch (leggi l'approfondimento) e il governo tedesco, non era stato preso sul serio perché considerato troppo vicino all'estrema destra. Eppure aveva scoperto che a bordo della nave, che ha scaricato in Italia una cinquantina di immigrati clandestini, c'erano anche due giornalisti della tv di Stato Ard che hanno filmato un reportage quasi agiografico sulla comandante Carola Rackete per la rubrica Panorama. E, quando l'ex capo dei servizi segreti tedeschi, Hans-Georg Maaßen, aveva avvalorato questo drammatico retroscena, era stato scansato dai media rivangando i vecchi dissapori con Angela Merkel e, soprattutto, le sue simpatie per Alternative für Deutschland (AfD). Ora, è la stessa capitana ad ammettere che, dietro l'assalto al porto di Lampedusa della Sea Watch 3 (guarda il video), c'era un disegno politico ben preciso. "So che quanto sto per dire potrebbe essere strumentalizzato da qualche partito...". A distanza di qualche settimana dal blitz nel porto di Lampedusa, la Rackete vuota il sacco e, in una intervista alla tv tedesca Zdf, ammette che fu il ministero dell'Interno tedesco a chiederle "di far registrare e portare tutti i clandestini a Lampedusa". È il collegamento che mancava per ricostruire l'assalto sferrato dalla Sea Watch al governo italiano che le aveva intimato il divieto di ingresso nelle nostro acque territoriali e di attracco nel porto dell'isola siciliana. Che tra l'organizzazione non governativa e l'esecutivo guidato dalla Merkel ci fossero dei legami lo lasciva presupporre la presenza della troupe della tv di Stato Ard. Il sito Journalistenwatch l'aveva definita "una geniale opera di propaganda" che "probabilmente" aveva "l'intento di provocare un confronto con le autorità italiane a ogni costo". La presenza dei due giornalisti della Ard aveva spinto Maaßen a ipotizzare un diretto coinvolgimento del governo tedesco nelle operazioni di "salvataggio" della Sea Watch. "Se questa notizia fosse corretta, Panorama non sarebbe una trasmissione occidentale", ha scritto in un tweet che dopo alcune ore era stato inspiegabilmente rimosso. Qualche giorno più tardi l'ex capo dei servizi segreti, intervistato da Roberto Vivaldelli per InsideOver, aveva ammesso che "alcuni Paesi europei sono segretamente soddisfatti della destabilizzazione" che l'emergenza immigrazione porta in Europa. La sua vicinanza con l'AfD aveva spinto i più a non dargli retta, anche è chiaro che, per il ruolo ricoperto fino all'anno scorso, ha ancora buone fonti all'interno della struttura di intelligence tedesca. Forse, davanti all'intervista della Rackete alla Zdf, oggi ripresa dalla Verità, i più inizieranno ad aprire gli occhi. La Rackete ha, infatti, ammesso che sul proprio tavolo non aveva solo l'opzione di portare gli immigrati al porto di Lampedusa. La municipalità di Rothenburg aveva proposto, infatti, di mandare un pullman in Italia per recuperare i clandestini e farli registrare in Germania. "Ma - ha rivelato la capitana - a negare la via terrestre è stato il ministro dell'Interno del nostro Paese", come conferma anche Tpi. La rivelazione della Rackete non contraddicono affatto la linea adottata dal governo tedesco negli ultimi mesi. Anzi la confermano con forza. Il ministro dell'Interno Horst Seehofer non ha mai mancato di opporsi alla linea dura adottata da Salvini per contrastare l'immigrazione clandestina. "Matteo, che senso che mettere sempre in atto la stessa procedura se finisce sempre che i migranti scendono a terra?", ha polemizzato nei giorni scorsi quando la Gregoretti era ancora bloccata davanti al porto di Lampedusa. Dopo il recente vertice di Helsinki, i due ministri si rivedranno a settembre per fare il punto sull'emergenza immigrazione. In quell'occasione la Germania ribadirà la propria contrarietà alla chiusura dei porti e presenterà una nuova procedura che metta per iscritto "la necessità del salvataggio in mare". La posizione dei tedeschi è subdola: sanno bene, infatti, che se i migranti sbarcano e vengono registrati in Italia, spetterà al nostro Paese l'espulsione dei clandestini nel proprio Paese di origine e la ricollocazione in quei pochi Stati europei che hanno accettato le quote imposte da Bruxelles. E le recenti rivelazioni sui "dublinanti" rispediti a Roma con voli charter dopo essere stati "storditi e sedati" dimostrano che a Berlino non c'è certo la minima intenzione a collaborare per fermare l'emergenza, ma se possono metterci in difficoltà non si tirano indietro. Anzi, affondano il colpo senza pietà.
Carola Rackete senza vergogna: "Fu la Germania a ordinarmi di sbarcare a Lampedusa". Libero Quotidiano l'11 Agosto 2019. “So che quanto sto per dire potrebbe essere strumentalizzato da qualche partito…”: esordisce così l'attivista tedesca Carola Rackete che, dopo aver speronato a Lampedusa l’imbarcazione della guardia di Finanza per forzare il blocco dei porti imposto dal governo italiano, ora svela, in una intervista alla tv tedesca Zdf, che fu il ministero dell’Interno tedesco a chiederle “di far registrare e portare tutti i clandestini a Lampedusa“. Una rivelazione grave e choc. Il primo a sospettare che c’era in disegno ben preciso dietro il gravissimo gesto con il quale la Rackete ha rischiato di uccidere alcuni militari della Finanza dopo che tutti i ricorsi che l’Ong aveva tentato erano stati respinti dalla magistratura italiana e internazionale, era stato il sito di contro informazione Journalistenwatch.com. Poi era stata la volta dell’ex-capo dei servizi segreti tedeschi, Hans-Georg Maaßen, a svelare le magagne confermando quanto scritto dai cronisti di Journalistemwatch e, cioè, che sulla Sea Watch erano stati imbarcati due reporter della tv di Stato tedesca proprio per immortalare l’azione contro l’Italia della Rackete dipinta come un’eroina contro i cattivi italiani. Ma, immancabilmente, anche Maaßen aveva dovuto subire la crocifissione mediatica e politica, accusato non solo di neo fascismo sventolando le sue simpatie per i vecchi dissapori con Angela Merkel e, soprattutto, le sue simpatie per AfD, Alternative für Deutschland ma, anche, la sua ruggine con Angela Merkel. Ora, invece, è la stessa Carola Rackete ad ammettere che, effettivamente, dietro suo gesto gravissimo ed eversivo contro il popolo e le istituzioni italiane, c’era il governo tedesco.
Xenofobia e respingimenti: Berlino ipocrita sui migranti. La Germania è accogliente solo a parole. Ma in realtà ha da tempo "tagliato" le concessioni dell'asilo politico. Giuseppe Marino, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. «Sono palestinese e vivo in Germania da qualche tempo, vengo da un campo di rifugiati nel Libano. Vorrei fare l'università qui ma non so se potrò rimanere. Sono molto preoccupata». Angela Merkel si inchina verso la giovane studentessa che racconta la sua storia e le risponde: «Sei una ragazza molto simpatica, ma la politica a volte è molto dura: ci sono altre migliaia di persone nei campi di rifugiati, se decidiamo di accogliere tutti, non saremo in grado di sostenere questa situazione». La ragazzina di origine libanese scoppia a piangere. Le immagini di questo scambio di battute tra la cancelliera tedesca e la giovane migrante fanno il giro del mondo nel luglio del 2015. Sei mesi dopo Angela Merkel sarà immortalata sulla copertina di Time come persona dell'anno per aver accolto un gran numero di profughi siriani istruiti e ricchi. È il vero capolavoro del governo tedesco. Nei mesi successivi Berlino copre la Turchia di miliardi perché trattenga i profughi in campi dove le condizioni di vita non sono certo da grand hotel. Il doppio volto della Germania, continua ancora oggi, ma nessuno sembra far caso alle contraddizioni. Ieri il Tg5 ha mostrato le immagini di una profuga africana incinta picchiata e strattonata dalla polizia in Baviera e già a maggio scorso dal Consiglio d'Europa erano arrivate accuse di maltrattamenti a profughi afghani da parte delle forze dell'ordine tedesche durante le operazioni di espulsione. Anche gli episodi di xenofobia sono all'ordine del giorno. Nel 2016 in Germania si sono registrati oltre 3.500 attacchi a migranti e strutture di accoglienza. Negli anni successivi il governo ha ridotto fortemente il numero di profughi accolti e respinto nei Paesi europei di prima accoglienza quasi 20.000 persone l'anno (il 30 per cento verso l'Italia). Dopo la stretta, gli attacchi xenofobi sono calati, ma restando a livelli preoccupanti. La Germania, insomma, è tutt'altro che un paradiso per i rifugiati, eppure Berlino si erge, a parole, a paladino dell'accoglienza. Un'ipocrisia smaccata che si è riaffacciata nel caso di Carola Rackete. Due giorni fa il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, ha bacchettato l'Italia chiedendo la liberazione della giovane attivista spiegandoci che «coloro che salvano delle vite non possono essere considerati criminali». Ieri è tornato alla carica il ministro degli Esteri Heiko Maas, che è arrivato a spiegare alla magistratura italiana come agire: «Dal nostro punto di vista», ha detto, una procedura nell'ambito dello stato di diritto può portare «soltanto al rilascio di Carola Rackete», concedendo soltanto all'Italia l'ammissione che «a livello europeo: la discussione sulla distribuzione dei rifugiati non è degna e bisogna smettere». Il nostro ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ha replicato a Berlino soltanto ricordando all'omologo tedesco che la posizione della comandante della Sea Watch 3 è «al vaglio della magistratura», che in Italia «per previsione costituzionale, è totalmente indipendente dal governo». «Di conseguenza, -ha aggiunto- dobbiamo tutti attendere, con fiducia e rispetto, le decisioni della magistratura al riguardo». Forse però avrebbe potuto anche ricordare che a gennaio il governo tedesco ha dichiarato «Paese sicuro» alcuni stati del Nordafrica, in modo da poter negare a chi viene da quelle nazioni il diritto d'asilo. Tra questi c'è anche la Tunisia. Lo stesso Paese dove Carola Rackete ha evitato di attraccare con i migranti salvati in mare, non considerandolo porto sicuro, e proseguendo la navigazione verso Lampedusa. Coerenza tedesca.
IL GOVERNO MI ORDINÒ DI PORTARE I MIGRANTI IN ITALIA. Michelangelo Coltelli su Butac.it il 12 agosto 2019. Oggi trattiamo un argomento delicato, delicato perché non è solo una notizia che è finita su alcune testate giornalistiche ma che è stata riportata (a quanto mi dite) anche in una trasmissione della RAI, la televisione di stato. Io sono in vacanza sperduto tra i monti, e non ho avuto ancora modo di trovare quando ne abbiano parlato (nelle segnalazioni mi dite al TG). Ma poco conta. Partiamo pertanto da quello che mi avete segnalato con link, un articolo apparso su Il Giornale l’11 agosto 2019, titolo: Carola Rackete: “Il governo tedesco mi ordinò di portare i migranti in Italia”. L’articolo è abbastanza breve e riporta: “So che quanto sto per dire potrebbe essere strumentalizzato da qualche partito…”. A distanza di qualche settimana dal blitz nel porto di Lampedusa, la Rackete vuota il sacco e, in una intervista alla tv tedesca Zdf, ammette che fu il ministero dell’Interno tedesco a chiederle “di far registrare e portare tutti i clandestini a Lampedusa”. Io non so il tedesco da poter tradurre l’intervista bene quanto vorrei, YouTube fornisce sottotitoli in inglese (quelli in italiano sono sempre meno benfatti), ma non basta, pertanto ho chiesto ad amici che in Germania vivono e lavorano di tradurmi il contesto e le frasi incriminate. BUTAC ha la fortuna di avere lettori un po’ in tutto il mondo, che non si tirano mai indietro quando necessario. Il sunto dell’intervista. L’amica Maria Chiara Bosello è stata la più veloce a rispondermi e mi ha spiegato le cose riassumendole: “Lei spiega che già prima della sua decisione in extremis, la Germania aveva già accettato di accogliere i rifugiati. In particolare la città di Rothenburg (minuto 5:24) era pronta a far partire un bus per andarli a prendere in Sicilia. Subito dopo dice che sarebbe dovuto arrivare il benestare del governo tedesco, che c’è stato, e che l’unica richiesta del governo tedesco a quello italiano sarebbe stato di registrare i migranti in Italia…” Quindi non si parla di ordini, ma di una richiesta fatta dopo aver cercato una soluzione politica col nostro Paese. Nulla di più, anzi secondo Rackete c’era già chi era pronto ad accogliere i migranti in Germania. Ma di tutto questo sulla maggior parte dei giornali italiani non si fa menzione oggi e non se ne faceva all’epoca dei fatti. C’è di più, nell’intervista la stessa Rackete se la prende con l’immobilismo europeo che non sta aiutando affatto la situazione nel Mediterraneo, e critica anche la stessa Germania. Non mi sembra siano le stesse cose riportate da Il Giornale. Se la cosa è stata riportata nei toni sbagliati anche in RAI io onestamente sono allibito. Vi suggerisco di guardare tutta l’intervista se parlate il tedesco e se volete potete aggiungere quanti e più particolari potete alla veloce traduzione che mi ha dato Maria Chiara. La tristezza, oltre al vedere lo pseudogiornalismo dilagante è vedere che non solo i giornalisti se ne infischiano di fare virgolettati corretti. La notizia, senza alcuna verifica, viene cavalcata da politici che prendono migliaia di euro al mese, come ad esempio Silvia Sardone: “La capitana ammette: dietro l’operazione dell’ong un disegno per destabilizzare Salvini. E’ Carola stessa ad ammetterlo: “fu il ministero dell’Interno tedesco a chiedermi di far registrare e portare tutti i clandestini a Lampedusa”. L’operazione Carola, come riportato oggi da La Verità, aveva un unico scopo: ricreare le condizioni affinché l’Italia torni a essere campo profughi d’Europa! VERGOGNOSO!” Concludendo. Ho avuto altri che mi hanno aiutato confermandomi in pratica le stesse cose dette da M.C., li ringrazio. I virgolettati hanno un senso quando riportano esattamente quanto ha detto la persona citata. Se non lo fanno diventano bufale, sfruttate per portare avanti la propria narrazione a discapito dei fatti. Su Il Giornale online e su altre testate come Il Primato Nazionale viene invece sempre riportato lo stesso virgolettato che nell’intervista non compare mai. Davvero sono convinti che nessuno si accorga della cosa? L’Ordine dei Giornalisti che fa? Credo nulla, visti i titoloni usati anche da quelli che online hanno scarsa presenza ma vendono sempre di più nelle edicole, come La Verità: Non credo sia necessario aggiungere altro, se non la solita citazione, questa però è corretta: è il giornalismo bellezza…
Carola Rackete bersaglio sui social dopo la bufala degli ordini presi dalla Germania. Per i quotidiani sovranisti furono le autorità tedesche a dirle di sbarcare a Lampedusa, ma traducono in maniera falsa le sue dichiarazioni alla stampa tedesca. E sul web si scatenano gli odiatori. La Repubblica il 12 agosto 2019. Gli odiatori si scatenano ancora contro la capitana della Sea Watch3 Carola Rackete. Tutto nasce da due articoli pubblicati da Il Giornale e Libero, in cui un passaggio dell'intervista che Carola Rackete ha rilasciato alla tv tedesca Zdf viene tradotto in maniera strumentale e falsa. Rackete, indagata per favoreggiamento e violazione dell’articolo 1099 del Codice della navigazione dalla procura di Agrigento, ha infatti dichiarato che durante la missione conclusa con lo sbarco a Lampedusa lo scorso 26 giugno, prima della decisione di attraccare sull'isola c'erano state comunicazioni tra la ong e il Ministero degli Affari Esteri e il Ministero degli Interni tedeschi. Nell'intervista la capitana specifica che le autorità tedesche non hanno mai parlato direttamente con la nave e quindi con lei e che "di fatto non è stata proposta alcuna soluzione". La capitana descrive un meccanismo che è frequente in queste situazioni, molte manifestazioni di simpatia e le dichiarazioni di città (nello specifico Rottenburg), pronte ad accogliere i migranti. Ma, sottolinea Rackete "ciò non era consentito dal Ministro degli Interni federale". Le dichiarazioni della capitana della Sea Watch diventano su Libero "Fu la Germania a ordinarmi di sbarcare a Lampedusa" e su Il giornale "Il governo tedesco mi ordinò di portare i migranti in Italia". I tentativi di confutare quanto affermato dai due articoli sui social non ha sortito, come spesso accade, grande effetto e nelle ultime ore contro Carola Rackete si è scatenata una nuova ondata di odio. La bufala è stata rilanciata, tra gli altri, dalla leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, e dall'opinionista Diego Fusaro.
Sì, Carola Rackete ha detto che il governò le ordinò di portare i migranti in Italia. Monta la polemica sulle parole pronunciate da Carola Rackete. Ma la traduzione de ilGiornale.it è corretta e non lascia spazio a dubbi. Andrea Indini, Martedì 13/08/2019, su Il Giornale. "Fake news". Un'espressione che ha cominciato a circolare nel 2016, in seguito all'ascesa di Donald Trump, per indicare quelle che fino a poco tempo fa chiamavamo bufale. O balle. Insomma, notizie imprecise o sbagliate utilizzate per un fine politico ben preciso. Ma da due anni a questa parte l'espressione "fake news" è stata utilizzata anche da una certa stampa - che potremmo sbrigativamente definire di sinistra - per bollare l'operato di altri colleghi che - sempre sbrigativamente - potremmo definire di destra. Prendiamo per esempio l'ultimo caso, quello delle parole pronunciate da Carola Rackete, la "capitana" di Sea Watch 3, alla tv tedesca Zdf. La "bomba", in Italia, viene sganciata il 7 agosto da Tpi, che non può esser certamente esser accusato di esser un giornale sovranista, che riporta le parole della "capitana": "Il ministro dell’Interno tedesco (Horst Seehofer) insistette perché i migranti venissero registrati in Italia. Ciò vuol dire che una soluzione ci sarebbe potuta essere". L'articolo è firmato da Madi Ferrucci, giovane giornalista con una grande esperienza che ha vinto il Premio Morrione grazie a un'inchiesta sulla fabbrica di armi Rwm in Sardegna e che collabora (tra gli altri) con Il Fatto Quotidiano e Report. La notizia viene poi ripresa da La Verità e da ilGiornale.it con un articolo intitolato Carola Rackete: "Il governo tedesco mi ordinò di portare i migranti in Italia". Le fonti di partenza sono quelle già citate: il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro e Tpi. Ma queste ovviamente non sono sufficienti. La domanda che la redazione si pone è: siamo sicuri che la "capitana" abbia detto proprio questo? Vengono così contattate diverse persone, tra cui un madrelingua che non lascia spazio a dubbi: "Confermo - ci scrive su WhatsApp - Ha detto questo. Giusto quello che scrive Tpi". Ed è a questo punto che l'articolo inzia a prendere forma.
Non c'è nessuna nuova bufala su Carola Rackete. Ma non basta. Si scaldano i giornali di sinistra, pronti a calare il jolly delle fake news. Iniza Butac il sito diretto Michelangelo Coltelli e fino a qualche anno fa sponsorizzato da Laura Boldrini - che ci accusa di fare "pseudogiornalismo" ma non fornisce alcuna traduzione alternativa. Solo un riassunto fornito da una sua lettrice: "Lei spiega che già prima della sua decisione in extremis, la Germania aveva già accettato di accogliere i rifugiati. In particolare la città di Rothenburg (minuto 5:24) era pronta a far partire un bus per andarli a prendere in Sicilia. Subito dopo dice che sarebbe dovuto arrivare il benestare del governo tedesco, che c’è stato, e che l’unica richiesta del governo tedesco a quello italiano sarebbe stato di registrare i migranti in Italia". È poi la volta de Il Post che titola: C'è un'altra bufala su Carola Rackete. Nell'articolo si sostiene che l'articolo di Tpi sarebbe stato distorto da ilGiornale.it e La Verità, "due quotidiani di destra che sull’immigrazione diffondono spesso notizie false o imprecise, evidentemente senza verificare cosa avesse detto davvero Rackete". E non basta aver fatto le verifiche del caso. In quanto quotidiano di destra, su un tema come questo - per Il Post ovviamente - noi non faremmo verifiche. Eppure le verifiche le abbiamo fatte eccome. Ma non solo. È poi il turno di Open, il quotidiano diretto da Enrico Mentana, che accusa ilGiornale.it di aver creato ad hoc una bufala sui presunti "ordini" del governo tedesco alla Rackete. Ma, con buona pace di Open, Tpi ha pubblicato un articolo in cui viene tradotta letteralmente la frase "incriminata": "Sì esatto, e disse anche di voler mandare un bus finanziato con soldi raccolti da Seebruecke (Seebruecke è un movimento per la solidarietà internazionale che porta avanti azioni di questo tipo, ndr). Ma questo avrebbe dovuto essere permesso. E qui di nuovo il ministro dell’Interno ha insistito/voluto (“darauf bestanden hat”) perché/che i migranti fossero registrati in Italia. Una soluzione era possibile quindi fin dal primo giorno". Spiega a tal proposito Tpi: "'Bestehen auf' è un’espressione che contiene il verbo 'bestehen' ed ha un significato forte in tedesco: non è un consiglio ma un’espressione di forte volontà. Questo verbo è utilizzato, ad esempio, in espressioni traducibili come: 'Voglio che tu mi dica la verità' ('Ich bestehe darauf, dass du die Wahrheit sagst'), tanto che in queste espressioni si utilizza come sinonimo del verbo pretendere o verlangen: "Pretendo che tu mi dica la verità" (Ich verlange, dass du die Wahrheit sagst)". Possiamo invece discutere, ma è davvero una questione di lana caprina, sul termine "portare". Carola dice che il governo le ordinò di "registrare" i migranti nel nostro Paese e, ovviamente, per compiere questa azione era necessario condurli a Lampedusa, come poi è successo. Ci troviamo quindi di fronte a un ordine bello e buono da parte del governo tedesco. Con buona pace degli sbufalatori e dei loro santi laici.
La Spagna adesso "chiude" i porti Respinti i minori di Open Arms. Open Arms ha chiesto alla Spagna di accogliere i 31 minori a bordo. Ma da Madrid è arrivato un secco "no". Angelo Scarano, Martedì 13/08/2019, su Il Giornale. La Spagna di far sbarcare i migranti della Open Arms in un porto iberico non vuole saperne. Non sono bastati gli appelli social anche di rappresentanti del mondo dello spettacolo come Javier Bardem, il governo Sanchez va per la sua strada: da accogliente è diventato "serrado", con i porti chiusi. E dunque l'indifferenza di Madrid davanti alla nave ong che è in mezzo al Mediterraneo con almeno 150 persone a bordo. Madrid ha infatti respinto l'appello lanciato dal capitano di Open Arms che ha chiesto di poter far sbarcare in Spagna i 31 minori che si trovano a bordo. Il capitano Marc Reig ha inviato lunedì una lettera all'ambasciata spagnola a Malta, chiedendo che Madrid conceda asilo ai minori, garantendo che tutti "rispettano i requisiti per il riconoscimento come rifugiati". La risposta piccata a questa richiesta è arrivata dal ministro ai lavori pubblici spagnolo, Josè Luis Abalos che ha affermato: "Il capitano non ha la competenza legale o l'autorità per chiedere asilo per i minori". Abalos, come riporta Adnkronos, ha poi elogiato gli sforzi spagnoli nei salvataggi di migranti in mare, dicendo che la guardia costiera lo scorso anno ne ha salvati 50mila. "Non è giusto contestare il governo spagnolo, o la sua reputazione, quando si tratta del tema dei soccorsi", ha aggiunto. Insomma Madrid si volta dall'altra parte e si iscrive di diritto nella lista dei Paesi con la doppia morale sui migranti come francia e Germania che chiedono all'Italia di aprire i porti per tenere i propri chiusi alle navi delle ong. Resta dunque inascoltato il messaggio di Javir Bardem: "Crediamo che la Spagna sia il Paese giusto e ideale per farlo, perché è il Paese d'origine della ong Open Arms, che sta facendo un lavoro necessario e straordinario per la dignità umana e per salvare la vita di persone che fuggono da situazioni che nemmeno possiamo iniziare a immaginare". Insomma ormai l'Europa è sempre più a senso unico. Il problema dell'immigrazione, secondo gli Stati del Mediterraneo, è solo italiano. A questo quadro va aggiunta anche la mossa del tribunale di Palermo che nella risposta al ricorso presentato da Open Arms accende i fari proprio sulla situazione che riguarda i minori: "I loro diritti di essere accolti in strutture idonee, di avere nominato un tutore e di ottenere il permesso di soggiorno evidentemente vengono elusi". E per questo motivo il Tribunale ha chiesto chiarimenti ai ministri.
Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 19 agosto 2019. Il prossimo 25 settembre il governo francese farà una solenne dichiarazione sulla politica migratoria della Francia e dell'Europa davanti al Parlamento. Seguirà un dibattito ma non ci sarà un voto: «Discuteremo dell'immigrazione da tutti i punti di vista ha fatto sapere il premier Edouard Philippe il tema è complesso e difficile, ma non per questo non abbiamo il diritto di parlarne, senza tabù». Di tabù invece ne restano tanti sulle politiche se politiche ci sono di gestione dei flussi migratori in Europa. E le cicliche crisi sollevate in questi mesi dai sofferti approdi delle navi umanitarie non hanno fatto che renderli più evidenti. Anche nei paesi che si dichiarano più virtuosi in materia di accoglienza e di rispetto dei diritti, che siano i diritti del mare o delle persone, come la Francia di Macron, la Spagna di Sanchez o la Germania di Merkel. Già le parole rivelano le difficoltà: di «solidarietà indiretta» si è cominciato a parlare per i paesi (Visegrad ma non solo) recalcitranti ad accogliere la quota spettante di migranti sbarcati nei paesi coi porti «più vicini e sicuri», poi la solidarietà è diventata «differenziata», Macron parla ormai di «patriottismo inclusivo» dopo aver indurito le regole sull'asilo, mentre Merkel e Sanchez si affidano soprattutto ad accordi bilaterali per blindare le frontiere marittime col Marocco da una parte e quelle con la Germania via Austria dall'altra. A fine settembre dovranno incontrarsi di nuovo a Parigi i paesi che il 22 luglio avevano tentato - invano - di trovare una soluzione se non definitiva almeno più chiara. Macron aveva allora annunciato che 14 paesi europei, la cosiddetta coalizione di volontari, avevano accettato un meccanismo di solidarietà per ripartire i migranti sbarcati altrove. Ma di questi 14, soltanto 8 (Francia, Germania, Portogallo, Lussemburgo, Finlandia, Lituania, Croazia e Irlanda) si erano detti pronti da subito, gli altri sei avevano accettato il principio ma avevano preferito mantenere l'anonimato e rinviare qualsiasi impegno preciso. Senza contare che in cambio Italia e Malta assenti alla riunione avrebbero dovuto accettare di tenere i porti aperti. Per ora, soltanto gli accordi bilaterali sembrano tenere in un'Europa in cui la politica migratoria resta prerogativa dei governi nazionali e in cui vige in materia il principio dell'ognun per sé. La Spagna di Sanchez, per esempio, è riuscita ad ottenere con l'aiuto della Germania, uno stanziamento di 140 milioni di euro al Marocco per arginare i flussi che nel dal 2018 sono in aumento di oltre il 130 per cento. Delle deportazioni sarebbero in corso nelle regioni settentrionali, in particolare vicino a Nador, secondo denunce dell'Associazione marocchina dei diritti umani (AMDH). In compenso, la Spagna si è impegnata a rimpatriare i migranti registrati nel paese e arrivati alla frontiera con Germania e Austria, da dove potranno essere espulsi in 48 ore. Il premier Sanchez, sollecito ad accogliere a Valencia i migranti dell'Aquarius, segue da allora una politica migratoria più prudente. Dopo aver concesso lapprodo per tre volte all'Open Arms ha ormai chiuso alle navi umanitarie. L'offerta di far attraccare l'Open Arms che ora è davanti a Lampedusa nel porto di Algeciras è stata definita ieri «tardiva» dalla sindaca di Barcellona Ada Colau: «È troppo tardi - ha scritto la sindaca su Twitter - avevamo offerto il porto di Barcellona dodici giorni fa». Difficoltà in casa ma da destra anche per Angela Merkel. Lontanissimi i tempi delle porte aperte a «un milione di migranti». Il ministro dell'Interno Horst Seehofer ha ottenuto la creazione di centri di collegamento: in realtà dei centri di detenzione in cui possono essere rinchiusi i migranti nel periodo di esame del loro dossier. Il primo centro ha aperto in Baviera due mesi fa, altri sono in costruzione.
· Marla, la anti-Greta che denuncia le violenze degli immigrati.
Marla, la anti-Greta che denuncia le violenze degli immigrati. È diventato virale il discorso che una ragazzina tedesca di 15 anni, Marla, ha fatto durante un convegno di Alternative für Deutschland per denunciare i crimini degli immigrati: "Amo il mio Paese, voglio viverci in sicurezza". Gianni Carotenuto, Martedì 01/10/2019, su Il Giornale. "Uno non deve odiare lo straniero per amare ciò che è suo. Amo il mio Paese, voglio viverci in sicurezza". È la conclusione del discorso che una ragazzina di 15 anni, Marla, ha tenuto a un convegno di Alternative für Deutschland, il partito tedesco di estrema destra. Marla, negli stessi giorni in cui la quasi coetanea Greta Thunberg si prendeva la scena negli Stati Uniti, prima a Washington e poi al vertice Onu sul clima di New York, è diventata celebre sul web grazie a un video caricato sui social e diventato virale. Se Greta lotta per salvare la Terra dal riscaldamento globale, l'obiettivo di Marla è quello di poter vivere in sicurezza, senza la minaccia rappresentata dalle violenze degli immigrati. "Frequento una scuola privata a Cottbus, sono qui di mia libera iniziativa e mi piacerebbe esprimere la mia opinione come adolescente", le prime parole della ragazzina. Che poi è andata al dunque, raccontando la "paura" che hanno "i miei amici" di andare in città a causa dei cosiddetti incidenti isolati", come sono chiamati dalla stampa i crimini degli stranieri che non si sono integrati nella società tedesca. "Non ci sentiamo sicuri, nei centri commerciali e a scuola", l'allarme lanciato da Marla. "Ci sono molti poliziotti che vanno in giro in città che non sarebbero necessari se non ci fossero tutti questi incidenti", racconta la ragazzina. Incidenti che comprendono anche episodi di molestie e violenze sessuali. "Le ragazze stanno molto attente a non vestirsi in modo troppo provocante e non possiamo muoverci liberamente e spensieratamente. Cosa - afferma la giovane - che avremmo diritto di fare nel nostro Paese". Poi l'attacco ai richiedenti asilo, "responsabili di molestie nei confronti di donne e ragazze: lo trovo orrendo. E anch'io - spiega Marla - ho sperimentato qualcosa del genere". Secondo la 15enne la colpa non è solo degli immigrati, ma anche di coloro che li difendono, che dicono: "anche i tedeschi potrebbero farlo, noi non siamo meglio di loro. Il punto - attacca - non è chi potrebbe farlo, ma chi lo sta facendo" . "Le statistiche - prosegue - sono inequivocabili per i crimini dei rifugiati. Molti adulti dicono che noi giovani dovremmo essere capaci di farci le nostre opinioni", continua, "ma nessuno ci ascolta se non si conformano alla visione del mondo della sinistra e se non sono conformi ai Friday of Future". Un doppio attacco, quindi, a globalisti e ambientalisti, compresa la piccola Greta che con i suoi scioperi ha scatenato la valanga verde. Infine l'appello di Marla ai giovani: "Si svegliassero e si dessero da fare per la loro patria".
· Le colpe in Siria.
Abou Khazen: “Togliete le sanzioni alla Siria”. Davide Malacaria , Matteo Carnieletto su it.insideover.com il 4 dicembre 2019. Quasi 3mila giorni di guerra, mezzo milione di morti (questa è la cifra ufficiale anche se il vero numero dei caduti lo conosce solo la terra che li custodisce) e un Paese in ginocchio. Sono questi alcuni numeri della guerra che da oltre otto anni sta colpendo la Siria. Una guerra che ora non uccide solamente a colpi di mortaio o di bombe che piovono dal cielo, ma anche, e soprattutto, che stermina per mancanza di medicine e di beni di prima necessità, come ci spiega monsignor Georges Abou Khazen, a margine di un incontro organizzato dall’Associazione Pro Terra Sancta: “Le sanzioni sono un crimine perché non toccano né il governo né i ricchi, ma tutti, soprattutto la gente povera. La benzina è razionata, la gente ha una bombola di gas ogni 23 giorni e spesso non arrivano neanche le medicine e il cibo per sfamare le famiglie”. Difficile pensare al futuro in condizioni simili. Chi ha potuto ha lasciato il Paese per cercare di farsi una nuova vita in Libano, oppure in Europa o in Canada. Chi è rimasto (ed è sopravvissuto) ora si trova bloccato in una rete infernale, quella delle sanzioni: “Le grandi potenze, Stati Uniti e Europa – spiega Abou Khazen -, hanno deciso di sanzionare la Siria. Noi abbiamo progetti, ma realizzarli è difficile. Per questo chiediamo di togliere l’embargo alla Siria, soprattutto per quanto riguarda le medicine: siamo in carenza di cure per il cancro e manca pure il necessario per le dialisi”. Oggi in Siria l’inflazione galoppa, i quattrini valgono poco o niente e vivere è sempre più difficile. E questo nonostante il Paese si trovi in una situazione di relativa calma, eccezion fatta per le zone al confine con la Turchia, colpite dall’offensiva di Ankara e dalle continue minacce dei jihadisti di Idlib, che hanno aperto un nuovo fronte: “Prima c’è stata l’invasione turca e poi gli americani, con i loro alleati, hanno occupato tutti i campi di petrolio. Prima il governo riusciva a rifornirsi ogni tanto, ma oggi ogni cisterna che manda viene bombardata dagli americani e dai loro alleati”. Questo è ciò che accade a est dell’Eufrate. Nel nord del Paese, invece, si registrano quotidiani massacri e, come se ciò non fosse sufficiente, si assiste a una situazione paradossale: i discendenti dei cristiani assiri e caldei che sono scampati al genocidio degli ottomani si trovano faccia a faccia con i nipoti dei carnefici dei loro avi: “Ci siamo ritrovati il boia in casa”, aggiunge Abou Khazen. E i curdi? Fino a poco tempo fa sembravano esser pronti a trovare un accordo con Damasco, ma ora le lancette sembrano essere tornate indietro nel tempo, a prima dell’invasione turca: “Fanno poco o nulla per ritrovare un collocamento all’interno del governo siriano. Si parlano, ma ci sono poche speranze che la situazione torni alla normalità perché gli americani hanno prima montato la testa ai curdi e poi li hanno venduti ai turchi”. Senza scampo, senza un futuro, la comunità curda si trova in un vicolo cieco, da cui non sa più uscire. A preoccupare maggiormente monsignor Abou Khazen, però, sono i gruppi jihadisti che si trovano ancora alla periferia di Aleppo e che, solamente poche settimane fa, hanno bombardato la città. “Hanno sparato i colpi non lontano da un punto di osservazione curda e sai perché?”, ci chiede il prelato che, subito dopo, risponde, “perché se i governativi avessero risposto ci sarebbe stata una rappresaglia di Ankara”. È quello che sperano i terroristi asserragliati a Idlib e che, ora, il governo di Damasco non può permettersi. E questa connivenza di Ankara permette ai terroristi di sopravvivere. Ma non ci sono solo la sofferenza e la guerra. C’è anche la speranza, come tiene a sottolineare Abou Khazen: “Il nostro destino non è nelle mani dell’uomo, ma in quelle del nostro Padre celeste. L’uomo ha dei margini di manovra, ma la storia è condotta da lui”. Ed ora sono in molti, in Siria, a sperare in quel Padre celeste per la cui fede sono morte migliaia di persone. Lo Stato islamico e le milizie jihadiste legate alla galassia ribelle hanno distrutto quella convivenza che per secoli ha reso la Siria un sistema perfetto di culture e religioni che hanno costruito un Paese unico tra il Mar Mediterraneo e il deserto. La Siria è sopravvissuta e con essa i cristiani. Ma la vera guerra, quella della rinascita, deve ancora iniziare.
Guerra in Siria: Turchia-Curdi-Russia-Usa. La guida per capirci qualcosa. Guida ragionata all'attacco lanciato dai turchi contro i curdi nel Paese martoriato da otto anni di guerra civile. Un conflitto che sta modificando l'intero scacchiere medio-orientale. Panorama il 18 ottobre 2019. La Turchia che invade il Nord della Siria, Washington che tradisce i curdi, le truppe Usa che si ritirano dal Nord Est del Paese, i soldati russi che si insediano in quelle che fino a ieri erano basi militari americane, i curdi che si alleano con l'avversario Assad... Il terremoto che a inizio ottobre ha colpito la Siria, già devastata da una guerra civile che ha provocato oltre 400 mila morti e milioni fra sfollati e rifugiati, sta cambiando lo scacchiere dell'intero Medio Oriente. Per capire che cosa sta succedendo nel Paese che da otto anni è il teatro di una serie di guerre per procura fra varie potenze, Panorama ha elaborato una guida ragionata. Dai ricatti di Erdogan al voltafaccia di Trump, dai giri di valzer di Assad al trionfo di Putin, tutto quello che bisogna sapere sulla tragedia siriana.
Che cosa vuole la Turchia? Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, due sono gli obiettivi del sultano di Istanbul, Recep Tayyip Erdogan. Anzitutto vuole cacciare dall'area vicino al confine con la Turchia i miliziani curdi dell'Ypg, l'Unità di protezione popolare che ritiene una minaccia alla sicurezza interna turca. Ankara considera il braccio armato dell'alleanza a guida curda delle Forze democratiche siriane un'organizzazione terroristica. A suo parere, l'Ypg non sarebbe altro che un'estensione del Pkk, l'organizzazione paramilitare che in Turchia lotta per l'autonomia dei curdi dal 1984. In secondo luogo, Erdogan vuole creare uno spazio all'interno della Siria in cui reinsediare i 2 milioni di rifugiati siriani al momento stazionati in Turchia. In quest'ottica, la Turchia vuole creare una «zona di sicurezza», che inizialmente dovrebbe estendersi per 32 chilometri per poi allargarsi all'interno della Siria.
In che cosa consiste la «zona di sicurezza»? Dopo che, lo scorso dicembre, Donald Trump aveva annunciato la sconfitta dell'Isis e preannunciato il ritiro dei 2 mila soldati che aiutavano i miliziani curdi, Ankara iniziò a parlare della creazione di una «zona di sicurezza» nel Nord Est della Siria. Come spiega la Bbc, la questione tornò fuori dopo che l'Ypg aveva conquistato l'ultima sacca del territorio dello Stato Islamico nel marzo 2019. Ad agosto, Washington aveva concordato con Ankara la creazione di un «meccanismo di sicurezza» sulla parte siriana della frontiera. E i curdi avevano iniziato a smantellare le fortificazioni sul confine. Ma quando, due mesi dopo, Erdogan ha annunciato a Trump che stava per iniziare un'operazione miliare al fine di creare una «zona di sicurezza», i soldati Usa hanno iniziato a ritirarsi. A quel punto, la Turchia ha lanciato un durissimo attacco contro le milizie curde di protezione popolare, Ypg. Per tutta risposta, il 14 ottobre Washington ha imposto sanzioni contro i ministeri della Difesa e dell'Energia turchi, oltre che contro i ministri della Difesa, dell'Energia e dell'Interno. L'amministrazione Trump ha anche aumentato i dazi sull’acciaio turco.
Che cosa prevede la tregua stabilita il 17 ottobre? L'accordo per il «cessate il fuoco» in Siria raggiunto fra il presidente turco Erdogan e il vice-presidente Usa Mike Pence prevede uno stop dell'offensiva militare della durata di cinque giorni. Durante queste precarie 120 ore, nel corso delle quali la Turchia ha continuato a lanciare razzi, gli Stati Uniti dovrebbe favorire l'evacuazione dei combattenti curdi dalla zona di sicurezza concordata con Ankara. In tal modo la Turchia otterrà l'agognata zona di sicurezza oltre il suo confine, in territorio siriano. Pence ha specificato che gli Stati Uniti toglieranno le sanzioni alla Turchia, una volta che il cessate il fuoco diventerà permanente. Di fatto, si tratta di una vittoria per Erdogan.
I curdi come rispondono? Un portavoce delle Forze democratiche siriane ha definito quella degli Stati Uniti «una pugnalata alle spalle». Ad ogni modo i curdi, che hanno accusato le forze turche di aver utilizzato «fosforo bianco e napalm», hanno resistito all'attacco, in particolar modo nelle città di frontiera. Ma, abbandonati dagli Stati Uniti, hanno avuto bisogno di sostegno. Ecco perché il 13 ottobre i curdi siriani hanno firmato un accordo con Bashar al-Assad, che prevede il dispiegamento di truppe di Assad vicino alla frontiera per scoraggiare le incursioni turche e cercare di proteggere i civili curdi. L’intesa ha sancito la fine della separazione politica de facto dell’Est del Paese dal resto della Siria, che ormai è quasi interamente tornata sotto il controllo di Damasco. Non solo: ha anche mutato gli equilibri nella regione. «Questo nuovo accordo ridefinisce i fronti di guerra e della partita geopolitica siriana» si legge su un'analisi sul sito Ispionline dedicata all'accordo. «Gli Stati Uniti hanno di fatto lasciato che i curdi trovassero un nuovo alleato nei loro avversari: Damasco, e quindi Mosca. Dall’altra parte, la Turchia e i ribelli anti-Assad potrebbero andare oltre l’obiettivo di assicurarsi il controllo del confine. Nel mezzo pende l’incognita dello Stato Islamico».
Siria: Trump non ha dato via libera alla guerra di Erdogan. Piccole note il 19 ottobre 2019 su Il Giornale. Tanta confusione sulla guerra iniziata da Recep Erdogan contro i curdi del Nord-Est della Siria, per ora fermata da un cessate il fuoco grazie all’accordo tra Stati Uniti e Turchia. Per la narrativa corrente Trump avrebbe dato il via libera a Erdogan. Ciò sarebbe avvenuto in una telefonata tra i due presidenti avvenuta il 6 ottobre scorso, due giorni prima dell’intervento. La realtà, al solito, è diversa dalla narrativa. Il contenuto della telefonata tra i due presidenti si può leggere sul sito ufficiale della presidenza turca.
La telefonata Trump-Erdogan. Nella telefonata, i due avrebbero concordato sulla necessità di creare una “zona sicura” ai confini turco-siriani, come richiesto da anni da Ankara per “neutralizzare la minaccia” – asserita e pretestuosa più che reale – delle milizie curde che controllano il Nord-Est della Siria. Nessun cenno a un’eventuale operazione contro i curdi. Nessuna luce verde. Il 7 ottobre l’annuncio di Trump di ritirare le truppe dalla Siria, prima quelle al confine, poi tutte. Una presenza illegale, dato che era una forza di occupazione che andava anche contro quanto autorizzato dal Congresso Usa, che aveva dato mandato di condurre operazioni anti-terrorismo e non altro.
L’attacco dei turchi. L’8 ottobre Erdogan inizia a bombardare massicciamente i curdi al confine (esercizio che va avanti da anni nel silenzio dei media internazionali). Il 9 attacca. Una mossa che evidentemente Trump non si aspettava. Tanto che, pur blandendo i turchi in twitt che ricordavano il loro status di membro della Nato, in altro twitt, delle 05.55 dell’8 ottobre scrive tutt’altro. “Qualsiasi combattimento non forzato o non necessario [cioè difensivo] da parte della Turchia – si legge – sarà devastante per la loro economia e per la loro valuta già molto fragile. Stiamo aiutando i curdi finanziariamente / armi” etc.. È evidente che, dopo la telefonata cordiale del 6 ottobre, Trump non vuole rompere col presidente turco, ma il twitt dell’8 non lascia spazio a equivoci sulla sua contrarietà alla campagna militare.
La lettera a Erdogan. Non avendo alcun esito il suo appello, Trump decide di inviare al suo omologo turco una missiva inusuale, resa pubblica solo il 16 ottobre dal New York Times., nella quale chiede la fine delle ostilità, ribadendo la minaccia di “distruggere l’economia turca”. Decisiva la data della missiva: 9 ottobre, appena iniziate le operazioni militari. Nella lettera, Trump spiega anche a Erdogan che il generale Mazloum, comandante in capo delle Sdf, le milizie curde, “è disposto a negoziare con te, ed è disposto a fare concessioni che [i curdi] non avrebbero mai fatto in passato”. Tali concessioni non sono specificate, ma sono concrete, messe nero su bianco dallo stesso generale Mazloum in una lettera inviata a Trump e che questi allega alla missiva indirizzata al presidente turco. Non sappiamo i particolari, ma il fatto che i curdi avessero accettato di far concessioni e aperto a un negoziato con Ankara (è la prima volta che accade) è dato di rilevanza primaria. Come anche il supporto al negoziato del presidente degli Stati Uniti. Data la successione degli eventi, è evidente che Trump non aveva previsto che la decisione di ritirarsi dalla Siria avrebbe scatenato le pretese di Erdogan. Così tante accuse mosse al presidente Usa appaiono strumentali.
L’improvvida ritirata Usa. Certo, la ritirata dell’esercito dalla Siria è apparsa improvvida. Poteva essere effettuata meno in fretta e dopo un accordo turco-curdo-siriano. Il punto è che Trump non può parlare con Damasco né con Mosca, dato che tali mosse avrebbero suscitato critiche altissime: se già adesso lo accusano di aver tradito l’America…E probabilmente temeva che un ritiro non subitaneo avrebbe incontrato le solite resistenze interne e internazionali, quelle che gli hanno impedito di dar seguito nel passato a tale proposito, annunciato più volte e sempre vanificato dagli ambiti che vedono in questa mossa un ridimensionamento del ruolo globale degli Usa. Tant’è. Ora l’accordo per il cessate il fuoco siglato da Pence e Erdogan, nonostante alcuni scontri, sembra nella sostanza tenere. Mentre l’esercito siriano sta prendendo il controllo di alcune città di confine, interponendosi tra le parti.
Siria: il caos non è finito. Ma tutto è sospeso, tante complicanze del caos siriano, creato peraltro dagli ambiti che ora attaccano Trump per la crisi turco-curda. Erdogan continua nelle sue minacce ed è possibile riprenda le ostilità. Troppo ambiguo il sultano di Ankara. Mentre resta aperta anche la questione del rapporto tra curdi e Damasco, ad oggi solo un accordo militare. E resta il nodo del petrolio siriano che si trova nel Nord-Est del Paese, controllato finora da Usa e curdi. Damasco lo rivuole, ma non troverà vita facile sul punto. Ieri Assad ha incontrato l’inviato Alexander Lavrentiev e Sergey Vershinin, rispettivamente inviato russo per la SIria e vice ministro degli Esteri di Mosca. A conferma, come recita l’Agenzia Sana, che la Russia continua a supportare la “sovranità e l’integrità territoriale della Siria” e nella prospettiva che Damasco recuperi il “controllo di tutti i territori siriani comprese tutte le zone di confine”.
Marco Ansaldo per “la Repubblica” il 19 ottobre 2019. Giuseppe Conte litiga per più di un' ora al telefono con Erdogan, il Sultano conclude con Trump una "finzione di intesa" (copyright Nancy Pelosi) sulla pelle dei curdi in Siria, e l' Europa si prepara a elargire alla Turchia un nuovo miliardo tondo tondo per i profughi. La mattina dopo l' accordo che partorisce una tregua ancora fragile - per tutta la giornata si è sparato a nord, con un elicottero turco abbattuto - il vertice europeo ha partorito nuove misure per Ankara. Non sanzioni, ma il loro esatto opposto. Aprendo la strada a una terza tranche dopo i 6 miliardi già saldati. Con una formulazione inserita su spinta tedesca. Il nuovo miliardo di euro (Erdogan ne ha chiesti informalmente tre), verrà accordato a fine anno o inizio 2020. Tutto questo mentre il Sultano intima: «Alla fine delle 120 ore di tregua, l'operazione Fonte di pace continuerà in modo più determinato se gli Usa non manterranno le promesse» di evacuare le milizie curde. Se allora " pacta sunt servanda", e i 6 miliardi firmati sono già stati versati per oltre il 90%, il timing di questa ennesima elargizione arriva in un momento incredibilmente infelice. Il solo leader che sembra mantenere un minimo di lucidità appare il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk: «Questo non è un cessate il fuoco, ma una richiesta di capitolazione dei curdi». «Dobbiamo essere coerenti - insiste - Ribadiamo il nostro invito a cessare l' azione militare immediatamente e rispettare le leggi umanitarie. E questo non è il risultato dell' accordo tra Mike Pence e Erdogan». A restare sola su una linea ferma contro Ankara, per una volta, è l'Italia. Lo conferma un altro dettaglio: l' esclusione di Conte ieri dal pranzo fra Macron, Merkel, Sanchez e altri leader con Ursula von der Leyen, Il presidente francese ha anzi annunciato che con Merkel e Johnson incontrerà Erdogan «per dare coerenza alla posizione degli europei sulla Nato». Conte e Roma ancora esclusi. L' evidente scarto dell' Italia rispetto ai partner non è sfuggito a un' ambasciata attenta come quella turca. E ieri il suo numero uno, il diplomatico Murat Salim Esenli, si è lanciato in un' intemerata: «Alcuni leader politici italiani della maggioranza hanno usato la foto di una bambina, vittima di un attacco chimico del regime siriano, per criticare la Turchia. Sono caduti vittima della propaganda. Questo non ha niente a che fare con la verità». Sono seguiti velati avvertimenti: «Il danno alle relazioni bilaterali fra Italia e Turchia potrebbe avere conseguenze negative». Su temi come l' informazione e la propaganda l' attuale diplomazia turca, un tempo molto rispettata nel mondo e considerata di prim' ordine, ha sicuramente una lunga esperienza, affinata negli ultimi anni. Le disposizioni notoriamente "liberali" di Ankara sui giornalisti, locali e stranieri, del resto, lo dimostrano.
Siria, torna la “sporca” guerra delle armi chimiche. Roberto Vivaldelli il 19 ottobre 2019 su it.insideover.com. Le armi chimiche tornano prepotentemente nella narrativa del conflitto siriano. Questa volta, però, le accuse non ricadono su potenziali attacchi con armi proibite da parte di Damasco, come accaduto il 21 agosto 2013 nella Ghouta orientale, nei sobborghi della capitale siriana, o nel presunto attacco chimico di Khan Shaykhun del 4 aprile 2017 o ancora, a Douma, il 7 aprile 2018. Questa volta sotto accusa è finita la Turchia e il suo presidente Recep Tayyip Erdogan. Come riporta l’Agi, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche ha avviato una indagine in riferimento alle accuse formulate dai curdi, secondo cui Ankara ha usato il fosforo. I medici curdi, infatti, avevano riferito di ferite causate da “armi sconosciute” su sei pazienti a Hasakah all’inizio di questa settimana. A fare il giro del web, ancora una volta, le immagini scioccanti di un bambino curdo ricoverato nell’ospedale di Hasakak, con il volto completamente corroso e gli occhi cupi. La pelle è stata portata via, cancellata da uno dei bombardamenti turchi sulla cittadina siriana di Rais al-Ayn, chiamata dai curdi Sari Kan. Il portavoce delle Forze democratiche siriane, Mustafa Bali, aveva lanciato su Twitter l’allarme, manifestando il timore “che vengano usate armi non convenzionali contro i nostri combattenti”. “Esortiamo le organizzazioni internazionali a inviare i loro esperti per indagare su alcune ferite subite negli attacchi”, ha chiesto Bali su Twitter. La Turchia, dal canto suo, nega ogni accusa e grida al false flag. “Abbiamo ricevuto una serie di informazioni secondo cui alcune organizzazioni terroristiche intendono avvalersi di armi chimiche per poi accusare le nostre forze armate”, ha dichiarato il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar.
Torna l’incubo delle armi chimiche: i curdi accusano Ankara. Anche l’ambasciatore turco in Italia, Murat Salim Esenli, ha scagionato Ankara dalle accuse mosse dai curdi. Il diplomatico ha sottolineato che “la Turchia non ha armi chimiche, non ha armi biologiche e non ha armi nucleari”. Commentando le immagini delle vittime ferite dell’ospedale di Hasakak, Esenli ha sottolineato che è in atto una vera e propria “guerra informatica” ibrida il cui “obiettivo è quello di stigmatizzare la Turchia”. Esenli, riporta l’Agi, ha poi accusato alcuni leader politici italiani, anche di maggioranza, di essere vittime della “propaganda” delle Unità di protezione dei popoli (Ypg), le milizie curde che controllano il nord-est della Siria, che starebbero, a suo dire, diffondendo foto fuorvianti sulle vittime dell’operazione militare lanciata dalla Turchia. Foreign Policy ha pubblicato un articolo che mette in discussione la versione ufficiale di Ankara. Le foto esaminate dalla testata americana fornite da fonti curde e confermate da un alto funzionario dell’amministrazione statunitense mostrano bambini di Ras al-Ayn con ustioni sul petto e in viso che farebbero pensare al fosforo bianco. “Un funzionario della Mezzaluna Rossa curda – racconta Foreign Policy – un’organizzazione umanitaria senza scopo di lucro che opera sul campo nel nord della Siria, ha dichiarato a Fp che sei pazienti, tra cui bambini e soldati, sono arrivati all’ospedale nazionale di Hasakah con ustioni di primo e secondo grado dopo essere entrati in contatto con una sostanza sconosciuta a seguito di un attacco aereo turco a Ras al-Ain. I pazienti hanno detto di aver visto “strane luci” durante l’attacco aereo, ha detto il funzionario, che ha rifiutato di essere nominato per motivi di sicurezza”. Gli Stati Uniti sono a conoscenza delle accuse mosse contro la Turchia e delle possibili prove a sostegno di tale ipotesi, ha dichiarato un alto funzionario dell’amministrazione statunitense a Foreign Policy. “La Turchia sarà ritenuta responsabile dalla comunità internazionale per i crimini commessi contro i curdi”, ha sottolineato il funzionario.
I precedenti in Siria. Le accuse reciproche fra Turchia e curdi siriani di queste ore ricorda da vicino quelle fra Damasco e i ribelli islamisti durante i tre episodi chiave del 21 agosto 2013 nella Ghouta orientale, nei sobborghi della capitale siriana, o nel presunto attacco chimico di Khan Shaykhun, a Idlib, del 4 aprile 2017, o di quello di Douma, del 7 aprile 2018. I tre eventi ci suggeriscono che occorre esaminare i fatti e trarre conclusioni con la massima prudenza dato che è difficilissimo ed estremamente complicato stabilire – con assoluta certezza – la verità sull’uso di armi chimiche in una guerra “sporca” come quella siriana. Del resto, come ha scritto Robert Fisk sull’Independent, “in tutti i casi di questo tipo, è necessario capire che la ricerca di prove di un attacco chimico è notoriamente complessa. È necessariamente una scienza inesatta. Diversamente dai frammenti delle bombe, le schegge di proiettile, le basi d’appoggio dei mortai, i codici informatici dei razzi o i manuali delle armi, i gas non riportano nessuna pratica etichetta che possa rivelare i proprietari dei manufatti”. Per quanto concerne l’attacco nella Ghouta orientale, infatti, nel rapporto dell’Onu ufficialmente presentato il 13 dicembre 2013 si specifica che il lavoro ha come obiettivo di accertare l’uso di armi chimiche ma non i responsabili del loro utilizzo Anche per questo motivo, sfogliando le pagine del rapporto, appare impossibile scovare responsabilità tra esercito regolare e ribelli. I risultati dell’attacco del 21 agosto si trovano a pagina 44 del rapporto: si evince che in quel giorno la Ghouta viene colpita nelle località di Jobar, Moadamiyah e Zamalka. L’attacco incriminato è quello su Jobar e Zamalka, dove l’uso di armi chimiche viene effettivamente accertato. Non ci sono tuttavia riferimenti espliciti e particolari che possano ricondurre a chi, tra gli attori in causa nel conflitto, abbia bombardato utilizzando gas sarin. Medesimo discorso per l’attacco di Douma dell’aprile 2018: Il rapporto dell’Opcw dice che gli ispettori dell’organizzazione hanno riscontrato la presenza di cloro in due dei quattro siti dove sono state condotte le ispezioni, insieme “a residui di esplosivo” pur sottolineando che non sono state trovate tracce di agenti nervini. Soprattutto, non stabilisce chi ha commesso l’attacco chimico, se Damasco o i ribelli.
Quelle chat segrete jihadiste da cui arrivano i pericoli per l’Europa. Mauro Indelicato il 19 ottobre 2019 su it.insideover.com. Il terrore viaggia su Telegram: è qui che, soprattutto nelle ultime settimane, sono emerse le chat usate dai jihadisti per comunicare tra loro. Conversazioni, scambio di informazioni e di foto, indicazioni su dove andare ed a chi rivolgersi: sono tante le indagini degli ultimi mesi che, soprattutto all’estero, hanno mostrato come i miliziani dell’Isis in medio oriente usino Telegram e le chat di gruppo di questo social.
Le chat dei jihadisti rinchiusi nel Rojava. Inchieste passate che ben si sposano con la strettissima attualità. È quanto emerge ad esempio in un articolo del Corriere della Sera dello scorso 16 ottobre, a firma di Marta Serafini. Nel suo reportage, si fa riferimento ad un canale di Telegram aperto a fine settembre per aiutare i jihadisti presenti nel nord della Siria e sotto la custodia delle forze filo curde delle Sdf. Tra di essi, ci sono quindi miliziani che hanno combattuto nel nord del paese, così come nelle province di Deir Ezzor e Raqqa e nell’ultimo bastione di Baghouz. Nella chat sono presenti molti uomini, ma anche donne: alcune di loro sono vedove dei jihadisti, altre sono state combattenti, molte hanno al seguito i propri figli costretti a subire il carcere. E sulla chat di Telegram infatti, alcune di loro postano immagini di bambini che nel campo di Al Hol, uno dei più importanti del Rojava, pregano sotto il sole con i commenti che parlano delle ingiustizie relative al mantenimento di minori dentro i campi per prigionieri. Non solo Al Hol, ma anche Al Hasakah, Al Roj, Ain Issa, sono diverse le prigioni controllate dai curdi dove da mesi sono rinchiusi centinaia di combattenti e di donne “spose” del califfato. Molte e molti di loro, per l’appunto, sono all’interno della chat di Telegram segnalata e seguita da Marta Serafini. Si parla molto, tra i jihadisti, delle condizioni di vita, di quanto sta accadendo dentro i campi. A serpeggiare è l’audio del califfo Al Baghdadi, che il 16 settembre scorso ha promesso la liberazione di tutti i detenuti dell’Isis. Si parla anche della mancanza di cibo, dei trattamenti ricevuti e di una generale condizione che secondo i vari prigionieri deve essere cambiata aspettando la liberazione da questi campi. In tal senso, ad emergere sono anche minacce ai curdi ed alle varie forze che hanno sconfitto il califfato. Il quale, a giudicare da queste chat, appare tutt’altro che morto ed arreso.
I pericoli derivanti dalle avanzate della Turchia. Dal 9 ottobre, all’interno della chat di Telegram improvvisamente lo scenario sembra cambiare. Non più solo foto di prigionieri e dei vari campi di detenzione, ma anche immagini scattate all’esterno di queste strutture, con donne che orgogliosamente mostrano di essere fuori da quei luoghi definiti come vero e proprio inferno. Tutto questo grazie ai bombardamenti turchi iniziati nel Rojava proprio in quel giorno. Segno di come i raid di Ankara in alcune occasioni abbiano aiutato i jihadisti a fuggire. “Incitiamo le sorelle di Ain Issa a fuggire. Ma non fidatevi di chiunque, solo dei fratelli”, si legge in una frase postata sul gruppo di Telegram. Ed è questo il pericolo maggiore che in tanti hanno sottolineato in questi giorni: bombardamenti e combattimenti, potrebbero portare alla liberazione di numerosi miliziani jihadisti presenti dentro i vari campi nel nord della Siria. Ma questa situazione fa risaltare un altro problema, questa volta tutto europeo: all’interno di queste prigioni, sono tanti i foreign fighters, tanto che nelle varie strutture nei mesi scorsi i curdi dedicano loro apposite sezioni. Sono cittadini europei che potrebbero (e dovrebbero) essere processati nel vecchio continente, prima che tornino sì a casa ma come aspiranti terroristi. Un problema che Donald Trump ha definito unicamente europeo: “Che vadano a prenderseli”, ha affermato il presidente Usa rivolgendosi ai capi di governo europei. Secondo molte segnalazioni dei vari gruppi di intelligence, alcuni di loro sarebbero già verso la via di casa.
Amara, combattente curda, uccisa e calpestata dai miliziani: video dell’orrore in Siria. Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi. I video che mostrano i gesti brutali dei miliziani alleati dell’esercito di Ankara potrebbero fornire le prove di eventuali crimini di guerra. Il corpo della giovane donna a terra, impolverato, macchie di sangue, capelli sparsi. E sopra di lei un gruppo di uomini barbuti in divisa che urlano «Allah Akbar», le saltano sopra, la prendono a calci con gli scarponi militari. Guardano con disprezzo il cadavere, la chiamano «prostituta». Poco lontano altri cadaveri di combattenti curdi, abusati, violati contro lo spirito di tutte le convenzioni internazionali. I video se li passano tra loro sui cellulari. Diventano propaganda militare, motivo di autoesaltazione. Ricordano da vicino quello di Isis contro i prigionieri solo un paio d’anni fa. In breve raggiungono il tam tam della rete. Li riprendono anche i centri d’informazione curda. E ci vuole poco perché, in quello diffuso il 21 ottobre, riconoscano nella giovane combattente donna violata il volto di Amara Renas, nome di battaglia Ziza Jalal. Una delle loro partita a cercare di difendere Rojava inquadrata nelle Ypj, le unità militari femminili della regione autonoma curda siriana. Uno dei barbuti urla allo smartphone: «Siamo mujaheddin (eroi gloriosi) del battaglione Faylaq al-Majd (Unità della Gloria)». Si comportano da fanatici jihadisti, molti di loro fanno parte dei gruppi di siriani militanti nella rivolta scoppiata nel 2011 contro il regime di Bashar Assad, a loro volta vittime di una gravissima repressione da parte dell’esercito siriano sostenuto da Russia e Iran, quindi rifugiati in Turchia. Oggi l’esercito di Ankara li utilizza come fanterie per occupare la cosiddetta «Fascia di Sicurezza» voluta dal presidente Erdogan in territorio siriano. Dunque formalmente sono alleati sul campo delle forze militari di un Paese membro della Nato. Eppure, i loro comportamenti paiono indicare lo sprezzo delle convenzioni internazionali a garanzia dei prigionieri, dei nemici uccisi e dei civili. Il sospetto è che si stiano macchiando di gravi crimini di guerra. Da giorni ormai i centri stampa curdi lanciano denunce e grida d’allarme. In alcuni video si vedono prigionieri curdi e dell’esercito nazionale siriano derubati, presi a calci e malmenati. I loro persecutori gridano l’intenzione di decapitarli. Qualche giorno fa un’altra giovane combattente curda ferita alle gambe, ma apparentemente ben cosciente, veniva ripresa tra le grida e gli insulti minacciosi. Nei video diffusi durante le ultime ore i miliziani appellano dalle moschee ad occupare le abitazioni dei curdi nella cittadina di Ras al Ayn. Uno di loro predica da imam in una moschea la legittimità di prendere le proprietà curde come diritto di guerra con la benedizione di Allah.
La madre di Evrin Khalaf: «Americani traditori, sono responsabili della sua morte». Pubblicato mercoledì, 23 ottobre 2019 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi, inviato a Derek (Siria nord-orientale). Il video dalla casa della politica e attivista curda assassinata in Siria: «Che umanità siamo diventati?» Una villetta in cemento grezzo a due piani. Sul fondo della strada una moschea, tutto attorno edifici essenziali, poveri, qualche bambino che gioca sul marciapiede. Ricorda un’abitazione contadina, come si trovavano ancora nell’Italia degli anni Settanta, o in certe periferie oggi del centro-sud, con un micro-orto sul retro. Si respira un’atmosfera semplice, austera, verrebbe da dire spartana. E all’interno, al primo piano, la stanza di Evrin Khalaf: sembra quella di una studentessa, con l’essenziale per il trucco su di tavolinetto basso, e i libri di studio impilati su di un paio di ripiani di una credenza che originariamente era pensata per la cucina. Sui muri le foto di vecchi compagni e compagne morti combattendo nelle file delle forze militari curde. Tutti giovani, poco più che ragazzi. È sempre imbarazzante incontrare per lavoro un parente stretto di una persona appena deceduta per intervistarlo, specie se c’è stata una morte violenta, drammatica, come quella della 35enne Evrin, assassinata, o meglio dire trucidata, il 12 ottobre sulla strada tra Qamishli e Hasakeh da un gruppo di estremisti siriani alleati delle truppe turche impegnate nell’invasione della regione curda in Siria. Uccisa con decine di proiettili e poi con i calci dei fucili, presa e pietrate sino a sfigurarla, perché impegnata nella vita politica curda, accesa sostenitrice dei diritti delle donne e dei deboli in generale, socialista, laica: insomma tutto ciò che più odiano gli estremisti religiosi islamici. Ma è la stessa mamma, Saadia Mustafa, 62 anni, completamente vestita di nero, il capo coperto, a venirci incontro per ringraziarci. «Grazie, grazie voi giornalisti che venite a casa nostra per raccontare di Evrin. Aiutate a fare sì che la sua morte non sia invano, a ricordarla, per denunciare al mondo questo crimine che adesso qui tanti cercano di far dimenticare», dice subito. Parla diretta, seria, determinata. Occorre venire di persona per capire davvero e raccontare. Ci mostra il letto della figlia coperto di corone di fiori bianchi portate dai politici e dalla gente di Rojawa per il funerale l’altro giorno, quindi le foto di lei studentessa, al tempo della laurea in ingegneria. «Mia figlia aveva due lauree, una anche in letteratura inglese», tiene a sottolineare. Quindi racconta come funzionava la corruzione prima della rivoluzione siriana nel 2011. «Evrin aveva tutti i titoli per ottenere un lavoro importante e Damasco. Ma nessuno la voleva perché era curda. Sino a che un funzionario governativo baathista le ha chiesto circa 8.000 dollari in cambio dell’assunzione al ministero dell’Economia. Voi non avete idea come fosse corrotto il regime prima del 2011. Era normale pagare bustarelle per avere un lavoro governativo». Non sa dire se adesso con il ritorno del regime protetto dalla Russia di Putin le cose torneranno come prima. Certo è che lei vuole denunciare. «Mia figlia è stata assassinata perché era generosa, corretta, non accettava bustarelle e combatteva le ingiustizie. Diceva che la corruzione del regime andava combattuta in ogni modo. Non è accettabile aver pagato un tributo tanto alto di sangue per poi tornare come prima», aggiunge. Alla domanda sull’identità di chi l’ha uccisa, la risposta giunge veloce: «Certamente il regime di Erdogan, con le sue squadracce di uomini pronti a tutto. Ma le responsabilità maggiori sono degli americani, che prima aiutano e poi tradiscono. Mia figlia non voleva il male di nessuno, sin da giovanissima era una bambina generosa che voleva dare prima di prendere. Ma che umanità siamo diventati noi, che stiamo zitti di fronte al barbaro assassinio di una giovane che voleva solo il bene del mondo? Lo scriva questo. Per favore ricordate, denunciate, non dimenticate».
«La nostra Hevrin uccisa da jihadisti al soldo dei turchi» L’accusa dell’amica dell’attivista curda assassinata. Pubblicato lunedì, 21 ottobre 2019 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi, inviato a Qamishli. Amina Omar: «Erdogan non chieda il ritiro totale». «Europei aiutateci! I sicari jihadisti al servizio della Turchia che hanno barbaramente linciato la mia amica e compagna di lotta Hevrin Khalaf non sono estremisti isolati. Fosse così noi curdi potremmo fermarli. Ma purtroppo sono parte di un piano molto più vasto e complesso ordito dal presidente turco Erdogan per ricostruire l’antico Impero Ottomano nella nostra regione. È in atto una vasta operazione di pulizia etnica al danno di noi curdi. Erdogan ci caccia dalle nostre terre per impiantarvi popolazioni sunnite che storicamente ci odiano e non esiteranno a massacrare quelli di noi che restano indietro nelle loro case». È un grido di dolore che chiede di essere ascoltato quello che lancia Amina Omar parlando al Corriere. Co-presidente del Consiglio democratico siriano, che è il parlamento della regione autonoma curda del Rojava (la massima autorità civile), 48 anni, madre di 4 figli, laureata in legge ad Aleppo, ma dal 2011 coinvolta anima e corpo nella politica locale: l’abbiamo incontrata ieri mattina mentre teneva una conferenza per denunciare quelli che definisce senza mezze parole i «crimini di guerra» compiuti dall’esercito turco assieme alle milizie sunnite siriane sue alleate. In mano teneva un manifesto con la fotografia di Hevrin, la 35enne politica e attivista per i diritti civili curda trucidata il 13 ottobre sulla strada a un centinaio di chilometri da Qamishli.
Chi l’ha uccisa, lo sappiamo con certezza?
«Sono stati gli estremisti jihadisti del Ahrar al Sharqiya, un movimento ben noto per le sue violenze terribili. Lo abbiamo già visto in azione contro noi curdi, specie l’anno scorso durante l’offensiva ordita da Ankara contro l’enclave curda di Afrin».
Adesso che gli ultimi combattenti curdi si sono ritirati anche dall’enclave di Ras Al Ayn crede che sarà possibile trovare un accordo con la Turchia per trasformare il cessate il fuoco in pace stabile?
«Non lo credo affatto, per il semplice motivo che in realtà Erdogan vuole eliminarci del tutto. Già l’anno scorso avevamo accettato di ritirarci a 5 chilometri dal confine con la Turchia per organizzare pattuglie in comune grazie alla mediazione americana. Noi avevamo cooperato di buon grado in nome della pace. Ma Erdogan non cerca la pace, vuole prendersi tutto».
Dopo l’abbandono americano vi siete affidati al regime siriano grazie alle mediazione russa. Ma potete davvero fidarvi di Bashar Assad, contrario a qualsiasi forma di autonomia curda?
«Ci siamo mossi sul principio per cui noi curdi siamo parte integrante della nazione siriana. La Turchia invade il suolo nazionale, dunque è compito di Damasco difenderci. Già l’anno scorso per due volte abbiamo tenuto colloqui con i dirigenti di Damasco. Ed in entrambe ci siamo scontrati su due concezioni diverse. Noi chiediamo forme di auto-amministrazione regionale sulla base di un’idea federale dello Stato. Abbiamo detto chiaro che non vogliamo tornare alla situazione precedente al 2011. Oltre 11.000 combattenti curdi sono morti negli ultimi otto anni per difendere le nostre libertà. Da Damasco però concedono al massimo una limitata autonomia municipale».
I curdi sono disposti a diventare parte dell’esercito nazionale siriano?
«Sì, sono pronti. Anche se per ora i soldati siriani non stanno combattendo, si dispiegano in settori del fronte che sono calmi. Aspettano. I loro partner russi vogliono evitare la guerra diretta tra Damasco e Ankara».
Ormai la Russia ha completamente rimpiazzato gli Stati Uniti in termini di influenza politica e capacità di mediazione nella regione?
«Direi di sì. Putin ormai detta legge. Anche se i nostri responsabili militari continuano a sperare che le forze armate americane restino nella regione. Sono una garanzia per noi».
Martedì sera scadranno i cinque giorni di tregua mediata dagli americani con Erdogan. I curdi si stanno ritirando dai 125 chilometri di confine tra Ras Al Ayn e Tel Abyad. Ma Erdogan esige il ritiro totale da oltre 400 chilometri. C’è la possibilità che la guerra riprenda?
«Noi ci stiamo ritirando come si era pattuito e anche come era stato inteso ad Ankara dalla delegazione americana. I ritardi del nostro ritiro da Ras Al Ayn sono stati causati dai turchi che con i loro alleati avevano circondato i nostri soldati e non li lasciavano partire. Ma se ora Erdogan pretende il ritiro totale anche da Kobane, Qamishli, Derek o simili ovvio che resisteremo. In quel caso sarà ancora guerra e sarà ancora una volta provocata dai turchi».
L’invasione turca. Non dimentichiamo Hevrin Khalaf, simbolo del martirio dei curdi. Femminista. Non violenta. attivista in prima linea per gli oppressi. Quindi intollerabile per il regime di Ankara e gli jihadisti. Che, insieme, ne hanno decretato la morte. Gigi Riva il 18 ottobre 2019 su L'Espresso. Ventiquattrore prima di morire, e senza averne alcun presagio, Hevrin Khalaf ha lasciato sul suo profilo WhatsApp l’ultimo messaggio di forza e speranza nel domani. Ora si può leggere come testamento, come monito per chi vorrà raccoglierne l’eredità alla guida del movimento per la piena emancipazione delle donne, per il riscatto del suo popolo, il popolo curdo, per la democrazia, l’uguaglianza, i diritti. Ha scritto: «Un giorno, quando le cose andranno bene, ti guarderai indietro e ti sentirai orgoglioso di non esserti arreso». Quando le cose andranno bene. Perché bene non andavano lì nel Rojava, venerdì 11 ottobre, mentre Hevrin digitava sullo smartphone l’incitamento a non mollare a beneficio della sua comunità di amici e compagni, anche di se stessa. Rojava, nella lingua curda, significa “Occidente” e l’Occidente inteso in senso largo, come area valoriale oltre che geografica, stava tramontando, oscurato dal proprio tradimento e dal realismo cinico di una politica che ha come stella polare l’egoismo. Donald Trump, il commander in chief della prima potenza mondiale, il magnate dai tweet sulfurei, la domenica precedente aveva belato al telefono con Recep Tayyip Erdogan e gli aveva garantito che avrebbe ritirato i soldati americani dal Nord della Siria. Di fatto, la luce verde per invadere il Rojava, e pazienza se i curdi erano stati l’esercito-taxi usato per sconfiggere lo Stato islamico del sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Che cosa contano i pur valorosi e sempre negletti curdi davanti al sultano di Istanbul forte di un’armata di 300 mila uomini e padrone di uno Stato membro della Nato? Erdogan non aveva perso tempo e mercoledì 9 ottobre aveva ordinato ai suoi uomini di passare il confine, spalleggiati dalla soldataglia di arabi-siriani al soldo di Ankara, molti dei quali jihadisti e in passato appartenenti a formazioni distintesi per ferocia nel pantano siriano. Come Al Nusra, la filiazione locale di al Qaeda. Come lo stesso Isis. Per quella marmaglia di assassini fanatizzati, cresciuti nell’idea della sottomissione del genere femminile, Hevrin era il bersaglio perfetto. Femminista, attivista indefessa, in breve diventata simbolo anche delle donne arabe della regione. Insomma una pericolosa eversiva che diffonde idee di pace, convivenza tra le etnie, ai loro occhi un “cattivo esempio” da distruggere. E l’occasione è capitata molto prima di quanto sperassero. Sabato 12, quarto giorno di invasione, nonostante tuonasse il cannone e piovessero bombe dal cielo, le linee del fronte mutassero di continuo e le strade fossero infestate da manipoli di tagliagole, Hevrin di prima mattina aveva ordinato al suo autista di preparare il fuoristrada. Meta: la città di Derik, dove abita la madre e dove tornava ogni fine settimana. Origine del viaggio, Ain Issa, sede del quartier generale del Partito della Siria del Futuro di cui era co-segretaria fin dalla fondazione, il 27 marzo del 2018. Hevrin e l’autista avevano imboccato l’autostrada internazionale M4 senza sapere che un tratto era finito da poco sotto il controllo - stando ad alcune fonti - del gruppo jihadista Ahrar al-Sharqiya, alleato dei turchi. Sulle modalità della carneficina circolano diverse versioni, con dettagli contrastanti, tutti truci. Aiutano nella ricostruzione più probabile due video messi in rete dagli stessi killer, come fosse un trofeo di cui andare fieri. Il fuoristrada viene fermato, una massa di uomini vocianti e in divisa militare cachi lo circondano. Hevrin, vestita con pantaloni neri e una maglietta rossa, il suo colore preferito, viene immediatamente riconosciuta per le numerose apparizioni televisive. Forse viene violentata, sicuramente crivellata di colpi assieme all’uomo che è con lei e poi, per ulteriore oltraggio, lapidata. In un filmato si vede un miliziano che si avvicina al corpo impolverato, lo rimuove con un piede e commenta: «Questo è il cadavere dei maiali». Il referto dell’anatomopatologo dottor Tayceer al-Makdesi (di cui taciamo per pietà i particolari più raccapriccianti) stilato all’ospedale internazionale di al-Malikiyah, nome siriano di Derik, arriva alla conclusione che la donna è stata colpita alla testa con un oggetto contundente, e non è difficile immaginare il calcio del fucile, il colpo fatale in faccia è stato sparato da una distanza compresa tra i 40 e i 75 centimetri, non c’è praticamente parte del corpo senza i segni di botte e fori di proiettile. Il corpo è stato trascinato per diversi metri con la presa sui capelli fino a scorticare completamente le gambe. Non c’era più pelle, sopra i muscoli: oltre all’esecuzione, il vilipendio. Era nata, Hevrin, 35 anni fa a Derik, venti chilometri di distanza dal fiume Tigri, una cittadina di 40 mila abitanti dove convivono curdi, assiri, arabi e armeni. Una vocazione multietnica e multireligiosa sfociata nell’accoglienza e nell’allestimento di campi profughi fin dall’origine del conflitto in Siria (15 marzo 2011) e nel ricovero dato agli ezidi contro i quali lo Stato islamico tentò il genocidio. L’humus delle origini sarà probabilmente determinante nell’orientare le scelte successive della ragazza e l’appartenenza al popolo curdo, dove esiste una sostanziale parità di genere tanto che ogni carica pubblica è sdoppiata in due tra un maschio e una femmina, la spingerà a un impegno assiduo per promuovere nella regione valori da altri non condivisi. Bella, occhi e capelli scuri, minuta (alta 1,68 per 55 chili), dopo le scuole superiori nel luogo natale, emigra ad Aleppo, il capoluogo patrimonio dell’Unesco, che diventerà città martire dello sventurato Paese. Lì Hevrin si iscrive all’università, ingegneria civile. A metà degli anni Dieci del nuovo millennio, fresca di laurea, trova lavoro in un dipartimento governativo. Parla fluentemente l’inglese, oltre all’arabo e al curdo. Ha passioni comuni alle sue coetanee. La lettura, anzitutto. I classici, ovviamente. Adora il cinema, attori preferiti due dissidenti e non per caso: Jay Abdo assai popolare a Damasco, ora esule negli Stati Uniti per fuggire la possibile repressione del regime dopo le critiche pubbliche a Bashar Assad; Fadwa Suleiman, originaria di Aleppo, alauita come il presidente siriano ma pure sua acerrima nemica, volto della rivolta, riparata col marito a Parigi dove è morta di tumore nel 2017 a soli 47 anni. Parigi è anche la meta preferita per le vacanze di Hevrin Khalaf. Sarebbe il mondo il suo orizzonte se la storia non le passasse sotto i piedi e la costringesse a fermarsi. La breve primavera siriana ben presto si tramuta nell’inverno del conflitto contemporaneo più longevo e cruento. Condivide gli obiettivi della rivoluzione, si unisce ai ribelli, lascia l’impegno al dipartimento e serve il movimento con l’unica arma che ha a disposizione: la cultura. Da volontaria impartisce lezioni gratis a gruppi di studenti di ogni età. Incoraggia le donne a unirsi al movimento e battersi per la libertà. La ricordano per un invito spesso reiterato: «Non sposatevi e non fate figli troppo presto, così potere dedicarvi alla nostra causa». Lei stessa dà l’esempio, ha un fidanzato ma l’unione non è mai sfociata nel matrimonio, nemmeno nella convivenza. Preferisce rincasare ogni sera dalla mamma nonostante il suo ufficio sia a Qamishli, cento chilometri di distanza. Nel caos di uno Stato devastato dalla guerra, al Nord i curdi (nel Rojava appunto) riescono a ritagliarsi un’autonomia di fatto. Hevrin scala in fretta la gerarchia della nuova amministrazione. Co-presidente del dipartimento per l’Energia e poi di quello per l’Economia. Berivan Omar, ora vice co-presidente per le municipalità e l’ambiente della regione Jazeera, l’ha conosciuta quattro anni fa e così la descrive: «Esprimeva le sue opinioni con calma, ma anche con audacia e chiarezza. Grazie al suo carisma tranquillo ha attirato la mia attenzione da subito. Ho pensato dal primo momento che avrei voluto essere come lei, per esprimere allo stesso modo le mie opinioni con coraggio». Proprio grazie alla sua forza serena Hevrin si guadagna un ruolo nella delegazione che negozia con gli americani, chiede garanzie sul futuro della regione. Una diplomatica senza quel titolo di studio ma con l’arte della mediazione imparata cammin facendo con l’attività di base. Dal sociale il suo impegno inclina sempre di più verso il politico. Non più solo il femminismo e i diritti, anche il destino dei curdi, la soluzione del problema atavico del popolo senza terra, oppresso e vessato da troppi satrapi nell’area più infiammata del mondo. È così che si fa promotrice in prima persona della nascita di un nuovo partito che ha nel nome la parola che più le sta a cuore: futuro. Partito della Siria del Futuro. Si trasferisce ad Ain Issa, dove c’è la sede centrale della nuova formazione. Ancora Berivan Omar: «Come al solito aveva intrapreso questa nuova avventura con passione e impegno totalizzanti. Lavorava dall’alba sino a notte. Prima di coricarsi si concedeva qualche pagina di un buon libro. Recentemente mi aveva confidato come le mancasse la sua città, i suoi amici perché ad Ain Aissa non c’era una vita sociale e culturale così interessante. Però si sacrificava per una ragione superiore. Lei era tra coloro che decidevano e dunque doveva costantemente essere presente». Una pacifista, certo, ostinatamente convinta nella forza del dialogo. Però non a ogni costo. Noi diremmo piuttosto, una non violenta. Non si attacca, ma ci si deve difendere davanti a un’aggressione. Da mesi i venti annunciavano un possibile attacco turco e si era schierata perché si facesse ogni sforzo per contrastare l’eventuale occupazione, proteggere l’autonomia guadagnata con la rivoluzione e la popolazione civile. Il 5 ottobre aveva cercato di giocare d’anticipo. In una conferenza stampa davanti a telecamere e giornalisti organizzata dal suo partito era stata la sola a prendere la parola. Giacca bianca a righe, camicetta verde, i capelli raccolti con chignon alto, il solito tono pacato, aveva previsto e condannato a priori l’attacco turco: «Noi respingiamo le minacce turche, ostacolano i nostri sforzi per trovare una soluzione alla crisi siriana. Durante il periodo di dominio dell’Isis alle frontiere, la Turchia non ha visto questo come un pericolo per la sua gente. Ma ora che c’è un’istituzione democratica nel Nord-Est della Siria, loro ci minacciano con l’occupazione». Una settimana dopo esatta sarebbe stata trucidata al margine di un’autostrada. Una settimana dopo non c’era più “futuro” per lei e probabilmente non ci sarà nemmeno per il Rojava (“l’Occidente”). Alcuni giornali turchi non si sono vergognati di gioire alla notizia della sua morte. Però un seme del suo insegnamento lavora nel profondo di quella terra e potrà produrre germogli in una postuma altra primavera: è stato a Raqqa, già capitale del sedicente califfato, abitata in maggioranza da arabi con cui cercava il dialogo, che si è svolta la più imponente manifestazione organizzata dalle donne che l’avevano conosciuta per commemorare Hevrin, la martire. Da lassù si sentirà «orgogliosa di non essersi mai arresa».
Curdi, abbiamo perso tutti. Così abbiamo tradito un popolo. Ha vinto Erdogan, che raggiunge il suo obiettivo. Vince Putin, che con il ritiro delle truppe Usa è unico burattinaio in Medioriente. Roberto Saviano il 25 ottobre 2019 su La Repubblica. Ha vinto Erdogan, che raggiunge il suo obiettivo: impedire la costituzione di uno Stato autonomo curdo. Vince Putin, "facilitatore" nei rapporti tra Turchia e Siria. Vince sempre Putin che, con il ritiro delle truppe Usa, è unico burattinaio in Medioriente. Vince in parte il sanguinario Bashar al-Assad anche se deve accettare le truppe turche in Siria. Vince Trump per aver tenuto fede al ritiro degli Usa da quel fronte di guerra: un risparmio per i contribuenti americani che non sono più disposti a spendere soldi per luoghi e popoli di cui ignorano finanche l'esistenza. Perdono i curdi, traditi dopo aver perso migliaia di combattenti nella guerra contro Daesh, combattuta anche nel nostro interesse.
Perde Netanyahu, che sperava in uno Stato curdo non per altruismo, ma perché potesse dilatare le distanze tra Israele e Iran.
Ma chi perde più d'ogni altro è l'Europa, che perde per paura e ha preparato questa sconfitta negli anni. Perde l'Europa che oggi è incapace addirittura di rintracciare le origini della sconfitta, che ha perso tutte le occasioni, non ultima quella di consentire l'ingresso nell'Unione europea della Turchia. Se ne discuteva concretamente, poi arrivò il veto della Germania e, a volerne riparlare ora, sembra quasi di trovarsi impelagati in fantapolitica. Oggi, chi ricorda questa proposta - come quella pannelliana di dare allo Stato di Israele l'accesso all'Ue - viene preso per matto, non per visionario, ma proprio per matto. Chi dovremmo far entrare in Europa? La Turchia di Erdogan, la Turchia governata da un satrapo illiberale? "La Turchia potrebbe essere il ponte tra l'Islam moderno e l'Occidente", ha scritto Enes Kanter, cestista turco dei Boston Celtics perseguitato da Erdogan, sul Boston Globe. E ancora: "Ma in questo momento, non c'è libertà: nessuna libertà di parola, nessuna libertà di religione, nessuna libertà di espressione. Non c'è democrazia. Erdogan sta usando il suo potere per abusare e violare i diritti umani". La Turchia è il Paese che ci rende tutti perdenti, un Paese che negli ultimi anni ha accelerato una deriva illiberale e antidemocratica, che si trova ai nostri confini orientali, a cui l'Europa ha appaltato la sicurezza delle proprie frontiere promettendo sei miliardi di euro di cui la metà già erogata. Alla Turchia l'Europa ha venduto armi, senza spendere una parola sulle centinaia di persone in carcere in seguito a processi sommari: giornalisti, intellettuali, professori che hanno commesso tutti il "reato" di essere in disaccordo con Erdogan. L'Europa perde perché alimenta tutto questo, perché foraggia, nutre e paga. Nel mezzo ci siamo noi che spesso ci domandiamo cosa possiamo fare. Nessrin Abdalla, comandante dell'Unità di Protezione popolare delle donne curde, dopo il 9 ottobre e l'inizio dell'offensiva turca, ha chiesto all'Europa di intervenire. Non si fidavano di Assad, ma non avevano scelta, erano e sono senza cibo e senza acqua, senza armi e non hanno alcuna speranza a parte noi, anche adesso che l'operazione "Sorgente di pace" si è conclusa. A noi sta comprendere che la dissidenza non può essere ignorata, a noi sta diventare moltiplicatori di queste storie: noi che abbiamo come armi solo le parole. La gravità della situazione nel Rojava rende evidente che la Turchia è l'unico terreno fertile perché le nostre parole di europei possano avere un senso, anche se pensare di essere immediatamente efficaci con le parole sarebbe un atto di presunzione, soprattutto perché spesso non conosciamo fino in fondo ciò che accade in Turchia. L'annuncio dell'operazione "Sorgente di pace" iniziata il 9 e conclusasi il 22 ottobre ha risvegliato sentimenti patriottici che per Erdogan sono di vitale importanza per consolidare il consenso interno che è enorme ma sempre in pericolo. La Turchia di Erdogan, per quanto caratterizzata sul piano dell'estremismo religioso, rappresenta un orizzonte possibile dell'autoritarismo anche in Europa: un Paese in profonda crisi economica, incattivito, dove i migranti sono usati per dragare voti; disinformato e dove la dissidenza è punita in maniera esemplare. In Italia abbiamo avuto un assaggio di tutto questo solo fino a poche settimane fa e sarebbe sbagliato pensare di aver archiviato ogni pericolo, poiché le condizioni socioeconomiche che ne hanno consentito l'affermazione sono ancora lì. In Turchia tutti i partiti si sono schierati a sostegno della guerra (guai a chiamarla così, ma di cos'altro si è trattato?), l'unica eccezione è rappresentata dal Partito democratico dei popoli. Anche Ekrem ?mamoglu, il neosindaco di Istanbul, nemico giurato di Erdogan, ha appoggiato l'operazione.
Ma come può accadere tutto questo? Accade perché le forze democratiche si trovano in un vicolo cieco. In Turchia non si può negare l'appoggio ai militari, pena la perdita di consenso popolare, ecco dunque che le posizioni dei leader antidemocratici condizionano il clima politico. Una leva impossibile da trascurare è la presenza di oltre 4 milioni di profughi siriani in Turchia, dove la questione migratoria viene utilizzata, esattamente come avviene in Italia, per fare campagne elettorali sulla pelle dei disperati. Siamo sotto ricatto e a ricattarci è una politica che non dà spiegazioni, ma banalizza, che acuisce le differenze e ci arma gli uni contro gli altri. Oggi il peccato mortale è creare complessità, quella complessità che Mariano Giustino, ogni giorno nel notiziario del mattino di Radio Radicale, racconta con dovizia di particolari: una luce costante su cosa accade in Turchia e Siria. Voce rara e necessaria. Oggi il peccato mortale è provare a spiegare che ciò che accade tra Siria e Turchia ci riguarda. E ci riguarda perché muoiono innocenti, e ci riguarda perché gli accordi di pace vengono stretti solo con la promessa di nuovi armamenti in arrivo. A quanto pare Putin sarebbe riuscito a convincere Erdogan promettendo l'arrivo del nuovo sistema di difesa antimissile S-400 in Turchia. Si chiude una guerra mentre ci si prepara alla prossima.
Un video salva la combattente curda, ma resta in mano alle milizie jihadiste. La curda "Cicek Kobane" fra i jihadisti nel filmato diventato virale online. Le compagne delle Unità femminili di protezione Ypj la chiamano Cicek Kobane, perché nata nella città simbolo della resistenza curda all’Isis. Ferita in battaglia era stata catturata dai miliziani filo-turchi. Giampaolo Cadalanu il 30 ottobre 2019. Sia benedetta le tecnologia dei telefonini, la passione per i "selfie" che ha contagiato persino i gruppi jihadisti impegnati contro i curdi nel nord della Siria. Potrebbero essere state quelle immagini a salvare la vita della giovane curda che le compagne delle Unità femminili di protezione Ypj chiamano Cicek Kobane, perché nata nella città simbolo della resistenza curda all'Isis, quella che adesso Recep Tayyip Erdogan vuole "ripulire dai terroristi". Ferita alla gamba nella battaglia del villaggio di Misrefa, vicino ad Ain Issa, è stata catturata da un gruppo di miliziani filo-turchi. E mentre veniva portata via, in braccio a un combattente, senza batter ciglio fra motteggi e insulti, si è trovata suo malgrado protagonista di un filmato diffuso online. Proprio quel video, ripreso come ingenuo trofeo dai combattenti, è diventato l'unica garanzia per la sua sopravvivenza. Le risa sguaiate dei catturatori, l'esibizione della preda come "maiale da portare al macello", le grida "Allahu Akbar!" e il richiamo di scherno "Rojava!": a vedere il filmato, tutto lasciava pensare che la ragazza fosse avviata a un destino molto difficile. In più, per la lettura più integralista dell'islam, le combattenti curde sono estremamente pericolose, perché chi muore ucciso da una donna non ha accesso al paradiso. Come non prevedere una rivalsa dei più fanatici? La cattura della soldatessa è arrivata poi pochi giorni dopo il massacro di Hevrin Khalaf, attivista del partito siriano del Futuro, abusata e straziata dai jihadisti in quella che le forze turche hanno raccontato come una normale operazione militare. Così il fato della giovane guerrigliera Ypj sembrava già scritto, tanto più che il raid americano con l'uccisione di Al Baghdadi non può che aver suscitato rabbia nei gruppi fondamentalisti. Eppure nelle riprese lo sguardo della ragazza non si abbassa un momento. Parlare di "fierezza" è banale, ma va sottolineato che né il dolore della ferita, né l'idea dei possibili abusi o di un'esecuzione a freddo sono bastati a farle cambiare espressione. Alla fine, la vanità da caserma dei miliziani ha suscitato attenzione. Il video è diventato virale, le Ypj hanno fatto appello a tutte le donne del mondo e richiamato la Turchia alla sua responsabilità. E la popolarità globale della causa curda è fuori discussione: anche in Italia la mobilitazione va avanti, tanto che le autorità curde hanno ringraziato il nostro Paese. Così l'appello ha funzionato, a giudicare da un filmato della tv turca Trt, che mostra la ragazza in un ospedale, apparentemente in buone condizioni. La giovane, il cui vero nome dovrebbe essere Darze Salih Temo, dichiara alla telecamera di essere stata portata in ospedale e curata per la sua ferita. Tutto questo, sottolinea la tv di Ankara, nonostante Cicek Kobane sia "una terrorista di Ypg/Pkk, accusata di aver organizzato attentati contro i civili e contro le forze di sicurezza turche". Ora è sotto custodia, nella provincia di Saliurfa. In attesa di processo, ma viva.
La paladina delle donne Hevrin Khalaf giustiziata dai miliziani filo-turchi. Pubblicato domenica, 13 ottobre 2019 da Corriere.it. Un’attivista per i diritti delle donne, Hevrin Khalaf, tra le più note politiche del Rojava, è stata uccisa ieri a sangue freddo dai miliziani filo-turchi nel nord-est della Siria. Come aveva anticipato Lorenzo Cremonesi nel suo reportage la donna, 35 anni, segretaria generale del Partito Futuro siriano, e il suo autista, stavano tentando di raggiungere Kobane quando sono stati fermati in autostrada. Dell’uccisione è stato diffuso un video in rete. In una nota il braccio politico delle forze democratiche siriane a guida curda (Sdf) ha detto: «Questa è una chiara prova che lo Stato turco sta continuando la sua politica criminale nei confronti di civili disarmati», ha aggiunto. Khalaf era molto popolare. «Aveva un talento per la diplomazia, partecipava sempre agli incontri con americani, francesi e le delegazioni straniere», ha affermato Mutlu Civiroglu, analista politico curdo americano che segue la Siria da anni. I massacri sono stati filmati con i telefoni cellulari dagli stessi miliziani. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani «i nove civili sono stati giustiziati in diversi momenti a sud della città di Tel Abyad». Il peggiore degli incubi si sta avverando. L’attacco turco nel nord della Siria sta favorendo la fuga di centinaia di stranieri affiliati con lo Stato islamico. Anche se il presidente turco Erdogan aveva assicurato che l’operazione «pace di primavere» non avrebbe fatto rialzare la testa al Califfato, per ora i fatti sembrano dimostrare il contrario: nel campo di detenzione di Ain Issa, grazie a una rivolta sono riusciti a fuggire 800 dei mille familiari legati all’Isis. I curdi avevano già fatto sapere di non poter presidiare le prigioni in caso di attacco turco e, infatti, ad Ain Issa non ci sono più guardie: «Chiunque abbia a cuore la loro detenzione si faccia avanti e offra delle soluzioni» ha detto alla Bbc un combattente delle Forze Democratiche Siriane. Attualmente 12mila membri del Califfato sono dislocati in sette prigioni nella Siria del Nord e almeno 4mila sono stranieri.
Hevrin Khalaf, paladina dei diritti umani, violentata e lapidata per strada. Pubblicato domenica, 13 ottobre 2019 da Corriere.it. QAMISHLI (Siria nord-orientale) - Sono andati quasi tutti i massimi esponenti politici e militari curdi ieri al suo funerale a Derek, un villaggio lungo il confine con l’Iraq. Nonostante la guerra, nonostante Rojava sia a rischio di essere sconfitta per sempre dall’esercito turco assieme ai suoi alleati tra le milizie sunnite siriane, alcune di esse in odore di qaedismo, non era possibile non renderle un ultimo saluto. Così, la 35enne Hevrin Khalaf ha ricevuto l’estremo addio con tutti gli onori. La sua morte due giorni fa sulla strada tra Hasakah e Qamishli è stata una crudele cartina al tornasole di quanto l’intera regione sia destabilizzata e sull’orlo del collasso. Curda, donna forte, attivista per la difesa dei diritti civili, impegnata a garantire i deboli. La conoscevano tutti tra Qamishli, Kobane e Raqqa. Aveva imparato l’inglese sin da giovanissima, era diventata ingegnere, quindi si era impegnata ad aiutare le donne. Amava la politica a tempo pieno. «Era sempre presente alle riunioni con le delegazioni straniere. Elegante, sobria, teneva rapporti diretti con i diplomatici americani ed europei», raccontano i suoi collaboratori. I social media locali rivelano dettagli terrificanti, con foto crude. Secondo alcuni pare sia stata vittima di un’imboscata ben pianificata. Doveva partecipare a una riunione ad Hasakah con alcuni attivisti del suo nuovo partito, di cui era anche segretaria generale, il «Partito Siriano del Futuro». Ma la sua macchina è stata presa di mira a colpi di mitra. Assassinati subito l’autista e un suo collaboratore. Lei trascinata giù dalla vettura, forse violentata, prima di essere uccisa a pietrate. Una lapidazione vera e propria. I curdi accusano le milizie arabe mercenarie di Ankara. I comandi turchi negano, affermano di non essere neppure arrivati così nel profondo di Rojava. Ma le cronache delle ultime ore provano il contrario. Ispirati dai turchi, i miliziani dell’Isis, i jihadisti arabi, lo stesso regime di Damasco, alzano la testa. I curdi sono sulla difensiva. Non si capisce più quali strade siano sicure e quali no. E nella terra di nessuno tutto diventa possibile. Anche assassinare una giovane donne innamorata della libertà e dei diritti umani.
Siria, uccisa Hevrin Khalaf, attivista per i diritti delle donne. Segretaria generale del Partito Futuro siriano, si batteva anche per la coesistenza pacifica fra curdi, cristiano-siriaci e arabi ed era apprezzata da tutte le comunità. La Repubblica il 13 ottobre 2019. I terroristi islamisti hanno assassinato Hevrin Khalaf, segretario generale del Partito Futuro siriano e una delle più note attiviste per i diritti delle donne nella regione. Hevrin si batteva per la coesistenza pacifica fra curdi, cristiano-siriaci e arabi ed era apprezzata da tutte le comunità. Il fuoristrada Toyota che la trasportava è stata fermato sull’autostrada M4, tra Manbij e Qamishlo, da un gruppo di uomini armati. E’ stato ritrovato crivellato di colpi. Hevrin è stata fatta scendere e poi uccisa a colpi di fucile mitragliatore. Ma non è chiaro chi siano i responsabili. Si sa che quel tratto di autostrada è rimasto per alcune ore sotto il controllo del gruppo jihadista Ahrar al-Sharqiya, il gruppo composto da ex appartenente ad Al Qaeda (al Nusra) alleato della Turchia e responsabile di altre esecuzioni sommarie. C’è il sospetto che Hevrin sia rimasta vittima di un omicidio mirato dell’Isis, che la considerava una pericolosa miscredente. Cellule dello Stato islamico si sono riattivate con l’offensiva turca alla frontiera, e hanno compiuto decine di attacchi con autobombe nell’ultima settimana. E anche l’Isis è solita organizzare agguati a sorpresa lungo le strade.
Da “la Zanzara - Radio 24” il 16 ottobre 2019. Anche Efe Bal dalla parte di Erdogan. A La Zanzara su Radio 24 manda una foto “particolare” col saluto militare, lei nuda che mette la mano sulla fronte come hanno fatto alcuni giocatori della nazionale turca: “Io adoro Erdogan, non ho nessun problema con Erdogan. A Istanbul vado tranquillamente, ci sono un sacco di alberghi a cinque stelle e abbiamo un’economia che funziona meglio di quella italiana. E soprattutto abbiamo un governo eletto dal popolo, Erdogan sta lì perché è stato scelto non come questi quattro cretini che ci governano qui”. Ma Erdogan è un criminale, dice uno dei conduttori: “Ma cosa ha fatto di male? I curdi uccidevano i turchi e a un certo punto Erdogan gli sono girate le palle e ha cominciato a bombardarli così non lo fanno più”. Ma in Turchia lei avrebbe dei problemi, dicono i conduttori: “Non è vero, non c’è nessun problema a Istanbul. Almeno le prostitute pagano le tasse, ci sono dei bordelli. E’ un posto più aperto del nostro. I siti porno sono vietati, ma il giro di prostituzione esiste, eccome. E’ uno dei paesi dove ci sono più trans nel mondo”. Ma Erdogan ti piace come uomo?: “E’ un po’ anziano, ma gli uomini forti mi piacciono, uomini decisi”. Ma è un criminale, dicono dallo studio: “In Italia sono al governo quattro deficienti non votati da nessuno, e voi parlate male di Erdogan che è stato votato. Meglio lui di Conte che vuole tassare le merendine e non le prostitute”. “Per Erdogan – dice ancora Efe Bal – potrei anche tagliarmelo, posso operarmi. Non sarà mai necessario. Io lo adoro, è un politico eccezionale. I curdi ci uccidono da sempre. Quando ero bambino sentivo sempre ogni sera in tv dei curdi che ammazzavano un turco. Che sentimento dovrei avere nei loro confronti. Erdogan difende i confini come avrebbe fatto chiunque, Trump, Putin e persino Macron quello che va a letto con la nonna”.
Cecilia, volontaria in Siria: «I curdi si sentono traditi. I loro unici alleati sono le montagne». Studentessa di medicina, 23 anni è partita per il Rojava. Dopo i primi bombardamenti è tornata in Italia: «Anche da qui possiamo far molto e far sentire la nostra voce». Rita Rapisardi il 28 ottobre 2019 su L'Espresso. «Sarei potuta rimanere, anche in sicurezza, facendo quello per cui sono partita, ma non sono coraggiosa come Eddi e gli altri compagni. Vorrei essere lì, ma anche da qui posso fare il mio, tutti possiamo aiutare, manifestando». A parlare è Cecilia Soldino, 23 anni, originaria della Sicilia e studentessa di medicina a Firenze, partita tre mesi fa per il Rojava e unica italiana presente al momento del conflitto. Ci racconta della sua permanenza nel Kurdistan siriano e dell’inizio dell’offensiva turca che l’ha costretta a tornare in Italia.
Cosa ti ha portato in Rojava?
«Sono partita per motivazioni politiche. Dopo la caduta di Afrin (per mano turca nell’operazione militare detta “Ramoscello d’ulivo” nel marzo 2018, ndr) mi sono avvicinata al movimento che sostiene la causa curda e ho iniziato a maturare l’idea di unirmi alla rivoluzione. La morte di Orso poi è stata fondamentale. Sono però partita sfruttando le mie competenze di studentessa di medicina e paramedico».
Di cosa ti sei occupata?
«Prima di raggiungere a luglio il Rojava, sono stata nel Bakur (il Kurdistan turco, ndr) per seguire come osservatore internazionale le amministrative per l’Hdp, il partito filo-curdo. Lì ho potuto vedere con i miei occhi le condizioni dei campi profughi turchi che ospitano migliaia di curdi. Mi sono convinta ancora di più a voler andare in Siria».
Come sei arrivata?
«Il mio è stato quasi un caso. Qui in Italia sono entrata in contatto con l’associazione Heyva Sor a Kurd (Mezza Luna Rossa Curda), lavora in ambito medico localmente. Per mesi ho preparato la partenza e mi sono unita come volontaria. In queste settimane con loro ero l’unica internazionalista presente. Ho lavorato nel campo profughi di Al Hol sia come medico che come supporto nella parte logistica. Avevo come base la città di Qamishlo, ma viaggiavo di continuo nelle altre città siriane. Stavamo per comprare un macchinario per l’unità neonatale quando ci è arrivata la notizia dei bombardamenti turchi».
Cosa è successo?
«Hanno preso di mira la città di Serakanyie, dove proprio a fine luglio avevamo inaugurato la clinica, rimessa a nuovo dopo anni (la clinica e molte zone della città sono state bombardate, le Sdf e le Ypg si stanno ritirando, ndr). La mia associazione ha già avviato una raccolta fondi per aiutare. Il giorno dopo mi sono mossa verso il Kurdistan iracheno, non avevo di idea di come sarebbe andata a finire e se fossi riuscita a rientrare dopo».
In quei giorni qualcuno poteva immaginare un attacco turco?
«Nessuno, tutto proseguiva nella normalità. Anche se è risaputo che Erdogan mira da sempre a questi territori. Nelle settimane come associazione abbiamo lavorato sul supporto psicologico ai bambini che hanno subito problematicità dovute alla guerra, e anche con le donne, basandoci su un cambiamento progressivo del modello di paradigma».
La libertà delle donne, uno dei capisaldi della rivoluzione in Rojava.
«Sì. Non c’è l’esigenza di imporre niente, nessuna costrizione ma una tendenza. Anche in Italia le donne hanno avuto la loro rivoluzione negli anni ‘70, ma dalla finestra di casa sua in Sicilia mia madre ti dirà che non ha visto niente. Cambiamenti del genere richiedono tempo e piccoli passi, anche noi ci siamo dovuti svincolare da un’ideologia cattolica forte e lì lo è con l’islamismo».
Come è stata presa la decisione degli Usa di ritirarsi?
«Le Sdf, Forze Democratiche Siriane, non hanno mai dato neanche per un minuto piena fiducia agli Stati Uniti, anche se nei mesi hanno combattuto l’Isis. Lo stesso si può dire nei confronti del presidente siriano Assad, che ora li sta appoggiando. Si tengono tutte le strade aperte. Non lo vedono come un tradimento anche se sperano sempre in noi, nell’Unione Europea, non tanto per intervenire, ma come voce importante, che riconosca i crimini di guerra e applichi sanzioni alla Turchia. Ma, come dicono loro, gli unici alleati sono le montagne».
Escludendo la politica, per la popolazione?
«La scelta degli Usa ha avuto un grosso impatto sulla gente, da subito ho visto persone scendere in strada urlare al tradimento. La convivenza con i soldati statunitensi è stata buona e ormai si era instaurata fiducia, si sono sentiti traditi e per loro sarà difficile un domani ricreare un momento del genere».
L'INVASIONE TURCA. Siria, offensiva turca su Kobane. Centinaia le vittime. Sara Volandri il 15 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Prosegue l’offensiva di Ankara. Sono circa una sessantina le vittime tra la popolazione nella sola giornata di ieri, centinaia dall’inizio dell’operazione “fonte di pace”. Le truppe di Erdogan, affiancate dalle milizie jihadiste filo- turche, marciano compatte su Manbij ( a ovest del fiume Eufrate) e soprattutto su Kobane, la città simbolo della resistenza curda alle bandiere nere del sedicente Califfato e oggi tra i principali obiettivi dell’offensiva turca nel Rojava ( il Kurdistan siriano). E nell’avanzata continuano a martellare i villaggi curdi con l’inevitabile massacro di civili: sono circa una sessantina le vittime tra la popolazione nella sola giornata di ieri, centinaia dall’inizio dell’operazione “Fonte di pace”, un bilancio destinato inevitabilmente ad aggravarsi nel corso delle ore. Il ministero della Difesa turco ha annunciato che due capoluoghi, Tel Abyad e Ras al Ayn, nonchè un grande centro, Suluk, e 56 villaggi sarebbero stati «liberati dai terroristi» e che «oltre cinquecento di loro sono stati neutralizzati». Neutralizzato è l’asettico aggettivo impiegato da Ankara quando nei suoi comunicati annuncia la morte dei presunti terroristi. Erdogan, che ha paragonato la sua offensiva nientemeno che all’invasione di Cipro del 1974, si mostra molto sicuro di sé, anche perché gli incerti balletti della diplomazia non fanno che rafforzare la sua posizione. Così può tranquillamente mostrarsi indifferente alla pioggia di critiche che piovono dalla comunità internazionale; si dice convinto che i reparti dell’esercito entreranno tranquillamente a Kobane con il placet della Russia, che conquistare la roccaforte dei suoi avversari sarà un gioco da ragazzi: «Ci sono un sacco di pettegolezzi ora, ma sembra che non ci saranno problemi a Kobane, Mosca sta avendo un approccio positivo», ha detto l’uomo forte di Ankara. Sarà, ma per il momento dal Cremlino non è stata aperta nessuna linea di credito nei confronti della Turchia; al contrario il regime di Bashar al Assad, fedelissimo alleato della Russia, sta inviando i suoi soldati nella zona del Rojava dove combatteranno a fianco dei curdi proprio contro le truppe turche: nella serata di ieri le colonne di blindati siriani erano giunte nelle province di Hasaka e Raqqa. Un’alleanza davvero inedita quella tra l’esercito di Damasco e le Ypg curde ( storici nemici), che dimostra quanto caos regna in Medio Oriente in questo nuovo, bellicoso passaggio. E che lascia presagire un’escalation del conflitto incontrollata: non più una guerra asimmetrica, ma un confronto maggiore in cui si fronteggiano due eserciti regolari. Diverse organizzazioni internazionali operanti in Siria nord- orientale sanno che i combattimenti cresceranno di intensità nei prossimi gior- ni e hanno in tal senso intimato ai propri dipendenti di lasciare il Paese arabo. Stanno chiudendo le proprie sedi e bruciando i documenti presenti. È quanto rivelato da un corrispondente inviato nell’area dall’emittente satellitare Al- Hurra, che trasmette in lingua araba. Il cronista non ha citato gli operatori coinvolti, ma sostiene che la decisione è legata proprio all’accordo raggiunto tra Damasco e l’alleanza curdo- araba. La fuga dal campo di battaglia delle ong umanitarie peggiora di gran lunga le condizioni della popolazione, quasi del tutto priva di assistenza e in balia dei bombardamenti turchi. Oltre al dramma dei morti civili si aggiunge quello degli sfollati: sono almeno 200 mila le persone in fuga secondo le ultime stime dell’Organizzazione mondiale della sanità ( Oms) che ribadisce la sua grave preoccupazione per la situazione dsul campo. Circa 1,5 milioni di persone hanno infatti necessità di sostegno medico, sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico, con il sistema sanitario della zona frontaliera della Sira, già di per sé molto debole, che rischia il tracollo. Molti ospedali non sono più in grado di funzionare, afferma l’Oms, diverse strutture sono state distrutte dai colpi di artiglieria turchi, in più nella zona c’è una cronica mancanza di personale medico, dato che molti collaboratori delle strutture sanitarie ssono tra gli sfollati.
Tutti presenti per controllare l'evacuazione curda: Russia, Turchia, Usa e Siria. Le truppe turche e quelle russe hanno cominciato i pattugliamenti congiunti nel Nord-Est della Siria, come previsto dagli accordi tra Mosca e Ankara, accettati dalle forze curde e da quelle governative siriane. E sono tornati anche gli americani. Marco Ansaldo l'1 novembre 2019 su La Repubblica. SURUC (al confine fra Turchia e Siria) – Benvenuti nella “zona di insicurezza”. All’alba del 1 novembre ora tutti pattugliano in Siria. Anche chi non doveva, e aveva anzi annunciato il proprio ritiro. Tutti (o quasi) a controllare l’effettiva evacuazione forzata dei combattenti curdi, che difendevano invece il proprio territorio. Russi, turchi, siriani, americani. Milizie arabe filo turche e ribelli arabi filo siriani. Servizi di intelligence di tutte le parti in causa. E, naturalmente, i curdi, che faticano in questa fase tanto caotica a lasciare sgombra la zona fino a ieri sotto il loro controllo. Il nord della Siria appare sempre più non un’area di sicurezza, ma il suo esatto contrario, nel momento in cui gli eserciti turco e siriano, avversari, si trovano per la prima volta uno di fronte all’altro, e hanno già cominciato gli scontri. In un’intervista televisiva, il presidente Bashar al Assad avverte: "Se l'invasore turco non lascerà la Siria non c'è alternativa alla guerra". Dichiarazione che mette ovviamente in apprensione in tutta la regione. I pattugliamenti congiunti sono stati avviati dalle truppe regolari di Russia e Turchia. Avvengono inizialmente nel distretto di Derbasiye, a est della zona frontaliera controllata dalle forze turche e dalle milizie arabe cooptate da Ankara. L'intesa turco-russa firmata di recente a Sochi da Putin e Erdogan prevede che i pattugliamenti siano effettuati anche a ovest della zona controllata dalle forze turche, che corrisponde al rettangolo di territorio delimitato dalla frontiera siro-turca a nord, dall'autostrada M4 a sud, e dalla cittadina di Ras al Ayn a est e Tal Abyad a ovest. Dunque, oltre i 120 chilometri del territorio già sotto il controllo della Turchia. Da questa intesa è però esclusa la città di Qamishli, considerata in Siria come la “capitale amministrativa” della regione autonoma curda. I pattugliamenti avvengono per ora lungo una profondità di almeno 7 km rispetto ai 10 previsti dagli accordi. Il ritiro dei combattenti curdi, avvenuto secondo gli accordi a fine mese, riguarda un'area profonda 30 km a est del fiume Eufrate. Ma, a sorpresa, e già dal 31 ottobre, pattugliano in Siria anche gli americani, che dovevano però ritirarsi. Tutto, qui, era anzi cominciato con l’annuncio di Donald Trump che aveva scombussolato l’intera area, e causato il 9 ottobre scorso l’offensiva turca nel nord della Siria. Le truppe Usa invece si sono per ora solo spostate, per andare ad assicurarsi i pozzi petroliferi della compagnia Conoco in una zona più interna del Paese. Gli Stati Uniti hanno difatti avviato assieme alle Forze democratiche siriane a guida curda il primo pattugliamento militare nel Nord-Est della Siria dall'annuncio del ritiro delle loro truppe. Secondo la tv Al Jazeera, i pattugliamenti hanno riguardato la zona di Qahtaniyah, nella provincia di Hasakah vicino al confine iracheno, dove in base agli accordi di Sochi dovrebbero schierarsi le truppe di Damasco insieme con la polizia militare di Mosca. I marines hanno così incrementato la loro presenza nell'area di Deir es-Zor a protezione dei pozzi di petrolio. Tutto ciò avviene mentre l’affondo territoriale della Turchia in Siria non accenna a fermarsi, almeno nelle intenzioni. Avverte infatti il presidente Recep Tayyip Erdogan: “Se necessario espanderemo la nostra area di sicurezza”. Il desiderio di Ankara è dunque di andare ben più in profondità rispetto ai 35 chilometri annunciati nelle intese. Il leader turco punta ora il suo sguardo su Kobane, la città curda simbolo della resistenza contro l’Isis, che nel frattempo ha nominato il successore di Abu Bakr al Baghdadi fattosi saltare in aria nel blitz americano la notte del 23 ottobre. Dice il presidente turco: "I russi ci hanno garantito che Manbij sarà ripulita. Ma non è sufficiente, c'è bisogno che anche Tal Rifat e Kobane a ovest vengano ripulite e messe sotto il nostro controllo”. Turchia ed Siria già sono venute a contatto. Ad Ankara il ministero della Difesa ha reso noto che 18 militari dell'esercito di Damasco, catturati dall'esercito il 29 ottobre, sono stati consegnati alle autorità russe. I militari fedeli al presidente siriano Bashar al Assad, erano stati feriti e catturati dopo un conflitto a fuoco vicino a Ras al Ayn, città siriana più volte bombardata, al termine del quale ci sarebbero stati almeno 6 morti tra i soldati siriani. I rapporti fra Ankara e Damasco stanno peggiorando visibilmente. Il regime siriano è sostenuto da Mosca, di cui invece la Turchia è interlocutore e alleato nella crisi siriana. La Russia funge da intermediario tra la Turchia e la Siria nella gestione della cosiddetta “area di sicurezza” nel nord, al confine fra i due Paesi. Ma quanta confusione in questa zona tutto sommato ristretta, e però ora divenuta centrale e foriera di sconvolgimenti.
Perché gli Usa hanno bombe atomiche in Turchia, e perché è così complicato spostarle. Miles A. Pomper, The Conversation il 2 novembre 2019 su it.businessinsider.com. Turchia, 12 novembre 2015. Flickr/US Air Force. La tensione tra USA e Turchia provocata dalla recente incursione in Siria ha riportato l’attenzione sulle armi nucleari che gli USA conservano in Turchia. Gli USA hanno iniziato a ritirare gli armamenti nucleari dagli stati aderenti alla NATO con la conclusione della Guerra Fredda e dal 2000 hanno spostato 40 bombe dalla Turchia, dove ne restano ancora 50. Con la crisi siriana che oppone le truppe turche alle forze curde, ex alleate degli USA, gli ufficiali del Pentagono stanno rivedendo i piani per rimuovere 50 ordigni nucleari depositati in una base aerea turca. Una direttiva che il Congresso ha rivolto al Pentagono per valutare rapidamente sedi alternative per “personale e asset” Usa attualmente di stanza alla base aerea di Incirlik fa parte di un più ampio disegno di legge bipartisan, ancora in discussione, che propone sanzioni contro la Turchia. Il presidente Donald Trump è stato costretto a diffondere garanzie pubbliche circa il fatto che le armi siano sicure. Durante la Guerra Fredda, gli Usa hanno stanziato ordigni nucleari B-61 in Turchia, oltre che negli altri paesi Nato. Formalmente, gli Usa controllavano le armi in tempo di pace, ma le forze armate delle nazioni ospitanti hanno addestrato ed equipaggiato gli aerei in modo da potere sganciare le bombe con il sostegno degli Usa in caso di guerra. Si sarebbe così creato un deterrente per le forze di terra sovietiche, rassicurando gli alleati NATO e chiarendo che gli USA sarebbero stati disposti a rischiare una guerra nucleare per bloccare un’invasione sovietica di una nazione che ospitava gli ordigni. Inoltre, negli anni precedenti lo sviluppo dei missili balistici intercontinentali da parte degli USA, rappresentavano un modo con cui la NATO dimostrava che avrebbe potuto muoversi rapidamente per reagire a un attacco sovietico. Le 50 bombe ancora presenti alla base aerea di Incirlik, nel sud della Turchia — e le altre in Belgio, Germania, Italia e Olanda — sono gli ultimi residui nucleari di quella strategia della Guerra Fredda. Gli USA iniziarono a ritirate gli ordigni nucleari dai paesi NATO dopo la fine della Guerra Fredda, e dal 2000 hanno spostato 40 bombe dalla Turchia. Due decenni fa, l’aviazione turca ha smesso di equipaggiare gli aeroplani per sganciare le B-61. Adesso, le bombe di Incirlik potrebbero essere usate soltanto se i piloti USA portassero alla base aerei adatti alle armi nucleari. Le bombe sono state lasciate in Turchia anche dopo che il tentato colpo di stato del 2016 ha sollevato serie preoccupazioni circa la loro sicurezza. Dopo quell’avvenimento, i dipartimenti statunitensi della difesa e dell’energia hanno iniziato a pensare a un modo per ritirarle — senza in realtà riportarle negli USA.
Quanto sono sicure? Gli ordigni nucleari statunitensi sono conservati in bunker molto spessi, protetti da sistemi elettronici e da soldati USA armati fino ai denti. Il Pentagono ha recentemente rafforzato entrambi i metodi di difesa. Le bombe stesse prevedono anche un codice di attivazione a 12 cifre. Tuttavia, queste protezioni servono fondamentalmente a ritardare l’impiego non autorizzato, piuttosto che a prevenirlo realmente. Se questi ostacoli venissero aggirati, le forze statunitensi potrebbero disabilitare le armi tramite la distruzione dei componenti elettrici o la detonazione delle loro sostanze chimiche estremamente esplosive senza provocare un’esplosione atomica. Nel caso peggiore, potrebbero fare saltare le bombe o gli impianti di Incirlik. Tuttavia, le procedure USA non sono pensate per prevenire abili attacchi o sabotaggi, in particolare da parte di un alleato. Con un po’ di tempo, la Turchia potrebbe usare il materiale nucleare — se non per farlo esplodere con una vera esplosione nucleare, per “liberare disastrose radiazioni mortali“.
Una rimozione complicata. Portare le armi fuori dalla Turchia comporta alcuni rischi fisici. Le Bombe non sono estremamente pesanti — circa 320 kg ognuna — ma spostare del materiale nucleare richiede una considerevole sicurezza. Inoltre, il governo turco dovrebbe aiutare — o almeno non ostacolare — l’atterraggio di aerei di trasporto o l’invio di convogli per container per terra o per mare.
Probabilmente i rischi maggiori sarebbero politici. Queste preoccupazioni hanno scoraggiato le precedenti amministrazioni USA dallo spostare le bombe, anche se gli addetti alla difesa della Turchia non sono particolarmente interessati a usarle.
The Conversation. Gli Stati Uniti sono anche preoccupati che la Turchia possa percepire la mossa come un allontanamento dalla NATO, cosa che la spingerebbe a cercare legami più stretti con la Russia. Inoltre, ritirare le armi nucleari dalla Turchia potrebbe sollecitare richieste di rimuovere altre bombe da parte dell’Italia, del Belgio, dell’Olanda e della Germania, dove sono estremamente impopolari. Recentemente, è sorta una nuova preoccupazione quando il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha ventilato un eventuale abbandono da parte della Turchia del Trattato di non proliferazione nucleare e lo sviluppo del proprio arsenale nucleare. I funzionari USA temevano da molto tempo che la rimozione degli ordigni nucleari statunitensi possa incoraggiare Erdogan a cercare di trasformare in realtà questa arroganza. Involontariamente, gli sforzi di Trump di fornire rassicurazioni potrebbero avere reso questa sfida più difficile. La presenza di B-61 nelle cinque nazioni è un segreto di Pulcinella, confermato da osservatori indipendenti. Ma nonostante ciò, la politica della NATO è sempre stata quella di non riconoscere il loro dispiegamento, fornendo ai politici locali e agli USA uno scudo da controlli parlamentari e pubblici. Confermando pubblicamente che le armi si trovano in Turchia, Trump ha alzato la posta in gioco politica nel caso cercasse di ritirarle, e reso più difficile il raggiungimento di un’intesa silenziosa in tal senso tra Stati Uniti e Turchia.
L’Europa reagisca contro la bomba umana di Erdogan senza pensare agli affari. Gennaro Malgieri il 12 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Una bomba umana contro l’Europa. È questo il raffinato ed umanitario progetto di Recep Tayipp Erdogan, neo- sultano ottomano, per stoppare le critiche che soprattutto dalla Francia e dall’Italia gli vengono mosse per la sua sconsiderata invasione del nord della Siria a “caccia” di curdi, nemico principale della Turchia, secondo la vulgata islamista. Un uomo che architetta una minaccia del genere è capace di tutto. La promessa di svuotare il suo Paese di tre milioni di profughi ( per la cui “ospitalità” è stato profumatamente e incautamente pagato dall’Unione europea) non è soltanto una provocazione irricevibile, ma un atto contro i diritti umani e dei popoli, dunque una vera e propria dichiarazione di guerra a quell’Europa che nel corso degli anni ha fatto di tutto per aprire le sue porte alla Turchia. Che il satrapo di Ankara fosse un despota crudele lo avevamo capito da tempo. Ma che arrivasse a tanto nessuno poteva immaginarlo. Già l’attacco ai curdi ( che non ci sembra abbia smosso più di tanto le sensibili anime della comunità internazionale) è un gravissimo attentato alla stabilità dell’Europa meridionale e del Medio Oriente. Ma arrivare ad ipotizzare l’utilizzo in massa di esseri umani in sua custodia, o meglio sotto la sua protezione, per indurre l’Europa a guardare in silenzio ai suoi misfatti, qualifica Erdogan come uno dei più abietti tiranni contemporanei. Se le cancellerie europee avessero a cuore più i valori che le commesse commerciali, ritirerebbero le loro delegazioni dalla Turchia e metterebbero in ginocchio l’economia di quel Paese provocando finalmente la rivolta grandemente attesa dalla maggior parte dei turchi contro l’islamista fuori del tempo che negli ultimi anni ha occhieggiato all’Isis e al radicalismo musulmano fingendo di combatterlo, con la complicità dei regimi arabi che lo hanno occultamente assecondato. La “bomba umana” è intollerabile. Ripugna alla coscienza civile. È L’ espediente più vile che possa escogitare un essere senza dignità. E di fronte al quale la reazione europea, almeno finora, è stata tiepida, incerta, tutt’altro che unanime. I maledetti affari frenano le coscienze? È probabile, purtroppo. Ma questo eccesso di realismo finirà per mettere l’Europa nelle mani di chiunque voglia rivalersi per qualcosa bypassando le logiche della politica. È indecente sapere da oltre vent’anni il capo curdo del Pkk, che da tempo ha rinunciato alla lotta armata, Abdullah Öcalan, resta recluso nel carcere di massima sicurezza, inaccessibile a chiunque, a Imrali, una piccola isola turca del sud dove è il solo “ospite” guardato a vista da un numero considerevole di carcerieri. E per fortuna che la pena di morte è stata abolita, sotto le pressioni internazionali, sennò del leader curdo avremmo parlato al passato. La “fine pena” non è contemplata in Turchia. E a nulla serve dimostrare come Öcalan sia cambiato interiormente ed abbia perfino mutato avviso sia culturalmente che politicamente. Legge i teorici occidentali come Murray Bookchin, Immanuel Wallerstein, Ferdinand Braudel; si è indirizzato sulla strada di un ecologismo molto prossimo a quello tedesco e, ripudiato Marx si riferisce apertamente a Nietzsche come “profeta” ( il suo saggio del 19 maggio 2006 è disponibile sul web, ma in turco purtroppo). L’idea di una società democratico- ecologista assorbe i suoi pensieri e la sua attività pubblicistica che intensamente svolge riferendosi alla storia della Mesopotamia e alle religioni abramitiche. Insomma, un uomo profondamente cambiato che il regime tiene in cattività soltanto come simbolo del male che deve combattere. E non è un’illazione. Anni fa, guidando in Turchia una delegazione del Parlamento italiano, come presidente della Commissione dei diritti umani, in vista del possibile ingresso nell’Unione europea del Paese, ebbi la sgradevole sensazione di una omertà diffusa tra i miei interlocutori parlamentari i quali al solo sentir pronunciare il nome di Öcalan si rabbuiarono e tentarono di sviare il discorso. Mi ero limitato soltanto a chiedere notizie delle sue condizioni di salute e semmai ci fosse la possibilità di poterlo incontrare nei modi e nei tempi decisi dal governo di Ankara. Niente da fare. Non insistei più di tanto. E compresi, pur essendo un fautore di più stretti rapporti con la Turchia, che il Paese, da poco governato da Erdogan, stava cambiando in peggio. Perfino il negoziante che gestiva un bugigattolo di chincaglierie a pochi passi da piazza Taksim a Istanbul, che da tempo frequentavo perché mi procurava i dischi di Anjelica Akbar, pianista eccelsa, e un po’ di musica sufi, mi apparve poco cordiale, a differenza delle altre occasioni. Massì la Turchia non era più la stessa. Sul Bosforo l’aria si faceva pesante di giorno in giorno, mentre veli che non si erano quasi mai visti in precedenza celavano volti e teste delle splendide ragazze di Istanbul…La progressiva islamizzazione del Paese è arrivata alle logiche conseguenze: Santa Sofia ridiventata luogo di culto musulmano; caccia ossessiva ai complottisti e agli pseudo- golpisti; muezzin che impazzano dall’alba al tramonto; alcolici banditi ovunque; strade disseminate di militari e alberghi frequentati da agenti segreti. Un regime di polizia nel quale scrittori come Oran Pamuk, premio Nobel, e Elif Shafak, l’autrice dello splendido “La bastarda di Istanbul”, sono sono costantemente nel mirino della polizia politica, costretti a trascorrere molto tempo all’estero. Un Paese all’apparenza accogliente, il cui regime è tra i più illiberali. E adesso la “bomba umana”. Da Ankara apprendo che è la mossa estrema della disperazione di Erdogan. Sarà così, ma l’Europa sembra imbambolata di fronte alla minaccia. E non so davvero cosa sia più pericoloso.
Ci sarà sempre qualcuno che darà armi ad Erdogan. La Turchia, malgrado l'embargo, è autosufficiente per quanto riguarda l'armamento e, nel caso Russia ed Usa sono pronte a dare una mano. Fausto Biloslavo il 30 ottobre 2019 su Panorama. L’offensiva del «sultano» Erdogan in Siria contro i curdi è iniziata con pesanti bombardamenti dei caccia F-16, venduti dagli Usa o prodotti in Turchia su licenza americana, che hanno colpito in profondità ben oltre i 32 chilometri di cuscinetto che l’esercito di Ankara vuole creare al confine. Nei primi giorni dell’operazione Sorgente di Pace i caccia turchi hanno distrutto centri di comando e controllo, caserme, depositi di armi e munizioni dei curdi delle Unità di protezione popolare (Ypg) bollati come terroristi. L’embargo delle armi alla Turchia serve a poco e potrebbe rivelarsi un boomerang di fronte ad altri Paesi pronti ad accaparrarsi la fetta di mercato dell’Italia. Nel 2018 la nostra industria della Difesa ha ottenuto autorizzazioni dal governo per un export bellico verso Ankara di 362,3 milioni di euro. Dal 2014 al 2018 l’Italia è stata il primo Paese europeo nella vendita di armi alla Turchia. Anche Germania, Francia, Olanda, Svezia, Finlandia, Norvegia, Spagna e Inghilterra hanno deciso lo stop della vendita di armi ad Ankara. I tedeschi, però, erano scesi a 242,8 milioni lo scorso anno e il giro d’affari francese è di soli 45,1 milioni di euro. Norvegia e Finlandia hanno con la Turchia fette di mercato minime, e la loro rappresaglia è puramente simbolica. L’ambasciatore turco all’Onu, Sadik Arslan, ha definito le misure europee «una barzelletta». Lo stesso Erdogan ha annunciato che la Turchia è ormai un «Paese autosufficiente» sul piano militare, in grado di coprire il 70 per cento del suo fabbisogno attraverso la propria industria della Difesa. In effetti molti dei caccia F-16 di origine americana che bombardano i curdi vengono prodotti dalla Turkish Aerospace Industries, che ne ha già sfornati 232. La stessa società che produce gli elicotteri d’assalto T129 Atak già utilizzati per spazzare via i curdi dalla sacca siriana di Afrin lo scorso anno. Il velivolo è una copia del nostro Mangusta dell’AgustaWestland, che è stata inglobata da Leonardo, colosso italiano della difesa. Un’azienda di Stato controllata dal ministero dell’Economia, che fornisce le subforniture ai turchi per costruire gli elicotteri e mantenere operativi quelli già in linea. Difficile, se non impossibile, sganciarsi da questo business con la Turchia alleata della Nato, che si intreccia con il programma per gli aerei da pattugliamento costiero Meltem 3 e i sensori elettro-ottici per la Marina. Per non parlare del satellite Göktürk1 del ministero della Difesa turco per l’osservazione della Terra di Telespazio (joint venture per il 67 per cento Leonardo, e il 33 per cento Thales). Di fronte all’annunciato passo indietro europeo sono pronti a farsi avanti gli americani e i russi. Gli Usa hanno già sostituito dal 2010 la Germania come principale fornitore di armamenti della Turchia con un totale, fino a oggi, di 5 miliardi e mezzo di dollari. Il 60 per cento delle importazioni belliche in Turchia arriva dagli Usa. Erdogan gioca su più tavoli, e acquista dai russi il sistema missilistico di difesa anti aerea S 400, che ha fatto infuriare Washington e la Nato. Mosca punta ad aumentare il solco fra i turchi e l’Alleanza atlantica vendendo armi al posto degli europei. Il terzo incomodo è la Corea del Sud, che se ne frega dei curdi e della Siria e da anni fa affari con la Turchia.
La Turchia sempre più vicina all’acquisto dei Su-35 russi. Paolo Mauri su it.insideover.com il 30 ottobre 2019. Si aggiunge un tassello alla vicenda riguardante il possibile acquisto, da parte della Turchia, di cacciabombardieri russi Su-35S. Secondo alcune fonti bene informate Mosca e Ankara sarebbero in una fase dei negoziati “avanzata” per la possibile finalizzazione dell’accordo. “I colloqui sono relativamente maturi” ha riferito un anonimo responsabile turco del procurement a Defense News “un accordo non sembra essere troppo distante”. Tale accordo riguarderebbe l’acquisto di due stormi di Su-35S, il “Super Flanker” facente parte della numerosa famiglia derivante dal Su-27, per un totale di 48 velivoli con anche la possibilità di coproduzione di alcuni componenti dei caccia russi, incluse armi e munizioni di precisione da impiego aereo: requisito fondamentale perché Ankara decida di acquistare un qualsiasi tipo di armamento estero. Secondo alcuni specialisti il probabile prezzo di vendita dei Su-35 si aggirerebbe tra i 50 e i 70 milioni di dollari a velivolo, e Mosca, che vede nella commessa un valore estremamente strategico per poter migliorare il suo export militare ma anche per poter entrare dalla porta principale nel mercato della Difesa di un Paese della Nato, potrebbe decidere di rivedere il contratto per la fornitura dei sistemi missilistici da difesa aerea S-400, attualmente in consegna ad Ankara, abbassandone il prezzo, che si aggira intorno ai 2,5 miliardi di dollari per due batterie complete.
Una vicenda travagliata. L’interessamento turco per il caccia Su-35S, o per meglio dire la proposta russa di vendita, è cominciato a luglio di quest’anno, quando, a fronte dell’estromissione di Ankara dal programma F-35 proprio a seguito della decisione di procedere all’acquisto degli S-400, Mosca, per voce di Sergei Chemezov, amministratore delegato di Rostec, ha proposto l’acquisto del cacciabombardiere multiruolo. “Se i nostri colleghi turchi dimostrano interesse, siamo pronti a discutere le eventuali consegne del Su-35” sono state le esatte parole di Chemezov come riportato dalla Tass. Successivamente, in occasione della visita del presidente Erdogan al Maks, il salone internazionale dell’aeronautica e dello spazio che si tiene nei pressi di Mosca, si era ventilata l’ipotesi addirittura dell’acquisto del caccia di quinta generazione Su-57. In quella occasione alla delegazione turca è stato mostrato anche il Su-35S come da programma rivelato dallo stesso vice primo ministro Yuri Borisov: “Mostreremo il Su-57 ed il Su-35” aggiungendo che “la possibile vendita dipende dall’esito dello show”. Turchia che già aveva espresso interesse per il caccia di quinta generazione russo Sukhoi Su-57 a maggio dello scorso anno: in occasione delle prime avvisaglie di burrasca sugli F-35, sembra che Ankara avesse sondato il terreno russo che avrebbe offerto condizioni più favorevoli: il software del Su-57, al contrario di quanto accade per l’F-35, non è gestito dagli Stati Uniti che sono gli unici a possedere le chiavi elettroniche per il suo utilizzo e trasformazione. A settembre, pochi giorni dopo il Maks, arriva quello che sembra un fulmine a ciel sereno: il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, durante la visita di Stato a Bled, in Slovenia, avrebbe affermato a Ria Novosti che non esistevano (ancora) trattative in corso tra i due Paesi perché “facciamo parte del programma F-35”. Nello stesso periodo di tempo, però, Dimitry Shugaev, capo del Fsmtc (Federal Service for Military Technical Cooperation) ha affermato che le consultazioni pertinenti sarebbero già iniziate ma che fosse prematuro parlare dell’avvio di trattative contrattuali. Shugaev nella stessa occasione ha aggiunto anche, come riporta Ria Novosti, che “sono iniziate le consultazioni sul Su-35 e come ulteriore argomento per il Su-57” ed in effetti Mosca sembrerebbe più interessata a vendere alla Turchia il vecchio ma ancora eccellente caccia del bureau Sukhoi.
Il silenzio sospetto di Mosca. Oggi, dopo le indiscrezioni riportate da Defense News, quello che risalta è il silenzio di Mosca. Un silenzio che si tinge di giallo se andiamo a guardare proprio alle dichiarazioni del 22 ottobre fatte dallo stesso Shugaev, che in occasione del vertice di Sochi che ha visto l’incontro tra il presidente Putin ed il suo omologo turco Erdogan, ha affermato che i due leader non hanno discusso delle consegne dei caccia russi Su-35 e Su-57. A riportarlo è stata la Tass che aggiunge che Shugaev ritiene sia troppo presto per parlare di trattative contrattuali sulla fornitura di Su-35 e Su-57 alla Turchia. Tuttavia, le consultazioni sarebbero in corso. “Oggi è ancora prematuro parlare di eventuali trattative contrattuali”, ha precisato riferendo che “negoziati concreti non sono in corso, ma si tengono consultazioni su questo argomento”. Un silenzio, quello di Mosca, che però è alquanto sospetto considerando che in altre occasioni la Russia ha preferito tenere un basso profilo riguardo la vendita di assetti militari a Paesi nell’orbita occidentale, come avvenuto anche per l’Egitto proprio per i cacciabombardieri di Sukhoi. Secondo Shugaev, comunque, la parte turca sta studiando attivamente il problema delle forniture pertanto è molto probabile che gli accordi siano in via di definizione e che presto vedremo i caccia Su-35 nelle fila della Türk Hava Kuvvetleri, l’aeronautica militare turca.
Quel fiume d’oro illegale che unisce Erdogan e Maduro. Angela Nocioni il 15 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La Turchia è il primo importatore dei filoni auriferi del Venezuela dove I minatori vivono l’inferno. L’export del prezioso materiale proveniente dalle miniere clandestine al confine con la colombia è un business che va a gonfie vele. Puro ossigeno per il regime alle prese con la crisi e le sanzioni americane. Nella selva che copre il trafficatissimo e impervio confine tra la Colombia e il Venezuela c’è un’industria che va a gonfie vele: l’estrazione dell’oro nelle miniere clandestine. Mai tanta tacita collaborazione s’è mai vista alla frontiera tra due paesi in guerra politica in questo momento su tutto. Al governo di Bogotà conviene far finta di nulla perché il business dell’oro è in mano a gruppi guerriglieri con cui si cercano accordi di non belligeranza, quindi non sarebbe opportuno andare a chiudere un rubinetto di finanziamenti per loro strategico. Almeno non per adesso. A Caracas, con il bisogno di dollari freschi che ha il regime chavista per tamponare le conseguenze delle sanzioni Usa sull’export di petrolio, l’oro illegale serve come l’ossigeno per vivere. E a chi lo vendono, gli uni e gli altri? Innanzitutto alla Turchia di Erdogan. E agli Emirati arabi. Negli ultimi due anni da Caracas è stato esportato ufficialmente oro per due miliardi di dollari verso Emirati e Turchia. Ankara raffina l’oro venezuelano. Il ministro venezuelano dell’industria, Tareck El Aissami – inserito dagli Stati uniti quest’anno nella Most wanted list ( la golden list dei trafficanti Secondo l’Homeland security investigations unit) – ha visitato di recente la raffineria turca di Çorum, vicino ad Ankara, dove viene lavorato gran parte del metallo prezioso in arrivo da Caracas. Il presidente Nicolás Maduro, per restare a gala e tenersi buoni gli alti gradi militari che lo mantengono in vita, confida quindi nell’oro. Il Venezuela possiede uno dei più grandi giacimenti auriferi del mondo: più di centomila metri quadrati, il 12% della superficie del paese dove si stima ci siano almeno settemila tonnellate di oro. Il sottosuolo venezuelano al confine con la Colombia è una sorta di fortunata anomalia geologica, tanto è ricco. Nell’Arco dell’Orinoco poi, una ampia zona nel sud est del paese tra la Guyana e il Brasile, oltre alla più grande riserva di greggio del mondo, c’è anche oro, rame, diamanti, ferro, bauxite e una infinità di altri metalli preziosi in quantità. Molti dei quali già in mani cinesi e russe attraverso joint venture con il Caracas. La storia recente dell’oro venezuelano offre una fotografia dello stato delle risorse pubbliche di Caracas. Finalmente persuaso della necessità di diversificare la produzione economica e le fonti di dollari del suo governo, l’ex presidente Hugo Chávez tentò di metter mano alla catena di estrazione dell’Orinoco negli ultimi anni prima della sua morte avvenuta nel 2013. Non più grandi concessioni minerarie, ma piccole parcelle da distribuire tra piccoli produttori. Non più cinquemila ettari a ciascun gruppo dedito all’estrazione, ma parcelle la cui estensione oscillava da un minimo di 10 ettari a un massimo di 50 ettari offerte a piccoli produttori che si occupassero di tirar fuori l’oro e di metterlo in commercio. Chávez la spiegò come l’occasione per dare la possibilità agli abitanti del luogo di vivere dell’oro tirato fuori dalla loro terra. Il piano è fallito miseramente. In pochi anni il metodo di estrazione è tornato a modalità da Medio Evo. Piccone e pala, nessun controllo. Si scava, si prende quel che si trova e si passa a un pezzetto di terra vicino dove poter scavare, tirar fuori un po’ di prezioso metallo e così si va avanti. Con danni seri ai giacimenti, mai scavati in profondità, ma soprattutto con rischi alti di contaminazione ambientale. Il livello di corruzione altissima raggiunto dagli alti militari che hanno il controllo della zona ha fatto fiorire il business delle miniere illegali. Non sono i piccoli produttori locali di vivere dell’oro estratto, ma i grandi trafficanti. Nelle vicende legate alle miniere illegali s’è mostrata la leggendaria doppiezza del personaggio politico di Hugo Chvez. Ogni volta che riceveva le denunce dei collettivi organizzati dei minatori, Chávez prometteva repulisti severissimi tra i responsabli della catena di controllo sulla produzione e la commercializzazione dell’oro. Li esortava ad occupare la miniera, a farsi sentire, giurava che li avrebbe aiutati e sostenuti. E dopo due giorni firmava invece un decreto in cui nominava un paio di generali a capo del settore. Con tanti saluti ai minatori in rivolta. Il commercio ora è in mano innanzitutto ai guerriglieri dell’Esercito di liberazione nazionale della Colombia, il secondo grande gruppo guerrigliero colombiano dopo le disciolte Farc. Grossi criminali brasiliani, banditi di ogni provenienza, miliziani locali. Tutti fanno affari con l’oro tranne la povera gente che vive intorno alle miniere. Teoricamente l’oro estratto dovrebbe finire venduto alla Banca centrale di Venezuela. Sempre teoricamente veglierebbero su questo meccanismo degli agenti statali. Poiché l’oro non è difficile da trasportare come il greggio, facile è per i trafficanti farlo uscire dal Venezuela. Lo portano in Brasile, in Colombia e nelle isole delle Antille. Curazao, Bonaire, Aruba sono proprio lì davanti, a nemmeno 60 km dalla costa. Sono ex colonie olandesi e molto dell’oro trafugato dal Venezuela finisce in Olanda. Il partito socialista olandese ha denunciato il traffico, chiesto controlli, ma la denuncia non pare aver sortito alcun risultato finora.
Papa Ratzinger, la vecchia e perfetta profezia sulla Turchia di Erdogan: "Ecco chi sono davvero". Libero Quotidiano il 15 Ottobre 2019. In questi giorni, in cui con violenza e veemenza è esplosa la crisi in Siria, con la Turchia all'attacco dei curdi, ritornano alla mente, come sottolinea Il Giornale, alcune vecchie parole di Joseph Ratzinger. Parole assolutamente profetiche, che aveva pronunciato quando ancora era cardinale. "Il continente europeo ha una sua anima cristiana. E la Turchia, che non è l'Impero ottomano nella sua estensione ma ne costituisce pur sempre il nucleo centrale, ha un’altra anima, naturalmente da rispettare", diceva colui il quale sarebbe diventato Benedetto XVI. Parole pronunciate, per la precisione, il 17 settembre 2004. Il professore di Tubinga Ratzinger era stato invitato a Vercelli per un'iniziativa pastorale, ancora non sapeva che a breve sarebbe diventato Papa. E già allora avvertiva sui rischi relativi alla Turchia, insistendo sulla differenza tra l'anima cristiana europea e quella che discendeva dall'impero ottomano. Erano i giorni in cui si discuteva della possibilità che la Turchia, già di Erdogan, potesse far parte dell'Unione europea. E cosa ne pensasse Ratzinger era chiarissimo già allora. Quanto avesse ragione, invece, con quel che sta accadendo oggi in Siria è chiaro a tutti.
“L’operazione in Siria ha fatto guadagnare a Erdogan qualche mese in più di governo”. it.insideover.com il 16 ottobre 2019. Le operazioni militari della Turchia in Siria proseguono, mentre l’esercito del presidente siriano Bashar al Assad si dirige verso il confine per sostenere i curdi nella difesa del Nord-est del Paese. In molti hanno letto la decisione del capo di Stato turco di attaccare il Rojava come una mossa politica, utile a distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni del Paese e a riguadagnare il consenso perso. Una volta stabilita la safe zone lungo il confine, infatti, il progetto del Sultano è di ricollocare nell’area 2 milioni di siriani rifugiatisi in Turchia a causa della guerra e la cui presenza nel Paese ha alienato una grossa fetta dell’elettorato dell’Akp. Ma, come spiega a InsideOver Ertuğrul Kürkçü, presidente onorario del partito filo-curdo Hdp, non è detto che questa strategia dia i risultati sperati. “A livello interno, Erdogan potrebbe aver guadagnato 2-3 mesi di governo, ma a livello internazionale ha perso quasi tutta la credibilità che era riuscito a ottenere tra le potenze regionali e internazionali. Non tutti i membri del Consiglio di Sicurezza della Nato per esempio sono favorevoli all’azione del presidente e la stessa Lega Araba ha definito l’operazione militare un’invasione che viola le leggi internazionali. Norvegia, Germania, Francia, Finlandia, Danimarca e Paesi Bassi hanno sospeso la vendita di armi alla Turchia, Russia Iran e Cina si sono detti preoccupati per quanto sta accadendo e lo stesso establishment statunitense, fatta eccezione per Donald Trump, non approva l’intervento in Siria”. I problemi maggiori però sono sul fronte interno. “Le spese di guerra, unite alla riduzione degli investimenti esteri” e alla crisi economica che da tempo interessa la Turchia “stanno mettendo in difficoltà Erdogan”. Secondo Kürkçü, il presidente turco ha progetti troppo ambiziosi per il periodo post-invasione. “Erdogan vuole trasferire 2 milioni di persone nella safe zone e investire nella ricostruzione dell’area”. Un obiettivo che richiede uno sforzo economico che il Governo turco al momento non sarebbe in grado di sostenere, dato lo stato delle sue finanze. “Se Erdogan non va alle urne nei prossimi 3-4 mesi, perderà le prossime elezioni. Per questo motivo, ma non solo, ha dato il via alla campagna militare” contro il Rojava.
Il panorama politico turco. L’inizio delle operazioni militari in Siria ha avuto un impatto anche sugli equilibri della politica interna e in particolare sui rapporti tra l’Hdp e il Chp, di ispirazione kemalista. In occasione delle elezioni amministrative il partito filo-curdo aveva invitato i propri elettori a sostenere i candidati del Partito popolare repubblicano per scongiurare la vittoria dell’Akp del presidente Erdogan. In quel caso non si è trattato di una vera e propria alleanza tra le due parti, ma di un calcolo politico dell’Hdp. Tuttavia con l’elezione a sindaco di Istanbul di Ekrem Imamoglu sembrava che qualcosa, finalmente, sarebbe potuto cambiare nella posizione del partito kemalista verso la questione curda, ma la decisione del Chp di votare in favore dell’intervento armato nella Siria del Nord-est ha raffreddato nuovamente i rapporti tra le parti. “Le nostre speranze sono state disattese a causa della complessità interna” del partito kemalista “formato da un’ala conservatrice e nazionalista che si oppone a quella progressista”. Il sostegno all’operazione militare, in realtà, non è stata una sorpresa. “Per quanto riguarda le questioni inerenti alla sicurezza, la leadership del Chp ha sempre preso posizione in favore dei militari, appoggiando ogni volta l’invio di truppe in Iraq e Siria voluto dal Governo. Il voto espresso per l’operazione” in Rojava non è stato che “una replica di quanto accaduto in occasione dell’incursione ad Afrin. Non è niente di nuovo, per questo dobbiamo guardare avanti e soprattutto fare affidamento non tanto sui vertici del Chp quanto sulla sua base”, che secondo Kürkçü inizia a non approvare la linea della leadership del partito in materia di sicurezza e politica estera. Tuttavia un cambio ai vertici del Chp nel prossimo futuro non sembra un’ipotesi probabile. “Non c’è una vera contestazione della leadership attuale, così come non ci sono candidati che possano prenderne il posto. Lo stesso Imamoglu sembra essersi allineato con la posizione del partito per quanto riguarda l’incursione in Siria. Ci sono delle divisioni all’interno del Chp ma su altri temi, non di certo su quello militare. Se l’operazione in Siria dovesse prendere una brutta piega, se non dovesse avere successo e se ci fossero grosse perdite allora il parere dell’opinione pubblica muterebbe e si potrebbe arrivare ad un cambio ai vertici del Chp. Ma per adesso sono solo speculazioni”.
ASSAD CONTRO ERDOGAN, UNA FAIDA CHE VIENE DA LONTANO. Gio. Sta. per “la Stampa” il 15 ottobre 2019. Nell' ottobre del 1998 Recep Tayyip Erdogan era sindaco di Istanbul da quattro anni e Bashar al-Assad faceva ancora l' oculista a Londra. Il padre Hafez si era scontrato con il potere turco dal 1980, quando aveva deciso di contrastare le mire «neo-ottomane» di Ankara con l' appoggio al Partito curdo dei lavoratori, il Pkk, e aveva dato ospitalità al suo leader, Abdullah Ocalan. Ma nell'ottobre del 1998 i due Paesi erano a un passo dalla guerra, Damasco aveva inviato un mezza dozzina di divisioni nel Nord e installato 36 batterie di missili Scud vicino alla frontiera, nel timore di una invasione imminente. Dovettero intervenire gli Stati Uniti, e la Russia, per evitare il peggio. Il 20 ottobre si arrivò all' accordo di Adana. Assad padre cessava di sostenere il Pkk e accettava di consegnare Ocalan, che alla fine sarebbe arrivato in una prigione turca dopo una lunga crisi internazionale. L'accordo di Adana segnò anche l'inizio di un lungo inverno per i curdi siriani, che Assad aveva lasciato si organizzassero nel Pyd, il gemello siriano del Pkk. Il tradimento del raiss ha lasciato un segno duraturo. Ma anche i decenni di collaborazione stretta. Assad figlio si è così ritrovato nelle mani le carte buone e cattive che gli aveva lasciato il padre. E di fronte un avversario implacabile come Erdogan. Quando la rivolta degli arabo-sunniti ha cominciato a travolgerlo, alla fine del 2012, ha lasciato i curdi, che avevano costituito le loro Unità di difesa popolare, le Ypg, a sorvegliare i territori a Nord-Est, per spostare tutte le truppe ad Aleppo e Damasco. Per sette anni i curdi hanno lottato per costruire la loro regione autonoma, il Rojava. Il regime era un avversario, la Turchia, e ancor più le milizie jihadiste sostenute da Ankara, il nemico vero e mortale. Fino all' avvento dell'Isis e all'intervento degli Stati Uniti nel Nord-Est della Siria. Nel frattempo Erdogan creava un' armata ribelle, incentrata attorno al gruppo Ahrar al-Sham, per abbattere Assad. Nell' estate del 2015 il raiss è al lumicino, con i colpi di mortaio che cadono nel giardino del palazzo presidenziale. Arriva Vladimir Putin a salvarlo con l'aviazione russa, sfiora la guerra con la Turchia dopo che un caccia Su-24 viene abbattuto da un F-16 turco. Lo scontro Assad-Erdogan è al culmine. Il leader turco accusa il presidente siriano di essere un «macellaio» di avere le «mani sporche del sangue di mezzo milione di persone». Per Assad l'avversario è un «Sultano», un «complice dell' Isis», un estremista islamico che vuole restaurare «l' impero ottomano e ridurre la Siria di nuovo in schiavitù». Il fallito golpe del luglio 2016 cambia però ancora lo scenario. Erdogan si sente tradito dagli Stati Uniti si riavvicina alla Russia e accetta un compromesso anche sulla Siria. Il cambio di regime non è più una priorità, a patto che la Turchia ottenga una «fascia di sicurezza» lungo la frontiera. Una cosa però Erdogan mette in chiaro con Putin: «Non stringerà mai la mano ad Assad». ll leader siriano è dello stesso parere. Ringrazia Putin ma ribadisce che si «riprenderà ogni centimetro quadrato di territorio». La lotta ai ribelli sostenuti da Ankara è implacabile. Damasco va all'assalto di Idlib, si rischia un bagno di sangue terrificante, interviene di nuovo il Cremlino a mediare. I rapporti con i curdi continuano sottotraccia, nonostante la rabbia del raiss per la loro alleanza con l'America. Assad, nell'ottobre del 2018, li avverte: «Alla fine gli americani vi tradiranno, ve ne pentirete, soltanto l'esercito siriano difenderà il popolo siriano». Un anno dopo Trump scarica i curdi e Erdogan scatena la caccia ai guerriglieri delle Ypg. Il duello Assad-Erdogan continua. E questa volta, come nel 1998, siamo a un passo dallo scontro armato diretto.
Caso Turchia: perché non può essere solo il calcio a fermarsi. Il saluto militare dei nazionali e la Uefa sotto pressione per cancellare la finale Champions di Istanbul. Il rischio di una strumentalizzazione. Giovanni Capuano il 15 ottobre 2019 su Panorama. Il saluto militare pro-Erdogan ostentato dai calciatori turchi alla fine del match contro l'Albania e poi, malgrado le polemiche preventive, a Parigi in coda alla sfida con la Francia hanno prepotentemente portato la questione turca dentro il calcio europeo. Era difficile immaginare che non accadesse, ma quelle immagini hanno fatto il giro del mondo e aperto il dibattito sull'opportunità che la Uefa intervenga duramente contro i responsabili e in maniera simbolica togliendo ad Istanbul l'organizzazione della finale della Champions League prevista allo stadio Ataturk il prossimo 30 maggio 2020. Un dibattito molto politico (il ministro dello sport italiano Spadafora ha scritto al presidente Ceferin) e che sta infiammando l'opinione pubblica. Tutti convinti in maniera compatta che tocchi al calcio dare un segnale forte, prendendo subito una decisione su un evento programmato tra poco meno di otto mesi, posto che il saluto militare dei calciatori viola il codice disciplinare Uefa e per questo sarà sanzionato. Come? Il timore è che ci possa essere solo una multa (articolo 11 comma C), la speranza è che non si sottovaluti l'impatto di questa decisione.
Perché il calcio deve fare per tutti? Il partito pro-cancellazione della finale a Istanbul si ispira alla durezza con cui il St Pauli, club tedesco, ha licenziato il turco Sahin per un post pro-Erdogan sui social: "Lontano dai valori del club". Una scelta netta e immediata. Altre società sono alle prese con lo stesso problema che in Italia riguarda Juventus (Demiral), Milan (Calhanoglu) e Roma (Under) con l'aggravante per i giallorossi che il messaggio in questione è stato veicolato con indosso la maglia e il simbolo della stessa società. L'impatto di una scelta Uefa oggi è evidente, ma non è nemmeno giusto che si chieda sempre e comunque al calcio di muoversi autonomamente anche per coprire le mancanze altrui, nel momento in cui politica e diplomazia stanno miseramente fallendo nel loro compito. Tirare per la giacchetta i ricchi del pallone suona come strumentalizzazione, un modo per ripulirsi un po' la coscienza che tra l'altro a volte viene evocato e a volte no. La stessa Uefa da anni accetta di non far incontrare squadre russe e ucraine per i riflessi della crisi politica e militare tra i due paesi, ma nessuno si sogna di chiedere l'esclusione di Mosca e nessuno, quando accadono tragedie o vicende complesse, si sogna ad esempio di estendere la richiesta di "fermarsi" ad altri settori dell'intrattenimento. Sempre e solo al calcio.
Il possibile piano B per la Champions League. A Nyon conoscono benissimo la tragicità di quanto sta accadendo in Siria, così come la Fifa è al corrente della delicatezza di temi sociali e civili come il rispetto dei diritti in paesi in cui sta esportando il calcio. La Uefa ha, come ovvio, alcuni piani alternativi nel caso non ci fossero le condizioni per portare la finale di Champions League a Istanbul e quando sarà il momento dovrà essere chiamata a fare la sua parte. Allora, però, non adesso per regalare un po' di visibilità dimenticando che i campi su cui la questione turca va risolta non sono quelli verdi e rettangolari di una partita, ma le stanze della politica e della diplomazia.
La grande ipocrisia dell’Italia contro il Sultano. Lorenzo Vita il 13 ottobre 2019 su it.insideover.com. C’è un vento ipocrita che sta soffiando in tutta Europa e che investe, in particolar modo, l’Italia. Questo vento riguarda la volontà di bloccare l’esportazione di armi verso la Turchia. Un desiderio solo dichiarato da Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio che, a differenza dei loro colleghi europei, hanno parlato ma (finora) non agito. Germania, Paesi Bassi, Norvegia e altri Stati membri dell’Unione europea hanno deciso, con l’avanzata di Recep Tayyip Erdogan, di bloccare momentaneamente l’export di armi per “punire” il sultano per l’avanzata in Siria. L’Europa passa a una timida azione, quindi. Non come Unione europea, chiaramente, ma come singoli governi che provano cautamente a far capire alla Turchia che con “Sorgente di pace” ha esagerato. Il problema però è che tutto questo coro di voci nei confronti del Sultano rivela la falsità di certi commenti: specie in Italia. Anzi, se Erdogan ha un merito è proprio quello di aver rivelato i sepolcri imbiancati che si nascondono nelle fredde cancellerie europee e nei corridoi di Palazzo Chigi dove adesso hanno tutti idea di avere un nemico dall’altra parte del Bosforo. Il problema è che questo “nemico” in realtà è solo di facciata. O meglio, se Erdogan si comporta da avversario, di fatto l’Italia e l’Europa l’hanno trattato da sempre come un interlocutore privilegiato. E specialmente riguardo l’export bellico. Un settore in cui l’Italia fa bene a riflettere sugli annunci che riguardano momentanei embargo anti Ankara, visto che siamo uno dei maggiori esportatori di armamenti, sistemi e materiali da guerra di tutta Europa. I dati sono incontrovertibili. Fino al 2017 Ankara era il terzo maggiore importatore di armi made in Italy. Dopo Qatar e Pakistan, è la Turchia il Paese su cui si riversa maggiormente la nostra produzione bellica. E dal momento che si parla di miliardi di euro, la questione non va presa sottogamba. Ma soprattutto fa capire perché l’Italia, specialmente a sinistra, ci vada in punta di piedi con il Sultano. Facile unirsi al coro dei “no” contro Erdogan quando è tutto il mondo a schierarsi verbalmente contro l’avanzata dell’esercito turco nel nord della Siria. Ed è altrettanto facile (e furbesco) chiedere, come hanno fatto Di Maio e i suoi compagni di governo, una presa di posizione dell’Unione europea. Più difficile è passare ai fatti. Un passaggio dall’idea all’azione che, tra le altre cose, l’Italia avrebbe tranquillamente il modo di realizzare: c’è una legge che autorizza il blocco di export bellico in caso di violazioni di norme internazionali e costituzionali. E di certo la Turchia non sta usando il guanto di velluto contro i combattenti curdi né la Siria ha mai autorizzato l’accesso delle forze della mezzaluna nel suo territorio. Basterebbe un gesto del governo: si applica la legge 185 del 1990 e si può interrompere l’export di armi verso l’esercito di Ankara. Eppure, Pd e Cinque Stelle preferiscono trincerarsi dietro un possibile embargo di armi da parte dell’Unione europea. Richiesta abbastanza interessante, visto che in Unione europea non sono neanche in grado di approvare una commissione. E di certo nessuno ora vuole muovere una guerra industriale a chi, come la Turchia, rappresenta uno dei maggiori mercati per gli Stati europei nonché uno dei principali partner commerciali e strategici di ogni Stato membro. Una condizione che, se si aggiunge al ricatto del Sultano con i rifugiati e l’importanza delle forze turche nello scacchiere Nato, rende abbastanza chiaro il motivo per cui sia difficile che dall’Europa partano prese di posizione ancora più forti. Difficile in Europa, figuriamoci in Italia, dove al governo è tornato quel Partito democratico che per anni è stato al potere e che ha autorizzato esso stesso ingenti vendite di materiale bellico all’esercito turco. Attività del tutto legittime, sia chiaro, e che hanno portato in Italia diverse centinaia di milioni di euro, oltre ad aver supportato una filiera industriale che produce posti di lavoro e guadagni. Ma fa sorridere che sia Zingaretti a chiedere un intervento europeo quando nel 2016 e nel 2017 l’Italia (guidata dai vari Renzi e Gentiloni) ha aumentato sensibilmente le autorizzazioni che sono scese soltanto con il governo gialloverde. La guerra in Siria c’era, il Pd governava, la Turchia non aveva certo dato prova di volere la stabilità e la pace a sud dei suoi confini per sconfiggere alternativamente Bashar al Assad e i curdi. E le milizie jihadiste sotto le bandiere dei filo-turchi erano evidenti al pari dei mai celati legami tra alti funzionari di Ankara e membri dello Stato islamico, che sopravviveva grazie ai fondi che circolavano in territorio turco. Eppure nessuno aveva mai detto nulla: nessuno aveva gridato così tanto allo scandalo. E nel frattempo, le vendite continuavano. Adesso Di Maio e Zingaretti possono parlare: ma non è un mistero che i dem al potere sono riusciti nel curioso intento di armare con centinaia di milioni di commesse le forze di Ankara e dare armi anche agli stessi curdi. “Misteri” d’Italia che, furbescamente, chiede l’intervento Ue ma che in realtà non vuole fare di più. Sa che ha troppi interessi, sa che ha troppi legami, sa che ha troppa paura. E del resto la Turchia ha già fatto capire che nei suoi arsenali possono fare a meno delle armi europee: come ricorda Repubblica, gli arsenali turchi sono già pieni di armi made in Turkey.
Antonio Socci accusa la sinistra: "I profughi siriani non sono più risorse? Siete degli ipocriti". Antonio Socci su Libero Quotidiano il 13 Ottobre 2019. Tutti parlano delle minacce del presidente turco Erdogan all' Unione europea perché se ne stia zitta sull' aggressione militare al Kurdistan siriano (o meglio: alla Siria). Il leader di Ankara ha dichiarato che in caso contrario «apriremo le porte a 3,6 milioni di rifugiati siriani e li manderemo da voi». Chi prospetta questa ritorsione è lo stesso Erdogan, ovvero la stessa Turchia, che riceve dall' Unione europea un bel po' di soldi. Non solo i finanziamenti per favorire l' avvicinamento della Turchia ai requisiti richiesti per l' ingresso nella Ue (si è ottenuto l' opposto perché il regime è diventato sempre più antidemocratico e fondamentalista). Ma soprattutto i tre miliardi di euro (secondo alcuni sarebbero di più) spediti dalla Ue alla Turchia per gestire i campi profughi, ovvero per bloccare l' arrivo di migranti in Europa. Come si vede adesso ci viene pure ordinato da Ankara di stare zitti altrimenti ce li spedisce qua. Doppio fallimento clamoroso dell' Unione europea. Del resto per bloccare quei migranti, che dalla rotta balcanica finirebbero in Germania, tutti i Paesi europei hanno dovuto pagare la Turchia, mentre per bloccare i migranti che arrivano dal Mediterraneo in Italia nulla si fa e si lasciano sulle spalle del nostro Paese. La Germania infatti comanda e l' Italia viene trattata sprezzantemente. Però la domanda fondamentale, che qualcuno si è posto, è la seguente: se i migranti sono una risorsa per l' Italia e una ricchezza per l' Europa, come ci ripetono, perché Erdogan minaccia di inviarcene di più? Perché noi ci spaventiamo di fronte a questa prospettiva? E perché paghiamo salatamente la Turchia affinché blocchi quel fiume di migranti? Anche senza considerare le strane oscillazioni dell' umanitarismo dei Buoni, al potere in Italia e in Europa, che sembra si ricordino di essere "umani" a giorni alterni, perché una tale contraddizione? Se noi - come ci hanno ripetuto finora - abbiamo bisogno come il pane di migranti, se sono una risorsa, se le nostre pensioni e la nostra economia non hanno speranza senza di loro, dovremmo essere ben felici di riceverne a milioni. Dovremmo pagare per averne, non per bloccarli alla frontiera turca. Dovremmo stendere tappeti rossi e aspettarli alle frontiere con la banda che suona baldanzosamente l' Inno alla gioia. Sbaglio? O forse la verità è un' altra? Non sarà che invece i migranti che arrivano qua, in realtà, sono un colossale costo (come in effetti risulta), un aggravio per il welfare (a spese dei nostri poveri) e anche un problema per l' ordine pubblico? Ma allora, se le cose stanno così, perché ripetono agli italiani la storiella delle risorse? Perché ci prendono in giro? Perché questa ipocrisia?
CONTRATTO IMMORALE. Del resto non è l' unica. Ieri Paolo Mieli, sul Corriere della Sera, ha fatto presente che quel «contratto del 2016» che «ha consentito all' autocrate turco di incassare tre miliardi di euro, fu discutibile sotto il profilo morale» perché «già allora si sapeva che pagavamo Erdogan affinché rinchiudesse quegli esuli in recinti molto simili a campi di contenzione. Né chiedemmo rilevanti contropartite di impegni a salvaguardia del profilo etico dell' operazione». Com' è che tutto questo non ha mai scatenato le reazioni indignate né degli umanitari, né dei governi illuminati, né dei commissari europei? Forse perché quell' operazione era voluta dalla Germania? Tuttora non sembra scandalizzare nessuno, sebbene fossimo e siamo «consapevoli, noi europei», scrive ancora Mieli «del fatto che il regime turco avrebbe tenuto per sé buona parte dei miliardi di euro teoricamente destinati ai migranti. Altro che migranti, quei miliardi di euro erano il prezzo pagato per un' operazione sporca». Eppure non si ricorda nessuna ondata di indignazione generale, nessuna mobilitazione. Lo stesso Bergoglio, sempre pronto a lanciarsi in invettive contro i sovranisti cattivi che scoraggiano le partenze dalla Libia, diventa improvvisamente fioco quando c' è la Germania di mezzo. E anche quando c' è la Turchia. Infatti non risultano vibranti condanne, da parte del Papa argentino, neppure dell' aggressione militare turca in corso.
IPOCRISIA OCCIDENTALE. Un'altra ipocrisia. Adesso tutti condannano Trump che sarebbe colpevole di abbandonare il Nord della Siria, permettendo così, di fatto, l' aggressione turca. Mieli scrive che è ridicolo rimproverare Trump per questo sapendo che «noi europei non abbiamo nessuna intenzione di andare a sostituire quei soldati statunitensi». Ma c' è un' altra ipocrisia. Nel ritirare le truppe Trump non fa che confermare la sua avversione agli interventi militari. Abbiamo scritto più volte, su queste colonne, che il militarismo aggressivo era proprio della Clinton, non di Trump. Ma sui giornali italiani si leggeva sempre l' opposto. Ora che Trump conferma la sua linea, quell' opinione pubblica "illuminata" che ha sempre fatto professione di pacifismo, insorge. Di fatto rimprovera Trump di pacifismo e di anti-militarismo. Non è singolare? C' è anche da precisare che i militari americani erano stati mandati in Siria da Obama - colui a cui fu dato "preventivamente" il premio Nobel per la pace - ed erano lì (ufficialmente) per combattere lo Stato islamico che adesso non c' è più. Perché dovrebbero restare sul territorio di uno Stato senza il suo accordo? Questo ci permette di ricordare un' ultima verità: l' aggressione della Turchia, in realtà, è solo l' ennesima violazione del territorio della Siria, nei cui confronti, in questi anni, molti altri Stati hanno perpetrato tanti abusi. Dal 2011 infatti il Paese è stato devastato, con un mare di vittime, da una guerra civile fomentata da vari potenze straniere, islamiche in primis, ma anche dagli Stati Uniti di Obama. Chi - fra gli indignati di oggi - fu, a suo tempo, contro quella guerra civile che ha provocato migliaia e migliaia di vittime, ha distrutto un Paese e ha scoperchiato il vaso di Pandora? Mi pare che l' ipocrisia dilaghi. Antonio Socci
· Le colpe in Algeria.
Algeria, l’ombra della Francia dietro le proteste. Alessandro Scipione su it.insideover.com il 22 ottobre 2019. La Francia cerca di sfruttare le sommosse popolari in corso in Algeria dal 22 febbraio scorso per controllare o neutralizzare le Forze armate della sua ex colonia. Questo il “J’Accuse” dell’ex segretario generale del Fronte di liberazione nazionale (Fln) algerino, Amar Saadani, in un’intervista rilasciata al sito web Tout sur l’Algerie e ripresa in Italia da Agenzia Nova. Per comprendere meglio la portata di queste dichiarazioni, destinate a scatenare un terremoto politico nell’ex colonia di Parigi, è come se a parlare fosse un ex segretario della Democrazia Cristiana in piena Tangentopoli. Il politico algerino descrive uno scontro attualmente in corso tra “Stato profondo” e “Stato nazionalista”, con il primo che starebbe cercando di avere la meglio sul secondo grazie all’appoggio garantito dall’estero e al lavoro di alcuni alleati in patria. Saadani non la nomina mai direttamente, ma l’allusione neanche troppo velata è alla Francia.
Il ruolo opaco della Francia. La stessa giustizia algerina sta indagando su un presunto incontro con i servizi segreti francesi dell’ex capo dei servizi segreti algerini, Mohamed Mediene, detto generale Toufik, il capo del Dipartimento di sorveglianza e sicurezza algerino (Dss), generale Athmane Tartag, e Said Bouteflika, il fratello del presidente Abdelaziz Bouteflika, dimessosi lo scorso 2 aprile dopo oltre 20 anni al potere. Tutti, a parte l’ex capo dello Stato, sono stati arrestati nell’ambito della maxi-campagna giudiziaria contro alti funzionari, imprenditori e ufficiali legati all’establishment precedentemente al potere. I tre sono considerati i leader del cosiddetto “Stato profondo”, il cui vero obiettivo sarebbe sempre stato quello cambiare l’orientamento delle istituzioni militari, i suoi acquisti di armi e il suo sistema di alleanze. “Questo è ciò che si desidera all’estero e dai loro alleati all’interno del Paese”, spiega l’ex segretario generale dell’Fln.
Stato contro Stato. A questo punto occorre fare un passo indietro. Febbraio 2015. Il generale Toufik, da 25 anni alla guida dell’Agenzia di intelligence militare (Drs), potente organizzazione accusata di omicidi politici e della “sparizione” di un numero tuttora imprecisato di persone, dalle 6.000 alle 16.000, durante il conflitto civile degli anni Novanta), rompe anni di silenzio per schierarsi con l’ex capo dell’anti-terrorismo, Abdelkader Ait Ourabi, detto “Hassan“, condannato a cinque anni di carcere per alcune irregolarità commesse nel corso di una operazione segreta in Libia. La cerchia presidenziale richiama il generale al “dovere di riservatezza”, ma le dichiarazioni di Toufik sono considerate come una “dichiarazione di guerra” contro Bouteflika. Il generale viene mandato in pensione nel settembre 2015, ma gli altarini sono ormai scoperti e la spaccatura è evidente. Il 2015 è dunque l’anno dello “scontro” tra i due Stati nello Stato. Secondo Saadani, in quell’occasione lo Stato nazionalista riconducibile ai militari ha colpito duramente lo Stato profondo guidato da una parte dei servizi segreti. Nonostante i “considerevoli danni subiti”, oggi “lo Stato profondo sta cercando di ricostruirsi e di rilanciare il suo progetto” attraverso la stampa, i social network e le proteste di piazza, aggiunge Saadani. Secondo l’ex leader del Fronte, “la lotta non è tra l’istituzione militare e i cittadini, ma tra questi due progetti”.
I generali sotto assedio. I manifestanti scesi in piazza venerdì scorso, 18 ottobre, per il trentaquattresimo venerdì consecutivo di proteste hanno chiesto di rimandare le elezioni presidenziali previste il 12 dicembre e la nascita di uno “Stato civile e non militare”. Secondo l’ex segretario generale dell’Fln, lo Stato civile non dovrebbe però andare “a scapito delle istituzioni militari e dell’immagine dei generali”. Sempre secondo Saadani, le richieste di dimissioni del capo di Stato maggiore e viceministro della Difesa, il generale Gaid Salah, sarebbero strumentali al progetto portato avanti dallo Stato profondo: “Si vuole svuotare l’istituzione militare del suo comando in modo che diventi una facile preda”. Inoltre, per il politico algerino “è impossibile avere uno Stato civile senza eleggere un presidente eletto democraticamente”. Le elezioni presidenziali, del resto, sono già state rimandate ad aprile a luglio: un ulteriore rinvio a dicembre potrebbe avere conseguenze imprevedibili per il Paese. Finora oltre 100 candidati hanno ritirato i moduli per le presidenziali, ma l’opposizione è assente.
Gli islamisti si schierano con la piazza. Vale la pena ricordare che l’Italia ha interessi importanti in Algeria, che è suo il secondo fornitore di gas dopo la Russia. Un’Algeria nel caos potrebbe portare ad insorgenze islamiche – Fratelli musulmani e salafiti sono abbondantemente presenti nel paese – e irradiare onde sismiche in tutta la regione. Dopo settimane di silenzio, il principale partito islamico del paese, il Movimento per la società della pace (Msp) si è schierato contro le elezioni presidenziali, giudicate non trasparenti, e ora anche contro la nuova legge sugli idrocarburi, adottata dal governo senza dibattuto pubblico ma ancora in attesa del dibattito in parlamento, e dalla parte del movimento di protesta “Al Hirak”. Secondo Saadani, tuttavia, questa scelta è un errore. “Sfortunatamente, gli islamisti, con i loro attuali leader, sostengono un progetto che non è loro. Sostengono il progetto di boicottaggio che è nell’interesse dello Stato profondo e non dello Stato nazionalista o islamico. Si uniscono al loro carnefice. Da un lato si lamentano dello Stato profondo, dall’altro sostengono il suo progetto”.
La frase shokc sul Sahara occidentale. Infine Saadani si è espresso anche in merito all’annosa questione del Sahara occidentale, con una frase abbastanza scioccante: “Ritengo, da un punto di vista storico, che il Sahara sia marocchino e nient’altro. È stato assegnato al Marocco al Congresso di Berlino. Inoltre, penso che l’Algeria abbia versato per cinquant’anni enormi somme a quello che viene chiamato il Polisario e questa organizzazione non ha fatto nulla e non è riuscito a rompere l’impasse”. Mai prima d’ora un politico algerino di alto livello aveva osato mettere in dubbio la cosiddetta Repubblica araba democratica dei sahrawi autoproclamata nel 1976 dal Fronte Polisario. L’Algeria ospita sul suo territorio circa 180 mila profughi saharawi e non ha mai riconosciuto l’annessione dei territori desertici nel Sahara occidentale (chiamato Sahara marocchino da Rabat) da parte del Marocco. Le Nazioni Unite hanno negoziato un cessate il fuoco tra Fronte Polisario e Marocco nel 1991, ma i colloqui guidati dalla Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara occidentale (Minurso) non sono riusciti a trovare una soluzione stabile. L’Onu mantiene una forza di circa 240 peacekeeper sul terreno, ma è ancora alla ricerca di un inviato speciale dopo le dimissioni del tedesco Horst Kohler.
· Le colpe in Libia.
Vincenzo Nigro per “la Repubblica” il 4 dicembre 2019. Un ennesimo, grave segnale di allarme politico per l'Italia in Libia. Ai margini del vertice Nato di Londra, in una delle molte riunioni collaterali, Gran Bretagna, Francia, Germania e Turchia si sono riunite a livello di capi di governo. I 4 leader alleati, pronti a litigare su mille altri dossier hanno trovato il tempo di parlare insieme di Siria ma anche di Libia. Il risultato è stato una dichiarazione pubblica sulla Libia di nessun reale peso politico, ma che in Italia si fa notare proprio per l'assenza dell' Italia stessa. Mancanza dell' Italia a un incontro Nato sulla Libia, l' ultimo negoziato di politica internazionale al quale Roma aveva sempre partecipato con grande assiduità Macron, Merkel, Johnson ed Erdogan hanno dichiarato che sul dossier Libia «i nostri Paesi appoggiano il lavoro dell' inviato del segretario generale Onu, Ghassan Salamè, perché venga favorito un processo politico fra i libici, facilitato dall' Onu e sostenuto dal Format di Berlino». Del "format di Berlino" fanno parte i cosiddetti "5+5", ovvero i 5 paesi del Consiglio di sicurezza Onu, più Italia, Germania, Turchia, Arabia Saudita ed Emirati. Oggi di Libia e di molto altro il presidente del Consiglio Giuseppe Conte parlerà con Donald Trump. Il presidente americano sul dossier avrebbe letteralmente potere di vita o di morte, nel senso che una sua iniziativa politica potrebbe davvero bloccare l' attacco continuo del generale Haftar a Tripoli. Con bombardamenti che anche ieri per esempio hanno preso di mira un ospedale in cui sono stati uccisi 2 medici. Fino ad oggi, mentre Pentagono e dipartimento di Stato chiedono ad Haftar di fermare l' offensiva, Trump rimane ambiguo. Il presidente sembra sensibile alle telefonate di pressioni da parte del presidente egiziano Al Sisi e dei leader di Emirati e Arabia Saudita, che continuano a sostenere Haftar, anche in questa fase di bombardamenti indiscriminati contro la popolazione civile. Dall' incontro con Trump vedremo se Conte, che negli ultimi mesi ha trascurato il dossier Libia, tornerà alla carica per difendere quello che agli occhi del mondo era una creatura politica dell' Italia, ovvero il governo di Fayez Serraj riconosciuto dall' Onu. In queste ore l' inviato dell' Onu a Tripoli Salamè ha lanciato allarmi ripetuti contro le incursioni sempre più violente di Haftar contro Tripoli. Anche con l' uso di mercenari russi Haftar potrebbe entrare in città, «e sarebbe un disastro». «La dimensione militare sfugge al governo e alla politica italiana», dice un alto funzionario di una delle agenzie che seguono la crisi libica, «continuare con la passività di questi mesi ci porterà di fronte a fatti compiuti che saranno contrari agli interessi dell' Italia». Il parere di molti funzionari della Farnesina e della presidenza del Consiglio è che «l' Italia è il primo Paese interessato direttamente a quello che avviene sul campo in Libia, ma da mesi siamo politicamente inattivi».
Inferno Libia, dove muore l’umanità. Uomini torturati, donne abusate, bambini che vivono sotto un cavalcavia, Minacciati dalle bombe. Tra i migranti intrappolati a Tripoli. Dimenticati da tutti. Francesca Mannocchi l'08 novembre 2019 su L'Espresso. Alla fine di aprile Nafisa Saed Musa e suo figlio Abdallah sono scappati dal quartiere di Qasr Bin Gashir, a sud di Tripoli per fuggire dalle bombe di Haftar. La guerra era iniziata da poche settimane, e Nafisa e Abdallah cercavano riparo. È una storia di strazio la loro, una storia in cui le parole d’ordine sono comuni a quelle di decine di altre vite di passaggio in Libia: guerra, fuga, morte, speranza di una vita migliore, e poi tortura, estorsione, prigionia. Durante il nostro primo incontro, lo scorso aprile, Nafisa e il figlio avevano trovato riparo in un edificio nel quartiere di Garden City, in centro a Tripoli, gestito dalla Mezzaluna Rossa libica. Una scuola adibita a riparo per famiglie di migranti, per lo più sudanesi ed eritrei, scappati dai quartieri sotto assedio o evacuati dai centri di detenzione prossimi alla linea del fronte. Abdullah portava addosso i segni delle torture subite durante i mesi di detenzione in mano alle milizie a Sebha, mostrava i segni dei ferri ardenti che gli hanno marchiato la pelle mentre i miliziani ricattavano sua madre chiedendo soldi e sua madre piangeva, per la disperazione di essere bloccata in un paese in guerra dopo essere fuggita dal Sudan. In cerca di pace per sé e per l’unico figlio che le resta.
«Io, trafficante di uomini vi racconto il mio lavoro». «Ho visto gli annegati, mi sono commosso. Ma poi ho pensato che in fondo li avevo aiutati. Se decidono di partire è perché pensano di non avere scelta. Si sentono morti nel loro paese e anche qui». C’era poco cibo nella scuola di Garden City, pochi aiuti, poca acqua. Ma c’era almeno un tetto. E dei bagni. Ma il riparo è durato poche settimane, perché la guerra produce conseguenze dirette e indirette e il proprietario dell’edificio ha privato la Libyan Red Crescent dell’utilizzo dell’edificio assecondando il malcontento dei cittadini libici convinti che i migranti privassero gli sfollati locali degli aiuti che toccavano a loro. Così, da allora, quelle famiglie messe alla porta vivono in strada. Qualcuno ha un materasso, qualcuno no. Qualcuno si ripara sotto il cavalcavia. Nafisa e Abdullah oggi dormono lì, insieme a loro 14 famiglie, 15 bambini, alcuni nati da pochi mesi. Molte donne sole. Asaad al-Jafeer, lavora con la Libyan Red Crescent, aiutava le famiglie a Garden City. Cerca di aiutarli anche in strada. «È una situazione insostenibile. Gli uomini rischiano di essere rapiti, e costretti a combattere dalle milizie. Le donne, rischiano di essere abusate sessualmente», dice mostrando i materassi sporchi a terra, e i secchi di acqua sporca anch’essa – che sostituisce un bagno che non c’è. Per usare un bagno le donne e i bambini vanno in moschea. Almeno per lavarsi, una volta ogni tanto. Asaad al-Jafeer dice di sollecitare da mesi le Nazioni Unite, ma di non ricevere risposta. «Le responsabilità delle Nazioni Unite sono enormi in Libia. Li vedi in televisione, gridare che non vogliono più vedere persone morire in mare. Mi chiedo quale sia la differenza tra vederli morire in mare e lasciarli morire in strada. Si riempiono la bocca di parole come “diritti umani”. Qui ci sono gli umani, i diritti dove sono?». L’ufficio di registrazione dell’Unhcr è proprio dall’altra parte della strada. Le famiglie hanno deciso accamparsi lì per essere più vicine alla sede dell’Agenzia delle Nazioni Unite, e bussare e provare a chiedere informazioni. A chiedere a che punto sono le pratiche, chiedere di essere aiutate. A chiedere di essere evacuati, portati via da un paese in guerra. Perché in Libia si combatte e di notte, dalla strada, si sentono e si vedono i bombardamenti dei quartieri vicini. Così ogni giorno le donne si mettono in fila di fronte alla sede di Unhcr, mostrano i loro fogli di registrazione, ma tornano sempre a mani vuote sui loro materassi sporchi. Vicino ai secchi d’acqua con il logo dell’Oim. Con la paura di morire sotto una bomba. Perché, dice Asaad, «a Tripoli ormai non c’è un posto dove non potrebbe avvenire un bombardamento. Queste persone hanno deciso di vivere qui perché c’è una base militare e pensano così di proteggersi dalle milizie ma le basi militari sono le prime a essere bombardate da Haftar, pensa cosa significhi essere una donna sola con un marito rapito e una bambina di sei mesi che da quando è nata dorme in strada». Naima, 25 anni, era a Qasr bin Gashir quando è iniziata la guerra, sua figlia era nata da sei giorni, suo marito rapito dalle milizie per la seconda volta. Il quartiere era immediatamente diventato un teatro di scontro tra milizie contrapposte, proprio il centro di detenzione di Qasr bin Gashir era stato assaltato da milizie che hanno ferito alcuni dei migranti detenuti. È stato solo il primo degli attacchi che hanno colpito i centri dove vengono imprigionati i migranti. Naima viveva nella stessa area, è scappata via, sola con una neonata. Di suo marito da allora ha perso le tracce. La prima volta che le milizie l’hanno rapito è stato portato a Sebha e costretto a lavorare per un gruppo armato finché la sua famiglia in Sudan non ha trovato il modo di pagare un riscatto sufficiente per farlo liberare. Non ha mai voluto parlare delle violenze subite, quando l’hanno liberato, non ha mai più camminato bene con la gamba sinistra. E delle cicatrici sulla schiena non ha mai dato spiegazione a sua moglie. Oggi, dopo il secondo rapimento, Naima è sola e vive come le altre famiglie in mezzo alla strada, con sua figlia che ora ha sei mesi: «sono spaventata perché so che non c’è un posto dove possiamo scappare. Vado ogni giorno alla sede di Unhcr e chiedo aiuto, e così pure alla polizia libica e così pure alla sede di Oim. Voglio sapere se mio marito sia vivo, se sia finito in un centro di detenzione. Sono arrivata al punto di sperare che sia in prigione ma vivo, piuttosto che temere che sia stato costretto a combattere e sia morto e io potrei non saperlo mai». Poi culla la sua bambina, Naima, e guarda una donna, incinta di nove mesi, sola anche lei e che come lei vive sotto un ponte, e dice: «Piangiamo continuamente. Sappiamo che nessuno ci aiuterà, come nessuno ha aiutato i sopravvissuti di Tajoura». Il due luglio scorso alle 11 e 30 di sera, un bombardamento ha colpito il centro di detenzione di Tajoura, a Tripoli. Dentro c’erano 600 persone. Il bilancio di quell’attacco fu drammatico, 53 migranti morti, almeno 130 feriti. Mohammed era lì quella notte, è scappato dal Ghana un anno fa, due tentativi di attraversare il mare, per due volte intercettato dalla Guardia costiera libica e riportato indietro. È sopravvissuto al bombardamento del centro di detenzione, è scappato correndo sopra i cadaveri di altri sfortunati come lui, si è nascosto per evitare che le milizie lo forzassero a combattere e un mese fa ha provato ad attraversare il mare di nuovo, ma la Guardia costiera libica lo ha catturato e portato indietro. Oggi si trova nel centro di detenzione di Trik al Sikka, a Tripoli, uno dei centri nominalmente gestiti dal ministero dell’Interno libico che ha un ufficio preposto alla gestione delle facility, il Dcim, Department anti illegal migration. Benvenuti all’inferno gridano uomini e bambini al di là di due cancelli di grate, Benvenuti all’inferno. Gridano, implorano, pregano di essere portati via. Perché il centro è luogo di abuso. Perché - dicono - c’è una stanza chiusa a chiave col lucchetto, dove vengono tenuti quelli che i giornalisti e le organizzazioni umanitarie non devono vedere.
Vediamo la stanza, vediamo i lucchetti. Chiediamo - invano - che qualcuno li apra. Mohammed ha vissuto abusi per mesi, sia nei centri di detenzione legali sia in quelli illegali, al confine sud, nel deserto e sulla zona costiera. Li ha subiti anche a Tajoura, dove - dice - «i miliziani potevano entrare indisturbati nonostante fosse un edificio sotto il controllo del governo. I guardiani sono minacciati o in accordo con le milizie, e molte volte i guardiani di notte aprivano le porte ai miliziani che portavano via indisturbati gruppi di migranti per ridurli a schiavi, o per minacciare le loro famiglie in cambio di denaro». Oggi Mohammed indossa ancora i vestiti della notte in cui è stato catturato dalla Guardia costiera, sui suoi abiti ci sono i segni del sale. Sono passate tre settimane, ha perso le scarpe in mare e da allora è scalzo. Nel centro di detenzione di Trik al Sikka ci sono circa 300 persone, la quasi totalità nella sezione maschile, che è una gabbia, di fatto, ci sono reti ovunque, anche nell’area esterna. Ci sono sei bagni per tutti. Tre sono intasati. A terra uomini malati che non ricevono cure, un ragazzo invalido che non riesce a muovere nessuna delle due gambe. In fondo all’unica stanza qualcuno prega, gli altri stesi su materassi luridi consumano il passare del tempo e gridano quando si sente un rimbombo da lontano. Sono bombe, perché a sette chilometri c’è la linea del fronte. Mohammed ha gli occhi di una persona che ha visto la morte, due volte, ed è vivo, solo apparentemente. Ha gli occhi di un reduce, e un filo di forza che è l’istinto di sopravvivenza, il ricordo di sua moglie e dei suoi figli. «L’ultima volta che ci siamo parlati è stata la notte che ho provato ad imbarcarmi», racconta, «poi quando mi hanno portato qui i soldati mi hanno portato via i pochi soldi che mi erano rimasti e il telefono. Mia moglie non sa dove sia, né se io sia vivo o morto».
Vergogna Libia: «Gli aguzzini della guardia costiera sono pagati con i soldi della Ue». Sono stati finanziati 91 milioni in due anni per riportare i migranti nei campi di concentramento di Tripoli. Pierfrancesco Majorino l'08 novembre 2019 su L'Espresso. Sulla Libia si sta consumando una sciagurata vergogna. Di cui è protagonista il nostro Paese e un bel pezzo d’Europa. E non se ne parla mai abbastanza. Anzi, di più. Si sta diffondendo la sensazione che la Libia, in fondo in fondo, possa non essere un problema. O addirittura possa diventare un razionale laboratorio nel quale consolidare l’esternalizzazione delle frontiere europee al fine di limitare gli “arrivi degli immigrati”. La vergogna libica, ovviamente, sta nei campi di concentramento (su cui dopo tornerò) e che molti, tra cui questo giornale, hanno sapientemente raccontato in tutti questi mesi. Ma non solo. Vi è una pagina oscura, una “scatola nera”, che spiega più di tanto altro, il progetto politico, mai esplicitato ma assolutamente visibile, che va affermandosi, nel tempo delle paure. Un progetto politico che ha nell’uso distorto e colpevole dei “soldi degli europei” la sua espressione più sincera e che è frutto di un cammino effettuato silenziosamente in questi anni. Se volessimo fissare un punto di inizio, di questo itinerario di errori, complicità e omissioni, lo collocheremmo nel novembre del 2015, con le conclusioni del vertice di La Valletta a cui presero parte oltre 60 tra capi di Stato e di Governo di Paesi europei e africani. A partire da allora si è materializzata una svolta in materia di politiche migratorie. In quella sede, infatti, muovendo da un proposito assolutamente positivo, quello di definire una strategia di contrasto alle cause profonde che spingono a partenze disperate, si è scelto di mettere a disposizione uno strumento flessibile capace di finanziare interventi immediati. È proprio in quella occasione che viene infatti partorita la leva “innovativa” dei Trust Fund per l’Africa, un fondo fiduciario giustificato da ragioni di emergenza destinato ad intervenire in tre aree: Sahel/Ciad, Corno d’Africa e Nord Africa. Il Fondo ha un budget iniziale di 2,5 miliardi di euro, cresciuto fino agli attuali 4,1. Quasi il 90 per cento di questi finanziamenti arriva dal Fondo europeo di Sviluppo e solo 441 milioni sono risorse aggiuntive versate dai governi nazionali (di cui 112 milioni sono stati promessi dall’Italia).
La difficile sfida postcoloniale della Germania in Africa. Marco Meneghetti il 18 Agosto 2019 su it.insideover.com. A cento anni esatti dalla firma del trattato che ha sancito definitivamente la perdita dei suoi territori d’oltremare, la Germania non riesce ancora a trovare la pace. Alcune ex colonie, in particolare la Namibia, hanno un rapporto controverso con la vecchia madrepatria, fatto di pochi alti, molti bassi e altrettanti scivoloni diplomatici che precludono seriamente a Berlino lo sviluppo di una strategia economica di successo nel Continente nero.
Le ferite del passato. Per capire a pieno che cosa sia stata l’influenza tedesca in Africa durante l’epoca coloniale è necessario fare un passo indietro, e volgere lo sguardo agli ultimi anni del XIX secolo. L’avventura africana della Germania, iniziata relativamente più tardi rispetto a quelle delle altre potenze europee, fu nondimeno di enorme successo: dal 1884 al 1918 il Reich tedesco fu in grado di costruirsi un impero coloniale dalle considerevoli dimensioni, all’epoca il terzo per importanza dopo Gran Bretagna e Francia. All’Africa del Sudovest (l’attuale Namibia) si unirono presto l’Africa orientale tedesca (sui territori degli attuali Tanzania, Burundi e Ruanda), il Togo e il Camerun, oltre ad alcuni possedimenti nel Pacifico. In ognuna di queste colonie vigeva un sistema misto, nel quale l’abilità imprenditoriale degli uomini d’affari tedeschi si univa a un piano ben preciso di conquista militare sostenuto dall’allora kaiser Guglielmo II, allo scopo di costringere le popolazioni locali a cedere terre e risorse in cambio di pochissimi (o addirittura nulli) tornaconti. Un esempio particolarmente tragico di questa strategia di espansione è costituito da quanto accaduto in Namibia tra il 1904 e il 1908, quando si stima che persero la vita tra le 30mila e le 100mila persone appartenenti a diverse tribù della zona come gli Herero, i Nama e i San. La loro opposizione al regime coloniale tedesco venne soffocata nel sangue attraverso la creazione di appositi campi di concentramento nei quali i malcapitati morivano di fame e di sete, o approntando estenuanti marce nel deserto destinate a non lasciare superstiti. Alcuni corpi vennero portati in Germania come trofeo, allo scopo di mostrare agli abitanti del territorio metropolitano in che modo fossero stati sconfitti i nativi: fino al 2011, le ossa e i teschi di alcuni di loro si trovavano ancora negli istituti di medicina legale di alcune università tedesche.
Gli errori del presente. Le successive vicende del XX secolo, e in particolare l’Olocausto e la Seconda guerra mondiale (uno dei primi governatori dell’Africa del Sudovest fu Heinrich Goering, padre del gerarca nazista Hermann), impedirono per molto tempo a questa situazione di venire debitamente alla luce: soltanto nel 2015, lo Stato tedesco ha intrapreso un percorso formale per definire le proprie attività in Namibia un genocidio, ma sino ad oggi non è ancora stata emessa alcuna dichiarazione formale di scuse. La ragione dietro a questo ritardo è fondamentalmente economica: attualmente Berlino non ha alcuna intenzione di ricoprirsi il capo di cenere per poi dover avviare un complesso programma di risarcimenti economici ai discendenti dei gruppi etnici colpiti, che in alcuni casi si sono da tempo costituiti parte civile contro il governo dell’ex madrepatria. Ancora nel 2004 l’allora Ministro per lo Sviluppo economico Heidemarie Wieczorek-Zeul affermava di essere “profondamente addolorata per quanto successo, accettando ogni responsabilità assieme all’intero popolo tedesco”, escludendo però al tempo stesso ogni eventualità di risarcimento, “non necessario poiché, ad oggi, il nostro Paese stanzia 14 milioni di dollari all’anno in aiuti alla Namibia”. Una retorica, quella del considerare gli investimenti economici nel Paese come una forma di riparazione, portata avanti con successo anche da tutti coloro che l’hanno seguita. Per Berlino, contano invece altri gesti: la restituzione della Croce di Pietra, un monumento fatto erigere nel 1498 dai primi esploratori portoghesi sulla costa namibiana, e la recente visita ufficiale effettuata da Daniel Günther, Primo ministro dello Schleswig-Holstein e presidente del Consiglio Federale (e in questo ruolo, quinta carica dello Stato tedesco). Sfortunatamente, quest’ultimo avvenimento non è andato come auspicato da Berlino: nel corso del suo viaggio in Namibia, Günther ha infatti dimostrato una profonda ignoranza della storia e della situazione attuale del Paese, arrivando a elogiare pubblicamente – dinanzi al Consiglio Nazionale di Windhoek – l’aiuto fornito dall’ex Germania Est – quindi, di un satellite dell’Unione sovietica all’epoca noto per la sua violenta repressione di ogni forma di opposizione politica- alla sanguinosa lotta di liberazione messa in atto negli anni Ottanta dalla popolazione namibiana, rimasta fino al 1990 sotto protettorato sudafricano (e quindi soggetta alle medesime leggi dell’apartheid). Come se non bastasse, il politico tedesco ha inoltre incitato il presidente Hage Geingob e il suo governo a prendere misure per debellare l’annosa questione dell’assegnazione dei territori alla popolazione, “cogliendo l’occasione per rispettare la proprietà privata e aprire così agli investimenti stranieri”: uno scivolone notevole, considerato che in Namibia il problema ruota attorno alle inuguaglianze sociali (retaggio anch’esso dell’epoca coloniale) e non al mancato rispetto della sfera privata, mai messa in discussione.
Un sorpasso annunciato. Queste e altre gaffe, come il tentare di accelerare i negoziati per le scuse ufficiali soltanto in corrispondenza con determinate finestre nel calendario elettorale tedesco (un fatto occorso nel 2017), non hanno fatto che contribuire alla perdita di credibilità della Germania non solo in Namibia, ma per estensione in tutti i suoi ex territori africani, subendo un inevitabile sorpasso da parte di tutte quelle potenze (Cina, Russia, Usa ma anche Giappone ne Francia) seriamente impegnate nel continente. Neppure la creazione del Germany Africa Business Forum, focalizzato su startup e energie rinnovabili, sembra essere un passo decisivo in questo senso. Anche in Togo, il Paese del Continente nero più vicino a Berlino nel corso degli anni Settanta e Ottanta, si è registrato un vuoto diplomatico durato vent’anni, colmatosi soltanto in tempi recenti con l’instaurarsi di modeste relazioni commerciali. In Camerun, un contingente militare tedesco si è recentemente ritirato tra le polemiche, in quanto la missione, formalmente di addestramento per le forze locali, non era mai stata autorizzata dal Bundestag. E nell’ex Africa Orientale Tedesca, Ruanda in primis, le cose non vanno certo meglio: recentemente, Deutsche Welle ha dedicato un ampio reportage ai legami tra Berlino e Kigali negli anni Novanta, sottolineando come la Bundeswehr fosse al corrente del deterioramento della situazione politica ruandese preludio al terribile genocidio del 1994. Avvisaglie che, sembra, non furono però prese in considerazione dal governo tedesco. Con tali premesse, non c’è da sorprendersi se la Germania, un tempo padrona di enormi porzioni di Africa, oggi si trovi in estrema difficoltà nel gestire gli Stati eredi del suo impero coloniale: la convinzione che gli aiuti allo sviluppo e una forte presenza di turisti di nazionalità tedesca nella ragione (ad esempio in Tanzania) non è sufficiente a nascondere, o ancora peggio, cancellare, una politica che al momento non si può evitare di definire inetta.
Libia 2011: quando la Nato supportò al Qaeda contro Gheddafi. Piccole Note su Il Giornale il 16 agosto 2019. In Libia la Nato intervenne in supporto di al Qaeda. Lo rivela il documentato studio di Alan J. Kuperman, che ha analizzato l’immane documentazione pubblicata al tempo dai rivoltosi sul web. Fonti dirette, dunque, inequivocabili. Nell’articolo pubblicato sul National Interest il professore della lbj School of Public Affairs di Austin (Texas) dettaglia quanto avvenne in quel fatidico 2011, quando la Libia fu teatro di un’insurrezione contro Muammar Gheddafi, travolto poi dall’intervento Nato.
Libia: falsità di una narrazione. Kuperman rammenta quanto ormai acclarato da indagini precedenti, che cioè l’intervento dell’Occidente ebbe “false giustificazioni”. Non era vero che Gheddafii stesse “massacrando civili”, in realtà il regime stava contrastando “con attenzione delle forze ribelli che avevano attaccato per prime”. In secondo luogo, l’apparente “missione umanitaria” era in realtà un’operazione di regime-change che accrebbe “il bilancio delle vittime di almeno dieci volte, promuovendo l’anarchia che ancora persiste”. La narrazione ufficiale vuole che i disordini libici abbiano avuto inizio con proteste pacifiche, contro le quali. Il regime avrebbe usato la forza letale, costringendo i manifestanti a prendere le armi. “Questi ribelli dilettanti – secondo tale narrazione – presero poi il controllo della Libia orientale in pochi giorni, spingendo Gheddafi a schierare forze per commettere un genocidio, che fu interrotto solo dall’intervento” Nato. In verità, “studiosi e gruppi per i diritti umani hanno da tempo smentito parti fondamentali di questa narrazione: la rivolta è stata violenta sin dal primo giorno, il regime ha preso di mira i militanti e non i manifestanti pacifici e Gheddafi non ha minacciato nemmeno verbalmente i civili disarmati”.
La Nato in soccorso di Al Qaeda. Resta però il mistero su chi “ha effettivamente realizzato la ribellione nella Libia orientale”, ovvero su quei “militanti che hanno salvato i manifestanti dalla sconfitta e hanno aiutato a rovesciare Gheddafi”. La narrazione convenzionale suggerisce “improbabilmente” che i pacifici manifestanti, “reagendo spontaneamente alla violenza del regime, si siano in qualche modo impossessati di armi e abbiano conquistato metà del Paese in una settimana”. “La verità ha molto più senso: la ribellione è stata guidata da veterani islamici delle guerre in Afghanistan, Iraq e Libia. Pertanto, gli Stati Uniti e i suoi alleati, non rendendosene conto in quel momento, intervennero per sostenere Al Qaeda”. Questo, in sintesi, quanto scoperto da Kuperman, che dettaglia giorno per giorno, scontro per scontro, i primi giorni di insorgenza. E spiega come in realtà Gheddafi fu più che moderato rispetto ai manifestanti pacifici, “facilitando in tal modo la rivoluzione di al Qaeda”. Egli, infatti, “ha perseguito la riconciliazione politica con gli islamisti, liberando centinaia di prigionieri, che lo hanno ricambiato rovesciandolo e uccidendolo”. “In secondo luogo, all’inizio del 2011, Gheddafi si è astenuto da compiere forti ritorsioni contro l’insurrezione armata per evitare di recare danno ai civili, ma ciò ha dato slancio agli insorti e ha incoraggiato altri libici a unirsi a loro, aiutandoli a conquistare rapidamente l’Oriente”. Il leader libico, sostiene Kuperman, avrebbe invece avuto facilmente la meglio sugli insorti se non si fosse aperto a una riconciliazione con i suoi avversari e avesse lasciato in galera gli islamisti.
Al Qaeda, dalla Libia alla Siria. Per Kuperman gli errori di valutazione dell’Occidente furono causati da una mancanza di approfondimento da parte di media, intelligence e politici. Lettura minimalista, che nulla toglie al coraggio dell’autore dello studio. Resta però arduo credere che l’intelligence Usa, che dopo l’attentato alle Torri Gemelle monitorava costantemente al Qaeda, non fosse a conoscenza che i bastioni della rivoluzione anti-Gheddafi nella Libia orientale coincidevano con i presidi di al Qaeda. Insomma, una grande menzogna, la narrazione della rivolta libica propagandata allora, che nonostante tutto perdura. Pur non potendo negare la tragedia prodotta dall’intervento, evidente dal caos in cui è sprofondata la Libia, resta comunque consegnata alla storia l’idea di un regime che ha massacrato civili inermi, che andava comunque rovesciato. Solo, è l’autocritica di oggi, occorreva una pianificazione più accurata, che prevedesse un nuovo ordine post-Gheddafi. Ma al di là, la scoperta che l’intervento della Nato in Libia è stato in supporto di al Qaeda non ha solo implicazioni storiche. Riguarda anche il presente. Basti pensare alle Siria, dove l’ambigua convergenza tra Occidente e al Qaeda si è replicata, in maniera altrettanto tragica, contro Assad. Ma sul punto torneremo, limitandoci per ora a registrare che l’ultima enclave siriana di al Qaeda vacilla: l’esercito di Assad, infatti, sembra sul punto di riprendere il controllo di Khan Sheikhoun, città chiave dell’enclave di Idlib, ultimo baluardo del Terrore nella Siria tornata sotto il controllo di Damasco (resta agli Usa il Nord Est). Potrebbe rappresentare un punto di svolta decisivo dopo otto anni di tragedie inenarrabili.
Marco Benedetto per Blitz Quotidiano il 23 luglio 2019. Macron è senza pudore, Salvini il bullo ha ragione, cari compagni, dovete ammetterlo. Non arroccatevi nella vostra ideologia da parrocchia. La Francia di Nicolas Sarkozy, predecessore di Emmanuel Macron, scatenò la guerra in Libia che è all’origine delle nuove ondate di sbarchi. La Francia di Macron rifornisce il generale ribelle Haftar di missili. Lo ha pubblicato il Fatto il 15 luglio 2019, Haftar con i missili americani venduti alla Francia e dalla Francia regalati a Haftar bombarda i campi profughi. Macron, nuovo Napoleone, convoca gli europei, informalmente ma tanto basta, perché ritiene che le navi delle Ong debbano portare i loro carichi di africani in Italia, in quanto la Libia non è un posto sicuro. Lo si legge fra gli altri su Repubblica, che sembra concordare. Uno come Macron, in America o in Inghilterra, lo avrebbero affidato alle assistenti sociali e la professoressa che lo ha sedotto avrebbe scontato parecchi anni di galere. I francesi l’hanno fatto presidente e lei premiere dame. I giornali italiani, pur di dare contro Salvini, si gettano nelle braccia dei francesi. Salvini ha tante colpe, compresa quella di grattare la pancia a quella parte d’Italia che meno ci piace. Ma non è da meno Macron, bravo nei giochi di immagine ma abbastanza incapace di ben amministrare il suo Paese. I gilet gialli sono contro di lui non contro i nostri governanti. Per quanto pessimi, i nostri a questo non sono ancora arrivati? Ma anche la sinistra dei diritti e dei valori si sta rivelando cieca e pasticciona. Sul piano politico, vale ricordare l’autocritica pronunciata da Togliatti quasi un secolo fa, quando individuò fra le colpe del Partito comunista quella di avere snobbato le inquietudini della piccola borghesia e di avere abbandonato questo segmento di società italiana nelle braccia di Mussolini e del Fascismo. Quando Paolo Gentiloni e Marco Minniti hanno cercato di far capire che sicurezza e ordine pubblico sono concetti anche di sinistra, per poco non li buttavano giù dalle sedie. Sul piano pratico, tutto l’impegno della pseudo sinistra italiana si limita alla acccoglienza: venite, venite, avanti c’è posto. Nessuna attenzione all’impiego di migranti, nessuna cura nel predisporre corsi di qualificazione, nell’utilizzo di questa potenziale forza lavoro, come si evince guardando le foto che circolano sui siti di sinistra, tutti giovanottoni robusti e palestrati, pronti, se non bene indirizzati, a rinforzare i ranghi della malavita. I più ben motivati, si danno da fare, spontaneamente, a fingere di fare qualcosa di utile. A Trastevere, a Roma, alcuni robusti giovanotti spazzano da una decina di metri di marciapiede le foglie che cadono di continuo. L’operazione richiede un quarto d’ora. Il resto del tempo in loco lo passano contemplando un cestino per le elemosine. Conosco questo genere di sinistra (i comunisti erano un’altra cosa, ma si sono estinti o, come i Neanderthal, sono mutati nel nuovo genere di homo sinistrus sinistrus) da mezzo secolo almeno, sono tutti uguali. Ragionano col cuore, li muovono ideali, le cose pratiche non sono mai il problema, la realtà è sempre un’altra, il realismo è comunque una vergogna etica.
Franco Cfa: il libro che racconta l’arma segreta della Francia in Africa. Roberto Vivaldelli il 30 aprile 2019 su Gli Occhi della Guerra. “La Francia è l’unico Paese al mondo a essere riuscito nella straordinaria impresa di far circolare la sua moneta, e solo la sua moneta, in paesi politicamente liberi”. Così l’economista camerunese Joseph Tchundjang Pouemi nel 1980 si riferiva al Franco Cfa – che inizialmente significava franco delle Colonie Francesi d’Africa e oggi invece è diventato acronimo di “Comunità Finanziaria Africana”. Perché a differenza di certa letteratura “francocentrica” il Franco Cfa rimane un formidabile cordone ombelicale che ha continuato a stringere il collo delle ex colonie e che ancora oggi – a più di mezzo secolo dalla fine del colonialismo francese – garantisce alla Francia il controllo di un’enorme area economica in Africa. Un argomento affrontato con grande competenza e documenti alla mano dalla giornalista francese Fanny Pigeaud e dall’economista africano Ndongo Samba Sylla nel nuovo libro pubblicato da Fazi Editore L’arma segreta della Francia in Africa. Una storia del franco Cfa(Traduzione di Thomas Fazi, Collana Le terre, pp.240, Euro 18,00), in libreria dal 2 maggio.
Il Franco Cfa, uno strumento di dominio della Francia in Africa. Il saggio di Pigeaud e Sylla racconta in maniera articolata ma accessibile la storia del Franco Cfa e del suo funzionamento. Come spiegano gli autori, siamo in presenza di un meccanismo che ha dell’incredibile: la Francia utilizza il suo presunto ruolo di “garante” come pretesto e strumento di ricatto nei confronti delle sue ex colonie, al fine di tenerle nella propria orbita, sia economicamente che politicamente. Peggio ancora, proseguono Pigeaud e Sylla, gli Stati africani non solo garantiscono con le proprie riserve la convertibilità del Franco Cfa, ma continuano, di fatto, a “garantire” alla Francia importanti benefici economici e la sua posizione di spicco nell’economia globale. Un sistema, quello del Franco Cfa, basato su un “gioco delle tre carte”.
Ecco come funziona il Franco Cfa. In passato, la propaganda coloniale francese presentava la “madrepatria” come una forza che proteggeva gli africani. Oggi Parigi afferma che il Franco Cfa è diventato una “moneta africana”, ma come spiegano gli autori, quest’affermazione è perlopiù falsa e il meccanismo che sottende al Franco Cfa è semplicemente “diabolico”. Infatti, esso consente alla Francia di gestire i suoi rapporti economici, monetari, finanziari e politici con alcune delle sue ex colonie secondo una logica funzionale ai suoi interessi. Dal 1962 la zona del franco include solo gli Stati dell’Africa subsahariana, oltre alla Francia e ai tre territori che utilizzano il franco pacifico: la Nuova Caledonia, la Polinesia Francese e Wallis e Futuna. Oggi include tre sottoinsiemi in Africa: l’Unione Economica e Monetaria Ovest-Africana (Uemoa, che comprende il Benin, il Burkina Faso, la Costa D’Avorio, la Guinea Bissau, il Mali, il Niger, il Senegal e il Togo), la Comunità Economica e Monetaria dell’Africa Centrale (Cemac, che comprende il Camerun, il Congo, il Gabon, la Guinea Equatoriale, la Repubblica Centrafricana e il Ciad) e l’Unione delle Comore. Ciascuno di questi ha una sua banca centrale.
I quattro principi alla base del Franco Cfa. Come spiegano Pigeaud e Sylla, il funzionamento del sistema Cfa continua a basarsi su quattro principi correlati: il cambio fisso, la libertà di movimento dei capitali, la convertibilità illimitata e la centralizzazione delle riserve valutarie. Quattro principi che, secondo gli autori, continuano a fare dei Franchi Cfa e delle Comore delle monete satelliti della moneta francese. In quanto moneta unica, il Franco Cfa implica peraltro diversi vincoli: i Paesi che lo utilizzano, infatti, non hanno la possibilità di scegliere una parità adeguata alla propria situazione economica nazionale. La chiave di volta del sistema descritto dagli autori è il “conto operativo”, un conto bancario molto particolare, specifico per la zona del franco, creato dall’amministrazione francese durante il periodo coloniale. Quando i conti operativi sono in credito, le banche centrali della zona del franco di fatto finanziato il Tesoro francese poiché mettono a sua disposizione le loro riserve in valuta estera. Per contro, quando i conti operativi sono in debito, le banche centrali devono pagare degli interessi al Tesoro francese. In questo meccanismo, la piazza di Parigi è essenziale per qualsiasi acquisto e vendita di valute diverse dall’euro contro i Franchi Cfa.
I vantaggi economici e politici della Francia. Grazie al Franco Cfa, Parigi mantiene un solido ancoraggio nelle istituzioni africane della zona del franco e prende tutte le decisioni riguardanti i franchi Cfa e delle Comore, “spesso senza nemmeno informare preventivamente gli Stati interessati”. Questo avvenne in occasione della svalutazione del franco francese del 1958 e dell’agosto 1969. Nel 1994. la Francia decise, contro la volontà degli Stati africani, di svalutare del 50 per cento i Franci Cfa. Lo stesso accadde con la transizione del franco francese all’euro, avvenuta il 1° gennaio del 1999. Il libro spiega come le autorità francesi tengano moltissimo a mantenere il controllo del dispositivo del Franco Cfa, a difendere la sua integrità e a evitare che i Paesi africani lascino la zona del franco. Nel 1970, il Consiglio Economico e Sociale francese stilò, in un rapporto, l’elenco dei “vantaggi incontestabili per la Francia” derivanti dal mantenimento della zona del franco. Un rapporto che evidenziò come i Paesi africani stessero fornendo a Parigi sempre più riserve, necessarie per regolare il loro deficit commerciale nei confronti dell’economia francese.
L’accesso privilegiato alle materie prime. Grazie al sistema del franco, Parigi rimane uno dei primi creditori degli Stati della zona, il che presenta innumerevoli vantaggi: su ogni prestito che concede, guadagna soldi e strumenti di pressione nei confronti dei suoi debitori. Dopo decenni, la missione del Franco Cfa è rimasta immutata: servire gli interessi economici della Francia, fornendo altresì un accesso privilegiato a un ampio ventaglio di risorse agricole, forestali, minerarie ed energetiche, acquistando queste materie prime dai Paesi della zona del franco nella propria valuta. Naturalmente, tutto questo accade con la complicità delle élite africane che sono salite al potere – e continuano ad esercitarlo – con il sostegno dell’Eliseo. Ma ora, come il libro di Fanny Pigeaud e di Ndongo Samba Sylla racconta, il Franco Cfa rappresenta un sistema che va messo in seria discussione.
"Moneta coloniale", ambasciatrice italiana convocata dalla Francia dopo le frasi di Di Maio. Moscovici: “Provocazioni”. Teresa Castaldo convocata al ministero degli Esteri dopo che il vicepremier aveva parlato di "indebolimento" dell'economia di alcuni Paesi africani da parte di Parigi. Sullo stesso argomento erano intervenuti anche Alessandro Di Battista e il senatore pentastellato Gianluigi Paragone. Leader M5s insiste: "No caso diplomatico, tutto vero". Il Pd: "Moavero riferisca in Aula", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 21 Gennaio 2019. La Francia ha deciso di convocare l’ambasciatrice italiana a Parigi, Teresa Castaldo, dopo le parole del vicepremier Luigi Di Maio – nonché di Alessandro Di Battista e Gianluigi Paragone – sul franco Cfa, la ‘moneta coloniale’. Castaldo sarà ricevuta dal ministero degli Affari europei francese. Fonti diplomatiche parigine, aggiunge l’Ansa, spiegano che si tratta di dichiarazioni “ostili e senza motivo” visto “il partenariato della Francia e l’Italia” in seno all’Unione Europea. “Vanno lette – aggiungono le stesse fonti – in un cotesto di politica interna italiana”. La stessa lettura viene data dal commissario Ue, Pierre Moscovici, che parla di “provocazioni” dal “contenuto vuoto e a volte irresponsabile”. Mentre il vicepremier rivendica quanto affermato domenica: “Non c’è nessun caso diplomatico, è tutto vero”. Una linea confermata in serata all’assemblea congiunta dei parlamentari del M5s, quando il vicepremier ha replicato a Moscovici: dicendo che stiamo attaccando un paese amico, in pratica sta dicendo che sta diventando nemico, è il senso del discorso fatto ai suoi. Parlando dei flussi migratori, il leader del M5s aveva spiegato che “ci sono Paesi, come la Francia che in Africa continua ad avere delle colonie di fatto, con la moneta, che è il franco, che continua a imporre nelle sue ex colonie” soldi “che usa per finanziare il suo debito pubblico e che indeboliscono le economie di quei Paesi da dove, poi, partono i migranti”. L’ex deputato Di Battista, intervenendo a Che tempo che fa, domenica sera, aveva invece detto che con la Francia bisogna arrivare all’incidente diplomatico: “Salverei le persone e le porterei a Marsiglia, fino a che non si crea un incidente diplomatico con la Francia il problema non si risolve”. Lo stesso tema era stato riproposto dal senatore Paragone lunedì mattina, definendola “una questione importante” e un “sistema inaccettabile” da denunciare nelle sedi europee: “Come ha detto Alessandro, è il momento di fare luce e intervenire su questo scandalo troppo a lungo taciuto”. Per l’ex giornalista di La7 si tratta di “uno strumento neocoloniale con cui la Francia – spiega – rende deboli e dipendenti le economie di 14 ex colonie africane alimentando in quei Paesi povertà e conseguenti flussi migratorie traendone grossi vantaggi finanziari”. Moscovici, avvertendo che non rilascerà ulteriori commenti e augurandosi che si possa “superare questo stadio conflittuale”, spiega: “Come europeo e come francese, vorrei dire che la qualità delle relazioni tra Parigi e Roma è importante e questa deve restare la volontà comune per coloro che dirigono i Paesi, quali che siano i partiti che sono al potere”. E aggiunge: “Vorrei che si potesse rapidamente superare questo stadio conflittuale, che è assolutamente negativo, nefasto e insensato. Basta guardare alla geografia, alla storia, all’economia e alla cultura per vedere che questi due Paesi sono estremamente vicini e devono restarlo. Non può essere altrimenti. Dunque, le provocazioni fanno sempre il gioco di chi le fa”. Per Di Maio “non c’è alcun caso diplomatico” perché “io credo che sia tutto vero”. La Francia, insiste, “è uno di quei Paesi che stampando la moneta per 14 Stati impedisce lo sviluppo e contribuisce alla partenza dei profughi. Se l’Europa in questo momento vuole avere un po’ di coraggio, deve avere la forza di affrontare il tema della decolonizzazione. Noi abbiamo acceso un faro di verità”. La convocazione ha provocato l’immediata reazione del Pd: “Le dissennate dichiarazioni di Di Maio rischiano di aprire una guerra diplomatica con un Paese storicamente alleato e nostro vicino”. Per questo, i dem annunciano che martedì alla conferenza dei capigruppo chiederanno “l’immediata convocazione in aula del ministro degli Esteri” Enzo Moavero Milanesi “del tutto scomparso in questa fase”. Il capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, e il capogruppo in commissione Esteri, Alessandro Alfieri, aggiungono: “Qualcuno deve far capire a Di Maio che non è più un ragazzo che sta sui tetti di Montecitorio, ma il vicepresidente del Consiglio”. Per l’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, invece con “il loro bisogno di crearsi nemici sta ridicolizzando 70 anni di politica estera italiana”.
Franco CFA, Claudio Martelli ridicolizza Di Maio e Di Battista: "Roba da disturbati mentali", scrive il 22 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. La polemica sollevata da Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista contro la Francia e il presunto colonialismo occulto con il franco CFA ha portato l'Italia a un passo dall'incidente diplomatico con Parigi. Prima il vicepremier, poi l'ex parlamentare nel salotto di Fabio Fazio hanno agitato la banconota franco-africana, strumento a detta loro del governo francese per impoverire i Paesi africani e quindi incentivare l'emigrazione in Europa e in Italia. Di tutto questo insieme di accuse, l'ex ministro socialista Claudio Martelli ne ha dato una definizione eloquente: "Una supercazzola, cioè una frase priva di senso composta da un insieme casuale di parole senza nesso con la realtà o esposta in modo ingannevole a interlocutori di cui si suppone l'ignoranza". Quella moneta nata cinquant'anni fa, spiega Martelli, era stata adottata da 14 ex colonie francesi quando sono diventate indipendenti con uno scopo preciso: "Assicurare la stabilità finanziaria con una moneta comune, e perciò più solida, a Paesi che stavano attraversando la fase di decolonizzazione. Fu una scelta libera e volontaria - ha ricordato l'ex ministro - e in qualunque momento i paesi interessati possono revocarla". Ma i grillini non la pensano come Martelli, che non si spiega come abbiano potuto scambiare una moneta per una tassa e "imbastirci sopra una provocazione a freddo nei confronti di un Paese amico e alleato è materia che esula da una discussione politica: potrebbe entrare invece nel novero dei disturbi mentali". Cercare una spiegazione politica, magari nell'eterna rincorsa tra Di Maio e Salvini, è secondo Martelli operazione abbastanza fuorviante: "Sta di fatto che l'ultima trovata del vice presidente del Consiglio, oltre al ridicolo, ci è già costata l'umiliazione di vedere la nostra ambasciatrice a Parigi convocata dal ministro degli Esteri francese. Spiegare perché il governo italiano incolpi la Francia e il franco africano delle carestie e delle ondate migratorie verso l'Europa, senza alludere alle sinapsi grilline, non sarà semplice".
Di Maio e Di Battista sull’Africa sbagliano mira: i veri colonizzatori sono Cina e Stati Uniti, scrive Mauro Bottarelli il 23 gennaio 2019 su it.businessinsider.com. L’ultimo mantra del fronte sovranista/populista, declinato nelle sue varie sfumature, è servito: la Francia sfrutta l’Africa attraverso il signoraggio monetario del franco Cfa e, in questo modo, drena risorse, impoverendo quei Paesi da cui la gente scappa per venire in Italia. Spesso e volentieri, morendo nel Mediterraneo. Semplicistico. Di fatto, falso come una banconota del Monopoli. Ma efficace a livello mediatico e, soprattutto, social. Se infatti la questione del franco africano o Cfa è meramente legata a una questione di bilanciamenti di riserve cui la Banca centrale francese fa da garanzia rispetto al rischio sui cambi, quindi nulla che dreni risorse agli investimenti in loco, più interessante è come la vera colonizzazione in atto in Africa stia bellamente passando sotto silenzio. E non da oggi. Esattamente, dalla fine di luglio del 2012, quando a Pechino si tenne il 5° Forum di Cooperazione Cina-Africa, ribattezzato poi dagli analisti geopolitici “Conferenza di Pechino” per la sua importanza strategica, paragonata appunto alla Conferenza di Berlino del 1885, in cui nacque di fatto l’Africa post-coloniale con logica spartitoria delle grandi potenze. Primo dato interessante: a quel Forum, l’unico soggetto privato che fu invitato rispondeva al nome di Goldman Sachs. Secondo, la Cina annunciò investimenti in Africa per 20 miliardi nei tre anni successivi, un tassello nel mosaico di investimenti partiti nel 2010 nel Continente africano per un ammontare di 101 miliardi, 90 dei quali legati direttamente a costruzioni e risorse naturali, fra cui 7,5 miliardi di progetti minerari con Sud Africa e Zambia, come mostrano questi grafici. Il secondo dei quali, qui sotto, mostra la magnitudo dell’intervento cinese in Africa. E, soprattutto, l’accelerazione di quella che assume con il tempo sempre più il carattere di una colonizzazione. Ma, occorre essere sinceri, senza sparare un proiettile. E, soprattutto, nella gran parte dei casi, salutata con gioia e soddisfazione dai governi locali. Quali conseguenze, però? Il grafico parla chiaro e schematizza i dati al riguardo elaborati dalla China-Africa Research Initiative della Johns Hopkins School of Advanced International Studies, in base ai quali la Cina ha “prestato” un totale di 143 miliardi di dollari a 56 nazioni africane, soprattutto attraverso l’operatività della Export-Import Bank of China e della China Development Bank. A livello settoriale, quasi un terzo dei prestiti sono andati a finanziare progetti legati ai trasporti, un quarto all’energia e il 15% verso le risorse minerarie di vario genere (e utilizzo, dai processori di smartphone e pc fino agli idrocarburi). Soltanto l’1,6% del totale stanziato è andato a programmi educativi, sanità, tutela ambientale, alimentazione e settore umanitario. Insomma, Pechino non fa mistero delle finalità della sua missione africana: il comparto commodity e commercio, innanzitutto. E anche la scelta dei principali beneficiari degli aiuti non è casuale, visto che sono sette i Paesi – Angola, Camerun, Kenya, Repubblica del Congo, Etiopia, Sudan e Zambia – che pesano per i due terzi degli stanziamenti cumulativi cinesi nel 2017, con l’Angola che da sola ha beneficiato del 30%, pari a 43 miliardi di dollari o il 35% del suo Pil. L’Angola, nemmeno a dirlo, è piena di petrolio. Non a caso, recentemente proprio quel Paese ha stretto un ulteriore accordo loans-for-oil con Pechino, la quale è ben felice di aver siglato un contratto più che vantaggioso per la fornitura di greggio, a fronte del debito legato al settore infrastrutturale che strangola il governo di Luanda. Stando a uno studio dell’Fmi dell’aprile 2018, in base ai dati a disposizione a fine 2017, circa il 40% delle nazioni a basso reddito dell’Africa sub-sahariana erano in condizioni debitorie fuori controllo o a forte rischio di non sostenibilità delle dinamiche dei conti pubblici, fra cui l’Etiopia, la Repubblica del Congo e lo Zambia. E questo Pechino lo sa bene. Talmente bene che nel settembre 2018, parlando al Forum triennale di Cooperazione Cina-Africa, Xi Jinping in persona – senza che alcun governo o esponente politico occidentale avesse nulla da eccepire – arrivò a definire gli investimenti cinesi in Africa with no strings attached, quindi senza un doppio fine o alcun obbligo accessorio per i governi che li ricevevano e annunciò altri 60 miliardi di dollari di stanziamenti entro il 2021. Peccato che nell’arco di nemmeno un mese, la verità fece capolino, ancorché silenziata. Se la Kenya Railways Corporation farà default sul prestito concessogli con tanta magnanimità e disinteressatamente dalla Exim Bank of China, lo strategico porto di Mombasa diventerà cinese. Al centro della disputa, il cosiddetto Madaraka Express, ovvero una linea ferroviaria interamente finanziata e costruita da cinesi, i cui costi sono lievitati in maniera folle durante i lavori, spingendo molti osservatori esterni a questionarne l’attuabilità e la validità a livello finanziario. Pechino non fece un plissé: in base agli accordi con il governo del Kenya, in caso di fallimento le autorità cinesi avrebbero pieno diritto a un ricorso e alla facoltà di rivalersi su assets sotto il controllo del debitore. Ma oltre a Kenya e Angola, anche lo Sri Lanka ha avuto un esempio pratico del concetto di no strings attached cinese, visto che l’incapacità di ripagare in pieno il debito da 8 miliardi di dollari legato a progetti infrastrutturali contratto con Pechino, ha garantito a quest’ultimo nel dicembre del 2017 l‘ottenimento per una sua sussidiaria statale di una quota di controllo per 99 anni in leasing operativo del secondo porto del Paese, Hambantota. Stesso destino, di fatto, capitato al nuovo porto di Gwadar in Pakistan, direttamente sullo strategico Golfo di Oman: il 90% delle sue revenues, infatti, per contratto di finanziamento finiscono a un operatore cinese, la China Overseas Port Holding. Non a caso, l’infrastruttura è la punta di diamante del cosiddetto China-Pakistan Economic Corridor (Cpec), a sua volta inserito nel mega-progetto infrastrutturale cinese conosciuto come One Belt, One Road o Maritime Silk Road. Insomma, un palese esempio di investimento senza doppio fine. Quasi a fondo perduto. Ma se la Cina si muove forza quattro in Africa, garantendo finanziamenti che spesso sono finalizzati a una logica quasi da strozzinaggio verso governi corrotti e indebitati e riservando alle necessità dei popoli – quelli che scappano – solo le briciole di quegli investimenti, gli Usa non sono da meno. Ma preferiscono colonizzare attraverso la presenza militare, a sua volta garantita e quasi benedetta degli autoctoni in nome della lotta al terrorismo e al fondamentalismo. Di fatto, un do ut des verso Washington che si sostanzia in un’implicita assicurazione sulla vita da future esportazioni di democrazia. Il 2 agosto scorso, prendendo il comando dello US Army Africa o Africom (Us African Command), il generale Roger L. Cloutier fu molto chiaro rispetto alle finalità della presenza statunitense: “Hit the ground running”. E nonostante gli Usa non stiano combattendo ufficialmente alcuna guerra in Africa, nel Continente sono presenti circa 7.500 militari americani (inclusi circa 1.000 contractors privati), oltre 4mila dei quali sono dispiegati nell’Africa dell’Est, con la Somalia che da sola ha visto raddoppiare il numero di divise Usa sul suo suolo in un anno. In generale, solo l’anno scorso i militari statunitensi erano meno di 6mila. Particolarmente attive sono le forze specali, fra cui reparti dei marines e Navy Seals, le quali attualmente stanno operando circa 100 missioni in 20 nazioni africane: stando al settimanale Vice, annualmente sono 3.500 le operazioni di militari Usa nel Continente africano, una media di 10 al giorno e qualcosa come il 1.900% di aumento negli ultimi dieci anni. Particolarmente importante è l’operatività della sorveglianza tramite i droni, la quale contempla anche missioni operative di intelligence di raid oltre-confine. In tal senso e con tale finalità, è in costruzione un’enorme base a Agadez, la più grande città del Niger centrale, dalla quale quest’anno decolleranno i primi MQ-9 Reaper, droni con un capacità d’azione di 1.850 chilometri, capaci di offrire supporto logistico per operazioni nell’Africa del Nord e dell’Ovest e armati con bombe GBU-12 e missili aria-terra Hellfire. Attualmente in Niger sono presenti circa 800 militari statunitensi, il tutto con una base droni già operativa e quella di Agadez in costruzione: se per The Hill, quest’ultima “rappresenta l’infrastruttura militare dell’aeronautica Usa più grande di tutti i tempi”, Business Insider ha confermato che “la presenza Usa in Niger è seconda solo a quella dell’unica base militare permanente degli Stati Uniti in Africa, Camp Lemmonier a Djibouthi”. E questi due grafici mettono la questione in prospettiva, spiegando il motivo per cui gli Usa nel 2014 hanno siglato di corsa con il governo di quel Paese un rinnovo ventennale dell’utilizzo del complesso e promesso lavori di espansione e ammodernamento per oltre 1,4 miliardi di dollari. Djibouthi è il punto di osservazione e controllo perfetto su uno dei chokepoint di passaggio del traffico petrolifero più importanti del mondo, lo stretto di Bab El-Mandeb con i suoi ormai 4,7 milioni di barili di greggio transitanti ogni giorno. Non a caso, nel 2017 la Cina ha strappato al governo di Djibouthi – pagando un prezzo molto alto a livello di investimenti in una nazione con meno di 1 milione di abitanti, fra cui la costruzione di porti, strade, aeroporti e una ferrovia diretta e ultramoderna verso la capitale dell’Etiopia, Addis Abeba – il via libera per una sua base nell’area della capitale, proprio come contraltare e sorvegliante di Camp Lemmonier. Avamposto che ufficialmente servirà come supporto logistico a missioni sotto l’egida dell’Onu e per operazioni anti-pirateria ma che per la rivista The Diplomat formalmente garantirà alla Cina la sua presenza almeno fino al 2026 e con fino a 10mila soldati di stanza. Detto fatto, a marzo dello scorso anno gli Usa hanno siglato un accordo militare con il Ghana – spacciato per memorandum d’intesa sui termini di operatività nel Paese – che include la costruzione di strutture militari da parte dell’esercito statunitense, decisione che ha suscitato la protesta della popolazione. Proprio sicuri che la questione del franco Cfa sia così dirimente per i destini dell’Africa e la sofferenza della sua gente in fuga? Davvero, al netto della reale colonizzazione dell’Africa da parte di Cina e Usa, si tratta di un argomento che vale una crisi diplomatica con la Francia, come auspicato e prontamente ottenuto da Alessandro Di Battista?
Africa sfruttata dal neocolonialismo francese, Meloni smaschera la sinistra: “Ve ne accorgete ora?”, scrive domenica 20 gennaio 2019 la redazione di secoloditalia.it. Luigi Di Maio “scopre” un tema caro alla destra italiana, il “neocolonialismo francese”, per attaccare il presidente Macron, depistare i suoi elettori di sinistra turbati dalla linea sull’immigrazione e alimentare il “conflitto” politi con Parigi, dopo la delegittimazione arrivatagli dai gilet gialli... “Ci sono decine di Paesi africani in cui la Francia stampa una propria moneta, il franco delle colonie e con quella moneta si finanzia il debito pubblico francese. Se la Francia non avesse le colonie africane, perché così vanno chiamate, sarebbe la 15 esima forza economica mondiale. Invece è tra le prime grazie a quello che sta combinando in Africa. La Ue dovrebbe sanzionare la Francia e tutti quei paesi che come la Francia stanno impoverendo l’Africa e stanno facendo partire quelle persone, perché il luogo degli Africani è in Africa non in fondo al Mediterraneo. Se vogliamo fermare le partenze cominciamo ad affrontare questo tema, anche all’Onu e non solo in sede europea, e l’Italia si deve far sentire”, ha detto di Maio a commento della tragedia dei migranti africani annegati venerdì nel Mediterraneo. Un argomento, quello del “neocolonialismo francese”, serio, delicato, che Di Maio cita a sproposito e in modo strumentale utilizzando, senza aver fatto nulla e senza averne reale cognizione, una storica battaglia di Fratelli d’Italia. Sa di cosa parla, Luigino? Forse no, e rischia così di fare solo danni a chi, come Fratelli d’Italia, denuncia da anni il “nuovo” sfruttamento transalpino di cui nessuno, in Europa, parla, ai danni dell’Africa, come sottolinea il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida: “Ci fa piacere che qualcun altro in Italia si stia finalmente accorgendo di un dramma che Fratelli d’Italia denuncia da anni, praticamente in solitaria. Quello che la Francia sta facendo a diverse Nazioni dell’Africa, colonizzandole, depredandole e sfruttandole per meri interessi economici, è una delle cause dell’instabilità e del mancato sviluppo di interi Stati subsahariani. Purtroppo – ha sottolineato il deputato di Fratelli d’Italia – le nostre denunce non sono mai state prese in considerazione, soprattutto dai vecchi governi di sinistra amici del presidente Macron. Abbiamo più volte chiesto al presidente Conte di porre la questione in Europa, ma siamo rimasti ancora una volta inascoltati. Ben venga se adesso, oltre a Fratelli d’Italia, anche altri esponenti della politica decidono di occuparsi delle politiche di sfruttamento messe in atto dalla Francia ai danni dell’Africa. Siamo pronti – ha assicurato – a qualunque iniziativa volta a mettere fine al neocolonialismo d’Oltralpe, come quando a ottobre una delegazione di Fratelli d’Italia guidata dal presidente Giorgia Meloni andò al confine con la Francia, a Ventimiglia, per protestare contro lo sfruttamento francese tramite il Franco Cfa. La prossima volta Di Maio venga con noi”, ha concluso Lollobrigida. Una posizione ribadita, in un video su Fb, anche dalla leader di FdI, Giorgia Meloni, che ironizza amaramente: “Finalmente anche la sinistra, da Di Maio a Fassina, si accorge del fatto che alla base dell’immigrazione c’è anche il neocolonialismo francese in Africa e l’usura fatta con la moneta coloniale Franco CFA. Come Fratelli d’Italia denuncia da mesi in totale solitudine. Bene, sono contenta che abbiano visto i nostri video. Peccato che nessuno abbia fin qui fatto nulla per fermarlo, FdI ha anche chiesto in Parlamento al Premier Conte di porre la questione in sede europea ma non è stato fatto nulla. Per esempio verrebbe da chiedere a Di Maio: perché quando qualche settimana fa Conte è stato in Niger non ha posto il problema dello sfruttamento dell’uranio da parte di una multinazionale francese? Sveglia ragazzi, siete al governo. Per quello che ci riguarda, Fratelli d’Italia intende arrivare al parlamento europeo proprio per denunciare e mettere fine allo schifo che stanno facendo in Africa Macron e i suoi amici”, attacca la Meloni.
Dove nasce la tragedia dei migranti: cos’è il franco Cfa con cui Macron sfrutta l’Africa, scrive lunedì 21 gennaio 2019 Robert Perdicchi su secoloditalia.it. La prima a denunciare il neocolonialismo valutario della Francia – “neo” ma antico per storia e origini – era stata da tempo la leader di Fratelli d’Itala, Giorgia Meloni, che ieri ha ricordato a Di Maio e alla sinistra italiana come “svegliarsi” oggi su un tema così delicato è strumentale e non cancella l’immobilismo del passato. Al centro del ragionamento, il franco Cfa, da ieri protagonista in tvm prima sventolato da Fazio per mano di Alessandro Di Battista poi dalla stessa Giorgia Meloni sulla Sette, fino ai video di Luigi Di Maio che lo ha evocato tra la folla. Il franco CFA (la valuta utilizzata in 14 colonie francesi dell’Africa) è diventata in poche ore la moneta delle polemiche, complici la leader di Fratelli d’Italia e i due esponenti di spicco del Movimento Cinque Stelle che l’hanno chiamata in causa puntando il dito contro il presidente francese Emmanuel Macron. Ma cos’è? Di che si tratta? Il franco CFA (che significava inizialmente "Franco delle Colonie Francesi d’Africa") è il nome di due valute comuni a diversi paesi africani, create nel 1945 e la cui convertibilità esterna è garantita dal Tesoro francese. Il franco CFA viene utilizzato oggi in sei Paesi dell’Africa centrale (Camerun, Repubblica centrafricana, Congo, Gabon, Guinea equatoriale, Ciad) con banca centrale la BEAC, la Banca Centrale degli Stati Africani. E in otto Paesi dell’Africa occidentale (Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guina Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo) con banca centrale la BCEAO, la Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale. Il franco CFA aveva parità con il franco francese e ora 655,957 FCFA equivalgono a 1 euro. Da anni la moneta è al centro di controversie, tra chi ne invoca lo stop e chi invece la difende. Dalla Francia il dibattito si è spostato presto in Italia, coinvolgendo il M5S e Fratelli d’Italia. Come ieri, quando a evocare il franco CFA è stato il vicepremier Luigi Di Maio. Affrontando il tema migranti a una manifestazione del M5S ad Avezzano, il vicepremier ha tirato in ballo la Francia, “che in Africa continua ad avere delle colonie di fatto, con la moneta, che è il franco, che continua a imporre nelle sue ex colonie”. Si tratta di soldi, ha tuonato Di Maio, che Parigi “usa per finanziare il suo debito pubblico e che indeboliscono le economie di quei paesi da dove, poi, partono i migranti”. Parole che in serata sono rimbalzate in tv. Ospite a Che tempo che fa, Alessandro Di Battista si è presentato da Fazio con in mano il fac simile di una banconota da 10mila franchi CFA che poi ha strappato in diretta. «Questa è una banconota da 10mila franchi delle colonie francesi, il franco CFA – ha spiegato l’esponente pentastellato – se non affrontiamo il tema della sovranità monetaria in Africa non se esce più». Ma la polemica sulla “moneta delle colonie” era una storica battaglia della destra, come ha spiegato, ieri, la stessa Giorgia Meloni. Ospite di Massimo Giletti a “Non è l’Arena”, Meloni ha sventolato un fac simile della stessa banconota: «Questo si chiama franco CFA – ha spiegato Meloni – è la moneta coloniale che la Francia stampa per 14 nazioni africane alle quali applica il signoraggio e in forza delle quali sfrutta le risorse di questa nazione. La soluzione non è prendere gli africani e spostarli in Europa ma liberare l’Africa da certi europei che la sfruttano e consentire a queste persone di vivere di quello che hanno».
Il problema non è il franco Cfa: ecco come Parigi controlla l’Africa, scrive Andrea Muratore il 24 gennaio 2019 su "Gli Occhi Della Guerra" de "Il Giornale". In tempi non sospetti, mesi prima della recente e capziosa polemica sorta sul franco Cfa su cui commentatori, politici e analisti italiani non hanno mancato di fare presenti le loro grossolane opinioni, in uno spettro di strafalcioni che parte da Alessandro Di Battista (che tra tutte le problematiche prodotte da tale unione valutaria ha toccato il tasto dell’emigrazione, quello forse ad essa meno correlata) e arriva a Matteo Renzi (le cui parole differiscono di poco da quelle di un qualunque sostenitore transalpino di Macron) il quotidiano Italia Oggi ha avuto il merito di gettare nello stagno il sasso di un tema troppo spesso taciuto. E lo ha fatto nell’agosto scorso per mezzo dell’ottima penna di Tino Oldani, che in maniera molto razionale e concreta ha chiarito con precisione i termini della questione. Il franco Cfa, secondo Oldani, non esaurisce il problematico rapporto tra Parigi e le sue ex colonie, ma è “il perno attorno al quale ruota l’intero sistema del controllo francese sui 14 Paesi” che lo adottano come valuta. Un mezzo, dunque, non un fine: così come lo sono sia quelle che opinionisti e personalità pubbliche poco informate sul tema e viziate dai loro pregiudizi hanno identificato come fini del franco Cfa. Il mantenimento di un regime di cambi fissi, il vincolo alla spesa e il basso livello di inflazione imposto ai Paesi africani e lo stesso controverso tema dell’impoverimento generale dei loro mercati interni, infatti, sono intrinseci a un più ampio sistema politico. Il franco Cfa, insomma, non sarebbe nulla senza le sue conseguenze materiali e legali, senza le obbligazioni più profonde che aumentano la proiezione di Parigi nel continente africano. “Tra i numerosi vincoli imposti dagli accordi sul franco Cfa”, notava Oldani, “vi è anche il ‘primo diritto’ per la Francia di comprare qualsiasi risorsa naturale scoperta nelle sue ex colonie. Da qui il controllo di Parigi su materie prime di enorme valore strategico: uranio, oro, petrolio, gas, caffè, cacao. Soltanto dopo un esplicito "non interesse francese", scatta il permesso di cercare un altro compratore. Ma attenzione: i maggiori asset economici di tutte le 14 ex colonie sono in mano a francesi che si sono insediati da tempo in Africa, diventando miliardari a palate”. Il volto più noto, in Italia, è sicuramente quello di Vincent Bollorè, padrone di un impero della logistica che ha il suo cuore nel Golfo di Guinea. Ma non c’è solo lui. La radio pubblica tedesca, Deutschlandfunk, ha avviato un’inchiesta sul franco Cfa portando avanti un’iniziativa ovvia, ma che ha trovato poco riscontro nelle testate nazionali: chiedere l’opinione di economisti e esperti del settore africani. Appartenenti alle società di quei Paesi di cui nel nostro Paese si discute per partito preso. La stessa Italia Oggi ha ripreso l’analisi di Deutschlandfunk, portando in emersione particolari a dir poco emblematici: il diritto di prelazione di Parigi riguarda “non solo le fonti energetiche fossili come il petrolio, il gas e il carbone, ma anche quelle più rare e di maggiore valore attuale, come l’uranio, il torio, il litio e il berillo. […] Il caso più clamoroso, racconta la radio tedesca, è quello del Niger: qui il gruppo industriale Orano, ex Areva, controllato dallo Stato francese, estrae notevoli quantità di uranio, sufficienti per coprire il 40% della domanda proveniente dalle centrali nucleari francesi che producono elettricità. Il tutto pagando un prezzo che è circa un terzo di quello di mercato. E il Niger è uno dei Paesi più poveri al mondo”, commenta la radio tedesca. “È probabilmente l’esempio più estremo dello sfruttamento previsto dai trattati che la Francia ha imposto alle sue ex colonie, in cambio della loro indipendenza. Ma il principio di fondo è lo stesso in tutti i paesi interessati”. Tutto questo si aggiunge a una completa depressione delle economie locali per fini che non riguardino la mera esportazione. Il regime di cambi fissi danneggia le prospettive della piccola e media imprenditoria dei Paesi africani aderenti al franco Cfa, che hanno scarse possibilità di accedere al credito necessario per avviare attività imprenditoriali. Nelle ex colonie francesi, ad esempio, ci sono alcune delle zone di produzione del cotone più importanti al mondo. Eppure non esiste un’industria tessile locale indipendente: neanche il 10% del cotone locale viene lavorato sul posto. I grandi economisti che hanno studiato le problematiche connesse alla povertà, su cui spiccano Abhijit Banerjee e la moglie Esther Duflo, hanno più volte indicato come nei Paesi meno sviluppati sia proprio la difficoltà nell’accesso al credito o agli strumenti di partenza per l’attività d’impresa a determinare il mantenimento di ampie sacche di disuguaglianza ed economia informale. Contrapposte, nel caso dei Paesi africani, alle sfavillanti ricchezze che i grandi gruppi transalpini acquisiscono a prezzi di favore sfruttando le clausole collaterali all’adesione del franco Cfa. E questo ci ricorda la grande lezione di Thomas Sankara, che poco prima di essere ucciso, nel 1987, aveva indicato la via maestra per l’autonomia economica dell’Africa: “Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo”. Parole semplici che nascondono implicazioni profonde: la migliore garanzia per quel “diritto a non emigrare” enunciato negli scorsi anni da Benedetto XVI, la risposta più adatta a una storia di dipendenza che non si è interrotta con la fine del colonialismo. E di cui il franco Cfa è il volto più ambiguo. Non causa diretta, ma mezzo essenziale. Funzionale alle èlite dei Paesi membri dell’unione monetaria e armate da Parigi, meno ai loro popoli.
Tommaso Montesano per “Libero Quotidiano” il 24 gennaio 2019. Ma quale ingerenza umanitaria. Ma quale sostegno ai ribelli contro il sanguinario dittatore. Non è stato il "cuore", né tantomeno la necessità di "esportare" la democrazia in Libia, a muovere la mano di Nicolas Sarkozy contro Gheddafi, nel 2011. Il grilletto del presidente francese è scattato per più volgari interessi economici. Finora si è sempre invocato il petrolio libico come il principale fattore che ha scatenato l'offensiva di Parigi, cui fu giocoforza costretta ad adeguarsi anche l'Italia di Silvio Berlusconi. Ma adesso alcuni documenti diplomatici americani gettano, se possibile, una luce ancor più sinistra sulle vere ragioni per le quali l'Eliseo si mise alla testa della coalizione anti-Colonnello. E le cause hanno a che fare con il Cfa, ovvero il franco utilizzato nelle colonie francesi d' Africa. Si tratta della moneta che un paio di giorni fa ha provocato l'ennesima crisi diplomatica tra l'Italia del governo giallo-blu e la Francia di Emmanuel Macron, dopo le accuse a Parigi da parte del vicepremier, Luigi Di Maio. Il documento in questione è un report confidenziale inviato all' allora segretario di Stato, nonché precedente e successivo candidato democratico alla Casa Bianca, Hillary Clinton. Nella nota, la fonte illustra al numero uno del Dipartimento di Stato lo scenario che ha fatto da sfondo alla decisione di Sarkozy di sferrare l'attacco contro Tripoli. Tutto ruota intorno alla potenza economica - sotto forma di riserve auree - del regime del Colonnello. Capace di arrivare a possedere, ricorda la fonte diplomatica americana, 143 tonnellate d' oro, oltre che d' argento. Un tesoro che nel marzo 2011, ricostruisce l'intelligence, fu trasferito a Sabha, sud-ovest della Libia, verso il confine con Niger e Ciad. "Stock", naturalmente, accumulato ben prima della ribellione, e del conseguente intervento occidentale, che nell' ottobre del 2011 mise fine alla vita e al dominio di Gheddafi. E qui entrano in ballo i francesi. Nel senso che il disegno di Gheddafi prevedeva di utilizzare le riserve - quantificate in più di sette miliardi di dollari - per stabilire una moneta "pan-africana" basata sul dinaro libico. Un piano, è scritto espressamente nella mail indirizzata a Clinton, che avrebbe dovuto rappresentare un'alternativa per i Paesi africani francofoni che utilizzavano il Cfa. Da qui la reazione, interessata, di Sarkozy. L' intelligence francese, infatti, avrebbe scoperto lee di Gheddafi subito dopo l'inizio della ribellione contro il Colonnello. E proprio il desiderio di Gheddafi di guidare l'emancipazione dei Paesi africani francofoni da Parigi, è scritto nero su bianco nel report del "ministero degli esteri" di Washington, sarebbe stato il motivo principale che avrebbe convinto l'allora numero uno dell'Eliseo ad agire. Il principale, non certo il solo, visto che nel documento trovano posto, tra le altre cause, il desiderio di guadagnare spazio nello sfruttamento del petrolio libico; l'aumento dell'influenza francese in Nord-Africa e il miglioramento della situazione politica interna francese. Il contenuto del documento provoca la reazione di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d' Italia. «È sconcertante che nessuno parli di questo carteggio, e che a nessuno sia venuto in mente di chiedere conto alla Francia», attacca, conversando con Libero, l'ex ministro della Gioventù, che incalza il governo italiano ad «andare fino in fondo su questa vicenda», che, «se confermata», sarebbe la «prova che non c'è niente di filantropico nel mantenimento del Cfa e che la Francia è di fatto corresponsabile dell’immigrazione incontrollata che negli ultimi anni ha colpito l'Europa». Meloni, che bolla come «vergognoso» il mancato approfondimento su quanto rivelato dalle fonti diplomatiche americane, chiede all' esecutivo giallo-blu di passare dalle parole ai fatti: «Convochi l'ambasciatore francese per chiedere chiarimenti sui documenti resi noti dal Dipartimento di Stato Usa. In gioco ci sono gli interessi nazionali, economici e sociali, dell'Italia».
Giorgia Meloni: "La Francia ha bombardato la Libia quando Gheddafi progettava di uscire dal Franco africano", scrive il 22 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. "I Paesi aderenti al Franco Africano devono versare il 50 per cento dell'export alla Francia". Giorgia Meloni, ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, sottolinea di essere stata la prima a denunciare questa situazione e spiega che "Gheddafi fu bombardato quando progettava di uscire". La leader di Fratelli d'Italia continua: "Emmanuel Macron ci aveva definito vomitevoli e allora forse vale la pena ricordargli come la Francia si comporta verso questi Paesi. E la sinistra che li difende pure, come oggi Merlo su Repubblica. In Burkina Faso dove ci sono bambini che lavorano nelle miniere d'oro il 50 per cento va nelle tasche dei francesi". Allora, conclude la Meloni: "Perché non facciamo la stessa cosa con la Bce?".
Giorgia Meloni: "Il documento della vergogna francese, convocate l'ambasciatore francese", scrive il 24 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Dito puntato contro i francesi. Ad attaccare, su Facebook, è Giorgia Meloni. Si torna ai giorni dell'offensiva condotta contro Muammar Gheddafi e voluta in primis dai transalpini, e la leader di Fratelli d'Italia afferma: "Aiutatemi a diffondere questo appello al ministro Luigi Di Maio: il governo convochi l'ambasciatore francese per chiedere conto del documento che mostro in questo video, sulle cause che avrebbero spinto la Francia a bombardare la Libia, generando l'attuale caos immigrazione che subiamo. Vogliamo la verità". Conclude la Meloni. Chiarissimo l'appello a Luigi Di Maio: verrà raccolto?
L'Aria che Tira, Diego Fusaro fa impazzire i sinistri: la frase su Gheddafi e Che Guevara, scrive Tommaso Montesano il 21 Gennaio 2019 su Libero Quotidiano. "Questi africani che arrivano in Europa parlano francese non perché sono laureati alla Sorbona di Parigi ma perché sono stati colonizzati dalla Francia". Diego Fusaro, ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, interviene a proposito delle polemiche sull'utilizzo del CFA, il franco africano imposto come moneta unica nei paesi da cui partono i flussi migratori. "Gli italiani bombardarono nel 2011 insieme alla Francia. Gheddafi come Che Guevara, cercava di liberarsi dal colonialismo europeo in Africa, morì da combattente eroico in difesa della Libia". E ora, continua il filosofo, "assistiamo a un colonialismo ancora più osceno. Il nemico è chi deporta, chi affama i popoli, non il migrante". Interviene la Merlino: "Io mi dissocio".
Franco CFA, la spaventosa verità sulla morte di Gheddafi: il documento degli 007 che inchioda la Francia, scrive il 24 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Ma quale ingerenza umanitaria. Ma quale sostegno ai ribelli contro il sanguinario dittatore. Non è stato il "cuore", né tantomeno la necessità di "esportare" la democrazia in Libia, a muovere la mano di Nicolas Sarkozy contro Gheddafi, nel 2011. Il grilletto del presidente francese è scattato per più volgari interessi economici. Finora si è sempre invocato il petrolio libico come il principale fattore che ha scatenato l'offensiva di Parigi, cui fu giocoforza costretta ad adeguarsi anche l'Italia di Silvio Berlusconi. Ma adesso alcuni documenti diplomatici americani gettano, se possibile, una luce ancor più sinistra sulle vere ragioni per le quali l'Eliseo si mise alla testa della coalizione anti-Colonnello. E le cause hanno a che fare con il Cfa, ovvero il franco utilizzato nelle colonie francesi d' Africa. Si tratta della moneta che un paio di giorni fa ha provocato l'ennesima crisi diplomatica tra l'Italia del governo giallo-blu e la Francia di Emmanuel Macron, dopo le accuse a Parigi da parte del vicepremier, Luigi Di Maio.
LA SFIDA ALL'ELISEO - Il documento in questione è un report confidenziale inviato all'allora segretario di Stato, nonché precedente e successivo candidato democratico alla Casa Bianca, Hillary Clinton. Nella nota, la fonte illustra al numero uno del Dipartimento di Stato lo scenario che ha fatto da sfondo alla decisione di Sarkozy di sferrare l'attacco contro Tripoli. Tutto ruota intorno alla potenza economica - sotto forma di riserve auree - del regime del Colonnello. Capace di arrivare a possedere, ricorda la fonte diplomatica americana, 143 tonnellate d' oro, oltre che d' argento. Un tesoro che nel marzo 2011, ricostruisce l'intelligence, fu trasferito a Sabha, sud-ovest della Libia, verso il confine con Niger e Ciad. "Stock", naturalmente, accumulato ben prima della ribellione, e del conseguente intervento occidentale, che nell' ottobre del 2011 mise fine alla vita e al dominio di Gheddafi. E qui entrano in ballo i francesi. Nel senso che il disegno di Gheddafi prevedeva di utilizzare le riserve - quantificate in più di sette miliardi di dollari - per stabilire una moneta "pan-africana" basata sul dinaro libico. Un piano, è scritto espressamente nella mail indirizzata a Clinton, che avrebbe dovuto rappresentare un'alternativa per i Paesi africani francofoni che utilizzavano il Cfa. Da qui la reazione, interessata, di Sarkozy. L'intelligence francese, infatti, avrebbe scoperto lee di Gheddafi subito dopo l'inizio della ribellione contro il Colonnello. E proprio il desiderio di Gheddafi di guidare l'emancipazione dei Paesi africani francofoni da Parigi, è scritto nero su bianco nel report del "ministero degli esteri" di Washington, sarebbe stato il motivo principale che avrebbe convinto l'allora numero uno dell'Eliseo ad agire. Il principale, non certo il solo, visto che nel documento trovano posto, tra le altre cause, il desiderio di guadagnare spazio nello sfruttamento del petrolio libico; l'aumento dell'influenza francese in Nord-Africa e il miglioramento della situazione politica interna francese.
ANDARE FINO IN FONDO Il contenuto del documento provoca la reazione di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia. «È sconcertante che nessuno parli di questo carteggio, e che a nessuno sia venuto in mente di chiedere conto alla Francia», attacca, conversando con Libero, l'ex ministro della Gioventù, che incalza il governo italiano ad «andare fino in fondo su questa vicenda», che, «se confermata», sarebbe la «prova che non c'è niente di filantropico nel mantenimento del Cfa e che la Francia è di fatto corresponsabile dell'immigrazione incontrollata che negli ultimi anni ha colpito l'Europa». Meloni, che bolla come «vergognoso» il mancato approfondimento su quanto rivelato dalle fonti diplomatiche americane, chiede all'esecutivo giallo-blu di passare dalle parole ai fatti: «Convochi l'ambasciatore francese per chiedere chiarimenti sui documenti resi noti dal Dipartimento di Stato Usa. In gioco ci sono gli interessi nazionali, economici e sociali, dell'Italia». Tommaso Montesano
IL RUOLO SPORCO DELLA FRANCIA IN LIBIA. Francesco Semprini per “la Stampa” il 16 aprile 2019. Ai misurati progressi delle forze governative le milizie di Khalifa Haftar rispondono con lanci di missili alle porte di Tripoli, mentre l'armata del generale continua a perdere pezzi. È questo l'ultimo dispaccio dal fronte della nuova guerra civile in Libia, nel giorno in cui Fayez al Sarraj tuona contro Francia, Egitto e gli altri sponsor dell' uomo forte della Cirenaica nei confronti del quale arriva anche la prima condanna «in chiaro» delle Nazioni Unite. Il dato da registrare, dopo oltre dieci giorni di scontri, è la riconquista da parte delle unità del Governo di accordo nazionale di Suani ben Adem, 25 km a sudovest di Tripoli, teatro di violenti scontri nei giorni scorsi. Residue avanguardie di Haftar sono accerchiate e intrappolate in alcuni edifici alla periferia sud della città, nodo nevralgico a 6 km dall'aeroporto internazionale, dopo che le relative compagnie sono state costrette ad arretrare di diversi chilometri verso Aziziya dopo il contrattacco dei Katiba fedeli al governo Sarraj. Alcune di queste hanno optato per la resa, come a Suani ban Adem, 25 km a sudovest di Tripoli, dove si è arresa un'intera compagnia di Tarhouna, parte di quella compagine che a settembre era stata protagonista della rivolta contro le milizie della capitale. I combattenti si sono consegnati alla brigata 166 di Misurata, attiva nell'area, una trentina di militari in tutto che hanno portato in «dote» diversi pick-up e quattro blindati dotati di armi pesanti. Nella notte ad attaccare erano state invece le forze di Haftar con il lancio di cinque missili Grad sul quartiere di Abu Slim, a ridosso del centro della capitale che hanno centrato un' abitazione, causando almeno tre feriti, e distruggendo diverse auto di civili. «Khalifa Haftar non sta compiendo un'operazione anti-terrorismo, ma un colpo di Stato», tuona l'inviato speciale dell' Onu, Ghassan Salamè, in quella che è la prima vera accusa aperta del Palazzo di Vetro all' uomo forte della Cirenaica e alla sua marcia su Tripoli iniziata il 4 aprile. Si spinge ben oltre Serraj il quale punta l'indice sui governi che da sempre sostengono il generale. «Ci sono Paesi che sono più responsabili di altri», spiega il presidente del Gna in riferimento a Francia ed Egitto. Sarraj, in un colloquio coi giornalisti, evoca la rivoluzione del 2011 spiegando che «il convoglio che si è mosso da Tripoli verso Bengasi è lo stesso che si era mosso verso Bengasi» otto anni fa, paragonando di fatto Haftar a Gheddafi. E i dubbi sull' ambiguità dell' Eliseo montano giorno dopo giorno. Una delegazione di diplomatici francesi, composta da una dozzina di persone a bordo di alcune auto con targa diplomatica, sarebbe stata fermata domenica dalle autorità tunisine al valico di frontiera tra Tunisia e Libia di Ras Jedir. Alcune armi al seguito erano state dichiarate dal gruppo mentre altre armi, non dichiarate, sarebbero state ritrovate nascoste a bordo di un' auto. Le unità di polizia della frontiera tunisina avrebbero perquisito le auto usate dai diplomatici di nazionalità francese e condotto gli stessi all' aeroporto di Djierba-Zarzis. Cresce intanto il bilancio delle vittime di questa nuova guerra civile, almeno 147 morti e 614 feriti, secondo l' Organizzazione mondiale della sanità, mentre sono almeno 18mila gli sfollati, secondo le stime Onu. Il crescente numero di morti ha spinto l'Oms a schierare squadre di chirurghi «per sostenere gli ospedali dell' area di Tripoli mentre affrontano il flusso dei casi di emergenza». Un elemento che potrebbe avere ricadute sull'Italia, come ricorda Sarraj stesso. «Fate presto», il peggioramento della situazione in Libia potrebbe spingere «800mila migranti e libici a invadere l' Italia e l' Europa». E in questo enorme numero di migranti ci sono anche criminali e soprattutto jihadisti legati a Isis pronti a infiltrarsi, secondo il premier libico. Sarraj ringrazia Roma per la sua mediazione e il suo sostegno in favore della pace in Libia, che si attua anche con «la presenza dell'Ambasciata a Tripoli e l'ospedale di Misurata» gestito nell' ambito della missione militare italiana. Al rischio dell'esportazione del terrorismo in Europa si somma quello dell' attacco a possibili obiettivi occidentali in Libia, come suggeriscono alcune fonti locali, e non solo da parte di cellule jihadiste. Sono gli effetti della nuova guerra, a bassa intensità ma a lunga durata, «in cui l'unico perdente è la Libia», chiosa Serraj. Il quale davanti a chi paventa il rischio di vedere un giorno una Libia divisa in due, replica: «È quello che alcuni cercano di far sembrare, che questa sia una guerra tra Est ed Ovest. La verità è che questa è una guerra tra democrazia e dittatura».
L’unica certezza in Libia è che nessuno sta dicendo la verità, scrive l'8 aprile 2019 Lorenzo Vita su Gli occhi della Guerra. La verità è la prima vittima della guerra: e in Libia il copione non è certo diverso. L’avanzata di Khalifa Haftar verso Tripoli, cui ha reagito l’aviazione del governo riconosciuto e una parte delle milizie contrarie al generale della Cirenaica, ha avuto come reazione quello dello “sconcerto” da parte della comunità internazionale. Condanne da parte di tutti, mosse “improvvise” da parte dei reparti speciali americani, alleati internazionali del maresciallo che si mostrano quasi sgomenti di fronte a un’azione unilaterale e violenta delle forze dell’Esercito nazionale libico. Ma la realtà non può che essere diversa da quella che viene detta da parte dei governi. Gli annunci di sorpresa, le richieste di fermare l’avanzata, la volontà di mostrarsi totalmente favorevoli al dialogo fra le parti e alla transizione voluta dalle Nazioni Unite sono tutti modi per coprire una verità diversa sulla Libia. Perché quella che si sta svolgendo non è un’azione improvvisa di un generale che decide sua sponte di avanzare verso la capitale. È evidentemente il frutto di una concertazione fra lui e i suoi maggiori sponsor internazionali, che, in questi anni, hanno fatto capire di non essere in grado di assumere realmente il comando della guerra in Libia. E Haftar, con le sue forze, è l’unico comandante sul campo in grado di prendere il sopravvento sulle altre fazioni e su un governo riconosciuto ma debole, che non controlla nemmeno la sua capitale. Partendo da questa premessa è chiaro che una prima “non verità” è quella della Francia, che finge di non sapere che quella in corso è un’operazione che senza il via libera di Parigi non sarebbe mai potuta avvenire. Emmanuel Macron aveva chiesto di andare a elezioni a dicembre del 2018 ma era stato fermato dal piano Onu e dalla fragile quanto importante vittoria italiana della (pur velleitaria) conferenza di Palermo. In quell’occasione, Parigi diede un timido e poco entusiasta assenso alla strategia internazionale. Tanto sapeva che Haftar non avrebbe agito soltanto coordinandosi con il Palazzo di Vetro, ma soprattutto con i suoi sponsor: Egitto, Emirati e Francia. E con l’avallo dei sauditi. E in questi giorni sta avvenendo lo stesso. l’Enl non può agire senza che le potenze ad esso collegate lo coadiuvino. Perché quella in Libia non è affatto, o meglio, non è esclusivamente, una guerra civile. È prima di tutto una guerra internazionale, un laboratorio che vede coinvolte tutte le potenze del Mediterraneo allargato e quelle che, pur non facendone parte, ne influenzano i destini. Ci sono gli Stati Uniti, che per anni hanno quasi taciuto la loro presenza fisica sul terreno pur attivandosi con raid chirurgici sulle fazioni dell’Isis presenti sul territorio libico e con operazioni delle forze speciali. C’è la Russia, che ha negato da sempre di essere sul campo, ma che invece ha per molto tempo influenzato la guerra in particolare con la sponsorizzazione del generale Haftar, di cui si ricordano i viaggi a Mosca e i suoi contatti con i funzionari russi per avere il sostegno del Cremlino alle forze della Cirenaica. Ed è impossibile credere, anche in questo caso, che l’intelligence russa e anche quella americana fossero ignare della decisione del Maresciallo di non prendere la decisione di avanzare su Tripoli. Anzi, la “fuga” dei marines dalle coste libiche è un’immagine del tutto superficiale. Africom, il comando Usa per il continente, non poteva non essere consapevole dei rischi. Tanto è vero che anche la nostra intelligence si era allertata per quanto stesse per accadere nel Paese. Ed ecco l’altra verità non detta: la nostra. Che è quella di un Paese che ha raccontato a se stesso di poter fare da solo in Libia. L’Italia sembra sorpresa da quanto avvenuto a sud di Tripoli. Ma la realtà è che siamo di fronte a un caos in parte ottenuto anche grazie ai nostri errori errori strategici. L’Italia mente a se stessa pensando di avere il controllo della situazione: non lo ha più. Lo avrebbe avuto, ma ha preferito puntare su una stranissima politica del doppio forno che di fatto aveva senso solo nell’equilibrio delle forze in campo: ma adesso, con Haftar alle porte di Tripoli, è del tutto evidente che abbiamo sbagliato strategia. E l’abbandono da parte degli Stati Uniti di Donald Trump è un segnale chiarissimo: quella cabina di regia sul Mediterraneo allargato rischia di essere naufragata.
La saga di Gheddafi il nemico perfetto che apriva i rubinetti. Italia-Libia dal golpe del ’ 69, alla guerra del 2011, 40 anni di relazioni interessate, scrive Paolo Delgado il 16 Aprile 2019 su Il Dubbio. Forse siamo vicini all’ultimo atto di una partita spietata e senza esclusione di colpi che si è giocata per decenni tra i Paesi europei, con il petrolio e il gas della Libia come posta. In quella partita l’Italia ha giocato a lungo, ai tempi della vituperata Prima Repubblica, in modo magistrale, seguendo la strategia impostata dal solo principale statista che la Repubblica possa vantare: Enrico Mattei. Il fondatore dell’Eni era già stato fatto fuori da sette anni quando in un albergo di Abano terme, nell’estate 1969 fu messo a punto il progetto di golpe che doveva rovesciare la monarchia filobritannica di re Idris e sostituirla con un gruppo di ufficiali alla cui guida c’era il colonnello Muhammar Gheddafi. Scattata nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre 1969, l’ ‘ Operazione Gerusalemme’, come si chiamava in codice, fu un successo pieno. Il golpe fu quasi del tutto incruento: una sola vittima, per errore. Re Idris provò inutilmente a chiedere l’aiuto del Regno Unito. In realtà gli inglesi tentarono davvero un controgolpe, che fu sventato grazie all’intervento italiano. Forse la partita cominciò allora, quando il colonnello Gheddafi diventò il Raìs di quello che veniva usualmente definito ‘ uno scatolone di sabbia’. Ma forse era iniziato prima, negli anni ‘ 30, quando i tecnici italiani avevano iniziato le ricerche nel sottosuolo libico. Oppure nel 1959, quando l’Eni riprese le ricerche interrotte dalla guerra mentre Mattei metteva sotto scacco le sette sorelle, le compagnie regine del petrolio, offrendo ai paesi produttori di petrolio un rapporto fifty- fifty, cioè una divisione paritaria dei proventi invece che quella imposta dalle sette sorelle che destinava solo il 25% ai produttori. Di certo, quando l’Italia appoggiò il golpe di Gheddafi e quando sventò la mossa inglese era perfettamente consapevole di cosa ci fosse sotto la sabbia contenuta nello "scatolone". Il doppio registro seguito dal colonnello è noto: da un lato l’espulsione degli italiani, la ricorrenza annuale del ‘ giorno dell’ira’ anti- italiana, le sceneggiate stentoree; dall’altro accordi estremamente favorevoli all’Italia sul solo piano essenziale, quello del rifornimento energetico. Era quello che l’Italia si aspettava. Non a caso, subito dopo il golpe, mentre il Raìs tuonava contro il Paese ex- coloniale, proprio l’Italia permise al golpista di inscenare una parata trionfale inviando in tutta fretta e in gran copia i carri armati necessari per far fare una figura trionfale al finto ‘ nemico’. I risultati si videro subito, con un accordo firmato dallo stesso ufficiale italiano che si era incaricato di sventare il controgolpe inglese e proprio per questo ‘ promosso’ a plenipotenziario diplomatico. I rapporti politici, nel corso dei decenni successivi, sono stati oscillanti. C’è stata la crisi di Malta nel 1980, quando l’Italia arrivò a minacciare l’intervento militare in difesa dell’isola. C’era stata prima la crisi dei rifugiati, quando la stessa Italia sempre nel 1980, dopo discorsi sempre più minacciosi del Raìs, consegnò ai servizi segreti libici gli indirizzi segreti dei dissidenti libici rifugiati in Italia, e ufficialmente protetti dall’Italia. Furono eliminati uno dopo l’altro nel giro di un mese. Ci fu il missile libico lanciato contro Lampedusa nel 1986 ma è bene ricordare che fu il governo Craxi, nello stesso anno, ad avvertire il colonnello dell’attacco americano a sorpresa contro la sua residenza a Tripoli, salvandogli così la vita. Perché sul piano degli affari, invece, di incrinature non ce ne furono. Alla vigilia della guerra che travolse Gheddafi, nel 2010, l’Eni estraeva da sola il 10% del petrolio libico e aveva di fatto il monopolio sul gas. In quell’anno il 22% del petrolio e il 35% del gas adoperati in Italia arrivavano dalla Libia. Sei anni più tardi, nel 2016, le percentuali erano ridotte al 12% per il petrolio e al 6% per il gas. Anche se non ci fossero state le carte segrete di Hilary Clinton rese note da Wikileaks sarebbe stato evidente comunque che la decisione francese di sferrare l’attacco contro Gheddafi nel 2011 prendeva di mira prima di tutti proprio l’Italia. I documenti e i commenti dell’allora segretaria di Stato alla Casa Bianca, comunque, dissipano ogni eventuale dubbio. A determinare la mossa francese, nel 2011, non fu solo, e forse non fu soprattutto, la ‘ primavera araba’ arrivata anche in Libia. Fu la debolezza internazionale dell’Italia, con un premier delegittimato dallo scandalo Olgettine e dalla situazione economica. Gli attacchi mossi in questi giorni da alcuni esponenti del Pd contro la Lega, accusata di aver fatto parte del governo che scelse di partecipare alla guerra contro Gheddafi, sono propaganda non priva di parecchia ipocrisia. Berlusconi, pur in condizioni di estrema debolezza, tentò al contrario in ogni modo di evitare quell’intervento militare. Aveva fondato una parte essenziale della politica estera ed energetica italiana proprio sull’accordo con Gheddafi, e alle risorse energetiche si era aggiunto il capitolo migranti. L’accordo con la Libia stretto dall’allora ministro Minniti e rinsaldato da Salvini ricalca in realtà quello del governo Berlusconi, altrettanto cinico nel fingere di ignorare cosa significasse già allora affidare alla Libia il compito di impedire le partenze verso l’Italia. Chi forzò la mano a Berlusconi, con estrema ruvidezza, fu casomai il presidente Napolitano, sostenuto proprio dal Pd. Dopo la caduta di Gheddafi l’Italia e l’Eni non hanno mai recuperato il ruolo che aveva avuto per decenni. Ma, complice l’incapacità di sostituire il Raìs, hanno conservato una presenza forte. Ha mantenuto buoni rapporti con la Cirenaica di Haftar pur avendo il grosso dei propri interessi concentrati in Tripolitania. Il 70% delle aziende che avevano lasciato la Libia dopo la caduta di Gheddafi è rientrata, anche se solo la metà è davvero attiva. La partita non è ancora chiusa. La conquista di Tripoli da parte di un Haftar spalleggiato alla Francia sarebbe probabilmente la mano finale.
LA DIFFICILE EREDITÀ DEL POST GHEDDAFI, scrive Fabio Marco Fabbri il 24 gennaio 2019 su L’Opinione. Dopo l’infelice deposizione e l’assassinio di Mu’ammar Gheddafi, disegno strategico di destabilizzazione geopolitica inserito nel drammatico “progetto”, che ho definito la “Seconda Questione d’Oriente” (iniziata con la destituzione di Saddam Hussein), voluto e coordinato da nazioni occidentali, si apre per la ex Libia una fase di ricerca di equilibrio socio-politico estremamente complessa. Va innanzitutto valutata la parzialmente spontanea, ma efficace, ascesa al potere di Gheddafi, avvenuta con un colpo di Stato nel 1969, ai danni della monarchia libica rappresentata prima dal re Idris I di Libia poi dal successore Hasan. La deposizione della Monarchia libica fu motivata dai golpisti dalla troppa vicinanza dei regnati all’Occidente, ma tale colpo di Stato non si sarebbe potuto realizzare se Gheddafi non avesse avuto il placet di alcuni Stati “occidentali”. Va ricordato che Mu’ammar, dopo una prima fase fisiologica di dittatura militare, si accostò al socialismo arabo di ispirazione nasseriana, impostando un percorso ideologico e politico verso la realizzazione di una Repubblica del popolo, necessariamente inflessibile, ma non chiuso, che lui chiamò la “Terza Via”: rifiuto del capitalismo, vicinanza ad un socialismo nazionalista, molto simile al partito Baath siro-iracheno. Il suo più grande merito, dal punto di vista aggregativo territoriale e nazionale, fu quello di riuscire a mantenere ed a rafforzare quell’unità geografica che univa tre regioni storiche ben definite: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, piccole aree geografiche controllate da numerosi autoctoni armati e mobili, ed un imprecisato numero di tribù. Gheddafi ha auto il merito, oltre di aver governato una “antidemocrazia naturale” per 42 anni, quello di tenere la Libia al centro delle attenzioni internazionali, con metodi discutibili ma efficaci, rimproverando, ad esempio, all’Italia, in una sua visita ufficiale avvenuta nel 2009, l’arresto e l’uccisione del patriota libico Omar al Muktar avvenuta nel periodo coloniale e ostentata, nella succitata visita, con una foto appesa al suo petto che ritraeva il patriota prigioniero in mezzo ai soldati fascisti. Tuttavia il suo appeal era indiscutibile sia all’interno che all’esterno della Libia: carriera militare in Libia, perfezionata in Gran Bretagna, vestito spesso in abiti militari (garanzia di laicità nel mondo arabo islamico), esportatore di economia e prodotti interni, vicino, anche se poco platealmente visto il personaggio, alla diplomazia internazionale. Se la sua deposizione fosse stata spontanea, avrebbe avuto immediatamente un sostituto. L’ascesa al potere di Khalīfa Belqāsim aftar nella regione Cirenaica è stata verosimilmente l’unica manifestazione spontanea di emersione di leadership naturale: carriera militare vicino a Gheddafi, uomo troppo forte per restare solo al fianco. Dopo la guerra contro il Ciad, passa circa vent’anni negli Stati Uniti, entrando, anche se a volte Haftar smentisce, nella Central Intellingence Agency. Haftar ha sostenuto e sostiene un confronto vincente militarmente contro le forze jihadiste che avevano occupato città in Cirenaica e parte del Fezzan dopo Gheddafi, sostenuto prevalentemente dall’Egitto e Giordania, con ovviamente trasversalità articolate. Il suo ruolo all’interno della ex Libia lo ha ottenuto e lo mantiene prevalentemente e apparentemente con risorse proprie. L’architetto Fayez al-Sarraj è stato imposto dalle Nazioni Unite, come capo del Governo di unità nazionale, con sede a Tripoli. È stata una figura burocratica ministeriale secondaria in epoca gheddafiana, proveniente da una ricca famiglia di commercianti e politici, ha il merito, grazie ad aiuti militari internazionali, di avere liberato la città strategica di Sirte divenuta tra il 2015 e 2016, capitale del sedicente Stato Islamico in Libia. Legato in modo articolato alla Francia, risponde agevolando riunioni ed incontri proprio in terra francese, non solo di carattere diplomatico ma anche economico e programmatico. Non indugiando su aspetti socio-biografici dei contendenti al Governo della ex Libia ricordo che attualmente i gruppi armati presenti nell’area in esame sono 8, tra cui Ansar al Sharia, la Brigata dei martiri del 17 febbraio, i Zintan solo per citarne tre, gruppi che operano trasversalmente e che hanno avuto ed hanno dei ruoli ibridi all’interno delle dinamiche strategie libiche. Ad essi vanno aggiunti circa centotrenta tribù ben definite dal punto di vista della collocazione territoriale, ed anche da quello delle rivendicazioni, tutto ciò si articola anche nella pesante presenza di gruppi salafiti anche di corrente jihadista. I profili di Hftar ed al Sarraj sono decisamente diversi, uno dei due, per un contesto sociologico così complesso è apparentemente incongruente. Bisogna analiticamente ed in modo adogmatico riflettere su chi e perché non ha atteso un passaggio di potere più “spontaneo” all’interno della Libia nell’ambito delle cosiddette “Primavere arabe” (alla luce dei fatti); notoriamente il ruolo, anche della Francia, non deve essere stato marginale, visti soprattutto gli enormi interessi in campo. Non bisogna dimenticare quanto la storia a volte ci insegna: il mio riferimento va allo “Schiaffo di Tunisi” del 1881, quando la Francia ignorando i lunghi rapporti, non su base colonialista, che l’Italia intratteneva con la Tunisia, dichiarò di esercitare il suo protettorato sullo Stato del Nord Africa estromettendo di fatto l’Italia dai precedenti legami e convenzioni con tutto quello che poi ne è conseguito circa i rapporti economici, sociali, diplomatici e di dignità nazionale. Ricordo quanto detto nel 1957 da François Mitterand: “Senza l’Africa la Francia non avrà storia nel ventunesimo secolo”; riproposto nel 2008 da Jacques Chirac: “Senza l’Africa la Francia scivolerebbe a livello di una potenza del Terzo mondo”. Brevemente, è evidente che in una condizione politica così disarmonica e contesa il problema della gestione dei migranti, che transitano per le regioni della ex Libia, implica interessi economici ed il coinvolgimento delle relative geomafie che operano vantaggiosamente con connessioni internazionali.
Chi tocca il Franco Africano (Cfa): muore, scrive il 23.01.2019 Gian Micalessin su it.sputniknews.com. Le mail del Segretario di Stato Hillary Clinton pubblicate da Wikileaks rivelano come il tentativo di Gheddafi di creare una valuta pan-africana alternativa al Franco Africano spinse Sarkozy a chiederne la testa. E a ben contare si scopre che Di Maio non ha tutti i torti. Decine di migliaia di migranti irregolari arrivano dai paesi condizionati dal controllo valutario di Parigi. Chi tocca il Franco Africano (Cfa), la valuta perno del neo colonialismo di Parigi in Africa, rischia la vita. E lo sa bene Hillary Clinton. Ai primi d'aprile del 2011 l'allora Segretario di Stato americano era assai curiosa di comprendere i veri motivi che spingevano il presidente francese Nicolas Sarkozy a chieder con tanta foga l'abbattimento di. A spiegarglielo ci pensò la mail di un suo consigliere chiarendole come all'origine dell'animosità di Parigi vi fosse la scoperta di un piano del dittatore libico per spingere i paesi africani ad abbandonare il sistema valutario gestito dalla Francia. Insomma altro che "frasi ostili e senza motivo" come recita la convocazione dell'ambasciatrice italiana a Parigi Teresa Cataldo da parte del ministero degli esteri francese. Dietro l'indignazione per le dichiarazioni del vice premier sul ruolo del "Franco Africano" e sugli scompensi provocati alle economie dei 14 paesi africani che l'utilizzano si nascondono interessi politico-finanziari cruciali ed intoccabili. Interessi che sono all'origine della devastante guerra a Muhammar Gheddafi voluta e orchestrata dalla Francia di Sarkozy e combattuta per suo conto da tutta la Nato. Per capirlo basta rileggere i passi più importanti della mail del 2 aprile 2011 intitolata "France's Client & Qaddafi Gold" (il cliente della Francia e l'oro di Gheddafi") in cui Sidney Blumenthal, un ex-consigliere presidenziale di Bill Clinton rimasto in stretti rapporti con Hillary Clinton spiega l'intricato affare. Citando fonti vicine al figlio di Gheddafi Saif al Islam Blumenthal spiega come in quei primi d'aprile del 2011, quando la rivolta infuria da oltre un mese, il regime "abbia da poco spostato 143 tonnellate di oro e una quantità simile di argento dalla banca centrale Libica di Tripoli alla citta di Saba" nel centro del paese. "Quell'oro — racconta la mail di Blumenthal — è stato accumulato precedentemente alla ribellione in corso ed era destinato alla creazione di una valuta pan-africana basata su un Dinaro Aureo Libico. Questo piano puntava a garantire ai paesi francofoni africani un alternativa al Franco Francese (Cfa). Secondo fonti affidabili questa quantità di oro e argento ammonta a un valore di circa 7 miliardi di dollari. L'intelligence francese ha scoperto il piano poco dopo l'inizio della ribellione e questo sarebbe uno dei fattori che ha influenzato la decisione del presidente Nicolas Sarkozy spingendo la Francia ad attaccare la Libia". Insomma Di Maio riprendendo e rilanciando l'argomento avrebbe toccato uno dei punti cruciali delle politiche francesi in Africa. Un argomento così cruciale da aver innescato un conflitto devastante come quello libico. In effetti l'interesse della Francia è alquanto evidente. Per garantire il franco francese, ovvero la dipendenza dalla propria banca centrale, Parigi si arroga il diritto di detenere nei forzieri parigini il 50 per cento di tutte le riserve in valuta estera posseduta dai 14 paesi africani firmatari dell'intesa valutaria. Quanto alla relazione tra le conseguenze economiche determinate dalla dipendenza da Parigi e i flussi migratori attenzione a non guardare soltanto alle cifre dell'anno in corso come coloro che negano le tesi sostenute da Di Maio e dalla leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni. Tra il 2014 e il 2017 — ovvero negli anni in cui il flusso migratorio era più intenso e incontrollato — una buona parte dei migranti irregolari sbarcati in Italia proveniva proprio dai paesi condizionati dal franco francese. Tra i 170mila e 100 sbarcati nel 2014 9.908 provenivano dal Mali e 4.933 dal Senegal. Quasi l'11,5 per cento, più di un decimo del totale, era dunque figlio delle economie caratterizzate dal franco francese. Nel 2016 ben 44.662 migranti irregolari, ovvero il 24,6 per cento dei 181.436 sbarcati sulle nostre coste, provengono da Guinea (13.342), Costa d'Avorio (12.396), Senegal (10.327), Mali (10.010). E le percentuali restano alte anche nel 2017 quando a fronte di un totale 119.310 sbarchi il 22,05 per cento è composto da persone in fuga della Guinea (9.693), dalla Costa d'Avorio (9.504) e dal Mali (7.114). Insomma altro che frasi "ostili e senza motivo" fate la media e scoprirete che poco meno di un quinto dei migranti irregolari è figlio del neo-colonialismo francese.
Tony Iwobi, il leghista nero: "La Francia depreda l'Africa da secoli ma non si prende gli immigrati", scrive il 21 Gennaio 2019 "Libero Quotidiano". "Non voglio commentare nel merito le parole di Di Maio, mi limito a porre una domanda: perchè la Francia, che ha 14 ex colonie africane con le quali continua ad avere rapporti, chiude le sue frontiere ai ragazzi che vengono da questi Paesi?". Il leghista Tony Iwobi, vicepresidente della commissione Esteri del Senato, interviene nella vicenda delle accuse lanciate da Di Maio e Di battista alla Francia, che sfrutterebbe ancora oggi il continente africano come una colonia. "Il mondo occidentale, non tutto ma una sua parte, ha sfruttato e depredato l'Africa per secoli. E lo fa ancora. "Per far sì che gli arrivi dei migranti diminuiscano bisogna andare lì e aiutare gli Stati africani ad autosvilupparsi. L'Europa deve stare attenta e guardare la verità in faccia".
Immigrati, il generale Franco Angioni contro la Francia: "Il caos nel Mediterraneo colpa loro", scrive il 21 Gennaio 2019 "Libero Quotidiano". Se Luigi Di Maio accusa la Francia di sfruttare ancora oggi l'Africa come una colonia, provocando le ire di Parigi che ha convocato la nostra ambasciatrice all'Eliseo, il generale Franco Angioni, già comandante del contingente italiano nell'operazione "Libano 2" e tra i massimi esperti dei geopolitica, attacca i vicini d'Oltralpe per le loro responsabilità nel caos esistente in Libia, che è una delle concause dei flussi immigratori di questi ultimi anni: "L'Europa e in particolare la Francia hanno certamente delle colpe. Eliminare un dittatore come Gheddafi può sembrare un fatto positivo in linea di principio" spiega Angioni. "Ma dopo aver eliminato un dittatore bisogna capire chi ne prende il posto. Al suo posto potrebbe arrivare un nuovo dittatore o, ancora peggio, crearsi il caos. La Francia è colpevole di aver eliminato una gestione sì dittatoriale ma che allo stesso tempo garantiva ordine".